Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Anastasia Bartoli.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.

Gegia (Francesca Antonaci).

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Seymandi.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sydne Rome.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valeria Solarino.Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

TERZA PARTE



 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Bianca Censori, chi è l'ultima moglie di Kanye West. Ventotto anni australiana, Bianca Censori è la donna che da nove mesi è al fianco del rapper Kanye West. Ecco chi è l'architetto che ha preso il posto di Kim Kardashian. Novella Toloni il 16 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il matrimonio con Kanye West

 Chi è Bianca Censori

 La trasformazione

Da perfetta sconosciuta a star del web in appena sei mesi. La nuova moglie di Kanye West, Bianca Censori, non smette di fare parlare di sé e i motivi sono più di uno. Il primo, la strabiliante somiglianza con Kim Kardashian, prima moglie del rapper. Il secondo, gli stravaganti outfit con i quali si sta mostrando durante la sua lunghissima vacanza in Italia. Il terzo, il suo passato è praticamente sconosciuto.

Fino a gennaio 2023 Bianca Censori era una perfetta sconosciuta. Poi la notizia del matrimonio segreto con il rapper americano Kanye West - fresco di divorzio dalla Kardashian - l'ha catapultata sulla scena. I siti americani hanno cominciato a parlare di lei e in Italia il suo nome e il suo volto sono diventati famosi per lo scandalo di Venezia.

Il matrimonio con Kanye West

Tmz prima e il Daily Mail dopo hanno riferito che Kanye West e Bianca Censori si sono sposati il 9 gennaio di quest'anno con una cerimonia privata. L'unione non sarebbe stata regolarizzata però, vista l'assenza di un certificato di matrimonio. Dopo il "sì" la coppia sarebbe volata nello Utah per una romantica luna di miele in un elegante resort. Da quel momento, Ye - così si fa chiamare il rapper da oltre un anno - e Bianca si sono mostrati in pubblico sempre insieme e le voci sul matrimonio si sono concretizzate quando il rapper ha sfoggiato una fedina all'anulare sinistro lo scorso febbraio a Los Angeles.

"Banditi a vita". Kanye West scandaloso a Venezia: cosa è successo

Chi è Bianca Censori

Sull'identità di Bianca Censori e sul suo passato invece si sa molto poco. Le uniche notizie che si hanno sul suo conto - oltre all'età, 28 anni, è le origini, Melbourne in Australia - provengono dal suo account LinkedIn. Nel suo curriculum digitale si legge che l'australiana si è laureata in Architettura presso l'Università di Melbourne nel 2017 e nel 2020 ha conseguito un master sempre in Architettura. Dopo avere provato a sfondare nel mondo del fashion design con una sua linea di gioielli - Nylons Jewellery - la Censori ha lavorato come consulente di design presso Kelektiv a South Yarra prima di trasferirsi a Los Angeles alla fine del 2019. Negli States, Bianca è stata subito notata dall'azienda Yeeze, il cui fondatore è proprio Kanye West, e l'incontro fatale con il rapper sarebbe avvenuto proprio negli uffici, dove lei è Architectural Designer.

La trasformazione

Quando Bianca Censori ha conosciuto Kanye West, lui sarebbe rimasto folgorato dall'incredibile somiglianza con la moglie, Kim Kardashian: lunghi capelli scuri, lineamenti simili e fisico prorompente. Ma dall'inizio della loro relazione la donna ha avuto una vera e propria trasformazione optando per capelli corti biondo platino (oggi tornati corvino) e indossando abiti stravaganti - soprattutto collant velati e accessori bizzarri - che l'hanno fatta al centro dei pettegolezzi. Lei, invece, sembra volere mantenere un basso profilo. Non rilascia dichiarazioni e sui social il suo account Instagram è stato cancellato come un'intervista rilasciata nel 2021, che oggi risulta rimossa dalla rete.

Il volto coperto, il cuscino sul seno: i look choc di Kanye West e sua moglie in giro per l'Italia. La lunga estate italiana di Kanye West è sempre più al centro dei gossip soprattutto per gli stravaganti look sfoggiati dal rapper e Bianca Censori. Novella Toloni l'8 Settembre 2023 su Il Giornale.

Le lunghe vacanze italiane di Kanye West e sua moglie Bianca Censori continuano a fare discutere. Dopo lo scandalo a Venezia, sul quale la Polizia municipale veneziana sta conducendo un'indagine, la coppia americana è arrivata a Milano e nel capoluogo lombardo non è passata di certo inosservata.

La lunga estate di Kanye West in Italia

Ad attirare l'attenzione sono soprattutto gli stravaganti outfit scelti da West e della compagnia. Lui sempre in total black con il volto coperto da una t-shirt sistemata come copricapo e ciabatte ai piedi. lei avvolta in collant nude e micro top sempre colore carne, che a colpo d'occhio la fanno sembrare perennemente nuda. Scelte di stile che Kanye e Bianca stanno sfoggiando in ogni città italiana, nelle quali hanno fatto tappa da giugno a oggi.

A Firenze la Censori è finita sui quotidiani locali per avere passeggiato per il centro con indosso solo un paio di calze nude e reggiseno sportivo, mentre a Roma il rapper ha fatto discutere per avere camminato a piedi scalzi per il centro. Poi ci sono i fatti di Venezia, dove West è stato fotografato con il sedere di fuori a bordo di un motoscafo e in atteggiamenti intimi con la moglie. Episodio per il quale i coniugi potrebbero essere multati per atti contrari alla pubblica decenza.

La tappa di Milano è solo l'ultima di una lunga serie, dunque, nella quale West e Censori hanno attirato la curiosità di cittadini e paparazzi. Tre giorni fa, prima di arrivare in Lombardia, l'australiana, 28 anni, che lo scorso gennaio avrebbe sposato con cerimonia privatissima il rapper, aveva percorso le vie del centro di Firenze coperta da un cuscino viola sul petto sottratto - si dice - dalla hall del Royal Suite Hotel Della Gherardesca, dove soggiornava con West.

Le immagini, come quelle di Venezia, sono finite in rete e sono diventate virale, alimentando il chiacchiericcio attorno ai due americani. Perché la moglie del rapper abbia scelto di "indossare" un cuscino rimane un mistero, Qualcuno ipotizza che la donna abbia voluto nascondere le generose grazie dopo i guai di Venezia, altri invece suppongono che la donna abbia avuto un "incidente fashion", rimediato alla meglio con un cuscino. Ma, cambiarsi d'abito no? Eppure, Kanye e la sua compagna sono stati fotografati in lussuose boutique, ma a quanto pare la loro idea di moda è molto soggettiva.

Kanye West a Venezia: ora i vigili indagano per "atti contrari alla decenza". Le foto scandalo di Kanye West e sua moglie Bianca Censori sono finite sul tavolo della polizia municipale di Venezia, che ha aperto un'indagine interna. Novella Toloni il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Le foto scandalo di Kanye West e sua moglie Bianca Censori sono finite sul tavolo della polizia municipale di Venezia. Da giorni sui tabloid inglesi si vocifera che la vicenda fosse al centro di una indagine da parte delle autorità locali in merito alle foto diventate virali sul web, dove la donna sembra praticare sesso orale al rapper, mentre sono a bordo di un motoscafo sulla laguna veneziana.

Ora ilGiornale.it è in grado di rivelare che la coppia americana è al centro di una inchiesta interna alla polizia municipale di Venezia. A occuparsi del caso è il comando generale della polizia locale - coordinato dal comandante Mario Agostini - che si è messo in moto visto il clamore mediatico scatenatosi attorno a West e alla moglie. Atto dovuto o c'è una denuncia in corso? Di concreto c'è molto poco. Dopo avere visto le foto sui giornali e sulle agenzie, il comando si è attivato, ma oggettivamente le foto pubblicate da Dagospia non è mostrano l'atto, bensì mostrano che West era seduto con i pantaloni abbassati e il sedere di fuori e la moglie davanti a lui. Ma nel fascicolo della municipale non c'è alcuna documentazione che sul motoscafo sia avvenuto un atto sessuale.

L'indagine interna sta proseguendo nel tentativo di cercare di raccogliere materiale, ma di video non ce ne sono, c'è solo la possibile testimonianza del motoscafista che, però, in questi giorni con la mostra del cinema, non è ancora stato sentito, ma potrebbe essere convocato la prossima settimana. L'uomo, del quale non si conosce l'identità, è l'unico in grado di poter fornire maggiori dettagli su quanto accaduto sul motoscafo. Sebbene fosse impegnato alla guida e, successivamente al telefono durante le operazioni di sbarco, il conducente dello scafo è il "test chiave", se così si può dire, dell'inchiesta interna condotta dalla municipale di Venezia.

L'impressione di chi si occupa del caso, però, è che la vicenda sia stata montata ad arte per attirare l'attenzione; organizzata nel dettaglio per finire sui giornali visto il clamore suscitato, mentre le autorità non avevano alcuna intenzione, nè interesse, a dargli risonanza. Per questo le indagini sono iniziate in sordina, prima che il Daily Mail rivelasse, che le autorità locali si stavano muovendo.

Se Kanye West e sua moglie Bianca Censori saranno ritenuti "colpevoli" di atti contrari alla pubblica decenza - violazione oggetto di indagine da parte dei vigili - la polizia locale procederà come da prassi. Trattandosi di atti contrari alla pubblica decenza non c'è alcun reato, bensì una violazione amministrativa: 150 giorni per notificarlo e 3300 euro di sanzione con tanto di verbale se verrà accertata l'infrazione. Per sapere come andrà a finire, però, ci vorranno ancora settimane. Intanto la coppia americana si trova ancora in Italia - a Milano - ma è stata ufficialmente bandita a vita dal consorzio Venezia Turismo Motoscafi, che attraverso i suoi rappresentati ha fatto sapere che né West né sua moglie saranno i benvenuti a bordo di una delle imbarcazioni veneziane.

DAGONEWS il 12 Settembre 2023 su Il Giornale. 

Sembra che i turisti veneziani non siano stati gli unici testimoni del romantico pompino in barca di Bianca Censori al finto marito Kanye West a Venezia. Le foto mostrano che, oltre al barcarolo, c’era una misteriosa donna. 

Come si vede da alcune immagini, la 28enne era accovacciata tra le gambe del rapper 46enne che aveva le mutande calate. Ma pochi centimetri dietro Bianca c’era la donna al quale è stato offerto uno spettacolo in primo fila. Uno show che sembrava apprezzare visto l’espressione sul viso. 

La società di noleggio della barca ha detto che "la terza persona a bordo del taxi" che viaggiava con Ye e Censori ha "ostruito la visuale del capitano". 

Dagospia il 5 Settembre 2023 su Il Giornale.IL PORCO DELLA LAGUNA – LA POLIZIA STA INDAGANDO SUL PRESUNTO POMPINO DI BIANCA CENSORI A KANYE WEST A VENEZIA: LUI È STATO BECCATO CON IL CHIAPPONE ALL’ARIA E LEI, INGINOCCHIATA E APPOGGIATA ALLE SUE GAMBE, AVEVA LA BOCCA POMPATA UN PO’ TROPPO VICINA AL SUO AUGELLO – I DUE SONO STATI PAPARAZZATI E ORA RISCHIANO UNA DENUNCIA PER ATTI OSCENI. ROBETTA DI POCO CONTO PER UN MILIONARIO VISTO CHE… 

Estratto dell'articolo da ilmessaggero.it il 5 Settembre 2023 su Il Giornale.

La polizia sta indagando su Kayne West e sua moglie Bianca Censori dopo che sono stati ripresi in atteggiamenti intimi e compromettenti, osceni secondo le autorità, durante le loro vacanze a Venezia.  

Ormai quelle foto hanno fatto il giro del mondo: i paparazzi hanno immortalato dei momenti molto intimi. Si vede la coppia West-Censori, lui che ha i pantaloni abbassati, le sue natiche al vento e lei che riemerge sotto al marito. In altre immagini ancora il rapper americano, 46 anni, è stato visto seduto mentre la moglie australiana, 28 anni, era china su di lui.

Il Daily Mail riporta che la polizia della laguna ha identificato il conducente della barca su cui era la coppia.  Dovrebbe essere interrogato nei prossimi giorni per riferire cosa ha visto esattamente sul motoscafo. Nel frattempo gli agenti stanno chiedendo ai fotografi di consegnare le immagini che hanno fatto il giro del mondo. […]

«Ci sono norme di decoro pubblico che devono essere seguite da turisti e locali allo stesso modo e tutte le violazioni sono severamente punite», ha fatto sapere la polizia della Laguna. 

«Si vedeva chiaramente che i suoi pantaloni erano abbassati […] Le immagini mostrano chiaramente la coppia in intimità […]  Il reato oggetto di indagine è un atto contrario alla pubblica decenza che è punibile con una sanzione amministrativa», continuano. 

Elisabetta Pesce, assessore alla pubblica sicurezza di Venezia, ha dichiarato al MailOnline: «Senza ombra di dubbio quello che abbiamo visto dalla coppia è stata una mancanza di rispetto per Venezia, che è la città più incantevole del mondo».

Kasia Smutniak: «Voglio rispetto per i segni sul mio viso. La verità non è popolare, ma va guardata». Maria Serena Natale su Il Corriere della Sera venerdì 13 ottobre 2023.

L’attrice arriva sugli schermi con un film di cui è regista. Racconta le migliaia di profughi bloccati alla frontiera tra Bielorussia e Polonia, suo Paese natale: «L’ho girato con il telefonino, per essere più agile». «I social distorcono il reale? Se li usiamo bene, sono una strada per aprire mondi. Dobbiamo riprenderci il modo di rappresentare la realtà»

Nella tradizione ebraica il dibbuk è lo spirito sospeso tra mondo dei vivi e regno dei morti che si appropria di un corpo per chiudere una storia irrisolta. «Era novembre 2021» racconta Kasia Smutniak, «con Diego Bianchi lavoravamo a un reportage sui migranti bloccati tra Polonia e Bielorussia. Ricordo una sera di nebbia, giornalisti da tutto il mondo venuti a raccontare qualcosa che nessuno vedeva perché le autorità polacche impedivano l’accesso alla zona rossa. Scesi dalla macchina e la prima cosa che mi colpì di fronte a quella folla indaffarata e già annoiata fu un assurdo silenzio. Solo a un centinaio di metri c’erano persone che rischiavano la vita nel bosco, al freddo, e cosa si faceva per aiutarle? Non avevo mai incontrato prima un’indifferenza simile eppure la percepii in modo inspiegabile, personale, fisico. La riconobbi». Per il dibbuk la storia non finiva lì. 

Mesi dopo, Kasia torna. La zona rossa è sempre inaccessibile, una striscia di terra larga da tre a sei chilometri e lunga 186, sulla frontiera che separa la Polonia dalla Bielorussia ultima dittatura d’Europa. È una striscia militarizzata, sorvegliata con droni e sensori notturni, dove non sono ammessi giornalisti né volontari. Dal luglio 2022 su questo confine dimenticato sorge una barriera di acciaio e filo spinato alta 5,5 metri nel bel mezzo della Puszcza Białowieska, foresta vergine patrimonio Unesco, antico regno di zar e bisonti. Una distesa di alberi plurisecolari e paludi che d’estate non dà acqua da bere e d’inverno gela. Qui dal 2021 il regime bielorusso spedisce famiglie afghane, irachene, siriane attratte con l’inganno di un visto a pagamento e di un passaggio sicuro per la libertà. «Quando a Ferragosto di quell’anno è caduta Kabul abbiamo visto tutti le immagini delle persone aggrappate agli aerei che cadevano nel tentativo di fuggire. Non era difficile immaginare che prima o poi quella gente sarebbe arrivata da noi».

Migliaia di donne, anziani e bambini si ritrovano in trappola, portatori inconsapevoli del messaggio intimidatorio e destabilizzante rivolto dal dittatore Aleksandr Lukashenko e dal presidente russo Vladimir Putin all’Occidente, abbandonati senza assistenza e respinti dalla guardia di frontiera polacca con idranti e gas lacrimogeni. Nel suo lavoro di debutto alla regia, il documentario Mur che dopo la prima mondiale al Toronto International Film Festival sarà presentato nei prossimi giorni alla Festa del Cinema di Roma e dal 20 ottobre arriva nelle sale, Kasia Smutniak cerca il Muro che nessuno doveva vedere, e ne ritrova molti altri. 

«Mur» è un film di Kasia Smutniak prodotto da Domenico Procacci, Laura Paolucci, Kasia Smutniak. Scritto da Kasia Smutniak e Marella Bombini. Una produzione Fandango in associazione con Luce Cinecittà. 

«Da bambina passavo le estati a giocare davanti alla casa dei nonni a Lodz, costruita sulle macerie del ghetto. La casa stava di fronte al cimitero ebraico, a duecento metri c’erano le rotaie da dove durante la Seconda guerra mondiale partivano i treni per i campi di sterminio. Quando sono tornata per le riprese ho trovato tutto com’era: il muro di mattoni, una panchina... tutto tranne due finestre che avevo sempre visto dalla strada, mentre ora sono murate. Mi hanno spiegato che in realtà erano state chiuse subito dopo la guerra, eppure io sapevo che all’interno c’era una stanza con le pareti verdi e una scrivania...».

Classe 1979, figlia unica di un generale dell’aeronautica militare che le trasmette la passione per il volo tanto che a sedici anni otterrà il brevetto da pilota, Kasia cresce tra le grandi trasformazioni che negli Anni 80 spianano la strada al sindacato Solidarnosc e alla caduta del regime comunista nel 1989. È la Polonia che rimette in moto l’orologio della storia congelata nella Guerra fredda, che prega papa Wojtyla e segue Lech Walesa, sogna l’America e si apre all’Europa. Dalla fine degli Anni 90 Kasia sceglie l’Italia dove diventa stimata attrice di cinema e tv. Oggi è impegnata in progetti come la onlus intitolata a Pietro Taricone, il compagno morto in un incidente di paracadutismo nel 2010, che ha dato una scuola ai bimbi dell’ “ultimo Tibet”, il Mustang in Nepal. Altri confini, altri attraversamenti. Dal 2019 è sposata con il produttore Domenico Procacci.

Non si può fare a meno di tornare al passato per raccontare chi siamo diventati.

«Il presente senza passato è finzione. Quando si è giovani si danno per scontate tante cose, più andiamo avanti più abbiamo bisogno di capire. Vengo da una famiglia di militari e quando ero piccola ci spostavamo spesso, il fatto di non aver avuto una vera e propria casa dell’infanzia mi ha spinto da adulta a tornare in cerca delle radici. La Polonia e tutti i Paesi dell’Est hanno una storia difficile segnata dal sangue, tu ne fai parte anche se sei di passaggio, anche se i fatti più dolorosi non ti hanno coinvolto direttamente. Sono posti pieni di memoria, che conservano il ricordo di ghetti e campi di sterminio, tracce degli eventi più tragici e vergognosi della storia umana».

Per questo ha scelto di raccontare in prima persona e dal confine polacco-bielorusso un fenomeno epocale come le migrazioni?

«Mi sono chiesta: perché le vicende di allora e queste di oggi mi toccano così tanto, perché sono diventate un’ossessione? Attraverso me stessa volevo analizzare il punto di vista di tutti noi, quelli che “non c’entrano” eppure sono partecipi, che dalle seconde file vedono e soffrono per ciò che accade in Polonia come a Lampedusa e vorrebbero fare qualcosa ma si sentono impotenti. Io avevo questa possibilità, ho tentato di capire la genesi del male e di guardare dentro una paura che in fondo ci accompagna già da molto tempo. Prima gli attentati delle Torri gemelle, poi l’epoca del terrorismo, la crisi economica, il Covid ci hanno abituato a convivere con la paura nei confronti del prossimo e delle culture diverse, del futuro. Non sono una reporter ma so raccontare le emozioni, così, senza una troupe ma solo con i telefonini e un’attrezzatura leggera, ho puntato “la telecamera” su di me e ho cominciato a girare. Volevo arrivare al muro a tutti i costi, raccontare la sofferenza e il coraggio di persone che hanno dovuto scegliere».

E la sua paura di seguire in situazioni di pericolo chi sfida la legge per salvare le vite degli altri e la propria coscienza?

«Più che il timore reale di farmi male o di essere arrestata o dei cani che ti inseguono nel bosco, sentivo la responsabilità per la sicurezza della persona che era partita con me, Marella Bombini, co-autrice del progetto, che non parlava polacco e si ritrovava in un contesto decisamente rischioso. Ancora di più temevo di non essere forte abbastanza per arrivare fino in fondo; di non farcela più a vedere tanta disperazione e violenza, bambini piccoli lasciati morire di notte nella foresta..». Si ferma. «Avevo paura di ritrovarmi davanti a una scelta, spegnere la telecamera e non tornare più indietro».

Ad oggi non si conosce il numero esatto delle vittime perse in quel mare d’alberi.

«No, l’unica speranza di queste persone è la rete clandestina di volontari e attivisti che aspettano messaggi sul cellulare e partono a qualsiasi ora per provare a raggiungere chi è in difficoltà. Uno di loro, che racconto nel film, fa il muratore, è divorziato con tre figli e non ha nemmeno l’auto, eppure non ha esitato un attimo. Un altro fa l’interprete e ha messo a disposizione la sua conoscenza dell’arabo andando persino ad abitare sul confine. Un’altra è un’artista e per aiutare gli altri ha rivoluzionato la propria vita. Ognuno si porta dentro una ferita ma non tutti lo sanno».

Un trauma che l’Europa prima o poi dovrà elaborare, lo stesso raccontato da Agnieszka Holland in Green Border , il film premiato a Venezia e criticato dalla politica a Varsavia. Le autorità hanno dato una risposta molto diversa all’altra grande crisi che il Paese vive in modo terribilmente concreto, l’Ucraina.

«Appena è scoppiata la guerra, da noi si è creato un movimento spontaneo capace di superare ogni difficoltà per accogliere i profughi. A tutti i livelli. Chiunque sentissi in quei giorni era impegnato a fare qualcosa per dare una mano. Negli stessi momenti poco più a nord del confine con l’Ucraina la polizia continuava a respingere ragazzi che imploravano aiuto, donne incinte, malati, persone con disabilità. Si era creata una barriera naturale tra due realtà ed è stato quello il primo muro che mi ha convinta a partire».

Il 15 ottobre la Polonia vota dopo otto anni che hanno profondamente segnato la società, oggi divisa su tutto: lettura del passato e progetti per il futuro, diritti delle donne, famiglia, ambiente, rapporti con l’Unione europea. Proprio guerra e immigrazione sono finite al centro di una campagna elettorale brutale.

«Il muro per fermare i migranti è diventato il tema principale e questa campagna è stata piena di colpi bassi, dominata dal populismo e da un linguaggio che semplifica anziché aiutare a riflettere sulle cause delle crisi. Siamo in un momento di fragilità conseguenza della guerra e può bastare davvero poco per trasformare in un attimo i rifugiati ucraini in un problema politico, in un gruppo da prendere di mira. È una fase molto pericolosa».

Lei andrà quindi a votare?

«Certo e spero in un cambio di rotta. Siamo sempre stati un Paese strategico per l’equilibrio tra Russia e America, da queste elezioni dipende molto anche per la nostra Europa unita e senza confini. Chissà se quell’Europa esiste ancora».

Video di denuncia e richieste di aiuto viaggiavano e viaggiano tuttora su Facebook e TikTok: la stessa costruzione del documentario dimostra le grandi potenzialità di uno strumento che spesso facilita la distorsione del reale. I social sono conciliabili con la verità?

«Basta che lo vogliamo. Cogliere questa possibilità significa aprire mondi. La verità non piace a nessuno, non è popolare, ma se vogliamo davvero arrivarci i social possono essere una strada». 

Anche nella rappresentazione del corpo e della bellezza che cambia?

«Dobbiamo riprenderci il modo di rappresentare noi stessi. Prima ero più timida ma oggi esigo rispetto per i segni che porto sul volto. Sono io e nessun altro a decidere come raccontare il mio corpo. La mappa delle emozioni è la nostra storia».

Nessun filtro dunque, come nelle foto di Riccardo Ghilardi che ospitiamo in copertina e in pagina e che esaltano le discromie della pelle. Una scelta di libertà condivisa da personalità molto diverse, da Kesha a Lady Gaga, da Isabella Rossellini a Michelle Pfeiffer, Cindy Crawford, Julia Roberts...

«Lavorare sull’immagine dà una grande responsabilità nei confronti dei giovani, delle ragazze che sono circondate da modelli non raggiungibili, fuori dalla realtà. Nella serie televisiva Domina interpreto Livia Drusilla, la terza moglie dell’imperatore Augusto, una donna forte e sicura. Come potrei trasmettere forza e sicurezza se io per prima non fossi sincera con me stessa e con gli altri?».

Con la fuga del tempo che rapporto ha?

«Proprio il tempo ci ha permesso di fare esperienze e trovare il nostro modo di entrare in relazione con il mondo. È il passare del tempo a renderci più interessanti e per questo più belle».

LA VITA - Kasia Smutniak è nata in Polonia 44 anni fa. Figlia di un ex generale dell’Aviazione, ha il brevetto di pilota ed ha cominciato a lavorare come modella. Ha sfilato per i brand più importanti sulle passerelle di tutto il mondo. Ha esordito sul set nel 2000 con il film Al momento giusto, diretto da Giorgio Panariello. Tra i suoi film più importanti Caos calmo (Grimaldi, 2008), Allacciate le cinture (Ozpetek, 2014) e Perfetti sconosciuti (Genovese, 2016).

LA FAMIGLIA - Sul set del film Radio West (2003) ha conosciuto il futuro compagno Pietro Taricone, con il quale ha avuto la figlia Sophie (con lei nella foto). Taricone è morto in un incidente di paracadutismo nel 2010. Nel 2019 ha sposato il produttore Domenico Procacci, dal quale ha avuto il secondo figlio, Leone.

Kasia Smutniak: «Ora sono alla ricerca di esperienze più che di ruoli». Affascinante, carismatica. E impegnata. Ha appena girato “Mur”, sul muro ai confini della Bielorussia voluto dal governo polacco. Uno scandalo da denunciare. Lisa Ginzburg su L'espresso il 19 luglio 2023.

L’intelligenza è accoglienza, e il sorriso di Kasia Smutniak vedendomi arrivare dopo quasi due ore di ingorgo romano sotto l’ennesimo diluvio estivo, dice quel genere di accoglienza: di chi, senza sapere, sa. Sorriso magnifico come lo è il suo viso e l’intera sua presenza, ma una bellezza vissuta senza enfasi, nessun indugio su vanità di superficie.

Consapevolezza piuttosto, che vuol dire presenza mentale: l’essere molto bella e carismatica, Kasia Smutniak lo vive più che altro come solido punto di partenza, una base su cui meglio attecchisca il pensiero, la decisione di stare al mondo allenandosi a un’attenzione costante. Da ragazza ha fatto la modella perché aveva passato l’età per intraprendere la carriera militare di pilota (ma il brevetto lo ha). Il padre generale dell’Aeronautica polacca, la madre che da poco aveva perso un fratello in un incidente in volo (un destino presago come solo il destino sa essere, Kasia sarà vedova di Pietro Taricone morto in un’esercitazione di volo nel 2010), lei, figlia unica, di procurare ansie di sorta ai genitori non se l’è sentita. Viaggiare per le sfilate di moda è venuto quasi per caso. Come l’arrivo in Italia, un Paese in cui trovarsi bene e poi restare sino a mettere radici è venuto naturale (parla un italiano fluente e dal bellissimo lessico, a segno di un amore per la lingua non fine a sé stesso, anche eloquente di altri amori).

Ha conosciuto e combattuto vari luoghi comuni anche nostrani sul femminile in genere, e la “causa” delle donne la interpella, con il tempo man mano di più, specie da quando in Polonia, il Paese dove è nata e cresciuta, la condizione femminile conosce un’involuzione che dovrebb’essere (e non è abbastanza) monito per tanti altri angoli d’Europa. Se le chiedo quali tra i tanti ruoli interpretati l’hanno segnata di più, al primo posto mette quello di protagonista di “Nelle tue mani” di Peter Del Monte (film del 2007, sette anni dopo l’esordio di attrice). 

Da donna profondamente ricettiva qual è, lei distingue la sensazione di agio data dalle atmosfere su un set, da un’altra più intima e personale, la gratificazione di avvertire un’appartenenza, a un ruolo, a una storia, a un film nella sua totalità che vuol dire anche, moltissimo, sintonia con chi quel film lo ha scritto e lo dirige, intanto dirigendo lei. In seguito Ferzan Ozpetek, Paolo Sorrentino, Francesca Archibugi nel recente “Il colibrì”: prima però è stato Del Monte a saper vedere Kasia Smutniak lasciandola libera di esprimersi nei tanti risvolti della sua femminilità forte, perché concreta e spirituale insieme. La maturità e la forza vitale che trasmette (anche nel secondo matrimonio con Domenico Procacci, produttore cinematografico a capo della Fandango, un sodalizio luminoso per come, tra le altre cose, è rispettoso del suo passato di donna segnata da un lutto d’amore), trova corrispettivo nel rapporto che Kasia ha con il lavoro. Rapporto maturo e in divenire, che include il mutamento, mettersi in discussione, cambiare, non cristallizzarsi. Così, dopo tanti ruoli in film e serie televisive (“Domina”, la più recente; la seconda stagione dall’8 settembre su Sky Atlantic), e dopo avere più volte confidato ad amici e a colleghi increduli che avrebbe smesso di fare l’attrice, o quantomeno si sarebbe presa una pausa, è stata fedele nel mantenere quell’impegno preso con sé stessa.

Un impulso imperativo a mettersi in gioco su piani diversi, che significa, pragmatica e saggia come lei è, misurarsi con la realtà e le sue ingiustizie. «La ricerca prioritaria è diventata di esperienze, più che di ruoli»: nel 2016, crea una Onlus sotto la cui egida fonda una scuola in Tibet in cui studiano attualmente ottantasei bambini (da poco ha incontrato il Dalai Lama e la sorella di lui, da loro ascoltando e imparando molto circa i sistemi pedagogici). 

Poi, di recente, qualcosa di più profondo ancora è scattato. Smette di leggere le sceneggiature che continuavano ad arrivarle, e prende la sua decisione. «Quel che mi circonda è diventato più forte dei ruoli possibili: un po’ come quando durante la pandemia non si riusciva a leggere libri per come la realtà intorno era forte, più di qualsiasi storia inventata».

Lei, nata nel 1979 nell’Europa dell’Est, la cui infanzia ha conosciuto in tutta la sua portata metamorfica l’evento della caduta del Muro di Berlino, ha capito che voleva occuparsi dei muri. Dell’abominio del loro venire innalzati, quasi sempre sotto lo sguardo indifferente di chi a quei muri vive accanto. Così Kasia Smutniak ha deciso di partire e andare a filmare qualcosa che la interpellava e addolorava moltissimo: la costruzione del muro ai confini con la Bielorussia decisa dal governo polacco, nella stessa porzione di terra (di foresta, la più antica d’Europa, popolata da bisonti e da alberi secolari) dove nel 2022 per alcuni mesi, subito prima dell’inizio della guerra in Ucraina, transitavano migranti di molte diverse nazionalità, afgani, siriani, iracheni, congolesi, tutti in transito e senza dimora dopo la caduta di Kabul. Centoottanta chilometri di barriera alta sei metri in metallo e filo spinato, a respingere e di fatto imprigionare quei migranti in quella che loro stessi chiamano “jungle”, una giungla che è uno scandalo umanitario e civile a cielo aperto, ma di cui nessuno sembra curarsi.

Nasce così “Mur”, il documentario che presto vedremo nelle sale, prodotto dalla Fandango e da Kasia Smutniak, realizzato insieme ad altre collaboratrici (tutte donne, anche Marella Bombini, qui sua compagna di viaggio). Un film girato in parte con i telefoni cellulari, ascoltando storie di persone terrorizzate e in pericolo costante di morire, dovendo proteggerle dal loro stesso partecipare al documentario. Girato aiutata dal parlare il polacco sua lingua madre, ma contemporaneamente parlando e ascoltando molte altre lingue, e intanto realizzando di trovarsi accanto (sul confine) di una Polonia cupamente diversa da quella lasciata più di vent’anni prima. Girato nella convinzione che continuare a distogliere lo sguardo dai muri (ce ne sono diciotto in tutta Europa, e questo raccontato in Mur vuol essere simbolico di tanti), perseverare nel non saper guardare ai traumi che quelle disumane barriere generano, vuol dire nient’altro che preparare nuovi traumi, nuovi muri, nuove involuzioni. 

Umanamente, anche, le interessava raccontare cosa significhi “essere accanto”. Testimoni proprio malgrado, ma testimoni perché accanto. Quand’era bambina, e giocava con i cuginetti intorno alla casa di sua nonna, c’era (c’è ancora) un muro di fronte alla casa. Non sapeva, come ha poi scoperto, che quel muro divideva lo spazio da quello che era stato il Ghetto di Lødz (il secondo più grande in Polonia, dopo Varsavia). Mi dice della poesia di Czeslaw Milosz che parla di questo permanere “involontario” della memoria dei luoghi. S’intitola “Campo dé Fiori”, parla del rogo di Giordano Bruno e compara la piazza romana a Varsavia. Questo anche ci racconterà in “Mur”: il dramma del vivere accanto, senza sapere, o senza voler sapere. «Sono traumi che vengono tramandati, un po’ come accade agli ebrei di terza generazione» conclude, seria e bellissima.

Io, ebrea di terza generazione, lascio Kasia Smutniak divisa tra la gioia di averla incontrata e un’altra, meno allegra. La felicità di imbattermi in una traiettoria di vita come la sua, dove una necessità interiore autentica porta a lasciare una vita passata a recitare personaggi, e invece andare verso le persone, le ferite umane, dell’umano. In tempi di narcisismo dissennato, è molto. È moltissimo.

Claudia Silvestri per comingsoon.it il 19 dicembre 2022.

James Cameron e Kate Winslet sono tornati a collaborare in Avatar: La via dell'acqua. A venticinque anni dall'uscita di Titanic, i giornalisti di tutto il mondo hanno quindi deciso di non lasciarsi sfuggire l'imperdibile occasione di trovare una risposta definitiva ad una delle domande più ricorrenti della Storia del cinema: Jake si sarebbe potuto salvare salendo sulla - famigerata - zattera? Josh Horowitz - conduttore del podcast Happy, Sad, Confused - è riuscito ad ottenere l'opinione di Kate Winslet in persona, impegnata nel tour promozionale dell'ultima fatica di James Cameron. 

Titanic - secondo Kate Winslet Jack si sarebbe potuto salvare?

Josh Horowitz, in realtà, aveva già interrogato sulla questione Leonardo DiCaprio, durante una conferenza stampa per la presentazione di C'era una volta... ad Hollywood, ottenendo però come risposta un laconico "no comment". Ha quindi poi deciso di proporre la domanda anche a Kate Winslet, la quale è apparsa - inizialmente - contrariata dalla domanda, al punto da commentare l'intera situazione con un secco "Non lo so, c***o. 

Questa è la risposta, non lo so." L'attrice ha però poi fornito una spiegazione più dettagliata, affermando di conoscere molto bene le dinamiche legate all'acqua, anche grazie all'esperienza maturata sul set di Titanic e di Avatar: La via dell'acqua:

Se metti due adulti su una zattera diventa immediatamente instabile. Quindi la verità è che, se devo essere onesta, non credo che saremmo sopravvissuti se fossimo saliti entrambi su quella porta. Penso che si sarebbe capovolta e non sarebbe stata un'idea sostenibile.

Secondo Kate Winslet, Rose era destinata a sopravvivere senza il "suo" Jack. Un amore destinato a finire in tragedia, ma che ha dato vita - fuori dal set - ad una delle amicizie più sincere di Hollywood. Kate Winslet, che nel sequel di Avatar interpreta la guerriera Na'vi Ronal, è apparsa di recente nella miniserie HBO Omicidio ad Easttown, ottenendo una candidatura agli Emmy e ai Golden Globe come miglior attrice protagonista. Leonardo DiCaprio, la cui ultima apparizione risale al film Netflix Don't Look Up, è invece atteso nel nuovo film di Martin Scorsese, Killers of the Flowers Moon, al fianco di Brendan Fraser e Robert De Niro.

Avatar: La via dell'acqua ha debuttato nelle sale italiane al primo posto del box office. Un risultato decisamente incoraggiante, ma che dovrà essere replicato nei cinema di tutto il mondo, dal momento che per rientrare nei costi di produzione la pellicola dovrà diventare uno dei film con il maggior incasso nella Storia del cinema, provando a battere sia Avatar (al 1° posto) che Titanic (al 3° posto).

Giovanni Berruti per “la Stampa” il 19 dicembre 2022.

Jack e Rose, nessuna via d'uscita. Uno dei due protagonisti di «Titanic» doveva morire. La scelta è ricaduta così sul personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio. Ma per i fan del capolavoro di James Cameron, che domani festeggia il suo 25° compleanno negli Stati Uniti (era uscito nelle sale il 19 dicembre 1997, a gennaio 1998 in Italia), un finale diverso era possibile: su quella porta galleggiante del transatlantico, improvvisata a zattera, ci sarebbe stato infatti abbastanza spazio per far salire entrambi e coronare così il loro amore in eterno.

Se l'attore si è limitato, in occasione di un'intervista promozionale per «C'era una volta a Hollywood», a un «no comment» con sorriso, e Kate Winslet, ospite al «The Late Show with Stephen Colbert», si è cimentata in una reinterpretazione della scena assieme al conduttore, oggi a intervenire è lo stesso regista del kolossal campione d'incassi, da poco nelle sale con il sequel di «Avatar». Per mettere la parola «fine» a una diatriba, che da sempre reputa «stupida», si è infatti affidato a un insolito strumento: una ricerca scientifica.  

«Abbiamo condotto uno studio per mettere questa cosa a tacere una volta per tutte - ha dichiarato Cameron a «The Toronto Sun » - Abbiamo fatto un'analisi forense approfondita con un esperto di ipotermia, che ha riprodotto la zattera del film. Ci sarà un piccolo speciale a riguardo in uscita a febbraio».

I risultati di questo studio saranno infatti allegati al ritorno nelle sale del film, previsto il prossimo 9 febbraio, in un'inedita versione in 3D e 4K. Il regista entra nel dettaglio: «Abbiamo preso due controfigure con la stessa massa corporea di Kate e Leo e dopo averle ricoperte di sensori, dentro e fuori, le abbiamo calate nell'acqua ghiacciata e abbiamo testato se sarebbero sopravvissute attraverso una serie di metodi. La risposta è stata che non c'era modo che entrambi potessero sopravvivere. Solo uno dei due poteva».

Al di là delle polemiche, sono diverse le curiosità per una pellicola, che si è segnata un posto nella storia del cinema. A partire dal record di vittorie agli Oscar, ancora oggi detenuto al fianco di «Ben- Hur» e «Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re», con ben undici statuette, tra cui miglior regia e miglior attrice protagonista, su quattordici nomination. A proposito di attori, né DiCaprio né la Winslet, all'epoca ventenni, sono state le prime scelte del cineasta. 

 Se il primo ha rischiato di perdere la parte per un'iniziale eccesso di supponenza, come di recente raccontato dallo stesso Cameron, la seconda si è ritrovata invece a lottare duramente per il ruolo che secondo alcune indiscrezioni doveva essere affidato a Gwyneth Paltrow. Ci mise talmente tanto impegno che durante le riprese delle scene del naufragio rischiò addirittura l'ipotermia per non aver indossato una muta, nel tentativo di render più credibile la propria sofferenza.

Ma soprattutto «Titanic», che racconta il naufragio del transatlantico britannico avvenuto il 15 aprile 1912, in cui persero la vita circa 1.500 persone delle 2.200 a bordo, oggi è al terzo posto della classifica dei più grandi incassi di sempre al botteghino mondiale, con 2,2 miliardi di dollari. Per anni al primo posto, è stato alla fine battuto prima da «Avatar» (2,9 miliardi), sempre di Cameron, e poi da «Avengers: Endgame» (2,7 miliardi). Il dettaglio impressionante?

 La durata complessiva delle scene ambientate nel 1912 coincide con il tempo impiegato dalla nave per affondare, ovvero due ore e quaranta. Così come la scena della collisione, di 37 secondi, con il reale scontro con l'iceberg. La popolarità di un progetto porta però inevitabilmente a un confronto con il pubblico. Nel bene e nel male. Il settore cinematografico e televisivo è infatti pieno di diatribe legate a un finale non reputato adeguato (che poi chi meglio dello stesso autore potrebbe stabilirlo?) dagli spettatori. 

Esempi? La conclusione dell'ottava e ultima stagione de «Il Trono di Spade», che ha provocato diverse polemiche sul web. Oltre a una petizione per cambiarla, ancora in corso nonostante siano passati tre anni dalla messa in onda dell'episodio, è diventata virale una riscrittura da parte di uno sceneggiatore, Daniel Whidden. Per non parlare di «Avengers: Endgame», che nel dietro le quinte ha visto un acceso dibattito tra i fratelli Russo e il regista di Iron Man, Jon Favreau, o dell'ultimo James Bond, «No Time To Die», che segna letteralmente l'addio di Daniel Craig al personaggio. 

Ma tutto ha perfettamente un senso, come spiegato direttamente dallo stesso Cameron: «È un film sull'amore, il sacrificio e la mortalità, proprio come Giulietta e Romeo. L'amore si misura con il sacrificio... Jack doveva morire - ha dichiarato a «Vanity Fair» - Fosse stato per il freddo o per la caduta di una ciminiera, poco importa. Sarebbe andato giù. Si chiama arte: le cose accadono per motivi artistici, non per regole fisiche».

Estratto dell'articolo di Ari. Fi. per “la Repubblica” il 14 marzo 2023.

[…]Il viaggio di Ke Huy Quan, viso minuto dietro gli occhialoni, era partito da molto più lontano e la sua storia incarna le due facce dell’american dream: quella degli outsider che ce la fanno, e quella degli sconfitti che sanno fare ritorno. Il primo sogno è quello di un ragazzino vietnamita che da Saigon, con il padre e cinque fratelli, si trasferisce a Hong Kong, la famiglia accolta negli Stati Uniti nel ’79: «Il mio viaggio è iniziato su una barca. Ho passato un anno in un campo profughi», […]

Diventato americano, Ke Huy Quan è stato anche uno dei tanti attori bambini incastrati negli ingranaggi storti dell’industria del cinema. È Short Round, al fianco di Harrison Ford in Indiana Jones e il Tempio maledetto, 1884 — infinito l’abbraccio tra i due dopo la cerimonia — con Steven Spielberg gira l’anno dopo anche i Goonies. Poi non trova più ruoli, si arrangia come controfigura, è difficile. «A un certo punto avevo quasi rinunciato a questo mestiere ».

Poi, di fronte al successo di Crazy Rich Asians, pensa che si aprano nuovi spazi per gli attori di origini asiatiche. Decide di darsi un’altra possibilità: la sua prima audizione è quella con i Daniels, per il ruolo del marito mite dell’eroina Michelle Yeoh. Trent’anni dopo, Ke Huy Quan torna sul grande schermo, ma la pandemia congela l’uscita del film. […]

 «E adesso sono sul più grande palcoscenico di Hollywood.— il sorriso più grande di lui — Dicono che succeda solo nei film. Questo è il sogno americano». […]

Da baby attore "sparito" a vincitore dell'Oscar: la rivincita di Ke Hui Quan. Ke Hui Quan ha fatto commuovere tutta la platea del Dolby Theatre di Los Angeles con il suo discorso di ringraziamento per la vittoria come Miglior Attore Non Protagonista. Erika Pomella il 13 Marzo 2023 su Il Giornale.

Come era stato ampiamente predetto Ke Hui Quan ha vinto il premio Oscar come Miglior Attore Non Protagonista per la sua interpretazione in Everything Everywhere All At Once. Nonostante i limiti evidenti della pellicola firmata dai Daniels, il reparto istrionico ha toccato vette molto alte e l'interpretazione di Ke Hui Quan è stata tra quelle che hanno convinto di più. La sua vittoria è stata annunciata da Ariana DeBose e Troy Kotsur, entrambi vincitori nel 2022 del premio alla miglior interpretazione da Non Protagonista, rispettivamente per West Side Story e CODA - I segni del cuore.

L'annuncio della vittoria ha commosso molto tutta la platea del Dolby Theatre di Los Angeles: questo perché la vita personale dell'attore è la vita di una "carriera mancata". Ke Hui Quan ha infatti cominciato a lavorare quando era molto piccolo, prendendo parte a film diventati cult come Indiana Jones e I goonies. Poi la sua carriera sembrava essersi arenata nel 2002, senza la possibilità di trovare ruoli capaci di lanciarlo nel mondo dorato di Hollywood. Poi è stato scelto per interpretare il marito di Michelle Yeoh in Everything Everywhere All At Once e la sua carriera sembra aver ricevuto una seconda possibilità E proprio su questo tema Ke Hui Quan ha costruito il suo discorso di ringraziamento. L'attore ha infatti parlato dell'importanza di continuare a credere ai sogni, persino quando essi sembrano averti dimenticato e lasciato alle spalle. Salendo sul palco più ambito di Los Angeles, l'attore è scoppiato a piangere e poi ha detto:

"Mia madre ha 84 anni ed ora è casa e sta guardando la tv. Mamma, ho appena vinto un Oscar! Il mio viaggio è cominciato su una barca, ho passato un anno in un campo profughi e in qualche modo sono finito qui. Dicono che le storie come queste siano storie adatte per i film, che si vedono solo al cinema. No, sono storie vere. Possono succedere. Questo è il vero sogno americano. Grazie davvero tanto all'Accademy per questo onore. Sono onorato di essere qui. Grazie anche a mia mamma per tutti i sacrifici che ha fatto per portarmi qui e al mio fratellino che ogni giorno mi ricorda di prendermi cura di me. Grazie ai Daniels. Ma io devo tutto all'amore della mia vita, mia moglie che mese dopo mese e anno dopo anno per ben 22 anni mi ha sempre detto che un giorno, un giorno il mio momento sarebbe arrivato. E ai sogni bisogna crederci e io ho quasi rinunciato. E a tutti voi, ricordate: tenete vivi i vostri sogni. Grazie, grazie davvero di avermi accolto nuovamente. Vi voglio bene".

La vittoria dell'Oscar - che è stato seguito da quello consegnato a Jamie Lee Curtis per lo stesso film - è una bella conferma per l'attore che, statuetta alla mano, può sperare ora di ricevere maggiore attenzione dall'industria dei sogni di Hollywood e di poter riprendere in mano una carriera pronta a decollare di nuovo.

"Dopo 38 anni d'attesa finalmente mi sento di nuovo un vero attore". Recitò da ragazzo nei "Goonies" e nel "Tempio maledetto" di Spielberg poi la carriera stroncata: "Volevo disperatamente fare questo mestiere". Francesca Scorcucchi il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.

Fra il film Indiana Jones e il tempio maledetto, del 1984, e Everything Everywhere all at once passa un arco temporale di 38 anni. Ke Huy Quan, arrivato in America da profugo, ne aveva 13 quando recitò con Harrison Ford nella saga di Indiana Jones, ne ha 51 adesso. In mezzo c'è stata una lunga, forzata pausa dalla recitazione. La sua carriera, dopo i successi di Indiana Jones e dei Goonies, non era riuscita a decollare e così, dopo vari tentativi falliti, Ke Huy Quan aveva deciso di rinunciare al suo sogno, aveva cercato alternative. Sempre nell'ambito del cinema, però..Ha fatto l'assistente alla regia, il coordinatore degli stuntmen.

Poi un giorno Daniel Kwan e Daniel Scheinert gli danno una chance e lo scritturano nel cast del loro nuovo, surreale film. Ieri Ke Huy Quan per quella parte ha vinto un Oscar che ha dedicato alla madre: «Ha 84 anni e mi sta guardando: mamma, ho vinto un Oscar!», ha detto sul palco del Dolby. «Il mio viaggio è iniziato su una barca. Ho passato un anno in un campo profughi. E in qualche modo sono finito qui sul palcoscenico più grande di Hollywood. Dicono: storie come questa accadono solo nei film. Non riesco a credere che stia succedendo a me. Questo è il sogno americano. I sogni sono qualcosa in cui devi credere, ho quasi rinunciato ai miei. A tutti voi là fuori: per favore mantenete vivi i vostri sogni».

É pesante l'Oscar?

«Un po', dove lo posso posare?» (ma intanto non lo molla, lo brandisce in alto, lo bacia)

Nei titoli de I Goonies e Il Tempio Maledetto lei è accreditato come Jonathan, ora è tornato al suo nome di battesimo.

«Quando iniziai mi consigliarono di cambiare il mio nome in qualcosa di più americano. Non lo feci con leggerezza, mi pesava cambiare nome, ma lo feci perché volevo disperatamente fare questo mestiere. Quando 3 anni fa decisi di riprovarci avevo una sola certezza. Sarei tornato a usare il mio vero nome».

Dal palco ha citato sua madre.

«Appena hanno fatto il mio nome un fiume di emozioni mi ha investito e il mio pensiero è andato a lei, mia madre. È lei la ragione per cui sono in America, per cui ho avuto una vita migliore. Lei stava bene in Vietnam, ma ha rinunciato a quello che aveva per dare un'opportunità ai suoi ragazzi».

Quando ha ottenuto la parte in questo film non ha detto niente in famiglia, sino a quando è uscito il trailer.

«Vero, allora ho chiamato tutti i parenti, uno a uno, la mia intera famiglia per avvertirli, una buona porzione di essa, oggi è volata da Houston per festeggiare qui».

Dietro il palco un abbraccio con Steven Spielberg...

«Sono corso da lui durante la pubblicità e lui mi ha abbracciato e mi ha detto: Ke ora sei un attore premio Oscar. Sentirlo da Spielberg è stata un'emozione fortissima».

E ora?

«E ora chiamerò il mio agente. L'ho fatto per tanti anni. Ogni tre, sei mesi, gli chiedevo se c'era qualcosa per me. Lui rispondeva sempre no, ma che avrebbe continuato a cercare. Immagino che ora la sua risposta cambierà».

Estratto dell’articolo da repubblica.it il 2 luglio 2023. 

La saga dei Dutton, la famiglia protagonista della serie Yellowstone (e di 1923, e di 1883) è niente in confronto alla guerra che si è aperta tra Kevin Costner e sua moglie Christine Baumgartner. In ballo ci sono un divorzio, un accordo prematrimoniale e una certa quantità di dollari che la donna avrebbe chiesto per il mantenimento dei figli e che invece, secondo il marito, sarebbero destinati alla chirurgia estetica della quale sembra che la moglie sia un’assidua frequentatrice.

La donna è stata avvistata giovedì 29 giugno all’aeroporto di Los Angeles con due dei suoi tre figli, Hayes Logan e Grace Avery; poche ore prima il marito l’aveva accusata di avergli chiesto 248.000 dollari al mese ufficialmente come supporto al mantenimento dei figli, cifra che invece – secondo Costner – sarebbe destinata a interventi di chirurgia plastica. I 248 mila dollari andrebbero ad aggiungersi al milione e 200 mila dollari che l’attore ha già versato alla consorte in base agli accordi prematrimoniali.

Baumgartner, designer di borse, si è rifiutata di lasciare la magione di Costner (una residenza dal 145 milioni di dollari a Santa Barbara) nonostante l’accordo prematrimoniale riportasse l’obbligo, per la donna, di andarsene entro 30 giorni dalla richiesta di divorzio, inoltrata il primo maggio scorso. Ma la donna ha fatto sapere […] che potrebbe lasciare la dimora solo a condizione di un aumento degli assegni […] 

Costner […] afferma che la moglie vuole questi soldi non per i figli ma per se stessa: il suo commercialista avrebbe infatti scoperto che la donna ha speso in segreto più di 100.000 dollari in chirurgia estetica, oltre a migliaia di dollari per lo shopping, prelievi bancomat e altro ancora[…]

Kevin Spacey, il caso “zero” del linciaggio hollywoodiano. L’attore, vittima del populismo giudiziario internazionale, è stato assolto sia negli Usa che in Gran Bretagna. Ma dopo sei anni…Valentina Stella su Il Dubbio il 16 ottobre 2023

«Il mio mondo è esploso», ha testimoniato Kevin Spacey in tribunale a Londra. «C'è stata una corsa al giudizio e prima che la prima domanda venisse posta o si rispondesse, ho perso il mio lavoro, ho perso la mia reputazione, ho perso tutto nel giro di pochi giorni». Adesso chi ripagherà il due volte premio Oscar, uno dei più grandi attori della sua generazione, visto che è stato assolto sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna? Quando all’inizio di gennaio di quest’anno ha ricevuto, tra mille polemiche, un premio alla carriera dal Museo Nazionale del Cinema in una cerimonia a Torino l’attore ringraziò il museo per aver avuto «il coraggio, le palle, di invitarmi». Adesso che non serve più il coraggio qualcuno tornerà a farlo recitare sui grandi schermi? Sembrerebbe di no.

Come racconta inews.co.uk verso la fine di luglio, il New York Times ha contattato 15 importanti manager del teatro britannico. Il giornale americano ha voluto tastare il polso a Londra: potrebbe Kevin Spacey tornare alla ribalta? La loro risposta è stata il silenzio. Nessuno era disposto a commentare. Solo Alistair Smith, redattore del giornale di settore The Stage ha parlato della questione. Il ritorno di Spacey, ha scritto, «è altamente improbabile», così come un suo ritorno ad Hollywood. Insomma l’ostracismo continua a essere la sua punizione lavorativa. Come società, finora non siamo riusciti a sviluppare un approccio sano per riabilitare coloro che cadono in disgrazia e vengono soprattutto assolti.

Da quando era stato accusato di molestie e abusi sessuali, Spacey aveva smesso di lavorare come attore: nel 2017 era stato addirittura sostituito nel film di Ridley Scott “Tutti i soldi del mondo”, le cui riprese erano già state completate. Era stato poi escluso anche dal cast di “House of Cards”, la serie di Netflix di cui era stato protagonista per cinque stagioni. Intanto da allora la vera giustizia, quella delle Corti e non della piazza, ha fatto il suo corso: nel 2019, quando la presunta vittima si è improvvisamente rifiutata di testimoniare, i pubblici ministeri del Massachusetts hanno ritirato le accuse contro di lui in un procedimento penale in cui era accusato di aver aggredito sessualmente un uomo di 18 anni a Nantucket nel 2016. Un altro caso in California, intentato da un massaggiatore, è stato archiviato dopo la morte della presunta vittima.

L’anno scorso una giuria di New York lo ha assolto nella causa civile da 40 milioni di dollari che gli aveva intentato Anthony Rapp, l'attore di “Star Trek: Discovery” che l'aveva accusato di averlo molestato quando era ancora adolescente. A luglio di quest’anno un tribunale londinese lo ha assolto nel processo in cui era accusato di aver aggredito sessualmente quattro uomini. Le lacrime sono scese sul suo volto durante la lettura del verdetto finale di non colpevolezza. Il premio Oscar ha guardato la giuria, ha messo la mano sul petto e ha detto «grazie» ai nove uomini e tre donne che gli hanno restituito l’onore nel giorno del suo 64° compleanno.

Quello concluso tre mesi fa era l’ultimo processo pendente nei suoi confronti. Questi sono i fatti: cosa possiamo trarne? Senza dubbio questa sequela di assoluzioni è la prima vera crepa nel movimento del #metoo di cui Kevin Spacey era stato uno dei maggiori simboli. Il reietto è stato messo al bando dall’industria cinematografica, contro di lui si sono alzati i pugni delle femministe, è stato processato e giudicato colpevole dalle tricoteuse del nuovo millennio. Nessuno ha avuto la pazienza di attendere i verdetti del tribunale. L’epurazione doveva essere repentina, senza lasciare minimamente spazio alla presunzione di innocenza, inghiottita dal populismo giudiziario internazionale. Eppure Philip Roth, anch’egli travolto post mortem da questa ondata con accuse generiche e poco sostanziate, in poche parole è riuscito a dare senso a tutto questo: «Io presto ascolto al grido delle donne offese e ferite (nel caso di Spacey, uomini, ma non fa differenza, ndr). Non provo altro che solidarietà per il dolore e la loro richiesta di giustizia.

Ma mi rende ansioso la natura del tribunale che si sta pronunciando su quelle loro accuse. Mi rende ansioso, in quanto libertario e sostenitore dei diritti civili, perché non mi sembra un vero tribunale. Quello che invece vedo sono accuse rese istantaneamente pubbliche e subito seguite da un castigo perentorio. Vedo che all’accusato viene negato il diritto all’habeas corpus, il diritto a un confronto con chi lo accusa, e il diritto a difendersi in qualcosa che somigli a una vera corte di giustizia, dove possono essere fatte distinzioni rigorose riguardo alla gravità del crimine riportato» (Blake Bailey, Philip Roth – La biografia, Einaudi, pagine 1030, euro 26). Ecco, il grande scrittore americano con un perfetto equilibrismo tra le giuste pretese delle presunte vittime a farsi ascoltare e il diritto degli imputati ad essere giudicati nelle sedi opportune è riuscito a rappresentare tutti gli elementi in gioco del #metoo.

Quest’ultimo ha avuto sicuramente un impatto significativo sulla nostra cultura. Ad esempio la questione del consenso è cambiata grazie ad esso, con più persone che ora capiscono che «no» significa «no». Tuttavia nel 2018, Amber Heard si era dichiarata un «personaggio pubblico che rappresenta gli abusi domestici», e ha portato a un processo di alto profilo contro il suo ex marito, Johnny Depp. L’assoluzione di quest’ultimo ha rivelato che l'opinione pubblica è diventata meno amichevole nei confronti degli accusatori. Addirittura la violenza domestica continua a essere sottostimata, con solo il 41% dei casi denunciati alla polizia nel 2020, in calo rispetto al 47% del 2017, secondo il Dipartimento di giustizia americano.

Dagospia giovedì 27 luglio 2023. OGNI TANTO UNA BUONA NOTIZIA: FORSE POSSIAMO ARCHIVIARE QUEL PROGETTO POLITICO DI “REGIME CHANGE” NEI POSTI DI POTERE (TOGLIERE UOMINI E METTERCI DONNE) CHE SI CHIAMA “ME TOO” - L’ASSOLUZIONE DI KEVIN SPACEY E LE FALSE ACCUSE CONTRO JOHNNY DEPP DA PARTE DI AMBER HEARD, SENZA CONTARE LE INFAMANTI “RIVELAZIONI” CONTRO WOODY ALLEN, DIMOSTRANO CHE LA NEO-INQUISIZIONE ANTI-MASCHIO, INIZIATA (GIUSTAMENTE) CON IL CASO WEINSTEIN, E’ ANDATA FUORI CONTROLLO - “REPUBBLICA”: “IL METOO HA TRAVOLTO CINEMA, FINANZA E POLITICA, CON DECINE DI UOMINI IN POSIZIONI DI POTERE RIMOSSI DAI LORO INCARICHI. MA È STATO ACCOMPAGNATO DA FORTI POLEMICHE PERCHÉ SPESSO LA RESPONSABILITÀ DEGLI ACCUSATI VENIVA SANCITA SENZA UNA REALE DIMOSTRAZIONE DELLA VERIDICITÀ DEI FATTI”

Alba Parietti: «Il MeToo? Quello italiano è stato una barzelletta». Cosa insegna l’assoluzione di Kevin Spacey? Parla l’opinionista tv: «Io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 luglio 2023

Cosa resta del MeToo? È la domanda che si pone all’indomani dell’assoluzione di Kevin Spacey, diventato suo malgrado il simbolo di un movimento che ha sconquassato il mondo dello spettacolo in ogni parte del mondo. Cadute le accuse, svanisce anche la gogna. E forse l’attore americano potrà riprendersi la carriera che gli è stata sottratta. Ma cosa è cambiato, intanto, dentro quel sistema che si voleva smantellare? Per quel che riguarda l’Italia «assolutamente nulla», risponde Alba Parietti. «Il MeToo interessa soprattutto perché riguarda personaggi famosi, è il gusto del gossip - aggiunge la conduttrice e opinionista tv -. Ci siamo limitati a guardare la punta dell’iceberg, senza badare a quello che c’era sotto. E senza prendere coscienza di ciò che accade nel mondo, dove ogni giorno alle donne sono negati i diritti fondamentali. Ecco perché bisognerebbe estendere la nostra visione e smettere di piangersi addosso. Altrimenti facciamo le Elkann sul treno per Foggia».

Il MeToo italiano: caccia alla streghe o una rivoluzione mancata?

In America tutto è partito da due casi eclatanti, Weinstein ed Epstein, vicende documentate e arcinote. In Italia, il MeToo è stata un po’ una barzelletta: si è parlato di un unico caso, il caso Brizzi, assunto come capro espiatorio. Intanto il sistema è rimasto intatto. Tanto nel mondo dello spettacolo, quanto negli altri ambiti lavorativi dove ci sono tante situazioni che non hanno la stessa risonanza mediatica. Se c’è stata una caccia alle streghe? Prenda il caso di Roman Polanski, che ha pagato un prezzo altissimo per le accuse che gli sono state rivolte. Accuse che mi hanno molto stupita, e nelle quali non rivedo la persona che ho conosciuto per anni.

Ritiene che nel suo ambiente alcune vicende siano state strumentalizzate?

Bisogna imparare ad essere intellettualmente onesti. Io non giudico nessuna donna. Qualsiasi persona ha diritto di sognare la più fantastica delle carriere, senza accettare compromessi. Ma sono altrettanto convinta che questo sia possibile in pochissimi casi. Perché per ogni persona di talento, ce ne sono altrettante pronte a tutto per fare carriera. E bisogna ammettere che è la regola del gioco.

Accettare compromessi?

Scardinare questo tipo di sistema è molto - molto complicato. Perché c’è una grande capacità in questo lavoro di scavalcare gli altri senza alcun tipo di scrupolo morale. Io posso permettermi di dire che in 46 anni di carriera non ho mai accettato un compromesso.

Le è capitato di trovarsi in situazioni spiacevoli?

Due in particolare, molto inquietanti. Ho avuto la forza di reagire e di uscirne senza grosse conseguenze. Ma anche senza vantaggi per la mia carriera. Una volta, quando avevo 18 anni, ho ricevuto delle avances da parte di una persona che si trovava in una posizione di potere. Sono rimasta paralizzata, ma per fortuna avevo di fronte una persona non violenta che ha capito la situazione. E io purtroppo l’ho considerato un episodio normale. Il meglio che potessi sperare è che questa persona non mi perseguitasse lavorativamente per un rifiuto.

Ci ha più ripensato negli anni?

Ho cercato di limitare i danni. Non l’ho raccontato a nessuno, non volevo farne un caso. S’immagina un mondo in cui nessun produttore o regista importante ci prova con un’attrice? Crede che possa succedere? Dovrebbe, ma è un’utopia. Un giorno un grosso dirigente disse al mio agente: “Ricorda che la Parietti che non ha santi in paradiso”. Vede: certamente si può fare carriera anche senza accettare compromessi, ma facendo cento volte più fatica. E questo non è un lavoro per persone deboli. Ci sono i lupi e gli agnelli, ma gli agnelli devono imparare a diventare dei falchi ed essere capaci di difendersi.

Si potrebbe obiettare che non sono le donne a doversi difendere, ma gli uomini a dover cambiare.

Mi creda, nessuno è più femminista di me. Però io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose.

Come le si potrebbe cambiare, a suo parere?

Le donne devono imparare a difendersi culturalmente. Certo gli uomini devono cambiare per primi, ma anche le donne devono appropriarsi del diritto di non stare al gioco. E di sottrarsi a questo schema di scambio. Oggi si è perso il senso della morale e della vita. Vedo un analfabetismo totale dei sentimenti, un mondo mercificato e brutto da vedere.

E al contempo siamo diventati “puritani”, come sostiene qualcuno?

Se parla del politicamente corretto, ci siamo tolti soltanto il gusto della battuta. Un’ipocrisia totale. Perché non si può più dire nulla, ma sul piano dei diritti non è cambiato nulla.

Ma tornando al discorso precedente, per una donna che trova il coraggio di denunciare le cose non sono mai semplici. Il rischio è di finire sul banco degli imputati, fuori e dentro i tribunali.

Quando una donna denuncia viene sempre giudicata, lo abbiamo visto nei casi più eclatanti, come nella vicenda Genovesi. Si diceva: “Ah, ma queste ragazze facevano le escort”. Come se significasse che sono schiave. Il problema è il giudizio, che spesso viene proprio dalle donne. Una donna che fa la escort e viene violentata, è una donna violentata. Punto. Bisogna sempre distinguere tra una scelta consapevole da parte delle donne, che possono accettare dei compromessi e non vanno giudicate per questo. Ma quando non c’è una scelta, si tratta di violenza. A qualunque livello.

Che idea si è fatta del caso LaRussa Jr? Il presidente del Senato ha ricevuto duri attacchi per le parole pronunciate in difesa del figlio, ed è diventato anche un bersaglio delle femministe che hanno affisso dei manifesti in segno di protesta.

Credo che abbia ragione Meloni, quando dice che se fosse stato suo figlio avrebbe scelto di restare in silenzio. Sono abituata a non giudicare mai prima di conoscere i fatti. E questo deve valere anche per il presidente La Russa. Ma non mi piace fare la forcaiola, i processi si fanno in tribunale.

CASO KEVIN SPACEY, GIUSTO ROVINARGLI LA CARRIERA? Si & No

Il Sì&No del giorno.

Caso Kevin Spacey, giusto rovinargli la carriera? “Sì, bisognava proteggere le vittime e difendere l’integrità del cinema”. Veronica Cereda su Il Riformista il 28 Luglio 2023 

Nel Sì&No del giorno ci occupiamo del caso dell’attore Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali, assolto nelle ultime ore da tutte le accuse. Dalle accuse a Spacey, mosse i primi passi il movimento #Metoo, mentre Spacey vide la sua carriera sostanzialmente stoppata. Abbiamo chiesto se sia stato giusto rovinare la carriera all’attore all’attivista Veronica Cereda, che è favorevole, e al parlamentare ed avvocato Francesco Bonifazi, che è contrario.

Qui il parere di Veronica Cereda.

L a decisione di interrompere la carriera di Kevin Spacey è stata giustificata dalle gravi accuse di molestie sessuali che sono state mosse nei suoi confronti. Le accuse, rese pubbliche nel 2017, coinvolgevano numerose persone che avevano lavorato con lui o che avevano avuto incontri personali. Queste affermazioni hanno scosso l’industria cinematografica e hanno avuto un impatto significativo sulla reputazione di Spacey come attore e figura pubblica. Le accuse di molestie sessuali sono estremamente serie e possono avere un profondo effetto sulle vittime coinvolte. Esse non solo causano un trauma emotivo e psicologico, ma possono anche influenzare negativamente la vita e la carriera delle vittime. È fondamentale ascoltare e sostenere le vittime, garantendo che le loro storie siano ascoltate e che ricevano giustizia.

Le accuse contro Kevin Spacey hanno ricevuto un’attenzione significativa da parte dei media e dell’opinione pubblica, mettendo in luce l’importanza di affrontare seriamente i problemi legati agli abusi sessuali nell’industria dell’intrattenimento e oltre. Questi eventi hanno innescato un’importante discussione sulla cultura del silenzio e dell’impunità che ha a lungo caratterizzato l’industria cinematografica e spettacolare. Le azioni prese per interrompere la carriera di Spacey sono state intraprese da istituzioni e produttori cinematografici sulla base delle accuse e delle prove disponibili. Queste azioni possono includere il licenziamento da progetti in corso o il rifiuto di lavorare con lui in futuro. Tale reazione può essere vista come una misura preventiva per proteggere l’immagine e l’integrità dell’industria, ma soprattutto per proteggere le vittime e garantire che non si sentano emarginate o ignorate. È importante sottolineare che la presunzione di innocenza è un principio fondamentale nei sistemi giuridici democratici.

Tuttavia, quando si affrontano casi di molestie sessuali, spesso può essere difficile ottenere prove concrete e la verità può risultare complessa da stabilire. Pertanto, mentre il sistema giuridico può trattare il caso in base alle leggi vigenti, la società e l’industria del cinema devono prendere decisioni basate sul rispetto e sulla protezione delle vittime. Un altro aspetto importante di questo dibattito riguarda il messaggio inviato alla società. Quando una figura pubblica Veronica Cereda / Attivista accusata di abusi sessuali continua a lavorare senza conseguenze, ciò potrebbe trasmettere il messaggio che tali comportamenti sono tollerati o ignorati. Al contrario, interrompere la carriera di un individuo accusato di molestie sessuali può inviare un segnale forte che tali comportamenti sono inaccettabili e non saranno ignorati o minimizzati.

In conclusione, la decisione di interrompere la carriera di Kevin Spacey dopo le accuse di molestie sessuali è stata giustificata dal bisogno di proteggere e sostenere le vittime, mantenere l’integrità dell’industria cinematografica e inviare un messaggio chiaro contro gli abusi sessuali. È importante continuare a lottare contro la cultura dell’impunità e lavorare verso un ambiente più sicuro e rispettoso per tutti. Veronica Cereda

Il Sì&No del giorno

Caso Kevin Spacey, giusto rovinargli la carriera? “No, una vita spezzata, per anni sotto la scure di una giustizia sommaria e mediatica”. Francesco Bonifazi su Il Riformista il 28 Luglio 2023 

Nel Sì&No del giorno ci occupiamo del caso dell’attore Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali, assolto nelle ultime ore da tutte le accuse. Dalle accuse a Spacey, mosse i primi passi il movimento #Metoo, mentre Spacey vide la sua carriera sostanzialmente stoppata. Abbiamo chiesto se sia stato giusto rovinare la carriera all’attore all’attivista Veronica Cereda, che è favorevole, e al parlamentare ed avvocato Francesco Bonifazi, che è contrario.

Qui il parere di Francesco Bonifazi.

Un grido di dolore e di vergogna dovrebbe levarsi dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti per ciò che è accaduto a Kevin Spacey. Ma più in generale dovrebbe levarsi un grido di dolore per l’insensata e, ahimè, colpevole compressione dei princìpi di Giustizia che si è verificata in questi due Paesi, caratterizzati storicamente dal sistema di Common Law da sempre antesignano nel riconoscimento dei diritti e nell’esercizio della Giustizia.

Questa assoluzione mi auguro serva a far comprendere che la Giustizia, quella vera, quella che incide sulla vita di ciascuno di noi, si forma solo e soltanto nel Processo, nel contraddittorio tra le parti. La Giustizia non può essere quella emersa dalle parole di improbabili accusatori o, peggio, quella descritta nei caratteri e nelle parole di qualche spregiudicata testata giornalistica, impegnata più nello sciacallaggio mediatico che non nel rispetto del diritto di cronaca. Un sistema, quello della giustizia sommaria, che trova infine sublimazione nel mare magnum, privo di regole e di morale, dei social network. Sempre più spesso, purtroppo anche in Italia, la verità processuale cede il passo alla verità mediatica frutto di una cronaca giudiziaria (per fortuna non tutta) priva di scrupoli e più impegnata ad additare il colpevole che non a ricercare criticamente la verità. Una vita spezzata, anzi correggo, tante vite spezzate; quella di Kevin Spacey, quella della sua famiglia e quella di chi gli vuole bene.

Per anni sotto la scure di una giustizia sommaria, mediatica, Spacey è stato designato dai media come il colpevole di efferati reati che in verità non ha mai commesso. Da carnefice oggi ci accorgiamo che è stato vittima di una giustizia ingiusta, che lo ha leso irreparabilmente nella sua reputazione, nel suo onore, nella sua dignità, oltre ad avergli distrutto la vita professionale. È bene ripetercelo: per tutto il mondo egli è stato, per oltre quattro anni, il “predatore seriale, viscido e spregevole” (così gli atti d’accusa), e oggi, grazie alla Giustizia vera, quella che si esercita davanti ai giudici nel Processo, torna finalmente ad essere Kevin Spacey, un uomo vittima di una distorsione e di un arretramento culturale che sta colpendo tutto l’Occidente e che vede negli Stati Uniti un negativo anticipatore. Per ironia della sorte si potrebbe affermare che Kevin Spacey in questi anni fosse stato confuso col suo personaggio più famoso, quello del politico corrotto, privo di scrupoli e morale. Egli però non lo era, era invece il grande attore che con grande capacità e con grande professionalità ha interpretato il suo carnefice, metafora (il politico corrotto) dello scadimento dei valori essenziali delle nostre società.

Le deriva giustizialista, lo sciacallaggio mediatico, il massimalismo giudiziario rappresentano un’aggressione profonda alla nostra cultura, ai nostri valori giuridici, una vera involuzione. Permettere che la nostra cultura giuridica ceda il passo alla rabbia giustizialista, significa non solo mortificare la nostra storia, ma indietreggiare verso sistemi sommari che abbiamo sempre e giustamente contrastato. Siamo l’Occidente, siamo i figli di culture democratiche, siamo fermi sostenitori dello stato di diritto, per questo dobbiamo reagire con forza a questa spinta verso l’anticultura massimalista, giustizialista, che minaccia ahimè non solo gli Stati Uniti, ma anche la nostra Europa e la nostra Italia. Francesco Bonifazi

Estratto dell’articolo di Arianna Farinelli per “la Repubblica” giovedì 27 luglio 2023.  

Kevin Spacey è stato assolto ieri a Londra dall’accusa di aver abusato sessualmente di quattro uomini. Durante il processo il suo avvocato ha dichiarato che chi lo accusava ha mentito solo per ottenere dei benefici finanziari. Già l’anno passato, Spacey era stato assolto in un altro processo per abusi sessuali a Manhattan. Non è questo il primo processo dell’era del MeToo che finisce in questo modo. Lo scorso anno l’ex moglie di Johnny Depp, Amber Heard, era stata condannata per aver ingiustamente accusato il marito di violenza.

E già allora il New York Times scriveva che quel processo aveva decretato una volta per tutte la fine del MeToo, il movimento diventato globale dopo le accuse di abusi sessuali al produttore Harvey Weinstein. In questi anni il MeToo ha finito per travolgere il mondo del cinema, della finanza e della politica, con decine di uomini in posizioni di potere rimossi dai loro incarichi. Ma è stato accompagnato anche da forti polemiche perché spesso la responsabilità degli accusati veniva sancita senza una reale dimostrazione della veridicità dei fatti. 

E ci sono stati casi famosi, come quello di Woody Allen, che hanno diviso l’opinione pubblica e decretato la fine della carriera del regista, almeno negli Stati Uniti. Quest’anno il film di Allen e quelli di registi come Luc Besson e Roman Polanski, anche loro accusati di abusi, verranno presentati alla Mostra di Venezia, segno che forse i tempi sono davvero cambiati rispetto al MeToo.

Quello che invece non è cambiato, e anzi è in crescita, è la violenza di genere: più 33% di casi di violenza sessuale nel 2022, secondo il ministero dell’Interno. Pertanto, il punto vero non è se il MeToo è morto come movimento, ma se la battaglia per i diritti delle donne è viva. Nel nostro Paese, poi, come hanno dimostrato i casi di cronaca delle ultime settimane, è sempre più radicato il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Il 12 luglio il Parlamento Europeo ha approvato una direttiva per combattere più efficacemente la violenza di genere negli Stati dell’Unione.

[…] Forse, invece di occuparci dei processi alle celebrità, dovremmo impegnarci in un profondo cambiamento culturale, oltre che giuridico, affinché si crei maggiore consapevolezza e rispetto attorno al tema del consenso.

Estratto dell’articolo di Caterina Soffici per “la Stampa” giovedì 27 luglio 2023.

Kevin Spacey non è più un mostro. L'hanno assolto ieri a Londra da tutti e nove i capi d'accusa, tra cui violenza sessuale e induzione di attività sessuali senza consenso. Per tutto il tempo della lettura dei verdetti l'attore due volte premio Oscar è rimasto in piedi in un box trasparente al centro dell'aula, in abito blu scuro, guardando la giuria senza far trasparire emozioni. […] 

La giuria ci ha messo appena dodici ore e mezza a decidere. Una giuria composta da 12 cittadini britannici comuni (nove uomini e tre donne) tirati a sorte dalle liste elettorali.

Un aspetto interessante, questo, perché il verdetto popolare ribalta la condanna mediatica contro l'attore descritto negli ultimi sei anni come un «predatore seriale», «viscido, disgustoso e spregevole», un «cobra che si credeva intoccabile» in quanto ricco, potente e famoso, paragonato a un serpente perché abile in una mossa fulminea con la quale si avventava sugli organi sessuali delle sue giovani prede.

Il verdetto arriva dopo un processo lungo un mese, nel giorno del compleanno numero 64, e c'è già chi parla di una nuova nascita per Spacey. Anche se non è ovvio rifarsi una vita, dopo che sei stato uno dei simboli negativi del potere cattivo dei maschi di Hollywood, e quattro uomini ti hanno accusato, proprio all'inizio del #MeToo, di aver abusato del tuo potere per molestarli sessualmente.

Era il 2017 quando le accuse di comportamenti inappropriati sono iniziate ad emergere contro Spacey su entrambe le sponde dell'Atlantico. Durante il processo, sono stati ascoltati i quattro uomini che hanno dichiarato che Spacey li aveva aggrediti tra il 2001 e il 2013, durante il periodo in cui l'attore è stato il direttore artistico dell'Old Vic, il più importante teatro di prosa londinese.

Uno dei denuncianti aveva accusato Spacey di averlo toccato più volte senza il suo consenso. In una occasione, nel 2004 o nel 2005, ha detto che l'attore gli ha afferrato i genitali così forte da farlo quasi uscire di strada mentre era alla guida e si stavano dirigendo al "White White Tie and Tiara Ball" di Elton John. 

[…] Un altro accusatore ha detto di aver scritto a Spacey sperando che gli facesse da mentore e di essere poi andato a bere qualcosa a casa dell'attore a Londra. Lì si sarebbe poi addormentato e si sarebbe svegliato trovandosi Spacey in ginocchio che gli praticava sesso orale. Spacey ha ammesso queste relazioni, ma ha sostenuto che erano consensuali.

La difesa (che pare sia costata all'attore tra i 2 e i 3 milioni di sterline) ha giocato tutto sull'aspetto del ricatto, sostenendo che tre dei denuncianti hanno mentito nella speranza di ottener un guadagno economico. Patrick Gibbs, l'avvocato di Spacey, ha sostenuto che lo stile di vita promiscuo dell'attore lo ha reso un «bersaglio facile» per le false accuse.

L'attore dal canto suo ha ammesso di aver fatto uso di droghe «ricreative» ma ha sempre negato di aver approfittato del suo ascendente e di aver agito in modo non consensuale. Va anche ricordato che nel 2022, una giuria federale di Manhattan aveva dichiarato Spacey non responsabile di percosse dopo che l'attore Anthony Rapp aveva intentato una causa accusandolo di averlo assaltato e di avergli fatto una avance sessuale nel 1986, quando Rapp aveva 14 anni. Ora è da capire se davvero questa seconda rinascita a 64 anni sarà possibile. […]

In difesa di Golia. Tommaso Cerno su L'Identità il 28 Luglio 2023

Come in una nemesi i Soliti Sospetti, la figura più forte accusata da quella più debole, si trasforma nei soliti pregiudizi. Kevin Spacey è condannato dal mondo, cade dal suo altare ma poi è innocente. Perché Davide e Golia non è sempre la realtà. Dovremmo trarre una lezione dall’esito del processo di Londra a quello che è stato il più grande attore del momento nel mondo proprio quando venne colpito dalle accuse di molestie da parte di giovani aspiranti attori che l’avevano incontrato.

È stato facile scrivere la trama del film che lui non aveva ancora girato. Un film in cui chi non era Kevin si sentiva vittima di un successo planetario e tifava per quelle accuse. Accuse che si sono materializzate come una condanna dantesca, cancellando il suo nome dal cinema in poche ore, cancellandolo dai titoli di coda, cancellandolo dai progetti già in corso, mentre nel silenzio ipocrita tutti noi avevamo già deciso che quel signore che sugli schermi era il presidente degli Stati Uniti cinico e fluido Underwood nella realtà era un molestatore di ragazzini. E nell’America neopuritana non c’è stato scampo. È un po’ il sistema hollywoodiano applicato alla giurisprudenza quello che ci fa leggere la trama come l’avrebbe scritta uno sceneggiatore, quella trama che vediamo ripetersi nelle fiction nei film identica sempre, quella trama per cui il debole ha ragione e prima o poi riuscirà nella società perfetta che non guarda in faccia a nessuno a sconfiggere il potente.

Il problema è che le società perfette non esistono e che non sempre le trame corrispondono alla realtà. Anche se ci piacerebbe pensare che chi ha fatto e ha avuto più di noi in fondo nasconde segreti inconfessabili, anche se ci stimola l’idea che veder cadere chi sta in alto porta un po’ più in alto anche noi, si tratta di grandi bugie che raccontiamo a noi stessi. E che mostrano invece quanto poco crediamo davvero in quello che diciamo.

Noi vogliamo una giustizia uguale per tutti e invece la giustizia ha sempre il manico dalla parte di chi accusa. Noi vogliamo una società da sogno in cui non è possibile che una persona che non ha avuto ciò che voleva dalla vita inventi delle accuse o ingigantisca dei fatti perché non potendo arrivare là dove un altro è arrivato vuole veder scendere lui fino al suo livello. Eppure succede anche questo. Perché non è detto che un grande attore, inarrivabile, narcisista, omosessuale debba per forza violentare o molestare i ragazzi che incontra nella vita privata o in quella lavorativa.

Come non è sempre vero che il debole che denuncia il più forte lo fa per un senso di giustizia, vincendo le paure o sfidando il sistema. Capita anche che lo faccia per invidia o per vendetta e che il sistema stia bello e schierato proprio dalla sua parte, indipendentemente dai fatti reali e se noi vogliamo davvero che chi subisce torti o malvagità, così come violenze o soprusi, possa difendersi da chi li ha compiuti usando una posizione di forza, sfruttando l’ufficio del capo, facendo quello che succede davvero in molti sistemi gerarchici, dobbiamo limitarci ad analizzare i fatti. Perché altrimenti noi faremo un danno proprio a chi è vittima davvero esponendo al mondo i limiti del nostro sistema giudiziario e morale.

Sono pronto a scommettere che nemmeno stavolta cambierà nulla perché è troppo bello dal divano di casa sposare la sentenza che ci fa vedere il mondo come più giusto, sensazione che non viene rovesciata nemmeno quando abbiamo le prove che la giustizia in quel caso stava tutta da un’altra parte. E così come nell’ultima scena dei Soliti sospetti mentre Kevin Spacey smette di zoppicare e mostra a tutti il vero volto di Kaiser Soze noi lo rivedremo camminare eretto a dirci che quel passo incerto che ha travolto la sua vita non era reale, mentre tutti guardavano da una parte la verità si consumava come in un gioco di prestigio agli antipodi del racconto su cui il mondo è rimasto sospeso per anni. Con la differenza che Soze era un criminale che fuggiva e si mimetizzava nel mondo incapace di afferrarlo mentre Kevin è un innocente che farà molta fatica a rientrare in quello spazio che durante la vita si era costruito recitando la parte di un altro.

Estratto dell'articolo di tg24.sky.it mercoledì 26 luglio 2023.

L'attore statunitense Kevin Spacey è stato dichiarato non colpevole da una giuria presso un tribunale di Londra nel processo in cui era accusato di aver commesso reati sessuali nei confronti di quattro uomini. Il 64enne premio Oscar è stato assolto da nove accuse, tra cui violenza sessuale e induzione di attività sessuali senza consenso. 

I presunti abusi e molestie sessuali contestate a Londra riguardavano vicende risalenti a un periodo compreso fra il 2001 e il 2013. Il verdetto della giuria popolare, radunata dinanzi alla Southwark Crown Court, è arrivato dopo circa un mese di udienze. L’attore si era sempre dichiarato innocente rispetto alle accuse, riguardanti una decina di episodi, rivoltegli da 4 uomini più giovani tra cui un ex aspirante attore.

Le accuse erano denunciate in due tranche, prima dal giovane aspirante attore, poi da altri tre uomini che a quel tempo avevano tra i 20 e i 30 anni. Nella fase finale del procedimento la pubblica accusa ha insistito nel presentare il due volte premio Oscar come un personaggio che ha sfruttato il suo potere e la sua influenza nel mondo dello spettacolo per abusare di uomini più giovani di lui sostenendo che il suo comportamento andasse giudicato alla stregua delle molestie sessuali commesse ai danni di donne e denunciate dal movimento MeToo.

L'avvocato difensore di Spacey, Patrick Gibbs, ha invece negato ogni accusa, sebbene l'attore abbia riconosciuto di essere una persona "promiscua" e ammesso di aver fatto uso di droghe "ricreative" ma allo stesso tempo ha negato con forza di aver approfittato del suo ascendente e di aver agito in modo non consensuale. […]

 Estratto dell’articolo di Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” mercoledì 26 luglio 2023.

Si è difeso dicendosi, tra le lacrime, un uomo «propenso al flirt» ma non per questo «cattivo» e definendo le accuse di molestie e violenze sessuali a lui rivolte «pura follia»: al termine di un processo lungo quasi un mese, il destino dell’attore Kevin Spacey è ora nelle mani di dodici giurati. 

Spetterà a loro – normalissimi londinesi convocati a svolgere il proprio dovere civico – decidere chi ha ragione in un caso che alla Southwark Crown Court di Londra ha portato una sfilata di star e l’attenzione dei media internazionali. 

Due volte premio Oscar – per American Beauty e I soliti sospetti – ex direttore del teatro Old Vic, famosissimo anche grazie alla serie House of Cards, Spacey si è battuto con ogni mezzo: conferma dell’importanza del verdetto londinese, si è avvalso della testimonianza via video di Elton John e del marito David Furnish oltre a quella di Chris Lemmon, figlio di Jack, che lo hanno ritratto come un amico affidabile e sempre pieno di rispetto verso gli altri, […]

[…] L’assoluzione piena gli permetterebbe di riavviare una carriera interrotta bruscamente dalle prime accuse nel 2017, all’epoca degli esordi del #MeToo. Un verdetto di colpevolezza, invece, allontanerebbe la possibilità di riabilitazione in modo definitivo. 

Quattro gli accusatori – la loro identità è protetta dalla legge, ma si sa che del gruppo fanno parte un ex autista di Spacey e un aspirante attore – e dodici i capi d’accusa, che risalgono al periodo tra il 2001 e il 2013. Spacey in aula à stato descritto come un predatore seriale «viscido, disgustoso e spregevole».

Nel corso delle udienze sono emersi i dettagli delle presunte molestie: da quella che è stata definita la «mossa caratteristica» di Spacey, ovvero l’abilità di afferrare l’inguine delle sue vittime in modo inaspettato e violento, a un rapporto di sesso orale avuto con un uomo che crede di essere stato drogato una volta arrivato nell’appartamento dell’attore. Le azioni e i movimenti di Spacey sono stati paragonati a quelli di «un cobra che si credeva intoccabile».

Da parte sua, l’attore ha ammesso di aver condiviso momenti di intimità con alcuni suoi accusatori ma ha sottolineato di aver avuto soltanto rapporti consensuali.

Ha ammesso inoltre di aver «interpretato male» i segnali ricevuti da uno dei quattro uomini e di aver cercato di spingersi «goffamente» oltre il flirt prima di capire di aver frainteso. Ha detto di aver fatto uso di droghe e di essere promiscuo, aggiungendo però che tutto questo non fa di lui un mostro. […]

Non colpevole. Kevin Spacey assolto per le accuse di molestie sessuali, perché l’attore era finito sotto processo. È terminato con una sentenza di assoluzione il processo ai danni della star di Hollywood. A denunciarlo sono stati quattro uomini. Redazione Web su L'Unità il 26 Luglio 2023

“Non colpevole“, lo ha stabilito la giuria londinese che si è occupata del processo a carico di Kevin Spacey. La decisione è giunta dopo tre giorni di riunione in camera di consiglio. Il verdetto è stato già consegnato alla Southwark Crown Court. L’attore era stato accusato di molestie sessuali, dopo la denuncia di quattro uomini. I fatti sarebbero accaduti venti anni fa. Tre hanno dichiarato di essere stati afferrati in modo violento da Spacey al linguine. Il quarto, un aspirante attore, l’aveva invece accusato di avergli praticato del sesso orale dopo essersi risvegliato a casa della star di Hollywood, dove era svenuto o si era addormentato.

L’altro procedimento giudiziario

L’attore si è sempre dichiarato non colpevole. Perché Kevin Spacey è stato accusato? La star di Hollywood è stato assolto lo scorso ottobre dalla Corte Federale di New York dopo che il premio Oscar era finito sotto processo in seguito alle accuse del collega Anthony Rapp. Quest’ultimo, lo aveva denunciato per alcuni fatti avvenuti nel 1986. Rapp sarebbe stato molestato da Spacey quando aveva 14 anni e l’attore era già noto a Broadway. La denuncia fu fatta nel 2017 e la presunta vittima chiese 40 milioni di dollari di risarcimento. Sulla vicenda si scatenò il movimento ‘MeeToo‘. Il processo è durato tre settimane e i giurati hanno impiegato 90 minuti per prendere una decisione. Il verdetto è stato consegnato al giudice Lewis Kaplan.

Perché Kevin Spacey è stato accusato

Spacey è uno degli attori più famosi e importanti della storia del cinema. Ha vinto due oscar per le interpretazioni nei film I Soliti Sospetti e American Beauty. Da ricordare Americani, Il prezzo di Hollywood, Iron Will, Seven, L.A. Confidencial, Bugie, baci, bambole e bastardi, The big Kahuna, K-Pax, The life of David Gale. A causa delle accuse è stato licenziato da Netflix che gli impedì di essere protagonista dell’ultima stagione di House of cards. Lo stesso gli è capitato per il film girato da Ridley Scott, Tutti i soldi del mondo. Il lungometraggio ha raccontato la storia del rapimento di John Paul Getty III, nipote di uno degli uomini più ricchi del mondo: Jean Paul Getty. Proprio quest’ultimo era stato interpretato da Spacey, poi sostituito da Christopher Plummer. Redazione Web 26 Luglio 2023

 Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” sabato 29 luglio 2023

Oggi le prede che potevano concupire Kevin Spacey (o essere da lui concupite) l’hanno lasciato un po’ ciccio, come può esserlo a 64 anni uno che ha passato anni brutti tra gente bruttissima, a spiegare che quelle cose là lui non le aveva proprio fatte, per lo meno con loro. Proprio a Londra, dove era stato a dirigere l’Old Vic in tempi quasi remoti, dal 2003 al 2009, quando gli allora giovanetti da lui avvicinati dicevano di essersi addormentati mentre lui ne faceva di ogni colore e loro continuavano a dormire. […] ora le signore possono singhiozzare contente: innocente!

Anche lui, pover’uomo, di quei lontani passaggi tra giovanotti non aveva più memoria, ma il MeToo, vindice, che non fa differenze tra uomo, donna o altro, si è abbattuto su di lui per almeno cinque anni di umiliazione e vuoto: niente sesta puntata dell’appassionante Underwood per Netflix, niente Tutti i soldi del mondo in cui, sostituito da Christopher Plummer, doveva essere l’avaro miliardario Jean Paul Getty. 

Niente soprattutto Gore, prodotto da Netflix, sulla aristocratica vita di Gore Vidal, grande scrittore omosessuale americano, già girato ma messo in cantina. E in più, tanto per dire il suo momento di disperazione, si è lasciato mettere in un film di Franco Nero, L’uomo che disegnò Dio, scomparso in un baleno.

Riuscirà il grande attore Spacey a tornare a galla, mentre nel frattempo gli attori si son messi a scioperare e al cinema vanno ormai i novantenni? I tempi cambiano in un baleno. Adesso anche il MeToo, dopo aver raggiunto picchi estremi (quale quello di mandare in galera un buon giovane che ti diceva “che bel sedere”), sta un po’ in affanno. Ma pochi anni bastano a rendere vecchia una bella idea, a renderla frusta? 

Parliamo adesso delle vere protagoniste, le donne per cui il MeToo è nato. In un bell’articolo su Repubblica, Arianna Farinelli ricorda come il codice penale italiano, 609 bis, prevede che oggi il reato di stupro sia necessariamente legato alla violenza e non al rapporto sessuale senza consenso.

Sinceramente, e con tutta la buona volontà, è difficile pensare a una folla presente al fattaccio, che sostenga che ha ragione lei o ha ragione lui, col consenso o senza consenso. È dall’estate del 2019, quasi quattro anni, e da qualche settimana che ci si chiede se Ciro Grillo (con processo avviato) e Leonardo Apache La Russa (ancora a indagine) siano colpevoli o no, ed è probabile che le sentenze ci saranno quando i due saranno lieti nonni: […] 

Poi altre cose sono di molto cambiate. Secondo il Pd si sono raddoppiati i queer che le donne neanche le vedono, una massa immensa di influencer maschi e non solo loro ha imparato a depilarsi tutto e se non sembri un leone perché dovresti perdere tempo con una signorina? Ma poi dove sono finite le giovani timide che nulla sanno della vita e nessuno gli ha detto di tenerla ben stretta sino alle sante nozze, guarda la povera Maria Goretti? 

Si sa che oggi va di moda, anche in piena estate, uscire di casa a mezzanotte per andare a divertirsi nei luoghi giusti (come Apophis a Milano) sino alle 7 del mattino. Non per niente i giovani in vacanza al mare sanno che l’abbronzatura è del tutto fuori moda. È che passare la notte fuori può essere anche un po’ noioso e puoi passare al petting (che parola anziana!), giusto sino a quando ti accorgi che non va bene, la ragazza in quel momento, o dando spintoni, dice di no che è no ma può anche essere sì. Sì sì o sì no?

Forse il momento in cui stare insieme, in una bella notte di estivo tifone a 40 gradi con vento che sradica gli alberi, diventa da cose carine a stupro. Forse sì, forse no? MeToo è nato contro i produttori che pretendevano di portarsi a letto le ragazze che poi diventavano dive. Oggi quel tempo è già […] finito, il numero di film, per esempio in Italia, che poi nessuno va a vedere, è in parte fatto da registi ignoti, spesso più o meno inutili e malamente finanziati. La 80esima Mostra di Venezia, che si svolgerà dal 30 agosto con la direzione di Barbera, promette di essere un ritorno al grande cinema, come se tutto tornasse come prima. Chissà il MeToo.

L’assoluzione della marmotta. E ora fateci vedere Kevin Spacey che fa Vidal, o almeno fategli fare il cattivo di Mission: Impossible. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Luglio 2023

Sono cadute anche le accuse londinesi, ma la nomea del più grande attore vivente ormai è rovinata. Chissà se esistono davvero quelli che promettevano che l’avrebbero scritturato una volta che fosse stato prosciolto 

«Molte persone temono che, se si schierano dalla mia parte, non avranno più una carriera. Ma so che c’è chi è pronto a scritturarmi nel momento in cui verrò prosciolto da queste accuse a Londra. Nel momento in cui accade, sono pronti a farsi avanti». L’ha detto il 6 maggio, a un intervistatore di Die Zeit, Kevin Spacey, che a quel punto era stato assolto o prosciolto in tutti i processi americani.

Ieri l’assoluzione della marmotta è tornata. Le accuse londinesi erano legate a quattro diversi uomini che asserivano d’essere stati forzatamente concupiti o toccati da Spacey, in un arco di tempo tra il 2001 e il 2013. Le accuse erano arrivate nel 2022, tre prima e una dopo l’ultimo articolo in cui avevo scritto: adesso che Spacey è stato assolto, potete per favore restituirlo al pubblico?

Questo per dire che, nonostante quello concluso ieri fosse l’ultimo processo pendente, non è affatto detto che oggi un attore senza talento o un qualunque tizio con qualche nevrosi non si sveglino e non decidano che la ragione della loro mancata realizzazione è che una volta si sono svegliati e hanno trovato Kevin Spacey che glielo stava ciucciando (una delle accuse londinesi era formulata esattamente così).

A quante assoluzioni si può assistere prima di decidere che sì, va bene, l’altare del consenso al quale ci inginocchiamo tutti (scusate il doppiosenso) è sacro, ma insomma chiunque conosca gli uomini in generale e gli uomini gay in particolare fatica a non mettersi a ridere di fronte a queste accuse, e non esiste che noi non possiamo vedere il film di Netflix su Gore Vidal (cioè: il più grande attore vivente che interpreta uno dei più interessanti personaggi del Novecento) perché qualcuno si è pentito d’essersi fatto fare un pompino da Kevin Spacey. Mi scuso per la crudezza coi lettori e con chi volesse affidarmi la conduzione d’una striscia in Rai, ma insomma di questo si tratta.

Non sono, dicevo, affatto sicura che quest’assoluzione sia quella definitiva, e quindi non so se l’ottimismo di Spacey sia giustificato, però la Zeit faceva l’esempio di Johnny Depp, trattato come un appestato finché erano in piedi le accuse di Amber Heard, e ora eccolo tornare in gran spolvero a Cannes con “Du Barry”. Solo che per Depp si sapeva dove stesse la fine: aveva meno ex mogli di quanti giovanotti ci saranno in giro con cui Spacey si è accoppiato in decenni di vita busona segreta.

C’è, inoltre, un altro vantaggio: lo sciopero del sindacato degli attori e di quello degli sceneggiatori. Magari tra un po’ Netflix si trova coi magazzini vuoti, magari quel Kevin Spacey nel ruolo di Gore Vidal che hanno da parte torna utile a riempire una stagione senza novità.

Se non avessero già presentato il programma di Venezia, sarebbe bello immaginarlo lì, in quest’Italia in cui, mi pare la definizione sia di Maria Laura Rodotà, il MeToo viene a morire. In programma c’è già Woody Allen: due assolti dai tribunali ma reietti della società civile ci starebbero bene.

Alla Zeit, Spacey ha detto anche che la sua reputazione è ormai irrecuperabile, non si può pensare di sanarla; leggevo e pensavo come sempre a Rhett Butler: chi ha coraggio fa anche a meno della reputazione. Ma soprattutto pensavo che forse giusto ai tempi della guerra civile americana si parlava di reputazione tanto quanto in questo secolo, in questo secolo che ogni giorno ci dimostra che la reputazione non conta niente, non vale niente, non esiste.

Per mille ragioni, che vanno dal fatto che nessuno sta dietro a tutte le notizie (ci sarà sempre quello che sa delle accuse a Spacey ma non delle assoluzioni), all’economia dell’attenzione che non ci permette di occuparci di tutto (esisterà persino un pubblico per cui Kevin Spacey è quello che fa Keyser Söze finto zoppo e poco più), all’attenzione labile dell’opinione pubblica: ogni giorno c’è qualcuno – un politico, una influencer, una scienziata, un calciatore – che viene sputtanato in modi che ci fanno pensare che non lavorerà mai più, e poi dopo una settimana è tutto dimenticato. Abbiamo già tante cose da pensare, possiamo mai tenere a mente gli scandaletti continui?

Mentre aspettava che la sua fedina penale tornasse immacolata, Spacey ha fatto una serie di cose minori (tra cui un film di Franco Nero, essendo noi appunto il paese dove il MeToo viene a morire, per non parlare di come si mangia bene). Il regista inglese di uno di questi film ha gongolato alla Zeit che, se Spacey fosse stato assolto, il suo sarebbe stato il primo film con Spacey innocente a venire distribuito – e ora così sarà, immagino. Ma, poiché a maggio ancora non si sapeva come sarebbe finita, aveva anche preso in considerazione l’ipotesi d’una condanna: «C’è gente che lo verrà a vedere lo stesso: nessuno ha smesso di ascoltare Michael Jackson».

Non è questione di distinguere l’uomo dall’artista: è questione che pochissime di noi hanno voglia di fare Torquemada quando ci svacchiamo sul divano. Vogliamo vedere un attore che ci piaccia, ascoltare una canzone che ci faccia ballare. È questione di livelli di talento piuttosto rari, e infatti Michael Jackson, per sostenere questa tesi, è l’esempio che usano sia Ricky Gervais sia Chris Rock nei loro monologhi. Non è che là fuori ci sia un pieno di cantanti accusati di cose brutte ma che hanno una discografia irresistibile. Non hanno scritto tutti “Billie Jean”, non hanno tutti, con la sola forza del loro sguardo sfrontato e della loro voce teatrale, reso imperdibile una puttanata sesquipedale qual era “House of Cards”.

Chissà se esistono davvero, quelli che hanno promesso a Kevin «appena t’assolvono ti scritturo». Voglio credere di sì, e voglio credere che uno di loro sia Chris McQuarrie, già sceneggiatore dei “Soliti sospetti”, e ora regista e sceneggiatore di tutto ciò che fa Tom Cruise. Riuscite a pensare a un esito più superfragilistico, dopo tutto questo golgota, di: Kevin Spacey cattivo cattivissimo nel prossimo “Mission: Impossible”?

DAGONEWS il 21 luglio 2023.

“Non è un crimine fare sesso, anche se si è famosi”. È questa la strategia difensiva dell’avvocato di Kevin Spacy, Patrick Gibbs. Nella sua arringa, il legale ha invitato i giurati di essere “sicuri” del loro verdetto, qualunque esso sia: “Se siete anche meno che sicuri, sarà vostro dovere dichiararlo non colpevole”. 

L’attore, due volte premio Oscar, deve rispondere di nove capi d’accusa per violenza sessuale, nei confronti di quattro uomini. La giuria dovrebbe ritirarsi lunedì prossimo, per poi emettere il verdetto. Mercoledì scorso, quattro capi d'accusa sono stati ritirati a causa di un "cavillo legale". Ma rimane l'accusa più grave: aver indotto una persona “a praticare attività sessuale penetrativa senza consenso”. Un reato che comporta una condanna massima all'ergastolo.

Variety ha ricostruito con un lungo articolo la vicenda: “Le quattro presunte vittime hanno testimoniato nel corso delle ultime quattro settimane insieme a familiari e amici. La denuncia più vecchia cronologicamente, che risale a un anno imprecisato dei primi anni 2000, sostiene che Spacey abbia ripetutamente toccato i genitali e il sedere della presunta vittima sopra i suoi vestiti e abbia messo la mano dell'uomo sui propri genitali. Nell'ultima occasione, Spacey avrebbe afferrato l'uomo - che stava guidando - così forte all'inguine da aver quasi causato un incidente d'auto. 

Spacey si difende sostenendo che si sia trattato di un rapporto "consensuale" e che non si è mai spinto oltre il “limite di sopportazione” della presunta vittima. L’attore afferma che la palpata all'inguine, che sarebbe avvenuta mentre si recava a un evento nella casa di Elton John a Windsor, non sia mai avvenuta.

La seconda presunta vittima ha detto invece che Spacey gli ha fatto commenti sessuali aggressivi nel 2005, prima di afferrarlo per l'inguine durante un evento di beneficenza. In questo caso l'attore ritiene il racconto del tutto inventato. Il terzo denunciante, che nel 2013 ha incontrato Spacey in un pub del Gloucestershire, prima di tornare nella casa in affitto dell'attore con un gruppo di amici per continuare la festa, ha accusato Spacey di aver cercato di baciarlo e, anche in questo caso, di avergli afferrato l'inguine. Spacey ha definito l'incontro un "passaggio maldestro" per il quale si è poi scusato. 

Arriviamo così alla quarta denuncia, la più grave. Risale al 2008, quando l’attore avrebbe portato un uomo nel suo appartamento di Londra dove si la vittima si sarebbe addormentato (o è svenuta). Quando l’uomo si è risvegliato, ha trovato Spacey che gli praticava del sesso orale. Spacey ha dichiarato che l'incontro era consensuale e ha fornito i tabulati telefonici per dimostrare che c'erano stati contatti continui durante quella sera e nei mesi successivi.

Nella requisitoria conclusiva di mercoledì, la pubblica accusa ha esortato la giuria a considerare la somiglianza dei quattro casi. Giovedì, però, l'avvocato di Spacey ha suggerito che le accuse si "sminuiscono" l'una con l'altra. "È facile inventare accuse contro un uomo nelle condizioni del signor Spacey", ha detto. "Con questo intendo un uomo promiscuo, un uomo che non si dichiara pubblicamente, anche se tutti gli addetti ai lavori sanno che è gay. Un uomo che vuole essere solo un ragazzo normale, che beve birra e ride e fuma erba e si siede davanti [al sedile di un'auto] e passa il tempo con persone più giovani da cui è attratto".

L'avvocato, che esercita da quasi 40 anni, ha anche ammonito la giuria a non lasciarsi influenzare dalla promiscuità o dall'orientamento sessuale di Spacey. "Non è un crimine amare il sesso e non è un crimine fare sesso, anche se si è famosi. Non è un crimine fare sesso occasionale, non è un crimine fare molto sesso e non è un crimine fare sesso con qualcuno dello stesso sesso, perché siamo nel 2023 e non nel 1823", ha detto Gibbs. 

"Potreste dedicare un momento a pensare dove si trova lo squilibrio di potere nel processo [del tribunale] e dove il signor Spacey - seduto da solo con un carceriere dietro il vetro - si colloca nell'equilibrio di potere in questo tribunale", ha detto Gibbs. "Non si tratta di una storia strappalacrime, [ma la difesa] si trova ad affrontare lo svantaggio di dover dimostrare il contrario molto tempo dopo".

Parlando a un'aula gremita, Gibbs ha usato la sua arringa per rivedere puntualmente la denuncia di ogni presunta vittima e suggerire alla giuria i motivi per cui le ritiene fallaci. 

"La realtà è che le false accuse, anche quelle apparentemente convincenti, esistono davvero", ha detto. "Non sempre, ma a volte accadono davvero, soprattutto quando ci sono di mezzo fama, denaro, sesso, segreti, vergogna e confusione sessuale". 

Riguardo alla “presa dell'inguine”, Gibbs ha detto che si tratta di una "finzione progettata per drammatizzare e dare dignità a una reimmaginazione, molto tempo dopo gli eventi, di tutto ciò che è realmente accaduto tra i due uomini". Ha inoltre affermato che la data del presunto incidente è stata smentita da documenti e testimonianze di Elton John e di suo marito David Furnish, oltre che dal modo in cui Spacey ha viaggiato per recarsi all'evento di Windsor.

Gibbs si è poi soffermato sull'evento di beneficenza, durante il quale Spacey avrebbe fatto commenti sessualmente aggressivi prima di bloccare il denunciante a un muro e afferrargli il pene. "Ci sono parole che attirano l'attenzione", ha detto Gibbs. "Cazzo è una, scopare è un'altra, succhiare è una terza". "Non è stato sentito da nessuno", ha concluso, indicando le testimonianze di alcune persone che si sono occupate dell'evento di beneficenza e che hanno negato di aver sentito Spacey fare commenti sessuali o di averlo visto aggredire qualcuno. […]

Per quanto riguarda la denuncia più grave, in cui Spacey è accusato di aver praticato sesso orale a un uomo mentre era addormentato o incosciente, Gibbs ha fatto riferimento ai tabulati telefonici che, a suo dire, smentiscono la versione dei fatti della presunta vittima.

 L'uomo ha affermato di essere rimasto incosciente per circa cinque ore, fino al mattino, mentre Spacey ha detto che l'incontro consensuale è durato circa due ore prima che l'uomo cambiasse atteggiamento e lasciasse rapidamente l'appartamento. I "vecchi" tabulati telefonici di Spacey mostrano che ha effettuato una chiamata di 19 secondi all'uomo intorno a mezzanotte e mezza e una serie di chiamate e messaggi nei mesi successivi. 

Interrogato sui tabulati telefonici al banco dei testimoni, la presunta vittima ha detto di non aver mai ricevuto chiamate o messaggi successivi da Spacey e ha suggerito che l'attore potrebbe aver usato un "malware" per farli sembrare inviati.

"Un malware che genera messaggi di testo casuali a persone a cui hai fatto un pompino?". Ha detto Gibbs nella sua arringa finale. "Si potrebbe dire che qualcuno ha guardato troppo CSI". 

L'avvocato ha anche messo in dubbio l'affermazione dell'uomo di essersi "addormentato" nell'appartamento di Spacey. "Le cose erano così noiose, così soporifere nell'appartamento del premio Oscar che si è appisolato?”, ha chiesto Gibbs, con la voce carica di incredulità.

Gibbs ha cercato di dipingere Spacey come un uomo decisamente poco passionale, dicendo che era "comprensibile" che volesse ubriacarsi in un pub del Gloucestershire dove la gente lo chiama "K-dog" piuttosto che "Lex Luthor". "Che possa trovare interessante almeno quanto stare su un tappeto rosso e sorridere per la telecamera con qualcun altro che ha vinto un Oscar", ha detto Gibbs. 

L'avvocato ha anche parlato della "cancellazione" di Spacey dopo le accuse mosse contro di lui dall'attore Anthony Rapp nel 2017. Ha fatto due volte riferimento alla "mostrificazione" di Spacey e ha elogiato Elton John e Furnish per il loro "coraggio" nell'accettare di essere testimoni della difesa. 

Gibbs ha dichiarato che, nonostante gli "ovvi rischi di associazione con un uomo il cui nome è diventato tossico", il duo ha accettato di testimoniare lunedì in videoconferenza da Monaco riguardo alla presenza di Spacey al loro annuale White Tie and Tiara Ball all'inizio degli anni 2000, nonché se l'attore abbia mai visitato la loro casa di Windsor in altre occasioni.

"Per il loro eterno merito, [John e Furnish] sono rimasti in piedi e hanno contato come testimoni nella difesa di un uomo che è stato universalmente cancellato", ha detto Gibbs. "Rischiando senza dubbio l'ira di Internet per essere associati a un uomo a cui non è stato permesso di lavorare negli ultimi sei anni". 

Dopo che Gibbs ha terminato le sue dichiarazioni conclusive, Spacey si è avvicinato all'avvocato e gli ha dato una pacca sulla spalla, apparentemente in segno di gratitudine.

Ivan Marra per cinema.everyeye.it il 21 luglio 2023.

Sono giorni decisivi per la vicenda Kevin Spacey: l'attore si trova in questi giorni a doversi difendere in tribunale dalle ben note e molteplici accuse di molestie rivolte nei suoi confronti negli anni scorsi, e nel farlo è tornato ancora una volta ad affrontare la tanto discussa questione del suo coming out. 

Come probabilmente ricorderete, Zachary Quinto e altri avevano accusato Spacey di aver fatto coming out solo per distrarre l'opinione pubblica da quanto gli stava accadendo: un'accusa di cui la star di American Beauty ha parlato proprio in queste ore, chiarendo di non aver mai agito con quest'intenzione. 

"Su di me avvertivo tantissima pressione, sapevo di dover fare qualcosa. Se non avessi detto che sono gay sarebbe stato un incubo dal punto di vista dei danni d'immagine. Ora però capisco anche la reazione di molte persone di fronte a quella scelta. [...] La comunità gay mi invitava da tempo a uscire allo scoperto, l'ho fatto solo allora per mettere una volta per tutte a tacere le voci sulla mia sessualità" sono state le sue parole. 

Spacey ha concluso: "Ora che le accuse che mi ha fatto Anthony Rapp si sono rivelate false, forse qualcuno potrà comprendere meglio il perché della mia decisione di allora". Vedremo se queste spiegazioni basteranno: nei giorni scorsi, intanto, una delle presunte vittime di Spacey l'ha paragonato al John Doe di Seven.

Estratto da lastampa.it sabato 15 luglio 2023.

«Molto aperto, a volte promiscuo: ma questo non fa di me una cattiva persona». Nuovi elementi sono emersi dalla prima testimonianza di Kevin Spacey al processo londinese che lo vede imputato di cattiva condotta sessuale. 

L’attore si è sforzato di trattenere le lacrime raccontando di come le accuse per violenza sessuale abbiano sconvolto la sua carriera. «Il mio mondo è esploso», ha detto Spacey in aula. «C’è stata una corsa al giudizio e prima ancora che la prima domanda fosse posta o avesse avuto risposta, ho perso il lavoro, ho perso la mia reputazione, ho perso tutto nel giro di pochi giorni».

[...] Le odierne accuse che invece lo vedono imputato a Londra sono relative all’aggressione sessuale nei confronti di quattro uomini: per tre di loro, Spacey nel controinterrogatorio ha negato ogni responsabilità e ha definito «passaggio maldestro» l’aver afferrato l’inguine del quarto accusatore. 

gli [...] è stato chiesto se potesse aver ignorato o capito male i segnali delle persone con cui ha interagito. Spacey ha risposto di aver «decisamente interpretato male» i segnali di uno dei denuncianti, aggiungendo: «E lo accetto». [...] Spacey ha risposto che trovava più difficile fidarsi delle persone «a causa di quello che ero».

Estratto dell'articolo di blitzquotidiano.it venerdì 7 luglio 2023.

In questi giorni l’attore Kevin Spacey […] sta affrontando un nuovo processo per violenze sessuali nel periodo in cui era direttore artistico di un importante teatro di Londra, l’Old Vic Theatre. 

La procuratrice Christine Agnew, come raccontano i tabloid inglesi, lo ha definito “un uomo che non rispetta i confini o lo spazio personali, un uomo che sembra divertirsi nel far sentire gli altri impotenti e a disagio, un bullo sessuale“. Anche a Londra Kevin Spacey si è dichiarato innocente.

In aula intanto è stata divulgata la testimonianza di uno dei quattro uomini che lo ha denunciato. Spacey, le parole dell’accusatore, lo avrebbe afferrato “come un cobra”. L’uomo dice di aver incontrato l’attore premio Oscar a un evento in un teatro del West End nel 2005. 

Nella registrazione dell’interrogatorio della polizia, che è stata divulgata nel corso dell’udienza, la vittima ha raccontato che Spacey “puzzava di alcol” e “sembrava spettinato”. “La mia prima impressione è che fosse molto arrogante, mi trattava dall’alto in basso”. 

“Ha guardato la mia regione inguinale. È stato molto aggressivo. Nessuno mi ha mai parlato in quel modo. Era tutto hardcore”: Poi Spacey lo avrebbe afferrato: “con una tale forza che è stato davvero doloroso”. E qui la similitudine “come un cobra”. 

“Ricordo di essermi congelato e di aver spinto via il suo braccio e di essermi sentito scioccato e frustrato dal fatto che qualcuno era così squallido nei miei confronti”.

Kevin Spacey, le nuove accuse di violenza: "Mi svegliai mentre faceva questo su di me". Alice Coppa su Notizie.it l'11 Luglio 2023

Una nuova testimonianza shock è stata ascoltata in aula alla Southwark Crown Court di Londra nel processo per abusi contro Kevin Spacey.

Kevin Spacey: le accuse del testimone

4 uomini hanno denunciato il celebre attore Kevin Spacey per 12 capi d’accusa relativi a reati sessuali e nella terza settimana del processo, riferisce il sito americano di The Hollywood Reporter, alla giuria è stato mostrato un video di un’intervista della polizia risalente al 2007 in cui la quarta presunta vittima ha raccontato l’abuso che avrebbe subito da parte dell’attore nella sua abitazione.

L’uomo in questione lascia intendere di esser stato in qualche modo drogato da Spacey che, infine, avrebbe abusato di lui. Dopo un periodo di tempo imprecisato l’uomo si sarebbe svegliato sul divano presente nella casa dell’attore e avrebbe trovato Spacey inginocchiato sul pavimento intento a praticare del “sesso orale su di lui” dopo avergli aperto i pantaloni. La presunta vittima a seguire si sarebbe allontanato da casa dell’attore e, a suo dire, lo stesso Spacey gli avrebbe intimato di non dire nulla di ciò che era avvenuto.

L’attore – che ha fatto coming out quando sono emerse le prime accuse di abusi ai suoi danni – si è sempre dichiarato innocente e al momento non ha rilasciato dichiarazioni.

Estratto dell'articolo di tg24.sky.it mercoledì 26 luglio 2023.

L'attore statunitense Kevin Spacey è stato dichiarato non colpevole da una giuria presso un tribunale di Londra nel processo in cui era accusato di aver commesso reati sessuali nei confronti di quattro uomini. Il 64enne premio Oscar è stato assolto da nove accuse, tra cui violenza sessuale e induzione di attività sessuali senza consenso. 

I presunti abusi e molestie sessuali contestate a Londra riguardavano vicende risalenti a un periodo compreso fra il 2001 e il 2013. Il verdetto della giuria popolare, radunata dinanzi alla Southwark Crown Court, è arrivato dopo circa un mese di udienze. L’attore si era sempre dichiarato innocente rispetto alle accuse, riguardanti una decina di episodi, rivoltegli da 4 uomini più giovani tra cui un ex aspirante attore.

Le accuse erano denunciate in due tranche, prima dal giovane aspirante attore, poi da altri tre uomini che a quel tempo avevano tra i 20 e i 30 anni. Nella fase finale del procedimento la pubblica accusa ha insistito nel presentare il due volte premio Oscar come un personaggio che ha sfruttato il suo potere e la sua influenza nel mondo dello spettacolo per abusare di uomini più giovani di lui sostenendo che il suo comportamento andasse giudicato alla stregua delle molestie sessuali commesse ai danni di donne e denunciate dal movimento MeToo.

L'avvocato difensore di Spacey, Patrick Gibbs, ha invece negato ogni accusa, sebbene l'attore abbia riconosciuto di essere una persona "promiscua" e ammesso di aver fatto uso di droghe "ricreative" ma allo stesso tempo ha negato con forza di aver approfittato del suo ascendente e di aver agito in modo non consensuale. […]

Kevin Spacey e le denuncia per molestie: «Non mi sono mai nascosto, non ho vissuto in un grotta». Stefania Ulivi, inviata a Torino su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

L’attore a Torino per tenere una masterclass e ricevere un premio si confessa

Prove tecniche di ripartenza dopo una assoluzione per molestie ma con ancora altri procedimenti penali in corso. Kevin Spacey è in Italia in visita ufficiale, invitato dal Museo del cinema di Torino per tenere una masterclass e ricevere il premio Stella della Mole, con la proiezione di American Beauty, per cui vinse il suo secondo Oscar. “Non chiamatela ripartenza” dice nell’incontro stampa in un albergo torinese. Di vicende giudiziarie l’attore 63enne non parla, c’è un processo in corso – nei giorni scorsi qui da Torino ha dovuto collegarsi con l’udienza davanti al giudice della Southwark Crown Court di Londra, dichiarandosi non colpevole dei capi di accusa contestatigli -, la star de I soliti sospetti e House of cards parla di come ha vissuto gli ultimi anni. “La mia vita è andata avanti. Non mi sono mai nascosto, non ho vissuto in una grotta. Sono andato al ristorante, ho visto amici, incontrato persone, anche lavorato. Sono grato a Franco Nero che mi ha voluto nel suo film L’uomo che disegnò Dio, per il gesto ancora prima che per la parte”.

Una carriera la sua che ha un prima e un dopo l’ottobre 2017. Lo avevamo lasciato sul set di Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott, da cui fu sostituito, con il film già al montaggio, con Cristopher Plummer che dovette rigirare tutte le sue scene. Travolto dall’accusa di aver molestato nel 1996 Anthony Rapp, all’epoca quattordicenne, vicenda per cui ha ricevuto un’assoluzione nei mesi scorsi. Dopo quella di Rapp ne sono arrivate altre, alcune archiviate, e altre in corso come quella partita dalla denuncia di un uomo per diversi episodi avvenuti tra il 2001 e il 2004. I ruoli memorabili come il Lester Burnham di American Beauty o il Frank Underwood di House of cards sono alle spalle, pronto a parlarne come farà nella masterclass. Oggi arrivano film come “Once upon a time in Croatia” di Jacov Sedlar, sulla figura, molto controversa, del leader Franjo Tudjiman. O quello che ha girato in North Carolina “Peter 58” del giovane Micheal Zaiko Hall. “La vita è piena di occasioni e opportunità di imparare. A volte è importante stare in silenzio e ascoltare, e nel silenzio trovare le risposte”.

Quindi, cancelliamo Kevin Spacey? Pedro Armocida il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

C'è chi dice no. No, non va bene dare un riconoscimento artistico, la Stella della Mole del prestigioso Museo del Cinema di Torino, a un attore due volte Premio Oscar. Perché no? Perché Kevin Spacey, che lunedì riceverà il riconoscimento dalle mani del presidente del museo Enzo Ghigo e da Vittorio Sgarbi sottosegretario alla Cultura, è accusato di molestie sessuali. Ieri il quotidiano di Torino, La Stampa, rilanciava le posizioni di Cinzia Spanò, una delle fondatrici dell'associazione Amleta che raccoglie le testimonianze di chi ha subito molestie nel mondo del cinema, per la quale «cultura e violenza non possono stare insieme» mentre Laura Onofri di Se non ora quando? s'è detta convinta che non si può dare spazio a una persona «che ha avuto questo tipo di problemi». Va ricordato che la prima denuncia, la più famosa perché scoperchiò un vaso di Pandora pieno di altre accuse odiose (abusi sessuali su minori, come quella dell'attore Anthony Rapp che nel 2017, sull'onda del caso Weinstein, lo accusò di molestie avenute nel 1986 quando Spacey aveva 26 anni e lui 149 si sia conclusa con un'assoluzione «perché il fatto non sussiste», così ha sentenziato nell'ottobre scorso la giuria della causa civile a New York. Intanto in questi cinque anni l'attore sessantatreenne che, in seguito alla prima accusa, ha fatto coming out dichiarando la propria omosessualità, è diventato persona non grata a Hollywood e la sua carriera s'è interrotta forse per sempre. È la conseguenza dei processi mediatici che non sono mai equi e giusti né per i presunti colpevoli né per le vittime a cui va tutta la solidarietà. Vedremo come andrà a finire con l'incriminazione per molestie sessuali nei confronti di tre uomini, all'epoca pre-adolescenti, nel Regno Unito. Spacey proprio ieri si è dichiarato innocente in video collegamento (è già a Torino dove lunedì terrà anche una masterclass) di fronte al giudice dell'udienza introduttiva del processo che si terrà in estate. Ma intanto, oggi, è un uomo libero, innocente come chiunque fino a che una sentenza non ne dichiari la colpevolezza, che può ritirare un premio che riconosce giustamente le qualità attoriali d'uno dei grandi interpreti della storia del cinema (American Beauty) e delle serie tv (House of Cards).

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per "Il Messaggero" il 10 gennaio 2023.

«Ci è voluto coraggio per scritturarmi, mentre molti altri hanno avuto paura. E per questo sarò sempre grato a Franco Nero». Kevin Spacey racconta in esclusiva al Messaggero la sua rinascita avvenuta grazie a un film italiano, girato a Torino: L'uomo che disegnò Dio, diretto appunto da Nero. Il grande attore americano, 63 anni, due Oscar e una carriera leggendaria, camaleontica, parla per la prima volta dopo cinque anni. Anni lunghi una vita in cui, travolto dalla furia giustizialista del movimento #MeToo con le sue denunce a scoppio ritardato, è finito sotto processo per molestie sessuali ed è stato messo al bando da Hollywood. (…)

Perché ha scelto di tornare al cinema proprio con questo film?

«Come tutti gli attori, vado dov'è il lavoro. Ma a dire la verità è stata la decisione di Franco Nero di scritturare proprio me a farmi accettare la proposta. Ha avuto coraggio, mentre tanti altri hanno avuto paura. La mia gratitudine per lui sarà per sempre».

 Non le dispiaceva non essere il protagonista?

«La parte era piccola, ma l'invito aveva un grande significato. Ho detto di sì non tanto al ruolo che avrei interpretato sullo schermo quanto al ruolo che Franco stava giocando nella mia vita».

(…)

 E adesso che progetti ha?

«Stanno succedendo tante di quelle cose che è difficile pianificare. Un tempo avevo un programma del tutto diverso e decidevo le opportunità su tutta la linea. Ma ora il lavoro più importante che voglio fare non riguarda la recitazione».

Cosa intende?

«Riguarda me stesso e gli altri. Ogni giorno rappresenta un'opportunità di fare meglio, far ridere qualcuno per contribuire a rendere buona la sua giornata. E in passato non mi sono concentrato come avrei potuto su questo aspetto. Come molti attori ho guardato troppo a me stesso».

 (...)

Dagospia l’11 gennaio 2023. “UN’ESCLUSIVA MONDIALE A KEVIN SPACEY PUÒ SUSCITARE INVIDIE. È UMANO, ANCHE SE UN PO’ PATETICO” – GLORIA SATTA SCRIVE A “DAGOSPIA” E RISPONDE PICCATA A VALERIO CAPPELLI CHE L’AVEVA ACCUSATA DI AVER ACCETTATO L’INTERVISTA CON L’ATTORE CON LA CLAUSOLA CHE LE IMPEDIVA DI FARE DOMANDE SULLE VICENDE GIUDIZIARIE: “BASTA UN MINIMO DI ESPERIENZA DI GIORNALISMO PER SAPERE CHE NESSUNO PARLEREBBE MAI PUBBLICAMENTE DEI PROCESSI. C’È CHI MASTICA AMARO, MA…”

LA RISPOSTA A "DAGOSPIA" DI GLORIA SATTA A VALERIO CAPPELLI 

Carissimo Dago,

capisco che un’esclusiva mondiale come la prima intervista a Kevin Spacey dopo cinque anni e rotti di silenzio, dovuto alle sue vicende giudiziarie, possa suscitare invidie. E’ umano, anche se un po’ patetico.

 Basta un minimo di esperienza di giornalismo per sapere che nessuno parlerebbe mai pubblicamente dei processi che lo vedono imputato, specie se ultra-delicati, e ancora in corso.  Spacey, di cui ho correttamente riportato la situazione giudiziaria, ha tutto il diritto di non prendere posizione dell’argomento per difendersi nelle sedi opportune.

Giornalisticamente, era molto più interessante ascoltare dopo tanto tempo la voce dell’attore ostracizzato sulla base di semplici accuse, fargli raccontare in prima persona la sua rinascita cinematografica, registrare le sue emozioni e i suoi progetti. Lo ringrazio ancora per avermi concesso l’intervista.

C’è chi mastica amaro, ma altri ringraziano Il Messaggero per aver ridato la voce al più grande attore della sua generazione. E sono la maggioranza.

Alessio Mannino per mowmag.com l’11 gennaio 2023.

 Martedì 10 gennaio il Messaggero mette a segno uno scoop mondiale: la prima intervista a Kevin Spacey dopo il proscioglimento dall’accusa di molestie sessuali all’attore Anthony Rapp, che sulla scia del movimento #MeToo aveva fatto causa nel 2020 alla star hollywoodiana, ventiquattro anni dopo i fatti.

 La firma dell’articolo è di Gloria Satta, e leggendola salta all’occhio un, chiamiamolo così, particolare: del processo giudiziario di Spacey nemmeno un cenno nelle domande, a parte naturalmente averlo ricordato nell’attacco del pezzo e avergli pudicamente chiesto che cosa gli “hanno insegnato gli ultimi anni”.

Immancabilmente presenti le frasi di rito su quanto apprezzi l’Italia (“Adoro il vostro Paese”) e soprattutto la felicità per essere tornato a lavorare, con ringraziamenti ad abundantiam a Franco Nero, che in qualità di regista lo ha chiamato nel film “L’uomo che disegnò Dio” per la parte della rinascita.

 Più che uno scoop, diciamo sicuramente un’esclusiva planetaria. Complimenti al Messaggero e alla Satta. Accade però che, sempre in data 10 gennaio, Pier Paolo Mocci, ex cronista del Messaggero e oggi curatore editoriale di Fortune Italia, sul proprio Facebook scriva un lungo post di felicitazioni per la Satta sotto il quale, fra i commenti, ne spunti uno di Valerio Cappelli, giornalista del Corriere della Sera, che rivela un retroscena interessante.

Questo: “A me era stata proposta due mesi fa (l’intervista, ndr) e d’intesa col giornale ho detto no, perché l’attore Kevin Spacey non voleva parlare della sua vicenda giudiziaria. Infatti non ne ha parlato”. E conclude così: “Bisogna sapere di no, a volte”.  Alla replica di Mocci, che difende la Satta, a suo dire brava nel riuscire a “girare intorno alla cosa”, Cappelli chiarisce meglio il concetto: “Ho rinunciato perché la richiesta dei suoi avvocati era un insulto a questa professione (…) un po’ di schiena dritta farebbe bene a tutti. Passo e chiudo”.

In sostanza, secondo Cappelli l’esclusiva era “telefonata”,  imboccata, cioè proposta probabilmente anche ad altri, e sicuramente al Corriere, ma c’è chi non ha voluto sottostare a una clausola-capestro, e chi invece ha accettato.  E altrettanto probabilmente, la motivazione dei legali di Spacey non si riferiva soltanto all’ultimo caso chiuso a fine ottobre 2022, dopo altri due archiviati nel 2019 e nel 2020, ma anche alle accuse di violenze sessuali ancora in piedi, da parte di altri tre uomini per cui potrebbe nuovamente tornare a processo quest’anno, ma stavolta  in Inghilterra.

Dagospia l’11 gennaio 2023. “UN’ESCLUSIVA MONDIALE A KEVIN SPACEY PUÒ SUSCITARE INVIDIE. È UMANO, ANCHE SE UN PO’ PATETICO” – GLORIA SATTA SCRIVE A “DAGOSPIA” E RISPONDE PICCATA A VALERIO CAPPELLI CHE L’AVEVA ACCUSATA DI AVER ACCETTATO L’INTERVISTA CON L’ATTORE CON LA CLAUSOLA CHE LE IMPEDIVA DI FARE DOMANDE SULLE VICENDE GIUDIZIARIE: “BASTA UN MINIMO DI ESPERIENZA DI GIORNALISMO PER SAPERE CHE NESSUNO PARLEREBBE MAI PUBBLICAMENTE DEI PROCESSI. C’È CHI MASTICA AMARO, MA…”

LA RISPOSTA A "DAGOSPIA" DI GLORIA SATTA A VALERIO CAPPELLI 

Carissimo Dago,

capisco che un’esclusiva mondiale come la prima intervista a Kevin Spacey dopo cinque anni e rotti di silenzio, dovuto alle sue vicende giudiziarie, possa suscitare invidie. E’ umano, anche se un po’ patetico.

 Basta un minimo di esperienza di giornalismo per sapere che nessuno parlerebbe mai pubblicamente dei processi che lo vedono imputato, specie se ultra-delicati, e ancora in corso.  Spacey, di cui ho correttamente riportato la situazione giudiziaria, ha tutto il diritto di non prendere posizione dell’argomento per difendersi nelle sedi opportune.

Giornalisticamente, era molto più interessante ascoltare dopo tanto tempo la voce dell’attore ostracizzato sulla base di semplici accuse, fargli raccontare in prima persona la sua rinascita cinematografica, registrare le sue emozioni e i suoi progetti. Lo ringrazio ancora per avermi concesso l’intervista.

C’è chi mastica amaro, ma altri ringraziano Il Messaggero per aver ridato la voce al più grande attore della sua generazione. E sono la maggioranza.

Alessio Mannino per mowmag.com l’11 gennaio 2023.

 Martedì 10 gennaio il Messaggero mette a segno uno scoop mondiale: la prima intervista a Kevin Spacey dopo il proscioglimento dall’accusa di molestie sessuali all’attore Anthony Rapp, che sulla scia del movimento #MeToo aveva fatto causa nel 2020 alla star hollywoodiana, ventiquattro anni dopo i fatti.

 La firma dell’articolo è di Gloria Satta, e leggendola salta all’occhio un, chiamiamolo così, particolare: del processo giudiziario di Spacey nemmeno un cenno nelle domande, a parte naturalmente averlo ricordato nell’attacco del pezzo e avergli pudicamente chiesto che cosa gli “hanno insegnato gli ultimi anni”.

Immancabilmente presenti le frasi di rito su quanto apprezzi l’Italia (“Adoro il vostro Paese”) e soprattutto la felicità per essere tornato a lavorare, con ringraziamenti ad abundantiam a Franco Nero, che in qualità di regista lo ha chiamato nel film “L’uomo che disegnò Dio” per la parte della rinascita.

 Più che uno scoop, diciamo sicuramente un’esclusiva planetaria. Complimenti al Messaggero e alla Satta. Accade però che, sempre in data 10 gennaio, Pier Paolo Mocci, ex cronista del Messaggero e oggi curatore editoriale di Fortune Italia, sul proprio Facebook scriva un lungo post di felicitazioni per la Satta sotto il quale, fra i commenti, ne spunti uno di Valerio Cappelli, giornalista del Corriere della Sera, che rivela un retroscena interessante.

Questo: “A me era stata proposta due mesi fa (l’intervista, ndr) e d’intesa col giornale ho detto no, perché l’attore Kevin Spacey non voleva parlare della sua vicenda giudiziaria. Infatti non ne ha parlato”. E conclude così: “Bisogna sapere di no, a volte”.  Alla replica di Mocci, che difende la Satta, a suo dire brava nel riuscire a “girare intorno alla cosa”, Cappelli chiarisce meglio il concetto: “Ho rinunciato perché la richiesta dei suoi avvocati era un insulto a questa professione (…) un po’ di schiena dritta farebbe bene a tutti. Passo e chiudo”.

In sostanza, secondo Cappelli l’esclusiva era “telefonata”,  imboccata, cioè proposta probabilmente anche ad altri, e sicuramente al Corriere, ma c’è chi non ha voluto sottostare a una clausola-capestro, e chi invece ha accettato.  E altrettanto probabilmente, la motivazione dei legali di Spacey non si riferiva soltanto all’ultimo caso chiuso a fine ottobre 2022, dopo altri due archiviati nel 2019 e nel 2020, ma anche alle accuse di violenze sessuali ancora in piedi, da parte di altri tre uomini per cui potrebbe nuovamente tornare a processo quest’anno, ma stavolta  in Inghilterra.

Barbara Costa per Dagospia sabato 12 agosto 2023.

“Grazie a tutti gli uomini e le donne che ho f*ttuto quest’anno!!!”. Questo il "sentito" ringraziamento di Kira Noir, sul palco degli Oscar del Porno 2023. Kira Noir ha vinto l’Oscar più ambito: lei è la Miglior Pornostar Donna. Ma sbaglia chi sui media riporta che Kira Noir è la prima pornostar "di colore" ad ottenere un tale riconoscimento. È vero, verissimo che, in 40 anni di Oscar Porno, a nessun’attrice non bianca era andata codesta statuetta, e però, di che "colore" è Kira Noir ? Lasciate stare il suo cognome d’arte, c’entra niente. C’entra che Kira non è black, non è afro, non è di "quel" colore per cui i "corretti" si scapicollano a tifare. Ma poi, p*rcaccia miseria, "di colore"…!!!

Solo a pensarlo c’è da andarsi a nascondere. Siamo tutti di un qualche colore, cribbio!!! E ad ogni modo, e per chi ci tiene, Kira Noir non è nera, non è bianca, non è gialla, non è… Kira ha mamma e papà e nonni afro, europei, giamaicani, cinesi, e indios. Tutto miscelato in un "colore" che è il suo e che "tinge" pelle e anima di questa superlativa femmina californiana ma solo di nascita (Kira è cresciuta a Nashville) che ha 29 anni, ed è nel porno da quasi 8.

Kira che non ha mai fatto altro se non sex works (già, lei prima di darsi al porno era una stripper, una spogliarellista di grido, ma coi capelli corti, rossi, e nome d’arte Mary Jane, nei club "Hustler", quelli di Larry Flynt) e a oggi ha recitato in oltre 500 video, tra scene e film completi, sia gonzo (solo e solo sesso) che no. Kira è tra le pornostar a cui il presente irride sì per il grandioso traguardo raggiunto, molto di più perché lei è una star del porno che attualmente tanto si gira: quello con plot definiti e doti recitative alte, prodotto in serial. 

La statuetta quale Miglior Attrice in carica è la sesta che Kira può deporre nella sua bacheca. Negli anni scorsi ha fatto incetta di Oscar quale Best attrice non protagonista, vincendone 3 per 3 volte consecutive, un altro primato nel settore. Uno dei porno di cui Kira va più fiera è "Kira vs. Kira", rilasciato lo scorso gennaio e porno di vulcanico, selvaggio sesso torrido…tra sole ragazze.

Si distingue per una lesbica gang-bang, con doppio anal, mediante minacciosissimi sex toys, e anal che di rado manca nei porno di Kira, essendo lei provetta anal-queen. La perfezione del suo lato B è il suo marchio di fabbrica. E Kira è altresì attrice che poco e nulla è intervenuta sulle sue curve, rimaste da chirurgo intatte, eccetto il seno. Non è più piatta come mamma l’ha fatta. E, gesù, quelle labbra, quella bocca, è naturale! Ma pure gli zigomi???

Kira non teme concorrenza, nemmeno dell’esercito infinito di sex ninfette che fanno chiasso su OnlyFans coi loro porno amatorial. In quanto Best Attrice in carica, è piena di prenotazioni e lavoro: ha terminato "Machine Gunner", un porno 007, un thriller porno, un porno d’azione, dove il sesso il più ferino non latita, ma pure porno di suo recitato, e Kira ne è la protagonista: lei è un agente dei servizi segreti in missione per conto del governo USA. Deve stanare un collega traditore che poi si rivela essere il suo ex…

Alle nuove arrivate, Kira raccomanda di fare tutto il contrario di quello che ha fatto lei. Lei si è sposata a 18 anni, con uno di 10 anni più grande, e marito che per nulla gradiva che lei facesse la spogliarellista per campare, e farlo campare. Quanto volete sia durata, un’unione tale? Quanto un gatto in tangenziale! Kira per prima lo riconosce: lei non sa fare altro che non sia performance sessuale. 

Sebbene Kira non intenda ma nel modo più categorico piantare il porno – è pure da un triennio ambasciatrice Pornhub, e suo viso e corpo di punta – lei consiglia di dotarsi di un lavoro “nel mondo reale”, alternativo al porno mentre nel porno ci si prova. Kira il porno lo ha s-p-o-s-a-t-o, per questo si è presentata con su un abito da sposa “slut wife style” agli Oscar! Miei cari e care, l’energia sessuale che Kira porta e sprizza nei suoi video, e che tanto ci piace, è energia sua, è fisicità sua, intelligenza sua, e di nessun’altra: quante tra le attricette che un giorno sì e l’altro pure sui social si atteggiano a porno dive, arriveranno al suo livello? E ancora: ci avete fatto caso?

Black, white, ebony… tutti aggettivi vituperatissimi, ma che il porno usa e seguita a usare, imperterrito. Il porno, di ogni moda e trend "giusto", adeguato, se ne stra-frega. Il porno è cinico. Tali termini servono a vendere, e fanno vendere. Il porno non dispone di salva c*li di nessun tipo. Poggia e confida solo su sé stesso. Non dimenticatevelo mai: nel porno, l’unico colore che conta, è quello dei soldi.

Lady Gaga: 15 anni fa la conquista del mondo con The Fame. Gianni Poglio su Panorama 19 Agosto 2023

Il 19 agosto 2008 usciva The Fame, il best seller che ha dato il via alla carriera trionfale di una delle più grandi performer pop di sempre

Un album di debutto che è diventato storia della musica. Compie 15 anni The Fame il disco che ha imposto Lady Gaga sulla scena mondiale: synth e beat anni Ottanta, melodie accattivanti, ma soprattutto lei, presenza scenica da superstar, carattere, determinazione, travestimento, inclinazione a provocare. Dal punto di vista musicale non c'è nulla che non sia già sentito, ma a fare la differenza c'è il fattore Gaga. Nasce e così un disco di pura pop culture, corredato di testi che celebrano entusiasticamente gli aspetti più insulsi ed effimeri della celebrità. «The Fame riguarda il modo in cui chiunque può sentirsi famoso (ricordate Andy Warhol?). La cultura pop è arte. Non ti rende figo odiare la cultura pop, quindi l'ho abbracciata». Oltre le parole, la musica con una manciata di singoli "spaccaclassifiche" come Poker Face, LoveGame, Paparazzi. Bad Romance, altra hit senza tempo, compare nella ripubblicazione (The Fame Monster) datata 2009. Look glam metal, chitarre e adrenalina dance sono gli ingredienti di Born This Way, il secondo disco, un altro successo trionfale, giusto per chiarire che quello di Gaga è un fenomeno destinato a durare. A lungo. Anche per l'abilità nel cogliere prima di molti altri le connessioni inevitabili tra musica e social. Ma questo è stato solo l'inizio: Lady Gaga, che prima di diventare famosa ha scritto brani per altri artisti come Britney Spears e le Pussycat Dolls e si è esibita per anni nei club underground della Lower East Side di New York, aveva obiettivi molto più ambiziosi. Diventare la regina della pop dance era solo il primo. Ad oggi ha conquistato oltre quattrocento riconoscimenti tra cui 13 Grammy Awards, un Oscar (per il brano Shallow, dalla colonna sonora del film A Star is Born di cui era coprotagonista con Bradley Cooper), 2 Golden Globe, 2 Brit Awards. Gaga (il nome è ispirato all'hit dei Queen, Radio Gaga) ha scelto la strada del pop farsi largo nella mischia della scena alternative newyorkese di inizio Millennio, ma ha sempre mostrato una potentissima attitudine rock: lo dice la sua passione per il Glam degli anni Settanta, per Freddie Mercury David Bowie, le esibizioni in veste di vocalist con i Metallica, la sua presenza nel backstage dei Kiss. Gaga, che a differenza di molte colleghe famose scrive musica e testi delle sue canzoni, è un'artista vera dotata di una versatilità geniale che le consente di surfare tra i generi musicali e le arti. Basti pensare ai due splendidi album "jazzy" incisi con uno dei più grandi crooner di sempre, Tony Bennett, e alle brillanti esibizioni dal vivo con lui. Oppure a un disco spiazzante, ma intrigante come Joanne in cui, oltre ad abdicare a tutte le sue stravaganze estetiche, decide di anche di prendere le distanze dai suoni artefatti e sintetici del suo disco più brutto, Artpop, per andare alle radici della musica americana, tra pop rock, country, folk e soul. E poi, ancora, la credibilità come attrice (House of Gucci e A star is Born) e le canzoni per le colonne sonore. Nella soundtrack di A star is Born ci sono due capolavori della sua discografia: Shallow e Always remember us this way. Nella stessa scia, Hold my hand che accompagna le scene di Top Gun. La storia iniziata quindici anni fa con The Fame è la storia di una delle più grandi performer pop di sempre, un'autrice di canzoni e attrice che cambia pelle quando vuole, che si trasforma e si rigenera senza rinunciare a se stessa. E, infine, un dettaglio fondamentale: quindici anni di successo negli acceleratissimi anni Duemila, non sono una rarità, ma un'eccezione assoluta.

Estratto dell’articolo di Valerio Cappelli per corriere.it il 2 luglio 2023.

Laetitia Casta al Festival di Spoleto, diretta da Safy Nebbou, porta domani una leggenda del pianoforte, «Clara Haskil», la storia della musicista romena morta nel 1960. Una vita difficile, tumultuosa, raccontata dal preludio della sua esistenza alla fuga finale. 

Perché questa storia?

«Non sapevo nulla di lei, non l’avevo mai sentita nominare. Ha avuto un destino pieno di fragilità, una sensibilità straordinaria. Aveva il panico del palco ed ebbe il successo mondiale solo negli ultimi anni. È stata in fuga dal nazismo, ha avuto problemi alla schiena, le applicarono un busto con un trauma che non l’ha mai abbandonata. Da piccola, a Bucarest, ebbe un’infanzia naïf e gioiosa. Poi…».

Poi?

«La sua casa bruciò e il padre, che si buttò tra le fiamme per salvare la sorellina, morì per le ferite. Clara è cresciuta col fratello del padre, uomo severo che la mandò al Conservatorio ma in casa la teneva come in prigione. Mi sono identificata in lei, nella sua anima».

E lei interpreta quindici personaggi...

«Otre a Clara, i suoi familiari, il violinista Arthur Grumiaux, il pianista Dinu Lipatti e Chaplin, di cui Clara fu amica». 

(...)

Lei ha quattro figli.

«Il più grande ha 22 anni ed è andato a vivere da solo a Milano, il più piccolo ne ha 2. La gente lo legge sulle riviste e mi chiede, ma come fai a lavorare e avere quattro figli? Mi guardano come un marziano. Io rispondo, perché non fate la stessa domanda agli uomini? Vuole sapere che madre sono? Una donna libera e i miei bambini lo vedono ogni giorno. Mi fa orrore lo stereotipo della madre perfetta, i cliché: io sono attratta dal lato femminile degli uomini».

E qual è il lato femminile di suo marito Louis Garrel?

Sorride: «Ah, questo deve chiederlo a lui».

È vero che le piace indossare abiti maschili?

«Trovo che lo smoking sia sexy. Mia madre mi voleva sempre carina, io allora per ribellarmi mettevo i pantaloni sotto la gonna. Una persona è complessa. Non mi sono mai innamorata di una donna, ma la scoperta della sessualità è avvenuta con una ragazza. Fu come quando si gioca al dottore e all’infermiera. Oggi c’è una nuova generazione più profonda e libera. Si ama l’anima, non il fatto di essere uomo o donna».

Laetitia Casta: “In Italia mi sento a casa”. Al “Festival dei Due Mondi” di Spoleto interpreta la pianista Clara Haskil. “Un’anima speciale”, dice la modella francese. Che racconta il suo amore per la moda, il cinema, il palcoscenico. E per il nostro Paese. Francesca De Sanctis su L'Espresso il 29 Giugno 2023

Un bel sospiro e via, si va. Dove? In scena al “Festival dei Due Mondi” di Spoleto con il monologo “Clara Haskil. Prélude et fugue”. A interpretarlo sarà Laetitia Casta. Sì, proprio lei, la modella francese amata anche in Italia che, a quanto pare, non teme le sfide, considerando la disinvoltura con la quale si muove tra moda, cinema, teatro. «Un po’ di emozione c’è, ma poi quando sono sul palco mi lascio andare...», ammette lei che ha già raccontato in Francia (con grande successo) la storia di Clara Haskil (1895-1960), pianista rumena dalle doti eccezionali, ebrea in fuga dal nazismo, artista alle prese con la malattia e con la paura di affrontare il pubblico fino alla fama raggiunta in tarda età. Scritto da Serge Kribus, firma la regia Safy Nebbou che aveva già diretto Casta in teatro qualche anno fa (“Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman). Lo spettacolo sarà al Teatro Caio Melisso Spazio Carla Fendi di Spoleto (30 giugno e 1° luglio, al pianoforte Isil Bengi).

Laetitia Casta, racconti di Clara Haskil: che cosa sapeva di lei?

«Nulla, in realtà. Ho scoperto la sua storia leggendo il testo di Kribus. Mi sono immersa nella lettura e subito mi sono entusiasmata all’idea di poterla interpretare sul palcoscenico. Ho cominciato a cercare tutto quello che è stato scritto su di lei. Non c’è molto in termini di biografia, esiste un documentario, qualche libro fotografico, ma niente di più. Quando lo spettacolo ha debuttato in Francia, era la prima volta che la sua vita veniva raccontata in teatro. È stata una vita difficile quella di Clara, ma ha qualcosa di universale e alla fine va verso la luce. Poter interpretare un personaggio così intenso per me è stato un regalo. Certo, se ci ripenso... Ho impiegato un anno per imparare a memoria la parte. In quel periodo ero anche incinta. La passione mi ha fatto dimenticare tutte le difficoltà. Questo lavoro mi chiama, come una voce dal cielo».

Che cosa l’ha conquistata di questa donna?

«Clara ha superato tante avversità: la guerra, la malattia... Una persona molto solitaria, un’anima speciale, sensibile. Ha un carattere difficile, certo, ma è anche un’artista che ha attraversato il mondo. Un personaggio molto interessante per l’epoca».

C’è qualcosa che l’accomuna a Clara?

«Anche se non ho vissuto la guerra né la malattia, ci sono cose che conosco bene: la lontananza dalla famiglia, la difficoltà nel dimostrare sempre di essere a livelli alti in un mondo di adulti. Questo l’ho vissuto sulla mia pelle. Ho iniziato la mia carriera quando ero molto giovane, avevo 14 anni, Clara 12».

A quell’età, scoperta per caso da un fotografo, come ha vissuto l’inizio della sua carriera? Era spaventata?

«Ho vissuto tutto con molta serenità. Ma ora che ho dei bambini posso fare il paragone con la mia vita, che allora mi sembrava normale, mentre normale non era. Lavoravo tanto, era un’esigenza dettata dal mio mestiere, come per Clara. Lei si mette in discussione, è piena di dubbi come artista; ed è una cosa positiva e negativa nello stesso tempo. Volevo affrontare anche questo aspetto della creazione, la dimensione mistica dell’incontro con il pubblico».

L’arte può essere un’ancora di salvezza?

«Noi artisti abbiamo questa fortuna: possiamo mettere da parte la realtà per un momento ed entrare in un mondo in cui connetterci con la gente. È uno degli aspetti più belli del mestiere. Il teatro o il cinema contribuiscono ad affrontare meglio la vita. A me ha aiutato come donna, mi ha fatto crescere e vibrare. Se non vibro come artista, non posso far vibrare il pubblico. E la storia di Clara mi ha davvero toccato il cuore».

In scena non c’è solo Clara, ma anche tutti i personaggi che lei incontra nella sua vita, compresi quelli maschili…

«Sì, ma io entro più nella psicologia dei personaggi che Clara incontra in momenti diversi della sua vita: madre, nonna, zio, professori, amici».

Fra cui Charlie Chaplin.

«Sì, anche se nello spettacolo compare in un momento velocissimo».

Erano grandi amici, però.

«Negli ultimi anni di vita lo sono stati. Si sono conosciuti quando lei era già anziana, in Svizzera, dove vivevano entrambi. Lui aveva molta stima di lei, le ha chiesto di comporre delle musiche per lui, trascorrevano parecchie ore insieme».

La sua carriera è lunga e varia, che cosa le dà il teatro rispetto al cinema o alla moda?

«Io amo tutto, perché sono mondi diversi da esplorare. Mi piace essere libera. Con la moda sento meno pressione, perché la vivo con leggerezza e felicità. Il teatro è la disciplina in cui viene richiesta più energia, ma anche quella in cui me ne viene restituita di più».

Con quali registi italiani le piacerebbe lavorare?

«Ho appena finito di girare il film “Una storia nera” di Leonardo D’Agostini, tratto dal romanzo di Antonella Lattanzi. Amo il cinema italiano: Moretti, Garrone, Bellocchio sono grandi artisti. Questo è il cinema che mi piace e che mi fa sognare».

Ascolta molta musica?

«Sì, sempre. Amo Mozart, per esempio. Clara era una delle più grandi specialiste di Mozart. Ma ascolto diversi generi musicali, quando lavoro la musica è sempre lì».

E con la letteratura che rapporto ha?

«Mi piace molto leggere. Di recente ho comprato un libro sulla scultrice Germaine Richier, un altro sulla storia delle donne in fotografia e poi ho un’amica che mi ha regalato un libro di uno scrittore geniale: “Les éclats” di Bret Easton Ellis».

Autori italiani?

«Conosco poco la letteratura italiana, purtroppo».

Però conosce bene l’Italia.

«Ho un rapporto profondo con l’Italia. Le mie radici sono italiane. La mia bisnonna era toscana: mi piaceva, era libera, forte, generosa, aperta, con senso dell’umorismo. Era anche una donna di casa. E dopo la guerra si è trasferita in Corsica. Avevo 12 anni quando è morta, l’ho frequentata molto. L’Italia è sempre stata presente nella mia vita».

Ha avuto anche una lunga storia con Stefano Accorsi, padre di due dei suoi quattro figli.

«Certo. Anche se era più lui che veniva in Francia. Ma il mio rapporto con l’Italia è precedente, nasce dalla moda. In Italia mi sento a casa, più che a Parigi. Non mi sento tanto parigina, ma mediterranea, riguarda il mio modo di muovermi, è una cosa fisica».

Viviamo in un’epoca complicata, prima il Covid, poi la guerra in Ucraina. Che cosa le manca di più?

«Mi manca qualcuno che abbia una visione, una voce intelligente, una persona con grandi valori. Qualcuno che possa aiutarci e dire: “Attenzione, sta per accadere questa cosa”. Ora per capire la politica bisogna che ciascuno di noi si faccia un’idea da solo. In Francia non siamo lontani da voi politicamente, con Marine Le Pen. E mi dispiace. Ma credo nell’Europa, nella necessità di rimanere uniti, di comunicare, senza giudicare, e trovare una via d’uscita alla guerra».

Gli artisti possono fare la loro parte?

«Certo, hanno la loro maniera di parlare del mondo. Per esempio, il mio prossimo progetto a teatro sarà la messa in scena di “Una giornata particolare” di Ettore Scola, regia di Lilo Baur. In questa storia speciale si parla di omosessualità, guerra, nazismo. Tutto ciò mi interessa e mi piacerebbe portare in scena lo spettacolo anche in Italia».

Il ritorno della Gialappa’s Band su Tv8: «Ma non siamo più in tre, Carlo Taranto non aveva più voglia». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023.

L’ex trio (ora duo) ritorna con un nuovo programma su Tv 8: «Gialappashow»

Questa volta, chi cambia canale non è un burfaldino ma fa la cosa giusta. La Gialappa’s Band torna — finalmente — con un programma tutto suo, ma lo fa in una nuova collocazione: Tv8. «Gialappashow» debutterà a maggio, condotto dal Mago Forest e con tanti comici arruolati: nomi nuovi e vecchie glorie (tra cui Marcello Cesena) che con il trio hanno segnato una bella fetta di tv. Trio che, però, in questa occasione diventa un duo: Carlo Taranto, il signor Carlo, non ci sarà. Terranno le fila di tutto Marco Santin e Giorgio Gherarducci. Ma nemmeno in questa occasione cedono ai sentimentalismi: «Carlo? Ci mancherà molto, soprattutto quando dovremo mandare la pubblicità».

La sua assenza non è una novità: sempre più spesso siete voi due a portare avanti la Gialappa’s.

Santin: «È già da qualche anno che non ha più molta voglia di lavorare. Dietro questa scelta non c’è un litigio o altro. Semplicemente non ne ha voglia. Abbiamo provato a coinvolgerlo ma è stato netto. A me spiace soprattutto per lui, perché alla fine quando si convince a tornare poi si diverte parecchio».

Gherarducci: «Spiace che si levi questo piacere... poi dei tre è quello che ha la memoria migliore, infatti non avremmo potuto fare il nostro libro, Mai dire noi (edito da Mondadori), senza di lui. Ci manca, certo, anche a livello organizzativo: per come curava la scaletta o nella parte delle cronache, ad esempio quelle che abbiamo fatto con i Mondiali, gli Europei o Sanremo. La formula a tre era giusta, ma evidentemente per lui la fatica era superiore al divertimento».

Un’altra separazione è quella con Mediaset.

Santin: «In realtà il progetto di cui parlavano da due anni, cioè quello di rifare degli speciali di Mai dire gol, mi risulta sia ancora in piedi. Vedremo se si concretizzerà». Gherarducci: «Di certo tra l’ipotesi di rifare uno spettacolo rivolto solo al passato o inventarne uno nuovo, che guarda al futuro, questa seconda ci stimolava di più e sembrava anche più sensata».

Santin: «Senza contare che riuscire a trovare delle date in cui tutti i comici che hanno fatto la nostra storia fossero liberi contemporaneamente non è una cosa semplice. Bisio, De Luigi, Cortellesi, Aldo, Giovanni e Giacomo... non potevamo rifare Mai dire gol senza questi pezzi da novanta. Ma, ripeto, non è escluso che prima o poi accadrà. Al momento siamo felici di lavorare a una cosa nuova».

L’impianto del nuovo show sarà il solito?

Gherarducci: «Sì, Forest che conduce più una manica di idioti che gli ruota attorno». Santin: «In più ci saranno i filmati, solo che questa volta riguarderanno i programmi Sky, di tutta la piattaforma... cose che avremmo sempre voluto commentare, tipo Masterchef. Ma non solo».

Gli ultimi mesi sembrano piuttosto positivi per voi, no?

Gherarducci: «Siamo stati rivalutati ma da vivi, il che è piuttosto straordinario». Santin: «Dipende anche dalla scelte che sono state fatte, in realtà. Gli ultimi anni a Mediaset abbiamo commentato un programma che ci piace come Le Iene, ma in cui la nostra presenza era marginale: non spostava gli equilibri per noi. Del resto è uno show che guardi per i servizi».

Gherarducci: «E infatti oggi lo conduce Belén e lo guardano lo stesso. Dopo la fine di quella collaborazione siamo rimasti fermi per un po’: quello si è rivelato essere il momento giusto per scrivere il nostro libro, che è stato molto apprezzato».

Proprio per lanciare il libro siete andati da Fazio e da allora la vostra è diventata una presenza quasi fissa.

Santin: «È successo tutto spontaneamente, con lui come con Cattelan. Ci divertiamo molto e per noi è un ruolo diverso dal solito: andare in video a 60 anni anziché a 35 è una scelta intelligente, poi. Però ci stiamo proprio bene».

Vi preparate a commentare, ancora una volta, la tv: quanto è cambiata dai vostri inizi?

Santin: «Beh i programmi nuovi sono quasi tutti sulle piattaforme e sulle tv satellitari. Rai e Mediaset non sono cambiate moltissimo: puntano sui soliti titoli, tirandoli per mesi. Solo che per commentare otto mesi di “Grande Fratello” servirebbe più che altro un vitalizio».

Cosa ne pensate di una trasmissione come «Lol»?

Gherarducci: «Non lo considero un programma comico, ma più un piccolo reality con dei comici. La riuscita dipende molto dal cast».

Livello dell’ansia a meno di un mese dal debutto?

Santin: «Più a ridosso arriverà. Sentiamo grande entusiasmo, una certa aspettativa c’è. Va anche detto che è una rete molto più piccola, non prevediamo ascolti da tv generalista. In più è un programma che andrà giudicato nel lungo periodo».

Avete un contratto di esclusiva?

Santin: «La nuova regola è: nessuna esclusiva. Soprattutto da quando non le pagano. Abbiamo lavorato al programma di Michelle Hunziker, siamo da Fazio, lavoriamo su Dazn... non ha senso pensare a un’esclusiva».

Vi fa effetto aver segnato più di una generazione con la vostra comicità?

Gherarducci: «È stato un incidente, non volevamo. Ormai mio figlio, che ha 15 anni, mi dice che i suoi professori quando capiscono chi è si entusiasmano. Gli dicono: ma io sono cresciuto con tuo padre».

Santin: «Invece il mio, che è più piccolo, quando gli domandano che lavoro fa tuo papà, risponde: niente. La verità è che la nostra carriera è nata davvero per gioco e nessuno di noi avrebbe scommesso mai sul fatto che sarebbe successo quello che poi è successo».

R.D.G. per “la Repubblica – Roma” il 9 gennaio 2023. 

A 78 anni gioiosamente portati, con quasi 50 stagioni di repliche storiche (ora con novità neo-melodiche) de La Cantata dei Pastori , con verve insolente e candida, divisa nera da scrivano del '700, faccia tosta e guance rosse da risate, e trasformando una sacra rappresentazione in varietà, Peppe Barra commuove, stupisce ed emoziona.

Entrate monellesche in scena, schermaglie, silenzi di sberleffo, duetti cantati. La macchina scenica è un'enciclopedia di passato e presente, con Lamberto Lambertini coautore e regista, e il suo affamato Razzullo è in sintonia col Sarchiapone che Lalla Esposito sa ben impersonare in sembianze maschili, con nuovo cast di buoni e cattivi. Bravi i musicisti. Scenografie da cartoon. Sala Umberto di Roma fino al 15.

Descrivere Lalla Esposito solo come una cantante-attrice vorrebbe dire banalizzare la sua voce, la sua prosa, le braccia, il corpo, la faccia. Un viso che già da solo riempirebbe di sé il palco, senza orpelli o sovrastrutture, nel silenzio scandito dai respiri di chi è andato ad ascoltarla e a vederla.

No, non sto parlando di una bellezza statuaria, ma di un concentrato di donna. Lalla ha quel non so che, quella forza misteriosa, quella cosa che ogni artista vorrebbe per sé: Lalla Esposito incarna il famoso duende descritto meglio e prima di me da Goethe e Lorca. Quel folletto o spiritello (‘o monaciello, detto in dialetto) che “brucia il sangue come un topico di vetri”, che respinge tutta la dolce geometria appresa e rompe ogni stile.

Il suo sopraggiungere presuppone sempre un cambiamento radicale di ogni forma rispetto a vecchi piani, per dare sensazioni di freschezza del tutto inedite. Ciò che in realtà avviene è un qualcosa di nuovo che nulla ha a che vedere con quanto esisteva prima.

 Lei, Lalla, ammette di non avere il fuoco sacro e che non vorrebbe mai lavorare per una raccomandazione, ma bensì essere scelta sia da chi produce sia da chi la va a vederla a teatro: vuole essere la scelta, non l’imposizione.

Tante sono le collaborazioni in vari spettacoli di successo: da Toni Servillo a Roberto De Simone, passando per i fortunati incontri sia con Giuseppe Patroni Griffi con il quale ha preso parte agli spettacoli “Napoli Milionaria” e “Sabato Domenica e Lunedi”; sia quello con Luca De Filippo, con il quale ha lavorato per tre anni nella sua compagnia.

È Bernardina nel “Masaniello” di Porta-Pugliese e ha collaborato per anni con Maurizio Scaparro negli spettacoli “Amerika” e “Don Giovanni” con la musiche di Nicola Piovani. Ha fatto parte della compagnia di Enzo Moscato. I colleghi con i quali ha lavorato hanno nomi importanti, come Lina Sastri; Isa Danieli; Peppe Barra; Mariano Rigillo; Massimo Venturiello; Sal da Vinci e tanti altri ancora.

 Ancora diretta da Armando Pugliese, con cui si intuisce un feeling molto profondo, recita e canta anche in “Napoli chi resta e chi parte”, uno spettacolo tratto da “Caffè di notte e giorno” e “Scalo Marittimo” di Raffaele Viviani e “Teresa Sorrentino” scritto da Elvio Porta con le musiche e canzoni di Sergio Esposito.

Lars von Trier e l’ultimo capitolo della trilogia «The Kingdom»: «La mia terapia è l’horror». Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023.

Il regista danese: «L’humour nero per me è salvifico. La solitudine? È dolorosa, pensavo fosse una forza»

Tutto ebbe inizio con il pianto di una bambina proveniente dal fondo di un ascensore di un ospedale. A sentirlo un’anziana paziente, la signora Drusse, professione medium. Era il 1994, «The Kingdom» di Lars von Trier piombò come un meteorite sulla Mostra del Cinema di Venezia, quasi cinque ore di horror medicale in overdose di humor nero: fantasmi insepolti, feti in barattolo, cancri al fegato coltivati come trofei, lavapiatti con sindrome di Down a commentare tutto con il distacco epico di un coro greco. Osanna, invettive, scandalo, per una serie destinata a diventare di culto. E sempre a Venezia è arrivata nel ’97 la seconda parte e, lo scorso settembre, la terza e ultima, «The Kingdom - Exodus».

L’uscita da un ospedale che, da quando ha saputo di avere il Parkinson, ha assunto per lei ben altro significato...

«La verità è che, sano o malato, ho sempre avuto paura degli ospedali», confessa il regista danese, autore di film come “Dancer in the Dark”, “Dogville”, “Melancholia”. Cacciato da Cannes nel 2011 per alcune dichiarazioni antisemite, superata la dipendenza da droga e alcol, Lars si è scoperto malato. Ma ha continuato a lavorare. E nei giorni scorsi ha ricevuto il premio Marco Melani, regista e critico scomparso nel ’96, celebrato per volere del comune di San Giovanni Valdarno e di Enrico Ghezzi.

«Scegliere un ospedale come sfondo di una storia lunga e spaventosa, è stata senza dubbio una scelta strana — prosegue —. Ma la mia teoria è che l’ansia e la creatività provengano dallo stesso luogo. Si tratta di utilizzare quell’energia in modo positivo».

Quando iniziò «The Kingdom» aveva alle spalle film come «L’elemento del crimine» e «Europa». Come le venne in mente una serie così diversa?

«In realtà era nata per fare un po’ di soldi e salvare la Zentropa, la mia casa di produzione. L’abbiamo presa alla leggera, l’abbiamo scritta in fretta e furia. Nessuno pensava a un tale successo».

E l’idea dell’ospedale dei fantasmi?

«A darmi lo spunto fu “Belfagor”, la prima grande serie europea che ho visto da bambino, ambientata al Louvre. A colpirmi era il fatto che il grande mondo del museo contenesse tante altre piccole storie. La scelta di un ospedale è stata in parallelo. I primi episodi erano horror, ma per via di un cast piuttosto pittoresco, si è insinuato un po’ di humour. Ne è uscito un cocktail divertente che mi ha spinto a ampliare la serie. Questi ultimi episodi si basano quasi solo sull’umorismo, che è più anarchico dell’horror. E più salvifico per il mio umore».

Quindi questa serie è stata una sorta di terapia?

«Per tutta la vita ho sofferto di depressione e sapevo che la cura era il lavoro. Per realizzare “Exodus” ci sono voluti 4-5 anni. Non è un’opera di cui vado particolarmente fiero, ma la collaborazione con gli attori ha funzionato in modo ottimale».

Resta l’eterno conflitto tra danesi e svedesi. Oggi metafora di altri scontri?

«Non ho mai fatto film con intenti morali ma solo seguendo il mio desiderio. Come tutti sono colpito e rattristato da ciò che stiamo trasmettendo ai giovani: ho due nipoti, odio vederli soffrire per colpa dell’ingenuità della mia generazione».

Sta pensando alla guerra?

«È inquietante come il meccanismo dell’attuale sia simile a quello di tutte le altre. Il diavolo ha creato il nazionalismo, che continua a crescere in noi anche se ci consideriamo pacifisti. Il nazionalismo e la religione inventati come difesa della civiltà hanno reso labili i confini tra bene e male. La mia generazione ha vissuto l’età dell’oro della democrazia senza rendersene conto, senza far nulla per fermare un negativo ritorno al passato».

Come auspica il futuro?

«Con il pianeta intatto».

Ha un nuovo progetto?

«Sto creando un database contenente ciò che ritengo di aver sperimentato durante il mio lavoro. L’idea è che chiunque si occupi di cinema o voglia farlo possa consultarlo. Sono stato molto fortunato, ho potuto realizzare quel che volevo quando volevo. Sento il dovere di trasmettere ciò che ho sperimentato».

Il cinema è sempre al centro della sua vita?

«È l’unica cosa che so fare, quindi devo continuare a farlo. Costi l’ansia che costi. A questo punto della vita sono morbosamente solo. Ho sempre creduto che la solitudine fosse una forza, ma devo rendermi conto di quanto possa essere dolorosa».

Laura Chiatti: «Mio marito Marco Bocci? Mai controllato il suo telefono. Un regista mi scaricò perché arrivai in tuta». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 30 Aprile 2023

L’attrice: «Gli insulti per il mio peso? Mi azzuffo con gli haters. Non sono più abituata ai tacchi. Da ragazzina ero ribelle»

Laura Chiatti, nel film di suo marito Marco Bocci, La caccia, che esce l’11 maggio, è con i suoi tre fratelli. Si riuniscono dopo la morte improvvisa del padre. L’eredità nasconde una terribile verità.

Nel film tre maschi e lei, che interpreta una tossicodipendente

«Non credo che la droga sia un aspetto così importante, quello è un passaggio che Silvia (si chiama così il mio personaggio) attraversa per raggiungere un obiettivo che la porta a scansare un passato da dimenticare nella sua disastrata famiglia. È un ruolo a cui sono legata perché in genere mi chiamano per commedie romantiche, dove sono o fatalona o leggerina, e non si guarda mai l’oltre. Invece Marco col mio oltre, con l’aspetto più nero e intimista, ci vive ogni giorno. Ho sempre cercato di camuffare la mia inquietudine».

Il cinema cambia le carte.

«Io vivo tra lacune, rimpianti, insicurezze. Conosco i miei limiti. L’inglese, per dirne uno, lo capisco ma non lo parlo bene, sono pigra, ho dovuto rinunciare a film importanti, anche se quando Sofia Coppola mi prese per Somewhere, con cui vinse a Venezia, imparai la parte tre mesi prima. Uno dei temi di questo film è che Silvia ha accusato in modo più violento i traumi dell’infanzia e ha cercato di trasformarli nell’obiettivo della maternità, attraverso un’altra persona, per mettere al mondo una vita che le faccia dimenticare la sua».

Ma lei nella vita, dopo avere avuto due figli, è sempre così insicura?

«Con la maternità alcune cose si acuiscono e altre si attenuano, Enea e Pablo mi fanno sentire il tempo che passa. Sono apprensiva verso me stessa, a volte si lamentano per i troppi compiti e dico, eh, anche per me era lo stesso. Io non mi vedo così autoritaria».

Non era anche ipocondriaca?

«Questo è un discorsone. Sono un tipo di ipocondriaca al contrario. Non faccio nemmeno mezza visita medica, mi autodiagnostico. Poi per paura vado su Google e resto sempre col dubbio. È un auto-sabotaggio continuo. Però cinque anni fa Marco, mio marito, ha avuto una encefalite, eravamo in camera da letto, sono stata tempestiva nel soccorrerlo. È stato miracolato, difficilmente se ne esce vivi. Quel giorno ho capito la fine della gioventù, la fragilità».

Com’è stato lavorare diretta da suo marito?

«Quando litigavamo gli dicevo: guarda che non lo faccio il film, eh. Ma non ci credeva. Sul set non ho ansia da prestazione, mi diverto, so quello che posso fare bene o meno bene, con Marco ero in ansia perché non ci avevo mai lavorato, lui ama ricevere dagli attori, ne studia la psicologia, è un regista randagio».

E lei è una donna libera.

«Non vado dietro al gregge. E non è un vantaggio. Ho perso incontri, possibilità, film. Sono nata libera e indipendente. Ho cominciato a 14 anni, sono cresciuta in Umbria, in una piccola realtà diversa da Roma o Milano. Canticchiavo, partecipavo ai concorsi di canto, la passione poteva essere quella. Al cinema ho cominciato per caso cercando di capire cosa potesse essere questo lavoro».

Ma da ragazzina cosa sognava di fare?

«La parrucchiera. Il sabato accompagnavo mamma a farsi i capelli e quella era la mia dimensione reale. Venendo dalla provincia, al cinema mi autogestivo, non avendo una formazione teatrale mi sentivo inadeguata. Sul set di Sorrentino, per L’amico di famiglia, ho capito che questo sarebbe diventato il mio lavoro. Venivo da Un posto al sole, Paolo è un regista che giustamente pretende. Non sono mai stata omologata perché non mi sono mai vista uguale alle altre attrici. Ma ho dei riferimenti, sono Golino dipendente. È la mia eroina. Anche lei è libera».

Ha ancora una venerazione per Kate Moss?

«Ora un po’ meno. Le ho regalato un anello, avevo una tee-shirt col suo volto. Ho visto che sua figlia Lila fa l’indossatrice col cerotto, senza nascondere il diabete. È bellissima. Di recente sono rimasta colpita da una delle figlie di Monica Bellucci, che al tempo del film di Giovanni Veronesi, Manuale d’amore 3, quello con De Niro, tenevo in braccio. Era una bambina. Mi fa strano che sia diventata una donna».

Lei è stata lanciata da Federico Moccia.

«No, il regista di Ho voglia di te è Luis Prieto, Moccia aveva scritto il libro da cui è tratto il film, non so lui che fine abbia fatto. Quel film cementò il sodalizio di ferro con Riccardo Scamarcio. L’ho conosciuto a 16 anni, ora vado per i 41. La nostra coppia al cinema andò avanti un bel po’, non so perché. Siamo ancora molto amici».

Essere liberi in un ambiente conformista come il cinema.

«Hai presente quando sei a tavola con altri attori e tutti parlano male di un personaggio politico di destra e io dico che mi sta simpatico? Divento la pecora nera. Me ne sono sempre fregata, non si tratta di essere di destra o di sinistra. Non sto parlando di politica ma di dinamiche che non mi appartengono. Non fingo di essere una intellettuale per avere più credibilità. Sintetizzando in maniera cruda, mi sento più vicina a Valeria Marini che a Laura Morante. Sono istrionica, non ho un’identità precisa, non penso che si possa essere solo in un certo modo, al cinema mi piacciono film di serie A e di serie C».

Torniamo a lei cantante da ragazzina.

«Cantavo alle sagre, in Umbria era atteso per una serata di karaoke Fiorello, di cui ero innamorata, avevo il poster, quelle cose lì, lui lo sa. Quella sera al suo posto arrivò il fratello, Beppe. Io cantai Ma non ho più la mia città di Gerardina Trovato. Ne ho un ricordo bello e malinconico, ho sempre una lieve angoscia che mi accompagna, non vivo mai con spensieratezza, la timidezza che nessuno vede non mi molla. Ero una ribelle, un cavallo imbizzarrito dicevano i prof, ma non in modo insano, avevo 6 in condotta, in classe saltavo dalla finestra e dopo la ricreazione non rientravo, nulla di trascendentale».

Lei viene da una famiglia modesta, giusto?

«Estremamente modesta. Sono cresciuta a Villa di Magione, vicino Perugia. Mio padre faceva il metalmeccanico e rientrava a casa tardi con la tuta piena di grasso e olio, mamma era segretaria nel negozio di maglieria della zia. Sono cresciuta con la nonna, autoritaria ma mi viziava per quanto possibile. Le insegnai io a leggere. Il pomeriggio lo passavo al baretto vicino casa. Le mie amiche, quando tornai dal Festival di Cannes con il ramo di una palma, giocando su quella che danno alla migliore attrice, l’hanno impressa insieme alle impronte delle mie mani sul cemento di una strada, come fanno ai divi in Usa. La mia Hollywood è in una frazione di Perugia. A Cannes ero andata per il film di Sorrentino, i giornali francesi mi definirono la nuova Brigitte Bardot e ne fui lusingata».

I social?

«Mi azzuffo spesso con gli haters, non sopporto quando mi toccano la famiglia o mi dicono che sono diventata anoressica. Reagisco con cinismo o ironia. Avevo preso dieci chili dopo le due gravidanze, li ho persi con una nutrizionista. E mi insultano. Sono sempre stata 53 chili».

E il complesso dell’altezza?

«Ah, quello non ce l’ho più. Sono 1 e 67, per una vita mettevo i tacchi anche se facevo ginnastica. Non sono più abituata, quando certe volte di sera li metto, traballo. Come faccio, gioco a pallone con i miei figli, a volte in porta a volte all’attacco. Ho un animo maschile, cameratesco. Adesso girerò un film con tutte femmine ma non sono preoccupata perché ci conosciamo già tutte, è il seguito di Addio al nubilato».

Nel primo film baciava un’altra donna.

«Lo farò anche nel secondo. Le scene intime sono noiose. Come puoi fare una scena di sesso? È strano, parliamoci chiaro. Esci di casa, vai a lavorare e baci uno che a volte non hai mai visto prima. È sempre imbarazzante, anche per una come me. Sono mezzo uomo e non ho pudore. Io sul set in quelle situazioni non distinguo tra uomo o donna. Se nasce qualcosa con un collega, nasce fuori da quelle scene».

E invece come fu il suo addio al nubilato?

«Meraviglioso e doloroso, aspettavo già Enea, ebbi un distacco di placenta che mi costrinse a letto per venti giorni. Le mie amiche mi organizzarono una festa nel giardino della casa in Umbria dove sono cresciuta. Mi hanno fatto trovare un trono. Io seduta, spettatrice, loro che ballavano. C’era una drag queen e la gigantografia di Kate Moss. Che giornata pazzesca».

Prima ha detto di aver perso occasioni per la sua voglia di libertà.

«Le racconto un episodio che mi fa ancora male. Non dirò il nome, ma un regista molto importante, per un film molto importante, mi fece un provino e mi prese. Al secondo provino mi presentai come sono io, con la tuta e le pinze per fermare i capelli. Mi disse che ci aveva ripensato, avevo un’aria troppo leggera e spensierata per quel ruolo drammatico. Lì mi arrabbiai e gliene dissi di tutti i colori. Perché, non avrei tirato fuori la sofferenza durante le riprese? Io le cose le dico in maniera sfacciata e a volte mi precludo delle occasioni».

Tra la famiglia e il cinema?

«Non ho dubbi, scelgo la famiglia. Ho appena rinunciato a una serie in Trentino che mi avrebbe portato via sei mesi da casa».

Siete belli, lei e suo marito. Gelosi?

«Lui lo è. Io non ho mai letto i messaggi sui cellulari degli altri e del suo: sono come le malattie, visiti visiti e alla fine qualcosa trovi».

Laura, ogni volta che ci parliamo facciamo il conto dei suoi tatuaggi.

«Sono rimasti 14, lì dov’è possibile la copertura. Sono i cicli della vita. Gli ultimi sono i cuoricini dei miei due figli, Enea ha 8 anni e Pablo 6».

Lei è il Totti delle attrici. Libera, diretta, spontanea. Le mancano solo le barzellette.

«Io mi vedo come una che lascia tutto a metà, fatalista. Invece di combattere mi dico, sarà quel che sarà».

Sì, ma fossero tutte vere e simpatiche come lei, le attrici...

Da leggo.it il 2 maggio 2023.

A due giorni dalla polemica che ha investito Laura Chiatti, che a Domenica In ha detto che non tollera «l'uomo che si mette a fare il letto, dare l'aspirapolvere. Mi abbassa l'eros, me lo uccide», interviene un difensore d'eccezione: è Mario Adinolfi, che all'Adnkronos condanna le critiche ricevute dall'attrice e spezza una lancia in suo favore. «La forza di Laura Chiatti è stata quella di affermare che uomo e donna sono diversi», le parole di Adinolfi. 

«La sessualità e l'attrazione scattano tra diversi, inutile il contrario - sottolinea -le polemiche che si sono scatenata per le affermazioni di Laura Chiatti sulla differenza tra uomo e donna sono frutto di una deriva ideologica gender e sono l'occasione per discutere del fatto che se Roberto Vecchioni cantava 'Voglio una donna con la gonna' non deve essere uno scandalo». 

«Il Papa in Ungheria ha detto che tutto ciò che riesce a raccontarci la bellezza della differenza tra uomo e donna è estremamente importante - dice Adinolfi - La tendenza a eliminare le differenze tra o sessi è il valore della così detta ideologia gender. Aggredire la Chiatti solo perché fa una battuta rende chiaro il clima che si respira oggi: c'è ormai la volontà di raccontare sempre un rapporto conflittuale uomo-donna e dentro questo rapporto conflittuale alcuni elementi della femminilità tradizionale sembrano essere diventati dei tabù». 

«Nessuno vuole mettere la catena ai piedi alla donna - tiene a precisare - ma la donna oggi deve essere per forza androgina e l'uomo deve essere per forza mammo? Oppure se c'è una narrazione che qualche volta è anche altra la si può accogliere anche laicamente?», chiede Adinolfi. «Siamo sicuri che per le donne sia stato un vantaggio rinunciare sull'altare del politicamente corretto alcune questioni ed elementi della femminilità tradizionale?», conclude.

Estratto dell’articolo di Arianna Ascione per corriere.it il 19 maggio 2023.

I tempi di Non è la Rai

«Ancora mi si avvicinano per strada per rievocare quei giorni, come se il tempo si fosse fermato». Laura Freddi, che proprio oggi compie 51 anni, ricorda con affetto i tempi di Non è la Rai, fucina di talenti di Gianni Boncompagni che le ha regalato il successo negli anni Novanta. «Ero timidissima, mi nascondevo dietro le foglie delle palme finte intorno alla piscina, sperando di non essere inquadrata - raccontava qualche mese fa al Corriere -. Dopo una settimana passata a mimetizzarmi dietro la scenografia, Gianni e Irene Ghergo mi presero da parte. “Lauretta, tesoro, non puoi mica continuare così”.

Avevo solo bisogno di essere sbloccata. Alla fine ci pensò Enrica Bonaccorti, tirando fuori una certa somiglianza con Kim Basinger. Così un giorno mi spinsero a forza davanti al Cruciverbone, il posto più ambito da tutte le ragazze, a improvvisare un finto e casto spogliarello con la musica di Nove settimane e mezzo, mi vergognavo da morire, avrei preferito cantare, invece no, ci doppiavano per forza».

(...) 

L’amore con Paolo Bonolis

Sul set di Non è la Rai Laura Freddi conosce Paolo Bonolis (all’epoca conduttore della trasmissione) e tra i due sboccia l’amore. Con lui la showgirl conduce anche il programma estivo Belli freschi, ma nel 1995 la relazione giunge al termine: «Io ero giovanissima, lui aveva già dei problemi di vita importanti - ha raccontato tempo fa Freddi a Oggi è un altro giorno -. Io volevo una famiglia, un figlio, mentre lui aveva delle problematiche legate al precedente matrimonio (quello con l’americana Diane Zoeller ndr.). La donna che sono oggi non è la Laura che aveva 19 anni. Io ho avuto poche storie importanti ma lunghe e tutti i miei ex sono amici, ci vogliamo bene, c’è un rapporto buonissimo». 

Nella Casa del Grande Fratello Vip

Dopo una serie di esperienze professionali a LA7 e Vero Tv nel 2015 Laura Freddi prende parte alla quinta edizione di Tale e quale show (Lady Gaga, Raffaella Carrà e Lorella Cuccarini sono solo alcuni dei personaggi del mondo della musica che ha imitato). Nel 2016 entra nel cast della prima edizione del Grande Fratello Vip e rimane all’interno del reality quasi fino alla fine (viene eliminata poco prima della finale).

Il Grande Fratello Vip ha risollevato la showgirl dopo un periodo poco fortunato, ha rivelato lei al Corriere: «Per colpa di una causa di lavoro durata 12 anni che mi ha prosciugato le finanze. Purtroppo non sempre si incontrano persone oneste. Avevo firmato documenti che non avrei dovuto firmare e per difendermi ho bruciato tutti i miei risparmi, ho pure dovuto vendere la casa che stavo ancora pagando. Con le cartoline verdi degli avvisi di pignoramento avrei potuto farci un albero di Natale. Mi sono risollevata con il cachet del Grande Fratello Vip, una mano santa».

Vita privata

Nel 2006 Laura Freddi convola a nozze con l’imprenditore Claudio Casavecchia e sogna di diventare mamma. Ma il suo desiderio va in frantumi: purtroppo, dopo essere rimasta incinta, perde il bambino che aspettava. Nel 2008 il matrimonio arriva al capolinea. Successivamente la showgirl incontra Leonardo D'Amico, fisioterapista della nazionale italiana di beach volley: «Ho cominciato a giocare tardi, a 36 anni, ed ero una mezza cartuccia. Durante un torneo ho preso una botta tremenda, non mi passava, il mio allenatore mi ha consigliato il fisioterapista della nazionale. Era Leonardo. Siamo diventati amici. Parlavamo, parlavamo.

Io gli mandavo segnali, ma lui niente». Poi però scoppia l’amore e nel 2018, a 45 anni, Laura Freddi corona il suo sogno più grande: il 3 gennaio viene al mondo sua figlia Ginevra. «Ho sempre voluto diventare mamma, ho sempre avuto un istinto materno molto spiccato» ha raccontato qualche anno fa la showgirl a Verissimo. Nel corso dell’intervista ha svelato tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare per riuscire a rimanere incinta. Tra queste l’endometriosi: «Avevo dei dolori, ma non mi era mai stata diagnosticata. Per fortuna la mia forma era abbastanza lieve. Dopo ho subito un'operazione e ho fatto una cura, e dopo sei, sette mesi ho scoperto di aspettare Ginevra». Proprio nel giorno del suo compleanno, il regalo più bello.

Laura Freddi: «Mi vergognavo a viaggiare sulle auto scassate di Bonolis. Ambra è ancora un’amica». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2023.

La showgirl: «Ero rimasta senza soldi, un reality mi ha salvato. Prima di entrare in scena Claudio Bisio mi offriva un goccetto di grappa per farmi coraggio»

«Ma come è bello qui, ma come è grande qui, ci piace troppo ma... non è la Rai...». «Ero timidissima, mi nascondevo dietro le foglie delle palme finte intorno alla piscina, sperando di non essere inquadrata».

L’unica, le altre sgomitavano eccome. E poi nel 1991 aveva già 19 anni, quasi vecchiotta, per Gianni Boncompagni.

«Mi diceva che ne dimostravo 15, magrolina, non troppo formosa. Dopo una settimana passata a mimetizzarmi dietro la scenografia, Gianni e Irene Ghergo mi presero da parte. “Lauretta, tesoro, non puoi mica continuare così”. Avevo solo bisogno di essere sbloccata. Alla fine ci pensò Enrica Bonaccorti, tirando fuori una certa somiglianza con Kim Basinger. Così un giorno mi spinsero a forza davanti al Cruciverbone — il posto più ambito da tutte le ragazze — a improvvisare un finto e casto spogliarello con la musica di Nove settimane e mezzo , mi vergognavo da morire, avrei preferito cantare, invece no, ci doppiavano per forza», racconta Laura Freddi (ospite fissa di Oggi è un altro giorno, Raiuno), che di quei celebrati anni Novanta è stata una bionda icona e le icone restano eternamente uguali a sé stesse, beate loro: «Ancora mi si avvicinano per strada per rievocare quei giorni, come se il tempo si fosse fermato».

Vi chiamavano Lolite, voi ragazzine di «Non è la Rai».

«Gianni con me si è sempre comportato più che bene, eppure lo bersagliavano di critiche, contro di lui c’era troppo accanimento, esagerato. Che poi eravamo poco truccate, innocenti, disciplinate. “Non vi illudete, questa fama potrebbe non durare”, ci ripetevano».

Con Ambra amiche o nemiche?

«Amiche. Ci sentiamo ancora oggi, per messaggino, parliamo dei nostri figli».

Quello non fu il suo vero esordio in tv.

«Avevo debuttato due anni prima, su un’emittente locale di Napoli, Canale 34, facevo sondaggi telefonici e portavo un tremendo ciuffo cotonato a fungo, ma ho distrutto le prove, eh eh. Prima ho fatto non so quanti concorsi di bellezza, non mi piacevano, però li vincevo tutti, ero la regina di Ostia e Fiumicino, improbabili talent scout mi lasciavano bigliettini da visita pure alla fermata del bus, ma papà li strappava».

Poi diventò la Velina bionda di «Striscia la Notizia», in coppia con la bruna Miriana Trevisan.

«Le prime Veline parlanti e microfonate, senza pattini e non troppo prorompenti. Con Greggio e Iacchetti ho riso tantissimo, come coppia non si battono. Enzino è ancora oggi un mio carissimo amico, gli voglio un gran bene. Antonio Ricci invece non si vedeva mai, per scherzo lo chiamavo “il fantasma”. Ogni tanto chiedevo: “Ma come è fatto? Esiste davvero?”. Però un genio. E sì, non so quante volte sono caduta dal bancone durante gli stacchetti. Ma mai come al Festivalbar quando, scendendo le scale cantando, sono finita addosso al pubblico, il filmato gira ancora sul web».

Velina e calciatore, ci è cascata anche lei, per quanto a scoppio ritardato.

«Dopo due anni, sì. Facevo il Quizzone con Amadeus e abitavo con Cristina Quaranta (ride), pensi che coraggio che ho avuto, e lo dico perché è una mia amica, sia chiaro. Lei conosceva un sacco di gente, ogni tanto mi presentava qualcuno. Una sera invitò Fabio Galante, io non ne volevo sapere. “Ti prego, non chiamarlo più”. Come non detto. Una sera lui praticamente si legò al termosifone di casa, non voleva andarsene e a quel punto... ho ceduto».

Tre anni insieme.

«Era giovane e bello, giocava nell’Inter, io ero gelosissima, ora non più. Con Fabio diciamo che ce n’era bisogno, ho colto dei segnali importanti, ho cercato di perdonare, ma Milano era piena di vita, di distrazioni. Quelle poche volte che andavo a vederlo in tribuna, se per caso sbagliava un tiro, tutto lo stadio si voltava verso di me, come se fosse colpa mia. Forse pensavano che gli facessi fare la bella vita, in realtà eravamo molto casalinghi».

Al «Quizzone» con Gerry Scotti.

«Non mi pareva vero. Un giorno ripetei il balletto di Nove settimane e mezzo, dietro una tendina montata su rotelle. Durante un movimento con la gamba l’autoreggente si impigliò in una vite e così, scendendo le scale, mi trascinai dietro pure il separé. Il regista urlò: “Stoop!”, Gerry invece era entusiasta, voleva mandarla in onda così».

Stesso programma, con Amadeus.

«Insieme nel 1995 abbiamo condotto anche il concorso The Look of the Year in Corea. Odio l’aereo, ho paura, perciò avevo preso dei tranquillanti, sul volo non ho chiuso occhio, in compenso sono rimasta rimbambita per tre giorni. E mi ricordo ancora il forte odore di aglio che aleggiava ovunque, specie negli ascensori. Se l’ho chiamato per farmi invitare a Sanremo, visto che siamo amici? Non è da me. Certo, a chi non piacerebbe salire su quel palco anche per cinque minuti?»

Con Claudio Bisio e la banda di «Zelig Tour».

«Un delirio, viaggiavamo in pulmino da nord a sud, alle piazzole di sosta ci mettevamo a ballare tutti quanti, non si dormiva mai. Ma lavorare con lui è semplice, ti fa diventare bravo e simpatico. Prima di entrare in scena, per darmi coraggio, mi offriva un goccetto di grappa».

Quando le telefonò Maurizio Costanzo per proporle «Buona Domenica»...

«Stavo per riattaccargli in faccia perché credevo fosse uno scherzo, inoltre avevo la febbre e un principio di colica renale. “Mi scusi, sto andando al pronto soccorso, mi può richiamare tra qualche giorno?”. E così ha fatto, per fortuna. Un periodo meraviglioso, la rifarei domani, ho nostalgia della tv di allora».

Lo sa che le tocca la domanda, magari due-tre, su Paolo Bonolis, sì?

«Lo so, lo so. Che devo dirle? Paolo è stata la persona più importante tra i miei affetti, ero molto giovane allora e lui già sposato e padre. Agli occhi dei miei 19 anni era affascinante, mi piaceva, mi faceva divertire, mi colpì per ironia e cultura. Mi faceva guardare anche tre film al giorno, mi leggeva i libri, era un fiume in piena. Viaggiavamo molto. Anche se con Sonia, sua moglie — ormai siamo diventate amiche, tanto che quando si è assentata per due puntate dal Gf Vip ha voluto me come opinionista al suo posto ed è stato un grande gesto — abbiamo scoperto che ci ha portato in vacanza negli stessi posti: Polinesia, New York, oggi ci ridiamo».

Due contro uno, poveraccio.

«Alla presentazione del suo libro Notte Fonda, lo scorso novembre, c’ero anch’io. Ho voluto che la dedica me la scrivesse Sonia. E siccome a un certo punto nel racconto Paolo parlava di una giapponese che né io né lei avevamo mai sentito nominare, lo abbiamo messo in mezzo, con una scherzosa scena di gelosia stereo: “E adesso chi sarebbe questa? Parla, confessa”».

Sonia Bruganelli ha ammesso di averla detestata per un sacco di tempo. «Poi l’ho conosciuta: un gattino. E non l’ho più odiata».

«Il suo era un odio virtuale, forse aveva idealizzato la mia figura, ma i cinque anni e mezzo che ho passato con Paolo sono una briciola, rispetto al loro matrimonio. Perché lo lasciai? Ci siamo voluti molto bene e separarsi è stata una sofferenza per entrambi. Io desideravo di più, una famiglia, ma il momento era sbagliato, i nostri tempi non coincidevano».

Cosa proprio non sopportava di lui?

«Guidava macchine tremende, tipo una vecchia Escort blu metallizzato con uno specchietto bianco rimediato allo sfascio, un accrocco, mi vergognavo ad andarci in giro. Paolo invece non ci faceva caso. Orologi, auto, vestiti, era spartano, parsimonioso. Una volta, ospite dei miei genitori, ad Acilia, voleva una sigaretta, in casa non ce n’erano; perciò fece il giro di tutto il palazzo, porta a porta, per farsene offrire una. In accappatoio e ciabatte. Regali? Si. Ricordo un tremendo set di valige gialle».

Più o meno in quegli anni Nek cantava: «Laura non c’è, è andata via...».

«Passata la rabbia, io e Paolo ci abbiamo scherzato su. E Nek è diventato uno dei miei migliori amici. L’ho conosciuto a Superclassifica show e siamo sempre rimasti in contatto, abbiamo un legame speciale, è venuto spesso da me in radio, gli chiedo consigli, mi piacciono le persone con un’energia positiva, come lui».

Tempo fa ha passato un periodaccio.

«Per colpa di una causa di lavoro durata 12 anni e che mi ha prosciugato le finanze. Purtroppo non sempre si incontrano persone oneste. Avevo firmato documenti che non avrei dovuto firmare e per difendermi ho bruciato tutti i miei risparmi, ho pure dovuto vendere la casa che stavo ancora pagando. Con le cartoline verdi degli avvisi di pignoramento avrei potuto farci un albero di Natale. Mi sono risollevata con il cachet del Grande Fratello Vip, una mano santa».

A proposito di mani: ha conosciuto Leonardo D’Amico, il suo compagno, facendosi male a tre dita durante una partita di beach volley.

«Ho cominciato a giocare tardi, a 36 anni, ed ero una mezza cartuccia. Durante un torneo ho preso una botta tremenda, non mi passava, il mio allenatore mi ha consigliato il fisioterapista della nazionale. Era Leonardo. Siamo diventati amici. Parlavamo, parlavamo. Io gli mandavo segnali, ma lui niente, era di...».

Di coccio.

«Ecco sì. Mi chiedevo: “Ma perché questo qui non ci prova?” Allora ho cominciato a provocarlo. Lo invitavo a salire da me. “No, grazie”. Poi mi ha spiegato che non si fidava, voleva essere sicuro che fossi presa. Un giorno mi chiama: “Passo per un caffé tra dieci minuti”. Panico. Ero vestita da casa, ho fatto la doccia a razzo. Pronta».

E?

«Finalmente si è deciso, alleluja».

Estratto dell’articolo di S.S. per “Specchio – La Stampa” il 14 maggio 2024.

Laura Morante è cresciuta in una famiglia di otto figli. Lei ne ha tre, uno per matrimonio. Quando Gabriele Muccino l’ha chiamata per parlarle della seconda stagione di A casa tutti bene (dal 5 maggio su Sky e in streaming su Now), dove lei interpreta Alba, la madre matriarca di una famiglia numerosa e complessa, le ha detto, entusiasta, di aver scritto per lei una bellissima storia d’amore. Non ha condiviso l’entusiasmo. «Gli ho risposto che una storia d’amore proprio non mi andava e gli ho proposto di mettere un cane al posto di un uomo. L’ha fatto», dice a La Stampa. 

[…]  Una volta, durante un provino, Damiano Damiani le chieste di levarsi i capelli dalla fronte, lei non lo fece, lui le urlò di farlo, allora lei gli disse: «Questo è un provino anche per lei, e io non voglio lavorare con lei». 

Da regista ha firmato due film, Ciliegine e Assolo. Da attrice è stata diretta, tra gli altri, da Bertolucci, Monicelli, Salvatores, Cristina Comencini, Avati, Francesca Archibugi, Verdone, Resnais. E naturalmente Nanni Moretti. Per lui è stata Bianca nell’indimenticabile Bianca. 

S’è molto parlato del perché, nella scena finale di Il Sol dell’avvenire, l’ultimo film di Nanni Moretti, dove ci sono tutti gli attori a lui più cari, quelli con cui ha lavorato di più, lei non ci sia. «Nanni me lo ha chiesto ma io non me la sono sentita: purtroppo il nostro rapporto si è guastato dopo La Stanza del figlio. Non siamo in guerra, ci vogliamo bene, ci facciamo gli auguri di compleanno, ma ci sono state troppe cose che mi hanno ferita e non me la sono sentita di fare buon viso a cattivo gioco, non sarebbe stato coerente», dice. 

Risponde da Ventotene […], dove è appena arrivata per girare, 27 anni dopo, il sequel di Ferie d’Agosto di Paolo Virzì. Lei aveva quarant’anni, faceva la parte di Cecilia, insicura, incerta, ma innamoratissima compagna di Silvio Orlando, l’intellettuale di sinistra, naturalmente in crisi, scontento, frustrato, perbene. 

Ha sempre detto di non provare nostalgia per i film che ha fatto, tranne che per Ferie d’Agosto.

«Perché si creò, tra tutti noi, un’atmosfera indescrivibile. Unica». 

E ora?

«Sono arrivata due giorni fa, non è ancora successo niente. Però ritrovare i compagni di quell’avventura è emozionante. Ed è anche buffo: di quanto tempo sia passato mi dà la misura mia figlia, che allora era una bambina e adesso è una donna. Alcuni non ci sono più e questo aggiunge malinconia».

Aggiunge?

«Ferie d’agosto era un film profondamente malinconico». 

Come tutti i film sulla sinistra. Meglio: sull’essere di sinistra.

«Non lo so. Ci sono stati molti momenti in cui le battaglie di sinistra hanno unito le persone, rendendole felici. Ce ne sono stati e ce ne saranno. Ora però la sinistra è disgregata come non mai. Alcuni di noi si sono allontanati dal partito da cui si sentivano rappresentati perché non era più l’espressione di quello in cui credevamo. Io stessa ho smesso di votare Pd a un certo punto. Mi è costato parecchio dolore, ma non credo nelle etichette: credo nella realtà. Un partito che non rappresenta le istanze di sinistra, non è un partito di sinistra, è semplice».

Elly Schlein non la rassicura in questo senso?

«È troppo presto per dirlo. L’ho trovata oscillante sull’invio delle armi: prima di diventare segretario era assolutamente contraria, dopo è parso che si ravvedesse. Questo mi ha delusa, io sono una pacifista convinta». 

Il suo ricordo più divertente di Ferie d’Agosto?

«Silvio Orlando se l’è dimenticato e questo mi dispiace, ma io e lui giocammo a scopone, in coppia fissa, durante tutte le riprese: nessuno ci battè mai». 

[…] Qual è la cosa che più le dà tormento?

«L’angoscia per il mondo. Quando cammino per strada, da quando è cominciata la guerra in Ucraina, provo spesso a immaginarmi come dev’essere fare lo stesso in un paese invaso, mi metto nei panni di quelle persone, capisco che fortuna ho e che disastro c’è laggiù». 

Qual è la sua qualità migliore, nella relazione con gli altri?

«Non tollero la slealtà, quindi mi impegno a essere leale, a volte fino a diventare ridicola, perché per mantenere una promessa faccio qualsiasi cosa. L’ho raccontato in una parte del mio libro, Brividi immorali (La nave di Teseo)».

Quanto ha pesato essere la nipote di Elsa Morante mentre lo scriveva?

«Ha pesato prima. Nel senso la sua presenza è stata fortemente inibente, per me come per tutti noi, che in famiglia siamo cresciuti circondati dai libri, innamorati della letteratura. E credo che quella inibizione fosse inevitabile». 

Era davvero così difficile, Elsa Morante, come hanno detto sempre tutti?

«Aveva un carattere duro. Io ero una bambina. Ed ero abituata a mia madre, che invece era dolcissima. Per me Elsa aveva una predilezione particolare e una volta mi volle portare con sé a Roma: io ero molto agitata proprio per via di quella sua durezza, e questo fece sì che il mio sonnambulismo si acuisse tanto. Mi rispedì a casa quasi subito».

[…] Lei una volta ha detto: il coraggio lo trovo soltanto se qualcuno mi costringe.

«Ah sì? Che brutta frase. Non mi sembra nemmeno ben detta in italiano. La disconosco!». 

Come mai non ha imparato a nuotare?

«È una delle paure che non sono riuscita a superare. Sto a galla ma non vado dove non tocco e mi spiace perché amo il mare moltissimo, non sa che frustrazione». 

Ha mai corteggiato un uomo?

«No, sono sempre stata troppo pigra. Un po’ pigra e un po’ timida. Però avrei voluto essere più intraprendente».

[…] Che ne pensa del codice Intimacy? […] Una terza figura presente sul set per controllare che, durante le scene intime, non avvengano abusi.

«Gendarmizzare il set non mi sembra una buona idea. Poi magari invece funziona, non lo so. So che il cinema viene raccontato come un luogo di violenza e molestie continue ed è ingiusto. Di certo avvengono ed è inaccettabile, ma né più né meno che altrove. Nel cinema è di certo più difficile estirpare il fenomeno perché è un settore in cui creare un criterio meritocratico è complicato, e questo favorisce, purtroppo, la tendenza a usare potere e compravendita per agevolare una carriera».

[…] Cosa le dà più gusto?

«Mangiare il pane, ahimè». 

Perché ahimè?

«Perché in Italia è diventato difficilissimo trovarne di buono».

"La solitudine" di Laura Pausini trent'anni fa trionfava a Sanremo. Marco Vigarani su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023

Tradotto in tutto il mondo, il brano che racconta dell'ex fidanzato Marco è diventato un inno per i giovani. Al Festival sbaragliò la concorrenza dei big

Un inno senza tempo e senza frontiere. Il 27 febbraio del 1993, esattamente trent'anni fa, Laura Pausini vinceva il Festival di Sanremo nella sezione Novità con il brano La solitudine e da quel momento iniziava una carriera sfolgorante. Probabilmente è impossibile incontrare qualcuno che non conosca parole e musica di questa canzone che inizia con l'iconica frase «Marco se n'è andato e non ritorna più», ma nella prima stesura realizzata da Pietro Cremonesi e Federico Cavalli era previsto un altro protagonista.

Marco, il primo fidanzato

 «Inizialmente il brano cominciava con 'Anna se n'è andata' - ha raccontato in più occasioni l'artista di Faenza - ma per il resto la storia era la fotografia della mia vita fino a quel momento, perché io comunque andavo veramente a scuola con il treno delle sette e trenta. Marco era il mio fidanzatino dell'epoca e per questo, quando cantavo quel brano, mi emozionavo tanto». Il primo contratto della cantante con l'etichetta CGD prevedeva soltanto la pubblicazione del singolo e le permise di presentare il brano al Festival di Sanremo. Il 22 gennaio del 1993 La solitudine fu inserita ufficialmente nell'elenco dei brani in gara per la sezione dedicata agli artisti emergenti e l'artista di Solarolo la interpretò per la prima volta il 23 febbraio come quarto brano della serata, accompagnata dall'orchestra diretta dal maestro Maurizio Tirelli. 

Successo internazionale

Superata la prima fase di selezione, la canzone trionfò nella serata del 27 febbraio davanti ad altri artisti diventati poi volti noti del panorama musicale italiano, come Nek e Gerardina Trovato. Addirittura i 7464 voti ricevuti furono superiori anche a quelli che si aggiudicò Enrico Ruggeri che vinse il Festival con "Mistero" grazie a 7077 preferenze. Il videoclip venne girato a Ostia e vede la cantante romagnola camminare sul pontile e giocare con alcuni cuccioli di pastore tedesco in riva al mare. La solitudine nei successivi tre decenni non è diventata soltanto un classico della canzone italiana ma anche un successo internazionale con grande riscontro in Belgio, Francia e Paesi Bassi prima di essere tradotto e pubblicato anche in spagnolo con il titolo La soledad per il mercato latinoamericano e successivamente pure in inglese come La solitudine (Loneliness). 

Versione dance e con Morricone

Oltre a queste tre versioni proposte da Laura Pausini, spiccano decine di cover realizzate in tutto il mondo come quelle in greco e filippino. Curiosamente "Ik wil niet dat je liegt" di Paul de Leeuw raggiunse il primo posto nella classifica di vendita in Olanda superando la versione originale dell'artista italiana. Spesso la canzone è stata proposta da alcuni artisti sudamericani in versione ballabile con il ritmo della salsa. Tra tante proposte, forse quella più memorabile resta quella del 2013 inserito da Laura Pausini nella raccolta "20 - The Greatest Hits" con un arrangiamento curato dall'indimenticabile Ennio Morricone. Oggi La solitudine festeggia i suoi primi trent'anni di successo e chissà quali novità la attendono nei prossimi decenni.

Tre concerti da record

Per festeggiare il trentesimo anniversario del suo debutto, Laura sta realizzando in queste ore un'impresa da record: tre concerti in tre luoghi diversi nell'arco di una sola giornata. "#Laura30" è il nome scelto per l'iniziativa completamente gratuita che prevede l'esibizione dell'artista prima all’Apollo Theater di New York poi al The Music Station di Madrid e infine al Teatro Carcano di Milano. Dieci canzoni ad ogni concerto per 24 ore di musica che valgono trent'anni di trionfi.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 23 Dicembre 2022. 

Ci siamo levati dalle bolas anche Miss Italia 2022, archetipo di quei concorsi di bellezza che dureranno per l’eternità mentre la moderna biologia – troppe femministe lo ignorano - ha già archiviato ogni visione riduzionista del corpo delle donne: maschi e femmine sono diversi, e si guarderà alle gambe delle miss o a quelle dei calciatori con occhi sempre e appunto diversi, senza che cambiamenti «culturali» possano celermente cambiare le cose.

Non l’ignoranza, bensì istinti primordiali continueranno a spingere milioni di donne a proporsi lietamente come modello fatto di anse, curve e fonti di desiderio. Persiste la polemica sulla magrezza delle ragazze, in parte dovuta alla sessualità ambigua di chi selezionai modelli estetici e le modelle di carne (poca) anche se il mercato sta sistemando anche questo.

Superata poi la questione reazionaria sull'italianità (con l'elezione dell'ex domenicana Denny Mendez, 1996) si potrebbe almeno puntare sull'autenticità della bellezza, che non sia dopata, distante dalle baby girl che già scoppiano di silicone nell'età dello sviluppo: anche i concorsi di bellezza ridondano di laminazioni delle ciglia, microblading delle sopracciglia, interventi su labbra e naso e zigomi, poi fianchi, glutei, capelli con le extension, denti incapsulati. Servirebbe un esperto che faccia selezione tra la bellezza e l'estetismo da marketing erotico.

Lavinia Abate è la vincitrice di Miss Italia 2022: il video della sua presentazione. Sciolto nell'acido a 26 anni per uno scambio di persona, presi i due killer vent'anni dopo. Dario del Porto su La Repubblica il 21 dicembre 2022.

Napoli, volevano punire il ragazzo che aveva avuto una relazione con la sorella di un esponente del clan. Ma presero quello sbagliato. Era il luglio 2000 quando Giulio Giaccio fu prelevato da 4 finti poliziotti, in realtà membri del gruppo camorristico Polverino. Il corpo non è mai stato ritrovato

Volevano risolvere "una cosa di famiglia" e punire un ragazzo che aveva avuto una relazione con la sorella di un esponente del clan. Ma si rivolsero all'uomo sbagliato, un operaio incensurato di 26 anni che non c'entrava nulla, né con la camorra, né con quella storia contrastata. Nonostante l'errore, lo uccisero e il corpo senza vita fu sciolto nell'acido. 

 Dopo più di vent'anni, i carabinieri coordinati dal pm Giuseppe Visone danno un nome e un volto ai due dei presunti responsabili dell'omicidio di Giulio Giaccio, prelevato da quattro finti poliziotti il 30 luglio del 2000 mentre si trovava in piazzetta Romano a Pianura, periferia occidentale di Napoli.

Da leggo.it il 23 dicembre 2022.

L'Italia ha ottenuto la sua nuova Miss: è la 18enne Lavinia Abate che si aggiudica la corona del 2022, simbolo della ragazza più bella del Paese. La romana ha prevalso sulle altre 21 finaliste aggiudicandosi lo scettro di Miss Italia 2022, oltre al titolo di Miss Lazio e Miss Eleganza. Sui social, però, il risultato finale non ha convinto molti utenti che non hanno perso tempo per creare un dibattito: «Questi sono i canoni di bellezza di oggi?», ha sottolineato qualcuno. 

Lavinia Abate la nuova Miss Italia

Canto, ballo e pianoforte. Lavinia Abate non ha ancora completato il liceo ma ha già un'idea precisa su cosa vuole fare nel suo futuro: «Sono creativa, determinata e molto sensibile. Spero che Miss Italia mi dia la possibilità di diventare una cantautrice e compositrice», ha dichiarato nell'intervista di presentazione per il contest di bellezza.

Lavinia ha raccontato di aver trascorso un'adolescenza difficile a causa del busto che ha dovuto indossare per 5 anni: una condizione che l’ha segnata profondamente. «Miss Italia le dà possibilità di dimostrare a sé stessa che la sua schiena non influisce sul suo aspetto estetico e di acquisire più sicurezza», si legge sul suo profilo Instagram. 

Le critiche

Sotto i post del profilo Instagram della nuova reginetta si leggono i commenti e le congratulazione da parte di amici, familiari e nuovi follower: «Congratulazione, finalmente una Miss Italia romana», ha scritto un follower. Tuttavia, non mancano le espressioni infelici di alcuni utenti che non condividono la sua vittoria: «Niente di speciale», ha scritto qualcuno. «Mi aspettavo di meglio», ha aggiunto qualcun altro. 

Poi, gli insulti diretti al suo aspetto fisico: «Questi sarebbero i canoni di bellezza attuali? Io vedo solo una ragazza magrissima e a dirla tutto nemmeno così bella», ha scritto lapidario un utente che ha chiosato così: «Si rendono conto dei danni che fanno alla società promuovendo canoni di bellezza simili?»

L'83esima edizione della manifestazione. Chi è la nuova miss Italia Lavinia Abate: la 18enne, romana, all’ultimo anno di liceo che sogna diventare cantautrice. Vito Califano su Il Riformista il 22 Dicembre 2022

Si chiama Lavinia Abate, ha 18 anni e viene da Roma. È lei la nuova Miss Italia, proclamata ieri sera nella cerimonia al centro congressi multimediale dell’hotel Browne Plaza Rome St. Peter’s, nella Capitale. A presentare lo spettacolo un giornalista, Salvo Sottile, non succedeva dal 1946. La serata è andata in diretta streaming sul sito e sui canali social del concorso.

Abate l’ha spuntata su 21 candidate miss, una per regione, scelte nelle pre-finali che si sono svolte a Fano, nelle Marche dopo lunghe selezioni locali. “Quest’anno per la prima volta tutte le 21 finaliste restano nella famiglia di Miss Italia. Le seguiremo tutte”, ha annunciato la patron del concorso Patrizia Mirigliani. Seconda classificata, Carolina Vinci, Miss Sardegna e Miss Cinema. Terzo posto per Virginia Cavalieri, Miss Emilia Romagna.

Abate era arrivata alla finale con la fascia di Miss Lazio e dopo aver vinto anche il titolo nazionale di Miss Eleganza. La 18enne frequenta l’ultimo anno di liceo scientifico Azzarita, pratica danza da oltre dodici anni ed è una musicista. Sogna di diventare cantautrice o compositrice e infatti suona il pianoforte e studia composizione. Ha cantato infatti nella finale una canzone che ha scritto lei, Vino Rosso.

Ha raccontato di aver dovuto indossare per cinque anni il busto, a causa di una scoliosi, “una condizione che l’ha segnata profondamente, rendendo la sua adolescenza difficile”. Al termine della serata, dopo la proclamazione, la Miss Italia in carica, la napoletana Zeudi di Palma, ha ceduto la corona alla nuova vincitrice. “Non avrei mai immaginato di sentire proprio il mio nome, fino all’ultimo ho preferito mantenere basse le aspettative per non illudermi e restarci troppo male”. Ha detto di non essere fidanzata e di non seguire il calcio.

Il 2022 sarà ricordato nella storia della manifestazione come l’anno in cui vennero elette due Miss: la prima a febbraio e la seconda a dicembre. Quella di ieri è stata l’edizione numero 83 della manifestazione. A presiedere la giuria Massimo Boldi. Gli altri membri della giuria l’attrice e insegnante Fioretta Mari e la conduttrice radiofonica Francesca Manzini. Entrambe hanno sostenuto il ritorno di Miss Italia in Rai perché “è un’istituzione al pari di Sanremo” e “ha dato un’opportunità nello spettacolo a tante meravigliose e talentuose ragazze”. È la speranza della patron Patrizia Mirigliani.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Lazza: «Mi ascoltano i bambini ma non cambio, resto un rapper». Storia di Marta Blumi Tripodi su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2023.

Anche se non si direbbe, il successo di Lazza dopo il secondo posto a Sanremo con Cenere è cresciuto solo relativamente. «A livello di classifica, ero in testa prima e sono rimasto in testa dopo», osserva il diretto interessato in un momento di pausa in camerino prima del concerto al Forum di Assago. In effetti i risultati clamorosi del suo terzo album solista, Sirio, precedono di parecchio la kermesse: è stato il più venduto del 2022, nonché l’album con più settimane al primo posto nella storia della classifica italiana (esiste dal 1995), ben 20. Anche il tutto esaurito del suo tour nei palazzetti risale a prima del Festival con biglietti evaporati in pochi minuti.

È la prima volta al Forum per Jacopo Lazzarini, anni 28, e gioca in casa, essendo nato e cresciuto nel quartiere di Calvairate. Tra il pubblico, oltre a vecchi e nuovi fan, ci sono gli amici di sempre, i genitori, perfino la nonna: «Lei però avrà i tappi nelle orecchie», dice emozionato. Sul palco anche i colleghi Sfera Ebbasta, Capo Plaza, Fred De Palma, Anna, Giaime. Da una parte c’è l’energia dell’hip hop, veicolata da una band di strumentisti; dall’altra l’anima più tradizionale, omaggio ai suoi studi di pianoforte classico in conservatorio, con un quartetto d’archi e un pianista. Una scelta ambiziosa, che ricorda quelle di artisti americani come Kanye West: «Era una cosa inedita per l’Italia, e volevo un impatto epico», spiega. Il risultato finale è molto convincente, grazie anche alle sue doti di performer.

Dopo l’exploit di Sanremo, Lazza ha dovuto imparare a dialogare con un nuovo tipo di pubblico: quello di «bambini e signore anziane», che lo hanno scoperto in tv grazie alle forti venature pop di Cenere. «Non posso rivolgermi a loro come mi rivolgo ai miei soliti fan, ma non posso neanche cambiare me stesso, sono un rapper», commenta. «Per me è importante che la gente sappia che non sono solo quello di C enere». Questi cambiamenti non gli fanno paura, ma qualche timore per il prossimo album c’è: «Per me esiste solo musica bella e musica brutta, ma l’ascoltatore medio si aspetta di vederti replicare i risultati precedenti. Mi spaventa l’idea di dover bissare il successo di Sirio».

Dopo il tour si prenderà una pausa e andrà negli Usa, la sua prima volta oltreoceano: «In teoria è una vacanza, in pratica senza musica non so stare, quindi ne approfitterò per lavorare», confessa, aggiungendo che sogna di poter sfondare all’estero. L’Italia gli sta un po’ stretta, soprattutto da quando la sua quotidianità è stata stravolta: «Non riesco a muovermi senza ritrovarmi un telefono in faccia. Ormai se non filmi qualcosa è come se non ti fosse successa. Approvo Bob Dylan che ha vietato i cellulari ai suoi concerti!».

Col pubblico preferisce un contatto diretto, anche se a volte la sua spontaneità è mal ripagata: «A Sanremo avevo regalato un paio di scarpe autografate a una bambina che piangeva. Il giorno dopo le ho ritrovate su eBay: i genitori le avevano messe in vendita a 400 euro», ride. Mentre si adatta al nuovo status di idolo nazionalpopolare, continua a calcare i palchi di tutta Italia: quelli dei palazzetti, dell’Arena di Verona e del Primo Maggio. Ma senza un messaggio politico: «Sinceramente? Ho sempre visto in tv quella marea di persone, non vedevo l’ora di suonarci anch’io».

Lella Costa: «L’amore tra anziani è ancora uno scandalo». Da sempre interprete ironica e impegnata, l’attrice porta in scena “Le nostre anime di notte”. Storia di un uomo e di una donna nella terza età. E della possibilità di innamorarsi ancora. Francesca De Sanctis su L’Espresso il 20 Marzo 2023

«Il teatro? Ah sì sì, un mestiere meraviglioso, da questo punto di vista mi sento una privilegiata, non tutti possono permettersi di fare nella vita ciò che si ama...». E pensare che all’inizio Lella Costa – autrice, attrice e scrittrice – al teatro non ci pensava proprio. «C’era la politica, certo. E l’urgenza di dire certe cose». Così negli anni ha costruito la sua carriera intrecciando arte e impegno civile. Riflettere, insomma, si può fare eccome, anche in teatro e con leggerezza. Riflessioni che possono riguardare, per esempio, la necessità, oggi, di rinsaldare certi legami, di ristabilire i rapporti con gli altri per uscire dalla solitudine, come accade nello spettacolo in scena in questi giorni: “Le nostre anime di notte”, con Lella Costa, Elia Schilton e la regia di Serena Sinigaglia, tratto dall’omonima opera postuma dello scrittore americano Kent Haruf scomparso nel 2014 (prossime repliche: Lac di Lugano fino al 19 marzo, Teatro Comunale di Vicenza il 28 e il 29 marzo, Teatro Fraschini di Pavia dal 31 marzo al 2 aprile).

Siamo abituati a vederla in teatro soprattutto nei monologhi, che sono diventati un po’ la sua cifra stilistica. Ma sempre più spesso la vediamo in scena indossando parrucche o affiancando altri attori…

«Eh sì, ormai ne ho interpretati tanti di spettacoli in cui non sono sola in scena, da “Ferite a morte” a “Human”. Di questo testo che sta andando in scena ora, “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf, mi sono innamorata subito, durante il reading organizzato all’uscita del libro dal Teatro Franco Parenti, con Gioele Dix e Ruth Shammah. Ma è stata un po’ complicata tutta la questione dei diritti. Poi doveva uscire il film (la trasposizione cinematografica è del 2017, film interpretato da Robert Redford e Jane Fonda) e prima di portare il testo in teatro doveva passare un po’ di tempo. Dopo c’è stato il Covid e alla fine eccoci qua... Neanche a farlo apposta sembra scritto per parlare di un problema molto sentito durante il lockdown: la percezione della solitudine. È un testo che parla di gentilezza, ironia, relazioni».

I protagonisti sono due persone adulte, ciascuna con la propria storia, che ad un certo punto della vita sentono il bisogno di cercarsi...

«Addie e Louis sono due persone non più giovani, che vivono da sole - ma che non hanno una tragedia alle spalle - in una cittadina immaginaria. A un certo punto è lei, Addie, a dire a Louis: “Mi chiedevo se potevo venire a dormire da te...”. E non c’è nessuna proposta erotica o oscena in questo. Inizia così una bella storia notturna tra loro, cominciano a parlare, a prendersi in giro, a dirsi cose mai dette prima. La meraviglia di una storia vera».

Si può amare anche nel terzo tempo della vita?

«Si può amare e si può non amare. Non c’è una regola, e questo vale a qualunque età. Meglio essere amati certo, o provare dei sentimenti, ma tutto è lecito nella vita».

E allora perché nella pièce i figli si scandalizzano? Amare ad una certa età viene visto come qualcosa di sovversivo?

«In effetti i nostri due protagonisti sono dei Romeo e Giulietta che hanno tutti contro. Mi viene in mente la colonizzazione iconografica che mi faceva notare il mio amico Andrés Neuman: digitando la parola “bellezza” in internet, vengono fuori solo immagini di fotomodelli, non un quadro, per esempio. Come se la presunta bellezza fosse adeguata solo in certe fasi della vita. Allo stesso modo è uno scandalo che due persone si frequentino ad una certa età. Gli americani poi sono ancora più cinici, pensano subito alle questioni economiche. In Italia succede che in certe famiglie ribellarsi a determinati ruoli fa sbarellare, sbroccano tutti... Ma chi ha detto che ad una certa età non si possa amare? Però viene visto come qualcosa di sovversivo».

E come va fra i due dal punto di vista dell’eros?

«Il loro incontro è pudico. Il primo esito è negativo. Insomma lui non ce la fa... Poi però accadrà, ma in scena non lo raccontiamo».

Quindi è possibile avere una vita sessuale felice anche ad una certa età?

«Io penso che si parli fin troppo di sesso. Certe cose accadono nell’intimità. Mi fanno impazzire questi giovani che mentre si danno un bacio per strada si stanno già fotografando con il telefonino. Ma dico io.... godiamoceli certi momenti! Mi chiedo se così facendo non ci stiamo perdendo qualcosa».

Si può cambiare in ogni momento della vita?

«Si può cambiare, ma non siamo costretti a farlo se non vogliamo. Abbiamo diritto alla libertà, sempre».

Nel nuovo libro di Lidia Ravera, “Age Pride”, si parla di rovesciamento del desiderio nel terzo tempo della vita: la donna da oggetto dovrebbe diventare soggetto, è d’accordo?

«Mi piace Lidia Ravera, interpretai anche un suo testo: “Nuda proprietà”. Dal punto di vista erotico non saprei. Nelle relazioni sicuramente sì, si può giocare un po’ di più...».

Lei è sposata da tanti molti anni, dunque è possibile avere una relazione stabile duratura, ma come si fa?

«“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” per citare Tolstoj. Credo di aver avuto la fortuna di incontrare la persona giusta. E la mia fortuna resiste solo perché sono sempre fuori casa e quindi porto aria nuova! Forse un buon modo per resistere è prima imparare a vivere da soli e poi passare alla convivenza».

Avere 70 anni: le pesa il passare del tempo?

«Io mi sento una privilegiata e consapevole di fare un bellissimo mestiere. Ma diciamo la verità, invecchiare fa schifo... Io non mi sento diversa, ma so di avere meno giorni a disposizione. Mi piace vivere, anche se ho poco tempo. Bisognerebbe vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Insomma ogni tanto ci penso agli anni che passano».

Per fortuna ha una vita piena e non credo abbia molto tempo per pensarci. Da un paio di anni per esempio è anche direttrice artistica del Teatro Carcano di Milano, come sta andando?

«Può sembrare una follia prendere in gestione oggi una sala teatrale. Ma il Teatro Carcano è un teatro importante e Milano è la mia città. Ho ricevuto tanto da questa città a cui voglio molto bene e accettare la direzione artistica mi sembrava un modo per ricambiare. Non sono sola poi a dirigere questo spazio storico. Direi che sono in compagnia di due donne straordinarie: Mariangela Pitturru e Serena Sinigaglia. Insomma, c’è una bella energia a mi pare che il pubblico stia apprezzando».

A proposito di donne: alla guida dei due principali partiti politici oggi ci sono Elly Schlein e Giorgia Meloni. Lei che è sempre stata dalla parte delle donne, lo giudica un fatto positivo?

«Sono entrambe due donne che fanno politica da tanto tempo e di sicuro non sono arrivate lì per caso. Ma non basta essere donna per essere una leader femminista. Cominciamo davvero a mettere in agenda i temi che riguardano le donne. Il gesto della premier neozelandese che si è dimessa per tornare a fare la mamma, Jacinda Ardern, parla chiaro. Le cose cambieranno quando le donne detteranno l’agenda, non basta ricoprire posizioni apicali. Bisogna agire... Io ho iniziato a non andare più a manifestazioni in cui ci sono dieci uomini e una sola donna».

Si può fare politica con il teatro?

«Assolutamente sì. Anche se non è obbligatorio. Per me forma e sostanza coincidono, credo che si possa fare. Ma ognuno nel suo campo. Mi è stato più volte chiesto di candidarmi ma mi sono sempre sottratta perché ognuno può fare la sua parte nel suo terreno. Io non voglio dare lezioni a nessuno. Faccio quello che posso e so fare».

Resta sempre la solita femminista…

«Anche se oggi essere femminista può significare tante cose, direi proprio di sì».

Quali saranno i suoi prossimi progetti?

«Intanto continua la tournée de “Le nostre anime di notte” e poi torno in scena con “Ballare”... Se non posso ballare… non è la mia rivoluzione” sempre con la regia di Serena Sinigaglia, ispirato a “Il Catalogo delle donne valorose” di Serena Dandini, la storia di 101 donne».

Progetti mai realizzati o incontri non ancora accaduti?

«Due desideri: Ian McKellen in Inghilterra e Ariane Mnouchkine a Parigi».

Lenny Kravitz rivela: «Ho tenuto 10 anni lo spinello di Mick Jagger, poi un giorno sono rimasto senza erba e l’ho fumato». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera mercoledì 6 dicembre 2023.

In un’intervista al magazine “Esquire” per il lancio del nuovo album “Blue Electric Light”, il rocker ha ricordato un episodio avvenuto anni fa, dopo un concerto durante il quale aveva cantato un paio di pezzi con il frontman dei Rolling Stones

Uno degli idoli indiscussi di Lenny Kravitz è sempre stato Mick Jagger. Ecco perché quando anni fa ha avuto l’occasione di incontrare il frontman dei Rolling Stones nel backstage di uno dei suoi concerti e si è sentito addirittura proporre di cantare un paio di canzoni insieme quella stessa sera, il rocker era convinto che fosse uno scherzo. Invece Jagger era serissimo e non solo lui e Kravitz si sono poi realmente esibiti sul palco, ma hanno anche passato la notte insieme nell’albergo del cantante, parlando e fumando marijuana. «Ho conservato quello spinello per circa dieci anni - ha raccontato lo stesso Kravitz in una recente intervista al magazine “Esquire” per il lancio del suo nuovo album “Blue Electric Light” (il primo dopo oltre cinque anni), in uscita il prossimo 15 marzo. - Poi un giorno sono rimasto senza erba e l’ho fumato».

Ancora oggi, a sentir lui, Jagger è il migliore di tutti.«Mick supera qualsiasi ventenne. Io ho suonato con lui, e lo so bene: non ti rendi conto di quello che è in grado di fare, finché non lo vedi andare avanti e indietro sul palco per due ore e mezza. Se ti prendi cura di te stesso, l’età non conta». E Kravitz sembra seguire lo stesso credo visto che, alla soglia dei 60 anni (ne ha 59), si è dato una ripulita dagli eccessi di un tempo (una volta ammise di aver fumato marijuana ininterrottamente dagli 11 ai 35 anni), è diventato vegano e va in palestra tutti i giorni.

«Disciplina e sacrificio ti permettono di raggiungere il tuo obiettivo quotidiano», ha spiegato il rocker, rivelando di soffrire ancora occasionalmente di episodi di depressione («ma ormai durano solo poche ore, mai più di un giorno») e di volersi risposare e avere altri figli (dal primo matrimonio con Lisa Bonet, da cui ha divorziato nel 1993, è nata Zoe). «Ormai sono cresciuto, sono diventato più forte, più disciplinato e più aperto a questa possibilità, ma è stata una cosa molto difficile per me da capire».

Leo Gullotta: «A 70 anni ho sposato mio marito Fabio Grossi. Il governo Meloni è offensivo».  Redazione Online su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

L’attore si è raccontato nel libro «La serietà del comico». «Ho vissuto la mia omosessualità con naturalezza. Venne fuori come una notizia, per me fu naturale»

Leo Gullotta ha raccontato tutto: sessant’anni di carriera, la sua storia personale e professionale, che offre uno spaccato del mondo dello spettacolo italiano. Lo ha fatto nel libro La serietà del comico (edito da Sagoma), scritto con Andrea Ciaffaroni e uscito pochi mesi fa, adesso al centro di un tour di presentazioni.

In un’intervista a Repubblica , Gullotta, 77 anni, racconta come sono nate queste pagine e si sofferma anche su una storia d’amore lunga 43 anni: quella con il compagno Fabio Grossi, sposato nel 2019.

«Ho vissuto la mia omosessualità con naturalezza. Venne fuori come una notizia, per me fu naturale. Alla conferenza stampa del film Uomini uomini uomini un giornalista mi chiese se ero anch’io un omosessuale. Serenamente ho detto: “Sì, perché?”. Pagine strapiene, allora non c’era il coming out. Fino ai 25 anni ho vissuto la mia vita da eterosessuale, ho avuto le mie storie. Dico sempre: mi piaceva il cioccolato, poi ho scelto la crema».

Già qualche anno fa, Gullotta era intervenuto sul dibattito relativo alla legge sulle unioni civili, entrata in vigore in Italia nel 2016: «Ci sono voluti trent’anni per questa legge che è legge di civiltà», aveva detto durante una puntata di RaiPlay. «Mi sono sposato con il mio compagno da una vita e ho cercato di comunicare anche la conquista di un diritto», disse.

Nell’intervista a Repubblica Gullotta racconta anche di quando la Rai non gli affidò il ruolo di don Pino Puglisi per via del suo orientamento sessuale: «Un funzionario Rai di allora, essendo don Pino Puglisi in dirittura di beatificazione, si preoccupò che il Vaticano – a cui interessava solo la qualità – non volesse un omosessuale. La pochezza di pensiero porta a questo. Non ho fatto drammi».

Gullotta ripercorre la strada che lo ha portato a fare l’attore, i suoi idoli, la collaborazione con Nanni Loy, e guarda al futuro del nostro Paese. Quando gli viene chiesto se Elly Schlein possa rappresentare una svolta, risponde: «Aprirà porte e finestre, ora lo deve fare. Appare – ed è – una persona serena, sicura di poter guidare il Pd. Se abbiamo questo governo, è anche colpa della sinistra che gli ha preparato tutto su un piatto d’oro».

Sul governo Meloni: «A tutt’oggi con questo governo è offensivo quello che accade dal punto di vista civile e umano. Addirittura sposano la linea di Orban, apprezzando di più la vita non concessa all’omosessualità, con la scusa delle mamme che fanno i figli all’estero, raccontando storie incredibili e negando i diritti a bambini che esistono. Dove sta l’umanità di queste persone? Sono parole spudorate»

Dagospia il 4 febbraio 2023. Da “TRENDS & CELEBRTIES - RTL 102.5 NEWS”

"Vent'anni fa il Bagaglino, successo meraviglioso, sono entrato a casa degli italiani grazie a quello spettacolo. Ma si va avanti. Negli ultimi anni di televisione forse qualche passo indietro è stato fatto dal punto di vista dell'intrattenimento in generale", dice Leo Gullotta ospite di Trends & Celebrities su RTL 102.5 News. "I programmi giornalistici, invece, hanno fatto passi in avanti".

 Ora, dopo 66 anni di carriera, Gullotta è in giro per la promozione della sua biografia, ma racconta la sua vita. Senza social. "Non li uso, vedo il protagonismo in maniera anonima di tutti e non sono d'accordo", svela.

Gullotta, poi, parla della chiusura dello storico Salone Margherita, da dove per anni è andato in scena Il Bagaglino. "La location della Banca d'Italia e credo che non si aprirà più. E' stato fatto, appartiene al percorso artistico e basta. Mi dispiace se quel luogo diventasse una jeanseria", continua l'attore. Che sottolinea: "Ho iniziato per caso a fare questo mestiere per caso in una piccola città di provincia, vicino Catania.

 “Ero un bambino curioso. Andavo, senza avere il fuoco sacro dello spettacolo, allo Stabile di Catania con attorno i più grandi professionisti. A 18 anni, dopo il diploma, confrontandomi con mio padre ho deciso di continuare a fare l'attore. Perché era quello che sentivo. E dico grazie a papà Carmelo e mamma Santina".

Non dimentico mai Catania, la mia città d'origini. Ho tantissimi nipoti, ho il piacere di riscoprire le mie radici. Ma anche l'incazzatura di una terra che ha note pure negative. Bisogna dirlo", svela ancora in radiovisione.

 "I giovani hanno subito più di noi adulti. Dobbiamo stare vicino ai ragazzi, non dobbiamo avere con loro un rapporto superficiale. Faccio un appello ai genitori: stabilite un punto di connessione con i vostri figli", tuona Leo Gullotta a RTL 102.5 News. "I giovani sono il nostro futuro".

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 15 febbraio 2023.

Testimone consapevole, selezionatore di emozioni, di esperienze. Portatore sano di una storia complessa in cui la Luna non si nasconde dietro un dito. E il proprio “io” è a servizio di un noi più complesso e articolato di un singolo sipario sull’esistenza.

Così per capire Leo Gullotta è perfetto il tavolo di un ristorante, scelto da lui in una zona di Roma Est (“meno turistica, qui ancora ci si riconosce e si parla”), ed è sempre lui a indicare i piatti da ordinare, senza se e senza ma, senza appello a diete, orari o rischio di sonno post pranzo.

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 penso a Turi Ferro, uno Zelig meraviglioso, guardarlo era già una lezione; o a Leonardo Sciascia seduto in platea, silenzioso, con le sue dita gialle, macchiate dalla nicotina; oppure Giuseppe Fava, con il suo sorriso unico e unico nello scrivere di mafia negli anni Sessanta, con tanto di mappe su chi comandava e dove. Pippo ha rotto i coglioni fino all’ultimo; (abbassa la voce) a Catania c’è una via intitolata a lui e ogni anno il 5 gennaio (giorno del suo omicidio, ndr) gli amici si radunano per ricordarlo. Non è mai venuto un sindaco. (Silenzio) Però non ho imparato solo dai big.

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Nino Manfredi.

Con lui ho avuto un rapporto meraviglioso; nel famoso quartetto dei “colonnelli”, lui è il più “americano”: in tutta la carriera non ha mai replicato un personaggio, ha cambiato sempre.

 Questo è il mestiere dell’attore.

Tra i quattro colonnelli spesso è messo in coda. Perché Nino parlava, studiava e se incontrava un giovane valido se lo portava dietro e gli dava il giusto spazio.

 Che vuol dire “parlava”?

Non stava zitto, non era accondiscendente; ho passato giornate incredibili con lui e Nanni (Loy, ndr) a provare i copioni, perché con loro due, prima del ciak, si approfondiva.

Manfredi ha la fama del “secchione”...

Conosceva pure le parti degli altri attori.

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 Ha recitato nei “cinepanettoni” anni Settanta... Quelli delle soldatesse, professoresse o infermiere...

Sì.Tutta esperienza, allora non sapevo nulla di cinema: in quel mondo ho capito come si sta davanti a una cinepresa, come si utilizza la voce.

E non pensava “oddio dove sono finito”.

Mai avuto questa puzza sotto il naso; invece è stata un’invenzione per campare.

 Lei di sinistra, Pingitore di destra, avete mai discusso di politica?

Abbiamo lavorato vent’anni insieme al Bagaglino e lo spettacolo si provava tutti i giorni, eppure non abbiamo mai litigato; (sorride) tutto l’arco parlamentare è venuto da noi, è entrato nella nostra vignetta, si è fatto prendere per il culo, si è prestato alla liturgia e se proponevo qualcosa di diverso, Pingitore non mi limitava; (cambia tono) spesso sui giornali sono stato attaccato per la mia presenza nel gruppo del Bagaglino, come se per la mia carriera fosse una deminutio.

 E invece...

È una stupidaggine; (pausa) ho partecipato anche all’ultimo film di Steno (Animali metropolitani del 1987, ndr), una pellicola non buona, ma almeno ho potuto lavorare con uno dei più grandi e sono riuscito a conoscerlo. Tra i film meno buoni c’è Stark System, regia di Armenia Balducci, compagna di Volonté. Anche lì, ho accettato per stare su un set con un gigante come Gian Maria.

E...?

Persona grandemente professionale, appena lo conoscevi avvertivi una forza particolare; uomo non solare, da battaglia, qualsiasi tipo di battaglia; ecco, questo è uno dei casi in cui sono stato pagato per vivere dal vivo un pezzo di storia del cinema, una lezione di come si vive davanti alla macchina da presa.

 Un’esperienza che non le è piaciuta?

Non lo dirò mai.

 (...)

Molti suoi colleghi preferiscono il set alla vita.

Per me sono due situazioni ben distinte che non si possono mettere insieme; anni fa Christian De Sica mi ha proposto una parte in Uomini Uomini Uomini, dovevo interpretare un omosessuale, e io lo sono, ma questo non vuol dire che ho portato dentro la mia vita. E poi De Sica è un professionista che conosce come pochi questo lavoro: preciso, puntale, bravissimo.

 A sua mamma ha parlato di omosessualità?

No, quando l’ho capito, lei era ormai anziana. Ho lasciato perdere. Ma a parte questo non ho mai avuto problemi, mai alcun turbamento, tanto che la questione è uscita nella conferenza stampa di Uomini Uomini Uomini, quando un giornalista è stato diretto e me lo ha domandato. E io: “Sì, perché?”; (pausa). Fino ai trent’anni sono stato etero, poi è accaduto qualcosa e ho solo capito che non mi piaceva più la crema ma il cioccolato.

Rivede i suoi film?

Quando capita.

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Con Tornatore ha girato Il camorrista.

Ero all’Anfiteatro di Campobello di Mazzara, a un certo punto arriva un ragazzo, si presenta: “Piacere, sono Giuseppe Tornatore”. “Piacere”. “Vorrei saper perché non ha gradito la sceneggiatura de Il camorrista”. “Ma io non ne so nulla”. “L’ho data al suo agente”. “Mai ricevuta”. A quel punto l’ho interrotto: “Parteciperò a questo suo film”. Poi sono andato alle poste e ho mandato un telegramma al mio agente: “Non ti interessare più a me”.

 Come mai ha accettato così?

Per la buona fede, perché era arrivato fino a lì per cercarmi; grazie a quel film ho vinto il mio primo David.

Farà mai il regista?

A ognuno il suo mestiere. Non ci si può improvvisare e l’arte di arrangiarsi non è per me.

 Il Bagaglino le manca?

È stato un momento bellissimo, lo ricordo con piacere, però non ho nostalgia.

Ha conosciuto Berlusconi?

Inevitabile. Ma a differenza di molti miei colleghi non mi sono mai prostrato e non ho accettato i suoi regalini.

Che regalini?

Si presentava con orologi per gli uomini e gioielli a forma di farfalla per le donne. L’orologio non l’ho preso.

Da quando ha perso la “e” aperta alla catanese?

(Ride) Se m’incazzo torna.

Lei chi è?

Una persona perbene. Da sempre

(Per la cronaca: dopo tre antipasti, i tonnarelli cacio e pepe, la coda e il dolce. Tutto buonissimo. Chi scrive è andato in crisi).

Leonardo DiCaprio fu interrogato dall’Fbi: era amico del latitante che truffò la Malesia. Storia di Irene Soave su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

Molto umorismo si fa sulle fidanzate — sempre più giovani — di , ma qualche riserva la meritano, a giudicare dalle recenti cronache giudiziarie trapelate grazie al canale Bloomberg, anche i criteri con cui si sceglie gli amici. Nel 2018 è stato interrogato dall’Fbi, e lo si è saputo soltanto ora, in merito ai suoi rapporti con il losco uomo d’affari malese Jho Low, detto in patria «il Grande Gatsby malese», ora latitante e ricercato in tutto il mondo, responsabile della sparizione di 4,5 miliardi di dollari da un fondo d’investimento dello stato malesiano incanalati nelle sue tasche da un complesso sistema di società off-shore e poi — con parte degli stessi soldi — finanziatore anche della produzione di The Wolf of Wall Street (2013). Beffa della beffa: nel film, il ruolo di DiCaprio è proprio quello di un mago della finanza che si rivela un truffatore.

Cinque anni di amicizia — ma il primo incontro, in discoteca, risale al 2010 — tra Low, che DiCaprio chiamava «my man», il mio uomo, e l’attore, a cui lui dava diversi nomignoli, sono stati ricostruiti dagli agenti dell’Fbi in migliaia di messaggi e mail. Di fatto, il quadro che esce è un quadro davvero alla Gatsby: il milionario di fatto «comprava» l’amicizia del divo, come di molti altri divi, a colpi di regali sontuosi e progetti milionari. Ma la fiducia di DiCaprio se l’era guadagnata, tanto che — così il dossier degli investigatori — i due avevano anche conosciuto le reciproche madri (e il divo ha con la sua un rapporto quasi monogamo). Progettavano business congiunti: un mega-fondo da 1 miliardo di dollari per più film, un parco dei divertimenti Warner Bros in Asia con giostre basate sui film di DiCaprio, un resort ecologico in Belize. L’attore si è difeso dicendo di aver fatto «controllare» il background dell’«amico» dai suoi manager, e che gli era stato assicurato si trattasse di una persona a posto.

Le indagini proseguono da anni. Nel 2019, in Malesia, era già stato arrestato e poi rilasciato su cauzione, per riciclaggio, il produttore di The Wolf of Wall Street: il denaro, era appunto l’accusa, veniva dall’appropriazione indebita ai danni del fondo statale. Già nel 2018 — proprio nel periodo in cui si svolgevano questi interrogatori, trapelati solo ora — il New York Times riferì che DiCaprio aveva dato una serie di doni sontuosi che Jho Low gli aveva fatto: cimeli cinematografici come la statuetta dell’Oscar da 600.000 dollari di Marlon Brando e un dipinto da 9 milioni di dollari di Jean-Michel Basquiat.

Di regali sontuosi elargiti come caramelle — e persino sacchi pieni di banconote — era intessuta anche l’amicizia, dal sapore ugualmente prezzolato, tra il latitante malese e Kim Kardashian, anche lei interrogata dagli investigatori del servizio federale per i suoi rapporti con Low.

Rapporti eccentrici: Kardashian ha ricordato di essere rimasta sveglia fino all’alba in un casinò di Las Vegas con Low, e di avere vinto 350 mila dollari al gioco. Lei voleva restituirglieli, lui insistentemente rifiutava, e alla fine lei racconta di essere uscita dal casinò con sacchi di banconote da cento dollari.

In un’altra occasione, anche a Kim Kardashian e all’allora marito Kanye West il miliardario si era offerto di regalare un dipinto di Basquiat. I due avevano rifiutato, ma non per scrupolo: perché Kanye, investimento per investimento, gli aveva fatto sapere che avrebbe preferito un Monet. Il regalo non arrivò: «Low», confessa Kardashian, «era molto volubile in fatto di regali, e molto spesso ne prometteva senza poi farli».

Leonardo Pieraccioni: «Ho il diploma di terza media. Le attrici dei miei film? Lorena Forteza è caduta in depressione, Natalia Estrada alleva cavalli». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023.

Il regista: «Per due volte sequestrai Baglioni nella mia auto»

Leonardo Pieraccioni, cosa facevano i suoi genitori?

«Mamma aiutava un’amica a vendere la lana per i lavori all’uncinetto, papà per cinquant’anni ha fatto il commesso in un grande studio di avvocati».

La sua età più bella?

«I miei primi quattordici anni. Si rideva tanto in casa, in via della Mattonaia, quartiere popolare di Firenze. Per tutta la vita ho cercato di riprodurre il suono di quelle risate. Erano catartiche, in famiglia si prendevano in giro con gli amici, come da tradizione toscana, sembrava di stare sul set di Amici miei. Quelle risate sono state un buon auspicio per il mio futuro».

A scuola come andava?

«Ho il diploma di terza media. Quando mi bocciarono a scuola, il mi’ babbo per farmi capire che la vita dei non istruiti è difficile mi mise a lavorare in una falegnameria dal suo amico Arturo Vannini che nel film Il pesce innamorato ho omaggiato: faccio il falegname e mi chiamo Vannino. Tuttora mi piace l’odore del coppale. Ma il mio sguardo era sempre rivolto al Teatro Verdi, che era di fronte alla bottega».

Questa cosa della terza media...

«Ho provato come perito aziendale, mi ritrovai in una classe con 2 ragazzi e 25 ragazze. La professoressa di matematica, Pravisani, mi chiese: fai ancora gli spettacolini in tv? Sì. Ecco, continua a farli perché la scuola non fa per te. La presi alla lettera».

E ha cominciato a recitare.

«A 16 anni, con le imitazioni di Troisi, Bombolo, Benigni. Ho smesso quando ho capito che ridevano dei personaggi e non delle cose che dicevo io. Presto cominciai con il cabaret normale. La mia gavetta sono stati i pub, le piazze».

Il salto?

«In tv, a Fantastico 1992, con la grande Raffaella Carrà. L’unica che credette in me. Avevo fatto un biglietto da visita con su scritto: Leonardo Pieraccioni, provinista professionista. A Roma avrò fatto quaranta provini per tutti i programmi possibili e immaginabili. Ne ricordo uno al Bagaglino di Pingitore. Ma avevano ragione loro, ero un misto tra i comici toscani, Benigni, Benvenuti, Nuti, e non avevo sviluppato la mia personalità. A quell’età avevo i capelli corti, la giacchetta di velluto anche d’estate, sembravo un pinolo, uno fuori posto. Lavoravo come magazziniere, leggevo Sorrisi e Canzoni dove mettevano tra parentesi l’età degli attori. Tutti sbocciavano un po’ prima dei 30 anni. Mi dissi, se fino a quell’età non hai combinato nulla torni a fare il magazziniere».

Invece centrò l’obiettivo.

«Claudio Cecchetto mi aveva visto con Carlo Conti nel varietà Succo d’arancia su una tv locale e mi chiamò a DeeJay Television. A 28 anni girai il film I laureati, su ragazzi che non volevano crescere. Chi debuttava aveva la sindrome dei David di Donatello, io mai avuta, sono un guitto, contento di ciò che faccio».

Dopo «Il ciclone» la chiamarono il Golden Boy del cinema italiano.

«Rita Rusic, che mi produceva con Vittorio Cecchi Gori mi disse, con I laureati hai incassato 15 miliardi di lire, se ne facciamo 8 sarà un successo. Il Ciclone ne incassò 78. Nessuno aveva previsto quel successo, tantomeno io».

Nemmeno quel film raddrizzò il suo cattivo rapporto con la critica.

«Fanno il loro mestiere, a volte infausto. Un film è come un figlio. Il critico è un pediatra. Spogliato il bambino dicono se ha le gambe storte. Il fatto è che trovano la gamba storta anche quando è dritta. Parlano al plurale. Ormai hanno una funzione folcloristica. Uno scrisse che ho la faccia da puffo, oggi non potrebbe scriverlo, sarebbe bullismo».

Però è strano che la sua ispirazione si accenda ogni due anni, sotto Natale.

«È fisiologico. Faccio la mia vita, ho mia figlia Martina che ha 12 anni, il teatro con i miei amici Conti e Panariello...».

C’è chi dice che lei fa sempre lo stesso film. Il ragazzo qualunque che incontra la bellona di turno.

«Non è così, quell’omino che veniva travolto da ragazze belle come modelle, prevalentemente sudamericane, e faceva scattare l’immedesimazione scatenando fantasie è rimasto fino al 2001: Il principe e il pirata è con Luisa Ranieri».

Perché le attrici dei suoi primi film si sono dimenticate? Lorena Forteza ha abitato i sogni di milioni di italiani.

«Lorena era caduta in depressione, ha avuto problemi familiari, Natalia Estrada credo continui ad allevare cavalli. Di altre non so».

Lei faceva cinema per rimorchiare?

«Non mi considero un latin lover. Mai avuto mezza storia con le mie attrici, manco mezzo bacio, se non con Laura Torrisi, con cui ho fatto una figlia».

Che fine ha fatto?

«Sta preparando qualcosa come attrice. Le donne sulle crisi di coppia a 40 anni capiscono quello che gli uomini capiscono a 50. Ci sono donne che non sono pronte a fare le mogli. Ora Laura ha 42 anni e le auguro un matrimonio meraviglioso per i prossimi 60 anni arrivando a 100 mano nella mano col suo sposo».

Perché le sue storie non durano?

«Il matrimonio è una maratona di 50 km. Bisogna avere fiato e testa per superare i momenti critici. A me dopo qualche curva mi si rompono i lacci delle scarpe. Non supero i tre anni. Ho 58 anni e non è un fatto d’età. È una sorta d’infantilismo, corro il rischio della sindrome da Peter Pan. Io ci parlo con i miei amici sposati, al 90 per cento sono separati. Poi si risposano e si riseparano. Ho la resistenza di una formica zoppa. Ma forse è vero fino a un certo punto, sto da quattro anni con Teresa che è fuori dal cinema, vendeva capsule per il caffè, ha una figlia anche lei, ci vediamo dal lunedì al giovedì, poi sto con mia figlia Martina. I genitori separati e i figli diventano coppiette, arriva il weekend e ci chiediamo, che si fa stasera, pizza o bistecca? I figli dei separati godono di una certa indulgenza dei genitori. Ho visto in tv lo psichiatra Paolo Crepet che invece su questo tema è granitico e ne ho fatto la parodia».

Lei che padre è?

«Protettivo. Il mi’ babbo quando non finivo i compiti mi diceva, sai cosa succede se non li finisci? Niente. E così sono io con la mi’ figliola. Ma so che faccio arrabbiare Crepet. Mia madre dice che sono nato vecchio, a 10 anni ascoltavo Guccini, la mia fantasia si è formata lì. Non è vero che sono sempre allegro».

Lei non ha mai lasciato Firenze.

«Mai avuto rapporti con la Romanella del cinema. L’unica festa l’ho fatta quando ho compiuto 50 anni. Venne Renato Zero con la torta, sono un sorcino da sempre. Per il resto, parenti e amici, Panariello, Conti».

E Massimo Ceccherini?

«Feci a lui la prima telefonata. Mi fai un regalo per i miei 50 anni? Non venire al compleanno. Temevo che facesse le sue battute di m..., che mi creasse imbarazzo mettendomi a disagio».

Ceccherini è un Bukowski all’italiana?

«Sì, è un poeta maledetto che da ragazzino faceva l’imbianchino col su’ babbo. Ha avuto momenti caotici con qualche bicchierino di rum di troppo. Era il terrore delle feste. Noi gente di cinema siamo piccoli imprenditori attenti a non sbagliare, lui è un vero artista, va giù dritto a 200 all’ora senza casco. Non legge i copioni, non vuole sapere niente. Ma ora è diventato un prete di provincia. Abita in campagna sopra Pistoia con una ragazza che l’ha salvato. Ma ogni tanto dovrebbe bersi un goccetto. È diventato di una noia, parla solo del figlio. Prima era troppo se stesso, come lo era Piero Ciampi».

Il cantautore di Livorno ci porta a Claudio Baglioni, che lei sequestrò in auto. Ride:

«E per due volte. Lo costrinsi a restare un’ora nella sua auto ad ascoltare le mie canzoni. Come cabarettista ho imparato tre accordi alla chitarra. Sono il Salieri dei cantautori. Volevo un parere dal Mozart della canzone italiana. Mi disse cose carine, com’è lui, aggiungendo, non sono male. Mi ha chiamato anche Amadeus per Sanremo».

Ma non l’abbiamo vista al Festival.

«Infatti. Non ci sono andato. Gli avevo proposto uno sketch in cui portavo una canzone scartata in gara. Mi lamentavo per non essere stato preso. Amadeus la ascoltò e mi richiamò: questa canzone è brutta anche tra le canzoni scartate».

Fantastico.

«Poi ho un episodio con Vasco Rossi, di cui avevo usato Una canzone per te in Fuochi d’artificio. Gli proposi di recitare la scena di un passaggio in auto. Fu l’unico a chiedermi di fare un provino. Poi il suo manager mi disse che aveva rinunciato, mai saputo perché».

Si è rifatto recitando con David Bowie. Peccato che «Il mio West» di Veronesi sia stato un flop.

«Bowie arrivò in Garfagnana, posto sperduto e meraviglioso. I set sono complicati, gli spostavano i ciak di ore e lui restava vestito da cow-boy senza lamentarsi. L’unica richiesta da divo fu che nel suo casolare i cani se ne stessero a cento metri di distanza. Era a conoscenza del mio successo e si incuriosì. Al trucco mi fece un lungo discorso, il mio inglese si fermava a “The door is open”, alla fine del suo monologo incomprensibile alle mie orecchie dissi yes. Mi guardò con un’espressione che diceva, ma è questo il divo italiano del momento? Così nei giorni seguenti cercavo di ignorarlo, come se avessi un atteggiamento snob. L’ultimo giorno gli portai una torta al limone, l’ho fatta per te, gli dissi. E lui, really? Io, entusiasta per aver capito gli risposi per dieci volte really. Quel giorno capì che ero un cialtrone. Gli chiesi l’autografo che ancora conservo».

Ha conosciuto Francesco Nuti prima che...

«Che si ammalasse, sì. Da ragazzo recitavo nei teatrini, mi chiese di andarlo a trovare a Roma, dove viveva, a Natale. Mi presentai senza appuntamento. La domestica aprì e gli disse, c’è un certo Pieracciolli. E lui, ma sei venuto davvero. Gli lessi dei soggetti orribili. Lui fu gentile, adottò il metodo Baglioni».

Levante: «Torno leggera dopo il buio della depressione post partum». Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023.

La cantante diventata madre di una bimba racconta a 7: «‘Vivo’ era una specie di preghiera. Quando l’ho cantata a Sanremo è stato come se mi fossi riappropriata del mio corpo»

Un anno e qualche mese fa Levante, al secolo Claudia Lagona, posava sulla copertina di 7 con una folta chioma scura, quella con cui siamo sempre stati abituati a vederla. Era incinta, da quasi otto mesi portava in grembo Alma Futura. Definiva la maternità «un viaggio inaspettato» e aveva una colomba sulla spalla. Oggi ha capelli biondissimi, è reduce dal Festival di Sanremo dove ha cantato Vivo, brano che parla di rinascita dopo una depressione post partum. Alma Futura è venuta al mondo e ammette: «Senza di lei non saprei più vivere». Sulla copertina di Opera Futura, il suo ultimo album, stringe tra le braccia un cigno. L’unico punto in comune tra ieri e oggi sono le foto con creature alate. «Per Opera Futura volevo una tigre», racconta, «poi ho riflettuto sul fatto che fosse un animale in via di estinzione e difficile da gestire sul set. Mi è tornata in mente la poesia di Emily Dickinson La speranza è quella cosa piumata e allora ho pensato al cigno». Quando la incontriamo, Levante indossa shorts in pelle e collant neri, tacchi altissimi, un maglione luccicante. È luminosa, gli spettri della paura sembrano ormai allontanati.

In Vivo canta “la gioia del mio corpo è un atto magico”. Una dichiarazione di intenti?

«Sì. Quando l’ho scritta ero nel buio totale del post partum. Era come recitare una preghiera, non sapevo quando, come e se sarebbe mai stata esaudita. Cantarla all’Ariston è stata una grande emozione. Quelle parole sono diventate realtà. Sono un animale da palcoscenico, sento tantissimo il mio corpo e in quel momento ho avuto la sensazione di essermene riappropriata. La maternità ti cambia, è innegabile, tante donne, io per prima, temono di non tornare più come erano. Non è ovviamente solo una questione di forma fisica, è proprio una percezione di sé. Anche io ero spaventata, ma poi ho ritrovato me stessa, sentire questo miracolo è stato potentissimo. Credo di aver parlato di un tema così complesso sfidando tutte le convenzioni e gli stereotipi. Ho indossato delle tutine da super eroina, proposto un brano ritmato che dice “ Vivo un sogno erotico “, ballato sui tacchi. Vivo non è solo un inno femminista, parla di un io corale, di rinascita. Mi stanno scrivendo tanti uomini per dirmi che li sta aiutando in un momento difficile e per me è bellissimo».

I capelli biondi fanno parte di questa rinascita?

«Sono l’espressione di un bisogno di leggerezza. Avevo voglia di cambiare, sono sempre stata mora, con brevi parentesi miele e castano. Volevo solo schiarirli un po’, ma, dal parrucchiere, ho tenuto la colorazione per più tempo del previsto perché mi piaceva il color rame che emergeva mano a mano. Sono tornata a casa alle 10 di sera e Pietro, il mio compagno, mi ha detto: “Tu sei completamente pazza”. Ho provato una strana ebbrezza, come quando a 17 anni mi sono fatta il piercing al naso senza dirlo a nessuno. È stato bellissimo, liberatorio. Erano decenni che non facevo qualcosa che avrebbe contrariato tutti! Tornerò castana perché sicuramente mi concede una gestione più semplice della chioma, ma questo aspetto un po’ punk per ora mi piace».

Lei però sembra più sofisticata che punk.

«Invece lo sono. Da ragazzina ero la classica punkabbestia, mi mancava giusto il cane. Appena ho potuto mi sono fatta tatuaggi ovunque. La radice elegante, direi addirittura classica, mi arriva da mia nonna Maria, la mamma di mia mamma, una donna meravigliosa che recita poesie in francese e sembra vivere in una bolla perlata. Sono molto legata a lei e a nonna Rosalia, la mamma di papà, che purtroppo se n’è andata qualche mese fa per colpa del Covid».

I capelli biondi non sono piaciuti a tutti. Sui social non sono mancati i commenti negativi: la feriscono ancora o ormai passa oltre senza curarsene troppo?

«Negli anni mi sono costruita un mio spazio, un’immagine che si è consolidata, ma appena esco da lì, da quello che gli altri hanno imparato a conoscere, piovono critiche. Diciamo che l’esperienza del cambio di colore di capelli è stata uno studio antropologico».

Cioè?

«Ci sono persone che mi hanno scritto “lo hai fatto solo per farti notare”, “è tutta una strategia”. Francamente mi fanno ridere. Ho una carriera decennale, sono reduce dal programma televisivo più visto d’Italia, ho scritto libri, fatto tournée... Diciamo che la visibilità non è un problema e sono già abbastanza sotto i riflettori. Mi stupisce l’attaccamento all’immagine di una sconosciuta, così morboso da sfociare in aggressività e violenza verbale. Io non ho indetto un referendum sul mio look, non ho chiesto l’opinione di chi mi segue sui social. Purtroppo c’è un’ossessione per il giudizio, viene venduto come libertà di espressione, invece è solo maleducazione. Tra l’altro ci sono molti artisti uomini che giocano con lo stile, ma, guarda a caso, non vengono sommersi di critiche come capita alle donne».

Il dibattito, o forse sarebbe meglio dire il rumore, sui social è stato al centro di uno dei suoi brani più noti: Non me ne frega niente , datato 2017. È un tema che le sta a cuore?

«Molto, perché è centrale nel nostro tempo ed evolve in continuazione. L’ispirazione per Non me ne frega niente mi era arrivata dopo un lungo post su Facebook che avevo scritto dopo l’attentato al Bataclan del 13 novembre 2015. Mi ero scagliata contro i Je suis Paris scritti a caso, senza cognizione del dramma in corso, e avevo ricevuto commenti feroci. Volevo ironizzare su chi aveva sempre un’opinione su tutto. In Opera futura, invece, c’è un brano che si chiama Capitale, mio capitale, in cui critico il finto attivismo dei social. Ormai non si contano nemmeno più gli influencer che abbracciano buone cause perché questo è il nuovo trend. Vogliono solo esserci, non importa come. Una volta c’era la moda, oggi ci sono i diritti, come fossero un oggetto. Chi ha un grande seguito e comunica un’idea senza conoscerla davvero può essere pericoloso, oltre che poco credibile. E poi, diciamoci la verità, non si possono abbracciare tutte le cause».

Anche la maternità è diventata un trend topic dei social.

«Sì e c’è un rischio fortissimo di banalizzazione e di esibizionismo. La maternità andrebbe raccontata in un modo diverso, e non mi riferisco solo ai social, ma proprio alla narrativa che viene fatta da decenni, se non secoli. Prima di diventare mamma avevo paura soprattutto del parto, che nel mio caso è andato benissimo, e del cambiamento del corpo. Nessuno mi aveva preparata al dolore dell’anima del post partum. In quel momento può capitare, come è capitato a me, di vivere un contrasto tra la gioia che secondo la società dovresti provare e il desiderio di fuggire e tornare alla tua vita di prima. Magari pensi cose brutte, ma se ti esponi la gente ti dice: “Questo figlio lo hai voluto tu”. Oppure: “Le donne partoriscono da millenni, non sei certo l’unica. Di cosa ti lamenti?”. In Opera Futura c’è un pezzo che si chiama Mater, l’ho scritto perché volevo raccontarmi come so fare, cioè con la musica, ma anche perché ho sentito la responsabilità di dire “può succedere ed è importante farsi prendere per mano”».

Lei è stata aiutata?

«Pietro è stato un sostegno fondamentale, senza di lui non so come avrei fatto. Non tutte hanno questa fortuna. Mi hanno scritto donne che si sentivano ancora tristi a più di un anno dal parto. In casi come questi penso sia necessario farsi seguire da professionisti».

Tornando ai social, l’ormai noto “potere della condivisione” non la convince?

«No. Tanto più su argomenti delicati come il parto. Non credo che le foto di cicatrici e mutandoni alzino il livello del dibattito. Temi come la maternità, i diritti, l’identità di genere meritano una cura maggiore».

Ha dedicato a sua figlia una canzone che porta il suo nome: Alma Futura . È un modo per raccontarsi a lei o per raccontarla agli altri?

«È un regalo. Volevo lasciarle una piccola eredità. Ho perso mio papà quando ero piccola e non ho alcun ricordo della sua voce. È stato un modo per sigillare la gioia di averla portata in grembo e poi accolta nella mia vita».

È felice?

«Mi sento di nuovo leggera, ed è meraviglioso. Credo sia il punto di arrivo di un percorso che ho messo anche in Opera Futura, un album che ho iniziato a scrivere nel marzo 2020 per liberarmi dalla pesantezza del lockdown e ha accompagnato una mia evoluzione artistica e personale. Lì dentro c’è una sintesi del passato, ma anche qualcosa di me che ancora non so. Mi piace. Il 27 settembre sarò in concerto all’Arena di Verona e non vedo l’ora. Per la prima volta l’avrò tutta per me. Nel 2014 avevo aperto il concerto dei Negramaro, ho ancora la pelle d’oca quando ripenso a come risuonano gli applausi lì dentro. Stiamo preparando un’esibizione all’altezza del luogo che la ospita, ci saranno anche tanti amici. Ora, dopo il buio, mi godo la luce».

IL RITRATTO

LA MUSICA - Claudia Lagona è nata il 23 maggio 1987 in provincia di Catania. Debutta nella musica nel 2013 con il singolo Alfonso. Nel 2014 incide il primo album Manuale Distruzione, seguito nel 2017da Nel caos di stanze stupefacenti, lo stesso anno è tra i giudici di XFactor . Nel 2020 partecipa a Sanremo con il brano Tikibombom, nel 2023 torna con Vivo. Ha curato la colonna sonora del film Romantiche di Pilar Fogliati

I LIBRI - Il 19 gennaio 2017 esce il suo primo romanzo Se non ti vedo non esisti. Nelle prime tre settimane arriva alla quarta ristampa ed entra nella classifica dei libri di narrativa più venduti in Italia. Il 13 novembre 2018 esce Questa è l’ultima volta che ti dimentico. Nel giugno 2021 è la volta di E questo cuore non mente. Tutti editi da Rizzoli

IL NUOVO ALBUM - Il suo ultimo album si intitola Opera Futura, (Parlophone/ WarnerMusic Italy) contiene dieci brani che parlano di vita attraverso gli aspetti sensoriali, attraverso il corpo

L’ARENA DI VERONA - Il 27 settembre 2023 si esibirà all’Arena di Verona, con i brani del nuovo album e le hit che hanno scandito la sua carriera

Levante: «Non mi sposerò mai più. Con Pietro Palumbo la mia storia più lunga: è il genitore più attento per nostra figlia Alma Futura». Elvira Serra il 16 Marzo 2023 su Il Corriere Della Sera.

La cantautrice Claudia Lagona: «La mia vita oggi è l’opposto di quella di “Alfonso”». Il cameo nel film di Fogliati: «Quando a una festa si girano a guardarmi vorrei sotterrarmi». I capelli biondi: «Ma chi l’ha detto che le donne del Sud devono essere scure, con capelli neri e i baffi?»

Dieci anni fa con «Alfonso» cantava «che vita di m.». Adesso che vita è?

«C’è sempre un motivo per lamentarsi... Ma oggi la mia vita è l’opposto. Ai tempi di Alfonso ero triste, frustrata. Semmai ora mi mancano i sogni. Forse il mio obiettivo maggiore è mantenere quello che ho: credo sia la parte più difficile».

Levante, al secolo Claudia Lagona, è seduta in una saletta della Warner Music a Milano. Indossa un cardigan blu e una maglia a righe intonata alle calze. Risponde a tutto, sempre, surfando sui ricordi di una vita vissuta con lo sguardo sempre rivolto al passato, a quel punto di non ritorno che è stata la morte del padre. Aveva 9 anni e un’invincibile nostalgia segnò tutti i giorni a seguire. Fino al 13 febbraio dello scorso anno, quando gli occhi di Claudia hanno abbracciato un mondo nuovo: quello ridisegnato dalla nascita di Alma Futura, figlia sua e di Pietro Palumbo, il compagno avvocato. In mezzo, cinque album (l’ultimo è Opera Futura), tre romanzi, un matrimonio finito, un film (dove ha un cameo e firma la colonna sonora), otto tournée, due Festival di Sanremo e un X Factor da giudice.

Se le dico Lido Jolly?

«E vabbé, non mi hanno nemmeno dedicato un ombrellone, che so, il numero 23: Levante. È il lido della Playa di Catania dove andavamo ogni estate con la mia famiglia. Affittavamo una cabina per un mese. Rispondevamo allo stereotipo del siculo che va in spiaggia con la parmigiana e le cotolette nella borsa frigo. Il bagno potevamo farlo rigorosamente dopo tre ore, e ci chiedevamo lo stesso se saremmo sopravvissuti».

Il suo primo ricordo?

«Uno dei primi è una corsa. Vedo ancora le scarpettine blu con l’occhio di bue, eccole (mostra una foto sul cellulare, ndr), e la felicità di scoprirmi capace. Poi tante immagini tra le braccia di mia madre: volevo stare sempre in mezzo ai grandi, farmi cullare dai loro discorsi».

Fin da piccola desiderava fare la cantautrice?

«Sì. I miei mi incoraggiavano: mi mettevano al centro e mi chiedevano di fare uno show».

Poi suo padre è mancato.

«Avevo 9 anni e cominciai a scrivere testi pregni di dolore, tant’è che quando feci il provino da Teddy Reno, ad Ariccia, lui disse che erano veramente tristi per una ragazzina di 13 anni».

Si chiamava Rosario.

«Prima di fare terapia avevo un’immagine di lui severa, ma santificata. La morte ci dà questo potere di rendere le persone che se ne vanno bellissime. Poi, attraverso un percorso di ricerca, ho visto un padre anche tanto duro. Me lo voglio ricordare con la pipa in bocca mentre mi prende in giro per le A che portavo a casa da scuola. La sua ossessione era il nostro rendimento scolastico, eravamo terrorizzati dal non essere abbastanza bravi. Questa cosa me la sono portata dietro e per camuffare il senso di inadeguatezza mi mostravo più dura e antipatica di quanto non fossi in realtà».

Da Palagonia, dove ha vissuto fino ai 14 anni, si è trasferita a Torino.

«Fu un viaggio lunghissimo, in treno, con i miei nonni. Arrivammo il 1° settembre del 2001. Ho frequentato il liceo linguistico Regina Margherita, poi mi sono iscritta in Economia, convinta da mia sorella Rosalia, ingegnere. Dopo due mesi passo a Lettere. Dopo 10 esami e scarso rendimento mia mamma dice: pensaci, forse è il caso che molli tutto e provi a fare la cantante».

Fu brava a incoraggiarla.

«La madre migliore del mondo. Mi ha lasciata spesso libera di scegliere, mai stata impositiva».

Dunque lascia Lettere.

«Sì, ma ancora non mollo e mi iscrivo in Psicologia: ho dato solo Filosofia e Inglese. Questa cosa di non essermi laureata mi dispiace. Ho pensato di riprendere, magari Storia o Filosofia. Ma a me gli esami mettono ansia».

Ha lavorato in un bar.

«La Drogheria: stavo lì dalle 10 alle 17. Lavorare era una necessità, avevo accumulato troppe multe: facevo sempre scadere il parcheggio».

Ha mai pensato di mollare?

«Altroché, forse pure prima della Drogheria. Quando ero stata a Leeds per la musica e non andò bene ebbi un attimo di sconforto. Se non fossi riuscita a fare la cantautrice sarei diventata designer di interni o architetta, non so, ma avrei trovato lo stesso la mia felicità. Non realizzare un sogno non può essere motivo di disperazione».

Si è anche sposata: con Simone Cogo, musicista.

«Sì, nel 2015. E ci siamo lasciati nel 2016, siamo stati insieme due annetti. Siamo ancora amici. È stato un matrimonio di grande passione, in chiesa, eravamo accecati d’amore».

E poi cos’è successo?

«Poi ho avuto paura: “per sempre” mi spaventava... Però lui ha capito. Non mi voglio più sposare. Pietro, il mio compagno, lo sa: la nostra è la storia più lunga che ho avuto. E poi adesso c’è Alma: il legame più forte che potessimo creare».

Ha detto che tra di voi lui è il genitore migliore. Perché?

«Ha una grande pazienza, è il più attento. Io non ho paura che Alma esplori casa, non le voglio trasmettere la mia ansia, la lascio libera. Lui la segue ovunque. Che madre indegna, eh...».

Il ricordo più vivido del parto?

«Pio X di Milano, la mia ostetrica dice: “Ci vediamo domani”. Col cavolo che partorisco il 14 febbraio!, penso io. In tre ore faccio tutto: alle 18 tenevo Alma in braccio. Che stupore quando me l’hanno messa sul petto...».

Se sua figlia volesse fare la cantante?

«Io le auguro di imparare a suonare uno strumento, perché ti apre la testa, è una porta per la libertà. E se desiderasse fare la musicista la supporterei. Purtroppo questo è un mondo che non perdona i “figli di”. Ma è ovvio che un figlio assorba dai genitori quello che fanno».

A lei chi ha insegnato a suonare?

«Ho imparato da autodidatta. Mio padre suonava l’organo, mio fratello la chitarra».

Un tempo apriva i concerti degli altri: Max Gazzè, Paolo Nutini, Negramaro. Chi aprirà il suo all’Arena di Verona il 27 settembre?

«Non ci ho ancora pensato. Potrebbe essere bello chiederlo a Galea, che ho scoperto tramite il mio fan club. Me la sono ritrovata poi a X Factor e l’ho eliminata, ma mi ha perdonato».

Ha duettato con il suo mito Carmen Consoli, con Tiziano Ferro, con altri. E con sua madre Maurizia com’è stato?

«Se penso al coraggio che ha avuto per salire sul palco del Forum di Assago...».

Ma almeno l’ha pagata?

«Ma siamo matti! È venuta per amicizia! Tutti i miei parenti comprano il biglietto ai miei concerti: è una cosa bella. E poi ci sono gli amici di terzo grado che chiedono di entrare gratis...».

A Sanremo la classifica non l’ha mai premiata: con Tikibombom arrivò 12esima e quest’anno, con Vivo, 23esima. Dispiaciuta?

«No, non avevo aspettative. Credo che la classifica rispecchi i tempi che stiamo vivendo: non a caso tutte le canzoni della cinquina finale parlano d’amore. Io canto “Vivo un sogno erotico”, ero tutto fuorché rassicurante e lo capisco».

A Lecce non poté esibirsi nella piazza del Duomo per la canzone «Gesù Cristo sono io».

«Credo di essere l’unica artista italiana a essere stata allontanata dalla Curia da una piazza. Manuel Agnelli mi ha invidiato molto: a lui non era riuscito in trent’anni di carriera».

Quando si è emozionata di più in concerto?

«All’Arena di Verona quando ho cantato con Carmen Consoli, il 27 agosto 2022. Ero incinta al quarto mese. Non sapevo che l’outfit fosse nero, io ero vestita di bianco: esco sul palco e trovo pure lei vestita di bianco. Ho anche sbagliato la canzone, nonostante il gobbo, tanto ero confusa. Pensare che quando l’avevo conosciuta, nel 2010 agli Mtv Days, le avevo chiesto se potevo mandarle la mia musica; poi non lo feci».

Anche lei riceve i cd da aspiranti cantanti?

«Sì, ho pile accumulate negli anni, ma le ho ascoltate pochissimo. Mentre leggo tutte le lettere dei miei fan: me le portano ai firma copie».

Com’è recitare in un film? Lo ha appena fatto in «Romantiche», di Pilar Fogliati: la colonna sonora originale è sua.

«Interpreto me stessa e la scena mi è capitata spesso nella vita: quando entro a una festa e tutti si girano a guardarmi. In quei momenti vorrei sotterrarmi in una buca di seimila metri».

Un ricordo dei tempi delle ristrettezze?

«Nella casa che condividevo con le mie cugine e un’altra amica avevo una stanza mansardata. Mi rivedo che apro il cassetto della biancheria intima e conto i soldi nella busta, questi per l’affitto, questi per la spesa... Non bastavano mai».

Uno sfizio che si è tolta?

«A ottobre per il compleanno di Pietro gli ho regalato il viaggio a New York in business. Siamo partiti con Alma e abbiamo passato lì Halloween in un hotel a Times Square».

Ama dipingere. Farà mai una mostra?

«Potrebbe non tardare ad arrivare».

Venderà i suoi quadri?

«Perché no. Prima li vorrei far valutare».

Chi altro vorrebbe conoscere, dei suoi miti?

«Alejandro Jodorowsky e Marina Abramovic: per loro canterei gratis, qualunque cosa. Jodorowsky lo devo assolutamente incontrare! Ha verbalizzato quello che faccio fin da piccola».

Il suo atto psicomagico più potente?

«La musica: mi sono salvata».

Ha quasi 1 milione di follower. Che effetto fa?

«Oggi nessuno. In questi ultimi mesi ho letto cose che mi ero dimenticata si potessero scrivere: critiche e attacchi gratuiti».

Si riferisce ai suoi nuovi capelli?

«Sì. Va bene essere stupiti del mio cambio di colore, ma non ho chiesto consigli né indetto un referendum. E poi chi l’ha detto che le donne del Sud devono essere scure, avere capelli neri e magari pure i baffi? Fatico ad accettare la libertà degli altri a esprimersi sulle mie scelte».

A chi si sente più grata?

«A mia madre. Senza di lei non ci sarei».

Levante: «A Sanremo canterò della mia depressione post parto. Un tema ancora tabù». Emanuele Coen su L’Espresso il 30 gennaio 2023.

È il tema al centro della nuova canzone “Vivo” che la cantautrice siciliana, tra i big del Festival, porterà all’Ariston. «È come se il senso di colpa prevalesse sul dolore. Non puoi essere triste perché hai vissuto una gioia»

L’ultima volta a Sanremo, tre anni fa, Levante se la ricorda bene. “Tikibombom”, la canzone che accarezza gli “animali stanchi” della diversità, i freak, gli strani che non seguono il ritmo degli altri, restò per settimane in cima alle classifiche, nonostante il dodicesimo posto al festival. Disco di platino, il singolo festivaliero che ha avuto vita più lunga, in pieno lockdown. Adesso Claudia Lagona, 35 anni, autrice di canzoni e romanzi (il terzo, “E questo cuore non mente”, è uscito nel 2021 per Rizzoli), capelli non più castani ma biondi, torna al Festival in gara tra i big come la sua grande amica Elodie. Porta “Vivo”, «una canzone che parla di un momento buio della mia vita, la crisi post-parto». Alla vigilia dell’uscita del nuovo album “Opera Futura”, il 17 febbraio.

Levante, lei è diventata mamma di Alma Futura un anno fa, il 13 febbraio. Non la spaventa parlare di uno stato d’animo così personale?

«Quando ho scritto questo brano, il 4 marzo dell’anno scorso, sapevo che avrei affrontato un argomento molto difficile. Oscillavo tra stati d’animo opposti, desideravo ritrovare un equilibrio nonostante la depressione. Al centro della canzone c’è l’ambizione di riprendere possesso della propria vita, riappropriarsi di mente e corpo, avere la sensazione di poterli ancora amare, sentirsi vivi. Credo di aver raccontato tutto questo con parole semplici».

In che modo?

«”Vivo” è un sogno in potenza. Nel testo sembra che io stia vivendo quelle cose, in realtà le sto sognando. Ho scritto questa canzone a tre settimane dal parto, ero nel buio totale. Oggi il tema resta molto delicato, se ne parla in maniera troppo superficiale. È ancora tabù, come se il senso di colpa prevalesse sul dolore. Non puoi essere triste perché hai vissuto una gioia, hai avuto la fortuna di dare la vita. E invece il periodo che segue il parto è molto complicato per noi donne, devi fare i conti con un corpo che non è più tuo. È diventato una casa».

Veniamo a Sanremo. Quest’anno è tra i big e pensare che fino all’altroieri un certo mondo indie, di cui lei fa parte, snobbava il palco del Teatro Ariston. Cosa è successo?

«Fino a qualche anno fa Sanremo non era un palco ambito. La direzione artistica ha dato una svolta: oggi finalmente il Festival ha fatto luce su un genere musicale che esiste, riempie i club, fa concerti, ascoltatori e sta anche in classifica. Finalmente Sanremo guarda alla musica indipendente, l’ha messa allo stesso livello dell’Olimpo della musica italiana. È stato un gesto intelligente e quindi oggi tutta quella fetta di artisti che mai avrebbe partecipato è felice di farlo. In realtà, da quando ho esordito, ho tentato di entrare a Sanremo tra i giovani ma non c’è stato verso (ride), qualcuno ha detto “troppo strana”. Tuttora vengo percepita come strana, semplicemente vorrei essere considerata perché ho uno sguardo diverso rispetto ad altri. Ma oggi è bello essere al Festival, insieme a tanti artisti che un tempo non avrebbero mai pensato di poter partecipare».

Lei si è sempre schierata contro omofobia e discriminazione di genere. Qualche mese fa, alla viglia delle ultime elezioni politiche, in un post su Instagram ha attaccato Giorgia Meloni (senza mai citarla) e ha menzionato una frase di Elly Schlein, candidata alla segreteria del Pd: “C’è molta differenza tra leadership femminili e leadership femministe”. Di recente Schlein ha confessato di fare il tifo per lei e Elodie a Sanremo. È ancora attuale l’impegno da parte di un cantautore?

«Lo trovo necessario e attuale, ma solo se sincero. Purtroppo oggi si rischia di sembrare retorici o prendere posizione per convenienza. Personalmente non mi sono mai sentita obbligata a parlare di politica o indignarmi per qualcosa. Quando lo faccio scelgo l’approccio da cittadino, da essere umano, come se discorressi delle cose che non vanno con gli amici in salotto. Lo stesso vale per la mia musica».

La decisione di tingersi i capelli di biondo ha fatto molto discutere i suoi fan. Perché questo cambio di look?

«Anche la scelta del biondo fa parte del post-parto. Mi vedevo brutta, tuttora non mi vedo chissà che (ride). Dentro di me sono sempre stata bionda, mi sono detta “voglio fare questo colore folle”. Non si capisce che colore ho, lo chiameremo pesca. Tornerò mora, ovviamente, ma mi stupisce come la gente l’abbia presa sul personale. Con le mie sopracciglia nere, i capelli neri, sono stata talmente iconica che le persone si sono sentite tradite. Non resterò a lungo bionda, anche perché la ricrescita è uno “sbattone” totale. Ma è bello cambiare, osare. La vita è una sola».

Sono passati dieci anni dal 2013, quando il singolo d’esordio “Alfonso” scala le classifiche, riempie le piazze e diventa un manifesto generazionale. Com’era la Levante di allora?

«Sono stati dieci anni pazzeschi. Per fortuna dimentico tutto quello che ho fatto, ma sono ancora quella ragazza che si sente a disagio alle feste. Probabilmente non mi passerà mai perché sono fatta così, anche se poi mi diverto e quando torno a casa mi dico: “Meno male che ci sono andata”. Sento ancora quel tipo di timidezza, Alfonso fa ancora parte di me. A distanza di dieci anni, amo ancora tantissimo questa canzone».

Estratto dell'articolo di Stefano Mannucci per il “Fatto quotidiano” il 29 giugno 2023.

Ho perso le parole. L’incubo di ogni cantante. Te le dimentichi, il gobbo si oscura o peggio: senti il buio nel cervello e capisci che quella canzone non la porterai mai a casa, perché la testa ti congiura contro. Il tilt di Lewis Capaldi si è risolto con un commovente coro del pubblico di Glastonbury, che ha intonato al posto suo la hit Someone you loved. […] 

Sceso dal palco, Lewis ha scelto il niente, almeno per il momento. Stop al tour, annullate le restanti 24 date, il cantante italo-scozzese (il padre è originario del Frusinate) ha deciso di dedicarsi alla sua salute mentale dopo la diagnosi della Sindrome di Tourette. […]

Certo che se sei una star il freno a mano tirato può farti fare testacoda. Lo sa Billie Eilish, anche lei afflitta dalla stessa sindrome. Ne ha parlato con David Letterman, rivelando che non pochi altri big nascondono quella fragilità sistemica. 

Kurt Cobain aveva scritto un pezzo catartico, Tourette’s, disperatamente autobiografico. Da ragazzino gli avevano certificato una natura ipercinetica e difficoltà di attenzione: e curato, come milioni di altri bambini americani, con il Ritalin. […]

A pensarci bene, il grunge era la terapia rock per una generazione, soprattutto negli Usa, che Big Pharma aveva precocemente impasticcato. Ma se l’insidia non è la Tourette, bensì un accidente quasi irreversibile come un ictus, se vuoi tornare a cantare circondati di amici dediti a te. È accaduto a Joni Mitchell, colpita dalla folgore nel 2015: “curata” nello spirito da colleghi amorevoli capitanati da Brandi Carlile, Joni si è riappropriata della propria leggenda tornando on stage l’anno scorso al Festival di Newport e il 10 giugno scorso a Gorge in un set vero e proprio.

Poi ci sono gli adorabili confusi.  Non rincoglioniti, ma affetti da amnesie estemporanee. È capitato a tutte le superstar. Adele […] Miley Cyrus, Ariana Grande, Jay Z, Beyoncè, Ed Sheeran: ognuno di loro ha un aneddoto sul panico che ti assale quando sei sotto i riflettori e ti senti impreparato come uno scolaretto all’esame. 

Nel 2017 persino lo smagato Chris Martin si perse nella nebbia dei versi della sua Princess of China. […] Gli italiani se la cavano meglio con la memoria? Macché: a Sanremo 2023 Ramazzotti si bloccò clamorosamente su Un’emozione per sempre: per fortuna era la serata dei duetti, il salvagente glielo tirò Ultimo. La Vanoni cazziò Baudo, sempre in diretta tv, perché gli impallava il suggeritore elettronico mentre attaccava una cover di Vasco.

[…] Ma il Re degli Scordanti è notoriamente Celentano. Irrimediabile la figuraccia per il tributo in morte di De André su La guerra di Piero. Piovvero fischi. Come in qualche Sanremo d’antan. O a Rock Economy, dove farfugliò sillabe a caso su L’arcobaleno, l’elegia mogoliana per Battisti. Adriano spiegò: è sparito il gobbo. La scatola nera degli smemorati in Mi 7ma. 

Estratto dell'articolo di Elena Aquilanti per editorialedomani.it il 29 giugno 2023. 

Il cantautore e polistrumentista scozzese ha annunciato l’interruzione dei concerti a causa di problemi di salute. La decisione dopo il concerto di Glastonbury, dove ha dovuto interrompere l’esibizione proprio mentre cantava il suo brano più famoso: Someone you loved

[…]

Durante il concerto Capaldi ha perso gradualmente la voce e proprio sulle note della canzone non è riuscito a proseguire. Allora Capaldi si è rivolto al suo pubblico dicendo: «Ho solo bisogno che tutti voi cantiate insieme a me più forte che potete». Così, i fan hanno risposto, cantando in coro. Alla fine del concerto il cantante ha ringraziato il pubblico e ha spiegato che la sua voce si era «bloccata».

Proprio a causa dei problemi di salute, […] Lewis Capaldi ha preso la decisione di non proseguire il tour. […] A dare l’annuncio è stato lo stesso cantante con un post su Instagram: «Il fatto che questo non sorprenda nessuno non lo rende più facile da scrivere ma sono davvero dispiaciuto di farvi sapere che mi prenderò una pausa dal tour. Mi dispiace davvero tanto per tutti coloro che avevano pianificato di venire a un mio concerto di qui alla fine dell’anno ma ho bisogno di sentirmi bene per esibirmi all’altezza di come vi aspettate. Suonare per voi ogni notte è tutto quello che avevo sempre sognato quindi questa è stata una delle decisioni più difficili che abbia mai dovuto prendere nella mia vita. Tornerò il prima possibile».

«So di essere incredibilmente fortunato a potermi prendere una pausa quando gli altri non possono e vorrei ringraziare la mia fantastica famiglia, gli amici, il team, i professionisti medici e tutti voi che siete stati così di supporto in ogni fase della vita attraverso i bei momenti e ancora di più durante questo ultimo anno in cui ne ho avuto bisogno più che mai».

[…]

«Speravo che tre settimane mi avrebbero sistemato. Ma la verità è che sto ancora imparando ad abituarmi all’impatto della Tourette e sabato è diventato ovvio che ho bisogno di passare molto più tempo a rimettere la mia salute fisica e mentale in ordine, così da poter continuare a fare ciò che amo ancora a lungo».

Barbara Costa per Dagospia il 2 luglio 2023.

Cade l’ultimo tabù del porno! Evviva! Non è un abbaglio, è uno sconvolgimento. Guardate il fisico di questa ragazza. Sì, lo so, è da urlo, una f*ga inaudita, ma, per cortesia, soltanto per qualche minuto, interrompete lo smanacciamento ed esaminatele glutei e cosce: le vedete, sì? Ma come che cosa, le smagliature!!!!! Righe e righe solcanti c*lo e anche di Lia Lin, esordiente porno, e con le smagliature che la inondano, prepotenti, nelle foto più posate ma non filtrate né ritoccate.

Non vi fa indurire pene o clitoride pure così, e proprio perché è così? E pensare che fino a poco tempo fa le smagliature erano il nemico il più infido delle pornostar. Anni di combattimenti eroici, spietati, senza cedimenti, contro un tale inestetismo, una lotta col porno che si rendeva via via affinato e nitido nelle inquadrature, sempre più "ginecologiche", insinuanti su e giù nei coiti, con le attrici a scapicollarsi, a svenarsi di laser, e medicina estetica: il palesarsi d’una smagliatura corrispondeva a tragedia e costava altrettanto.

Prendere una bellezza come Lia Lin baciata da "quelle" linee e porla a prototipo del sesso il più desiderato ed esaudiente, il più invitante, non decreta la fine ma dà colpi micidiali ai corpi fin troppo plastificati. Oddio, non che lo standard di fascino di Lia Lin sia quello della ragazza della porta accanto (uno standard che a me personalmente ammoscia ogni tentazione), e però, mica è da tutte slanciarsi in sensualità come si può concedere – e specie di labbra – questa 22enne.

I p*pparoli non li freghi! Lia Lin l’hanno "postillata" dalle sue prime scene! E i p*pparoli l’hanno subito evidenziato, che nei siti porno lei è inclusa nella categoria sbagliata: Lia Lin non è asiatica, manco per niente. Sì, l’aspetto, il nome d’arte, possono ingannare, ma i p*pparoli disattenti, o quelli di bocca buona. A parte che Lia Lin ha usato diversi porno alias – Naomi Hill, Kim Rossi, e altri – e a parte antenati filippini, Lia Lin è figlia di padre brasiliano e di mamma russa. 

Lei in Brasile ci è nata ma è stata trasferita in Russia in tenera età dalla madre, a San Pietroburgo, quando i suoi genitori si sono separati. Lia Lin a soli 22 anni ha già fatto vari lavori: dai 16 è una modella professionista (è alta 1.75, pesa 49 chili) ed è dai 18 che vive, da sola, e viaggia, da sola, ed è totalmente indipendente. Da adolescente si è cimentata ginnasta di livello, ha una laurea in marketing, sa non so quante lingue, e ha fatto pure l’interprete.

Sono queste le ragazze che il porno più ricerca e imbarca: persone che sanno gestirsi da sé e al massimo grado, e Lia ci racconta che lei ha lasciato la moda perché è un ambiente “d’una concorrenza allucinante”, preferendogli il porno e di suo sbagliando, vuoi perché lo considerava un settore attiguo a quello della moda (ma quando mai!), vuoi perché in verità non immaginava la competizione che appesta e regna nel porno.

Lia ha iniziato col porno quello più intenso, con le orge selvagge e le gang-bang a battaglia di porno brand notissimi come "Legal Porno". Sono queste porno case di produzione che pagano e tanto le ragazze che accettano di girare filmati estremi, rappresentanti perversioni supreme, pissing ma a ingozzo, fellatio ma a ingozzo di peni e peni abnormi, insistenti in bocca e in ogni altro anfratto pattuito e contento, per amplessi multipli, aggressivi, imperiosi, sopraffattori di fanciulle senzienti siffatte giostre circensi.

Sono porno che vaste platee rigettano, opposte a altrettante vaste che ci si svagano, e ne sono spettatrici fidate e continue. Il porno di "Legal Porno" e consimili ha un mercato gigantesco mai sazio.

E infatti, tra i video più visti di Lia Lin si segnalano le sue triple penetrazioni, e anali e vaginali, e le sue orge 6 contro 1, ovvero le orge dove 6 (e sovente più) uomini non risparmiano nulla a una donna al centro della scena che – ve l’ho già detto e ve lo ripeto – nel porno è lei protagonista dell’azione quindi di tale orgia, com’è lei che la comanda: è lei che comanda su quei 6 (e sovente più) peni ed è lei che comanda su quei 6 (e sovente più) maschioni: le di lei espressioni di oppresso asservimento sono una recita, fatte in funzione dell’orgasmo che lo spettatore cerca, prova e approva.

Lia Lin ha graffiato un’altra porno rivoluzione: fino a poco tempo fa, le attrici che nel porno si davano a amplessi ultra sfrenanti e a immagine consumanti, erano scartate per far porno più… soft. Invece tra le ultime uscite di Lia Lin troviamo "Mystery Man", porno "morbidissimo", e ci sono lesbian "morbidissimi", e per chi non se ne fosse accorto, avviso che Lia risalta in più pellicole by Rocco Siffredi: "Skinny but Not Teeny", e "Lia’s Big Step Family" sono solo quelle dove abbaglia già dalla cover. Smentisco risolutamente che Lia Lin vuole smettere col porno. È una fake che gira in rete. Lia Lin non si pone piani, né limiti.

Estratto dell'articolo di Alessandra Paolini per “la Repubblica” il 30 aprile 2023. 

La spina nel cuore di Nicola Pietrangeli è una donna bionda che, scavallati i sessant’anni, ancora affascina per charme e bellezza. Licia Colò non è una da gossip, della sua vita privata ha sempre parlato poco.

Ma confessa di essere stata sorpresa dalle parole con cui il grande campione del tennis italiano, qualche giorno fa, ha descritto a Repubblica la fine della loro relazione: «Non è vero — dice — che tra noi abbia pesato la differenza di età. La realtà è che le cose finiscono. Anche le più belle e importanti. Come quella fra me e Nicola, e quella più recente con Alessandro (Antonino ndr ),mio marito, l’unico uomo che mi ha fatto venire voglia di mettere al mondo un bambino». 

Pietrangeli ha raccontato di aver pensato che la vostra storia sarebbe stata per sempre.

«Anche io, quando mi innamoro, penso sia per sempre. Però non è mai capitato. L’importante è continuare a volersi bene. A me l’hanno insegnato i miei genitori». 

(...)

Un narcisista...

«Esatto, un narcisista: veleno allo stato puro. Ero bella e mi convinceva che ero brutta. Non era lui ad essere basso, ma io troppo alta. Un tipo d’uomo da cui bisogna subito scappare. Lo dico sempre a mia figlia Liala, che ha 17 anni. Poi ho incontrato lui, il secondo uomo della mia vita…». 

Lui chi?

«Nick Pietrangeli: quello che mi ha fatto capire che potevo volare». 

Certo. Lui l’amava.

«Non è solo quello. Nicola era ed è una persona sicura di sé, generosa. Mi ha insegnato a dire “Io voglio”. Mi diceva “Puoi arrivare dove vuoi”». 

E lei gli cucinava gli spaghetti con i capperi, che Nick ha definito “di-vi-ni”...

(Ride) «Io sono negata in cucina… Ma saper amare vuol dire anche non scocciare con “la pasta è scotta”, “nel sugo manca il sale”...». 

Perché la gente ancora si ricorda della sua storia con Pietrangeli?

«Sarà perché tra me e lui c’erano 30 anni di differenza?». 

A lei non pesava?

«No. Intanto, lui era un gran figo .E poi — sarà pure una frase fatta — l’amore non ha età: si può essere attraenti fino alla fine. Quando incontrai Enzo Majorca, ad esempio, il campione di apnea, lo trovai bellissimo. Aveva gli occhi luminosi di un ventenne. E si avvicinava già agli ottanta...». 

Con Nick vi frequentate ancora?

«In realtà in vent’anni ci saremo visti tre o quattro volte. Poi, un paio di settimane fa, era domenica, mi ha telefonato e chiesto che facevo. “Vado ad Ostia, al mare, con Liala e mia cugina” dico. E lui, che è sempre stato un gran signore: “Posso venire con voi? Non c’è cosa più bella che offrire il pranzo a tre signore...”».

(...) 

Invecchiare le fa paura?

«Certo, poi però penso che Brad Pitt ha la mia stessa età ed è ancora un grande gnocco . E così mi consolo». 

Il rimpianto?

«Non sentirmi più figlia. I miei genitori sono morti entrambi, mamma solo un anno fa. Mi mancano tanto, mia madre più romantica, papà inquieto come me. Era un pilota dell’Alitalia. Appena poteva andava in windsurf». 

Cosa la fa stare male?

«La rabbia che c’è in giro. Dovremmo tutti girare lo sguardo dove si vede più luce».

La sua luce da che parte sta?

«La mia sta su un foglio. Papà già stava male, lo portai a fare una visita. “Signor Colò”, disse la neurologa, “scriva quello che vuole”. E gli mise davanti un foglio. Papà stava lì, seduto, con la penna in mano. Perso. La mano gli tremava… Io avevo il cuore piccolo piccolo. Ma non mollò. E piano piano cominciò a buttare giù delle lettere. Poi delle parole. E alla fine scrisse: “La vita è meravigliosa, peccato sia così breve”».

Liliana Cavani: «Vincere il Leone a 90 anni è una seconda giovinezza. Combatto i tabù ideologici, non quelli sessuali». Paolo Conti su Il Corriere della Sera venerdì 25 agosto 2023.

La regista si racconta a 7 alla vigilia della Mostra del cinema in cui riceverà il premio alla carriera: «Il tempo non esiste, è come il filo di un grande gomitolo che non finirà mai. I ragazzi senza futuro? Andranno avanti. Per istinto» 

Liliana Cavani, 90 anni, regista. Alla Mostra del cinema riceverà il Leone alla carriera. Tra i suoi film più famosi «l portiere di notte», «La pelle», «Francesco». A Venezia porta fuori concorso «L’ordine del tempo»

Liliana Cavani: il Leone d’oro alla carriera alla 80a Mostra del cinema di Venezia coincide con i suoi 90 anni. Ha detto di lei il direttore della Mostra, Alberto Barbera: «Il suo è uno sguardo politico nel senso più alto del termine, antidogmatico, non allineato, coraggioso anche nel modo in cui affronta i tabù più sfidanti». E poi, sempre a Venezia, la presentazione fuori concorso dell’atteso film L’ordine del tempo , liberamente ispirato all’omonimo saggio del fisico Carlo Rovelli per Adelphi, una scommessa intellettuale e narrativa. Domanda ovvia ma inevitabile: cosa pensa di tutto questo?

«Una bella sorpresa. L’occasione di una seconda giovinezza. Per me questo film è importante per tanti motivi. Ero senza progetti da tre anni. È un po’ come aver ricominciato».

Si riconosce nella lotta ai tabù?

«Certamente. Io però non penso ai tabù sessuali ma a quelli ideologici, o politici. In quella motivazione, sì, mi riconosco».

Il Leone alla carriera a Venezia le piace come riconoscimento?

«Certamente sì, molto. E pensare che a Venezia vinsi un Leone d’Oro per il documentario nel 1965 con Philippe Pétain: processo a Vichy. Non ero lì, non avrei mai pensato di vincere. E non andai a ritirarlo: ero lontana, in vacanza, stavo bene dov’ero...».

«LA LINEA CHE UNISCE I MIEI FILM? LA CURIOSITA’ DI CAPIRE IL MIO TEMPO. DI COMPRENDERE LA STORIA CHE CI RIGUARDA»

La sua filmografia è vasta e diversissima nei temi: da Portiere di notte , ai tre film su Francesco d’Assisi, a Milarepa , al famoso Galileo che quasi nessuno ha visto, ai documentari per la Rai. Cosa tiene tutto insieme?

«La curiosità di capire il mio tempo. Di comprendere la storia che ci riguarda. E dire che sono laureata in Lettere antiche e certamente, uscita dall’università, sapevo molto più della guerra del Peloponneso che del mio secolo».

Cosa ha imparato da Tucidide?

«Moltissimo. In un passaggio descrive un atroce massacro di civili. E commenta: per tutto questo non c’è perdono. Da allora, parliamo del 400 avanti Cristo, nulla nella guerra è cambiato. Anzi, è peggiorato, se solo pensiamo alla Shoah. Non c’è perdono... non ci può essere perdono. Penso anche all’Europa di oggi». 

A proposito di Shoah e di storia, lei esordì alla Rai con documentari che ormai fanno parte dei migliori capitoli della Tv pubblica: Storia del Terzo Reich del 1962, l’anno dopo L’età di Stalin ...

«Visto che ero ferrata solo in Tucidide, mi misi a studiare, a studiare, a studiare. Per Storia del Terzo Reich vidi per tre mesi ore e ore di materiali anche sui campi di sterminio. Col montatore ogni tanto dovevamo interrompere, uscire, prendere aria. Era tutto troppo sconvolgente. Insostenibile. Una barbarie che, direi, va oltre la storia. Avevo un nonno socialista, centrale nella mia formazione. Sperava nel progresso dell’uomo. Chissà quanto sarebbe deluso oggi...».

Nella sua filmografia tre opere sono dedicate a Francesco d’Assisi. Lei come si definisce? Atea? Credente?

«Io sono cresciuta in una famiglia atea e questo ha influenzato la mia formazione. Rispondo dicendo che per me il cristianesimo...».

«C’È UNA MALATTIA PSICHICA NELLE MENTI CHE PROGETTANO GUERRE O INQUINANO. SE AVVELENI L’AMBIENTE, AVVELENI TE STESSO E CHI TI È CARO. SE DISTRUGGI QUALCOSA NEL MONDO, LO DISTRUGGI ANCHE PER TE... VORREI UNA POLITICA IN ARMONIA CON LA SCIENZA. UTOPIA?»

Dunque non il cattolicesimo...

«Io parlo di cristianesimo... per me è una religione molto affascinante. E Francesco è un genio, indipendentemente dalla fede che si può avere. La sua fraternitas nasce da un’idea modernissima: tutti siamo fatti della stessa materia. Esseri umani, animali, la natura. Tutto si basa sulla tavola periodica degli elementi di Mendeleev. Di lì l’intuizione di Francesco, il continuo richiamo alla pace, il Cantico delle creature. La sua idea di una connessione che unisce tutti e tutto è assolutamente visionaria. In più, guardandolo con gli occhi di oggi, Francesco è un ragazzo che si ribella all’andazzo generale, cerca un senso alla propria vita. E poi ho una controprova letteraria, su Francesco».

In che senso?

«L’unico di cui Dante parla veramente bene è Francesco. E di Dante bisogna fidarsi».

Arriviamo al film, all’incontro con un grande fisico come Carlo Rovelli. Due mondi lontani, i vostri, almeno sulla carta...

«Avevo letto il suo libro e l’avevo trovato bellissimo. Io, da sempre, quando leggo qualcosa penso subito a ricavarne un film, è un istinto... Ci siamo incontrati. Abbiamo parlato a casa mia. Ed è nato un progetto molto intrigante».

Cos’è il tempo per lei?

«Il tempo (ride; ndr) di fatto non esiste. Il concetto può andar bene come guida per la giornata, o per tenere un diario. Ma il tempo è come veder passare il filo di un grande gomitolo che però non finisce mai».

C’è un tema di fondo, nel film: che tutto può finire da un momento all’altro.

«Questo è il punto. E paradossalmente la notizia dell’evento magari arriverebbe solo dopo, quando tutto è già avvenuto...».

Com’è andata con gli attori?

«Un gruppo formidabile. Bravissimi. Abbiamo lavorato molto bene, sono felice».

Probabilmente il tema coinvolgerà le nuove generazioni, appesantite dalla percezione di un non-futuro, dalla mancanza di prospettive.

«Io da ragazzina ho vissuto la guerra. Ricordo i bombardamenti e la paura. Nessuno sperava in un futuro. Nessuno ci pensava. Ma poi i giovani progettano per istinto, vanno avanti. È la vita. Tutte le esperienze fanno crescere».

A cosa si riferisce?

«Da bambina nella mia Carpi vidi la tragedia dei 16 martiri uccisi dai fascisti il 15 agosto 1944. Avevo 11 anni, mi infilai nella folla in piazza, vidi quei corpi coperti dal sangue rappreso tra i vestiti, con le donne che urlavano i nomi dei figli o dei mariti. Poi dimenticai tutto. Nel 1970 girai I cannibali e mi accorsi che, senza volerlo, disponevo per corso Venezia, a Milano, i cadaveri esattamente come li avevo visti a Carpi. Girammo senza il permesso del Comune (ride; ndr) ma i vigili ci aiutarono a evitare blocchi nel traffico».

A proposito di tempo, tutti viviamo rimuovendo la morte, pensando che non ce ne andremo mai...

«Ma non è una rimozione: è anzi un regalo della vita. L’interesse e la curiosità tengono attiva l’intelligenza, l’attenzione per ciò che ci circonda fino all’ultimo. Bellissimo, no?».

Qual è il film al quale tiene di più?

«Davvero non saprei. So però che a Roma, sabato 15 luglio scorso, all’arena del Parco degli Acquedotti hanno proiettato il mio Francesco con Mickey Rourke del 1989 e che i più giovani erano entusiasti, attentissimi. Questo per me conta».

«IL MIO ‘GALILEO’ FERMATO DAL VATICANO ? QUESTO NON SO DIRLO. FORSE C’ERA IL PROBLEMA DI DOVER AMMETTERE CHE LA BIBBIA AVEVA SBAGLIATO, CHE GALILEO AVEVA RAGIONE» 

Nella sua filmografia c’è anche un film quasi cancellato, il Galileo del 1968, mai trasmesso dalla Rai. Per le pressioni del Vaticano, così si dice.

«Questo non so dirlo. Forse c’era il problema di dover ammettere che la Bibbia aveva sbagliato, che Galileo aveva ragione, che la Chiesa semplicemente non aveva accettato né seguito l’evidenza della scienza. Però so che ora il film è finito nella library di Mediaset, dopo alcuni passaggi. E che sarebbe bello vederlo, attualissimo com’è».

Un film che salverebbe nella storia del cinema, uno solo?

«Sicuramente L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, un capolavoro assoluto».

Lei spesso dice che Bergman le è stato essenziale. Perché?

«Per il suo pensiero, per la sua capacità di arrivare all’interiorità della vita che me lo rende vicino. Lo scoprii a Bologna negli anni dell’università, la domenica mattina ci organizzavamo tra studenti per vedere i suoi film, quelli di Bresson, il Neorealismo...».

Per lei Venezia è anche il ‘68, anno in cui presentò proprio Galileo . E la polemica sui fatti di Praga...

«Ero stata nel 1967 proprio a Praga, c’era anche Milos Forman. Respirammo tutti un’aria di libertà e di novità. Nei giorni della Mostra l’invasione sovietica di Praga era appena avvenuta, io ero lì con il mio Galileo completamente abbandonato, senza alcun sopporto organizzativo, nemmeno un ufficio stampa. Così cominciai a chiedere a tutti: ma che facciamo per Praga? Ma nessuno dice niente? E nessuno disse niente... A sinistra tutti erano invece molto occupati ad attaccare il direttore della mostra Luigi Chiarini... così andò. Una grande delusione».

Il cinema italiano è attivissimo, nel 2021 (dati ministeriali) sono stati prodotti 313 film. Troppi?

«Il rischio è che molti film restino fermi, che nessuno li veda, che vengano girati e abbandonati. Quando girai Milarepa nel 1974, a un costo bassissimo, la distribuzione credette nel film. Ne circolarono poche copie ma molto sostenute nelle sale. Il rapporto col pubblico è essenziale per un autore. Altrimenti chi si rivolge più a un regista che, sì, ha girato un film ma non è mai stato distribuito né visto?».

Francesco d’Assisi parlava di fraternitas , di elementi che ci accomunano tutti. Ma la realtà, la contemporaneità sono spaventosamente diverse e lontane da quella prospettiva.

«In troppe menti che progettano guerre o inquinano credo alberghi una specie di malattia psichica. Se avveleni l’ambiente, avveleni te stesso e chi ti è caro. Se distruggi qualcosa nel mondo, lo distruggi anche per te. So che può apparire utopia ma una politica di equilibrio, di sfruttamento dei vantaggi offerti dalla scienza, diciamo di armonia, consentirebbe a tutti di vivere bene. Invece si punta ad altri primati. L’aver avuto per primi la bomba atomica ha poi portato a Hiroshima e Nagasaki. Ma di quale primato mai si può parlare?».

LA VITA - Liliana Cavani, 90 anni, è nata a Carpi (Modena) il 12 gennaio 1933. Nel 1960 si laureò in Letteratura e Filologia all’Università di Bologna. Avrebbe voluto fare l’archeologa

LA CARRIERA - Nei suoi 62 anni di carriera. Cavani ha girato 21 film, 5 serie tv e 5 cortometraggi

I SUCCESSI - Il film più noto della regista emiliana è sicuramente Il portiere di notte (1974) con Dirk Bogarde e Charlotte Rampling. Celebri anche L’ospite (1971) con Lucia Bosè e Glauco Mauri; La pelle (1981) con Marcello Mastroianni e Dove siete? Io sono qui (1993) con Gaetano Carotenuto e Chiara Caselli

LA CURIOSITÀ - Per tre volte Liliana Cavani si è cimentata con San Francesco: nel 1966 con il film tv Francesco d’Assisi; nel 1989 e nel 2014 con i due Francesco per il cinema

Da ansa.it il 10 gennaio 2023.

Nella Sala della Crociera del ministero della Cultura a festeggiarla, davanti ad una gigantesca torta bianca con sopra rose rosse, tanti artisti italiani mentre il ministro Gennaro Sangiuliano e il sottosegretario Vittorio Sgarbi facevano gli auguri alla grande regista italiana che li compirà il 12 gennaio.

 C'erano, tra gli altri, Marco Bellocchio, Paolo Sorrentino, Paolo Virzì, Pupi Avati, Michele Placido, Giovanna Ralli, Susanna Nicchiarelli, Cristina Comencini e poi ancora Fausto Bertinotti, Luciano Violante, Walter Veltroni, Gianni Letta, il produttore Pietro Valsecchi, la poetessa Barbara Alberti, la direttrice del Centro sperimentale Marta Donzelli, quella della Festa di Roma Paola Malanga oltre al sottosegretario Gianmarco Mazzi.

"Una celebrazione riuscita e divertente - ha commentato al termine Sangiuliano - sembrava un'assemblea studentesca". Anche con annuncio a sorpresa: il direttore del teatro Quirino, l'attore, produttore e regista napoletano Geppy Gleijeses ha dato notizia del ritorno alla regia teatrale della Cavani con una coproduzione con il teatro La Pergola di Firenze per Sei personaggi in cerca di autore, rendendola ancora di più sorpresa e felice per un impegno programmato per il 2024 dopo che avrà finito di lavorare e lanciare il nuovo film, L'ordine del tempo, dal bestseller del fisico Carlo Rovelli, con Claudia Gerini, Alessandro Gassmann, Edoardo Leo protagonisti.   

 "Un grazie infinito. Pensavo di trovare dieci persone e già erano sufficienti, mi hai sorpreso - ha detto al taglio della torta Liliana Cavani rivolgendosi al deus ex machina di tutta la festa ossia Vittorio Sgarbi - Grazie grazie grazie", ha ripetuto. "Sono grata per questa manifestazione gentile, generosissima, benevola, non so neanche se me la sono meritata. Intanto ringrazio, ho sentito tante cose interessanti e belle".    

Nata al Capri, Hollywood di Pascal Vicedomini "quando ho avuto l'apparizione di questa ragazza", ha detto Sgarbi, l'idea di festeggiare tra i libri della meravigliosa sala del ministero ha visto d'accordo subito Sangiuliano. "Vittorio mi chiama 7-8 volte al giorno per proporre dalle 30 alle 40 idee. Su questa non c'è stato bisogno di convincermi. Per me la Cavani è La Pelle, un film che ho molto amato". Telefonate notturne dal sottosegretario agli artisti "che hanno subito aderito perché la amano, convinto che ci siano tesori nazionali viventi", ha detto Sgarbi raccontando dei due film che lo hanno segnato nell'infanzia, Ultimo tango a Parigi e Il portiere di notte.   

 L'happening, perché di questo alla fine si è trattato, è servito a riunire grandi maestri, ciascuno con la propria personalità pronta ad emergere. Pupi Avati, "mi sveglio pensando di avere 14 anni poi mi rendo conto di quanti ne ho" ha scherzato il regista "più antico" in sala. "Cavani Bellocchio Bertolucci sono i tre moschettieri che mi hanno ispirato da ragazzo", ha detto.

Poi Marco Bellocchio, l'amico di una generazione, quello per cui Cavani ha avuto stasera uno slancio affettuoso: "Noi siamo in prima linea lo siamo sempre stati, siamo la generazione più avanti, con emozione e con amore dico che ci accomuna una coerenza che credo sia pagante, per questo siamo ancora vivi, se non altro cercando di fare il film che volevamo fare".

 E dopo Paolo Virzì che da affabulatore ha ripercorso la cinematografia della "giovanotta", film per film, "folgorato dai Cannibali, la scoperta al Quattro Mori di Livorno, un film di rabbia istinto rivolta, spiazzante libero scandaloso che, avevo 16 anni, mi fece uscire esaltato". Sorrentino si è intrattenuto con il ministro, che gli ha ricordato una comunanza di strade a Napoli e poi via via si sono alternati i saluti dei presenti come Barbara Alberti che ne ha ricordato gli scandali ("oggi con certe sue scene si finisce in galera"), Bertinotti, Letta, Veltroni.

E gli assenti come Edoardo Leo - "non mettere candeline né numeri, non contare niente, tu sei una donna senza età" - e Alice Rohrwacher ("hai fatto crescere il mio sguardo come una vela al vento"), con parole affidate alla presidente del sindacato giornalisti cinematografici Laura Delli Colli. "Fare film è passione, se no perché lo faccio? Altrimenti lavorerei. Mi sono sempre sentita fortunata a fare quello che volevo e questo - ha concluso Cavani, ricordando pure le polemiche e le censure del Portiere di notte - è stato il regalo bellissimo che mi ha dato la vita".

Liliana Cavani, compie novant’anni l’eterna ragazza del cinema italiano. Storia di MAURIZIO PORRO Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

Festa grande con cremoso affondo in una gigantesca torta dalle rose rosse, lunedì 9 gennaio al ministero della Cultura a Roma per i 90 anni che Liliana Cavani compirà ufficialmente il 12 gennaio, mentre sta terminando il suo quindicesimo film, L’ordine del tempo dal bestseller di Carlo Rovelli con Claudia Gerini, Alessandro Gassmann ed Edoardo Leo, e tornerà al teatro per una nuova edizione dei Sei personaggi

Festa di una generazione di grandi registi, più o meno coevi, come Pupi Avati e Marco Bellocchio, attivissimo con Esterno notte e poi un film, che fu uno dei compagni di cordata quando nei primi anni Sessanta uscì allo scoperto una Nouvelle vague italiana (Cavani, Bertolucci, Bellocchio, Gregoretti, Leone) che anticipava il Sessantotto. Una festa voluta fortemente dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano («È andata oltre le colonne d’Ercole della cultura dell’epoca, la cultura non sono solo i musei e i monumenti, ma soprattutto le persone»), dal sottosegretario organizzatore Vittorio Sgarbi, deus ex machina che ha raccolto con entusiasmo, con una rete di telefonate notturne, i molti ospiti della festa che ha colto quasi di sorpresa la regista e che alla fine si è rivelata un divertito e commosso happening collettivo.

E lo stesso Sgarbi, come molti l’altra sera, ha ammesso che i due film che l’hanno formato da giovane sono stati Il portiere di notte di Cavani e Ultimo tango a Parigi di Bertolucci. «Il ministero della Cultura — ha detto — vuole sostenere il cinema, la bellezza e la civiltà italiana».

«Mi hai sorpreso, pensavo di trovare dieci persone: grazie, grazie, grazie di questa manifestazione gentile, generosa, benevola che non so neanche se mi sono meritata» ha risposto l’autrice di Galileo, Milarepa, La pelle, per citare alcuni dei suoi successi attraverso cui sono passati grandi attori come Mastroianni e Cardinale. C’era tutto il nostro cinema, gli attori, i registi, i produttori, a festeggiare la Liliana carpigiana che è sempre stata un passo avanti, coraggiosa nell’affrontare con un cinema molto diverso dalla commedia italiana temi all’inizio legati alla controcultura giovanile, poi nel dirigere per la tv documentari storici eccezionali, infine nell’osservare alcune figure cosmico-storiche attraverso una lente culturale aperta.

E naturalmente coraggiosa nel suo film «scandalo» con Bogard e Rampling, che fece molto discutere anche per il tema legato al nazismo e agli orrori della storia; e coraggiosa anche nel raccontare tre volte, con diversi attori, la vita di san Francesco, da Castel a Rourke. Nonché coraggiosa per aver diretto La traviata col maestro Muti dopo la storica edizione con la Callas, regia di Luchino Visconti.

«Avevi un sorriso così luminoso che restituisce questa età alla nostra adolescenza. Ci svegliamo la mattina quattordicenni e poi ci rendiamo conto che abbiamo 84 anni», scherza Avati in un gruppo con Virzì, Sorrentino, Placido, Comencini, Veltroni, Letta, Alberti, Ralli, Donzelli, Malanga, Nicchiarelli. Uno slancio affettuoso Cavani lo conserva per Bellocchio, dicendo: «Noi siamo sempre stati in prima linea, con emozione e amore ti dico che ci accomuna una coerenza credo pagante, per questo siamo ancora vivi e facciamo i film che vogliamo fare».

La Cavani eterna ragazza, o «giovanotta» come la chiama Paolo Virzì, che ancora ricorda quanto uscì esaltato sedicenne dalla visione in un locale di Livorno dei Cannibali. Tutto converge, coincide, s’accorda, il Centro Sperimentale le ha dedicato un numero della rivista «Bianco e nero». Liliana ha sempre guardato avanti in nome della libertà, dice il ministro a nome di tutti e liberando un concetto condiviso da sempre, perché la Cavani non è stata mai vittima delle mode, se mai le ha create: «Una celebrazione riuscita e divertente — ha commentato Sangiuliano — come un’assemblea studentesca». «Fare film è passione — dice la festeggiata — altrimenti lavorerei. Mi sono sempre sentita fortunata a fare quello che volevo e questo, ricordando pure le polemiche e le censure per il Portiere di notte, è stato il regalo bellissimo che mi ha dato la vita».

I 90 anni di Liliana Cavani: «Il tempo per me non esiste ma le rughe sì: se scoprono che ormai ne ho troppe non mi fanno lavorare». Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2022

L’intervista. La regista e il set ispirato al saggio del fisico Carlo Rovelli. «Il 12 gennaio non festeggerò nulla» l’intervista

«Ma bisogna proprio parlarne?» La voce gentile di Liliana Cavani si fa un po’ risentita. Questa storia dei 90 anni non le va giù. Il 12 gennaio la grande signora del cinema italiano, apprezzata ovunque per film come «Portiere di notte», «Francesco», «I cannibali», «La pelle», taglia un traguardo invidiabile, in piena forma, con un nuovo film in tasca.

L’età della pace non è nel suo vocabolario?

«Preferisco l’età del lavoro. Lavoro da 70 anni, sono quelli che vanno contati. E sono già troppi. Fino all’anno scorso nessuno si occupava dei miei anni. I numeri tondi sono insidiosi, tutti se ne ricordano e te li ricordano».

Lei invece non ci pensa?

«Certo che sì, so bene che la scadenza è vicina. Ci penso così tanto che il mio nuovo film parla proprio di questo, del tempo. Quello misterioso e sfuggente delle nuove frontiere della fisica, dove passato e futuro si confondono. Un tempo che si frantuma e non esiste più. E quindi, in questa prospettiva, i miei 90 anni non ci sono proprio».

Quanto mai opportuno è quindi per lei «L’ordine del tempo», titolo ispirato al saggio di Carlo Rovelli?

«Ci siamo incontrati a casa mia, parlati a lungo. Un saggio non è una storia, la storia l’ho scritta io con Paolo Costella, Rovelli ha collaborato per la parte scientifica. Ed è finito pure nel film, interpretato da Edoardo Leo, il protagonista di una storia corale con attori davvero bravi quali Alessandro Gassman, Claudia Gerini, Ksenia Rappaport e un cameo di Angela Molina».

Come si fa a trasformare una teoria della fisica in una storia cinematografica?

«L’idea di un tempo che sta per finire, di un’umanità che forse sta vivendo i suoi ultimi giorni, tra guerre, pandemie e catastrofi climatiche, è qualcosa che fa parte del sentire collettivo. La mia Apocalisse arriva dal cielo: un asteroide cambia rotta e punta sulla Terra. Si chiama Anaconda, come il serpente che si rigenera da solo. Una catastrofe annunciata che si cerca di tener nascosta per non scatenare il panico. Tra i pochi che ne sono a conoscenza il nostro fisico, che con alcuni amici si ritrova al mare per festeggiare un compleanno».

E ai vecchi amici si dice la verità, anche se sconvolgente.

«Sapere che tra poco tutto finirà innesca mille reazioni. Che fare nelle ultime ore? Rimediare a degli errori, dire quello che non ho mai detto? Disperarsi o reagire? Sarà l’istinto di vita a prevalere: non sapendo quando moriremo, continuiamo a vivere, tenerci stretti gli affetti più cari. Fino all’ultimo istante».

Non pensare alla morte che sta arrivando. Una scelta che vale anche per lei?

«Nessuno vuole morire. Per me, cresciuta in una famiglia atea, l’aldilà non esiste. Però, mentre giravo Milarepa in Tibet, incontrai un Lama. Quando gli confidai che per me dopo non c’era nulla, scoppiò a ridere in modo irrefrenabile. Poi disse: ma con un’idea simile come fa a campare? Mi ha lasciato il dubbio che qualcosa resti, magari ci si trasforma, si vivono altre vite… Ma non m’importa».

Cos’è che conta per lei?

«Gli amori, le amicizie. Solo questi danno significato al breve spazio che si chiama vita».

E il cinema?

«È in cima ai miei amori, come l’amore per la cultura. Sto rileggendo l’Iliade. Il tempo della scuola è lontano, quello di Omero lontanissimo. Eppure mi è più vicina che mai. L’anello temporale, il loop di Rovelli, può cambiare il flusso degli eventi. Il tempo è memoria. Aver potuto studiare mi dà un profondo senso di gratitudine. La cultura è il dono più bello che si può regalare ai giovani».

Ma il caso, quanto conta in tutto questo?

«Moltissimo. Io mi sono laureata in filologia linguistica, ma poi a Roma mi sono iscritta al Centro Sperimentale, ho partecipato a un concorso Rai, l’ho vinto, ma ho rifiutato il contratto perché non volevo fare la regista interna. Volevo girare documentari. Per tre mesi mi sono chiusa negli archivi Rai a visionare i tantissimi materiali sui campi di sterminio. E poi ho girato La storia del Terzo Reich. Portiere di notte deriva da quello che ho visto allora. Quando mi dicono che esistono i negazionisti mi monta una rabbia terribile. Io quei lager li ho visti tutti».

Si dice atea, ma Francesco e Chiara sono i suoi santi protettori, tornati a più riprese nei suoi film.

«Il primo Francesco, 1966, lo devo a Angelo Guglielmi che mi dette credito. Nel 2013 girai Mi chiamo Francesco. La Rai lo teneva nel cassetto finché, destino volle, Bergoglio diventò papa e scelse quel nome. Il giorno dopo l’hanno messo in palinsesto».

Francesco, un nome che ha segnato il suo papato.

«La sua voce è la sola a levarsi per la pace. Le guerre sono tutte ingiuste, bisogna smetterla e basta. La logica delle armi serve solo a chi le fabbrica».

Tornando alla nuova creatura, a che punto è il film?

«Abbiamo finito le riprese a Sabaudia. La casa sul mare che cercavo l’ho trovata lì, tutta di legno, un’Arca di Noè. Perfetta per il mio diluvio universale. Siamo nella fase montaggio. Il film sarà pronto per primavera».

Nel frattempo, come festeggerà i suoi 90 anni?

«Non voglio festeggiarli per niente. Il tempo non esiste ma le rughe sì. Se scoprono che ne ho troppe, dopo chi mi fa più lavorare?».

Barbara Costa per Dagospia sabato 23 settembre 2023.

“Io ho sc*pato mucho, ma mai quanto adesso!”. Volete cambiare vita? Dare un calcio ai vostri primi 40 anni? Prendere peni in doppia ma non ancora in tripla? Prendete esempio e energia da Lily Veroni, 39 anni, che ha iniziato a fare porno solo 3 anni fa. E che porno! Sebbene il suo debutto nell’hard segni un duo lesbico, Lily Veroni si sta facendo c*lo e nome nel settore perché è una performer abilissima nel porno extra strong, il porno in cui “si sc*pa forte, si sc*pa duro, e io voglio e mi piace sc*pare duro, il sesso convenzionale mi annoia!”. 

Se pensate che una tal femmina sia preda di disagio, vittima d’adolescenza inquieta, shockata da pene amorose… ehi cambiate frequenza! Sintonizzatevi su quella giusta, quella che raggiunge Lily Veroni, che in realtà si chiama Samantha, è italiana!!!, nata e cresciuta a Milano, con un fratello minore, in una famiglia comune. È la sessualità di Lily ad aver bruciato le tappe: a 16 anni gioca e sperimenta col suo primo 3some, a 21 sono già 5 uomini e donne che degusta insieme, per una sessualità dirompente che la scopre “bisex convinta”. A 20 anni Samantha non ancora Lily lascia l’Italia e va in giro dentro e fuori l’Europa, impara le lingue – ne parla 5, italiano, inglese, spagnolo, russo, tedesco – ora è al suo secondo master in gestione alberghiera. 

Si fidanza con un ragazzo inglese, con cui convive 4 anni a Tenerife, pensano di sposarsi. In tutto questo, come cavolo ci si è infilato il porno? Lily non ha mai tacitato la sua sessualità prepotente, né il suo talento speciale nei p*mpini. Mai ha messo in rete un suo video, pur se spronata (Lily è una valente fruitrice del porno gay tra maschi, suo genere preferito per masturbarsi). Succede che la storia d’amore col suo inglese finisce, e lei lascia Tenerife e deve scegliere se trasferirsi a Madrid dalle sue amiche o andare a Barcellona, da sola, da un produttore porno. 

Così Lily debutta nel porno a inizio 2020, 3 settimane prima del lockdown. Lo stop forzato la sprona. Si rifà il seno. A set riaperti, supera a pieni voti un provino per "Legal Porno", il re europeo del porno tosto, smoderato. È in questo porno qui che Lily sta emergendo. Numeri in cui si impone su orge 6 uomini per volta (minimo), su pissing inondanti, e reciproci, su anali scuotenti, plurimi, e bdsm in ogni forma. Lily è bdsm di natura, per lei è genuinità darsi in sadomaso maestrie orgasmiche, sconquassanti. Bilancio attuale? “Questa è la mia vita, io ne sono felice!”.

Lily definisce il porno “una parentesi”, un intermezzo pieno di soddisfazioni. Lei parla più spagnolo che italiano, ne ha perfetta cadenza, l’unica cosa che del porno le scoccia sono gli allenamenti – necessarissimi per riuscire in un porno simile – e la preparazione che, davanti a un anale, ti deve dentro lavare e “allargare”, con sex toy appropriati, poi “una volta che sei allenata e pronta mentalmente… vai! Fila tutto liscio come l’olio!”. La scena di cui Lily va più fiera è un trio “con me in mezzo a un attore gay e a uno bisex, e il gay l’ho "sverginato" io, lui non era mai stato con una donna. Ho centrato l’apoteosi!”. Lily gira porno con attrici trans. Lily è una persona molto positiva, in lei è assente il giudizio e peggio se moralistico sulle scelte altrui.

Su lei, come su tutti noi nel porno, ricade la condanna inclemente: in risposta noi ci asteniamo dal mettere in croce, alla gogna, chi ha respiro di vivere in consapevolezza fuori e oltre la massa. Lo stigma c’è, e non si può scansare, ma a Lily non pesa: “Io col porno regalo benessere a me stessa e a chi libero decide di guardarmi. Non faccio niente di male, a me e a nessun altro!”. 

Lily Veroni la puoi incontrare in Italia nei suoi spettacoli sexy su e giù nella penisola. Lily ha ritoccato la seconda volta il seno l’anno scorso, una protesi le era caduta, e attenzione: il suo seno non è rifatto, nooo, “è ricostruito, m’era crollato dopo essere dimagrita di 10 chili!”. E benedetto sia il botox! Lily non è come le pupattole spianate e piallate e al tempo stesso ti pigolano che loro sono naturali! Al diavolo, lei si aggiusta, si puntura, ne va la sua felicità. Lily ha però un rimpianto, e grossissimo, quello di non aver fatto porno prima: “Quanti soldi mi sono persa?”.

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 25 giugno 2023.

Lina Sotis, com’è stato, per lei, vivere senza una madre, e da sempre?

Credo che lei abbia cominciato questa intervista con la domanda che meno mi aspettavo e che più mi appartiene. Penso di averlo capito alla vecchiaia, e solo grazie a un analista. Mia madre è morta di parto, per cui non l’ho mai conosciuta. Da ragazza, l’ho vissuta in maniera protagonistica perché sono anche molto egocentrica. 

Ero sempre quella senza mamma, tutti a dire “poverina, lei è senza mamma”. Papà, avendo molte amanti, mi ha dato la possibilità di conoscere le donne che frequentava; erano loro – penso, ad esempio, a Palma Bucarelli – a regalarmi delle attenzioni e carezze. Quando papà, per motivi politici, si sposò con la prima donna penalista, lei, per me, fu importantissima ed essenziale. 

Perché?

Perché era terribile, severa ma anche molto libera. Ricordati – mi diceva sempre: fai l’amore con chi vuoi… Io – ripeteva – preferisco Maria a Giuseppe… Ad essere sincera, tutto l’opposto di mio zio, liberale, il massimo della borghesia illuminata, perbene, e crudele di Roma.

Cosa vuol dire che suo padre si sposò per motivi politici? Che interessi aveva a sposare una donna lesbica, mi è parso di capire…?

Papà fece l’annullamento a Claretta Petacci per volere del Duce.

Maria era comunista. Nessuno disse mai niente ma a ripensarci forse ai tempi era importante.

Ha mai sentita la mancanza di sua madre?

È una domanda dura, la sua! La sento più adesso che da bambina. Perché allora volevo fare in modo di aver qualcosa.  A scuola, ad esempio, ero la più buona ed ubbidiente. Ma, ovviamente, lo facevo solo per avere delle carezze.

(...) 

Ce l’ha ancora la faccia da stronzetta e snob come quando era giovane?

Lei che dice?

Può darsi…

Mi fido di lei, allora.

Il libro che più le ha dato visibilità e soldi, è stato Bon Ton: da dove nasce questa ricerca ossessiva delle buone maniere?

Questa ricerca ossessiva delle buone maniere nasce dal Marymount perché la contessa Palmieri, che era la direttrice dell’istituto, ci educava ad avere un certo tipo di portamento. Ricordo che quando ci vedeva, il suo mantra ossessivo era: signorine, bon ton! Ero una signorina completamente ignorante, ma sul bon ton ero particolarmente ferrata!  Quando poi, anni dopo, mi chiesero di scrivere un galateo, perché bravissima a comportarsi in tutti i contesti sociali, risposi di sì… Ad essere sincera, inizialmente, mi sarebbe piaciuto più scrivere qualcosa di più insolente perché mi ispiravo a Dorothy Parker. Furono Calasso e Peppino Turani a spingermi a che io scrivessi qualcosa sulle buone maniere. 

Quarant’anni fa, quando hai scritto il tuo primo Bon Ton, lo hai dedicato, come hai confessato ad Anna Pettinelli di Rds, ai berlusconiani… Chi sono, oggi, i nuovi barbari?

I nuovi barbari, oggi, possono essere tutti, indistintamente. Le ragazze in short strettissimi, e con la pancia di fuori, in città, mi danno fastidio; o gli uomini che escono in infradito: che orrore! Ogni posto, ha il suo modo per vestirsi. E che tristezza, poi, quelli che camminano per strada con gli occhi rivolti al cellulare…

Perché le stavano sulle scatole i berlusconiani? Cosa avevano di così insopportabile?

Non mi stavano antipatici, sono stati la mia fortuna. Se non ci fossero stati loro, il bon ton non sarebbe andato così bene.

Sei stata, per decenni, una firma del Corriere della Sera. Mi aspettavo una pubblicazione con Solferino in pompa magna. Come mai, invece, il suo nuovo libro è finito nelle grinfie della Baldini? Il gruppo Cairo ha trovato la sua ultima fatica noiosa, demodé, poco vendibile?

Urbano s’è arrabbiato moltissimo. Quando lo è venuto a sapere, mi ha detto: Lina, ma perché non l’hai dato a me? Gli ho risposto dicendogli la verità: perché Elisabetta l’ha voluto a tutti i costi, e io ho ceduto volentieri alle sue lusinghe.

Non le pesa essere ricordata come la giornalista “Bon Ton”? Sembra quasi un marchio, ormai, il suo… Non trova?

Meglio così che niente…

Le piace ancora il Corriere della Sera?

Sono una vecchia che ama ancora tantissimo il Corriere!

Le piaceva Craxi?

Lo conoscevo bene. Con Anna venivano a cena da me e lui cominciava a cantare, soprattutto canzoni francesi. Lo ho frequentato parecchio quando Bettino non era ancora così famoso. Ho un bel ricordo di loro. Che tempi…!

Per gli uomini perde ancora la testa?

No! Non sono più così carina. Ma, finché ho potuto e voluto, mi sono concessa a tutti gli uomini che mi piacevano. 

E a lei, è mai capitata una cafoneria, una scivolata, una caduta di stile?

Un giorno Gianmarco Moratti, il mio primo marito, mi fa: preparati al meglio, che andiamo a Roma. Io, tutta ubbidiente, mi preparo, con i vestiti rigorosamente neroazzurri, saluto i bambini e partiamo per la Capitale. Lasciati i bagagli nella casa romana, Gianmarco mi porta nello studio di un avvocato, il quale, dopo i convenevoli di rito, mi dice subito: lei è un’adultera, abbiamo le sue foto. Trasalii, ci misi un po’ a riprendermi. Mi rivolsi a mio marito e gli dissi: ma non c’era bisogno di fare tutto questo casino…! Eh no – mi rispose – mi hai tradito, ed è pure milanista!

Quindi la sua vera rabbia, non era tanto legata al tradimento, ma al fatto che il suo amante era milanista…

Secondo me, il vero dramma era che fosse rossonero… Ad ogni modo, reagii come una ragazza reale.

Cioè? Cosa fece?

Mi sfilai questo bellissimo brillante che mi aveva regalato, glielo misi in mano, e gli dissi: ti spetta anche questo. Dopodiché, me ne andai…

Si sposa con Gianmarco Moratti, e poi lo tradisce per un playboy, così racconta alla sua fedelissima Michela Proietti. Lo fece per noia o per godere?

Per noia… Fare la ricca signora, mi scocciava terribilmente. E poi ero convinta che tutti loro lo facessero… 

Nel suo essere borghese, alla fine s’intrappolò nel solito cliché della donna ricca e annoiata

Ero, in realtà, una signora indaffarata a far conoscere i Moratti e a portarli un po’ più su… Che ingenua sono stata!

Cosa vuol dire: portare i Moratti un po’ più su? Erano volgari?

No, erano ricconi…

Ma l’amavi, Gianmarco?

Gli volevo bene, e poi, per me, era un modo anche per respirare un po’ di libertà, dopo gli anni del collegio. 

È stata, poi, una donna infedele?

Costretta ad essere infedele perché gli uomini di cui mi sono innamorata lo erano a loro volta.

Hai mai provato attrazione per le donne?

No, mai, e me ne dolgo. Adesso, le confesso, mi piacerebbe tantissimo innamorarmi di una donna.

Fino a che età ha provato ebbrezza erotica e vero istinto carnale?

È proprio curioso… Fino a sette anni fa; e devo dirle che non ne sento per niente la mancanza. 

L’attraggono i ragazzi?

No, eppure per diverso tempo ho avuto un delizioso ventitreenne che mi ha corteggiato con una certa insistenza. Adesso, se ci ripenso, me ne pento.

In una intervista ha detto che Miriam Mafai e Irene Brin sono state quelle a cui si è più ispirata. Le stava sulle palle la Cederna, la regina dei salotti? Era invidiosa del suo charme?

No, per niente! Camilla l’adoravo tantissimo, e da lei ho imparato tutto, però bisogna dire la verità: la più brava di tutte è Natalia Aspesi. 

Qual è stato il salotto milanese più interessante e divertente?

Ce n’era uno solo, quello di Giulia Maria Crespi…

La zarina…

La zarina, come la chiama perfidamente lei, sapeva mischiare a dovere. A casa sua ti capitava di incontrare Spadolini, che mi stava per nulla simpatico, e Mario Capanna. Quando portai Roberto Calasso, che all’epoca non era ancora conosciuto, Giulia mi disse: questo non è per nulla scemo…

So che Calasso è stata una figura importante per lei; cosa le ha insegnato?

Tutto. Mi fece conoscere Kraus, la Szymborska e tanti altri. E, poi, nello scrivere un articolo, mi ha insegnato l’importanza della brevità. Roberto mi diceva sempre: quelli bravi, quando scrivono, sono brevi. Impara a tagliare, Lina… 

(...)

Che si fa nei salotti? E a cosa servono? A fare carriera? A ostentare denaro, potere, lusso?

Ultimamente, i salotti si frequentano, sì, per fare carriera, conoscere qualcuno per avere un contatto, un aiuto. Negli ultimi tempi, il salotto di Francesco Micheli aveva preso un po’ questa direzione. Il salotto di Maria Giulia, invece, essendo molto aperto ma, al contempo, anche molto chiuso, la carriera non la facevi di sicuro. Quello di Rosellina Archinto era settoriale. Ma quello più irresistibile, indimenticabile, era quello di Gae Aulenti. Gae dava delle cene per cinque massimo sei persone, e lì trovavi gli inarrivabili: Umberto Eco, il grande architetto e compagnia cantante…

Quali sono stati, nei suoi tanti anni al Corriere, i giornalisti che ha apprezzato di meno, e che, magari, le hanno fatto qualche sgarbo? Sii cattiva, Lina!

Grandi sgarbi non ne ho ricevuti. Quello che mi stava antipatico, perché quando passava nei corridoi si dava delle arie, era Vittorio Feltri. Diceva sempre: io le donne le tengo in un garage, una cosa abbastanza sgradevole. 

Chi erano i potenti che la sua penna non poteva nemmeno toccare?

Nessun direttore mi ha mai detto: Lina, mi raccomando, questo non si può criticare, sbeffeggiare. Era tutto legato ai miei voleri…

Quindi, immagino, si sarà autocensurata un sacco di volte?

Moltissimo…

Aveva paura di non fare carriera?

No, semplicemente non volevo mettere il Corriere, che in fondo adoravo, in delle cattive acque. Sulla politica, invece, non mi sono mai tappata la bocca. Le faccio un esempio: quando Ignazio La Russa era assessore a Milano, dicevo sempre: troppo volgare per fare l’assessore…

Cosa pensa di Paolo Mieli?

Paolo è stato un mio carissimo amico romano, e un uomo molto intelligente. Quando, però, andavo a fare i bagni nella piscina di mia cugina, a Roma, capitava di incontrarlo; ma, ad essere sincera, non lo guardavamo mai…

Perché, Lina?

Noi eravamo belle, lui era brutto, e nessuno se lo filava. La coincidenza ha voluto che, poi, me lo sono trovato alla direzione del Corriere. 

Il direttore del Corriere con cui ha avuto rapporti burrascosi?

Quello con cui, forse, ho avuto rapporti più distanti, è quello che ho amato di più: Ferruccio De Bortoli. Lo conobbi al Corriere dell’Informazione: eravamo compagni di banco. Insieme siamo cresciuti e, insieme, siamo finiti poi al Corsera. Quando ha preso le redini del giornale come direttore, non sono mai andato a bussare alla sua porta per chiedergli, chessò, una prima pagina… Mi sembrava poco elegante e, quindi, preferii non metterlo in imbarazzo.

In Sbucciando Piselli, libro mitologico scritto con Federico Zeri, Roberto D’Agostino scrive: tra le forme di Pronto Soccorsi Ideale va messo e raccontato a tutti il pettegolezzo. È liberatorio, illumina la giornata, ravviva il depresso. Anche per lei è così?

Nel pettegolezzo non cattivo per gli altri, vedo solo gioia per me e per quelli che mi stanno ascoltando.

Qual è stato il pettegolezzo, o la cattiveria, scritta o raccontata in una delle sue frequentazioni salottiere?

Quando una volta raccontai di un signore e, alla fine, chiusi il pezzo con: ma, in fin dei conti, il signore chi è? Fui inutilmente scortese e insolente…

Ecco, adesso, a distanza di anni, può svelarci il nome: chi era?

No. Rispetto per un signore che lavorava, o tentava.

Ricorda l’uomo peggio vestito?

Sicuramente mio marito. Quando mi accompagnava agli eventi mondani, era difficile convincerlo a vestirsi in un modo consono alla situazione.

Un mulo, quindi?

Esattamente.

I vezzi estetici dell’Avvocato non li trovava ridicoli?

Non sono mai stata una estimatrice di Gianni perché, francamente, l’ho sempre trovato troppo egocentrico. Quando ti faceva la corte, non lo faceva mai perché era veramente intenzionato a conoscerti, ma solo per riempire e soddisfare il suo ego smisurato. Lo si avvertiva a pelle.

Non le piaceva come si vestiva?

No, per niente. Trovavo ridicolo l’orologio Cartier sul polsino… Solo una donna resiliente (parola che detesto) come Marella poteva sopportare tutto…

Chi ha saputo raccontare la società mondana italiana? A me verrebbe da dire Arbasino!

Alberto, senza dubbio. Uomo geniale e di una cultura pazzesca. Quando ci vedevamo a Roma, ricordo, mi diceva sempre: noi quelli dei Parioli non li frequentiamo! 

Ha conosciuto, amato, e sposato, uomini molto ricchi. Quanto conta, per lei, il denaro?

In realtà, ho sposato solo un uomo molto ricco. Aveva un padre, Angelo, che mi piaceva da morire. Ma una cosa che non amavo, e mi creda, era il fatto che avevano molti danari. Questo sentimento nasce, probabilmente, dal fatto che mi piacciono da morire i soldi che mi guadagno lavorando. La casa in cui stiamo adesso, ho fatto in modo di comprarla lavorando duramente. Ma la casa più bella in cui ho abitato era la garçonnière di Stendhal, un tempo diventato lo studio di Andrea Cascella. Quando Ralph Laurent ha comprato, sai cosa ci hanno messo lì, adesso? Le cabine per provare i jeans! Hanno distrutto un monumento nazionale!

Guadagnavi tanto?

Ero tra quelle che guadagnava bene, ma non benissimo. Fu Romiti, all’epoca presidente della Rcs, a proporre il mio aumento.

Quante volte le è capitato di dire: gli interisti non vincono mai a causa di Massimo Moratti?! Quanto denaro sperperato…

Nemmeno una! Adoravo Massimo… Quante risate quando imitava Celentano.

Però come presidente lasciava a desiderare…

Ma chissenefrega… 

(...) 

Estratto dell'articolo di Roberta Mercuri per vanityfair.it martedì 28 novembre 2023.

La leggendaria modella Linda Evangelista degli uomini non ne vuole più sapere. Lo ha rivelato lei stessa durante un’intervista con il Sunday Times: «Non voglio più andare a letto con nessuno. Non voglio sentire il respiro di nessuno». L’ultima volta che è uscita con un uomo, ha raccontato, è stata «sicuramente prima del Cool-Sculpting», la procedura di riduzione del grasso a cui si è sottoposta nel 2016 e che l’ha lasciata «permanentemente deformata e brutalmente sfigurata», tanto da costringerla a vivere - per ben cinque anni - da reclusa.

[…] «Non provo più interesse nel conoscere nuovi potenziali partner, ritrovare un amore non è una priorità».

La vita privata della Evangelista in passato è stata molto movimentata. Prima ci furono le nozze con Gérald Marie, ex capo dell’ufficio parigino di Elite Model Management. La coppia si sposò nel 1987 - lei aveva 22 anni, lui 37 - e divorziò nel 1993 (solo di recente Linda ha rivelato che l'ex marito la sottopose a terribili abusi fisici e psicologici).

Successivamente la modella frequentò per sei anni l’attore Kyle MacLachlan. Poi, nel 1999, rimase incinta del giocatore della nazionale francese Fabien Barthez, ma perse il figlio al sesto mese di gravidanza. L’11 ottobre 2006 diede alla luce un bambino, Augustin James, nato da una breve relazione con l’imprenditore francese Francois-Henry Pinault, oggi marito di Salma Hayek.

[…] ora la top model ha fatto sapere che non ha un uomo almeno dal 2016. […]

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera - Estratti il 18 Settembre 2023 

Chi è quel signore vestito di bianco sottobraccio a Lino Banfi?

«Un mio amico. Sono stato a trovarlo sette volte. La prima gli dissi: voglio diventare il giullare del Papa. Quando lei è incavoleto, mi chiama, e io la faccio sorridere». 

E il Papa?

«Ogni tanto mi chiama. E io gli racconto gli episodi più divertenti della mia vita, e pure quelli tristi: il mio sogno è sempre stato far ridere e piangere insieme. Come prova d’amicizia gli ho chiesto questa foto. Lui ha messo via il bastone, e si è appoggiato a me». 

(…)

E sua madre?

«Non era andata a scuola proprio. Quando doveva firmare le dicevano: Nunzia, fa’ la cruoce. Ma lei rispondeva: “Mi chiamo Nunzia Colia”, e di croci ne faceva due: una per il nome e una per il cognome. Mamma me la sono goduta più a lungo. Quando si ammalò, cercai per lei il miglior chirurgo. Dopo l’intervento il luminare volle incontrarmi, mi portò in uno sgabuzzino, chiuse a chiave. Pensai dovesse darmi notizie gravi».

Invece?

«Si inginocchiò, mi baciò la mano, e disse: “Ho sempre sognato di baciare la mano che ha toccato il culo a Nadia Cassini”. Avevo affidato la vita di mia madre a un pazzo».

(...)

Come cominciò per lei lo spettacolo?

«L’avanspettacolo. Quando venivano le compagnie, nell’intervallo il pubblico scandiva il mio nome: Zagaria-Zagaria… Io salivo sul palco con una calza della mamma in testa, e imitavo i grandi della musica nera: Don Marino Barreto, Nat King Cole, Armstrong… Un giorno l’impresario mi propose di seguirlo».

E lei?

«Esitavo, ero un ragazzino… Poi incrociai lo sguardo di una ballerina bellissima. Mi sorrise e mi fece il segno: firma… Firmai. Per papà fu un dolore. Mi disse solo: fatti sentire ogni tanto».

Primo ruolo?

«Il figlio ingrato. Quello che doveva inginocchiarsi e baciare le mani dello Zappatore».

Poi partì per Milano.

«Con la valigia dell’emigrante: l’unico vezzo fu legarla, anziché con lo spago, con un foulard di mamma. Sulle case era scritto “non si affitta ai meridionali”, o anche direttamente “non si affitta ai terùn”. Così cancellai con la scolorina la n di Andria, per risultare nato ad Adria, e facevo l’accento veneto: “Ghe xè una camera per mi?”. I soldi finirono subito. Avevo 19 anni da compiere e una fame arretrata. Dormivo nei vagoni sui binari morti della stazione. Un clochard, anzi un barbùn de prufesiùn come si definiva, mi prese sotto la sua protezione: “Quel vagone parte, dormi in quell’altro…”. Fu lui a suggerirmi l’idea delle tonsille». 

Tonsille?

«Faceva freddo, sognavo un letto e un pasto caldo, e il barbùn mi chiese: “Ce le hai ancora le tonsille?”. Ce le avevo. “Fattele togliere. Tanto non servono a niente. E ti fai una bella settimana in ospedale”. Ma io non sono malato. “Ma sei un attore, no? Intanto prendi questo”, e mi prepara un intruglio a base di chinino che in effetti mi fa gonfiare la gola. Vado in ospedale, a Baggio, e convinco i medici a operarmi. Non avevo calcolato che dopo ti tengono a digiuno…».

E la dimisero, immagino.

«Avevo più fame di prima, ed ero disperato. Così mi ricordai di quel che diceva mio padre: quando sei nei guai, di’ la verità. Al primario dissi la verità: “Mi sono operato per fame”. Quello capì, mi perdonò, e mi affidò a una suora: “Questo ragazzo ha bisogno di un’altra settimana di ricovero, e di due pasti abbondanti al giorno”». 

Quando divenne Lino Banfi?

«Più tardi, a Roma. Lavoravo nel teatro di Graziano Jovinelli, che mi mandò da Totò con una lettera di presentazione: “Ma mi raccomando, non la aprire, non leggere quello che scrivo di te”».

E lei?

«Io ovviamente aprii la lettera, con il trucco del vapore, e la lessi. C’era scritto: “Caro Totò, hai davanti un giovane di talento, che non si smarrisce nei congiuntivi”. Praticamente una laurea. Totò mi chiese: come ti chiami? E io: Pasquale Zagaria, in arte Lino Zaga. E lui: non va bene, lo devi cambiare». 

Perché?

«È quello che gli chiesi. E lui: “Abbreviarsi il nome porta bbuono, guarda me che mi chiamo Antonio. Ma abbreviarsi il cognome porta malissimo”».

Ma perché Banfi?

«Raccontai tutto al mio impresario, che era pure maestro elementare. Lui aprì il registro di classe e lesse alla prima riga: Aurelio Banfi. Gli ho rubato il cognome, e non l’ho mai conosciuto, mi piacerebbe incontrarlo… Eravamo in trattoria, e brindammo a Lino Banfi. L’oste si unì al brindisi: “Speriamo che tu abbia successo, così mi pagherai i conti”». 

Cosa faceva a teatro?

«Il presentatore. Tre spettacoli al giorno, tra un film e l’altro. Aspettavamo dietro lo schermo, così vedevamo il film al contrario. Il personaggio del pugliese nacque dopo, in un cabaret romano, il Puff».

Come andò?

«Lando Fiorini aveva litigato con Montesano, che l’aveva mollato per la tv: “Ti sostituisco con il primo stronzo che trovo al Jovinelli!”. Il primo stronzo ero io. Arrivo e vedo questo pubblico sofisticato, molto diverso da quello dell’avanspettacolo: pellicce, gioielli veri, non falsi o tatuati. Pensai di maltrattarli un po’: “Porca puttena, che chezzo siete venuti a fare su questi pouf scomodissimi?”. Potevano mandarmi a quel paese. Risero».

La Puglia allora non era di moda: Modugno passava per siciliano, Arbore per napoletano.

«Non avevamo tradizione teatrale, non abbiamo avuto Pirandello o Eduardo. Checco Zalone me l’ha riconosciuto: ho aperto la via della pugliesità. All’epoca nessuno di noi era profeta in patria». 

Neppure lei?

«Nel 1972, tramite il suo segretario Nicola Rana, mi convoca in prefettura a Bari Aldo Moro: “Mi hanno detto che lei nei suoi spettacoli fa una battuta su di me… Me la ripete?”».

Qual era?

«In Russia Stalin è morto e c’è la destalinizzazione, in Italia Moro è ancora vivo ma c’è già la demoralizzazione…».

E Moro?

«Sorrise: “Bella. Molto fine. Ma non la dica più”. Mentre uscivo incrociai Pinuccio Tatarella». 

Il missino?

«Lui. Gli volevano bene tutti, anche Moro. Cominciammo a parlare di Puglia: perché non creare un consorzio di imprese, una per la pasta, una per l’olio, una per il vino? Moro e Tatarella erano d’accordo. Ma non riuscirono a trovare tre produttori disposti a collaborare. Si facevano tutti la guerra».

È vero che lei votava Msi?

«No, anche se qualcuno mi chiamava Pancetta Nera. Mio padre era un democristiano di centrodestra, e io pure. Ho sempre guardato l’uomo. Mi piace Veltroni e non solo perché si chiama Walter come mio figlio, quando si candidò a sindaco di Roma lo accompagnai nei centri anziani. Mi piaceva Craxi».

Lo conobbe?

«In un ristorante milanese. Stava con Berlusconi, che ci presentò. Lui era presidente del Consiglio, io ero quello che toccava il culo a Nadia Cassini e sbirciava Edwige Fenech dal buco della serratura. Eppure fu gentilissimo, fece il baciamano a mia moglie. Un signore».

I 5 Stelle l’hanno mandata all’Unesco.

«Non i 5 Stelle; Di Maio. Mi propose un gioco: “So tutte le battute di nonno Libero a memoria, interrogami…”. Ora facciamo le riunioni via zoom, sa quella cosa in cui ti vedi dentro una finestrella del computer? Voglio battermi per Canosa, far diventare il ponte sull’Ofanto patrimonio dell’umanità». 

Quando aveva conosciuto Berlusconi?

«A una festa del padrone della Simac, macchine per gelati, dove ero andato pensando che potesse scapparci uno spot, una pubblicità. Vidi Berlusconi e pensai che fosse il pianista, perché suonava e cantava una canzone di Gilbert Becaud, la storia di un prigioniero innamorato: “A Pâques ou à la mi-carême/ quand je serai libéré/ lorsque j’aurai fini ma peine…”. La sapevo anch’io, così cantai con lui: “Marie, Marie, ecris donc plus souvent…”. Poi mi dissero: sai chi è quello? Il padrone di Telemilano. Finì che mi scritturò».

Eravate coetanei, come con il Papa.

«Berlusconi aveva due mesi meno di me; così mi chiamava “vecchio”. Ogni 11 luglio mi telefonava per gli auguri di compleanno: ciao vecchio! Una volta mi chiese di rifare un monologo di Risatissima in cui lo prendevo in giro». 

Cosa diceva?

«Berlusconi mi ha deluso, pensavo fosse alto tre metri… Lui vide la registrazione e mi chiamò: “Sei stato bravissimo, ma eri in maniche di camicia. Ti pregherei di rifarlo. Non cambiare una parola; ma mettiti il frac, o almeno la giacca. Ricorda che noi il sabato sera entriamo nelle case degli italiani».

Com’erano Franco e Ciccio?

«Grandissimi. Ogni tanto litigavano e ognuno minacciava l’altro: ti lascio e mi metto con Lino Banfi! Una volta accadde davvero: nel 1979 a Ciccio venne un’ulcera e io partii al suo posto con Franco per l’America, c’erano anche Rosanna Fratello e Bobby Solo. Di notte mi svegliavo per andare a vedere il mio nome che lampeggiava sull’insegna del Madison Square Garden».

E Villaggio? È vero che era cattivo?

«No. Semmai, cialtrone. Giravamo i Pompieri con Boldi e De Sica, lui diceva: offriamo la cena pure a quelli del tavolo vicino, poi se ne andava. E dovevamo pagare noi, per lui e per i vicini. Però, a differenza di altri comici, non era geloso dei colleghi che facevano ridere». 

Come fa a dirlo?

«Conosce la scena di “Fracchia e la belva umana”, quando il commissario Auricchio entra al ristorante, viene accolto da un stornello beffardo e dice: continua a suonere…».

I classici li conosco: «Nun me chiamo frifrì, sono commissario, e ti faccio un culo così…»

«Manganelli, l’ex capo della polizia, mi ha raccontato che la faceva cantare in coro a tutti i nuovi commissari, come rito iniziatico. Ecco, quella scena nel copione non c’era. Se lei guarda bene il film, nota che il suonatore cerca lo sguardo del regista e di Villaggio, per capire cosa fare. E loro gli dissero di continuare a suonere».

Aldo Fabrizi?

«Eravamo vicini di casa, uscivamo a passeggio: “Accanto a me sembrerai magro come Alain Delon”. Pativa Sordi: il marchese del grillo avrebbe voluto farlo lui». 

Peppino De Filippo?

«Mi disse: tu si ‘na bella bestia da palcoscenico».

Sofia Loren?

«Mi chiamò un mattino molto presto, per farmi i complimenti per una fiction sui bambini che l’aveva commossa. “Nuie simme ciucci ‘e fatica” mi spiegò: dobbiamo lavorare sino all’ultimo respiro». 

Nadia Cassini l’ha più rivista?

«Me la fece ritrovare Chiambretti in una trasmissione, c’era anche Annamaria Rizzoli. Nadia era ingrassata, aveva bevuto, era una creatura splendida ma fragile».

E la Fenech?

«Sempre meravigliosa. Nata in Algeria in un paese che si chiama Bona, ora vive a Lis-bona. Cosa vuole di più?».

Rifarebbe quei film?

«Rifarei tutto. Un critico di sinistra mi confidò che andava di nascosto a vederli e piangeva dalla risate. Gli dissi: perché non lo scrivi? E lui: sei matto, poi mi licenziano. I figli di Dino Risi rievocano volentieri tutti i film del padre, tranne “Il commissario Lo Gatto”: perché? Carlo ed Enrico Vanzina invece hanno sempre ricordato che Steno mi diresse in “Dio li fa e poi li accoppia”. Ero un salumiere omosessuale che chiedeva al prete, Johnny Dorelli, di sposarlo con un uomo…». 

C’è invece un film che si pente di aver rifiutato?

«Regalo di Natale. Ero stato travolto dal successo dell’Allenatore nel pallone, tenevo il ritmo di tre film all’anno, stimavo Pupi Avati ma non volevo rinchiudermi nel suo circolo, Cavina Haber Delle Piane… Fu un errore. Ma sono contento di aver fatto la fortuna di Abatantuono».

Ha ragione Favino a lamentare che personaggi italiani siano recitati da stranieri?

«Favino è un attore bravissimo, ha pure origini pugliesi. Però è sempre stato così. Quando un’opera italiana ha successo, la rifanno con attori americani. Vent’anni fa girai con Nino Manfredi un film per la tv, “Difetto di famiglia”: quella volta il gay era Manfredi, e io suo fratello che si vergogna ma alla fine gli dona mezzo fegato e lo salva. Otto milioni di spettatori. Ora lo rifanno in America, con De Niro e Al Pacino. In compenso, una volta ho girato un film in tedesco». 

(...)

Sordi com’era?

«Giravamo “Detenuto in attesa di giudizio”, dovevamo fare tardi per i primi piani, e io avevo il compleanno di mia figlia Rosanna. Gli chiesi se potevo farli prima io. Alberto mi diede un buffetto affettuoso e mi disse: “Beato te, che c’hai una bella famiglia”. Andai al suo funerale, un ammiratore in lacrime mi disse: “Lino, ce saremo pure pe’ te”. Ma vaff…». 

Dicono fosse avaro.

«Non è vero. Sordi non era avaro; Sordi aveva il senso dell’importanza del denaro, che è una cosa del tutto diversa. Se noi davamo cento lire al mendicante, lui gliene dava mille. Se noi davamo mille lire di mancia al portiere d’albergo, lui gliene dava diecimila. Una volta gli chiesi: perché lo fai? E lui: perché io so’ Alberto Sordi, e da me s’aspettano questo».

Vedo che lei qui in casa ha incorniciato due lettere. Questa è di Federico Fellini.

«Mi chiedeva sempre di raccontargli qualche episodio dell’avanspettacolo, soprattutto delle ballerine…». 

Questa invece è di Papa Francesco: «I nonni sanno essere forti nella sofferenza, e tu sei il nonno di una Nazione intera. Raccogli l’eredità di fede e di bontà di Lucia…».

«Me la scrisse quando morì mia moglie. Abbiamo fatto in tempo a festeggiare i sessant’anni di matrimonio».

Come vi eravate conosciuti?

«Mi avevano espulso dal seminario, avevo saltato l’adolescenza, e cercavo una fidanzata. Così noto questa ragazza, carina, molto timida, che fa la rammendatrice. La fermo: “Signorì, te devo parlare…”». 

E lei cosa rispose?

«“Che vvuoi? Vattinne!”. Per fortuna ho insistito: le devo tutto. La sua famiglia non mi voleva; così facemmo la fuitina. Ci sposammo alle sei del mattino, in sacrestia. Un freddo tremendo. Il testimone tardava, e il prete si innervosì: “Sbrighiamoci, che dopo ho un matrimonio!”. Ci rimasi malissimo: padre, e il nostro cos’è? Così promisi a mia moglie che un giorno avrebbe avuto una festa da principi. E ho mantenuto». 

Come ha fatto?

«Per le nozze d’oro diedi un ricevimento all’hotel Parco dei Principi. Volevo un principe vero, e mi dissero: ci sarebbe il principe Giovannelli, viene a tutte le feste. Lo invitai. Venne. Con Mara Venier, Nancy Brilli, Scarpati, Arbore…».

Perché deve tutto a sua moglie?

«Andammo a Roma sul camion della verdura di mio cugino: devo ancora pagarlo adesso. Era nata Rosanna. Non avevamo una lira, solo debiti coi cravattari. All’asilo mi dicevano: la bambina deve mangiare la carne, se no diventa rachitica. Questa parola — rachitica — mi rigira ancora dentro. Così andai dal senatore Iannuzzi».

Chi?

«Il senatore di Canosa. Mi trovò un posto da fattorino in banca, con la prospettiva di essere promosso usciere. Basta con l’avanspettacolo, da domani si lavora seriamente. Non ci dormii tutta la notte. All’alba Lucia mi disse: “Tu oggi non vai. Non voglio vivere con un uomo infelice. Tu devi fare l’attore. E io sarò sempre al tuo fianco” (Lino Banfi si commuove). Fino all’ultimo giorno l’ho baciata, l’ho chiamata amore, e l’ho amata veramente. Abbiamo anche concordato un segnale, un fischio, per riconoscerci nell’altra vita, tra tante anime». 

In questa foto lei bacia pure il Papa…

«Sì, l’ultima volta ci siamo baciati sulla guancia. Mi era già capitato con Wojtyla e con Ratzinger, ma quelli erano baci appena accennati. Stavolta ho sentito davvero la guancia del Papa. Siamo due vecchi coetanei che quando si incontrano si sorridono, come due bambini che hanno combinato una marachella».

Lei è un uomo di successo, le hanno dato un premio al festival di Venezia, su Tik-Tok ha fatto un milione di clic in un giorno, però…

«Però ho sempre un velo di malinconia, è vero. Sto preparando un film sulla mia vita, lo chiamo il largometraggio. C’è una scena in cui dialogo con mio padre, ovviamente mio padre sono io. Lui teneva molto all’eleganza, portava un borsalino che si toglieva per salutare i signori. Lo penso con il pizzetto e gli occhiali. Nel frattempo ha preso tre lauree. E il cappello non se lo leva più». 

Come immagina l’aldilà?

«Spero abbia ragione Dino Verde, l’umorista, che diceva: il Padreterno parla napoletano, lingua universale. San Pietro parla romanaccio. La Madonna invece è veneta: “Comandi…”. Poi c’è uno che racconta barzellette e fa ridere tutti, e quando Dio gli chiede “chi sei?”, risponde: “Sono Antonio, ma voi chiamatemi Totò”».

Bellissima. Ma dico davvero: come immagina l’aldilà?

«Un posto tranquillo e accogliente, perché così Lucia me lo sta preparando».

Lei mi fa ridere e piangere insieme.

«Ci ho messo quasi novant’anni; ma alla fine ce l’ho fatta».

Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 22 giugno 2023.

Berlusconi lo conosceva bene?

«Una grande amicizia: sentirò la mancanza della telefonata che mi faceva da quarant'anni, tutti gli anni, ogni 11 luglio: "Ciao vecchio, come stai?". Quando mi scritturò all'inizio degli Anni 80 per fare Risatissima, lui ci teneva che io lo sfottessi perchè funzionava: la gente rideva. Io dicevo "quest'uomo quando sono andato a trovarlo a Mileno, credevo che era tre metri e mezzo, invece era un uomo normale anzi più basso di me con delle recchie tipo elefante". Più dicevo queste cose, più lui veniva in camerino: "Lino picchia, va bene: la gente ride!"». 

Una grande autoironia.

«Pensavano che lui fosse permaloso. Non è vero. Gli rimasi impresso più degli altri per i racconti della mia vita da migrante. Diventammo amici perché cantavamo nella stessa tonalità le canzoni francesi; ma soprattutto quando raccontai quello che dicevo alle ballerine negli spettacoli - "Guardate Sordi, Manfredi, Gassman ma io un giorno ci lavorerò con questi, io farò i film, io firmerò gli autografi, io comprerò le bistecche..." - loro mi guardavano come fossi matto. Mi raccontò che era accaduto anche a lui quando diceva che voleva costruire Milano 2.

Tre-quattro giorni dopo l'attacco con la statuetta andai al San Raffaele di Milano a salutarlo. Il fratello Paolo mi fece entrare ma combinai un guaio: io volevo farlo ridere, ma lui non poteva: "Porca puttena Silvio, che ti hanno fatto? Altro che corpo contro un dente ma questo è contro quattro denti". Lui non poteva ridere aveva paura che si aprissero i punti». 

Una vita di attore, il suo bilancio?

«Delusioni 35 per cento, gioie acquisite 65 per cento. Ho dovuto aprirmi una strada che non c'era, inventarmi un linguaggio inizialmente esasperato e poi piano piano smussato.

Io dovevo riuscire a creare un genere e oggi rifarei tutto quello che ho fatto». 

C'è una frase nella tua infanzia che ancora ti accompagna?

«"Ti spezzo la noce del capocollo", che diceva mio zio Michele. Mi ricordo che quando qualcuno litigava, andavamo da lui a lamentarci e lui: "Portamelo qua, ci spezzo la noce del capocollo". 

Pensa cosa ho trovato nel mio moviolone dei ricordi: quando c'era la guerra dovevamo scappare ai ricoveri. E mio nonno: "Pasqualino, ricordati i pupi". Io avevo costruito due piccoli pupazzi, Orlando e Rinaldo, li portavo nel ricovero e facevo ridere i bambini della mia età. Era il mio compito già da allora. E fra di loro i pupi si dicevano "ti spezzo la noce del capocollo"». 

Come definiresti la sua carriera dall'inizio ai nostri giorni?

«Nazionalpopolare, un termine che mi piace. Però da questo a diventare amico di tre papi non me l'aspettavo. È stato molto più grande di me quello che ho avuto». 

Qual è il segreto di un successo solido?

«Durante tutta la mia carriera ho saputo sempre cedere la mia sedia, ad esempio al vecchio generico che sta lì a prendere freddo in piedi. Questo altruismo dentro di me l'ho sempre avuto». 

Che cosa decide il successo di un film?

«Gli agenti allora dicevano "il marciapiede è caldo". Nei cinema usciva il film e la prima giornata più gente entrava più il marciapiede era caldo. Quello che rimane di tanti film che ho fatto io è il linguaggio assimilato da tre generazioni. Questo è il compenso oltre all'incasso del film». 

C'è stato un maestro nella sua vita?

«Ho saputo rubacchiare poco a ognuno dei vari grandi quando li vedevo lavorare. Allora tutti volevamo diventare Sordi, io sono riuscito ora perchè sono sordo al 30 per cento... Totò mi suggerì di modificare il diminutivo del cognome Zaga da Zagaria - non portava bene. L'amministratore della compagnia era anche un maestro elementare in una scuola di Roma, aprì il registro il primo cognome era Banfi. Scrivemmo sulla locandina Lino Banfi». 

Che cos'è il dolore per lei?

«È una cosa talmente forte che comincia quasi con un odio verso tutti e poi invece stranamente in certi momenti il dolore diventa quasi una carezza. Delle sere, solo davanti alla tv, automaticamente dico una frase girando la testa verso destra, verso la poltrona che adesso è vuota, pensando che mia moglie sia ancora lì. Poi in un attimo capisco. Allora lascio la parola a metà. Però quella è quasi una gioia che provo in quel momento. Quindi il dolore provoca anche rilassamento, sorriso, insomma è una strana sensazione che non si può spiegare».

Il sentimento nel quale ti riconosci di più?

«L'altruismo». 

Che cosa apprezzi di più nel prossimo?

«La sincerità : chi viene da 60 anni di lavoro come me del palcoscenico diventa una vecchia puttena, come direbbe Banfi papele papele, è difficile prendermi in giro». 

Che cosa detesta di più negli altri?

«Quando una brava persona diventa per alcuni il fesso della situazione». 

Che cos'è l'applauso del pubblico?

«L'applauso quando è forte vuol dire che ti vogliono bene. Addirittura adesso si alzano in piedi, si commuovono e mi chiamano maestro». 

Che cosa significa questo amore del pubblico?

«Significa che io ho saputo costruire insieme a mia moglie che è stata definita poi dal Papa "la luce" perché dice "a che serve che voi attori sapete recitare bene se non avete una bella luce in faccia". Io e mia moglie abbiamo messo i mattoncini uno vicino all'altro con cemento armato di prima qualità». 

La parola più bella.

«Amore, che nessuno usa più. Con mia moglie ci chiamavamo così. Vorrei insegnare ai giovani ad usare la parola amore».

(…)

Estratto dell'articolo di Carlo Testa per corriere.it il 22 febbraio 2023.

È morta Lucia Zagaria, 85 anni, moglie di Lino Banfi. La donna era malata di Alzheimer da lungo tempo. A darne l’annuncio è stata la figlia Rosanna, con un lungo post su Instagram condividendo sul social una foto da giovane della mamma in bianco e nero mentre mangia un gelato: «Ciao Mami, ora sei di nuovo così. Buon viaggio».

La figlia aveva più volte parlato della malattia della mamma. Ospite a Verissimo, lo scorso gennaio, aveva detto: «Da un po’ di anni, mamma non sta bene e sente sempre il bisogno di papà vicino. Lo cerca sempre e questo viene prima di tutto il resto, prima di qualunque altra cosa: la salute e l’unione familiare». [...]

Il matrimonio

Lucia Zagaria era sposata con l’attore pugliese dal 1962 e dal loro matrimonio era nati due figli, Rosanna e Walter. Lino Banfi è sempre rimasto accanto alla moglie durante tutto il periodo della malattia e in una intervista aveva raccontato. «Lucia ha sempre fatto un po’ più di confusione e mi dice "Oddio dobbiamo morire tutti"? Io voglio talmente bene a questa donna che le ho detto "Lucia, guarda, la maggior parte della gente che muore sono uomini quindi non ti preoccupare, alle donne tocca dopo a voi"».

[...]

La lettera di Banfi a Papa Francesco

Banfi, sempre ospite a Verissimo, aveva ricordato di quando sua moglie durante la pandemia gli aveva chiesto: «Lino, ma non possiamo trovare il sistema di morire insieme noi due? Perché se muori prima tu io non ce la faccio». [...]

Per questa ragione l’attore pugliese aveva scritto una lettera a papa Francesco: «Ho chiesto al Santo Padre - aveva detto alla moglie Lucia - quello che mi hai chiesto di chiedere precisamente. Gli ho raccontato il tuo desiderio, quello di andarcene insieme, nello stesso momento, tenendoci per mano come abbiamo fatto sempre nella nostra vita». Una richiesta difficile anche per il Papa che ha comunque risposto a Banfi: «Il Papa mi ha detto che non ha il potere di farci andare, anche se io e te non potremmo vivere senza l’altro, lui pregherà per noi».

Lino Banfi e la moglie Lucia: «Mi mandava i soldi quando non ne avevo: avrei voluto morire insieme a lei». Renato Franco su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023

L’attore aveva ripercorso così in un’intervista a «7» la lunga storia d’amore con la moglie Lucia Lagrasta, morta mercoledì: «Ci sposammo alle sei di mattina in una sagrestia. La cerimonia durò poco. Eravamo soli»

Quasi 61 anni di matrimonio più 10 di fidanzamento. Difficile trovare al mondo una coppia più unita e longeva. Un filo lunghissimo che affonda le radici all’inizio degli anni Cinquanta e che si è spezzato per sempre. A 85 anni è morte Lucia Lagrasta, la moglie di Lino Banfi. L’annuncio l’ha dato la figlia Rosanna con un post su Instagram («Ciao mami, ora sei di nuovo così. Buon viaggio») accompagnato da una foto in bianco e nero della madre sorridente con in mano un gelato. Malata da tempo (aveva l’Alzheimer) ha lasciato da solo l’attore (86 anni) che ha attraversato diverse epoche cinematografiche e televisive raccontando le passioni degli italiani: il sesso (con le commedie scollacciate degli anni 70/80), il calcio (con il cult L’allenatore nel pallone) e la famiglia (con i buoni sentimenti di Nonno Libero nel Medico in famiglia).

Quella tra Lucia Lagrasta e Lino Banfi è stata una storia unica, che lui aveva ripercorso nei dettagli qualche tempo fa in una lunga intervista a 7: «A 17 anni decisi di seguire una compagnia teatrale. Lucia rimase a Canosa. Ogni tanto ci scambiavamo una lettera. Lei mi mandava qualche soldo. Era parrucchiera e io avevo sempre bisogno di quattrini. A Milano facevo una vita miserabile. Dormivo nei treni fermi in stazione coprendomi con un cartone. Mi feci pure togliere le tonsille per poter trascorrere qualche giorno in ospedale con pasti caldi gratis».

Lui cercava fortuna mentre lei aspettava e mandava il denaro. Sapeva già però che — come diceva lui — le voleva bene e così decise di organizzare con suo padre una missione diplomatica per chiedere Lucia in moglie. Il papà di lei però non ne vuole sapere e li respinge con perdite. Questo matrimonio non s’ha da fare. La soluzione è il classico escamotage che è stato un format molto praticato al sud: la fuitina («scappammo su una macchina presa in affitto»). Una fuga di due giorni che rende il matrimonio obbligatorio: «Il 1º marzo 1962 ci sposammo. Alle sei di mattina in una sagrestia. La cerimonia durò poco. Eravamo soli. All’uscita promisi a Lucia che, se Dio ci avesse dato tempo e felicità, un giorno avrei festeggiato degnamente il nostro amore. E così è stato. Nel 2012 abbiamo celebrato le nozze d’oro, benedetti da Papa Ratzinger e circondati da amici celebri».

Appena sposato però Lino Banfi era ancora Pasquale Zagaria (il suo vero nome), un attore senza film. Sbocchi non se ne vedono, così trova una raccomandazione per un colloquio per un posto fisso in banca. È il bivio, il palcoscenico o lo sportello? «Quel lavoro non l’ho mai cominciato. La notte prima del colloquio io e Lucia restammo svegli fino alle tre di notte. Sentendomi rassegnato, lei mi prese la mano e disse: "Non mi va di avere accanto un marito triste con un lavoro che non vuole fare. Continua il tuo percorso d’artista!". Non è stato facile sentirselo dire da una donna che aveva passato tutto quel che aveva passato». Il resto è una storia di successo (il suo), ma anche di amore (il loro) perché la coppia resiste a tutto, anche alle tentazioni che set come quelli con Edwige Fenech e Barbara Bouchet potevano offrire. Sempre insieme per 70 anni. Due figli, Rosanna, attrice, e Walter, regista e produttore.

Gli ultimi anni sono faticosi, avanza l’età e avanza anche la malattia. Lo scorso luglio Lino Banfi aveva scritto una lettera a papa Francesco per chiedergli di esaudire l’ultimo desiderio della moglie: «Gli ho raccontato il tuo desiderio, quello di andarcene insieme, nello stesso momento, tenendoci per mano come abbiamo fatto sempre nella nostra vita. Francesco mi ha detto che non ha il potere di farci andare, anche se io e te non potremmo vivere senza l’altro, lui pregherà per noi». La paura più grande di sua moglie era quella di non riconoscerlo più, ma lui la rassicurava come si fa nei film: «È semplice: ci ripresenteremo un’altra volta».

Estratto dell’articolo di Clarida Salvatori per corriere.it il 23 Febbraio 2023.

Un momento emozionante. Toccante. Inatteso. Dopo la benedizione del feretro di Lucia Lagrasta, arriva una lettera. È da parte di Papa Francesco: «Porgo le mie condoglianze a tutta la famiglia - le parole che provengono dal pulpito -. I nonni sanno essere forti anche nella sofferenza. E tu sei nonno di una nazione intera».

 L’applauso commuove Lino, Rossana e i presenti tutti nella parrocchia di Sant’Ippolito. «Ero da poco stato in udienza da lui, ma non mi aspettavo questo pensiero. Lucia è diventata più famosa di me - è riuscito a dire l’attore, visibilmente provato alla fine della cerimonia -. Ora per me scattano i tempi supplementari e i rigori. Avrei voluto morire con lei».

 Stamattina a Roma, nella parrocchia di Sant’Ippolito in viale delle Province, c'è stato l'addio a Lucia Lagrasta, moglie di Lino Banfi, che a 85 anni si è spenta dopo una lunga malattia. Il feretro, una bara di legno chiaro, è arrivato nella chiesa del quartiere universitario romano circondato da cuscini di rose rosse e bianche.

Tante le persone che hanno partecipato alle celebrazioni, accolte dalla figlia Rosanna. «Se ne è andato il pilastro della famiglia - ha detto - era molto discreta, sempre in secondo fila, ma ora sarà difficile senza di lei. Grazie per l’affetto che ci state dimostrando. Tutta la città si è stretta intorno a noi. Non ce lo aspettavamo». Tra i primi ad arrivare anche l’attore Giulio Scarpati, la presentatrice Milly Carlucci, Mara Venier e il produttore Pietro Innocenzi. Tra la folla di romani anche gli ex ministri del governo Conte Luigi Di Maio e Vincenzo Spadafora e l'attore Paolo Conticini.

 «Lucia è ancora in mezzo a noi. Non la vediamo ma è qui - sono queste le prime parole del cardinale Francesco Coccopalmiero, amico della coppia, che ha celebrato la messa con il parroco don Manlio Asta, che poi si rivolge direttamente a Lino -. A te che amavi tanto la tua Lucia, che eri unito a lei da tantissimi anni, fin da quando eravate piccoli. Abbiamo percorso una parte della vostra vita insieme e oggi vi esprimiamo tutto il nostro dolore». Poi rivolto anche alla figlia Rosanna: «La domanda angosciosa di oggi è: dov’è Lucia? La rivedremo? Saremo ancora con lei? La risposta non può venire da noi. Le anime dei giusti, come quella di Lucia, sono nelle mani di Dio».

(...)

Da ilsussidiario.net il 23 Febbraio 2023.

Lucia Zagaria ha sempre sostenuto la carriera del marito: “Se non fosse stato per lei avrei abbandonato la carriera di attore. Mi disse: ‘Preferisco che tu sia povero ma felice, piuttosto che ricco e infelice’. E il suo ottimismo mi ha portato fortuna. Io, invece, vedo sempre il bicchiere vuoto e rotto. E se non lavoro, mi deprimo’’, aveva raccontato Lino Banfi a Verissimo. 

Estratto dell'articolo di Paolo Giordano per ilgiornale.it il 23 Febbraio 2023.

Se ne è andata per la seconda volta, Lucia, ma adesso è per sempre. «Lino, ma non possiamo trovare il sistema per morire insieme, noi due? Perché se muori prima tu io non ce la faccio» aveva chiesto Lucia Lagrasta in Zagaria pochi anni fa, durante la pandemia, a suo marito Lino Zagaria detto Banfi. Poco tempo dopo lui ha scritto una lettera al Papa in cui confessava di aver chiesto a Dio, come ultimo desiderio, di morire nello stesso momento della moglie «tenendoci per mano come abbiamo fatto sempre nella nostra vita».

Non è stato possibile e ieri Lucia Zagaria, quasi 85 anni, è mancata al Campus Bio Medico di Roma, dove da anni era in cura, pare, per una forma progressiva e implacabile di Alzheimer (i funerali oggi alle 12 nella Parrocchia di Sant'Ippolito). La figlia Rosanna ha pubblicato una foto in bianco e nero della mamma con in mano un gelato: «Ciao mami, ora sei di nuovo così, buon viaggio». L'ondata di affetto popolare, espresso dai social ma non solo, è stata subito gigantesca ma non solo perché Lino Banfi è senza dubbio uno dei volti italiani più popolari. È stata una reazione così commossa soprattutto perché i signori Banfi rappresenta(va)no un ideale praticamente irraggiungibile.

 Erano probabilmente la coppia più longeva dello spettacolo italiano, hanno attraversato decenni insieme e sono rimasti sempre, inequivocabilmente, magnificamente lontani da pettegolezzi morbosi, scandaletti, schermaglie, piazzate televisive. Lei era nata nell'aprile del 1938 a Canosa di Puglia e conobbe il quindicenne Pasqualino Zagaria quando aveva tredici anni. Da allora sempre insieme. Quasi dieci anni di fidanzamento e poi il matrimonio nel marzo del 1962, dal quale sono arrivati due figli e due nipoti. Erano insieme quando lui cercava, passo dopo passo, porta sbattuta dopo porta sbattuta, a fare il passo più lungo della gamba, passare dalla Puglia degli anni Cinquanta al palcoscenico dei teatri o ai set del cinema.

Già ora è una carriera difficile. Ma allora era praticamente un terno al lotto. Banfi ha raccontato di quando cadde in mano agli usurai, di quando viveva a Milano alla stazione dei treni oppure nelle case in costruzione. Insomma, una gavetta come si deve. Si chiamava Lino Zaga allora, era il suo nome d'arte e anche alla moglie piaceva. Fu poi Totò a convincerlo a trasformare Zaga in Banfi perché, superstizioso com'era, pensava che portasse bene accorciare i nomi di persona ma portasse molto male accorciare i cognomi. Da allora Lino Banfi ha attraversato la storia dello spettacolo italiano rimanendo legato a un'unica donna che non si è mai mostrata, che non ha mai richiamato attenzioni pur essendo anch'ella un'attrice.

Non ha detto nulla neanche quando suo marito recitava con le donne più sexy e desiderate del tempo, da Edvige Fenech a Nadia Cassini a Barbara Bouchet, che erano più svestite che vestite. Lino Banfi, come pochi altri nella storia dello spettacolo, non si è mai separato, è rimasto sempre e comunque il simbolo del pater familias affidabile e fedele, costi quel che costi. Perciò la commozione di tutti ieri, quando si è saputo che era morta.

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Si sposarono all’alba in gran segreto, poi insieme fino all’ultimo. Lino Banfi e la lunga storia d’amore con la moglie Lucia, uniti anche nella malattia: “Non potevamo vivere l’uno senza l’altro”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Febbraio 2023

La storia d’amore tra Lino Banfi e Lucia Zagaria è lunga oltre 70 anni, una vita intera in cui i due si sono sempre tenuti mano nella mano, nella buona e nella cattiva sorte come negli ultimi anni in cui lei ha sofferto per l’Alzheimer. Un amore che li ha visti sempre uniti finchè lei si è spenta a 85 anni, lasciando per la prima volta lui solo a 86 anni. La loro storia d’amore è iniziata negli anni ’50 quando i due erano poco più che ragazzini con tanti sogni nel cassetto. Poi quei sogni sono diventati realtà, una favola bella di una vita passata insieme.

L’annuncio l’ha dato la figlia Rosanna con un post su Instagram: “Ciao mami, ora sei di nuovo così. Buon viaggio”, ha scritto con una foto in bianco e nero della mamma sorridente con in mano un gelato. Il Corriere della Sera ha ripercorso le tappe di quell’amore indissolubile con le parole di una vecchia intervista rilasciata da Banfi a 7. “A 17 anni decisi di seguire una compagnia teatrale. Lucia rimase a Canosa. Ogni tanto ci scambiavamo una lettera. Lei mi mandava qualche soldo. Era parrucchiera e io avevo sempre bisogno di quattrini. A Milano facevo una vita miserabile. Dormivo nei treni fermi in stazione coprendomi con un cartone. Mi feci pure togliere le tonsille per poter trascorrere qualche giorno in ospedale con pasti caldi gratis”, ha raccontato.

Si volevano bene e lui a un certo punto cercò il coraggio per chiedere la mano di Lucia a suo padre. Ma lui gliela negò e così misero in atto il piano che all’epoca era un grande classico per le giovani coppie: una fuga d’amore che poi rese obbligatorio il matrimonio. Lui lo ha raccontato così: “Il 1º marzo 1962 ci sposammo. Alle sei di mattina in una sagrestia. La cerimonia durò poco. Eravamo soli. All’uscita promisi a Lucia che, se Dio ci avesse dato tempo e felicità, un giorno avrei festeggiato degnamente il nostro amore. E così è stato. Nel 2012 abbiamo celebrato le nozze d’oro, benedetti da Papa Ratzinger e circondati da amici celebri”.

Appena sposato Banfi era ancora un attore senza ingaggi e così fece un colloquio per un posto fisso in banca. “Quel lavoro non l’ho mai cominciato. La notte prima del colloquio io e Lucia restammo svegli fino alle tre di notte. Sentendomi rassegnato, lei mi prese la mano e disse: ‘Non mi va di avere accanto un marito triste con un lavoro che non vuole fare. Continua il tuo percorso d’artista!’. Non è stato facile sentirselo dire da una donna che aveva passato tutto quel che aveva passato”. Ed è stata quella probabilmente la spinta definitiva verso il successo. Sempre insieme per 70 anni. Due figli, Rosanna, attrice, e Walter, regista e produttore.

Per la coppia gli ultimi anni sono stati difficili nell’affrontare la malattia ma nulla li ha separati mai. Al Corriere Banfi ha confidato che durante la malattia la paura più grande di sua moglie era quella di non riconoscerlo più. Lui con tutto l’amore del mondo l’aveva rassicurata dicendole: “È semplice: ci ripresenteremo un’altra volta”. L’attore scrisse una lettera a Papa Francesco che stringe il cuore riportando gli ultimi desideri di sua moglie: “Gli ho raccontato il tuo desiderio, quello di andarcene insieme, nello stesso momento, tenendoci per mano come abbiamo fatto sempre nella nostra vita. Francesco mi ha detto che non ha il potere di farci andare, anche se io e te non potremmo vivere senza l’altro, lui pregherà per noi”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Linus e Carlotta Medas, l’incontro galeotto nel 1987: «Ma il primo bacio solo dopo che mi separai». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2023.

Il direttore di Radio Deejay: «Lei a 16 anni con le amiche mi faceva la claque». Lei: «In certi momenti gli ho controllato il cellulare, ma lo abbiamo fatto entrambi». Lui: «Due maratone di New York insieme, per dispetto non si è nemmeno allenata»

Chi di voi ha più paia di scarpe?

Carlotta: «Ça va sans dire, Linus! Ha anche l’armadio più grande».

Linus: «Ma solo perché i miei vestiti sono più voluminosi. Comunque, io di scarpe ne ho tante. Non è che faccia il collezionista, molte me le regalano per la corsa. Però sono a numero chiuso: ci sono otto mensole da 4 posti, per ogni paio che entra un paio esce; devono restare 32».

Carlotta: «A me resta spazio libero, e le mie mensole sono più corte...».

Linus e Carlotta Medas si stuzzicano con botte e risposte in cucina, sotto gli occhi del gatto Marino e della cagnolina Bruna dipinti dal padrone di casa, mentre Ilde, la labrador in carica, russa nella stanza accanto. I due figli di 26 e 19 anni, Filippo e Michele, dopo aver abbandonato il nido sono tornati «moltiplicandosi» con le fidanzate e Carlotta, cuoca professionista certificata, ha dovuto mettere accanto alla porta di ingresso una lavagnetta con gli smile-calamite per sapere chi c’è ogni giorno a cena e organizzarsi con la spesa. Marito e moglie sono teneri e diversi: lo stesso bicchier d’acqua per uno sarà sempre mezzo vuoto, per l’altra mezzo pieno.

Carlotta non si è fatta contagiare dalla corsa?

Carlotta: «No, anzi, a me stimola qualcosa di contrario alle endorfine: se corro, divento isterica».

Linus: «Però abbiamo fatto due maratone di New York insieme, nel 2005 e nel 2006. Per dispetto lei non si è nemmeno allenata: io andavo piano e lei pianissimo, io pianissimo e lei camminava, io camminavo e lei stava ferma...».

È vero che Linus è partito per una maratona a New York due settimane dopo la nascita di Michele, nel 2003?

Carlotta: «Se è per questo è andato a vedersi una partita della Juve dopo che era nato il primogenito, e io ero ancora ricoverata all’ospedale!».

Linus: «Ma che dici! Intanto per la nascita di Filippo mi sono perso la finale di Champions vinta contro l’Ajax. E poi l’altra partita era un’amichevole a Cesena, che dovevo fare? Stare a casa a Riccione a piangere mentre ti aspettavo? La verità è che la nostra relazione funziona perché non abbiamo nulla in comune».

Carlotta: «Dai, non è vero. nei viaggi funzioniamo benissimo. Io e te insieme vinceremmo Pechino Express».

Linus e Carlotta Medas si sono sposati il 17 giugno del 2001

Difetto e pregio di Linus.

Carlotta: «Uno solo?».

Cominciamo...

Carlotta: «È permaloso».

Linus: «Non è vero!».

Carlotta: «E insoddisfatto».

Linus: «Eternamente insoddisfatto: è la mia condanna, ma anche la mia virtù».

Carlotta: «E va be’, sarà anche la tua virtù, ma non la nostra. L’essere sempre insoddisfatto di sé lo porta avanti, ma quando hai delle persone di fianco le fai sentire come se fossi insoddisfatto anche di loro».

Ora scegliamo due pregi.

Linus: «Bello in modo assurdo».

Carlotta: «A me piaci. E poi sei sexy. Ma questi sono giudizi soggettivi. Posso invece dire che Linus è una persona molto corretta, buona, generosa, protettiva, affidabile. Io sono figlia di un militare e queste caratteristiche le apprezzo molto».

Linus: «In effetti sono la riedizione di suo padre... L’affidabilità è sottovalutata, oggi, come se fosse qualcosa da sfigati. Invece anche io l’apprezzo molto nei miei amici».

Linus con Carlotta Medas

Quali sono i pregi e i difetti di Carlotta?

«Pregio principale: è un’anima pura, a differenza mia che sono un’anima scura. Sfiora quasi l’ingenuità: ha conservato il candore di quando l’ho conosciuta».

E il difetto?

«Può essere parente di quell’adolescenza infinita che si porta dietro».

È un’ottima cuoca.

Linus: «Ed è una dote che tutti le riconosciamo e che ci fa sentire dei privilegiati. Ma quando si era appena trasferita da me a Milano, era come se avessi adottato un velociraptor: ogni giorno rompeva qualcosa. Una volta mi disse: vorrei prepararti la trota salmonata, ma non so come si salmona la trota...».

Oggi, invece, cosa prepara?

Carlotta: «Gli preparo le cose che gli faceva la madre: pasta con i cavolfiori, pasta con le patate, pasta con i ceci, pasta con i fagiolini... Per il pollo con i peperoni, però, l’ho fregato: gli avevo detto che era una ricetta messicana, invece lo avevo visto preparare da Orietta Berti in tv».

Gelosia: come la vivete?

Linus: «Io negli Anni ‘80 ero un teen idol totalmente inconsapevole. Facevo le serate in discoteca e andavo via con la sicurezza che mi sollevava di peso, circondato da ragazzine. L’unica di quella generazione che non mi ha mai visto con quegli occhi era lei».

Carlotta: «La gelosia giustificata non è gelosia, diventa rabbia. Ma a prescindere da questo, io non gli ho mai rotto le scatole, non lo opprimo».

Controlla il suo cellulare?

«Ci sono momenti in cui l’ho fatto, perché magari tra di noi le cose non andavano bene. Ma lo abbiamo fatto entrambi. Ora non lo guardo più, seguo gli indizi: sto prendendo un attestato da criminologa...».

Linus e Carlotta con i figli Filippo, a destra, e Michele, a sinistra

Quando vi siete conosciuti Carlotta aveva 16 anni e Linus doveva compierne 30.

Linus: «Era il 1987, il primo anno che facevamo Deejay Television dall’Aquafan di Riccione. Stavo per sposarmi, il matrimonio purtroppo sarebbe durato solo quattro anni. In tv hai bisogno della claque per le telepromozioni e Carlotta era stata scelta con le sue amiche: erano adorabili, non c’era nessuna malizia tra noi».

Carlotta: «Io avevo il suo autografo nel diario Naj-Oleari, lo conservo ancora».

E il primo bacio?

Linus: «Molti anni dopo, giugno 1992, a San Marino: era una delle primissime volte che uscivamo. Poi abbiamo avuto un gatto e lo abbiamo chiamato Marino: agli altri raccontavamo che era perché arrivava dal mare».

Meglio Linus o Simon Le Bon?

Linus: «Non lo chieda!».

Carlotta: «Mi sono messa con lui per conoscere Simon! Il 2 maggio andrò con tre mie storiche amiche a Londra per vedere i Duran Duran. Se penso al primo concerto, a 16 anni a Milano... Arrivammo in treno e venendo a San Siro pensai: “Che fortunati quelli che vivono qui, possono sentire gratis tutti i concerti!”. Ora ci vivo io qui».

Dopo, grazie a Linus, i Duran Duran li ha incontrati.

«Sì, due volte. Una a Radio Deejay, l’altra a un concerto, quando Linus procurò a me, a un mio amico e a Filippo i pass per il backstage. Ho chiacchierato con tutti. Poi Simon durante lo show ha chiesto in inglese: “Dov’è Filippo?”, e gli ha dedicato una canzone. Comunque a me piace di più John Taylor».

La vostra città del cuore?

Linus: «Firenze. Abbiamo cominciato a frequentarci quando lei studiava architettura lì. Partivo da Milano a mezzogiorno, non appena finivo il programma, e ripartivo il mattino dopo alle 5. Non risco ad andarci senza ricordarmi di quel periodo».

Carlotta, chiudiamo con la Porsche: l’ha mai guidata?

«Una volta, qui dietro casa. Ma io ho una specializzazione ad “arrotondare” le macchine e avevo paura di farlo anche con questa. Se devo dire la verità, è una macchina che non mi piace tanto: un bellissimo oggetto, per carità, ma è scomoda. Una volta siamo andati in Costa Azzurra e quando sono scesa sembravo un gatto attaccato alle tende...».

Estratto dell'intervista di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 23 dicembre 2022.

(...) 

 Claudio Cecchetto?

«A cosa serve vivere di rancori?».

Il 2023 per lei è un anno particolare anche per motivi privati, giusto?

«Il prossimo anno compirò 66 anni, la stessa età che aveva mia madre quando se ne andò. Era del 1923 e queste coincidenze mi mettono l'ansia... Io ho il suo stesso carattere. Tendo al cupo e al solitario come lei». 

E da solo ci sa stare?

«No. Cerco la solitudine, ma se mia moglie va a trovare i suoi per un weekend, da solo non riesco a guardare neanche la tv. Mi deprimo tantissimo». 

Il futuro come lo vede?

«Detesto la parola futuro. È una truffa. Le cose ormai cambiano in maniera velocissima. Ora penso solo a quello che farò dopo l'estate 2023». 

E cosa farà?

«Sono ossessionato dal Milan degli immortali di Sacchi, composto da grandissimi campioni che poi sono invecchiati tutti insieme, di botto. In radio temo la stessa cosa.

Vorrei fare degli inserimenti, ma non è facile trovare i nuovi Fabio Volo, La Pina o Nicola Savino». 

È mai stato sul punto di lasciare tutto? Lavora nella stessa azienda da 38 anni...

«Sì. Prima del 94 volevo puntare sulla tv, come tanti altri, ma poi sono diventato direttore e non ho più avuto il tempo di pensarci». 

Ha comprato il regalo di Natale a Elkann, che dal 2020 è il nuovo proprietario della radio?

«Non abbiamo quel livello di confidenza». 

Un tifoso juventino come lei, dopo le ultime turbolenze, diciamo così, gli ha mandato un wapp di solidarietà?

«Sì. Gli ho scritto dicendogli che sono a disposizione per dare una mano a migliorare l'immagine della Juve. Gratis, ovviamente. Ho sempre sofferto l'idea di arroganza che trasmette la Juve. Andrea Agnelli ha fatto bene fino a un certo punto poi si è avvitato». 

Elkann cosa le ha risposto?

«Magari». 

La sua azienda anni fa le promise una Ferrari in regalo se fosse arrivato a sei milioni di ascoltatori al giorno, ma lei non ce la fece, vero?

«Vero. Mi fermai a 5 milioni 980 mila. Niente Ferrari».

E ora ha una Porsche Targa?

«Sì. Ho fatto anch' io questa stupidaggine. È un'auto che, la vita non fa sconti, mi sono permesso non avendo più il fisico. Si guida quasi da sdraiati e per uscire devo rotolare perché non posso neanche aggrapparmi al tettuccio, che è di tela. Diciamo che è come comprarsi un quadro. La uso ogni tanto». 

Vent' anni fa fece il remix del monologo Accetta il consiglio, quello del film The Big Kahuna con Kevin Spacey e Danny DeVito. In pratica, un lungo elenco di suggerimenti e considerazioni esistenziali. Tipo quello che dice: Goditi il tuo corpo. Usalo in tutti i modi che puoi, senza paura e senza temere quel che pensa la gente. A parte la corsa e la bici si è dato da fare?

«Per niente». 

Quante donne ha avuto?

«Se sono state dieci in tutta la mia vita è un miracolo. Con la prima moglie sono stato undici anni, fino al 92, e subito dopo mi sono messo con Carlotta, la seconda. Con le donne sono sempre stato un po' imbranato. Ero così anche negli Anni Ottanta, periodo di cui non ho un buon ricordo». 

Perché?

«Forse perché si divertivano tutti e io no: bisognava vivere la notte, fare cazzate, drogarsi». 

Droghe, le ha provate?

«Certo. Come faccio a essere della mia generazione e non averle provate?». 

Tutte quelle che andavano in quegli anni?

«Tranne l'eroina, sì. Dopo una serata in discoteca faceva parte del gioco. Dopo il cachet c'era anche il regalino. Mai preso il vizio, però». 

Da anni, dopo aver fatto il consigliere del sindaco Sala a Milano, si parla di un suo impegno in politica: ci siamo?

«Non dico che non mi piacerebbe, penso che potrei anche fare bene, ma non credo di averne i requisiti. È come presentare il Festival di Sanremo». 

Che vuol dire?

«Sarei capace di presentarlo e sarei un ottimo direttore artistico ma non ho quella credibilità popolare che ha Amadeus. Lui è un uomo Rai1, perfetto per quel mondo lì, io no»..

A proposito di Sanremo, fra i big c'è Lazza: saprebbe cantarmi una sua canzone?

«No. So chi è, però. Ma non mi faccia fare la figura del vecchio, su...». 

E una di Lda.

«So chi è, il figlio di Gigetto (Gigi D'Alessio, ndr)». 

E di Mara Sattei?

«La sorella di Tha Supreme. Quando è venuta da me a Deejay chiama Italia poi si è lamentata sui social perché le ho chiesto del fratello. Mi ha dato del maleducato». 

Chi vince il Festival?

«Ultimo. Mi incuriosisce Chiara Ferragni, è una macchina da guerra». 

In The Big Kahuna si dice di buttare gli estratti conto: i suoi con la nuova proprietà sono migliorati?

«Il mio compenso è lo stesso da dieci anni. Ed è più di quello che mi serve».

Quanto in un anno? Con sei zeri?

«Almeno sei zero, certo. Me lo merito, anche se da qualche anno non me ne frega più niente dei soldi».

 Quindi se le chiedo quanti ne ha in banca non lo sa?

«Non ne ho la minima idea. Poi con tutto quello che è successo in borsa negli ultimi anni...». 

Preoccupato?

«Per niente. Mi dispiace solo che la vita sia così breve. Vorrei avere il doppio del tempo

Maria Elena Barnabi per Gente il 26 novembre 2022.

«Quando a ottobre ho sentito la notizia dello schianto sulla A4 del furgone dell’associazione Centro 21 onlus di Riccione (i sei occupanti sono tutti morti, ndr) ho fatto una cosa che mi ricorderò per sempre», racconta Linus. «Ho subito mandato un messaggio al mio amico Massimo Pironi: lui era il presidente di quella onlus che si occupa di ragazzi con la sindrome di Down, e mi avrebbe detto tutto. Non mi ha risposto. Dopo ho saputo che dentro quel van c’era anche lui. Quel messaggio è ancora lì senza risposta». 

Linus dice tutto questo guardandomi dritto in faccia con quei suoi occhi chiari, ma io distolgo lo sguardo perché un po’ mi commuovo. Una cosa così è successa anche a me, forse a tutti: credere vivo un amico che invece era già morto. E in quel momento capisco perché Linus, che fa radio da quasi cinquant’anni, rimane una delle voci più ascoltate d’Italia: perché ti racconta cose che sono anche tue. 

Siamo nel suo ufficio all’ultimo piano di via Massena a Milano, dove ci sono gli storici studi di Radio Deejay, ma anche quelli di Radio Capital e Radio m2o, cioè del polo radiofonico del gruppo Gedi, di cui Pasquale Di Molfetta (il vero nome di Linus), 65 anni, è direttore editoriale. Di origini pugliesi, nato a Foligno ma cresciuto nell’hinterland milanese, Linus è senza dubbio oggi una delle figure più di spicco della radio italiana. Ha iniziato negli Anni 70 mentre faceva l’operaio («La fame aiuta», dice lui), nel 1984 è entrato a Radio Deejay e ne ha assunto la direzione un decennio dopo.

Da 31 anni va in diretta tutte le mattine con il suo programma Deejay Chiama Italia e decide il futuro dei suoi speaker, da Fabio Volo ad Alessandro Cattelan, da La Pina al Trio Medusa. La scusa per vederci è la festa di Natale di Radio Deejay (sarà l’1 dicembre al Fabrique di Milano): l’incasso dei biglietti, andati a ruba in meno di tre minuti, sarà devoluto all’associazione Centro 21 onlus di Riccione. 

Linus, cominciamo dall’inizio: hai detto che dei tuoi anni di operaio ti ricordi il freddo.

«Negli Anni 70 il freddo era vero, tangibile, mettevo la calzamaglia sotto i jeans. Ma era anche un freddo dentro, che non passava. Non volevo continuare a fare l’operaio, ma il mondo delle radio era così precario. Ero sempre senza soldi. Per dire: per andare negli studi di una piccola radio di Bollate, siccome non avevo l’auto, rubavo le biciclette». 

Poi ti è arrivata la chiamata di Claudio Cecchetto: Radio Deejay ti voleva. E hai svoltato.

«Avevo detto alla mia fidanzata che dopo le vacanze avrei mollato la radio e mi sarei trovato un lavoro vero. E invece...».

E invece hai iniziato una carriera  lunghissima. Molti dei tuoi ex colleghi  ora sono star televisive. Non hai mai pensato che al posto di Amadeus a Sanremo ci potresti essere tu?

«Se la mia carriera avesse avuto un altro percorso... Invece sono qui e ho fatto altre cose: io non ho quella credibilità nazionalpopolare che serve per la Tv che fa lui». 

Amadeus era così già da ragazzo?

«Sì, è sempre stato più “vecchio” della sua età anagrafica. Gli è sempre piaciuto porsi in modo rassicurante. È nato per fare Raiuno. È stato bravo e determinato. Sa che cosa sa fare e cosa no». 

E per quelle che non sa fare, chiama Fiorello.

«E per farlo bisogna avere pazienza perché Fiorello ti toglie l’anima. È veramente il tipico artista: umorale, imprevedibile, super sensibile. Un giorno ti dice sì, l’altro no. Stargli dietro è un lavoro e Amadeus è stato una goccia cinese». 

L’altro ex ragazzo magnifico di Radio Deejay è Gerry Scotti.

«Gerry è il più bravo di tutti noi. Ha quel guizzo di follia, quell’esuberanza e quel carisma che lo rendono unico. Ma sa anche essere molto scorbutico. Poteva lanciarsi di più, credo. Ha fatto una carriera bellissima, ha guadagnato tanti soldi». 

E si dice che per Gerry Scotti i soldi siano importanti…

«Lo dice sempre lui stesso. E noi scherziamo tantissimo di quella volta che nel 1985 andammo a Lecce per fare una serata in discoteca a Pasqua. L’aereo era carissimo, il treno ci metteva troppo, e allora Gerry mi disse: “Andiamo in auto, ma non con la mia che è a benzina e consuma. Prendiamo quella di tuo fratello, che è diesel”. E così usammo la Golf di Alberto e Gerry guidò come un pazzo. Ma io dico: puoi andare in auto fino a Lecce?». 

Ti mancano quegli anni?

«Degli Anni 80 non mi manca niente. C’era qualcosa che non andava, che mi rendeva inquieto. Preferisco gli Anni 90: ero più sicuro di me». 

Quest’anno Radio Deejay ha fatto 40 anni. E tu?

«Ad aprile saranno 47 di radio. Ho iniziato nel 1976». 

Chi è il tuo erede?

«Non so neppure se c’è. Un giorno arriverà uno più bravo di me». 

Cos’hai di speciale? Perché ti ascoltiamo tutte le mattine da trent’anni?

«Perché sono un rompiscatole, e per primo con me stesso. Ho una buona memoria e una grande curiosità che mi porta a informarmi di tutto. Se però mi rendo conto che non ho dato il massimo, rimango di umore pessimo per tutta la giornata. E poi ho la fortuna di lavorare con Nicola». 

Nicola Savino, il tuo partner in radio da ventisei anni.

«Io da solo valgo 8, in coppia con lui 10. Io faccio il perfettino e poi lui arriva e mette a nudo le mie manie e le mie debolezze. Mi fa diventare più simpatico». 

Tu antipatico? Giammai. Sono calunnie!

«Ma infatti. Sono la persona più buona del mondo». 

Però sei tagliente.

«Questo è un vanto, l’ho preso da mia mamma: è una cosa tipica dei pugliesi, non ti fanno passare niente senza un piccolo commento acido. Sono così anche con mia moglie Carlotta (hanno due figli, Filippo, 26 anni, e Michele, 19, ndr): a volte sembriamo Sandra e Raimondo». 

Nel 2023 ti scade il contratto. Poi?

«Tra un anno saremo seduti a decidere. Troveremo sicuramente un accordo». 

Contano molto i soldi?

«Per me niente. Per quello ne guadagno tanti. Non ho mai fatto questioni di soldi con nessuno». 

L’ipotesi di buttarti in politica come sindaco di Milano?

«Pura fantapolitica. Una boutade». 

Beh, bisognerà trovarti qualcosa da fare se l’anno prossimo non ti rinnovano il contratto.

«Ho imparato che non bisogna mai fare progetti. Il futuro è una parola che non esiste. Il futuro è oggi». 

Oggi il tempo è bello. Sei venuto in Porsche?

«Esattamente. Se era brutto, mica la tiravo fuori dal garage. Si rovina».

Linus: «Mio fratello Albertino? Sono contento che ora abbia la sua radio. Non dimentico il freddo di quando facevo l’operaio». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022

Il direttore artistico di Radio Deejay. «Mio figlio Michi sarà il miglior dj dei prossimi vent’anni». L’addio ai microfoni: «Non ho ancora firmato il rinnovo». Gli ospiti in radio: «Kobe Bryant mi disse che era un mio fan. Fonzie di Happy Days creò il caos in radio» 

Chi la chiama Linuccio?

«Mio fratello e mia sorella. E un pochino il mio migliore amico, Jager. Anche io mi chiamo Linuccio quando parlo con me stesso».

Chi la chiama Pasquale?

«Quelli che pretendono di essere in confidenza con me, ma non mi conoscono, altrimenti saprebbero che neppure mia madre mi chiamava così».

E sua moglie Carlotta?

«Lei Linusc , con la esse romagnola».

Pasquale Di Molfetta detto Linus compie 65 anni il 30 ottobre e ne dimostra dieci di meno. Figlio di Michele, artigiano che costruiva e vendeva cornici porta a porta, e di Maria, casalinga pragmatica di Canosa di Puglia (come il marito), fa radio dal 1976. Direttore storico di Radio Deejay (dal 1994), oggi guida il polo radiofonico del gruppo Gedi.

Se le dico casa?

«Ho trascorso metà della mia vita a Paderno Dugnano, dove ci siamo trasferiti quando avevo due anni e mezzo, l’altra metà a Milano. Mi sento milanese. Spesso mi esprimo in automatico con frasi come “Va a ciapà i ratt”...».

Il primo ricordo di Milano?

«Ero un bambino asmatico e i miei genitori mi ci portavano per le cure. Venivo in treno con mamma o in Lambretta con papà: stavo in piedi davanti, mentre lui guidava, fumava e mi spiegava quello che vedevamo. Ho queste visioni di Milano molto luminosa, molto bianca, compresi i marmi della Stazione Centrale! Ricordo strade larghe, tanta luce, tanta gente».

È più andato da Sgaramella, il bar dove suo padre la trascinava quando giocava a carte?

«Ci passo davanti ogni tanto. Andare a Paderno Dugnano significa tre cose: trovare mia sorella, che sta ancora lì, i miei al cimitero o prelevare Jager per un giro in bici. Sgaramella è sempre lì, ha cambiato nome cento volte».

Ai tempi suo padre aveva 45 anni, e le sembrava già anziano. Che effetto le fa, oggi?

«Continuo a fare paragoni. Io somiglio molto a mia mamma, come carattere e nei lineamenti. Lei è morta a 66 anni ed era nata nel ‘23. Io nel ‘23 avrò 66 anni. Questa simmetria di numeri al contrario mi inquieta».

Ha mai fatto un regalo simbolico ai suoi?

«Loro andavano poco in vacanza. Un po’ perché non se lo potevano permettere, un po’ perché mia madre non la smuovevi. Poi ho affittato una casa in montagna per un anno, e lei c’è andata un mese d’estate. Credo si sentisse come la moglie di Kennedy».

Ha fatto in tempo a vedere il suo successo?

«Il successo sì, nel 1984 facevo già Deejay Television. Se n’è andata nell’89 e non ha fatto in tempo a vedere nessuno dei nipoti. Ma è riuscita a vedere me e mia sorella sposati: per lei era un gran traguardo».

Un’immagine che le fa ancora tenerezza?

«Un martedì mattina mio padre ci chiama dicendo che stava male, il giovedì mattina è mancata. In ospedale non era più la mamma poco affettuosa cui eravamo abituati. A un certo punto mi chiede di andare a casa sua e controllare sotto il materasso dov’era il suo borsellino: dentro c’erano 30 milioni di lire. Le loro finanze erano sempre state precarie, ma lei era riuscita a risparmiare negli ultimi anni di nuovo benessere, privandosi di chissà quali cose».

Lei si spende molto per Milano. Penso solo alla Deejay Ten, che organizza dal 2005. Le piacerebbe diventare sindaco?

«Mi piacerebbe nel senso che a me piace gestire le cose e quello del sindaco, alla fine, è un lavoro gestionale, si è un po’ spogliato delle valenze politiche. Gestire le cose vuol dire gestire le persone, che è quello che faccio a Radio Deejay dalla fine del ‘94. Dunque sarebbe divertente, mia madre sarebbe contenta».

Chi è il sindaco che le è piaciuto di più?

«Dal punto di vista dell’apertura culturale Milano è cambiata con Pisapia. Poi ho rivalutato la Moratti: l’ho conosciuta meglio ed è una persona molto capace e di spessore. Ma la rivoluzione l’ha fatta Beppe Sala».

Un difetto di Milano?

«Oggi la creatività viene vissuta come coniugazione di business, moda e design. Ma così è lontana dalle persone. Noi siamo stati la città di Leonardo da Vinci, caspita! Ora invece siamo la città di Armani, al quale non mancherei mai di rispetto, ma lui per primo prenderebbe le distanze da questo paragone».

Ha un legame fortissimo con Riccione, città di sua moglie e appendice estiva di Radio Deejay. Il sindaco lo farebbe lì o a Milano?

«Meglio Milano: Riccione è troppo piccola e avresti sempre davanti un elettore che ti rinfaccia quel che stai o non stai facendo!».

Fa la radio da quasi 50 anni. «Fino a quando» vuole continuare, per citare il suo libro?

«La gente è convinta che lo abbia scritto come provocazione, ma è un pensiero che mi accompagna tutto il giorno. Le cose belle prima o poi devono finire e non voglio che succeda a sfumare. Nel 2023 mi scade il contratto: mi hanno già proposto un rinnovo di 5 anni, ma non ho ancora firmato. Comunque non è detto che ci arrivi al 2023, no?».

Se togliamo Radio Deejay, chi è Linus?

«Non credo di essere molto diverso da chi ero prima di diventare famoso. Sono una persona che ha bisogno di sentirsi benvoluta».

Dei «Ragazzi di via Massena» molti hanno sfondato in tv. Ha un rammarico?

«Sarei bugiardo se dicessi che non ho quel tipo di rammarico. Ma non perché la tv sia più bella della radio: è che a volte ho un po’ di frustrazione nel percepire il mondo radiofonico come se fosse di Serie B».

Un ricordo di quando faceva l’operaio, tagliando e incollando grandi fogli di kevlar?

«Il freddo terrificante. Lavoravamo in un capannone, d’inverno ero costretto a indossare calzamaglia, jeans, quattro maglioni uno sopra l’altro. Avevo 18-19 anni e il mio sogno era avere un lavoro qualunque nel quale potermi vestire come un ragazzo della mia età».

La Porsche quando è arrivata?

«Tardi, mi ha incoraggiato Nicola Savino , a me imbarazzava. La prima l’ho comprata 5-6 anni fa, il colore più discreto possibile, coupé normale. L’ho rivenduta con seimila chilometri. Ora ho una Porsche Targa, quella che volevo davvero. Quando facevo le superiori a Cesano Maderno c’era un tale con un Carrera Targa arancione che mi sembrava venisse da Marte».

Perché la usa così poco?

«Per me è come aver comparto un’opera d’arte. Mi obbligo a usarla una volta alla settimana per venire alla radio: 4 chilometri ad andare e 4 a tornare. Non la uso nemmeno per andare a Riccione, poi diventa scomoda».

Parliamo di Carlotta. Quando l’ha conosciuta aveva 16 anni. Vi siete messi insieme cinque anni dopo. È una storia romantica.

«Sì, è vero. Mi chiedo ancora cosa abbia trovato in me: non potremmo essere più diversi. Lei era così carina, io veramente uno sfigato».

Che cosa è per lei?

«Il mio equilibratore. Ho un’inclinazione alla cupezza che ho preso da mia mamma. Ho bisogno di stare con la gente. Carlotta è socievole, solare, positiva e mi compensa».

I figli vivono ancora con voi?

«Fino a qualche mese fa Michele, il piccolo, viveva a Madrid, dove faceva il liceo, e Filippo, il grande, a Milano con altri due amici. Filo a breve dovrebbe trasferirsi a Roma per lavoro e così ha deciso di tornare con noi. Lo stesso Michi. Così io e mia moglie ci siamo ritrovati tutti in casa: in certi momenti è complicato».

Nessuno ha seguito le orme del padre?

«Michi diventerà il più bravo dj dei prossimi 20 anni. Con lui l’accordo è che comunque deve fare l’università e un percorso convenzionale: di fianco può fare quello che vuole».

E se le dicesse che vuole lavorare a Rtl?

«Gli chiederei se è impazzito! Per adesso sta imparando il mestiere da m2o, con mio fratello Albertino, che è il direttore artistico».

Com’è fare il capo del proprio fratello?

«La cosa più complicata del mondo... Sono contento che adesso abbia la sua radio. Io, come suo direttore editoriale, lo guardo e lo lascio fare. Prima avevo spesso l’atteggiamento del fratello maggiore che rompe le scatole».

L’ospite che l’ha emozionata di più?

«Peter Gabriel, per fascino e umanità».

Quello che ha agitato di più la palazzina?

«Henry Winkler: Fonzie di Happy Days. Sono venuti da tutti i piani per foto e autografo».

L’intervista più bella?

«A Kobe Bryant, per la sua capacità di essere sia uomo di spettacolo che persona molto semplice. Quando è venuto da noi, una decina di anni fa ed era già famoso, si ricordava di me: a 15 anni era in Italia e mi guardava a Deejay Television. È stato un ribaltamento dei ruoli bizzarro ed emozionante».

Farebbe il giudice a «X Factor»?

«No, perché non mi piace questa spettacolarizzazione del giudizio. Il programma è fantastico, ma non ritengo di essere così esperto da dire tu vai bene o non vai bene. Semmai sono in grado di dire con buona approssimazione se una canzone sarà un successo o no».

Chi è il cantante più grande di tutti i tempi?

«Elvis». 

Se le dico dipingere?

«Meglio: disegnare. Ho avuto ospite Zerocalcare e lo invidio. Fa quello che avrei sempre voluto fare. Startene nella tua stanza con la radio accesa e disegnare per me significava il paradiso, il lavoro più bello del mondo».

E se chiedessimo a Linuccio di disegnare la sua famiglia, cosa farebbe?

«Disegnerebbe qualcosa tipo il Quarto Stato di Pellizza da Volpeda, con tanta gente, perché la mia famiglia è molto allargata, non riesco a pensare solo a noi quattro. Mi piace pensare che lì dietro ci sono le famiglie di ognuno di noi e poi le loro famiglie e poi gli amici di quando ero piccolo. E così via...».

Estratto dell’articolo di Erica Manna per “la Repubblica” il 14 gennaio 2023.

È stato proprio quello che ha vissuto nel mondo dello spettacolo a spingerla a «diventare femminista»: perché «mi sono resa conto che era necessario: reagire, combattere. Diventare portatrice di un certo pensiero». Lisa Galantini […]

[…] «Avevo avuto l'opportunità di essere protagonista in televisione, senza spintarelle, superando il provino: la serie era La nuova squadra, io interpretavo la vicequestore Paola Ricci. È in quella occasione che ho ricevuto da una persona delle avance che non me la sono sentita di accettare».

Chi era?

«Preferisco non dirlo. La sua reazione al mio rifiuto fu sarcastica. E in quel momento la mia vita è cambiata: per anni non ho più lavorato in tv. E se già oggi è difficile farsi credere, all'epoca il Me Too non esisteva proprio: era la tua parola contro la mia. In un lavoro come il nostro, poi, così effimero, è facile trovare giustificazioni per farti fuori: non eri giusta per la parte, o non hai funzionato […]».

Quali? Cosa fece?

«Era caduto il governo Prodi. Tornato Berlusconi, non piaceva la rappresentazione che la fiction dava della Polizia. Volevano un'immagine più forte: un capo maschio, single. Al mio posto, dunque, hanno chiamato Marco Giallini: un grandissimo professionista, peraltro. Oggi queste ragioni non sarebbero più plausibili. Ma io avrei comunque potuto continuare a recitare nella serie. Invece, dopo quel rifiuto, ero isolata: fatta fuori». […] «Ho passato un momento di grande dolore, rabbia. Così, ho scritto una lettera a un ex direttore Rai per raccontare il fatto. Non ho mai ricevuto una risposta». […]

Barbara Costa per Dagospia il 3 giugno 2023.

È scappata dalla guerra in Ucraina un anno fa. Era l’aprile 2022. E oggi è Oscar del Porno quale Miglior Pornostar Internazionale. Non pensate male: nessun pietismo, buonismo, sete d’ingraziarsi qualcuno o alcunché. Il porno dei salamelecchi se ne imp*pa. Sono estranei al suo DNA. E per il porno la porno attrice numero Uno Internazionale 2023 è… Little Dragon, ucraina, (si chiama Sharon?), 28 anni, nata e cresciuta e fino all’invasione russa residente a Odessa.

Little Dragon non è stata premiata per la sua disgraziata situazione in patria, bensì per come quel suo c*lo delizioso, quei suoi seni stuzzicosi, quelle sue gambe tornite si sono dimenati sui set porno europei negli ultimi mesi, benché la rossa ucraina fosse nient’altro che una novellina (è nel porno professionale solo da metà 2021). E questa fulva fanciulla a fare porno non ci pensava affatto. Lei era una ragazza come tante, e una frana a scuola, ma che all’università si è rifatta, laureandosi tecnico di laboratorio a pieni voti.

Portando a spasso curve simili,  Little Dragon, prima e dopo la laurea, ha sfilato in 15 concorsi di bellezza, dentro e fuori l’Ucraina, non ne ha vinto nemmeno uno, e ha partecipato a due piccoli reality tv. È come modella di nudo che ha rimediato la prima fama (e grana) ed è posando nuda per "Playboy" che ha stretto amicizia con due fari del porno, la russa performer Jia Lissa, ma di più con Julia Grandi, una autorità del porno europeo – è a capo di "JulModels", eccelsa agenzia di porno star – e nome di punta del porno americano – Grandi è regista by "Vixen", brand porno che detta legge, in ogni sua ramificazione. 

Quando Little Dragon ha rotto col fidanzato con cui conviveva (è lui quello che le ha fatto odiare il sesso anale perché non glielo sapeva fare?) ha rincontrato Julia Grandi a un party, mettendola al corrente delle sue nuove intenzioni: “Voglio provare col porno”, le ha detto Little Dragon, “voglio fare una doppia penetrazione!”. Julia Grandi le ha quietato i bollenti propositi. Alle novizie scene di tal sorta non si fanno fare. Ma quale novizia…??? Mica è vero che Little Dragon era del tutto digiuna di porno. La ragazza a 20 anni ne ha fatti un paio, di porno, inezie, insomma, io non vorrei sbagliare, ma mi pare sia lei la mora e senza quei ritocchi al viso ai provini per alcuni hard "Woodman Casting X" francesi.

Superato le scetticismo della Grandi, girate le scene e compreso alla svelta come il porno si muove e funziona, Little Dragon ha girato poco altro – lesbo, ma anche anale (nel porno sanno come non farle male, tutt’altro!) e duetti con pornodivi quali Manuel Ferrara e il nostro Christian Clay – e solo porno di alta qualità e solo per studios importanti. Facendosi notare. Tanto oltreoceano. Quando Putin ha invaso l’Ucraina, Little Dragon era a pornare a Praga. Non è rientrata in patria. Ha preso due biglietti per gli USA, per lei e per la sua gatta Freya. 

Negli USA si è lanciata. La sua determinazione l’ha ripagata. Ora, con un Oscar di tal grido in tasca, Little Dragon è ricercatissima. Ha superato il casting di "Deeper", e il suo corpo si intreccia e orgasma con quelli di attrici ultra-affermate. Little Dragon cerca di non pensare a quel che succede nella sua Ucraina. Impossibile ignorarlo – ha lì la madre e la sorella – ma è super concentrata sui suoi obiettivi. Altro non può fare. Non dipende certo da lei. Riconosce ed è grata agli Stati Uniti per come l’hanno accolta e per quanto le permettono di fare e guadagnare. Una carriera reale, internazionale, nel porno te la fai se in America riesci a sfondare. 

Devi ergerti sulle produzioni statunitensi. La nostra Valentina Nappi ha ottenuto il suo Oscar per Best Scena di Gruppo Trans con un porno made in USA. È dal 2020, dallo scoppio della pandemia, che non porna sul suolo americano. Ma vi è rientrata. È reduce da mesi di intenso lavoro in porno terra USA (e godetevela, e proprio con Little Dragon, in "Tart", di fresca uscita, per i tipi di "Slayed"). Incrociamo le dita e cominciamo a tifare. Con Vale Nappi ritornata lì a sudare, gli Oscar del Porno 2024 – e le statuette più pesanti! – potrebbero tingersi di tricolore.

Dagospia mercoledì 2 agosto 2023. Diana Dasrath e Tim Stelloh - nbcnews.com mercoledì 2 agosto 2023.

Tre ex ballerini di Lizzo hanno e di aver creato un ambiente di lavoro ostile. Sostengono anche di aver fatto pressioni su uno di loro per toccare un artista nudo in un club di Amsterdam e di aver sottoposto il gruppo a un'audizione "straziante" dopo aver mosso false accuse secondo cui stavano bevendo sul posto di lavoro. 

I ballerini hanno accusato Lizzo - un'artista nota per abbracciare la positività del corpo e celebrare il suo fisico - di richiamare l'attenzione sull'aumento di peso di un ballerino e successivamente rimproverare, quindi licenziare, quel ballerino dopo aver registrato un incontro a causa di una condizione di salute.

La causa, depositata presso la Corte Superiore di Los Angeles e fornita a NBC News dallo studio legale dei querelanti, accusa anche la responsabile della squadra di ballo di Lizzo, Shirlene Quigley,  di fare proselitismo con altri artisti e deridere coloro che hanno avuto rapporti prematrimoniali condividendo fantasie sessuali oscene, simulando sesso orale e discutendo pubblicamente della verginità di uno dei querelanti. 

La causa nomina Lizzo, il cui vero nome è Melissa Viviane Jefferson, la sua società di produzione e Quigley come imputati. Oltre alle accuse di ambiente di lavoro ostile e molestie sessuali, la causa porta denunce per molestie religiose e razziali, falsa detenzione, interferenza con potenziali vantaggi economici e altre accuse.

"Il modo come Lizzo e il suo team hanno trattato i loro artisti sembra andare contro tutto ciò che Lizzo rappresenta pubblicamente, mentre in privato fa vergognare i suoi ballerini e li umilia in modi non solo illegali ma assolutamente demoralizzanti", ha detto l’avvocato Zambrano in una dichiarazione. 

Il viaggio allo strip club di Amsterdam, Bananenbar, è avvenuto dopo un'esibizione in città all'inizio di quest'anno. La causa afferma che gli afterparties di Lizzo erano di routine e non obbligatori, ma sostiene che coloro che vi partecipavano erano favoriti dal cantante e avevano una maggiore sicurezza sul lavoro.

Al club, Lizzo avrebbe "iniziato a invitare i membri del cast a toccare a turno le performer nude, afferrando dildo lanciati dalle vagine delle performer e mangiando banane che sporgevano dalle loro vagine", dice la causa. "Lizzo ha quindi iniziato a fare pressioni su una ballerina affinché toccasse il seno di una delle donne nude". 

Una settimana dopo, dopo uno spettacolo a Parigi, Lizzo ha invitato i suoi ballerini in un club in modo che "potessero imparare qualcosa o essere ispirati dallo spettacolo". "Ciò che Lizzo non ha menzionato quando ha invitato i ballerini a questa esibizione è che si trattava di un cabaret bar per nudisti".

Nel frattempo, Lizzo continua a ispirare i fan. In una recente clip circolata sui social media, si può vedere la cantante raccontare a una giovane donna che partecipa a un concerto in Australia quanto sia bella e speciale e come "potrebbe essere la più grande ballerina del mondo". 

Lizzo denunciata dalle sue ballerine per molestie. Andrea Pascoli su La Repubblica il 2 Agosto 2023 

La cantante è stata accusata di creare un ambiente di lavoro “ostile”, inclusi episodi di body shaming e razzismo da Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez, parte della sua crew 

Molestie sessuali e ambiente di lavoro ostile: questa le accuse ricevute dalla popstar Lizzo da parte di tre ballerine del suo corpo di ballo. Comportamenti “sessualmente denigratori” e “pressing a partecipare a inquietanti spettacoli di sesso” quanto si legge nella denuncia depositata alla Corte Suprema della Contea di Los Angeles da Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez, parte della crew della cantante trentacinquenne nel periodo 2021-2023. 

Le querelanti hanno accusato la popstar, vero nome Melissa Viviane Jefferson, di aver violato il Fair Employment and Housing Act (FEHA) della California non garantendo un’adeguata protezione da molestie, aggressioni e discriminazioni. Nello specifico durante uno show tenuto in un nightclub di Amsterdam Lizzo avrebbe fatto pressioni per coinvolgere in atteggiamenti disdicevoli con alcuni performer le ballerine, che avrebbero acconsentito per paura di ripercussioni sulle loro carriere. A ciò si aggiungono inoltre accuse di molestie religiose, razziali e pure “body shaming”. Da sempre icona della “body positivity”, Lizzo è infatti accusata assieme alla sua coreografa Tanisha Scott di aver fatto commenti a Davis circa la sua forma fisica dopo uno show, commenti che “hanno dato a Ms. Davis l’impressione di dover giustificare il suo aumento di peso e rivelare dettagli personali sulla sua vita al fine di mantenere il suo lavoro”. 

“Come Lizzo e il suo management hanno trattato il suo team sembra andare contro tutto ciò che la popstar rappresenta pubblicamente” le parole di Ron Zambrano, avvocato delle ballerine, “In privato umilia i suoi performer in modi che non solo sono illegali, ma assolutamente demoralizzanti”. Dalla diretta interessata e dai suoi rappresentanti, per il momento, ancora nessun commento, ma il popolo social sta già provvedendo a chiederle pubblicamente spiegazioni.

Estratto dell'articolo di Sofia Mattioli per “la Stampa” il 2 marzo 2023.

Un inno all'amore per se stessi formato XL, il messaggio arriva a caratteri cubitali. Speciale. La supereroina del pop Lizzo, 4 Grammy e una trasformazione in superwoman con un costume nel video che accompagna il brano, stasera porta al Mediolanum Forum la sua miscela vincente. […] «La canzone che dà il titolo all'album è per me la più importante - dice Lizzo - mi aiuta, il mondo può essere così crudele».

 La genesi del testo? «Avevo avuto una brutta giornata e sui social continuavo a vedere cose che non mi piacevano, ho scritto così una canzone che mi ricordasse quanto fossi speciale e amata anche quando sono triste. Il brano è un reminder per tutti, non sei mai solo. Sei amato e speciale. Se nessuno te l'ha detto oggi sei speciale».

Il fenomeno Lizzo, al secolo Melissa Viviane Jefferson, ha dimensioni titaniche[…] «Voglio dedicare questo premio a Prince - ha detto ritirando il Grammy -. Quando è scomparso ho deciso di dedicare la mia vita a fare musica, musica positiva. Pensavo: non importa se la mia allegria vi disturba. Era un momento in cui la musica ispirata a messaggi motivazionali e positivi non era mainstream. Non mi sentivo per niente capita ma sono stata coerente con me stessa perché volevo rendere il mondo un posto migliore ma dovevo essere io quel cambiamento».

«[…] Ho sofferto su di me i peggiori insulti e so di cosa parlo quando canto "sei speciale". Nessuno si deve sentire male solo perché è obeso, troppo magro o ha un fisico che non rispetta i canoni della normalità. Tutti siamo speciali e non ci sono difetti di cui vergognarsi, ma pregi di cui prendersi cura. Sento che il mio compito è quello di urlarlo al mondo».

 […] «Instagram, lo sappiamo tutti, è la app delle immagini... Mi piace molto scattare foto del mio culo e postarle, ora sono anche tornata su Twitter. Non mi interessa nient'altro, non penso agli hater, sono diventata più brava a leggere commenti negativi perché in realtà sono stupidi. […]»

Estratto dell'articolo di Lisa Robinson per “Vanity Fair” il 29 gennaio 2023.

Melissa Viviane Jefferson, nata 34 anni fa a Detroit, si è trasferita a Houston quando aveva nove anni – «più campagna che città», mi racconta – ed è cresciuta in una famiglia in cui la madre amava la musica gospel e il padre ascoltava Elton John e Billy Joel.

 Ha ricevuto una formazione classica ed è forse la flautista più importante della musica pop dopo Ian Anderson dei Jethro Tull. Il suo successo è arrivato dopo dieci anni di lavoro, lotte e insicurezze. Le sue canzoni, orecchiabili e costantemente in vetta alle classifiche, sono state definite edificanti e positive, sicuramente ballabili: i suoi singoli Truth Hurts, Good as Hell, About Damn Time saranno suonati per molto tempo nelle discoteche.

Il musicista-produttore Nile Rodgers, leggenda della discomusic, afferma: «La musica è più di un semplice intrattenimento; la gente cerca le energie per affrontare la giornata e le trova in una colonna sonora di grandi canzoni. Lizzo è un’artista straordinaria che con le sue canzoni ha reso migliori gli ultimi tre anni. Con quelle e con il suo atteggiamento, sta dimostrando al mondo che tutto è possibile».

Le parole di Mark Ronson, cantante, musicista e produttore, premio Oscar per la migliore canzone con Shallow, coautore con Lizzo di Break Up Twice per Special, non sono da meno: «Sapevo che Lizzo era una grande autrice e un’interprete fenomenale, ma non ero consapevole di quanto profonda fosse la sua musicalità. L’ampiezza della sua gamma e delle sue influenze è impressionante».

A scuola è stata vittima di bullismo e si è sempre sentita «diversa», anche se non sa se in meglio o in peggio. Mentre i compagni di scuola si fissavano sul rap – che anche lei adorava, soprattutto quello di Houston – Lizzo si apriva alla musica rock, in particolare ai Radiohead. «Era una scuola di neri», racconta, «per lo più neri, ma anche marroni, caraibici, avevo amici nigeriani... Ascoltavano quello che passava la radio: Usher, Destiny’s Child, Ludacris. Io andavo matta per OK Computer dei Radiohead. Lo tenevo nascosto, anche quando facevo parte di una rock band, perché non volevo essere presa in giro dai miei coetanei: mi avrebbero urlato “Ragazza bianca!”. Inoltre, indossavo quei pantaloni a zampa d’elefante con dei ricami e mi dicevano: “Sembri una ragazza bianca, perché vuoi sembrare una hippie?”. Quello che volevo in realtà era essere accettata, l’isolamento fa davvero male».

E aggiunge: «Il mio meccanismo di difesa era l’umorismo. Sono diventata il clown della classe, esibivo una sicurezza che non avevo. Ho quella tipica ansia sociale, per cui più sono stressata più divento forte e divertente». «Non sapevo che sapesse cantare», dice la madre, «ma ha sempre avuto una voce molto definita e potente. E sapevo che avrebbe usato la sua voce per qualcosa». Dopo il successo della figlia, il loro ottimo rapporto si è addirittura rafforzato. «Parliamo al telefono tutti i giorni», confida la madre, «anche se non mi preoccupo per lei, perché è cresciuta con sani valori. Credo che la famiglia ti aiuti a rimanere con i piedi per terra, a ricordare il tuo vero scopo».

 Oltre al rapporto con la famiglia c’è quello con i social media, che vede Lizzo relazionarsi con oltre 25 milioni di follower su TikTok e quasi 13 milioni su Instagram. [...]

Quando le domando se si è stancata di tutti i discorsi sulla «body positivity», mi risponde che no [...] «Si sta domandando che cosa succederebbe se perdessi peso? La mia musica e il mio peso sono così intrinsecamente legati che se dovessi perdere peso, perderei fan o autorevolezza? Non m’interessa! Ho uno stile di vita molto sano: mentalmente, spiritualmente, cerco di mantenere pulito tutto ciò che metto nel mio corpo. La salute è una priorità, ovunque mi porti fisicamente. Non sono vegana per perdere peso, semplicemente mi sento meglio quando mangio vegetali. Ma», ammette, «proprio quando pensi di aver capito tutto, le cose cambiano di nuovo. Mangio quando sono stressata, a volte fino al punto di non rendermi conto di quanto ho mangiato.

Tutto può essere dannoso, ma in un certo senso questo mi conforta. È sbagliatissimo associare l’aumento di peso alle cose negative che lo causano. Il cibo è una cosa meravigliosa che ci nutre, negativo è lo stress, non i 10 chili in più o in meno. Mi sento molto fortunata perché non considero più l’aumento – e nemmeno la perdita – di peso un male. È neutrale. Il cibo è anche divertente. Mi piace mangiare, ora ho uno chef e non ci penso. Ieri sera ho mangiato un brownie».

Lo Sfogo di Lizzo contro haters e body shaming: "Dovreste pagare ogni commento. Questo corpo è arte"". su La Repubblica l’11 Gennaio 2023.

"Se la gente pagasse per i messaggi che lascia online, forse non perderebbe tutto questo tempo in cose inutili". Inizia così lo sfogo di Lizzo dopo l'ennesima critica lasciata sui social dagli utenti. "Vi rendete conto che gli artisti non sono qui per soddisfare i vostri standard di bellezza ma per fare arte?". Quello della cantante di 2 Be Love è un grido di rabbia contro i leoni da tastiera che si sentono in dovere di giudicare ed etichettare le persone in base a canoni prestabiliti. Lizzo non è nuova a discorsi di questo genere: nell'agosto 2021 era scoppiata in lacrime durante una diretta per le centinaia di insulti ricevuti dopo l'uscita del fortunato singolo "Rumors" (un featuring con Cardi B che aveva ottenuto 10 milioni di visualizzazioni in poche ore). L'oggetto di tanto odio? La forma fisico della cantante.

Beatrice Manca per fanpage.it l’11 Gennaio 2023.

La cantante Lizzo è sempre stata una paladina dell'amore verso se stessi: in moltissime occasioni ha ribadito l'amore per il suo corpo, così lontano dagli stereotipi di bellezza convenzionali, e si è scagliata contro grassofobia e bodyshaming. All'ennesimo commento sul suo peso e sulla sua immagine, però, ha deciso di dire basta: ha postato un video in bikini in cui si dice fiera delle sue curve e si scaglia contro gli hater, che parlano senza pensare alle conseguenze: "Se dovessimo pagare i commenti sui social la gente ci penserebbe prima di scrivere". 

Il messaggio di Lizzo: "Questo corpo è arte"

Lizzo ha pubblicato un lungo video sui social in cui si dice stanca dei discorsi sui corpi: “O mio dio, sei così grassa, devi perdere peso, o mio dio, perché sei dimagrita? Mi piacevi di più prima. Oh mio dio, devi iniziare ad allenarti – dice, ripetendo alcuni dei commenti più frequenti letti sui social media – Ma tutto bene? Vi rendete  conto che gli artisti non sono lì per assecondare i vostri standard di bellezza?”

Lizzo non nasconde la rabbia e la stanchezza per il continuo scrutinio sul suo corpo: "Quanto tempo sprechiamo con queste cose. Possiamo lasciarci tutte queste idiozie alle spalle per favore?". Lizzo conclude con un messaggio di puro amore verso se stessi: "Questo corpo è arte e farò tutto ciò che voglio io con il mio corpo".

 Lizzo si scaglia contro gli hater

Il video, girato su una spiaggia tropicale, ha collezionato un milione di visualizzazioni nel giro di un weekend e ha ricevuto tantissimi commenti di supporto, da Sharon Stone a Lilly Singh. Nella caption del video la cantante ha scritto lapidaria: "Se dovessimo pagare per ogni commento che pubblichiamo sui social le persone inizierebbero a pensare prima di scrivere".

Lizzo si difende dalle accuse di molestie: «Tutto falso, sono devastata». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera giovedì 3 agosto 2023.

La popstar, paladina della body positivity, da sempre orgogliosa delle sue forme extralarge, è stata citata in giudizio da tre sue ex ballerine. Accusano la cantante e il suo staff di molestie a sfondo sessuale, religioso e razziale, fat shaming, discriminazioni 

Si dice «sconvolta» dalle accuse mossale da tre sue ex ballerine la popstar Lizzo (al secolo Melissa Viviane Jefferson» che, martedì scorso, ha ricevuto notizia dell’azione legale intentata alla Corte Superiore di Los Angeles. Tre ex danzatrici del corpo di ballo della popstar, Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez, hanno citato in giudizio Lizzo insieme al suo capitano di ballo e alla sua società di produzione Big Grrrl Big Touring (Bgbt). Le accuse sono molto gravi: molestie sessuali, religiose e razziali, discriminazione, aggressione e falsa detenzione. Tra gli episodi più gravi denunciati, anche alcuni momenti in cui le ballerine sarebbero state costrette a partecipare a spettacoli di sesso e ad interagire in atteggiamenti «hot» con altri ballerini tra il 2021 e il 2023.

In un post su Instagram, Lizzo interviene nella vicenda, dicendosi estranea alle accuse: «Questi ultimi giorni sono stati incredibilmente difficili e incredibilmente deludenti — scrive Lizzo —. La mia etica del lavoro, la morale e il rispetto sono stati messi in discussione. Il mio carattere è stato criticato. Di solito scelgo di non rispondere a false accuse, ma queste sono incredibili come suonano e sono troppo oltraggiose per non essere affrontate. Sono devastata dopo aver sentito queste affermazioni inventate fatte contro di me». Tra le accuse contro Lizzo, il cui vero nome è Melissa Viviane Jefferson, c’è quella di aver «fatto pressioni sulla signora Davis perché toccasse il seno» di un’artista in una discoteca di Amsterdam. La signora Davis, dopo aver resistito, alla fine ha acconsentito «per paura che potesse compromettere il suo futuro nel team» se non l’avesse fatto.

Lizzo attacca le sue accusatrici: «Queste storie sensazionalistiche provengono da ex dipendenti che hanno già ammesso pubblicamente che gli era stato detto che il loro comportamento in tournée era inappropriato e poco professionale» e poi difende il suo lavoro: «Come artista sono sempre stata molto appassionata di quello che faccio. Prendo sul serio la mia musica e le mie esibizioni perché alla fine della giornata voglio solo esprimere la migliore arte che rappresenta me e i miei fan. Con la passione arrivano il duro lavoro e standard elevati. A volte devo prendere decisioni difficili, ma non è mai mia intenzione far sentire qualcuno a disagio o come se non fosse considerato una parte importante della squadra».

Lizzo, sempre in prima linea contro il bodyshaming è anche accusata, insieme alla coreografa di danza Tanisha Scott, di aver fatto vergognare una delle ex ballerine, Arianna Davis, in tournée per un presunto aumento di peso. L’accusa sostiene inoltre che il capitano della squadra di ballo, Shirlene Quigley, abbia fatto pressioni delle sue convinzioni cristiane sugli artisti e deriso coloro che facevano sesso prima del matrimonio. È anche accusata di aver discusso apertamente della verginità di una delle ex ballerine e di averla postata sui social media. Accuse, inclusa la discriminazione razziale, sono rivolte anche al team di gestione di Bgbt, secondo le quali i membri neri della compagnia di ballo sarebbero stati trattati in modo discriminatorio rispetto agli altri membri del team. I querelanti affermano anche che Lizzo e il team della società di produzione non li avrebbero pagati in modo equo durante alcune parti del tour europeo della pop star. Ai ballerini sarebbe stato offerto solo il 25 per cento della loro retribuzione settimanale come acconto durante il periodo in cui non si esibivano nel tour, affermando inoltre che Lizzo e la società preferivano che non svolgessero altri lavori durante queste pause.

Due delle tre ballerine, Davise e Williams, sono state licenziate da corpo di ballo, mentre Rodriguez si è successivamente dimessa . Le prime reazioni al caso sono arrivate da Beyoncé quando durante un concerto a Boston, martedì, in alcuni video sembra aver omesso il nome di Lizzo mentre si esibiva in Break My Soul (Queen’s Remix) brano che celebra le donne nere nell’industria dell’intrattenimento e nel cui testo appare il nome di Lizzo insieme a quelli di Nina Simone, Lauryn Hill e Nicki Minaj

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” giovedì 3 agosto 2023.

Tre ballerine hanno denunciato Lizzo per molestie sessuali, discriminazione e body shaming.

Il caso non è nuovo nel mondo dello spettacolo, ma è inaspettata la persona al centro delle accuse: Lizzo, pseudonimo di Melissa Viviane Jefferson, 35 anni, di Detroit […] 

[…] Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez dipingono la cantante come un’arpia, una despota che non si fermava davanti a niente, pronta a umiliare i suoi collaboratori e a farli lavorare in condizioni “intollerabili”.

Una delle tre, Davis, ha accusato Lizzo di averla costretta, in un night club ad Amsterdam, a toccare il seno di una performer nuda e a prendere in mano dildo e banane. Al momento i legali dell’artista non hanno commentato. Due delle ragazze erano state ingaggiate da Lizzo dopo averla conosciuta durante uno dei tanti reality tv. La terza era stata assunta a parte. Tutte e tre hanno lavorato alle coreografie di scena per due anni, dalla primavera del 2021 all’inizio di quest’estate. 

Lizzo è accusata di aver dedicato “troppa attenzione, e non richiesta,” al fatto che le danzatrici avessero messo su peso. Una di loro, Williams, sarebbe stata licenziata davanti a tutti da un agente della cantante, una settimana dopo una lite scoppiata tra lei e Lizzo.

Davis, a cui è stato diagnosticato un disturbo dell’alimentazione, era stata cacciata per aver registrato un incontro con la cantante. Quell’episodio aveva spinto l’amica, Rodriguez, ad andarsene. 

[…]

I fan sono rimasti spiazzati. La cantante è stata a lungo vittima di bullismo quando era giovane: durante gli anni scolastici era stata più volte offesa e presa in giro dai suoi compagni. Adesso che è diventata una persona di potere, hanno commentato alcuni suoi fan, Lizzo «dovrebbe mostrare più empatia verso gli altri e invece si è trasformata lei stessa in bulla».

Lodo Guenzi: «Mi conoscono per la musica ma sono un attore che canta». Storia di Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 29 aprile 2023.

Il successo, Lodo Guenzi, uno che ha buone letture alle spalle e parla poetizzando un po’, lo ha ottenuto con la musica. Al Festival di Sanremo lui e il suo gruppo, Lo Stato Sociale, nel 2018 arrivarono secondi. Il 6 maggio esce il nuovo album Stupido, sexy, futuro. Eppure si considera «un attore che canta». E nel film di Pupi Avati, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, in uscita il 4 maggio, interpreta Marzio, un musicista fallito; si esibisce in duo, I Leggenda. La storia attraversa la loro vita. Da anziani, lui è Gabriele Lavia e l’altro è Massimo Lopez. Lodo si sposerà, la donna da adulta è Edwige Fenech. «Questo film ha a che fare con i miei inizi e con la parte di me che ha ancora voglia di suonare», dice Lodo. Allora lei è un attore? «L’ho sempre fatto. Non ho una tecnica vocale da cantante, anche se la gente mi conosce per la musica».

Il suo Marzio è una testa calda, un tipo geloso, possessivo. Un ragazzo rovinato dai suoi sogni che si trasforma in una persona violenta. «Questo film è una lettera d’amore spedita agli amici che hanno cominciato con me, 15 anni fa. Alcuni non ci sono più. La possibilità del fallimento è forte. Quando decidi di vivere di sogni, se non li realizzi puoi pensare che un giorno ti cambia la vita. Io ne ho realizzati alcuni. Ma non sono mai appagato, non c’è mai la fine del viaggio. Agassi, l’ex tennista, nel suo libro scrive che quando sei in cima a un torneo dello Slam, vincere non cambia nulla e tu custodisci questo segreto».

I suoi inizi sono quelli di tanti artisti, conditi dalla follia: «Nel ’90 eravamo in furgoncino in giro per pochi soldi, andavamo a Ferrandina in Basilicata, su una superstrada si ruppe un semiasse, finimmo dispersi nella campagna, si alzò del fumo, poi una fiammata». Lo Stato Sociale è un gruppo politicizzato «con un certo gusto ironico, è una band leggera che fa musica leggera; dice che «nel mondo del lavoro l’eccellenza è un bene, basta che la sopravvivenza sia a disposizione di tutti, anche di quelli che non hanno talento, o degli stupidi. Ora tutti hanno paura dell’eccellenza perché anche la sopravvivenza è diventata una gara».

Il nome del gruppo, «così tetragono, è un’occasione per prendere in giro concetti ingombranti, guardiamo fuori dalla finestra e parliamo dei rapporti di forza su cui è costruita la società. Sicuramente ha avuto peso il fatto che sono di Bologna, dove si cresce con una bella coscienza politica».

Nel film il duo Leggenda non viene preso a Sanremo, voi siete arrivati secondi. «È stata una settimana che ci ha cambiato il destino. Ma il film è l’esperienza più bella della mia vita, anche se non dovesse vederlo nessuno. Ho empatia per Marzio, terrorizzato all’idea di restare aggrappato ai sogni quando tutto andrà male». La moglie lo tradisce con l’altro della band. Un film sul tradimento dell’amicizia? «Nelle band si ragiona più come nei matrimoni, il gruppo è centrale, totalizzante, mentre la ragazza che se la fa con l’amico musicista è devastante ma laterale. Ne ho conosciuti tanti...».

Lei nasce 36 anni fa in una famiglia benestante di Bologna, suo padre docente universitario, sua madre giudice. E ha una grande sensibilità nei confronti degli altri meno fortunati: «Sono benestante, è vero, ma più povero di Carl Marx. Penso che proprio perché te lo puoi permettere devi avere un occhio sulla società».

Estratto dell’articolo di Giovanni Gagliardi per repubblica.it martedì 29 agosto 2023.

"Io sono stata vittima di un bastardo che mi ha violentato, massacrata di botte e lasciata su una strada del cazzo a Torino. Ogni sei ore, ogni sei ore un femminicidio. Per non parlare poi di abusi, quali Palermo. Per questo ho smesso di tacere. Io non sono carne. Non sono carne”. 

È durissima la denuncia di Loredana Bertè, che in concerto a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, a pochi chilometri dal suo paese d’origine, Bagnara Calabra, ha voluto manifestare la sua solidarietà alle vittime di violenza sessuale, dopo gli stupri di gruppo di Palermo e di Caivano, aderendo alla campagna social Io non sono carne tra gli applausi del pubblico.

Il racconto a ‘Verissimo’

La cantante aveva raccontato la sua terribile esperienza a Verissimo, nel 2020. "A 16 anni sono stata violentata - disse a Silvia Toffanin - Facevo serate con le Collettine (corpo di ballo di Rita Pavone, ndr). Eravamo in giro per l’Italia con Don Lurio a fare serate, ero l’unica vergine del gruppo e tutte provavano a convincermi, parlandomi di una persona innamorata pazza di me".

La violenza

"Dopo un mese ho deciso di andare a prendere una cosa da bere con lui – aveva continuato la cantante – Mi ha portato in un appartamento scannatoio, le ragazze devono stare molto attente. Quando ho sentito che chiudeva con il lucchetto la porta mi sono spaventata, terrorizzata. Volevo andare fuori, ma lui mi ha riempita di botte, mi ha violentata. Sono riuscita a uscire per miracolo, con i vestiti tutti strappati e con un taxi che si è fermato: stavo svenendo e mi ha portato in ospedale" 

(...)

 "Sono stata vittima di un b...". Loredana Bertè interrompe il concerto e parla di stupri. Durante un live a Palmi, Loredana Bertè ha sospeso lo show per raccontare la violenza subita anni fa a Torino. Novella Toloni il 29 Agosto 2023 su Il Giornale.

I terribili fatti di cronaca di Palermo e Caivano non smettono di fare discutere. Da giorni sul web è in atto una campagna di sensibilizzazione - lanciata dal settimanale F - per dire basta alle violenze e agli abusi sulle donne. L'hashtag #iononsonocarne è il più utilizzato da giorni in Italia e a dargli visibilità sono stati soprattutto i personaggi famosi, che hanno deciso di imprimere sulla loro pelle il messaggio. Anche Loredana Bertè si è fatta portavoce di questa campagna e lo ha fatto dichiarandosi lei stessa vittima di abusi, raccontando dello stupro subìto anni fa a Torino.

Il grido della Bertè dal palco

La cantante si trovava a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, per un concerto del suo tour estivo, quando ha deciso di interrompere momentaneamente il suo live per parlare dei drammatici fatti di cronaca delle ultime settimane. Quando la musica si è interrotta, Loredana Bertè ha preso il microfono e ha parlato a cuore aperto al pubblico. "Io stessa sono stata vittima di un bastardo che mi ha violentato, massacrata di botte e lasciata su una strada del cazzo a Torino", ha raccontato l'artista, che poi è tornata sui recenti fatti nazionali. "Ogni sei ore un femminicidio! Per non parlare poi di abusi come quello di Palermo. Per questo ho smesso di tacere: io non sono carne", ha esclamato l'artista dal palco del concerto, ricevendo l'applauso del pubblico. Poi ha ripreso il suo concerto intonando "Ho smesso di tacere", brano del 2021 scritto per lei da Ligabue, che racconta proprio la storia della violenza sessuale subìta dalla cantante, quando era una ragazza.

"Resto poco diplomatica. E a 71 anni preparo un disco contaminato"

La violenza raccontata a Verissimo

Loredana Bertè ha nascosto la verità sul suo doloroso passato per anni, ma nel 2020 - durante un'intervista nel programma Verissimo con Silvia Toffanin - confessò di essere stata vittima di una violenza sessuale. "Avevo 16 anni...c'era questo tizio che mi riempiva di fiori ogni sera, così alla fine dopo un mese ho deciso di uscire con lui. Mi portò in un appartamento scannatoio e quando ho sentito che chiudeva la porta col lucchetto mi sono spaventata", rivelò l'artista parlando della violenza, delle botte e della fuga, salvata da un tassista che la accompagnò in ospedale. Per questo dalla Calabria, sul palco dove stava cantando, la Bertè ha deciso di far sentire la sua voce in difesa delle donne contro ogni tipo di violenza.

Loredana Bertè: quando fece da barista a Warhol, le foto su Playboy e altre 8 curiosità sulla coach di The Voice Senior. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023

La leonessa della musica italiana è tra i protagonisti del talent show condotto da Antonella Clerici. Questa sera su Rai 1 in prima serata il quarto appuntamento

Mimì e Loredana, nate lo stesso giorno

È l’interprete più poliedrica della musica italiana, ha collaborato con alcuni tra i più grandi autori dando vita a canzoni leggendarie - da «...E la luna bussò» a «In alto mare», da «Non sono una signora» a «Il mare d’inverno» - e ha spesso e volentieri scandalizzato i benpensanti (tutti ricordano ad esempio il suo pancione finto a Sanremo nel 1986). Parliamo di una delle protagoniste di The Voice Senior, la leonessa della musica italiana Loredana Bertè. Forse non tutti sanno che è nata il 20 settembre, stesso giorno di sua sorella Mia Martini (a tre anni di distanza). L’indimenticata cantante è stata ricordata qualche settimana fa proprio all’interno del talent show di Rai 1 condotto da Antonella Clerici: la concorrente Lisa Manosperti nella sua audizione al buio ha interpretato «Almeno tu nell’universo».

Gli inizi come ballerina

La vita di Loredana Bertè è costellata di aneddoti. Ad esempio: sapevate che ha mosso i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo come ballerina al Piper Club, luogo del suo primo incontro con Renato Zero? Nel 1966 entrambi entrarono a far parte del gruppo di ballo dei Collettoni e Collettini che accompagnava Rita Pavone nei suoi spettacoli.

Fan dei Beatles

Lei e Mimì — che l’ha iniziata alla musica facendole ascoltare i suoi dischi preferiti — hanno sempre amato i Beatles. Li hanno anche visti in concerto all’Adriano di Roma, andando a più spettacoli.

Un regalo ingombrante

Il suo compagno d’avventura a The Voice Senior Gigi d’Alessio (con cui Loredana partecipò a Sanremo nel 2012 in duetto sul brano «Respirare», poi arrivato al quarto posto) una volta ha raccontato di aver ricevuto dalla cantante un regalo molto particolare: una statua gigante di Elvis. Lei non sapeva dove metterla.

Quando cantò davanti al re di Svezia in giarrettiera

Ai tempi del suo matrimonio con il tennista Bjorn Borg, all’epoca ambasciatore di Svezia, si esibì davanti al re Gustavo. In giarrettiera, come ha ricordato intervistata al Tempo delle Donne 2020: «Cantai per il re Gustavo e andai a fare il brindisi con le giarrettiere, una miniminimini gonna e il corpetto con disegnate delle bambole rotte. Ogni volta che uscivo era uno scandalo, mi chiamavano “rockettara” all’italiana. Una volta mia sorella Mimì andò a cantare Oslo, vestita in Armani. Dissero: la cognata di Borg, questa sì che è una signora!».

Barista (per caso)

A New York, dove si trovava nel 1976 in qualità di madrina di tutti i negozi Fiorucci che aprivano nel mondo, incontrò Andy Warhol, nel punto vendita sulla 53ma strada: «Mi divertivo a sistemare e a fare i caffè e lui mi scambiò per la barista: mi chiese un cappuccino con la brioche. Per un mese ogni pomeriggio alle cinque si presentò lì. Fu lui a soprannominarmi “pasta queen”».

Senza veli per Playboy

Nel 1974 Loredana Bertè ha posato senza veli per la rivista Playboy. «L’ho fatto per i soldi», ha poi confessato.

Pioniera del reggae in Italia

Reduce dal successo di «Dedicato» nel 1979 la cantante andò in Giamaica per un viaggio. Si innamorò del reggae (vide anche Bob Marley in concerto) e decise di portare questo genere musicale in Italia: «Ho seguito una folla che entrava in uno stadio e ho visto questo artista con i capelli rasta lunghi fino al pavimento che cantava Exodus — diceva anni fa in un’intervista a Radio Italia — è stata una visione. Ho comprato tutti i dischi e, tornata in Italia, ho massacrato Mario Lavezzi per fargli studiare quelle sonorità». Così nacque «...E la luna bussò».

Il marito «finto povero»

Il primo marito di Loredana, l’ereditiere Roberto Berger (conosciuto su un volo per New York), inizialmente non le aveva detto che era ricco. Racconta lei nella sua biografia «Traslocando - È andata così» (Rizzoli): «L’ultimo giorno del 1983 mi sposai con Roberto Berger alle Isole Vergini. Berger era uno s*****o. Un ragazzo ricchissimo che si fingeva povero e piangeva miseria. Uno che, pur essendo erede dei distributori miliardari dell’Hag e delle acque minerali, si faceva pagare anche i caffè».

A cena con Bin Laden e Bush alla Casa Bianca

«Ho conosciuto Bin Laden e suo figlio in una cena alla Casa Bianca. E c’erano anche Bush Senior e Bush Jr»: Loredana lo ha raccontato qualche anno fa al programma di Rai Radio2 Un Giorno da Pecora (ma ha rivelato l’aneddoto anche in altre occasioni). «Io ero a quella cena con Borg, e Bin Laden era ad un tavolo vicino a me, quando parlava io volevo ascoltare, perché come tutti sanno lui fu un eroe indiscusso della Cia». La circostanza è stata confermata al Venerdì di Repubblica da Lele Mora: «Fu una bella giornata, un pranzo magnifico, c’era anche Bin Laden, solo che quando lo dice Loredana tutti pensano sia pazza».

Daniela Lanni per “la Stampa” - Estratti giovedì 16 novembre 2023

«A tre anni ballavo in cameretta e mettevo le bambole come pubblico. Riunivo i miei fratelli e imitavamo i Ricchi e Poveri, volevo essere la "brunetta": facevo degli acuti che mi sentiva tutto il vicinato». Lorella Cuccarini, cresciuta inseguendo il mito di Carla Fracci e Raffaella Carrà, non ha mai avuto dubbi su quello che voleva fare da grande. Per riuscirci ha fatto tanta gavetta. 

Determinazione e amore per questo mestiere hanno chiuso il cerchio. «Tra alti e bassi sono passati 38 anni da quando ho iniziato e non ho mai perso la voglia di sfidarmi.

Finché avrò le energie, non mollo». Oggi, a 58 anni, la ballerina, conduttrice, attrice, cantante e insegnante ad Amici, passa da uno studio tv a un palcoscenico come se fosse una ragazzina. A teatro è la protagonista di Rapunzel, scritto e diretto da Maurizio Colombi per Viola Produzioni, nei panni della perfida matrigna Gothel. Una tournée che la porterà in tutta Italia. 

(…)

Più difficile fare la showgirl o la mamma?

«La mamma. Nessuno ti insegna, cerchi di mettere a frutto l'esperienza dell'essere figlia. A Sara, la prima dei miei quattro, dico sempre che ha pagato la mia inesperienza. In famiglia abbiamo un rapporto aperto, intimo, ma resto un genitore, non un'amica». 

Un genitore che vuole la felicità dei propri figli. Lo ha dimostrato in maniera decisa, replicando al clamore suscitato dal post di sua figlia Chiara in cui ha detto di potersi innamorare di uomini come di donne.

«Mi sono stupita del movimento creato da quella frase. L'ho trovata rappresentativa di quello che è lei e un po' tutti i ragazzi oggi, che vogliono uscire dalle etichette. Io ho lottato tutta la vita contro quelle date a me: la più amata, la fidanzata d'Italia, la moglie ideale.Siamo quello che siamo, nessuno deve essere chiuso in un perimetro che qualcuno ha deciso per lui».

La famiglia è il suo «porto sicuro». Lei, però, non ha avuto un'infanzia facile.

«I miei genitori litigavano sempre. Quando avevo 9 anni si sono separati e, paradossalmente, abbiamo trovato una serenità. Mamma è stata bravissima, rigorosa, affettuosa, si è caricata il peso della famiglia. Faceva la sarta, lavorava anche di notte e non ci ha mai fatto mancare qualcosa. Mio padre, invece, non l'ho mai sentito intimamente vicino».

Ha trascorso momenti difficili. Per anni è sparita, non c'erano programmi per lei. Come li ha affrontati?

«Nei momenti no, non mi distruggo. Non personalizzo: ci si rimbocca le maniche e si va avanti. La vita è fatta di alti e bassi, sembrano quasi disegnati, casuali ma con un senso». 

Quarto anno ad Amici come insegnate e giurata. Come si rapporta coi ragazzi?

«Con disciplina: è una scuola e so quanto bisogna sudare per fare questo mestiere, ma è chiaro che ci metto anche la mia esperienza di genitore. I ragazzi vivono in una bolla in cui tutto è amplificato. Oggi nei giovani noto una fragilità che va gestita, ognuno è diverso, c'è chi deve essere spronato, altri abbracciati, protetti».

In estate le avevano proposto di ritornare in Rai e non ha accettato. Perché?

«Sono in un momento della vita in cui non mi interessa essere il primo nome in cartellone, avere un programma mio, mi piace stare in un ambiente in cui mi sento accolta, apprezzata e mi diverto». 

Un «no» definitivo?

«Mai dire mai. Ma a 58 anni vivo il momento. La vita e questo mestiere sono fatti di emozioni e, se riesco a provare emozioni che mi fanno state bene, è giusto che resti dove sono».

Lorella Cuccarini, il dolore: "Ero all'apice del successo, l'aborto mi ha fermata". Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 10 novembre 2023

Lorella Cuccarini? Beh, non devo mica presentarvela. Ha quasi sessant’anni, è sempre sulla cresta dell’onda, è una artista, una mamma e una figlia. Figlia di chi? Di una sarta che lavorava 24 ore al giorno per dare da mangiare a lei e ai suoi fratelli.

Lorella bambina cosa voleva fare da grande?

«Ti dico quello che mi raccontava la mia mamma: a tre anni facevo i miei spettacoli con tutte le mie bambole che venivano sistemate come se fossero il pubblico e ballavo e cantavo. Dice che costringevo i miei fratelli più grandi a imparare le canzoni dei Ricchi e Poveri perché li adoravo, e io interpretavo Angela con quella sua voce pazzesca e mettevamo in scena il quartetto. Era un gioco, una passione, non avrei mai immaginato che potesse diventare la mia professione». 

Quando ha capito che sarebbe potuto diventarla?

«Ho iniziato a studiare danza dall’età di nove anni, Dai diciotto ai venti anni ho fatto la ballerina di fila anche in programmi televisivi. Per me quello era già essere arrivata».

Poi cosa è successo?

«Mi chiesero di ballare per una “convention”. A me non andava. Mi convinse il fatto che ci fossero Bryan & Garrison che erano coreografi di rilievo all’epoca e nonostante pagassero pochissimo decisi di andare. I soldi contavano poco, anche se ero povera. Posso dire che quella “convention” mi ha cambiato la vita».

Perché?

«Mi vide Pippo Baudo e mi fece fare una serie di provini che mi portarono a “Fantastico”. Sliding doors. Se io quella volta avessi guardato più all’aspetto venale aspettando un lavoro meglio retribuito avrei perso l’occasione della mia vita».

Che figlia è stata?

«Sono cresciuta in una famiglia molto unita anche se avevamo solo un genitore: la nostra mamma. Eravamo tutti molto responsabili in casa. Mamma faceva la sarta e lavorava ventiquattro ore al giorno dovendo occuparsi da sola della famiglia. Se cuciva c’erano soldi per mangiare, se non cuciva no. Eravamo ragazzini responsabili. Avevamo i turni ed erano turni uguali per tutti. Mio fratello se c’era da sistemare la cucina, pulire e sistemare le camere lo faceva. E ognuno di noi cercava di pesare il meno possibile sul bilancio familiare».

Avete iniziato quindi a lavorare molto giovani?

«Mio fratello Roberto andava a caricare e scaricare le cassette di frutta e verdura in estate al mercato che avevamo sotto casa, per guadagnare qualcosa. Ricordo che il pomeriggio portava su quello che magari era rimasto e che ancora non era proprio scaduto ed era qualcosa che potevamo riutilizzare. Sono ricordi molto vivi nella mia mente e sono felice di aver avuto questa forma mentale».

I suoi figli invece hanno vissuto in una condizione economica ben diversa. Ha trasmesso loro gli stessi valori ereditati da sua madre?

«Ho cercato di spiegare loro che tutto ciò che si vuole raggiungere si ottiene solo con sacrifici e difficoltà. Ho cercato di insegnargli di non accontentarsi, di non mettersi paura. Affrontare la vita a muso duro con spalle forti, non ritirarsi alla prima difficoltà. Ho cercato in qualche modo fargli mantenere i piedi a terra».

In che modo? Mi fa un esempio pratico?

«Loro hanno vissuto in un’epoca nella quale il telefonino era parte integrante della vita dei ragazzi. Beh alla primogenita sono riuscita a darglielo a sedici anni. Una fatica pazzesca (sorride). Però quanto sono stata felice di esserci riuscita». 

Le ha mai rimproverato questa scelta?

«Lei ci ringrazia. È cresciuta con i libri, con gli amici che venivano a casa avendo le porte sempre aperte. Invece di dirsi le cose tramite i messaggini comunicavano fra loro, si guardavano negli occhi».

Come è riuscita a conciliare carriera e figli?

«Per me i figli sono la vita, sono ciò che ha dato senso alla mia esistenza. Le racconto un episodio...».

Prego...

«Quando feci “Buona domenica” nel ‘92/’93 con Marco Columbro... Due edizioni di straordinario successo. Una diretta di sette ore tutte le domeniche. Alla fine della seconda edizione mi accorsi di essere rimasta incinta e purtroppo quella gravidanza non andò a buon fine. Persi il mio bambino appena finito il programma. Quello fu un momento particolare, difficile della mia vita. Io sarei stata felice di suggellare il rapporto con mio marito Silvio con l’arrivo di questo bambino che non era cercato in quel momento però era capitato e non ero riuscita a portare a termine la gravidanza».

Come ha reagito a quel dolore grandissimo?

«Ho avuto un po’ di paura, la sensazione che questo lavoro non mi avrebbe lasciato lo spazio. E in quel momento, all’apice della mia carriera, nonostante mi avessero chiesto di fare la terza edizione del programma, ho deciso di fermarmi».

Ha messo la carriera da parte?

«Sì, mi sono ascoltata, ed è ciò che mi capita sempre quando sto affrontando dei momenti difficili, anche se quello che mi dico spesso non è comodo. Nonostante tutti cercassero di convincermi ad andare avanti io ho sentito dentro di me che era giusto fermarmi. Presi una pausa di riflessione contro tutto e contro tutti e quello che fu un momento estremamente complicato della mia vita in realtà poi diventò bellissimo perché decisi di ritornare a studiare, presi il diploma linguistico, nacque un progetto bellissimo, (“Trenta ore per la vita”), soprattutto rimasi incinta della mia prima figlia Chiara».

Poi tutto liscio?

«No. Ce ne sono molti di momenti difficili. Ricordo quando rimasi incinta dei miei due gemelli: avrei dovuto dopo due mesi debuttare nello spettacolo teatrale “Grease” e fu la mia stessa ginecologa sconsigliarmi di affrontare un impegno così gravoso per la mia salute avendo una gravidanza a rischio. Erano già stati venduti circa 100.000 biglietti, non mi potevo tirare indietro e utilizzando tutte le precauzioni possibili ho portato a termine questo impegno fino al quinto mese di gravidanza».

Sbaglio o non fu momento semplice quando lasciò Mediaset per la Rai?

«Non sbaglia, è stato un momento molto duro. Dopo 14 anni a Mediaset ho accettato una proposta dalla Rai che mi legava all’azienda con un contratto di tre anni che non venne onorato da un punto di vista professionale. Non andò come previsto perché mi tennero al palo, in panchina, non mi affidarono progetti lavorativi come da accordi».

Come ha vissuto quel periodo?

«A distanza di tempo l’ho quasi considerato benedetto perché erano appena nati i gemelli ed era il periodo in cui avevo perso mia madre. Mi sono dedicata anima e corpo ai miei quattro figli. Sono stati due-tre anni difficili lontani dagli schermi ma per me preziosissimi».

Su TikTok ha più di 500.000 follower, realizza video in cui canta, balla... si diverte e non si prende sul serio...

«È stata un’idea di mia figlia Chiara, che fa la social media marketing. Mi ha detto: “sei sempre così giocosa a casa, una matta, sei un personaggio e ti vedono sempre molto rigorosa. Perché non facciamo vedere questa parte dite?”. Ho sempre avuto molto pudore e ho sempre fatto vedere questo in video, e allora mi ha convinta a far vedere anche un lato leggero di me e che mi piace condividere».

Si diverte?

«Mi diverte non prendermi troppo sul serio, oggi sono in un momento della mia vita in cui mi sento più leggera. Non ho più quell’ansia da prestazione che magari avevo fino a qualche anno fa. Quello che dovevo fare l’ho fatto. Sono in un momento in cui mi sento veramente realizzata».

Per anni è stata definita la più amata dagli italiani...

«Quello per me è stato solo un claim, uno slogan. Non ho mai ambito ad essere la più amata ma solo di essere amata dagli italiani. Un personaggio pubblico non può piacere a tutti, bisogna fare i conti con questo. L’importante è che chi ti apprezza lo faccia per ciò che tu veramente sei, quindi ho sempre cercato il più possibile di essere me stessa. il più grande insegnamento che mi ha lasciato mia madre è quello: il valore del rispetto e il potermi guardare serenamente allo specchio». 

Lorella Cuccarini: «Mi sono voluta bene. Il fisico? Un nutrizionista mi ha detto che sbagliavo tutto: ora faccio 5 pasti al giorno». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2023.

A pranzo con una 57enne che sembra una trentenne. «Nel 2002 la mia forma fisica stava cambiando, mi ero quasi rassegnata...». Poi la svolta: nuova alimentazione con 5 pasti al giorno, allenamento metabolico e Calisthenics

Classe 1965. Mese di nascita: agosto. È un Leone che deve ancora compiere 58 anni. È Lorella Cuccarini. L’incontro con lei, da vicino, è sorprendente. L’abbiamo vista tutti sul palco del Teatro Ariston, al Festival di Sanremo, lo scorso febbraio, cantare con Olly la sua mitica canzone La notte vola e ballare scatenata. Un vestitino sottoveste nero che metteva in risalto un corpo perfetto, gambe lunghe e toniche, braccia muscolose, spalle eleganti, linea ineccepibile. Tutto da trentenne. Il confronto con lei è faticoso. Sì, lei è una ballerina, danza ore al giorno da quando aveva 9 anni. Niente comparazioni. Non vanno fatte e basta. Però 57 anni, sono 57 anni. Ha del miracoloso. E non c’è neppure stato l’intervento della chirurgia estetica. Rivedo Lorella dopo un po’ di anni. La guardo intensamente. Scruto ogni centimetro della sua pelle. Lucida, fresca, naturale. Capelli lunghi lucidi, freschi, naturali.

«SONO STATA DA UNA NUTRIZIONISTA CHE MI HA INSEGNATO A FARE 5 PASTI AL GIORNO. TEMEVO PER IL VISO...»

Ci vediamo al ristorante (voglio controllare cosa mangia). La abbraccio e le confesso: dopo Sanremo abbiamo bisogno di capire come fai. Lei sorride compiaciuta. Ha un paio di jeans, un maglioncino verde, scarpe da ginnastica. Ovviamente sta d’incanto. Giacca e zainetto da ragazzina. Ci sediamo al tavolo. Sai che sei la Gwynetw Paltrow italiana?, le dico. E penso all’idea dell’attrice americana, sbandierata alla soglia dei 50 anni, lo scorso settembre, di vivere il tempo che passa e la propria età con armonia e gioia. Non lottare per battere i segni del tempo, non votarsi alle pratiche di anti-aging , ma cavalcare l’ aging. L’orgoglio dell’anagrafe e dell’imperfezione. Seppur con tecniche e filosofie che hanno a che fare con il benessere di corpo e mente, con discipline più o meno rigide legate a fitness, alimentazione, sonno, movimento, prodotti di bellezza.

«NON CAPISCO LE DONNE CHE SI GUARDANO INDIETRO. IO LA GWYNETH PALTROW ITALIANA? LEI PERÒ HA 7 ANNI IN MENO»

A Cuccarini-Paltrow non dispiace affatto il paragone. Ostenta umiltà: «Mi pare troppo». Ma poi sottolinea, con la precisione che la contraddistingue: «Gwyneth ha sette anni meno di me». Eh già, sette anni non sono pochi. Torniamo all’inizio: capire come si fa a 57 anni ad avere quel fisico. E pure quel viso disteso, con poche rughe. Ci si potrebbe “accanire” sul collo: non che sia un collo come i nostri, per carità, ma almeno non è da ventenne. È da trentacinquenne. «Ogni stagione della vita ha in serbo sorprese. Non ha senso fare paragoni con i 20 anni. Io posso dare ancora molto, ne sono convinta», dichiara con grande piglio. Aggiungendo: «Non capisco le donne che si guardano indietro». Lorella è così, tranchant . E si cominciano a capire un po’ di cose.... Dobbiamo ordinare. «Qui fanno antipasti di pesce, cotto e crudo, fantastici. Alla fine davvero non riesci più a mangiare niente». Difficilmente condivisibile, ma Lorella è così. Sono certa che solo il carboidrato dia quell’effetto di splendida sazietà, ma mi adeguo. Per imparare.

UN MATRIMONIO CHE DURA DALL’AGOSTO DEL 1991, QUATTRO FIGLI, UNA FAMIGLIA COMPATTA, CHE FA SQUADRA: «SONO COSE CHE CONTANO TANTO... MA IL BARICENTRO SONO IO»

Riprendiamo il filo del discorso: «Ho sempre creduto in me e mi sono sempre voluta bene». Quanto ha contato in tutta questa forza, la sua situazione sentimentale solida, il suo matrimonio (con Silvio Testi) che dura dall’agosto del 1991, i suoi quattro figli, una famiglia compatta, che fa squadra? «Tanto. Io so ogni volta dove tornare. L’amore di un uomo e dei ragazzi è profondamente appagante. L’energia gira tra noi. Ma il baricentro sono io. Se non sei forte e solida non puoi neanche essere un riferimento per loro. Oggi sono risolta. Avevo più ansia da prestazione anni fa. A 30 anni sei piena di obiettivi». Arriva il pesce. Lei ha capito che sul palco di Sanremo era successo qualcosa di speciale? Che milioni di persone sintonizzate, in coro, stavano dicendo: «Ma la Cuccarini ha 57 anni? Ma che fisico ha? Ma non ci credo!». Le è arrivata quest’ondata? «Sì, mi è arrivata tutta. Appena finita l’esibizione, per ore e ore, il mio telefono è impazzito: messaggi, telefonate, social. Non so esattamente il perché. Forse perché quella mia immagine in minigonna non è frequente. Hanno visto una sensualità che non conoscevano. Del resto non ho mai pensato fosse il mio punto di forza».

«NEL 2002 HO TOLTO LA TIROIDE PER UN SOSPETTO TUMORE. LA MIA FORMA FISICA UN PO’ È CAMBIATA. PRIMA ERO SEMPRE ATTORNO AI 56 CHILI, DOPO L’INTERVENTO SONO ARRIVATA A 61. E MI ERO UN PO’ RASSEGNATA»

Giovane, sexy, allenata, in forma. Provi a spiegare come è arrivata a questo traguardo, cosa c’è dietro Lorella Cuccarini. «Faccio un passo indietro. Nel 2002 ho tolto la tiroide per un sospetto tumore. La mia forma fisica un po’ è cambiata. Prima ero sempre attorno ai 56 chili, dopo l’intervento sono arrivata a 61. E mi ero un po’ rassegnata a vivere con questo nuovo assetto, con una nuova forma fisica. Peraltro i primi anni Duemila sono stati difficili, complicati. L’anno scorso sono stata da un nutrizionista e mi ha detto che sbagliavo tutto, sbagliavo l’approccio di una alimentazione fatta di privazioni. Mi ha insegnato a fare 5 pasti al giorno: colazione, pranzo, cena e due spuntini, senza mai saltarne uno. Mi concedo la pasta (50 grammi) o meglio ancora il riso che adoro, il pane no. Verdura, frutta, pesce. Qualche volta sgarro, ma solo qualche volta. In due mesi sono tornata 56 chili. E mi sono sentita benissimo. Da allora sto davvero in forma, mi sento piena di energia. Prendo anche integratori e non mi sono mai sentita meglio».

«Temevo per il viso: dimagrendo ho pensato che potesse sciuparsi. Invece no. Ho cominciato poi due attività sfidanti e divertenti: calisthenics (allenamento a corpo libero che migliora la forza e la coordinazione, utilizzando solo il proprio peso corporeo come attrezzo per potenziarsi) e un allenamento metabolico (per migliorare l’apparato cardiovascolare e respiratorio). Sto bene, davvero bene. Combatto con una me dentro, che ha 30 anni, e ha ancora voglia di spaccare il mondo; e una me fuori, che ne ha 57, ed è un po’ più assennata. Il problema sono i recuperi: recuperare a questa età è un po’ più complicato».

«IL SUCCESSO A SANREMO ? PENSO SIA ARRIVATO IL MESSAGGIO CHE, ANCHE A QUASI 60 ANNI, POSSIAMO ANCORA DARE TANTO, IO NE SONO CONVINTA... E MAI BADARE AI GIUDIZI DEGLI ALTRI»

Lorella Cuccarini con Pippo Baudo e Alessandra Martinez in «Fantastico 6», del 1985, in cui Cuccarini sostituì Heather Parisi (foto Getty Images)

Nel frattempo assaggia tutti gli antipasti, prediligendo i crudi. Pochissimo fritto e niente pane. Torniamo a Sanremo: qualcosa è successo però su quel palco. «Penso sia arrivato il messaggio che, anche a quasi 60 anni, possiamo ancora dare tanto, io ne sono convinta. A Sanremo ci sono stata io, Carla Bruni, Luisa Ranieri, e poi Massimo Ranieri, Morandi, Al Bano. Possiamo ancora dire la nostra. È passato questo a casa: per essere felici, viviamo appieno la nostra età cercando di stare bene, prendendoci cura di noi, dedicandoci del tempo, ascoltandoci e mettendo noi al centro. Questo dobbiamo fare per stare bene. Sento di avere tanta esperienza e più leggerezza oggi, rispetto ai 20 anni. Mai badare ai giudizi degli altri, mai sentirsi o fare il tappetino. Le donne devono imparare a prendersi cura di sé stesse, ognuna seguendo una propria ricetta. Segreti non ce ne sono. Certo non si può prescindere dal mangiare bene, e dal movimento. Anche solo camminare va bene».

«ANCHE I MOMENTI DIFFICILI SONO STATI UNA OPPORTUNITÀ. ANZI, SONO CONVINTA DI UNA COSA: QUANDO VA TUTTO TROPPO BENE, RISCHI DI MONTARTI LA TESTA. QUANDO INVECE INTUISCI CHE POTREBBE ESSERCI LA PAROLA “FINE”, CAPISCI CHE DEVI COMBATTERE»

Detto così sembra davvero tutto facile e possibile. In parte forse lo è, ma serve una volontà ferrea. La sensazione è che Lorella sia abituata a una disciplina rigorosissima, fin da bambina. E che, per battere il tempo senza sfidarlo, quella disciplina sia fondamentale. Di più, indispensabile. Quella disciplina che oggi insegna ai ragazzi di Amici : «Un’esperienza bellissima. Il rapporto con i giovani è prezioso. Mi piace anche l’idea di aver fatto un passo indietro, di non essere protagonista, e di essermi messa al servizio degli altri». E quella disciplina, che le è servita quando la carriera ha avuto un momento difficile. Non c’erano programmi in vista per lei, ma ha tenuto duro e ha potuto dedicarsi ai suoi gemelli (Chiara e Giorgio, nati nel 2000, dopo i due primogeniti, Sara e Giovanni). «Guardando indietro, mi rendo conto che anche quei momenti difficili sono stati una opportunità. Anzi, sono convinta di una cosa: quando va tutto troppo bene, rischi di montarti la testa. Quando invece intuisci che potrebbe esserci la parola “fine”, capisci che devi combattere. Dolore e sacrificio sono ingredienti fondamentali nella vita. Non c’è soddisfazione, se non c’è un percorso di fatica».

«PER I MIEI 60 ANNI MI VOGLIO REGALARE UNO SPETTACOLO TUTTO MIO IN TEATRO, UNA COMMEDIA MUSICALE»

È il suo modo di vivere. È la sua etica. Difficile non riflettere sul fatto che rigore-armonia di corpo e mente non siano la sua carta vincente. Lorella ha mangiato con gusto e parsimonia. Gli antipasti di pesce erano gustosi. Lei è appagata. Basta così. Il dolce no. Il caffè sì. Mangia anche una piccola meringa. Poi scappa ad Amici . E mentre va via, parla del futuro: «A ottobre lanceremo un riediting de La notte vola che compie 35 anni. Una canzone davvero incredibile, oltre le bandiere, che mette la voglia di vivere. E per i miei 60 anni mi voglio regalare uno spettacolo tutto mio in teatro, una commedia musicale». Alcune conferme, alcune scoperte post pranzo. Lorella è un caso raro, una ballerina, un’atleta, inutile fare confronti e soffrire; Lorella è rigorosa, disciplinata, un po’ ci nasci, come con gli occhi azzurri, un po’ ti devi mettere e stare nella scia della fatica, del sacrifico, della volontà. Le donne belle, belle naturali, belle-sane, dopo i 50 anni — come Lorella o Claudia Schiffer, Valeria Mazza e altre — sono donne forti, che hanno costruito su sé stesse e spesso tengono famiglia (solida), sono “risolte” direbbe qualcuno. Noi, “umane” e più fragili, possiamo sempre provarci.

LA CARRIERA

IL DEBUTTO - Nata a Roma il 10 agosto 1965, ha iniziato a studiare danza a 9 anni alla scuola di Enzo Paolo Turchi. La sua primissima apparizione televisiva è stata nel 1978, all’età di 12 anni, in una puntata del varietà Ma che sera. Scoperta da Pippo Baudo, ha lavorato nei varietà del sabato sera di Rai1 Fantastico 6, nel 1985, e Fantastico 7, nel 1986, accanto ad Alessandra Martinez.

IL TORMENTONE - Il suo singolo pubblicato nel gennaio 1989, La notte vola (testi di Silvio Testi e musica di Marco Salvati e Peppe Vessicchio), sigla del varietà Odiens di Antonio Ricci per le reti Mediset, ottiene un grandissimo successo. Odiens è condotto dalla stessa Cuccarini con Enzo Greggio, Gianfranco D’Angelo e Sabrina Salerno.

SANREMO - E proprio La notte vola viene scelta dal cantante Olly per la serata dei duetti all’ultimo Festival di Sanremo. Accanto a lui, una Cuccarini con miniabito nero con le piume che, a 57 anni, 37 dopo il suo debutto a Fantastico balla con la stessa agilità ed energia che aveva da ragazza.

PROGETTI - In ottobre, racconta nell’intervista, verrà lanciato un riediting de La notte vola. In programma anche «una commedia musicale tutta mia.»

Lorella Cuccarini, fisico perfetto a 57 anni. Il segreto? Dieta e metodo Calisthenics. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.

Talento, passione e buon senso, ovvero alimentazione sana e movimento: ecco come fa questa protagonista assoluta del grande spettacolo italiano a essere sempre sulla cresta dell’onda

Lorella Cuccarini, l’ultima delle soubrette

Lorella Cuccarini è stata una tra le grandi conferme di Sanremo 2023: una professionista dello spettacolo eclettica, in grado di passare dal canto al ballo (e fare le due cose contemporaneamente) in performance ogni volta differenti. Ne dà prova continuamente, anche oggi, in qualità di insegnante nel programma Amici di Maria De Filippi e nei suoi spettacoli teatrali. A far parlare in questi giorni, però, è il duetto con il rapper Olly sulle note di «Una notte vola», tra i momenti più autentici del Festival. Cartina di tornasole, l’entusiasmo di spettatori di ogni età perché Lorella ha riportato alla mente a millenial e boomer uno dei brani che hanno segnato il varietà degli anni ’80 e ’90 . E mostrato alla generazione Z e alla X quanto possa essere contemporaneo quel modo elegante di esibirsi. Per tutti è stata un’occasione di (ri)vederla in un’esibizione piena di energia. E questo, banale a dirsi, nonostante il tempo passi. Noi , il tempo che passa, vogliamo rimarcarlo perché a 57 anni — la soubrette romana è nata il 10 agosto 1965 ed è madre di quattro figli — mantiene un’energia invidiabile. «È in forma la Cuccarini», ha commentato con stupore Gianni Morandi, rivolgendosi ad Amadeus alla fine dell’esibizione sul palco dell’Ariston. Come fa? Con un mix di dieta e allenamento ad hoc.

La dieta di Lorella Cuccarini

Il segreto alimentare di Lorella Cuccarini? Semplicemente mangia in modo sano ed equilibrato. Volendo usare le sue parole: «Sano e pulito». La Cuccarini lo ha raccontato in una intervista a VanityFair: «Vario spesso. Carboidrati: soprattutto riso o pasta integrale. Poi due spuntini al giorno con frutta, frutta secca, barrette proteiche».

La dieta di Lorella Cuccarini: 5 pasti al giorno

Non solo alimentazione sana, ma anche tanti pasti al giorno. Nella stessa intervista Lorella Cuccarini ha raccontato: «Spesso, per perdere peso si diminuisce il numero dei pasti; io per stare in forma e mantenere alto il metabolismo, mangio 5 volte al giorno». Il metabolismo per funzionare bene va allenato: più si mangia e più si brucia. Non tutti i cibi sono uguali: per evitare picchi di insulina, e quindi accumuli di grassi, bisogna preferire alimenti sani. Proprio come quelli suggeriti dalla showgirl, cominciando da frutta fresca e secca. Quanto alle barrette proteiche, e tutti gli integratori di questo tipo, sono adatte a chi svolge attività fisica intensa. Un passaggio dallo specialista è sempre consigliato.

La dieta di Lorella Cuccarini: la prevenzione, sempre a tavola

Sempre con buon senso, Lorella Cuccarini ha saputo prevenire inevitabili accumuli di grasso, come quelli che si verificano durante le gravidanze, nel suo caso tre, di cui una gemellare. «Ho giocato di anticipo, facendo un po' di sacrifici per evitare che il peso acquisito naturalmente durante i nove mesi di attesa diventasse, dopo ogni gravidanza, difficile da perdere e creasse poi problemi nel recupero», sottolineando quanto la costanza, anche nell’attività fisica, l’abbia aiutata a mantenere la sua forma perfetta.

Come si allena Lorella Cuccarini

Lorella Cuccarini ha sempre fatto movimento, fin da piccola alla scuola di danza di Enzo Paolo Turchi. E ora continua, con costanza: «Faccio anche poco, ma tutti i giorni. In quest'ultimo anno alterno lezioni di Metabolico e di Calisthenics, due discipline che si avvicinano molto alla preparazione atletica per la ginnastica artistica: un’ora al giorno», ha detto la showgirl, facendo riferimento a due allenamenti molto diversi e complementari. Il primo — metabolico — è un workout a circuito con i pesi che serve a tonificare, aumentare la massa magra e quindi metabolismo basale cioè il dispendio energetico: i muscoli più sono tonici e più utilizzano calorie anche quando sono a riposo. Il Calisthenics, invece, è un tipo di allenamento che sfrutta il peso del corpo assicurando tonicità, elasticità e forza muscolare.

L’allenamento di Lorella Cuccarini: il consiglio da seguire

Non riuscite ad allenarvi? Non è una buona scusa per non fare movimento. Lo ha ricordato anche Lorella Cuccarini: «Altro consiglio è quello di camminare. Se non si ha tempo per andare in palestra, basta una mezz’ora al giorno, a una bella andatura: è un toccasana».

Lorella Cuccarini e Silvio Testi: «Avevamo entrambi una relazione. Ci siamo sposati dopo sei mesi». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.

Insieme da 31 anni: «Era il produttore di Baudo, lo trovai bellissimo. Gli alti e bassi, i silenzi, lui non ha mai amato il lato frivolo del mio lavoro»

«Quando ci dipingono come la famiglia del Mulino bianco, mi viene un po’ da ridere». Lorella Cuccarini, 37 anni di carriera, il sorriso come firma anche nei momenti meno semplici, da 31 anni è sposata con il produttore Silvio Testi ma ci tiene a rendere tridimensionale un rapporto che non è (solo) una favola.

Un legame solido, quattro figli, ma non siete la famiglia del Mulino Bianco, dice.

«La famiglia perfetta non esiste. I momenti difficili ci sono stati, ma abbiamo sempre cercato di superare insieme l’impatto delle crisi personali di ognuno di noi».

Sono state molte?

«Nel corso di una vita ce ne possono essere tante, sì: dalla perdita delle persone care, a quelle lavorative. Il segreto è cercare sempre di tamponare, da una parte e dall’altra. Essere di supporto, ma anche non creare ingerenze».

In che senso?

«Vedo come gestisce le difficoltà mio marito: ha un approccio molto diverso dal mio. Io sono una che tira fuori quello che prova, affronto le cose di petto. Anche insieme, perché penso che i pesi condivisi diventino più leggeri. Ma Silvio non è come me: ha bisogno dei suoi spazi, dei suoi silenzi. Se tu questa cosa non la comprendi rischi di non valorizzare la persona che ami. Quindi io rispetto quei momenti di silenzio che fanno parte del suo carattere come lui rispetta il mio modo vulcanico di fare le cose. Siamo due facce di una stessa medaglia. Però funziona».

La diversità dell’altro, prima di essere accettata può risultare un po’ pesante?

«Basta ricordarsi che siamo individui singoli prima che coppia. Non ho mai forzato Silvio per accompagnarmi agli eventi o anche solo per fare delle foto assieme. So che nasce come uomo che sta dietro le quinte, non ha mai amato il lato più frivolo di questo mestiere. Però io non ho smesso di andare alle prime: ci vado sola o con un figlio, ma non vivo la sua assenza come un affronto così come lui non mi tiene il broncio se esco. Siamo molto liberi».

Anche fisicamente? C’è chi ha bisogno di spazi separati.

«No, non ci pensiamo minimamente. È così bello stare insieme, specie nelle rare volte in cui ci ritroviamo con i ragazzi, figuriamoci se potremmo mai allontanarci».

Eppure il vostro inizio è stato una scommessa, vero?

«Ci siamo sposati dopo sei mesi di fidanzamento. A me lui è piaciuto subito: era il produttore musicale di Pippo in Fantastico 6. L’avevo trovato molto bello e mi piaceva il suo mondo creativo. Ma io ero ai miei inizi, poi avevo una relazione e lui pure, quindi l’ultima cosa che avrei voluto era lanciare dei messaggi: tutto era rimasto nell’ambito della stima. Poi, quando ci fu il mio passaggio in Mediaset, avevo bisogno di una persona che lavorasse per me sul piano musicale, quindi l’ho richiamato. A quel punto eravamo liberi tutti e due...».

E sei mesi dopo eravate marito e moglie. Molto rock.

«Tutto era talmente bello che sembrava proprio il pezzo del puzzle che completa un disegno stupendo e che sarebbe stato complicatissimo trovare, disperso tra tanti altri pezzi. Insieme avevamo creato l’incastro perfetto: mi ha chiesto di sposarlo a Natale e non ci ho pensato un attimo».

In famiglia come furono le reazioni?

«Mia madre all’epoca era un po’ perplessa, ma solo per la velocità della cosa. Ma si è sempre molto fidata di me. Disse: “Se è quello che senti, va bene”».

Se uno dei vostri figli vi dicesse che sposerà qualcuno conosciuto sei mesi prima?

«Beh noi non potremmo proprio fiatare. Credo che i ragazzi sappiano dare la giusta importanza al matrimonio. Ho la sensazione che oggi questo passo venga vissuto con leggerezza, come se si potesse fare e disfare tutto. Per quanto mi riguarda non è così, poi io sono credente: il matrimonio davanti al Signore per me ha un valore immenso. Ai miei figli ricorderei solo che non è un gioco».

Le sorprese più belle che lui le ha fatto?

«Ce ne sono state talmente tante... quelle che mi colpiscono di più sono quelle che valgono dei sacrifici: Silvio è stato capace di fare viaggi anche di sei ore in macchina per stare con me due ore e tornare indietro. Per me questi sono regali pazzeschi».

E lei a lui?

«Silvio ama andare in barca, ma non l’ha mai avuta. Suo papà era un pescatore, questa cosa gli è rimasta dentro. Qualche anno fa, a sua insaputa, ho organizzato un giro in barca in Grecia: è venuto in aeroporto all’oscuro di tutto e ha apprezzato molto».

Cosa ne pensa lui delle sue prese di posizione? Si è espressa anche sui vaccini Covid, dicendo che non l’aveva fatto.

«Credo che siamo persone libere e sufficientemente intelligenti per capire cosa è più giusto per noi. A prescindere dal tema, Silvio mi consiglia sempre di “stare buona”: sa come funzionano le cose, come possono essere riportate le opinioni e ogni tanto si discute per questo. Ma io sono trasparente, non riesco a nascondere nulla, sono fatta così. E poi penso sia brutto non prendere delle posizioni. Certo, io agisco molto di pancia e di cuore e, alle volte, poco di testa. Viceversa lui è troppo riflessivo e cervellotico: rischi di costruire dei castelli che non esistono nella realtà».

A proposito dell’agire di pancia, ha commentato su Instagram con delle faccine che si tappano la bocca le parole di Heather Parisi dette in tv da Cristiano Malgioglio...

«Mi faceva molto sorridere sentire che siamo sempre in contatto quando sono stata anche bloccata da lei, sui social. Detto questo, io contro Heather non ho niente, anche se l’epilogo del nostro programma, Nemica amatissima, è stato diverso da come speravo... Insomma, anche se ero dispiaciuta per come ci eravamo lasciate e anche se non ci sono stati più rapporti, per me rimane la stima per una professionista che ho sempre apprezzato. Però, ecco, da allora non ci siamo più sentite. Non ho visto la trasmissione, quindi forse anche lei era sarcastica».

Nella sua carriera c’è stato qualche momento di difficoltà, degli anni meno brillanti. Come li ricorda?

«Quando fai i conti con un percorso che dura da 37 anni, non esiste personaggio che non abbia avuto alti e bassi, è normale. L’importante è non perdere mai il senso del proprio valore, cosa che ho sempre cercato di mantenere ben chiara. A volte le cose non vanno, ma quando ci sono momenti critici non devi mettere in discussione anche te stesso. Ecco, io non ho mai perso il senso del mio valore e non lo dico con spavalderia. Però so quello che valgo e quello che potrei fare. I più grandi nemici di noi stessi siamo quasi sempre noi».

Uno sguardo lungimirante che aiuta a superare anche le turbolenze inevitabili in un lungo matrimonio?

«Io e Silvio siamo della generazione di quelli che aggiustavano tutto: quando qualcosa si rompeva, non la rimpiazzavi subito, perché magari per averla avevi fatto sacrifici. Ora trattiamo tutto, anche i sentimenti, come le cose che possediamo: se si rompono si buttano. Ma i rapporti, salvo quando non sono sani, si devono sistemare perché altrimenti non troveremo mai una nostra pace. Ecco, io sono molto brava ad aggiustare».

Jovanotti compie 57 anni: l’amore con Francesca che dura da quasi 30 anni, la figlia Teresa, 7 segreti. Arianna Ascione per corriere.it mercoledì 27 settembre 2023.

Il racconto della vita privata del cantautore, nato a Roma il 27 settembre 1966

Il compleanno

Non è un periodo semplice quello che Jovanotti sta vivendo: il cantautore, che la scorsa estate mentre si trovava in Repubblica Dominicana ha avuto un brutto incidente in bicicletta (in cui ha riportato varie fratture), è alle prese con la riabilitazione. ««Casa! Tre giorni a casa prima di ripartire per Forlì dove sto facendo la fisioterapia seguito da Fabrizio Borra, che mi strapazza per mantenere il tono e la funzione neuromuscolare attiva, così quando (non so ancora quando, potrebbero volerci mesi) inizierò ad andare senza stampelle avrò una buona base per recuperare e tornare a camminare e pedalare e soprattutto (per me) a stare su un palco - ha scritto ai suoi fan su Facebook all’inizio di settembre -. Un piccolo progresso al giorno, e ogni volta che passo da casa ritrovo il motivo per essere grato. Il mio vecchio Otto è pieno di acciacchi ma sembra sapere tutto di me, e non mi molla un attimo quando torno. Avanti tutta!». Nonostante le difficoltà Jovanotti (che il 27 settembre festeggia il suo 57esimo compleanno) non ha mai perso il sorriso e la positività, con la famiglia - sua moglie Francesca Valiani e la figlia Teresa - sempre al suo fianco.

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Il primo incontro con Francesca

Jovanotti e Francesca si conoscono praticamente da sempre: lei era amica della sorella del cantautore, Anna. Nel 2017, intervistata da Vanity Fair, Francesca Valiani ha ricordato un episodio molto particolare del loro passato: «Avevo 14 anni, lui metteva i dischi in una discoteca di Cortona. Mi venne a portare un biglietto per una serata in quel locale. I miei naturalmente non mi fecero andare, ma io quel biglietto lo conservai, senza nessun motivo, per anni dentro il portafoglio. Ce l'ho ancora».

Una vita insieme

«Io credo nelle affinità profonde - ha raccontato Francesca a Vanity Fair -. Ma questo non vuol dire che sia facile: tutto è stato una conquista. Il nostro rapporto in questi diciotto anni è cambiato totalmente, grazie a un lavoro quotidiano di correzione e rimessa a punto. Tra i due c’è sempre uno che si dedica alla manutenzione dell’amore e nella nostra coppia sono io che mi accorgo, che riavvito i bulloni che stanno mollando, che vedo qualche cosa che si sta sbrecciando. Ci metto attenzione, tempo, pensieri». Il grande amore tra Jovanotti e la sua Ragazza Magica va avanti, lontano dai riflettori, dal 1994. L’unica volta che il gossip ha trascinato la coppia al centro dell’attenzione è stato nel 2002, in occasione di un momento di crisi. Poi superato: «Mi sono messo in discussione guardando finalmente i difetti, affrontando la crisi e gli errori compiuti», ha raccontato il cantautore.

Il matrimonio a Cortona

Dopo tanti anni insieme il 6 settembre 2008 Jovanotti e Francesca Valiani sono convolati a nozze a Cortona, nella chiesa di Santa Maria Nuova. «I love you baby @fravaliani come ogni 6 settembre come ogni giorno forever», scriveva qualche giorno fa su Instagram il cantautore nel giorno dell’anniversario di matrimonio (il 15esimo).

La nascita di Teresa

Il 13 dicembre 1998 a Forlì, città in cui Jovanotti ha vissuto per diversi anni, il cantautore e Francesca Valiani sono diventati genitori: quel giorno infatti è nata Teresa Lucia, alla quale il cantautore ha dedicato la canzone «Per te». Mamma Francesca con il pancione e la neonata appaiono nel videoclip del brano, un collage di filmati casalinghi. «Per te è per la mia Teresa - ha ricordato a distanza di vent’anni il cantautore - è la sua canzone di quando ho saputo che stava venendo al mondo, e la canzone è nata insieme a lei e funzionava anche qui in casa, lei la ascoltava già nella pancia e poi nel suo primo anno di vita ogni volta che non voleva saperne di dormire la caricavo in macchina, mettevamo il cd di Per Te a volume alto e in un minuto si addormentava. Magia».

La malattia

«Per gli ultimi sette mesi ho tenuto un segreto, faccio fatica a raccontare una storia prima di conoscerne la fine. Il 3 luglio 2020 mi è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico». Con un post su Instagram a inizio 2021 Teresa ha parlato per la prima volta della malattia che l’aveva colpita, da cui poi dopo mesi di cure è guarita. «Sono stata incredibilmente fortunata ad avere una famiglia, amici e team di medici spettacolare che mi hanno seguito e aiutato durante tutti questi mesi - ha detto -. Per un certo verso il cancro è una malattia molto solitaria, ma il supporto di chi ti sta vicino è fondamentale per superarla, io non ce l’avrei fatta senza di loro. La paura non è andata via, e ci vorrà del tempo perché possa fidarmi di nuovo del mio corpo, ma non vedo l’ora di ricominciare a vivere». «Lei è stata la roccia alla quale io e Lorenzo ci siamo aggrappati, non il contrario», parola di mamma Francesca.

La laurea a New York

«Un po’ di mesi fa ha avuto un momento di difficoltà e ha dimostrato una forza che ero così ammirato… Molto forte. Mi è piaciuta tantissimo. È stata strepitosa». Ospite di Mara Venier a Domenica In nel 2022 Jovanotti ha parlato così di sua figlia Teresa, di cui è sempre orgogliosissimo. A un anno di distanza dalla guarigione la 24enne ha completato il suo percorso di studi, laureandosi alla School of Visual Art di New York. «Lei è una lettrice folle - ha detto di lei papà Jovanotti sempre a Domenica In -. Legge i russi, la grande letteratura. È una ragazza in gamba. Mi piace. Se me la presentassero, direi “È una ragazza forte”. Poi ha dei difetti, eh: ha un caratterino…Quando si punta su una cosa, non la smuovi».

Loretta Goggi: «Ritorno dopo trent’anni, non per celebrarmi». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2023.

Si intitola «Benedetta primavera» lo show condotto da Loretta Goggi con Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, dal 10 marzo su Rai1 per quattro puntate in prima serata

«Gastone Moschin mi prese in braccio ed esclamò: ammazza quanto pesi...! Ti chiami Cosetta, ma non sei una Cosetta». La battuta risale al celebre, storico sceneggiato I miserabili, diretto da Sandro Bolchi, dove già furoreggiava una Loretta Goggi appena dodicenne. E adesso la showoman torna in tv con il programma «Benedetta primavera», da lei condotto con la partecipazione di Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, su Rai1 da stasera in quattro puntate.

«Torno a trent’anni di distanza da «Via Teulada 66» — spiega Loretta — un varietà che non funzionava perché non c’erano i giochini, le telefonate in diretta col pubblico... affrontavamo argomenti più seri e venne sospeso dopo pochi mesi. Da allora a oggi, oltre ad accettare il ruolo di giurata in Tale e quale show, mi sono dedicata al mio grande amore, il teatro. Il piccolo schermo non mi è mancato e forse io non sono mancata al piccolo schermo. Altre volte mi avevano fatto proposte celebrative, ripercorrendo le mie canzoni. Stavolta mi propongo un programma tagliato su di me, come sono adesso, una donna di 72 anni. Mi ha convinto il direttore Stefano Coletta, dicendomi: in 63 anni di carriera hai fatto di tutto, quindi è inutile cercare nuove idee, il format sei tu».

Una lunga carriera, iniziata da enfant prodige e proseguita attraverso il mondo dello spettacolo, declinandolo nei più svariati generi artistici e conquistando dei primati: è stata la prima donna a condurre Sanremo e a fare l’imitatrice. «Diciamo che Benedetta primavera, il cui titolo ricorda quello della canzone, è una sorta di Quark — riprende Goggi — dove sono una specie di Alberto Angela che racconta la storia dello spettacolo e della tv: una proposta che mi diverte. È però il primo show — sottolinea commossa — che realizzo senza l’abbraccio di mio marito Gianni Brezza. Stavolta devo ricordarmi tutto quello che mi ha insegnato, non ci sarà lui a suggerirmi niente e spero che i nostri lunghi anni insieme mi siano serviti per sedimentare le sue indicazioni artistiche e adattarle a me, come se lui ci fosse ancora. Insomma è un debutto, senza le persone con cui lavoravo trent’anni fa».

In ogni episodio tanti ospiti e tanti argomenti inerenti allo spettacolo: «Con Bruno Vespa parleremo di quello che era un tempo la censura in tv. Ricorderemo per esempio come Ugo Zatterin dovette dare l’annuncio della Legge Merlin senza poter nominare le case chiuse e le prostitute, chiamandole “pappagalle”!». Inoltre, si realizzeranno dei magici duetti impossibili: Mietta che canta con Mia Martini, Anna Tatangelo con Whitney Houston. Non mancheranno le nuove imitazioni di Loretta: «E pensare che ho iniziato a 22 anni imitando Giulietta Masina e Rina Morelli, mentre considero la mia erede Virginia Raffaele. Adesso sarò Guillermo Mariotto, la Regina Elisabetta d’Inghilterra, Ursula von der Leyen che, essendo tedesca, fatica a pronunciare il Pnrr, e Laura Morante con il suo cinema d’autore. Ma considero l’imitazione un omaggio alla persona imitata». Per Loretta, un’ennesima sfida: «Sin dagli esordi, tutte le volte che mi spaventava un nuovo impegno ho accettato la sfida, puntando sulla mia fragilità, che è stata la mia forza. Stavolta spero di reggere tre ore sul tacco 12».

"Torno per regalarvi una Benedetta primavera piena di talento e novità". L'artista conduce un programma dopo 30 anni: "Porterò freschezza, non archeologia della tivù". Paolo Scotti il 10 Marzo 2023 su Il Giornale.

Roma. Finalmente ritorna. 72 anni, 63 di carriera, 30 che non appariva in un suo show. Ci sono volute montagne di mail da parte di fan adoranti, nonchè tutta la pazienza di Stefano Coletta, direttore intrattenimento Rai, per convincere Loretta Goggi a rompere gli indugi. Da stasera su Raiuno col titolo (che è già tutto un programma) di Benedetta primavera, la più completa, talentuosa - e rimpianta- delle nostre showgirl ha nuovamente un suo programma, pensato scritto e realizzato su (e da) lei.

Cosa l'ha tenuta trent'anni lontana? Cosa l'ha convinta a tornare?

«La Tv di oggi non mi somiglia. In più mi proponevano solo cose celebrative, dal sapore archeologico. Ma anch'io sono cambiata: volevo uno show che, pur nel ricordo di un passato che non rinnego, e anzi amo moltissimo, mi somigliasse per come sono oggi. E poi ho pensato a cosa mi disse Pietro Garinei: La conosci la parabola dei talenti? Se il Signore ti ha donato un talento tu non devi sotterrarlo. Ma farlo fruttare».

Cosa sarà, dunque, Benedetta primavera?

«Un hellzapoppin' che mescolerà tutti i generi che ho frequentato in 63 anni di carriera. Ma in chiave contemporanea. Così reciterò dei monologhi ma anche parlerò con ospiti diversi dei più vari argomenti: con Heather Parisi del varietà, con Claudio Amendola degli sceneggiati, con Bruno Vespa delle parole censurate, con Marco Giallini del politically correct. Farò delle imitazioni, ma di personaggi poco frequentati come Guillermo Mariotto, la regina Elisabetta, Ursula von der Leyen, Laura Morante. Canterò, anche se non ho più la voce di 40 anni fa, e ancora non so se, e come, affronterò Maledetta primavera. Userò la tecnologia per mescolare lo ieri all'oggi, facendo duettare Mia Martini con Mietta, e Anna Tatangelo con Whitney Houston. E a farmi da controcanto ci saranno Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu».

Uno show diverso, difficilmente classificabile.

«Proprio come me. Io non ho mai somigliato a me stessa. Sulla mia carta d'identità c'è scritto semplicemente artista. Non ho un'identità riconoscibile: ho cambiato continuamente generi, perfino look, colore dei capelli, pettinature. E proprio oggi non volevo rimettermi in gioco col paragone di quella che ero. Più che agli ascolti guarderò a quello che una volta si chiamava indice di gradimento».

A proposito del titolo: Morandi era arrivato a odiare Fatti mandare dalla mamma perché dovunque gli chiedevano di cantarla. E lei, in che rapporti è con Maledetta primavera?

(ride n.d.r.) «Ottimi. La amo e sempre l'amerò, ma le mie canzoni non le canto più da dieci anni. Sono troppo legate a mio marito, e non voglio commuovermi. Gli unici insoddisfatti delle continue riproposte di Maledetta primavera sono i miei fan: quelli che ricordano le parole delle canzoni che perfino io ho dimenticato. Ma ne hai fatte tante altre, di belle canzoni!, protestano quando la sentono».

Lei che ha presentato un Sanremo e vinto (moralmente) un altro: come ha trovato l'ultimo?

«Non l'ho visto: registravo fino a tardi. Però finchè lo frequentavo io era ancora il Festival della canzone. Oggi è un programma tv. Pieno di belle cose, ma musicalmente Il rap è dappertutto, la melodia latita. Quello che canta Cenere Lazza si chiama? Ecco: lì un po' di melodia c'è. Io le canzoni voglio poterle cantare».

Quattro persone cui deve dire grazie per la una carriera così unica?

«Majano, che mi scoprì e con La freccia nera mi evitò di restare una bambina prodigio. Baudo che mi spinse a fare le imitazioni, e Noschese a perfezionarle. Infine mio marito Gianni Brezza. Che m'invitò ad essere in scena quella che sono nella vita. E a vivere il presente senza restare troppo ancorata al passato».

Cos'è il successo per lei?

«Quella cosa che, se pensi di averla raggiunta, hai chiuso. Quindi, per me, il successo deve ancora arrivare».

Loretta Goggi, dagli esordi con la sorella alla morte del marito alla malattia. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

La celebre cantante e attrice italiana è tra i giurati del programma di Rai1 “Tali e quali”, la versione nip del premiato varietà campione di ascolti “Tale e quale show”. Il suo grande amore è stato il marito Gianni Brezza, morto nel 2011

In giuria

La celebre cantante e attrice italiana Loretta Goggi (72 anni) è tra i giurati ,sabato 7 gennaio in prima serata, del programma di Rai1 “Tali e quali”, la versione nip del premiato varietà campione di ascolti “Tale e quale show”. Goggi è stata una delle regine indiscusse degli anni Ottanta, alcune delle sue canzoni vengono ancora oggi da generazioni trasversali: il suo grande successo “Maledetta primavera” è rimasta un vero inno all’amore e alla liberà tramandato da generazioni

Gli esordi

Goggi non aveva ancora dodici anni quando esordì come attrice bambina in “Sotto processo”. All'inizio della carriera ha spesso lavorato con la sorella minore Daniela con cui ha partecipato a numerosi programmi oltre a interpretare insieme alcune canzoni.

I riconoscimenti

Loretta Goggi nella sua carriera ha avuto numerosi riconoscimenti per i suoi lavori in tv ma anche musicali: quattro dischi d’oro, uno di platino e quattro Telegatti in quattro diverse categorie.

La morte del marito

Nella sua vita Loretta ha avuto un amore da fiaba: si è innamorata di Gianni Brezza. I due si sono conosciuti sul set di “Fantastico” e il loro è stato un colpo di fulmine. Nel 2008, dopo ben 29 anni di convivenza Loretta e Gianni hanno deciso di convolare a nozze, ma nel 2011 Gianni Brezza è deceduto per le complicanze di un tumore, una malattia con cui ha lottato con tutte le sue forze ma che non gli ha lasciato scampo.

La malattia dopo la morte del marito

"Quando ho perso Gianni tutto si è spento. Sono stata malissimo sei mesi in casa, senza uscire. Non riuscivo a camminare né a mangiare. Ma anziché dimagrire, ingrassavo: il dolore mi aveva bloccato la tiroide, aveva smesso di funzionare. Stavo morendo. Mi ha salvata un’endocrinologa facendomi gli esami giusti e rieducandomi a mangiare” ha raccontato recentemente. La sua rinascita anche grazie proprio al programma di Carlo Conti

Playboy

Loretta Goggi vanta persino una copertina su Playboy: era il 1979 quando le fu dedicato un ampio servizio fotografico

Prima donna a Sanremo

Loretta Goggi ha avuto un' altro primato: quello di essere stata la prima donna a condurre il Festival di Sanremo nel 1986. Un successo che ha anticipato i tempi.

Estratto dell’articolo di Arianna Ascione per corriere.it giovedì 28 settembre 2023.

«Io per tutta la vita ho seguito gli uomini, erano loro quelli con un lavoro imprescindibile e io andavo dove loro andavano. A un certo punto, ho deciso che ero io quella che voleva essere seguita». In passato Lory Del Santo (che proprio oggi compie 65 anni) è stata a lungo protagonista della cronaca rosa.  

Oggi ha ritrovato la serenità in amore accanto a Marco Cucolo, con cui lo scorso anno ha partecipato all’Isola dei Famosi. «Mi addolora che mi dicano: stai ancora con quello lì? Sa le solite critiche…», diceva nel 2022 la showgirl intervistata dal Corriere, in riferimento alla differenza d’età che separa lei dal suo compagno 31enne. 

Ma negli anni Ottanta Lory Del Santo, agli inizi della sua carriera, ha fatto molto parlare di sé per la sua relazione con il saudita Adnan Khashoggi, tra i miliardari più ricchi del mondo, morto nel 2017. «Ero a Parigi in discoteca, uno sconosciuto mi fa: vieni a Saint Tropez che ti presento un amico?  

Non ci ero mai stata, vado, ma mi pago il biglietto. Ho pensato: se paga lui, poi, chi sa. Arrivo su questo yacht enorme, il Nabila: mai visto una cosa del genere. Il giorno dopo, la barca era sul Corriere, presentata come la più grande del mondo. Al che, ci sono rimasta».  

Con Khashoggi rimase per sei mesi: «Mi aveva messo sotto il suo ombrello, ma dovevo stare attenta a non uscirne. Invece, mi feci fotografare dal marinaio sul Nabila». La foto finì su tutti i giornali del mondo: «Non si fidava più di me. Ma avevo scelto io di non stare più nella gabbia d’oro: andare col suo autista da Dior a scegliere quello che volevo non mi bastava, non era quello il mio sogno. Io volevo affermarmi, non essere la sconosciuta sotto l’ombrello. In più, lui mi aveva tradito. […]».

«A Milano, mi ritrovo a cena seduta vicino a questo musicista barbone. Non sapevo chi fosse, gli do il numero. Il giorno dopo, il Corriere della Sera parlava del suo concerto di grande successo». Così ha raccontato Lory Del Santo al Corriere a proposito del suo primo incontro con Eric Clapton negli anni Ottanta. […] Lui le regalò anche un anello di fidanzamento: «Con lo zaffiro blu e i brillanti, come Carlo con Diana». 

Nel 1986 Lory Del Santo diede alla luce il piccolo Conor: «Ero così felice quando ho saputo di aspettare Conor - raccontava qualche anno fa la showgirl a Domenica Live -, non mi interessava niente, né la casa né i soldi. Eric mi ha dato tante emozioni, mi ha fatto anche soffrire, lui era instabile e avevo paura di sbagliare stavo attenta a come mi comportavo. 

Vorrei però sottolineare che non sono rimasta incinta a caso, mi ha accompagnato lui dal medico per farmi togliere la protezione per avere un figlio. Era pieno di emozioni ma non sapeva come gestire tutto quanto».  

Conor morì tragicamente a New York il 20 marzo 1991: cadde nel vuoto da una finestra lasciata accidentalmente aperta al 53º piano del grattacielo in cui viveva con sua madre. Aveva quattro anni e mezzo. […]

[…] Successivamente la showgirl ha avuto una relazione sentimentale con il tennista Richard Krajicek: anche da lui ha avuto un figlio, purtroppo nato prematuro e morto a due settimane di vita per un’infezione. «Con Richard ho sofferto molto, per questo e non solo. Mi tradì. E fu lui a lasciarmi. Mi disse: in campo, devo concentrarmi per essere il numero uno, invece, penso a te e mi distraggo. Disse: la nostra storia deve finire. Ho pianto per mesi, ho pianto in tutti i taxi di New York. Quando mi stava passando, lui ritornava perché non riusciva a stare lontano». 

Nel 1999 la showgirl ha avuto un altro figlio, Loren, da un uomo di cui a lungo non ha voluto rivelare l’identità (ha poi svelato nel 2020 che si trattava di un uomo tedesco, Dennis Schaller). Loren è morto suicida nel 2018, a soli 19 anni. 

Nel 1991 un hotel di Hiroshima, in Giappone, ha fatto da sfondo al fugace flirt tra Lory Del Santo e George Harrison. Durato «tre giorni. Fece chiudere la piscina di un hotel 5 stelle per stare da solo con me. Face arrivare sushi, fu pazzesco. Parlammo per ore», ha raccontato nel 2022 la showgirl a Candida Morvillo. Di questo flirt - una sorta di “ripicca” dell’ex Beatle (a cui Clapton aveva “rubato” Pattie Boyd negli anni Settanta)  […] 

«Tanti anni fa incontrai Donald Trump in ascensore, nella sua Trump Tower, e gli lasciai il mio numero», raccontava Lory Del Santo nel 2016 a Un giorno da pecora su Radio 1. A proposito dell’ex Presidente Usa la showgirl ha detto, nell’intervista di Candida Morvillo per il Corriere: 

«Ho perso l’occasione. Era molto divertente. Stavo arredando una casa. Chiama e gli dico che ero tutta impolverata, è arrivato, gli operai pensavano fosse mio marito, chiedevano a lui che fare e lui rispondeva. Io, nella vita, mi sono divertita. Con Trump, con George Harrison, con Dodi Al Fayed». 

A proposito di Dodi Al Fayed, Lory Del Santo ha raccontato: «Fu l’estate prima di Diana. Lo conobbi al Byblos di Saint Tropez. Stemmo insieme per un long weekend. Mi presentò addirittura suo padre. Andai nel loro albergo di Parigi, il Ritz, ma a me importava di più il mio lavoro: ho preso queste storie come avventure che arricchivano la mia vita. A Stavros Niarchos ho detto no: capii che sarei stata uno sfizio». […]

Dagospia il 2 luglio 2023. Da “I Lunatici” - Radio2

Lory Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai2 tra l'1.20 e le 2.30 circa. 

Lory Del Santo ha parlato un po' di se: "Sono in un momento per me buono, perché ho la sensazione di aver passato quelle fasi della vita in cui dovevo essere sempre in tensione per la carriera, il successo, il lavoro. Ora sono in pensione intellettuale". 

Sull'importanza del sesso alla sua età: "Faccio ancora l'amore, certo. Il mio compagno ha trent'anni, non posso metterlo in astinenza, è anche giusto concedergli quello che si merita. Poi lo voglio anche io. Una volta ero una cacciatrice di uomini, mi piaceva conquistare. Poi a una certa età viene la pigrizia, ma fare l'amore è sempre bello ed è giusto farlo. Finché si può facciamolo".

Sul suo periodo da cacciatrice di uomini: "Ho scoperto di avere questa indole da giovanissima. Mi bastava passeggiare in un centro per fare impazzire tutti. Era incredibile, all'inizio pensavo fosse una cosa magica. Era come essere alle giostre, meraviglioso. La bellezza la devi anche gestire, mantenere, puoi averla e perderla in un attimo. Se hai un patrimonio lo devi curare".

Sugli hater che sui social la accusano di essersi ritoccata troppo: "MI hanno detto che mi sono rifatta il naso! Mai vero, lo dico ufficialmente, qualcuno ha mai visto il contrario? Il naso è l'unica cosa perfetta che ho. Scrivere cose così è assurdo, si inventino altre cose. La mia unica risposta a queste cose è invitare anche la gente che critica a usare la chirurgia e i filtri: tu puoi fare tutto quello che vuoi ma se non hai una base che regge non serve a niente.

Io posso anche mettere i filtri, se vengo bene vengo bene. Di certo comunque non mi sono rifatta il naso. Gli hater sono delle persone un po' frustrate che vedono sempre che gli altri riescono in quello in cui loro falliscono. Io i loro messaggi non li cancello neanche, mi fanno ridere". 

Ancora sui social: "Tante persone mi corteggiano, tante persone mi fanno proposte indecenti. C'è anche chi mi offre cene o soldi. Mi corteggiano molti giovanissimi".  Sugli uomini di oggi: "Sono in confusione, l'uomo di un certo tipo sembra essere scomparso, forse perché molte donne non lo vogliono. Hanno difficoltà a corteggiare, non sanno cosa fare".

Lory Del Santo e il figlio che si tolse la vita per l’anedonia: «Una malattia che gli impediva di provare emozioni». Storia di Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2023.

Lory Del Santo ha parlato a “Verissimo” della sua vita privata e famigliare e ha raccontato a Silvia Toffanin come sia riuscita a superare il dolore della perdita di tre figli, Conor Clapton- precipitato a quattro anni da un grattacielo a New York, Loren- che si è tolto la vita nel 2018 -, un bimbo avuto negli anni’90, nato prematuro, che ha perso a due settimane dalla nascita. “Prima di andare a dormire guardo sempre un film, perché devo costringermi a crollare dal sonno, altrimenti se chiudo gli occhi mi riaffiorano i ricordi, ogni istante”, dice Lory Del Santo in tv.

Loren

E un pensiero speciale va al figlio Loren, affetto di anedonia si tolse la vita quattro anni fa: “Una malattia che gli bloccava le emozioni, gli impediva di essere felice, ma anche infelice. A causa di questa malattia era un po’ difficile da avvicinare a livello emotivo, ma sono sicura che mi volesse bene”. Infine il pensiero verso il figlio, pieno di emozione, anche a livello caratteriale: “Loren era molto buono, era una persona meravigliosa, non lo dimenticherò mai”, ha concluso la showgirl.

Luc Besson: «Il politicamente corretto non lo capisco, l’artista dovrebbe avere libertà assoluta. Non uccidiamo nessuno». Alla vigilia dell’uscita di “Dogman”, il grande regista francese riflette sulle follie di questo tempo, sulla libertà, sul privilegio di poter essere sé stessi. E sull’arte, che può ancora salvare l’uomo. Claudia Catalli su L'Espresso il 12 Ottobre 2023

Da quando ha sedici anni si sveglia ogni mattina alle quattro e mezza per scrivere e ha saputo trasformare questa sua passione in una carriera longeva e duratura. Con il suo nuovo film "Dogman" - applaudito ma non premiato alla 80ma Mostra del Cinema di Venezia e dal 12 ottobre nelle sale italiane – il cineasta francese Luc Besson, 64 anni, riflette sulle incrinature della contemporaneità, raccontando la storia di un ragazzo incompreso. Dopo essere stato imprigionato in una gabbia per cani da piccolo, sceglie di dividere con i cani la propria vita colma di sofferenza, ai margini della società. 

Perché ha scelto di raccontare la storia di un underdog, reietto e respinto dagli altri?

«Ogni società finge di essere democratica, aperta, inclusiva. La realtà non è così, e i “diversi” vengono marginalizzati ovunque. Alcuni si riconoscono tra loro e si tendono la mano. Io sono cresciuto in una famiglia di donne, mia madre e mia nonna mi hanno insegnato a vedere la diversità come una ricchezza: dovremmo ricordarcelo più spesso, e ricordarlo a chi lo dimentica». 

Nel film i cani sono migliori degli umani…

«Viviamo un momento molto strano, tra guerre, razzismi, follie, egoismi: la specie umana sta toccando il fondo. Non so come potremmo cambiare le cose. Viviamo per lo più isolati e coltiviamo il nostro orticello, governati da persone che guardano i propri interessi. E così facciamo noi, ascoltiamo le peggiori notizie al mondo dicendoci “Io sto bene” e pensando solo a noi. È assurdo, siamo informati su tutto, abbiamo miliardi di notizie al giorno, eppure non facciamo altro che scattare foto a noi stessi. Non lo capisco. Sarò antico, ma quando passeggio io ancora guardo gli alberi, i cani, le persone». 

È dall’incomprensione che nasce la voglia di raccontare l’emarginazione?

«Un artista è una spugna che assorbe le sensazioni del mondo. Ho visto tanta sofferenza, specie durante la pandemia, che ha contagiato tutto: il modo di stare al mondo, di viaggiare, di interagire con gli altri. Volevo parlare di questo dolore. E “dolore” è l’ultima parola del film». 

Qualcosa che ci riguarda.

«Abbiamo tutti perso qualcosa, un cane, una persona cara, un lavoro. Il punto è come reagiamo al dolore: diventiamo migliori o peggiori? Era interessante raccontare la storia di chi si assume il peso del suo dolore e prova comunque ad essere una brava persona. È questo il messaggio». 

La storia è tratta da un articolo di giornale. Ha capito da dove nasce la violenza verso chi non si conforma alla società?

«Il mondo è pieno di violenza perché la gente muore di fame. La violenza è figlia della miseria, ne è la diretta e orribile conseguenza. Quando tocchi con mano questa miseria capisci perché la gente faccia cose folli. Perché le famiglie oggi impazziscono? Se pensiamo che negli Stati Uniti sono arrivati persino a proibire gli aborti c’è da rabbrividire. Ma non sono un politico, sono un artista, cerco di stimolare il pensiero della gente rappresentando ciò che vedo». 

Qual è oggi il ruolo di un artista?

«Senza arte siamo persi. Tre milioni di anni fa c’era un tipo che faceva un disegno sulle grotte: il mondo intero è partito da lì, prima dell’economia, della religione e della politica. Il legame tra le persone è ancora basato sull’arte, i libri, la musica, il cinema: è questo che ci ricorda che non siamo poi così distanti gli uni dagli altri. Mai come oggi gli artisti sono fondamentali per ricordarci che i soldi non salveranno nessuno, un buon film, una bella mostra sì». 

Cosa pensa del “politicamente corretto”?

«Non lo capisco, l’artista dovrebbe vivere di una libertà assoluta, dire e fare ciò che vuole. E varcare i confini spalancando le menti. Siamo artisti, non uccidiamo nessuno». 

Lei oggi si sente libero?

«Benedico la libertà che ho di poter scrivere tutto ciò che voglio». 

Come ha fatto a dirigere i cani sul set?

«Passando un’ora al giorno con loro e col protagonista, Caleb Landry Jones, un talento che mi ricorda Gary Oldman».

Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per lastampa.it il 22 maggio 2023.

L’accento francese, ancora spiccato, colorisce termini di puro romanesco, la parolaccia è facile e il pelo sulla lingua inesistente. Ora che ha i capelli bianchi e il fisico asciutto da ragazzo, Luc Merenda, nato a Nogent-le -Roy nel ’43, si sente ancora più libero di quanto sia sempre stato: spara a zero su chi non gli va a genio, descrive battibecchi cruciali che hanno segnato la sua carriera, parla, con un sorriso, di quel suo amore per l’Italia, il Paese dove, tra mille avventure, ha scelto di vivere: «Sono arrivato a Roma su una barca di 14 metri, navigando sul Tevere, nel ’65, con mio padre. Ho visto le Terme di Caracalla, e poi Castel Sant’Angelo, mi sono detto “questo è il mio Paese”, è stato amore a prima vista». 

(...)«Anche se a dirigerti ci sono registi bravissimi – racconta durante le riprese di Pretendo l’inferno, il documentario ideato con Steve Della Casa, diretto da Eugenio Ercolani -, non puoi fare più di cinquanta film dello stesso tipo. Ho smesso prima del tempo, è vero, avrei potuto continuare per un bel po’, il mio produttore mi ripeteva “ma dai, girane un altro, ti fai la casa in campagna, gli ho risposto che piuttosto mi sarei suicidato, avevo deciso, ed ero pronto a morire di fame pur di non tornare sui miei passi». 

(...)

A Roma, nei turbolenti Anni 70, Merenda viveva alla sua maniera, evitando i locali alla moda - «non sono mai andato a ballare al Jackie’O» -, incrociando altre star come Alain Delon e pronunciando altri no: «I miei film cominciavano ad avere successo, mi dissero che avrei dovuto cambiare cognome. Avevano mandato le mie foto a una famosa press agent, bravissima, Carol Levi, e lei aveva detto “la faccia è interessante, ma il nome non va”. Per me, dopo una frase del genere, la collaborazione era chiusa». Su Delon stessa fermezza: «È l’antitesi di tutto quello che amo. Adesso va ripetendo che vuole suicidarsi, farebbe bene, visto il male che ha provocato a tante persone. Non mi è mai piaciuto, era uno che andava dai critici a chiedere se avevano gradito il suo film. Bravo, sicuramente, ma con i colleghi si comportava malissimo». 

Mediare non è mai stata la specialità di Luc Merenda, figuriamoci in quell’epoca, dove i contrasti esplodevano ogni giorno, in ogni forma: «Il nostro cinema era imbevuto di attualità, vivevo sospeso tra la realtà quotidiana e quella dei set dove recitavo. Volevamo essere testimoni del tempo, trasferire la cronaca nelle nostre storie, con la speranza che tutto sarebbe cambiato in meglio. Oggi mi viene il dubbio che non sia cambiato proprio niente». Il ricordo più vivido riguarda Italia.

Ultimo atto?, regia di Massimo Pirri, storia di un gruppo terroristico che si prepara a compiere un pericoloso atto militare a Roma: «L’avevamo girato un anno prima del rapimento Moro. Ricordo di aver provato, allora, una grande tristezza, per Moro, che di lì a poco avrebbe scoperto la qualità dei suoi amici politici, e per la sua famiglia che si è comportata in maniera divina». 

Nel documentario girato lo scorso novembre, Merenda fa autocoscienza alla sua maniera, tra una risata e un colpo basso: «L’incontro fondamentale della mia vita? Mia madre, la prima che ho incontrato, quando mi ha partorito».

DAGONEWS mercoledì 4 ottobre 2023.

Ottanta voglia di Merenda! L’attore simbolo dei “poliziotteschi” italiani ha compiuto ottant’anni e ha deciso di festeggiare ieri sera al Cambio, a Trastevere, insieme agli amici di una vita. 

Nato il 3 settembre del 1943 a pochi chilometri da Parigi, ma cresciuto in Marocco, Luc Merenda era già famoso negli Stati Uniti come modello (. In Italia divenne, il volto dell’eroe al servizio della legge, del poliziotto senza paura, grazia alla sua bellezza e al fisico atletico, scolpito da anni di paracadutismo e sport da combattimento. Fu quasi un caso: era il 1971 e Luc era in vacanza a Roma, e si presentò per diletto a un provino.

Due anni dopo, si fece notare dal grande pubblico nel 1973 con il film "Milano Trema: la polizia vuole giustizia" di Sergio Martino (col quale aveva già girato una pellicola: il regista era presente alla festa per l'ottantesimo compleanno), e da quel momento il suo volto divenne un'icona del genere. 

Negli anni successivi i ruoli si moltiplicarono: "La città gioca d’azzardo"; "La polizia accusa, il servizio segreto uccide", "Il poliziotto è marcio" (nel quale interpretò la parte di un corrotto). Film stracult ma non "facili”, considerando il periodo: l’Italia era attraversata dal terrorismo, dai cortei, da una rivoluzione sociale strisciante. Come disse lui stesso in un’intervista del 2019: “Altro che filmetti, erano opere politiche”

Merenda recitò a fianco di attori come Alain Delon, Jacques Brel, Steve McQueen. E all'inizio degli anni Ottanta lasciò il testimone a Tomas Milian, rifiutando oltretutto il ruolo di Sandokan per il quale, alla fine, fu scelto Kabir Bedi. 

Negli anni successivi le sue apparizioni si fecero più sporadiche, finché non decise di abbandonare del tutto il cinema. Ma non ha rimpianti: celebrato anche a Locarno con un incontro moderato dal critico Steve Della Casa, afferma che l'unica sua vera passione è vivere.

Tanti gli amici che si sono raccolti intorno a lui per festeggiare i suoi 80 anni, ieri 3 ottobre al Cambio a Trastevere: il direttore del Torino Film Festival Steve Della Casa, il grande regista Sergio Martino che lo diresse in “Milano trema”, “La città gioca d’azzardo”, “I corpi presentano tracce di violenza carnale”, fino al cantautore Daniele Silvestri (Luc era grande amico dei genitori e lo conosce fin da quando era in fasce), il nostro critico cinematografico, Marco Giusti, suo grande estimatore, il direttore di Radio Tre Andrea Montanari, Laura Pranzetti Lombardini, dei Galateo su Canale 5, Francesca Levi, curatrice della trasmissione di Radio3 Hollywood Party, e infine Luciano Carlino, detto anche (da Steve della Casa), il “falso Ozpetek”, per l’evidente somiglianza con il regista. 

Luigi Mascheroni per il Giornale il 18 marzo 2029.

Una carriera dietro le spalle che continua a passargli davanti agli occhi, una vita da splendido 75enne e una filmografia lunga 40 titoli, una nuova casa con terrazza sulla laguna di Ville de Sète, 30 km da Montpellier («L'ho acquistata da 15 giorni, ho venduto il casale del '700 che avevo fuori Parigi, che sarà pure Parigi, ma volevo il mare, il sole e le ostriche di Bouzigues...»), una moglie (molto gelosa), una figlia di 33 anni («Si chiama Divina. 

Macché attrice... Ha 185 di quoziente intellettivo. Significa che rompe i coglioni a tutti, nessuno è mai alla sua altezza, io volevo lavorasse nella finanza, lei ha scelto il bio, e ha fatto bene: produce succhi di frutta e verdura straordinari»), e un viso icona. Titoli di testa: Luc Merenda. Sparatorie, inseguimenti, belle donne, commissariati e drammi morbosi.

Scorrevano gli anni Settanta. Quando l'Italia produceva 350 film all'anno ed era la seconda cinematografia occidentale dopo gli Stati Uniti. Gli effetti speciali erano scarsi ma avevamo gli stuntman migliori del mondo. E trionfava il cinema di genere. A Milano c'erano ancora i barconi di sabbia sui Navigli, si parcheggiava in piazza Duomo (che meraviglia!), la polizia aveva la Giulia verde e il poliziottesco virava tra il giallo e il rosso. Inchieste, night e Soleil rouge. 

Il B.A. Film Festival la premierà come «eroe del cinema popolare italiano».

«Gli eroi veri non fanno cinema. I filosofi che condannano le guerre, i generali che cercano di renderle meno sanguinose e i politici che provano a evitarle. Ma ormai i politici sembrano servire poco, sia lì in Italia sia qui in Francia».

Lei è francese, Nogent-le-Roi, valle della Loira. Di nonno italiano.

«Svizzero italiano, Lugano. Ma io da piccolo ho seguito i miei genitori in Marocco: Agadir. Sono rimasto 13 anni e quando sono tornato a Parigi mi sentivo a disagio. Io, selvaggio cresciuto per strada e in spiaggia, parlavo con l'accento dei pied-noir. I miei compagni mi dicevano: Sei arabo?. E io li menavo». 

Si preparava ai film d'azione...

«Mentre studiavo alle scuole superiori mi sono appassionato di paracadutismo, moto e savate, la boxe francese. Era un periodo strano...».

Era maggio, del '68.

«Ho visto gli studenti manifestare. All'inizio erano ragazzi ribelli, ma dopo pochi giorni erano già diventati solo gente che tirava sanpietrini. Casseurs... Come dite voi? Teppisti... Cinquant'anni dopo è la stessa cosa. Li vede i gilet jaune? All'inizio cittadini arrabbiati che chiedono il minimo sindacale, una cosa legittima visto che in Francia ci sono 10 milioni di persone che vivono con mille-1200 euro al mese. Poi si sono trasformati in vandali. Non cambia niente. I meccanismi sono gli stessi. Si parte da una giusta rivendicazione e si finisce con la violenza». 

Lei dove finì?

«In America. Mi dissi: Questo Paese del cazzo non mi piace. Vendetti l'Honda S800 Coupé e comprai il biglietto per New York. L'idea era frequentare un master alla Columbia University, ma non avevo molta voglia di studiare. Ho fatto mille lavori senza soddisfazioni, tra cui cameriere in un locale per i minchioni del cinema e della moda, e una sera, in mezzo a donne bellissime che neanche mi guardavano, trovo una bimba che mi chiede: Perché non fai il fotomodello?. A me sembrava una cosa da frocio...».

Non siamo più negli anni '70... Ieri sera ho rivisto Il poliziotto è marcio. Lei dopo aver sparato a una banda di rapinatori dice: «Erano quattro terroni morti di fame».

«Je comprends... Volevo dire effeminato... Comunque, mi pagavano bene e così iniziai, le mie foto finirono su After dark, una famosa rivista per gay, e dopo mi pagarono ancora meglio. Però non riuscivo a ottenere la green card. È il 1970, e torno in Francia». 

E lì gira OSS 117. Cos'è?

«Un James Bond dei poveri. Girato in Brasile. Ma almeno ero la star».

Poi arrivano i film importanti.

«Ma non da protagonista. Le 24 Ore di Le Mans con Steve McQueen, e Sole rosso con Charles Bronson, Toshiro Mifune, Alain Delon, Ursula Andress... in Francia non andavo da nessuna parte». 

E arriva in Italia.

«Roma, 1971. Capisco subito che è il mio Paese. Mi sento a casa: la gente, i colori, tutto. In 12 anni sono tornato in Francia solo per i funerali di mio padre».

Con Maurizio Merli diventa l'icona del poliziottesco. Titoli cult.

«Milano trema. Il poliziotto è marcio. La città gioca d'azzardo... Tutti fra il '73 e il '75».

Tutti girati da Sergio Martino o da Fernando Di Leo.

«Martino bravissimo, pariolino, una grande voglia di fare generi diversi, e infatti alla fine ci è riuscito. Di Leo uomo del Sud, sensibilità enorme. Sergio voleva sembrare forte, Fernando lo era». 

I vostri film sembravano intrattenimento, invece erano politici e anticonformisti. Corruzione, potere, mafia...

«Infatti poi li hanno rivalutati. Quando li giravo pensavo di essere un ladro: mi appropriavo dei soggetti che gli altri rifiutavano. La polizia accusa parlava dei servizi deviati: nel 1975. Ha presente? Anni di piombo, strategia della tensione... Il poliziotto è marcio è la storia di un commissario corrotto, ed ebbe guai con la distribuzione. E in Italia: ultimo atto?, di Massimo Pirri, un gruppo di terroristi fa una strage per uccidere il ministro dell'Interno. Uscì nel '77, pochi mesi prima del sequestro Moro. Lo sceneggiatore era un genio».

O uno vicino alle Br.

«È che all'epoca non piacevano a tutti quei film».

A Lei piaceva girarli?

«A un certo punto avrei preferito fare il regista. È che volevo cambiare... Maurizio Merli fece trenta film identici, io mi sono sforzato di fare altro. Martino mi diceva: Sei ricco, conosciuto... Cosa vuoi di più? Continua a fare il commissario».

Risposta?

«Gli dicevo che se avessi voluto fare il commissario tutta la vita, sarei entrato in polizia». 

Rifiutò di fare Er Monnezza.

«Lessi il soggetto. Due pagine. Troppo trash. Dissi no, e feci la fortuna di Tomas Milian».

E passò alla commedia: ha lavorato con...

«Enrico Maria Salerno, Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi... forse il più grande. Uno che passava dal dramma al comico sempre a livelli altissimi. Un gigante».

I film erano un po' piccini.

«Ma no... Facevano grandi incassi, non erano così male, anche se la critica li snobbava». 

Il pubblico li adorava. C'erano sempre belle donne.

«Ursula Andress era molto naturale, non presuntuosa, cosa rara nel giro. La Fenech invece ha dimostrato di essere una grande produttrice, donna d'affari, cosa che nessuno avrebbe immaginato. Poi Ornella Muti. Strafiga. Deliziosa e forse ingenua. E Dayle Haddon, bellezza assoluta: non era nata per avere a che fare con questi animaletti selvaggi che bazzicano il cinema, un mondo in cui il talento migliore spesso è la cattiveria».

A volte lo è solo la bellezza. Anche per gli uomini. Per Lei?

«Essere belli a volte è utile, altre meno. Ho perso molti film perché il regista non voleva un altro maschio alfa sul set».

Ci ritornerebbe? Sul set, dico.

«In Francia ho fatto una serie tv in 26 puntate, molto popolare». 

Nel cinema intendo.

«... dovrei trovare un regista che rispetto, e un copione che mi piace».

Tarantino ha detto che Lei è uno degli attori che gli ha fatto venire la voglia di fare cinema.

«Ecco, se mi chiama lui sì».

Se no?

«Resto in terrazza a prendere il sole». 

Stefano Della Casa per “la Stampa” il 26 maggio 2020.

In tempi di coronavirus, la tv generalista ha prodotto un divismo inaspettato. Secondo chi monitora i canali tematici in chiaro, due attori hanno dominatola primavera: Edwige Fenech, che ha risvegliato vecchie passioni e trovato nuovi fan, e Luc Merenda. 

Il bel francese, arrivato nei primi Anni 70 in Italia dopo una carriera nelle arti marziali, se la ride da Montpellier dove vive adesso: «Di nuovo divo? Beh, meglio tardi che mai, ma fa sempre piacere. In fin dei conti ero arrivato in Italia dopo un film con Alain Delon ( Sole rosso, ndr.) che non mi era piaciuto, così come non mi era stato troppo simpatico Delon. Qui ho iniziato con un western diretto e interpretato da uno stuntman, Alfio Caltabiano, che mi scelse perché sapevo cadere come lui, mi considerava un fratello minore».

Poi è diventato poliziotto

«Sì, e questo è dovuto soprattutto a quel genio di Luciano Martino, il produttore che era il compagno proprio della Fenech. Lui faceva dei polizieschi che mi piacevano perchè erano duri e raccontavano l' Italia di quegli anni. La polizia accusa: il servizio segreto uccide è il primo film in cui si parla di golpisti nei servizi segreti: e come sappiamo forse quella fu la piaga più tremenda del vostro paese in quegli anni». 

Lei non andava troppo per il sottile, nella scelta dei ruoli.

«Mi piacevano i film in cui si raccontava quello che leggevo sui giornali. La città è sconvolta, ad esempio, parla dei rapimenti di bambini e di come le loro famiglie, a volte, ci speculassero. Il poliziotto è marcio racconta un poliziotto corrotto. È di Fernando Di Leo, altro grande amico: il titolo creò tanti problemi al film ma lui non volle cambiarlo e io ero d' accordo. Italia ultimo atto, un anno prima del rapimento Moro racconta di un gruppo di estremisti che rapisce un ministro e causa un colpo di stato. Un film duro, disturbante. Mi piacevano quei film, mi sembrava un modo per dire a tutti: attenti, l' Italia è un bellissimo paese ma è pieno di contraddizioni. Se si tira troppo la corda può succedere di tutto ». 

Quando la stagione del poliziesco è finita ha iniziato a fare altro.

«Se vuoi essere un attore non devi essere prigioniero di un ruolo. Così quando Tinto Brass mi propose Action! storia di un attore che vuole cambiare e si trova nelle mani di un regista di film hard, non ho esitato. Brass era un grande intellettuale, un genio, ma aveva avuto un sacco di problemi con Caligola, che gli fu sottratto dal produttore americano Bob Guccione, e aveva deciso di prodursi da solo: quel film è venuto fuori sgangherato ma con dei momenti fortissimi: Alberto Lupo che dice un sacco di parolacce, Adriana Asti benzinaia ninfomane... Poteva essere un film memorabile, ma forse Brass ha esagerato». 

E poi la commedia.

«I film più belli sono quelli con Paolo Villaggio, un talento straordinario anche se una persona spigolosa. In Superfantozzi appaio in varie epoche come avversario del povero Fantozzi e Neri Parenti, il regista, mi diceva con grande precisione quello che dovevo fare. In I pompieri faccio il comandante del glorioso corpo dei pompieri canadesi e mi presento con la bandiera degli Stati Uniti Va beh, sono dettagli, il regista Capitani diceva che lo spettatore di quei film non si domandava se le bandiere fossero giuste e aveva ragione di certo lui». 

Un film meno noto che ricorda con piacere?

«Duri a morire di Joe D' Amato che poi diventerà il regista di porno più famoso d' Italia. Ero un mercenario che litiga con altri mercenari. Giravamo a Santo Domingo, un posto bellissimo ma se la produzione non ha soldi può diventare un incubo. Mai visti tanti insetti, il soffitto della mia stanza era uno spettacolo da entomologo». 

Perchè ha smesso?

«Io sono un orso, non mi piaceva frequentare i colleghi, non facevo vita mondana. A un certo punto mi sono stufato, ho voluto cambiare vita, sono diventano antiquario. Però quando Eli Roth, uno dei migliori registi della nuova Hollywood, mi ha proposto un cameo nel suo Hostel ho accettato subito. E quando torno in Italia, mi fanno sempre un sacco di feste. Mara Venier, che ho incontrato per caso quest' inverno a Roma durante il premio Afrodite, mi ha abbracciato e baciato con lo stesso affetto che aveva per me nel 1976 quando giravamo con Ugo Tognazzi Cattivi pensieri. A proposito, in quel film c' eravamo sia io sia la Fenech. In tv potrebbe davvero fare il botto». 

Luca Pallanch per "la Verità" il 17 giugno 2018

Luc Merenda, l' idolo delle donne negli anni di piombo, è tornato in Italia per presentare la sua autobiografia, La mia vita a briglie sciolte (a cura di Marina Crescenti, edizione Bloodbuster). 

Una vita avventurosa, in una famiglia bizzarra, ispirata dai sogni del padre, un architetto di Lugano di nobili origini, che dopo aver fatto furori ad Agadir aveva comprato un monastero in Provenza. Amava i film americani il padre e Luc, come in un film hollywoodiano, si ritrovò a New York a fare il cameriere, ma era troppo bello per servire ai tavoli e troppo virile per ridursi al ruolo di fotomodello. Sfonderà nel cinema, ma la sua Hollywood la troverà a Cinecittà.

Con il suo inconfondibile accento francese e una classe innata, Luc, per nulla sfiorato dai suoi 74 anni, si gode il ritorno nella sua patria d' adozione, che lo accolse a braccia aperte agli inizi degli anni Settanta. 

Il tuo arrivo a Roma è stato trionfale...

«Il mio patrigno pensava di poter entrare a Roma via mare, la gente ci salutava sulle sponde del Tevere, ma mica ci hanno avvertito che il fiume non era navigabile. 

Ci siamo incagliati e siamo stati costretti a prendere un taxi! Quando sono arrivato a Roma, ho capito che questo è il posto dove volevo stare».

Il tuo primo film italiano è stato un western, Così sia, diretto dall' attore e maestro d' armi Alfio Caltabiano.

«L' ho incontrato nell' ufficio del produttore Turi Vasile. Un personaggio stupendo, intelligente e colto. Avevano detto a Caltabiano che avevo fatto la savate, la boxe francese. 

Allora lui si alza e mi dice: "Com' è la savate?". «Sono le battaglie di strada". "Dai, fammi vedere...". "No, tu sei un bel regista!". Non volevo fargli male. 

Ma lui insisteva, allora mi sono girato e gli ho tirato un rovescio... era così alto che invece di colpire la testa, ho preso il suo gomito! Ha detto a Vasile: "Scelto" e così mi hanno preso per Così sia».

Eri venuto in Italia con altre ambizioni.

«Quando sono arrivato in Italia, la mia agente, che lo era anche della Bardot, mi ha fatto una lista di cinque registi che valeva assolutamente la pena di avvicinare: Visconti, Bolognini, Patroni Griffi, Pasolini, Zeffirelli. Ho cominciato a riflettere e mi sono reso conto che erano cinque grandi registi omosessuali.

Le ho telefonato e le detto: "C' è un messaggio che non ho capito?". Li ho incontrati tutti, ma non ho avuto la fortuna di lavorare con loro». 

In Francia avevi già lavorato con grandi registi.

«Avevo già fatto qualche film, in particolare Inchiesta su un delitto della polizia di Marcel Carné, con il cantante Jacques Brel. 

Aveva un carisma incredibile: siamo andati in un night a Aix-en-Provence, dopo mezz' ora hanno tolto la musica e Brel ha tenuto tutta la notte 3-400 persone ad ascoltare racconti sulla sua carriera».

La polizia era nel tuo destino...

«In realtà ho cercato sempre di uscire dal cliché del commissario. Non volevo fare sempre lo stesso film. Altri attori hanno interpretato sempre lo stesso tipo di poliziotto. 

Luciano Martino, che ha ne prodotti alcuni, mi consigliava di prendere i soldi e continuare a girare film polizieschi. Io gli ho risposto: "Se volevo entrare nella polizia, l' avrei già fatto!". Era un grande personaggio Luciano. 

Diceva: "Io faccio sempre film brutti, ma li faccio uscire al momento giusto!". Questo era il suo segreto». 

Sei stato forse il primo a interpretare un commissario totalmente negativo, in Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo.

«Sono stato contentissimo di fare questo film per dimostrare che ci si poteva opporre ai corrotti, soprattutto a quelli che, detenendo un potere, possono fare danni gravissimi. Di Leo era eccezionale: era un uomo generoso e aveva contatti con tutti gli strati sociali. Era un osservatore: vedeva, digeriva e scriveva». 

Tomas Milian, che è stato un tuo alter ego negli anni Settanta, era l' idolo dei balordi. Tu piacevi di più ai trucidi o agli sbirri?

«A tutti: Regina Coeli, borgatari e pariolini! E piacevo sia agli uomini che alle donne. Avevo la fortuna di avere un pubblico larghissimo». 

Quando hai incontrato per la prima volta Tomas Milian?

«Sul set di La polizia accusa: il servizio segreto uccide di Sergio Martino. Sergio mi disse che Tomas attraversava un difficile momento personale e mi chiese di essere gentile con lui. 

E io: "Mai mangiato un cubano a colazione!". Si sentiva che non era una persona facile: quando tentavo di entrare in comunicazione con lui, chiudeva le tende. 

Ci ho provato tante volte, poi a un certo punto gli ho detto: "Tomas, mi sembri un tipo eccezionale, però visto che non sei interessato ad avere uno scambio, ti auguro tanto successo, come hai avuto finora"». 

Vi contendevate i ruoli...

«Dovevo interpretare io Er Monnezza. Il produttore Galliano Juso era molto bravo a raccontare le storie e aveva idee geniali. Mi propose la parte. "Chi è il regista?". "Umberto Lenzi...".

L' avevo solo sentito nominare. Chiesi allora di vedere un film, ma non mi piacque. Non c' era ancora un copione, per cui decisi di non farlo. Galliano, che ho rivisto con piacere dopo molti anni, dovrebbe ringraziarmi: ho rifiutato di farlo e il personaggio è stato portato al successo da Tomas Milian! 

Ma non avrei mai potuto farlo come lui. A Tomas piaceva travestirsi, perdeva i capelli, quindi si metteva le parrucche... io invece alla mia età ho ancora i capelli!».

Hai diviso il set con altri personaggi sopra le righe. Su tutti, il pugile Carlos Monzon.

«Giravamo a Trani Il conto è chiuso di Stelvio Massi. Monzon, una sera, si scocciò e disse: «Andiamo tutti a ballare!». Allontanò la sua bellissima compagna Susana Giménez e noi pensammo "che maschilista!".

Al ritorno in albergo era ubriaco, noi reggevamo meglio l' alcol; forse lui, come atleta, non era abituato. Danilo, il figlio di Massi, mi disse che voleva parlarmi di un suo soggetto per un nuovo film e ci ritirammo in camera. 

Dopo un po' sentimmo delle urla terribili. Era Susana. Chiunque senta delle urla di una donna si precipita, se invece è un uomo a gridare, corre meno veloce! 

Esco nel corridoio e vedo Susana nuda e Monzon che la picchia: lei era come un birillo sotto i suoi colpi. Torno in camera, prendo una sedia, così posso colpirlo di spalle, ma Danilo mi ferma: "Datti una calmata, non sono affari tuoi". Mi ha salvato la vita!». 

Quando non beveva com' era?

«Ho sempre pensato che fosse meglio incontrarlo su un ring con un arbitro! Avevo soprannominata Susana "la ragazza senza..." perché nessuno della troupe osava guardarla. 

Io, invece, quando la incontravo la salutavo affettuosamente e mi aspettavo sempre di prendere una botta in testa da Monzon!». 

Non accettavi di farti rubare la scena...

«Ho avuto problemi solo con Steve McQueen, con cui ho lavorato in Le 24 ore di Le Mans, e con Alain Delon, con cui ho fatto Sole rosso.

Erano dei gran figli di... lo dico con dolcezza! I piloti erano costretti a far passare McQueen a Le Mans perché lui non sopportava di stare dietro di loro. 

Mentre per colpa di Delon mi avevano rifiutato la parte per Sole rosso, poi sono riuscito a ottenerla lo stesso e il regista Terence Young, dopo dieci giorni di riprese, mi ha detto: "Capisci perché ti avevo rifiutato? Potevi fare solo la parte di Delon, non potevo metterti accanto a lui". O io o lui! 

Ho lavorato con molti grandi attori senza problemi, Richard Conte, Lee J. Cobb, Mel Ferrer. Invitavano ad andare nella loro roulotte chi non ce l' aveva. 

Prova ad andare nella roulotte di Delon... Giravamo in Spagna e lui passava con la Limousine a tutta velocità, mentre noi avvolti dalla polvere aspettavamo l' autobus!

Anche alcuni attori italiani erano sublimi: Enrico Maria Salerno, Gabriele Ferzetti, Ugo Tognazzi, che però aveva solo un pensiero in testa... e infatti mi propose di fare Cattivi pensieri, che doveva dirigere. 

Mi disse che avrebbe preso come amanti Fabio Testi, Franco Nero, Tomas Milian e io gli risposi: "Guarda, non sono un indovino, ma non avrai nessun altro, oltre a me" e infatti l' anno dopo lo feci solo io. 

Nel libro parlo degli stronzi che ho conosciuto, ma solo perché c' è meno possibilità di fare dell' humour sulle persone che ami!».

Nella tua terza o quarta vita hai fatto l' antiquario, con grande successo. Un ricordo della tua attività?

«È legato sempre al cinema. Giravamo un film a Portofino, L' uomo senza memoria di Duccio Tessari. Abbiamo girato nella villa di Leopoldo Pirelli. Anni dopo, in Francia, abbiamo organizzato una mostra di antiquariato con mia moglie e un giorno è arrivata una persona che puzzava di classe e mi ha comprato dei templi cinesi dell' Ottocento. Mi ha firmato un assegno, ho guardato il nome: Leopoldo Pirelli! E io: "Come Goodyear?". Lui ha riso. Ci siamo visti varie volte.

Prima di morire, è arrivato da Milano con il suo aereo personale, attaccato alle bombole di ossigeno, per salutarci!

 Ha visto la mia casa e mi ha detto: "Se ci fossimo conosciuti prima, ti avrei chiesto di decorare le mie case in Sardegna". Che stile!».

Luca Argentero: «Mia moglie Cristina si è innamorata di me aprendo il frigo. L'ultimo sfondone? Sui social». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera di lunedì 30 ottobre 2023.

L’attore: «Il mio prossimo obiettivo? Scalare il Monte Bianco». L’amore: «Incontrai Cristina a Santo Domingo, per girare Vacanze ai Caraibi. Era sotto una palma, bellissima. Dopo pochissimo ho capito che era la persona giusta»

Alle medie era «un nerd con i baffetti e i brufoletti, cicciottello».

«Come tutti i maschi di quell’età. Brufoli pochi, però sì, ero un po’ in carne e con un taglio sfigato di capelli».

A scodella?

«Da bravo ragazzo. Un imbranato, certo non il capoclasse. Poi, come spesso succede, arriva quella famosa estate in cui parti per le vacanze e torni più alto di dieci centimetri e con qualche muscolo che prima non c’era».

E le ragazzine che prima la snobbavano…

«Hanno fatto in tempo a cambiare idea. Sono diventato più intraprendente e meno timido. E ho recuperato», ride il diversamente figo («Ranocchio? Beh, non esageriamo») diventato Luca Argentero , 45 anni ed ex tante cose: modello, gieffino, carabiniere per fiction, Iena, giurato di talent. Quindi apprezzato attore di cinema e tv, che con Doc-Nelle tue mani (terza serie a gennaio) è al momento il medico più amato dagli italiani — sì anche — e dalle italiane — quello sicuro.

Campioncino di tennis.

«Ero bravo, mi allenavo ogni giorno, facevo tornei, avevo delle velleità. Poi intorno ai 15 anni non ho raggiunto il livello necessario per proseguire e il mio maestro, saggio, mi disse la verità. Sono cresciuto con il mito di Agassi, mi vestivo come lui, con degli agghiaccianti scaldamuscoli fucsia che mi sembravano favolosi».

Famiglia di alpinisti.

«Mio zio guida alpina, come il nonno, papà maestro di sci, non ho grandi imprese da raccontare, però, tra gli oltre 4 mila metri ho scalato il Gran Paradiso e il Monte Rosa, mi mancano il Bianco e il Cervino, prima o poi li affronterò».

Che si prova a stare lassù?

«L’altezza la senti, diventa come un mantra, un modo per mandare via i pensieri che affollano la mente, buttando via quello che non serve. Tutto diventa più chiaro, la nebbia svanisce».

Faticosissimo.

«Camminare per 12, 13 ore, passo dopo passo, partendo alle 3 del mattino, è un esercizio simile alla meditazione, ti consente di entrare in connessione con te stesso».

Perché alle tre?

«Perché è necessario arrivare in cima quando il sole non è ancora alto, se il ghiaccio si scioglie diventa pericoloso. Alle 10 bisogna iniziare la discesa, altrettanto dura».

Si è laureato in Economia.

«Tesi in diritto industriale, sulla contraffazione di marchi celebri».

Quindi sa riconoscere una borsa finta da una vera?

«No, era teoria, non pratica».

Per arrotondare faceva il barman in discoteca. Specialità della casa?

«Non avevo un signature cockta il. Non contava la qualità, quanto la quantità».

Annacquava?

«Al contrario li facevo belli carichi».

Entrò al Grande Fratello.

«Mia cugina, Alessia Ventura, che già lavorava a Mediaset, mi procurò il numero giusto. Non ho fatto la fila in strada tra cinquemila concorrenti, ma i provini sì».

Nella casa si costruì una scacchiera di pasta di sale e si cucì un pallone.

«Ah sì? Non me lo ricordo proprio».

Al provino per «Carabinieri» spiegò che non sapeva recitare ma la presero lo stesso.

«Era la verità. Mi scelsero perché in quel momento, dopo il GF, ero molto popolare. Mi rivedo com’ero allora, un ragazzo inesperto, che faceva fatica a parlare, con la voce strozzata dall’insicurezza».

Nel cast c’era Paolo Villaggio.

«Adorabile e gentile, incontrarlo è stato un privilegio, un piacere ascoltarlo».

«A Luca Brad Pitt je spiccia casa», copyright: Claudio Amendola.

«Ho girato un film con lui, Il permesso – 40 ore fuori . Ero un carcerato ex pugile, mi sono sottoposto a un allenamento serrato, tipo Brad Pitt inFight Club , il paragone è indegno, se non per il fisico bestiale di quei giorni, che poi però è andato via».

Qualcosa in cui è proprio negato.

«A cantare, sono proprio terribile, a ballare non tanto meglio, mi sciolgo solo se bevo un bicchiere. Però ne sono consapevole. Mi cimento nel karaoke solo se costretto, ma spero che finisca presto».

Con Julia Roberts in «Mangia, prega, ama».

«Lì ho capito come si riconosce una grande star: non dai milioni di dollari del cachet, ma dalla luce magica che le si accendeva negli occhi appena gridavano: “Ciak, azione”».

«Özpetek per me è un santo».

«Ho detto così? Magari scherzavo ma in fondo è vero, per me Ferzan è stato davvero un santo, perché mi ha permesso di essere a mio agio in mezzo a un cast strepitoso. Avere lavorato con lui è una certificazione di qualità. Di Saturno contro ho un ricordo quasi mitologico. Ero inesperto, puro, entusiasta, con quel cast eccezionale ho brillato di luce riflessa. La mia unica preoccupazione era di non fare troppe cavolate».

A quel punto avrà pensato: «Ce l’ho fatta».

«Non è cambiata la mia percezione di me, piuttosto quella degli altri».

Argentero: «Mia moglie Cristina Marino mi ha insegnato un nuovo sguardo. Il Grande Fratello? Lo feci per soldi»

Quante volte al giorno si guarda allo specchio?

«Le volte necessarie. Quando mi lavo i denti. E sul set tutti i giorni, seduto al trucco per quaranta minuti».

Il primo incontro con C ristina in un flash.

«Set di Vacanze ai Caraibi, 2015, Santo Domingo. Mi sono girato e l’ho vista sotto una palma. Bellissima».

Corteggiamento classico o special?

«Classico. Messaggi, cene, primi appuntamenti, sono all’antica. Conoscendola meglio ho scoperto che è bella a 360 gradi, la nostra storia è diventata vera e intensa».

Quando ha capito che era quella giusta?

«Dopo pochissimo».

Cristina ha raccontato: «Mi sono detta “sì, è lui”, la prima volta che ho aperto il frigo a casa sua: hamburger vegetali, zenzero, lime, sembrava che la spesa l’avessi fatta io».

«Il mio frigo è esattamente così. Prendersi cura di se stessi è importante, scegliere quello che si mangia e stare in forma è uno stile di vita, che non vuole dire solo rinunce, stenti e sacrifici. Pizza, gelato, pasta al sugo vanno benissimo, mai invece i cibi confezionati».

Ma è vero che abitate nel casale umbro in cui si girava «Carabinieri»?

«Non proprio. Mentre giravo la fiction a Città della Pieve ho trovato un casale che mi piaceva e l’ho comprato».

Sua moglie è anche il suo allenatore.

«Severissima, al limite dell’insopportabile, ma avere un personal trainer in casa è un privilegio. Mi usa come prima cavia del suo metodo, sono un progetto vivente, mi riprogramma di continuo».

Inflessibile come il sergente istruttore di «Ufficiale e gentiluomo»?

«Più come quello diFull Metal Jacke t. Mi massacra, mi rimprovera, è spietata».

Quanti addominali di fila?

«Tantissimi».

I vostri rispettivi ammiratori sono spesso molto sfrontati, sui social. Complimenti, ammiccamenti, proposte.

«Li viviamo con distacco, io non li leggo nemmeno».

A gelosia come siete messi?

«C’è, ma sana. Se pure guardassi un’altra, Cristina se ne accorgerebbe subito, quindi non lo faccio, evito il problema a monte. Le persone sanno che sono sposato, mi rispettano, sono educate. Ogni tanto certo succede che qualcuno per strada mi riconosca e mi punti addosso il cellulare tipo scimmia allo zoo».

Il Doc della fiction nella vita è mica ipocondriaco, di quelli che girano con il sacchetto delle medicine come nei film di Verdone?

«No, per niente. Con le medicine ho un rapporto sano, le prendo meno possibile. Non potrei mai fare il medico, non ne avrei le palle. Girando questa serie ho capito quanto sono fortunato, perché ti può capitare davvero di tutto, provo un profondo senso di gratitudine per la vita che ho».

Come ha imparato a sembrare un bravo dottore?

«Ho trascorso un mese in reparto al Gemelli, ma non bastava. Sul set siamo circondati da esperti sia per il lessico che per la gestualità. Ormai so come palpare un addome e dove si appoggia uno stetoscopio, ma sbagliare è normalissimo, si rifà la scena e via».

L’ultimo «sfondone»?

«Giorni fa ho pubblicato sui social una mia foto di scena in cui ero serio e concentrato. Ma una delle radiografie alle mie spalle, quella di un ginocchio, era appesa al contrario, l’ho scoperto leggendo i commenti di veri specialisti sotto il post».

Gli amici le chiedono consulti?

«Ogni tanto c’è chi vorrebbe gli misurassi la pressione, ma è un gioco».

«Sono ossessionato dal tempo che passa». Davvero?

«Ci pensiamo tutti. Sento che non sono più un ragazzo, ma è normale. Non è paura di invecchiare, non ne ho, ma la consapevolezza che il tempo, come la salute, è l’unica cosa che conta. A venti anni non ci pensi, adesso sì, cerchi di usarlo meglio possibile. Della bellezza che magari se ne va non mi importa, è normale che succeda».

Cosa c’è nella sua lista di cose da fare prima che sia tardi?

«Prima o poi scalerò il Bianco, non è impossibile. Non subito però. Io e Cristina abbiamo fatto due figli in tre anni, ora siamo concentrati al 99 per cento sul nostro essere genitori, che è un’esperienza stancantissima e bellissima, per noi resta solo l’altro uno per cento, ma va bene così».

Luca Argentero: «Come ce l'ho fatta? Un mix indefinibile di fortuna, talento, faccia tosta, opportunismo». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2023  

L'attore presenta il primo romanzo al Salone del libro. «La mia Torino? Al Centralino servivo l’alcool di notte anche il lunedì. Come Jep Gambardella: la serata decidevamo noi se portarla in alto o farla fallire» 

Lo aveva sottovalutato, Luca Argentero, l’impegno della scrittura. Al punto da aver avuto la voglia, a un certo momento, di lasciare perdere. E fortunatamente non l’ha fatto. Per diversi motivi. Il primo lo riguarda personalmente ed è quella soddisfazione che ammette di provare ora che la sua storia è un libro Mondadori vero (e mi raccomando non domandategli se è stato aiutato da un ghost writer), di quelli che si trovano in autogrill come quello in cui scende mentre sta terminando questa intervista, «è Luca Argentero», urla una signora nel telefono mentre ancora sta rispondendo alle domande. 

L’altra ragione è che, in un periodo storico-letterario di autofiction diffuse, alcune ottime altre serenamente tralasciabili, lui ha messo giù un romanzo serio (e dire che una semi bio romanzata da Argentero si poteva anche accettare). Disdici tutti i miei impegni, è la storia di Fabio Resti, personaggio vizioso e discutibile che finisce agli arresti domiciliari a casa dei suoi genitori. Sarà in Sala Bianca domenica alle 10.45. Quanti Fabio Resti ha incontrato nella sua vita? «Centinaia. Alcuni simpaticissimi, altri no». 

Li ha incrociati più nella sua vita notturna, quando faceva il barista nella nightlife torinese, oppure nel mondo del cinema? 

«Assolutamente molti di più di notte. Il cinema è diverso da come ce lo si immagina. Sul set si inizia alle sette del mattino. Io ho vissuto tante vite, ma vissute davvero, non parlo solo di quelle che ho interpretato. Sono uscito presto di casa, ho viaggiato, visto, frequentato, condensato molte esperienze. Fabio e la sua storia sono la summa di tante cose». 

Come le è venuto questo personaggio così negativo? 

«Ma alla fine non è così pessimo. È uno scorretto ed è orribile il suo rapporto con le donne. È un amante degli eccessi propri di questa epoca. È naif, gli piace fare serata e farsi due righe di coca. Si comporta in maniera deprecabile ma alla fine mi fa tenerezza. Mi piacerebbe che chi legge provasse verso di lui un po’ di empatia. C’è di meglio, ma c’è anche di peggio». 

Qual è il peggio? 

«Fabio è un pesce piccolo. Uno che non ha pagato 4 o 5 fatture. Il peggio sono quelli che hanno mandato sul lastrico migliaia di famiglie in questo Paese. Chi permette che vengano bruciati i risparmi di intere generazioni». 

Perché, per fargli risalire la china, ha immaginato di rispedirlo a casa di mamma? 

«Perché torna da dove tutto è iniziato. Era importante che guardasse a quel se stesso di quando aveva 15 anni. Quell’età in cui maturano le aspettative di chi vorrai diventare, con i sogni che si materializzano tra la giovinezza e la pubertà. E che si chiedesse, guardandosi allo specchio: ma è questa la vita che sognavo? Torna in quella cameretta pensando di starci pochi giorni e invece passano quattro mesi». 

Per quanto riguarda lei: è questa la vita che sognava? 

«È fantascienza. Sono nell’iperspazio di Star Trek». 

Cosa si riconosce di buono per essere arrivato fino qui? 

«La ricetta magica non esiste e se ce l’avessi la darei a qualcuno che amo. C’è un mix indefinibile di fortuna, talento, faccia tosta, opportunismo, coraggio. Lo racconto anche nello spettacolo (È questa la vita che sognavo da bambino? ndr) che sempre mi sono lanciato a capofitto nelle occasioni, non ho mai avuto paura di fare o di sbagliare. È stata un’onda di entusiasmo fino a oggi. È stata una bella cavalcata». 

Davvero non ha mai avuto paura? 

«Non salvo vite umane. Il tasso di responsabilità è bassissimo, al limite non faccio ridere o non convinco. Pazienza. Mia nonna era durissima, guardava tutti i miei film ma era iper critica. In tutto gliene saranno piaciuti due. Aveva ragione». 

A Torino ci torna sempre. 

«Ci sto benissimo. Quanto mi sono divertito qui». 

Quando lei era giovane si faceva mattina anche di lunedì. 

«C’era il Centralino il lunedì. Io servivo l’alcool di notte. Come Jep Gambardella: la serata decidevamo noi se portarla in alto o farla fallire».

Luca Barbareschi: «Ho 6 figli, 4 femmine, ho sempre difeso le donne da ogni violenza. Chi mi attacca cerca pubblicità». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 29 maggio 2023.

L'attore dopo la richiesta di bloccare la sua trasmissione: «Sono immacolato. Ho difeso le persone contro la cultura dello svergognamento» 

«Sono seccato da queste polemiche sterili sul mio nome, forse qualcuno vuole farsi pubblicità a mie spese, come succede da quando ho aperto bocca per la prima volta. Magari adesso questi due consiglieri Rai saranno conosciuti un po’ di più, grazie a me», ragiona in un flusso continuo di pensieri e parole Luca Barbareschi, 66 anni, attore, regista, produttore, autore, conduttore nonché ex politico.

Due consiglieri della Rai — Francesca Bria (Pd) e Riccardo Laganà (dipendenti) — hanno chiesto alla presidente Marinella Soldi di bloccare la seconda edizione del suo programma «In Barba a tutto» prevista su Rai3. «Ma chi sono questi? Quando la signora Bria era alle elementari io già facevo di tutto. Mi chiedo se fossero gli stessi di due anni fa, quando il mio show andava in onda con grande successo, dalle 23.15 fino a mezzanotte, dopo Report e prima di Mannoni. Facevo oltre 900 mila spettatori. Lo scandalo è che non lo abbiano riproposto subito, nella stagione successiva». 

I due consiglieri censurano certe sue recenti dichiarazioni: «Le attrici che denunciano molestie cercano pubblicità». E la considerano incompatibile con il servizio pubblico. 

«Hanno mai letto il mio curriculum? Ho 48 anni di carriera, sono colto e preparato, studio dalla mattina alla sera da quando ne ho 14. Ho recitato a Broadway, nel West End, in America, in Germania, sto producendo per la Rai il quarto film di Polanski e giro The Penitent, tratto da un’opera di David Mamet, suono il piano, canto, recito da Rostand a Shakespeare. E sono immacolato. Ho difeso le persone contro la cultura dello svergognamento. E chi ha voluto la legge contro la violenza sui bambini? Io. Chi ha istituito la Giornata contro la pedofilia e la pedopornografia? Sempre io». 

Sulle attrici non è stato leggero... 

«Ho sei figli, quattro femmine, ho sempre difeso le donne da ogni violenza, che è una cosa orribile. Tutte. Non solo le attrici, una minoranza, ma le cassiere dei grandi magazzini, le impiegate, quelle che non conosce nessuno. Lavoro con trenta collaboratori e 20 sono donne. Sono pronto a querelare chiunque dica falsità sul mio conto». 

Pure i due consiglieri?

«Non ho detto questo. Ma se a qualcuno sto antipatico è un problema suo».

Ora però c’è il rischio che le cancellino la trasmissione. 

«La cosa divertente è che al momento non ho nessun contratto con la Rai. Siamo dunque alla giustizia preventiva? Se qualcuno dell’azienda mi chiama, ne parliamo. Non sono mica come certi che se ne vanno per scelta loro e fanno pure le vittime». 

Allude a Fabio Fazio? 

«Certo. Ho avuto spesso a che fare con le multinazionali americane, per chiudere un contratto ci vogliono mesi, è chiaro che la trattativa con Discovery era già in piedi da tempo». 

E dunque che fa? 

«Se un funzionario della Rai mi convocherà per il programma, ne discuterò. Se invece, per ragioni imperscrutabili, non lo farà, pace. Se mi vorrà Mediaset, o La7 o Discovery, andrò lì. Ho offerte da più parti. Nel frattempo ho una tavola da surf che mi aspetta a Ostia e leggo la musica, attraverso Mozart e Beethoven parlo con Dio».

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per repubblica.it il 9 maggio 2023.

Villa Torlonia, mattina presto. Il retropalco del teatro è aperto sul parco, una grande bandiera americana sventola davanti a un gigantesco green screen. Luca Barbareschi, 66 anni, pantaloncini e giubbotto di pelle, è pronto per girare la scena finale di The penitent, di cui è regista e protagonista, al fianco dell'inglese Catherine McCormack. Tratto dalla pièce omonima di David Mamet, il film racconta di uno psichiatra la cui vita e carriera deragliano quando un suo paziente uccide otto persone.

 […] 

Il personaggio è ispirato alla storia di una figura controversa come quella dello psicologo  canadese Jordan Peterson.

"Sì, un genio che è stato attaccato ferocemente perché si rifiuta di dire che c'è un terzo sesso. Io trovo che abbia ragione: è un medico e non può prescindere dal fatto che i cromosomi sono quelli. Poi io posso vestirmi da donna, mettere i tacchi, posso riconoscere il ruolo di trans e Lgbt, ma non farmi dire che c'è un terzo sesso. Nel nostro film lo psichiatra viene linciato perché un giovane paziente gli annuncia una strage e poi uccide otto persone.

La stampa dapprima si concentra sul ragazzo, ma poi è ispanico, vittima della società, è gay, emarginato, quindi forse non è più colpevole. La stampa per vendere ha bisogno di un mostro e di una vittima, così il mostro diventa lo psichiatra, complice una pubblicazione in cui aveva scritto che l'omosessualità è un adattamento. Per me ci sta: io sono stato omosessuale nella mia vita, forse ho trovato un adattamento alle mie problematiche. 

La stampa lo traduce come 'aberrazione'. Scoppia il casino, il bazooka si gira verso di lui, inizia la tragedia di un uomo che viene linciato dalla stampa. Un'ondata di finto moralismo distrugge l'America, quella che io sognavo - i miei figli hanno la green card - non c'è più: si sono incastrati in qualcosa in cui non usciranno facilmente. Nei prossimi anni succederà anche in Europa. I miei figli cresciuti nelle università americane non hanno più senso dell'umorismo. Se dico 'guarda che mignottone' rispondono 'no, papà, è una ragazza che soffre'".

Il suoi figli la contestano, quindi.

"Sì. Soprattutto quella di dodici anni, che è andata alle scuole francesi, politicamente corretta. Io mi incazzo ma manteniamo il senso dell'umorismo. Sono aperto e tollerante, senza pregiudizi ma quello che avviene è un disastro, perché è una semplificazione. Ci sono centoventi gender che litigano tra loro. Siamo andati nella follia, ci sarà una reazione tra qualche anno e torneremo peggio di prima. Purtroppo, queste sono minoranze. Lo abbiamo visto nelle fiction: mettere per forza trans e lesbiche è un finto problema, non è generalizzato e nella narrazione non funziona. Oggi c'è obbligo nelle 'writing room' in America di mettere nero, ispanico, lesbico". 

L'America è fatta di neri, ispanici e asiatici.

"Sì, ma non è detto che se tu sei gay o nera sei in grado di raccontare la Rivoluzione francese. Io devo prendere il migliore". 

Che può anche essere nero o gay. […] 

Succede, nei momenti di cambiamento.

"Sul vostro giornale c'è stata una serie a puntate di molestate finte, alcune di queste attrici le ho avute a teatro".

Le attrici di Amleta, l'associazione che contrasta la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo?

"A me viene da ridere, perché alcune di queste non sono state molestate, o sono state approcciate malamente ma in maniera blanda, non cose brutte. Alcune di queste andrebbero denunciate per come si sono presentate. sedendo a gambe larghe: 'Ciao, che film è questo?'. Non ho avuto mai bisogno di fare trucchi per scopare, una cosa del genere non è il mio stile. Ho detto: 'Amore, chiudi le gambe, ho visto che hai le mutande, o che non le hai, interessante, ma ora parliamo di lavoro'.

Ci sono anche cose così. Secondo me Amleta dovrebbe essere 'largo', riguardare non solo le attrici, che sono una piccola comunità. Il problema delle molestie è grave e generale, riguarda la commessa del supermercato che deve subire per non perdere il posto. Questo deve cambiare. Ho quattro figli, un maschio e tre femmine, e voglio che siano dignitose, libere e non subiscano mai. Io sono stato un bambino molestato, mi hanno abusato dagli otto agli undici anni i preti gesuiti a Milano: mi chiudevano in una stanza, uno mi teneva fermo e l'altro mi violentava. Ho fatto una legge su questa cosa qui". 

Perché si sente coinvolto dalle denunce di Amleta in particolare?

"Perché ho trovato il loro un giusto pensiero ma poi è diventato qualcosa di modaiolo. L'attrice che si fa pubblicità, la cosa va avanti per dieci puntate, poi finisce ma non si risolve il problema. In Francia sono impazziti tutti, noi produttori abbiamo fatto un corso sulle nuove regole di set, che sono impossibili da applicare. Stiamo uscendo dal buon senso. Detto questo il film è per me importante perché racconta esattamente lo stato dell'arte oggi.

L'ho dichiarato quando ho fatto J'accuse, di Polanski, e ora con il suo nuovo film, The palace, che vedrete che bomba è. Non ci può essere giudizio morale sull'arte. Sennò dobbiamo ascoltare quello che ha detto Marlène Schiappa, ministro francese per le Pari opportunità. Io e Polanski siamo stati assaltati dalle femministe, chiusi in una camionetta della polizia ci siamo guardati: 'Tua nonna è morta ad Auschwitz, mia nonna a Treblinka, se ci avessero detto che nel 2020 saremmo stati chiusi in una camionetta con fuori donne impazzite coperte di sangue che gridano 'riaprite le camere a gas' non ci avremmo creduto'". 

E madame Schiappa?

"Mi urlò 'uccideremo gli uomini come voi, ma anche i musicisti come Beethoven, la Quinta - ta ta ta ta - è un inno allo stupro'. Ho chiesto se fosse impazzita. Non so Beethoven, Mozart ne ha fatte di tutti i colori ma non si può dare un giudizio morale sull'artista o abbattiamo tutta la cultura occidentale fatta da uomini fallimentari, da Caravaggio a Fellini a Pasolini, la cui moralità è opinabile e la poesia sublime".

[…]

A novant'anni Polanski ha l'energia per fare un nuovo film.

"Sul set mi ha detto 'se muoio lo finisci tu'. Io gli sono stato vicino, è un uomo di grande dolcezza. Dopo J'accuse, che è una lama, è la sua storia, volevamo altro. Pensavamo al remake di Per favore non mordermi sul collo. Ma poi gli ho chiesto: ma chi è la persona con cui vorresti scrivere? Chi è l'uomo che ti fa più ridere? 'Jerzy Skolimowski'. Ci siamo tutti chiusi a Gstaad, biglietti da tutte le parti, in tre mesi abbiamo scritto un copione molto divertente, un film che è una metafora meravigliosa della Francia. Roman ha ancora lo spirito di un ragazzino, leggero, appassionato.

Ma ha bisogno di avere al fianco qualcuno di cui si fidi. Mentre giravamo a Parigi c'erano i gilet gialli, il giorno in cui sul set è venuto Houellebecq a trovarci, è successo un macello, ci hanno dovuto portare via perché gridavano 'a morte gli ebrei'. Come dice Roman, uno che è sopravvissuto a Stalin e Hitler, ora è a casa sua e non può sopravvivere ai francesi? […]»

Estratto dell’articolo di Viola Giannoli per repubblica.it il 10 maggio 2023.

"Lo stupro non è un barbatrucco". E poi giù gli slip e su le gonne per mostrarsi nude e nudi all'obiettivo e ai passanti su via Nazionale. 

Così oggi un gruppo di lavoratori dello spettacolo, appartenenti al collettivo Campo innocente, ha voluto protestare contro l'attore, regista e produttore Luca Barbareschi che, in un'intervista a la Repubblica, ha minimizzato le accuse di molestie sessuali da parte delle attiviste del gruppo Amleta. 

Il blitz è avvenuto davanti allo storico teatro Eliseo, adesso chiuso e fallito sotto la gestione Barbareschi, e davanti alla società di produzione Casanova Multimedia spa.

Non una dichiarazione di opinioni: un’aggressione” quella di Barbareschi, sostengono i manifestanti. Che aggiungono: “Le parole – come i gesti, come le azioni – feriscono, umiliano, fanno violenza. Si incidono sui nostri corpi, modificano l’ambiente in cui viviamo. Negare legittimità alle parole di chi denuncia è un ulteriore atto di violenza - continuano in un comunicato molto acceso - Le dichiarazioni di Barbareschi sono un distillato di maschilismo, e cultura dello stupro. Sono parole inaccettabili”. 

[...] “La realtà che noi viviamo è un’altra - dicono - chi denuncia si espone e rischia di non lavorare, il settore culturale subisce tagli sistematici che penalizzano le esperienze più fragili e indipendenti, non esiste alcuna forma di reddito per i/le lavoratrici precarie della cultura e dello spettacolo”. [...] 

Estratto da leggo.it il 10 maggio 2023.

Stanno creando decisamente polemica le parole di Luca Barbareschi, che in un'intervista a Repubblica pubblicata oggi sminuisce la lotta contro le molestie delle attrici raccolte dall'associazione Amleta. Ora arriva la replica, sul suo profilo Instagram, di Caterina Collovati, sempre attenta al dibattito sui diritti delle donne e che spesso commenta i casi di molestie. 

«Parliamo di un tema troppo delicato per fare polemica becera, però caro Luca Barbareschi, nello stesso modo in cui tu metti in dubbio gli abusi denunciati dalle tue colleghe attrici, così le donne potrebbero mettere in dubbio le violenze da te subite nell’infanzia», dice la Collovati. «Invece io ti credo, ma vorrei che anche le donne venissero credute quando raccontano l’orrore, la paura, l’umiliazione degli abusi». 

«È per colpa di giudizi come i tuoi se tante donne preferiscono chiudersi nel buio dell’anima dopo il trauma, per non venire colpevolizzate e non credute. Quel tuo dire “alcune si presentano a gambe larghe” è un grave stereotipo culturale che vede la donna sempre come “provocatrice” e mai come vittima di infami approfittatori. Aiutiamo le donne ad uscire dall’incubo e non privilegiamo il punto di vista di chi quella violenza la commette», conclude il suo post.

Cosa ha detto Luca Barbareschi

Negli scorsi mesi l'Associazione Amleta, l'associazione che si batte contro la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, ha raccolto una serie di denunce di molestie ad attrici da parte di attori, registi e produttori. A parlarne, tra le altre, Pamela Villoresi, Chiara Claudi, a Margherita Laterza. Oggi l'attore e regista Luca Barbareschi dice in un'intervista a Repubblica che le denunce di molestie «servono solo a farsi pubblicità». Ma confessa anche: «sono stato omosessuale nella mia vita», parlando del personaggio che interpreterà nel nuovo film The Penitent.

Barbareschi si scaglia poi contro le attrici che denunciano molestie. A Barbareschi «viene da ridere, perché alcune di queste non sono state molestate, o sono state approcciate malamente ma in maniera blanda, non cose brutte. Alcune di queste andrebbero denunciate per come si sono presentate. Sedendo a gambe larghe: 'Ciao, che film è questo?'». Barbareschi parla con Arianna Finos mentre sta girando la scena finale di The Penitent. Ispirato alla figura dello psicologo canadese Jordan Peterson. Poi dice io sono tollerante «Ho quattro figli, un maschio e tre femmine, e voglio che siano dignitose, libere e non subiscano mai. 

Io sono stato un bambino molestato, mi hanno abusato dagli otto agli undici anni i preti gesuiti a Milano: mi chiudevano in una stanza, uno mi teneva fermo e l'altro mi violentava. Ho fatto una legge su questa cosa qui». 

La replica delle attrici

Le attrici che fanno parte del collettivo hanno voluto replicare, sempre con un lungo post diffuso su profili Instagram e Facebook, in cui si legge: «In una riga Barbareschi liquida come 'una carrellata di finte denunce' perché dice alcune le ho avute a teatro quelle venute alla luce grazie al lavoro di Amleta, il report che raccoglie i dati di 2 anni di lavoro evidenzia più di 200 casi di violenza e molestie. Barbareschi forse si crede Dio e la sua esperienza e il suo percepito vengono da lui confusi con la verità per tutti e tutte noi. Noi al contrario abbiamo verificato che le donne che si decidono a denunciare hanno elementi, prove, testimonianze che confermano quello che dicono. Lo stereotipo che le donne mentano è molto radicato e di solito è alimentato da chi vuole mantenere intatto un sistema di potere e di oppressione. Non è basato su un'analisi della realtà ma sul nulla».

Nella replica a Barbareschi Amelta fa notare: Le artiste denunciano per farsi pubblicità? «Non esiste un'attrice che sia diventata famosa denunciando una violenza. Al contrario l'esposizione in quest'ambito è un atto di grande coraggio e generosità verso tutte le altre. Un'attrice che si espone è consapevole di correre un grande rischio, è proprio per questo che riusciamo a procedere con le denunce soltanto nel 5% dei casi. Ma anche questo tabù si sta infrangendo. Sempre più donne si espongono, perché vogliono proteggere anche tutte le altre e sono protette da tutte le altre. Non ci potete zittire tutte». 

Estratto da open.online l'11 maggio 2023.

L’attrice Jasmine Trinca all’attacco di Luca Barbareschi. Che aveva parlato di finte denunce per farsi pubblicità a proposito delle molestie alle attrici di cinema e teatro portate alla luce dall’Associazione Amleta. Trinca aveva detto qualche tempo fa che le molestie erano toccate anche a lei e che il #metoo era servito. Oggi in un’intervista a Repubblica risponde all’attore e regista proprio mentre scoppia una protesta davanti al teatro Eliseo. «Trovo vergognoso che degli uomini possano continuare a prendere parola per le donne. Quindi non direi stendiamo un velo pietoso, tutt’altro: alziamo questo velo. È gravissimo, sono dichiarazioni gravissime».

La parola delle donne

E ancora: «Barbareschi esprime la voce di persone che continuano a prendere parola per altre. Per me la parola di una donna è una parola intoccabile, una parola che prende il suo tempo, quale che sia questo tempo, e va rispettata. Di sicuro la voce di tante attrici e non solo, di donne che vengono abusate a vari livelli, perché l’abuso di potere non è solo quello sessuale, è una parola che va ascoltata e rispettata».

Trinca aggiunge nel colloquio con Arianna Finos che la società in questi anni «è cambiata relativamente e probabilmente non per il movimento in Italia. La verità è che siamo stati guidati da un movimento internazionale fortissimo che viene soprattutto da altri Paesi. È stato importante che le donne potessero sentire una parola che risuona, l’idea di non sentirsi sole di fronte a una dichiarazione molto difficile. È un’assunzione di coscienza complicata che nessuno si può permettere di commentare».

Giampiero Mughini per Dagospia l'11 maggio 2023.

Caro Dago, vedo che intere tribù femminili si sollevano e si manifestano contro Luca Barbareschi, il quale aveva rilasciato un’intervista nella quale si diceva diffidente delle donne che dieci o venti anni dopo denunciano molestie maschili nei loro confronti, e tanto più che lui per esperienza personale ricordava più e più donne che gli si erano presentate allargando le gambe nel sedersi a far capire quel che fosse possibile fra loro e lui. 

Premetto che Luca lo conosco da tempo, gli sono amico, so che non ci va di mano leggera quando vuole dire una qualche cosa. Di certo in quell’intervista Luca parlava a nome personale, ci metteva nome e cognome, non si appellava alla solidarietà di qualche miliardo di uomini, gente dove c’è del meglio e del pessimo, dei galantuomini ma anche dei bastardi e degli autori di femminicidi. 

Volete replicargli? Fatelo pure, tenendo conto però del suo specifico itinerario e delle sue specifiche caratteristiche umane e professionali. Conosco Luca a puntino, fin da quando accompagnava Lucrezia Lante della Rovere in casa della madre di lei, la per me indimenticabile e adorata Marina.

Ebbene contro Luca non si ergono delle persone, con i loro argomenti e con le loro specificità umane e professionali e bensì la metà del mondo, le donne in quanto tali. Le Donne, nientemeno.

Voglio dire che loro così si presentano, così si ergono, così si fanno valere. Solo che le Donne con la maiuscola non esistono, esistono alcuni miliardi di donne ciascuna con nome e cognome, le une differentissime dalle altre. Ho detto differentissime, non differenti. Le donne dell’Afghanistan e le modelle inglesi o americane. Quelle che fanno le giornaliste in Italia e quelle che fanno le mogli in Ucraina. Donne madri, donne amanti, donne compagne insostituibili del loro uomo, donne che hanno un tocco del vivere differentissimo da quello maschile, donne che non c’è nulla al mondo che valga il passare un’ora con loro a guardarle con gli occhi, donne che non sono altro che delle puttanelle pronte a tutto pur di farsi valere, eccetera eccetera.

Non c’è nulla nella mia vita che valga il rapporto avuto con il femminile, il rapporto con le diversissime donne di cui ho detto prima. Nella cosa la più importante della mia vita, i libri che ho scritto e firmato, sempre mettevo una di loro, una donna a di cui ho messo solo l’iniziale del nome in Compagni addio ma anche la B. al cui funerale in una chiesa romana sono andato in compagnia di Michela, la Kate Moss che stava in non ricordo più quale mio libro, l’Elsa Martinelli che figurava nella copertina di Che belle le ragazze di via Margutta, quell’altra ragazza che ha illuminato la mia giovinezza e alla quale ho dato un ceffone la volta che era venuta a casa mia per segnare con un’offesa il suo congedo per sempre. Tutte donne strabilianti e terrorizzanti e maledette e mirabili. Tutte donne che hanno marcato per sempre la mia anima, ciascuna diversissima dalle altre, così come sono l’una diversissima dalle altre le mie amiche adorate dell’oggi, Sandra Chiara Simonetta Annalena. Non diversissime, di più. Ed ecco perché ne vale la pena affrontarle, contornarle, accettarle, tenerle a bada. Non certo per i motivi banalissimi addotti da quelle che bersagliano Luca Barbareschi.

Dagospia l'11 maggio 2023. Riceviamo e pubblichiamo: “Non rinnego una parola della mia intervista che è esaustiva e chiara, uscita su Repubblica martedì 9 maggio 2023. Non ho mai minimizzato l’importanza e il coraggio di chi denuncia molestie o violenze subite. Al contrario, sono profondamente solidale, oggi e da sempre. In nessun caso posso giustificare o trattare alla leggera gli abusi. Appartiene alla mia biografia personale e mi sono speso in prima persona per tutelare questo tipo di soprusi grazie alla mia Legge contro la pedofilia e al trattato europeo sulle violenze di Lanzarote. 

Dispiace e rattrista che alcuni colleghi da me stimati, come Roberto Andò Fabrizio Gifuni e Mario Martone, si siano limitati a leggere il titolo dell’intervista. È oggettivo che nel nostro ambiente sia usata, in alcuni casi in modo strumentale, questa piaga delle molestie per ottenere visibilità (nella mia intervista dichiaro che “alcune di queste attrici non sono state molestate, o sono state approcciate in maniera blanda”). Intendo dire che, così come è vero che ci sono uomini e donne di potere che si approfittano di persone fragili, è anche vero che ci sono attrici e attori che si fanno pochi scrupoli pur di raggiungere i loro obiettivi.

Attenzione però a condannare senza prove o su illazioni. Sono stato il primo a parlare nel 1990 del pericolo della speculazione sulla parola molestie e violenze subite; si trattava del mio spettacolo Oleanna su testo di David Mamet. Non a caso la sceneggiatura di un Premio Oscar e Premio Pulitzer. In quel caso si parlava di uno stupro subito a causa di una carezza verbale. La mamma degli imbecilli partoriva il primo cretino. 

Suggerisco quindi a tutte le numerose associazioni che difendono i diritti di donne e uomini molestati, abusati o bullizzati, di ampliare il raggio d’azione anche ad altre le categorie professionali: commesse, studentesse, segretarie, operaie, ecc.

Ho sei figli, un maschio di 49 anni, quattro femmine tra i tredici e i quarant’anni e un altro maschio di 11 anni (più tanti nipoti), e desidero che ciascuno di loro cresca dignitoso, libero e non subisca mai censure e prevaricazioni. La prevaricazione è il primo passo verso la dittatura. Anche quella di un pensiero opposto al nostro. La prevaricazione è sempre sbagliata e se è vero che i ricatti li fanno i potenti, è anche vero che sedurre un potente può essere una scorciatoia.

Quello che mi preme sottolineare – e che è uno degli aspetti cardine del mio film “The Penitent – a rational man” di cui onestamente ho cercato di parlare a lungo – è che rispetto a certi temi spesso si incorre in una insidiosa semplificazione del pensiero, per cui si tende a omologarsi ad una visione unica. Nel film lo psichiatra protagonista viene linciato pubblicamente perché un giovane paziente gli annuncia una strage e poi uccide otto persone. L’assassino appartiene alla comunità LGBT e immigrato ispanico: per questo, paradossalmente, non viene più percepito come colpevole e diventa necessario - per l’opinione pubblica e la stampa – trovare qualcuno su cui scaricare la responsabilità di quella tragedia. Modificare la percezione di quanto avvenuto per ricondurlo ad un pensiero dominante. Io invece rivendico l’autonomia da questo pensiero dominante, la libertà di sviluppare un proprio pensiero critico e autonomo.

Mi piace sviscerare le questioni, cogliere le sfumature e superare la tendenza al pensiero unico. Che è ben diverso da avvallare o sminuire le violenze che quotidianamente accadono, a prescindere dagli ambiti in cui si verificano. 

Un’ultima precisazione: Eliseo Teatro è uno dei brand della holding ÈLISEO ENTERTAINMENT Moving Emotions insieme a Eliseo Fiction, Eliseo Doc & Light, Eliseo Cinema, Eliseo Cucina, Eliseo Musica, Eliseo Ragazzi… Il Teatro Eliseo non è fallito. Chi dice questa falsità verrà raggiunto dai miei legali. L’Eliseo apre per convegni, eventi e per affitti sala ma, senza le sovvenzioni come tutti gli altri teatri storici, non può produrre come una volta.”  Luca Barbareschi

Adriana Marmiroli per “la Stampa” - Estratti il 27 Novembre 2023

«Sono un tipo solitario, un orso. Non ho amici (non molti almeno). Mi piace il silenzio, stare solo in una stanza», dice di sé Luca Bizzarri. 

Da più di un anno ha un podcast quotidiano, molto ascoltato su Spotify, graffiante e puntuale...

«In sette minuti si commentano i fatti del giorno e i misfatti della politica. Ora ho deciso di declinarlo, con lo stesso titolo, in un one man show che sarà in tournée fino ad aprile». 

Titolo che incuriosisce Non hanno un amico: chi non ne avrebbe?

«I nostri politici, che fanno di tutto per essere al centro della nostra attenzione, spasmodicamente alla ricerca delle luci della ribalta, affetti da bulimia da social. Scrivono cose che se solo avessero un amico a consigliarli (o un buon consulente alla comunicazione) di certo non direbbero». 

Quindi, non avere amici fa male?

«Io mi sento tranquillamente nel gruppo di chi non ne ha.Non averne e averne tanti (troppi) è la stessa cosa. Diffido di chi è troppo in mezzo alla gente. Forse mi sbaglio, forse sono un po' troppo orso».

È forse l'indole (triste) del comico che le fa dire così?

«Ne ho pochissimi e selezionati. Li scoraggio, non telefono mai, mi faccio vedere poco, non mi confido. Se hanno bisogno di me, però, io ci sono. Non sono amicizie che arrivano dall'infanzia, nessuno dal mondo dello spettacolo, sono incontri avvenuti nel corso del tempo. Persone normali che stimo, cui mi legano forse alcuni aspetti del carattere, sensibili e intelligenti. Di certo disponibili alle mie assenze e al mio carattere. Persone che ho sentito "a pelle", da subito. Diciamo che la qualità c'è, non la quantità». 

O una questione di fiducia?

«Assolutamente, no. Forse per via dell'ascendente emiliano che arriva da mio padre, sono una persona estremamente fiduciosa nel prossimo. E questo malgrado io sia cresciuto e viva a Genova, città in cui la diffidenza la fa da padrona nei rapporti personali».

Si può ipotizzare po' di pigrizia?

«Forse. La mia storia è quella di uno abituato a stare da solo. E che ha fatto di questo la propria comfort zone. Mi sono disabituato a rapportarmi con gli altri. Nella mia quotidianità mi piace scrivere, registrare, stare da solo in una stanza. Al cinema e a teatro vado da solo. Anche al ristorante, e qui ascoltare le conversazioni dei tavoli vicini». 

Ma Paolo Kessisoglu?

«Sia chiaro: non è che perché faccio uno spettacolo senza di lui, significa che ci siamo separati. Semplicemente ho una espressività che in questo momento esprimo anche senza di lui, senza per questo mettere in gioco il nostro rapporto». 

Ma come amico?

«Siamo insieme da 30 anni e più. Tra noi è un'altra cosa: un rapporto matrimoniale, collaudata impresa. Se lavori con una persona tanto come abbiamo fatto noi, penso che sia più sano e meno rischioso tenere le cose separate».

(...)

Chi vorrebbe come amico?

«Luca Parmitano: sarebbe la realizzazione di un mio sogno da bambino, l'amico astronauta. Nella vita sono state tante le persone di cui mi piacerebbe definirmi amico: frequentate magari per poco, hanno lasciato impronte indelebili. Come Alex Zanardi: senza accorgersene e senza volerlo, mi ha insegnato tanto». 

Nessuno nello spettacolo?

«Giorgio Gaber: ci siamo incrociati tanti anni fa per il tempo di uno sguardo, ma in quel poco mi ha raccontato quale sarebbe stata la mia vita nel futuro. Forse più di chiunque mi ha mostrato la strada. E poi c'è Adriano Panatta: lui mi ha fatto vedere un modo di vivere che vorrei tanto fosse il mio.

Se rinascessi, non vorrei il suo rovescio o la volée, ma la sua testa: come riesce a farsi scivolare le cose addosso, mentre su di me ogni cosa invece lascia segni. Il bello è che te lo trasmette: stai con lui e ti senti come lui. Però in questo momento un po' gliene voglio: gli ho chiesto di fare un podcast con me. "E cos'è?", mi ha chiesto.Poi, durante gli ATP Finals l'ha fatto con Bertolucci. Non glielo perdonerò mai».

(...)
 
Paolo Kessisoglu: «Riscopro i miei genitori, morti nel giro di 6 mesi. Mi sto separando, loro sono una lezione». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2023.

Il comico genovese, che si sta separando dalla moglie Sabina Donadel, ha commosso molti con il post su papà e mamma morti a pochi mesi di distanza: «Ho realizzato che erano delle persone diverse da come le vedevo» 

«Mi sa che la mamma e il papà sono diventati famosi per colpa mia». Paolo Kessisoglu ha scritto solo questo alla sorella, dopo aver realizzato cosa avesse scatenato il suo racconto di quello che si prova, da figli, quando si perdono i propri genitori. È bastato pubblicare una vecchia foto della coppia, in bianco e nero. E aprire il proprio animo, con sincerità. «Sono stato travolto dai messaggi, francamente non era pianificato. Quella che ho pubblicato era solo una delle tante immagini che ho trovato in questi mesi, dopo la loro morte. Mi sembrava talmente bella... e poi si baciavano...».

Non capitava spesso?

«Li avrò visti tre o quattro volte in tutto. Insomma, raramente. Erano molto riservati e di poche parole. Ma quella foto, come alcuni altri loro oggetti, hanno mosso qualcosa. Mi hanno fatto realizzare che i miei genitori erano anche della persone, entità diverse da quelle che io vedevo semplicemente come mamma e papà».

Scrive che sono morti a poca distanza l’uno dall’altra.

«Mia mamma è morta lo scorso giugno per quella che all’inizio sembrava una banale infezione. È stata una doccia fredda per tutti, aveva 77 anni. Mio papà ne aveva 83 ed è morto subito dopo Capodanno. Anche in quel caso, è stato improvviso. Io e mia sorella ci siamo ritrovati faccia a faccia con tutte le loro cose: dovevamo decidere cosa tenere, cosa buttare... stiamo facendo una seduta psicanalitica che dura da mesi».

Cosa l’ha sorpresa?

«Realizzare che erano persone, appunto. Ho trovato trecento lettere d’amore che si erano scambiati quando mio padre faceva il militare. Ne ho letta qualcuna e sono incappato in quello che ho poi capito fosse una sorta di “scazzo” tra loro, con mia madre gelosa perché lui le aveva detto che forse non era la settimana giusta per andarlo a trovare in caserma... vederli sotto questa luce mi ha fatto riflettere moltissimo».

Ritrovamenti inattesi?

«Come molte persone della loro generazione erano degli accumulatori seriali, in più mio padre era un collezionista. Cosa che sapevo anche se non immaginavo l’entità delle sue collezioni, che vanno dai francobolli ai gagliardetti delle squadre di calcio. Non riesco a buttare niente, mi pare di fargli un torto. E non solo: mio padre era un grande tifoso del Genoa mentre la mia passione per il calcio nel tempo si era un po’ annacquata: da quando non c’è più lui, ora mezza partita me la guardo... buffa questa cosa, mi sembra che così la veda un po’ anche lui, mi sembra di essere in connessione».

Avevate un bel rapporto?

«Sì, anche se per un periodo, anni fa, mi ero un po’ allontanato da loro. Era tutto rientrato, ma oggi cercherei di ricucire più in fretta. Aiuta capire che i genitori non sono macchine perfette, ma persone, come noi. Lo sto realizzando ancora di più da quando mi sto separando da mia moglie: non sono più un papà super eroe, ma il rapporto con mia figlia mi pare quasi migliorato grazie a questa consapevolezza. I miei sono stati due buoni esempi: erano persone buone. Ora incontro moltissime persone che me lo ricordano».

Ad esempio?

«Gente che mi dice che mio padre aveva regalato loro un quadro, amici che mi raccontano che i miei avevano prestato loro dei soldi senza volerli indietro, pur non navigando nell’oro. L’ultima volta è successo al garage sotto casa loro: sono andato per pagare ma il signore che lo gestisce me lo ha impedito. Poi mi ha mostrato una ceramica di Capodimonte raffigurante un calciatore e mi ha detto: me l’ha regalata tuo papà».

Non immaginava tutto questo?

«Sapevo fossero generosi, ma tutto questo no. Ho anche trovato un faldone in cui mio padre aveva ritagliato e conservato tutte, ma tutte le mie interviste: dalle copertine ai trafiletti. Di mia mamma ho trovato dei diplomi da dattilografa: quando siamo nati aveva deciso di non lavorare più, ma ora mi chiedo quali fossero davvero le sue aspirazioni, i suoi sogni».

Non glielo ha mai domandato?

«Ammetto di non essere stato un grande parlatore, ma non ho mai parlato tanto con i miei come da quando non ci sono più. Mi piace immaginare cosa mi risponderebbero ora. Vorrei avere l’opportunità di chiedere loro delle cose che non attengono al loro ruolo di genitori. È come se la loro scomparsa mi avesse reso meno ego-riferito: ho capito che c’erano un sacco di cose di loro che non avevo capito».

Come ha vissuto suo padre la perdita di sua madre?

«Dopo 60 anni in simbiosi è faticoso. Per aiutarlo gli avevo chiesto se ci fosse qualcosa che desiderava fare e lui, chissà perché, mi aveva risposto: un viaggio a Palermo. Ho prenotato subito, senza immaginare sarebbe stato l’ultimo. È stato un tempo sospeso e bellissimo in cui mi ha parlato di tutto, svelandomi ad esempio che avrebbe voluto fare il capitano di una nave. Mio padre capitano di una nave: assurdo. Quel tempo solo nostro mi pareva lo avesse un po’ rimesso in carreggiata».

C’è qualcosa che ancora non riesce a fare?

«Non riesco a cancellare il loro numero di telefono dalla mia rubrica, sul cellulare. Poco dopo che era morto mio papà ho chiesto a mia sorella di mandarmi una foto che c’era sul suo telefono: vedere comparire ancora una volta il suo nome sul mio schermo, nella notifica del messaggio, mi ha fatto provare un’emozione che fatico ancora adesso a spiegare».

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” giovedì 16 novembre 2023

In teatro dev’essere un’altra cosa. In tv manca quel rapporto empatico (si dirà così?) tra palcoscenico e platea e quindi si fa fatica a capire cosa pensi veramente Checco Zalone dei suoi spettatori: quando si rivolge loro insultandoli, quando finge di adularli, quando li asseconda. Canale 5 ha proposto «Amore + Iva» la performance teatrale scritta da Luca Medici, Sergio Maria Rubino, Antonio Iammarino […] 

L’aspetto più avvincente della comicità di Checco è che ognuno si sente gratificato dalle sue battute, come se fossero rivolte ad altri. Ridiamo perché ci sentiamo immuni, noi che non ci facciamo problemi con gli immigrati, con gli omosessuali, con gli svantaggiati di ogni tipo. Ridiamo perché riteniamo imbecilli quelli che non capiscono gli accenni al catcalling, al body shaming, al gender. Ridiamo perché ci sfugge la cosa principale: quelle battute sono rivolte anche a noi. 

Checco è lo specchio in cui non vogliamo specchiarci. Lo si capisce subito, da quando un finto Tg5 condotto da Cesara Buonamici, ora opinionista al «GF», lo intervista «in esclusiva»: il problema è che quel tg non ha nulla di finto, è quello che ci sorbiamo ogni sera, su tutte le reti. 

[…]  Fra i cosiddetti comici, Checco è il più politico di tutti: dietro la parvenza della scorrettezza c’è un raffinato intellettuale che regala con generosità perle ai porci (i porci siamo noi, quando ridiamo facendo finta di afferrare), che ama rivolgersi più alla testa che alla pancia.

A cominciare dall’imitazione di Putin, sul palco si susseguono personaggi del suo mostrificio: il rapper Ragady (il nome chiarisce il problema da cui è afflitto), il maestro Riccardo Muti («nato a Molfetta, città a cui ho dato i natali»), Vasco Rossi invecchiato e pieno di paturnie, Andrea Bocelli, e il problema dell’ascella della cantante che lo accompagna (si chiama Alice Grasso, è molto brava ma non è parente). Le imitazioni sono la parte più debole, ma va bene così.

Da repubblica.it sabato 29 luglio 2023

Un vero comico sa sfruttare ogni situazione, ogni disavventura per fare spettacolo. Se poi si tratta di un talento vero come Checco Zalone il risultato è assicurato. Nella tappa padovana del suo show Amore + Iva che dallo scorso novembre sta portando in giro per tutta Italia Zalone ha raccontato di essere stato derubato: “Volevo ringraziare per l'accoglienza - ha detto al pubblico dal palco di Piazzola sul Brenta - Ieri per farmi sentire a casa, a Padova, mi hanno aperto la macchina e si sono portati via tutto. Neanche le mutande mi hanno lasciato. Davvero eh, mica sto scherzando". Lo spettacolo, un vero successo e sold out con 250mila biglietti venduti, 22 date a Milano, 14 a Roma e tante altre in giro per il paese, si chiuderà il 9 ottobre al Mediolanum Forum di Assago.

Facebook. Cinematographe.it. il 3 giugno 2023.

"Ho provato in tutti i modi ad avere il posto fisso. Mi sono laureato in legge, ma non mi ricordo niente. Ho dato un concorso da ispettore di polizia, ma non mi hanno preso. Zia Lina tentò di farmi assumere da un avvocato: avrei dovuto fare le fotocopie nello studio dall'onorevole Francesco Paolo Sisto. L’altro giorno l’ho incontrato e gli ho detto: 'Fammi ‘na fotocopia, dai.' Sono stato anche rappresentante di medicinali. Piazzavo molta amuchina che a Bari c'era paura del colera.

Alla fine ho iniziato a suonare ai matrimoni. Era un mestiere redditizio, perché in Puglia il matrimonio va molto. Erano 70€ a serata. C’era di tutto. Anche pregiudicati con amici e parenti in galera. Presi l’abitudine di esordire così: 'Il concerto è dedicato ai reclusi di Taranto, con augurio di presta libertà'. Al Nord scoppiavano a ridere. Al Sud scoppiava un applauso sincero: mi prendevano sul serio.

Insomma le ho provate tutte. E non mi sono mai arreso. Sono stato fortunato, anzi fortunatissimo perché senza una buonissima dose di culo non vai da nessuna parte, ma quando ho avuto un’occasione ho dimostrato di sapermela meritare. Mi mandavano in onda, a Telenorba e poi a Zelig, funzionavo, facevo ridere. Oggi piaccio all'italiano terra terra o a De Gregori, all'intellettuale, è al pubblico di mezzo che sto sulle palle."

Il mitico CheccoZalone compie oggi 46 anni

Checco Zalone: «Ho cucinato per Meloni, ma ho votato Pd. Mia moglie Mariangela? L’ho conquistata con una scusa penosa». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 17 Marzo 2023

«Oggi il problema non è che non si può dire nulla, è che si può dire tutto, anche troppo: ognuno è libero di ferire e offendere». Il pubblico migliore? «Al Nord: è pieno di terroni civilizzati»

Luca Medici, anzi Checco Zalone, la vedo in forma.

«Esco ora dalla palestra. Mi alleno tutti i giorni».

Pesi? Bilancieri?

«Fa tutto il personal trainer; io non faccio un cazzo».

Non si può dire questa parola sul Corriere.

«Capisco. E, conoscendo il suo cognome, capisco il suo dramma. Scriva: io non faccio nulla».

Fa teatro: 55 spettacoli in giro per l’Italia, tutti esauriti. Che Italia ha visto?

«Un Paese senza pazienza. Non vuole più racconti ma sintesi. I ragazzi non guardano più la partita; preferiscono gli highlights».

Nella sua ultima intervista, tre anni e mezzo fa al Corriere, lei si ribellò al politicamente corretto: «Qui non si può dire più nulla...».

«Oggi il problema è quello opposto: qui si può dire tutto; anche troppo. Si dà voce a chi non lo merita. Ognuno è libero di sparare le sue nullate, di ferire, di offendere, senza conseguenze. Il male del secolo è il narcisismo. E il nostro specchio di Narciso è il telefonino. Sto cominciando a pensare a un film, e il tema sarà questo: il narcisismo di massa».

Lei però continua a essere considerato politicamente scorrettissimo.

«Le polemiche social sono costruite ad arte dai media, in particolare da certi narcisi che conosco, alla ricerca di click. Alla gente non importa nulla; e io non rispondo mai, per non alimentarle. Mi hanno crocefisso per la storia della Cenerentola transessuale, e sa qual è lo sketch dello spettacolo che fa più ridere il pubblico?».

La Cenerentola transessuale. Com’è?

«Lei vorrebbe essere invitata al ballo del principe, nonostante di scarpe porti il 48. Così arriva Fiorenza, ‘a fata de Cosenza — quando dico Fiorenza ‘a fata de Cosenza con l’accento calabrese è il momento in cui ridono di più —, che viene dai cieli, porta carrozze e toglie peli. La trans può così partecipare al ballo e ovviamente il principe si innamora proprio di lei... è una storia che trovo dolcissima, quasi delicata. Dov’è l’offesa? Le ultime file in particolare muoiono dalle risate. Avessi tanti soldi, cambierei le prime file con le ultime: venite qui davanti...».

Chi c’è in prima fila?

«La borghesia impellicciata. In fondo c’è il popolo. A Roma poi ho lo stress pazzesco dei biglietti omaggio. Li chiedono un po’ tutti, e devi capire a chi non puoi dire di no».

Il suo ultimo film, Tolo Tolo, uscì il primo gennaio 2020, alla vigilia della pandemia.

«Ancora me lo rinfacciano come se fosse una colpa: “Che culo hai avuto!”. In effetti il povero Verdone sarebbe dovuto uscire subito dopo... Chiedo scusa a Verdone. Mi sono inimicato lo star system».

Quel film cambiò la sensibilità degli italiani verso i migranti.

«Dice? Io penso di no. La produzione durò un anno e fu devastante, dal punto di vista fisico e mentale. Lo passai tra loro, perché non volevo caricature, volevo facce vere. Poi scrissi la canzone finale sulla cicogna strabica, che decide il destino dei bambini, chi nasce in Occidente chi in Africa...».

Reazioni?

«Il pubblico si è diviso. Tra i delusi, che non trovavano il film abbastanza comico, e gli entusiasti per un impegno civile che nelle mie intenzioni non c’era. Questa distinzione tra nero e bianco mi pare superata: non è che far affogare i migranti sia di destra e salvarli sia di sinistra».

Ultimamente i migranti tendono più ad affogare.

«Cantando cantando, vedrà che li salveranno».

Come ha trovato il video del karaoke Meloni-Salvini?

«È stato strumentalizzato».

Stava dicendo delle sue intenzioni: quali erano?

«Il mio era uno sguardo candido, di uno che non prende partito. Tolo Tolo l’avevo lanciato con una canzone ispirata a Celentano...».

«Immigrato», accusata di razzismo.

«...Che aveva fatto ben sperare al destrismo italiano. I cattivi ci sono rimasti malissimo. Ma a me ha dato più fastidio la reazione degli altri, i buoni, quelli che dicevano: è decisamente uno dei nostri».

Lei di chi è?

«Dei perdenti. Sono del 1977, votai per la prima volta nel 1996: Berlusconi secco. Perse. Poi non mi ricordo: ho rimosso. Di sicuro ho votato Renzi, e ha perso pure lui. L’ultima volta ho votato Pd, e ha straperso».

Checco Zalone sincero democratico è scoop. E la Meloni?

«Un’estate ero in vacanza in Puglia con gli amici delle mie figlie, tutti fascistoni, quindi fan di Giorgia. Pure lei era in vacanza lì vicino. E mi mandò un WhatsApp chiedendo di incontrarmi».

E lei, Checco?

«Io non incontro mai politici, però non volevo deludere i miei amici. Pensai a un caffè in gran segreto, ma loro si ribellarono: “La devi invitare a pranzo a Giorgia!”. Così le ho mandato questo WhatsApp, legga: “Abbiamo affittato un villino anni 80 (condonato). Ci sono panzerotti, riso patate e cozze, parmigiana, latticini... Hai allergie e intolleranze, oltre a quelle che già conosciamo?”».

La Meloni risponde seria che è allergica alle nocciole. Poi però la chat continua...

«Qui comincia la parte erotica, ma non posso fargliela leggere».

Anche una storia tra Giorgia Meloni e Checco Zalone è scoop.

«Scherzo, dai. Non ci siamo più visti né sentiti. Mi ha mandato un messaggino per chiedermi come andava lo spettacolo, e io le ho risposto. Tutto qui. Dalla politica mi tengo lontano».

Elly Schlein come la trova?

«Stupenda! Bellissima!».

Almeno la sua famiglia sarà di destra.

«Nonno Pasquale sì: fascistone. Lo chiamavano don Pasquale, perché era capostazione, e mi diceva sul serio la frase fatidica: “Quando c’era Lui, i treni arrivavano in orario...”. “Sì, ma per merito tuo che eri il capostazione, non Suo” gli rispondevo. Il nonno era un uomo molto bello, dagli occhi verdi, somigliava a Terence Hill. Nello spettacolo c’è una gag, Putin che si fa tirare il dito ed emette gas, che il nonno faceva ai pranzi di famiglia».

Lei irride Putin. Però sulle armi all’Ucraina cosa pensa?

«Abbiamo fatto una scelta, l’Occidente. E dobbiamo adeguarci. Pure la Meloni si è adeguata».

Stava parlando del nonno.

«Ma il vero capofamiglia è sua figlia, la sorella di mio padre».

Come si chiama?

«Rachele. Come la moglie del Duce. Pudicamente detta zia Lina. Fascistona pure lei. Autorevole. Single, insomma zitellona: anche perché non era una gran figa, ma non lo scriva, anzi lo scriva pure tanto la zia non sa cosa vuol dire. Era una poliziotta della Buoncostume: come nei film di Edwige Fenech e Barbara Bouchet...».

Scusi ma la citazione ormai è un classico: «Chi su Barbara Bouchetta/ non si è fatto almeno una pugnetta?».

«L’ho rispolverata a teatro. Sul modello della lettera della Ferragni a Chiara bambina, ho scritto una lettera a Checco bambino, che si ammazzava di pugnette su Postalmarket... A Napoli ho inserito anche Marisa Laurito; così, come omaggio alla città. La gente all’inizio rideva sino alle lacrime, ma già dopo due settimane applaudiva per cortesia. Non capiva: si era dimenticata l’originale».

Quest’anno lei a Sanremo non è andato. Perché?

«Perché non mi hanno invitato. Aspettavo con ansia l’invito per dire di no. Amadeus mi ha negato la soddisfazione».

Che effetto le ha fatto il bacio tra Fedez e Rosa Chemical?

«Nessuno. Sono cose già viste, e poi non hanno neanche messo la lingua... Fedez è una vittima del sistema dei social. Lo comprendo e gli voglio bene».

Il patron del festival è Lucio Presta, che è pure produttore del suo spettacolo. Potente e temuto.

«Ho visto come si muoveva a Sanremo, anche alzando la voce se necessario, e mi sono detto: è il mio uomo. Ha una fisicità che intimorisce, averlo nemico non è gradevolissimo. Su 55 serate non ne ha mancata una, senza mai mettere becco sui contenuti, tranne una volta».

Quale?

«Raccontavo la gita a Eurodisney con le mie figlie in parallelo con il viaggio dei bambini ebrei ad Auschwitz. A me pareva una cosa bella, ma Presta mi ha detto: questa cosa dei bambini ebrei è meglio se la lasci perdere. Ho capito che aveva ragione lui».

Torniamo a zia Rachele, detta Lina.

«Mi ha insegnato tutto. Andavo a studiare giurisprudenza a casa sua, mi sono laureato grazie a lei. E a mio padre Alessandro ovviamente».

Cosa faceva suo padre?

«Rappresentante di medicinali. L’ho fatto anch’io per un periodo: il più brutto della mia vita. Piazzavo cerotti per non russare. Ovviamente non funzionavano, ma i farmacisti ne avevano presi moltissimi e mi inseguivano per cospargermi di pece e rotolarmi nelle piume».

E sua madre?

«Mia madre, Antonietta Capobianco, era comunista. Si candidò nel nostro paese, Capurso, e prese 17 voti. A Capurso però i Capobianco erano 18. Partì subito l’inchiesta. Ma non abbiamo mai trovato chi non l’aveva votata, a mamma».

Qual è il suo primo ricordo?

«Una discesa con il triciclo. Andai a sbattere contro il muro, di faccia. Prima ero bellissimo. La mia prima parola è stata Uotila: avevo un anno e avevano eletto il Papa».

Quando ha cominciato con lo spettacolo?

«A dodici anni. Suonavo le tastiere ai veglioni di San Silvestro con mio padre, in un gruppo chiamato Gli Amici del Sud. Sono sempre stato convinto di essere più bravo come musicista che come attore. Il massimo fu quando Pippo Baudo a Domenica In, anziché le solite nullate, mi fece suonare il jazz: Spain, di Chick Corea».

Cosa suonavano Gli Amici del Sud?

«Ci siamo evitati tutto il pop degli Anni 80, dai Duran Duran agli Europe. Noi facevamo i Dik Dik: “L’ora dell’amore”, “Ho in mente te”. E i Beatles. Poi ho scritto la mia prima canzone romantica».

Quale?

«Bucchinhu Rigatu. Ispirato a una nostra amica dai denti sporgenti: “Ahiii, che dolore...”. Per fortuna all’epoca il body-shaming nessuno sapeva cosa fosse. La suonai in un locale che si chiamava Ipanema. Lei, la mia musa, non capì e la trovò molto spiritosa: “Ma come ti è venuta in mente?”. Non ebbi il coraggio di rivelarle la verità».

Cantando ha conosciuto sua moglie.

«Mariangela conduceva il karaoke in un pub. Era la Fiorello di Casamassima. Mi colpì subito per il suo seno prosperos... per il suo sorriso. Così le dissi, guardandola nel sorriso, che avevo bisogno di una cantante per suonare ai matrimoni».

Chi si sposava?

«Nessuno. Era una scusa penosa. Per giorni cercai disperatamente un matrimonio dove suonare. Mariangela me l’ha fatta sudare. Parla benissimo inglese, ha lavorato in America, nelle chiese evangeliche, perché è evangelica. Ora abbiamo due bimbe meravigliose, Gaia e Greta».

Com’è fare il papà?

«Gaia purtroppo ha realizzato che il papà è ricco e vuole un cavallo. Adora i cavalli, vive nei maneggi. Io prima i cavalli li avevo solo mangiati: da noi si fanno le braciole. Così due anni fa le ho regalato un cavallo, con un fiocco, e per scherzo gli stecchini per fare le braciole: “Cosi quando ti stanchi, a papà, non lo buttiamo”. I miei amici hanno riso tutti. La bambina, no. Ora vuole un purosangue; e non si ha idea di quanto costino i purosangue».

E suo fratello, quello che pare il suo sosia?

«Fabio per fortuna ha rifiutato L’isola dei famosi. Fa l’assistente di volo. Aveva perso il posto alla Norwegian con la pandemia, ma proprio l’altro giorno l’hanno assunto alla Air Dolomiti. C’è anche Francesco, il fratello più piccolo, che in realtà è enorme. Faceva l’attrezzista di scena. Poi è dimagrito con la dieta dei Vip e ora mi fa da assistente, anche se lo scambiano per il buttafuori. È buonissimo, però ha la faccia cattiva. Ogni tanto mi manda a quel paese e i fan si stupiscono: “Ma che buttafuori ti sei preso?”».

A Sanremo l’anno scorso lei prese in giro Al Bano. Si è offeso?

«Ma no, era contento. Sono stato a casa sua, a Cellino San Marco: la villa delle meraviglie. È più grande dell’intero paese. Qui un capitello corinzio, là un’insegna western... È venuto a sentirmi a Roma, insieme con De Gregori».

De Gregori?

«Francesco è l’unico amico vero che ho nel mondo dello spettacolo. Mi ha adottato».

Eppure dicono sia distanziante. Lo chiamano il Principe.

«Proprio per questo mi piace. Vado a mangiare a casa del Principe quando voglio, e questa è una delle più belle soddisfazioni della mia vita. L’altra sera io ho cantato Viva l’Italia, e lui La Prima Repubblica, tra il tripudio del pubblico. Poi però è salito sul palco Al Bano. E ha rovinato tutto».

Cioè?

«Al Bano ha una voce pazzesca. Ha cantato Nel sole, e ha preso un dooooo di petto che ha cancellato il resto. Ci ha massacrati».

Dove ha avuto più successo il suo spettacolo?

«In Svizzera. A Lugano e a Zurigo mi sentivo Michael Jackson. A Ginevra li ho fatti morire dal ridere sull’assenza del bidet, ho lanciato un appello al sindaco perché riconverta la grande fontana, il Jet d’Eau, in bidet per italiani all’estero».

E da noi?

«A Torino. Subito dopo, Milano».

Come se lo spiega?

«Il pubblico migliore è quello del Nord, perché è un coacervo, c’è di tutto. È pieno di terroni civilizzati. A Bologna ci sono più salentini che a Lecce; e i salentini per noi di Bari sono i veri terroni. Le città più difficili sono quelle che hanno un’identità culturale più forte: Firenze, Roma. La più dura in assoluto è Napoli».

Perché?

«Quella sera giocava il Napoli in Champions, ho dovuto chiedere scusa al pubblico perché lo spettacolo disturbava i telefonini su cui tutti seguivano la partita. E poi hanno avuto Totò e Troisi; mica stanno ad aspettare te. Totò è il più grande in assoluto, però Troisi lo sento più vicino. Anche se piaceva molto alle donne; e un comico per far ridere non deve scopare, o comunque non deve dare l’impressione di farlo».

Chi sono i suoi altri modelli?

«Sordi. Non solo ha recitato la parte della canaglia; ha fatto grandi film, come Una vita difficile e Il vedovo. E io quelli non li ho ancora fatti. Paolo Villaggio è stato grandissimo. Tra gli attori, Marcello Mastroianni. Ho visto su RaiTre una sua intervista...».

Cosa diceva?

«Era già vecchio e stanco. Stava girando un film di cui non gli importava nulla. Era sulla roulotte. E diceva: “In fondo facciamo un mestiere bellissimo. Questo film non lo vedrà nessuno, ma pazienza. Tanto saremo tutti ricordati per due o tre cose”. Aveva ragione. A me mi ricordano per Angela. Non me la tolgo di dosso. E io ogni sera canto Angela».

La sua Puglia è di gran moda. Lei, Caparezza, i Negramaro. E poi gli scrittori: Carofiglio, Carrisi, Lagioia...

«Nicola Lagioia è il figlio del signorotto del paese, Franco Lagioia, ricco imprenditore. Mio nonno materno lavorava per lui. Mio papà ha comprato casa da lui. Io ho letto “La città dei vivi”, e mi è piaciuto».

Checco Zalone legge?

«Di notte, perché non riesco a dormire. Oppure ascolto gli audiolibri».

Perché non riesce a dormire?

«Per l’ansia. Di deludere, di fallire. Così mi aiuto con le pillole. Ansioso come me c’è solo Fiorello, Amadeus invece è così calmo... Durante la lavorazione di “Tolo Tolo” ho provato pure lo Xanax. Una volta all’Arena di Verona, mentre aspettavo di salire in scena per promuovere “Sole a catinelle”, stavo piangendo per la tensione. Arriva Gianni Morandi, che conduceva la serata, mi accarezza, mi tranquillizza: “Che vuoi che sia?”. Un grandissimo. Del resto se arrivi a 75 anni, dopo 70 anni di carriera, vuol dire che hai qualcosa dentro. E la gente lo sente».

Ora cosa sta leggendo?

«Tasmania di Paolo Giordano. Ho trovato geniale l’intuizione di partenza. Lui parla dell’inquinamento, a me è tornata in mente la pandemia, che per molti è stato un periodo bellissimo. Sopravvivere a una tragedia è una soddisfazione».

Lei ci ha rallegrato i lockdown con due video: «L’immunità di gregge...».

«Ispirato a Modugno».

...E «La Vacinada». Come ha fatto a convincere la grande Helen Mirren a interpretare la parte della tardona?

«È stata lei a cercare me. Ci ha invitati nella sua masseria in Puglia, Mariangela si è messa in tiro, e Helen ci ha ricevuti in tuta e ciabatte. Non aveva preparato niente: ci ha fatto trovare gli ingredienti, e noi ospiti abbiamo cucinato insieme, chi la pizza, chi gli spaghetti; così siamo diventati amici».

Erano i tempi in cui il vaccino potevano farlo solo gli anziani...

«E potevi fare l’amore solo con loro. Helen si è divertita moltissimo. C’era anche suo marito, Taylor Hackford, il regista. Lui ha girato Ufficiale e gentiluomo; io La Vacinada».

Su YouTube c’è un video da milioni di visualizzazioni in cui Checco dice a Laura Pausini che l’ha «sempre trovata un po’ sporcacciona...». Ma queste cose le provate prima? L’ha avvisata la Pausini?

«Certo che no! I comici non devono fare prove: rovinerebbero l’effetto. Ma i veri grandi non si offendono mai. Nello spettacolo prendo in giro Riccardo Muti: è venuto a trovarmi in camerino, rideva felice».

Prende in giro anche Vasco, che sul deep web trova le analisi del sangue di Ligabue e le confronta con le sue: trigliceridi, transaminasi...

«Conoscere Vasco è il mio sogno. Sono andato a un suo concerto, e quella volta il biglietto omaggio l’ho chiesto io. Siccome sono un Vip, mi hanno messo proprio sotto il palco, lui mi ha visto, mi ha fatto “eeehhh”, e mi ha chiamato su. Però questo non vuol dire conoscersi. Vasco è il mio idolo».

Prima che la storpiassero Salvini e Meloni, lei aveva già parafrasato la Canzone di Marinella di De André ai tempi delle olgettine: «Questa è della D’Addario la storia vera...».

«A Mediaset scoppiò il dibattito: trasmetterla o no? Berlusconi era presidente del Consiglio. Io dissi: metà del pubblico di Zelig l’avrà filmata col telefonino; se non la mandate in onda, uscirà lo stesso, e voi farete una figura del nulla. La mandarono in onda».

Checco Zalone nuovo Fantozzi Ultima, grande maschera comica. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 4 gennaio 2023.

Caro Aldo, ho appena visto Checco Zalone, è arte pura! Artista poliedrico con una comicità che fa riflettere, supportato da altrettanti grandi artisti! Lo rivedrei volentieri. Silvana Gangi Zalone è un genio, musicista, cantante, attore, regista e comico. Michele Girardi Serata da piegarsi dal ridere con Checco. E poi riascoltare dal vivo certe «perle» fa bene all’umore e alla salute! Davide Lassi, Milano Zalone non mi piace, non mi è mai piaciuto, ma come si è permesso di imitare il maestro Muti, comunque non mi fa neppure ridere. Michele De Crescenzo

Cari lettori, Come i veri grandi, Riccardo Muti è persona alla mano, disponibile, che sa ridere di se stesso (scostanti e permalosi sono di solito gli artisti che non valgono molto). I vostri elogi e anche qualche vostra critica mi hanno indotto ad andare a vedere «Amore + Iva», lo spettacolo di Checco Zalone, nome d’arte di Luca Medici. È ovviamente divertentissimo. Il pubblico lo ama molto, ed è davvero un pubblico interclassista. Checco sa ridere dei pregiudizi degli italiani — quelli dei settentrionali verso i meridionali, e viceversa —, e soprattutto ha questa straordinaria capacità di ridere contemporaneamente del pubblico e con il pubblico. Ride cioè degli italiani e con gli italiani. La sua è l’ultima delle nostre grandi maschere comiche: Totò, Alberto Sordi, Paolo Villaggio. Come loro, sa incarnare i peggiori vizi degli italiani, ma sa anche trovare quell’umanità che si cela in fondo all’animo pure dei peggiori tra noi. Qualcuno lo trova volgare; ma la volgarità non è dire parolacce (quale comico non le dice?), è non offrire mai alla bassezza umana una possibilità di riscatto. E poi il comico, come diceva appunto Paolo Villaggio, non può essere «scopante», non può essere bello, non deve dare l’idea di fare impazzire le donne; problema che con Checco almeno all’apparenza non si pone. Checco Zalone è il nuovo Fantozzi; mentre Luca e Paolo, ad esempio, sono bravissimi, ma violano la regola aurea del grande Villaggio. Ps. Il teatro degli Arcimboldi era esaurito, e lo sarà nei prossimi giorni. Nei Paesi civili, ad esempio in Germania ma pure in Brasile, fuori dagli stadi o dai palazzetti o dai teatri c’è la fila dei taxi in attesa dei clienti. In effetti fuori dal teatro degli Arcimboldi c’è il parcheggio dei taxi. E c’erano dieci taxi parcheggiati. Vuoti però. I tassisti sono arrivati uno a uno, con i loro cari: erano andati pure loro a vedere lo spettacolo. Nulla di male, per carità. Solo che la gente aveva bisogno di taxi in servizio. Si è creata quindi, anziché una fila di taxi in attesa dei clienti, una fila di clienti in attesa dei taxi. Che non c’erano. Li si poteva chiamare. Il primo è arrivato dopo dieci minuti. Il tassametro segnava 14 euro.

Luca Miniero: «Il boom di “Benvenuti al Sud”? Merito di Bossi. I nostri anni 80 a Napoli più faticosi di quelli dei paninari a Milano». Storia di Candida Morvillo su Il Corriere della Sera domenica 20 agosto 2023

Luca Miniero, detto «miniero d’oro» da quando il suo «Benvenuti al Sud» sbancò i botteghini: quando non fa film, che cosa le piace fare? «Mi piacerebbe dire, come diceva Marcello Mastroianni, che sto steso sul divano in uno stato catatonico. È così, non ho tanti hobby: quando non giro, sto sul divano, ma scrivo. Scrivere mi dà piacere, non è che avrei piacere di andare a cavallo o in barca».

Esiste una forma di pigrizia creativa prettamente napoletana? «Non lo so, non è che sto fermo e dovrei fare cose che non faccio. Io più che pigro, seleziono le cose da non fare: non pulisco mai casa; non ho la macchina, preferisco il taxi; ho sempre il frigo vuoto, se no dovrei fare la spesa, ce l’avevo vuoto pure quando ero povero ma mangiavo fuori, rovinandomi lo stomaco. Io sono paralitico, non pigro».

Al cinema, nessuno come lei ha raccontato le differenze fra Nord e Sud Italia. Com’era fatto il Sud in cui è nato? «Di quartieri piccoli borghesi, quelli del sacco di Napoli raccontati da Francesco Rosi nelle «Mani sulla città». Il mio era l’Arenella, che però quelli di Arenella chiamano Vomero, sebbene sia molto più popolare del Vomero. I miei genitori, mamma che lavorava alla Sip, papà al Comune, ci erano venuti negli anni ’60 dalle parti basse della città. Erano “sagliuti” da Porta Capuana: avevano fatto la scalata sociale. E mentre mio papà non aveva cambiato stile di vita e continuava ad appendere meloni sul balcone, mia madre era “più sagliuta”, anche perché aveva studiato di più. Eravamo tre fratelli, io ero ragazzo negli anni ‘80 e ricordo una Napoli molto violenta, la presenza della camorra si sentiva. Diciamo che i nostri anni ’80 sono stati più faticosi di quelli dei paninari di Milano».

E lei come finisce a Milano subito dopo la laurea? «Perché all’università era venuto a parlare un copywriter e così scoprii che esisteva questo lavoro nella pubblicità. Andare a Milano fu come essere deportato: coi treni diversi dagli attuali, era una città molto lontana. Arrivai non con la valigia di cartone, ma con un taccuino che mi servì per specializzarmi in colloqui. Ne feci più di 80 in piccole agenzie. Segnavo tutto: domande, risposte e, se mi dicevano “richiama fra un mese o fra tre mesi”, davvero richiamavo».

Ha fatto in tempo a conoscere la Milano da bere? «Da bere c’era poco e anche da mangiare. Era una Milano in crisi, che licenziava, trovare lavoro era difficile. Cominciai scrivendo etichette di shampoo e di detersivi. Sembra facile ma era complicatissimo: non puoi dire che un prodotto è fatto di un certo ingrediente perché ce n’è l’un per cento, non puoi dire che fa bene a qualcosa se non è scientificamente provato... Poi, passai agli spot e, quindi, realizzai il sogno di un contratto vero in un’agenzia importante».

Il «posto fisso», finalmente? «Ci tenevano di più i miei genitori. Io, quando le cose diventano stabili, scappo. Infatti, il posto fisso lo lasciai molto presto: non amavo particolarmente Milano, c’ero stato quattro anni, ricordo una città fredda, la mia casa era triste: guardava il cimitero monumentale, che non era ancora dentro un quartiere cool come oggi. Tornai a Napoli, facevo colloqui a Roma, mi presero in un’altra agenzia importante. Vinsi parecchi premi, anche uno a Cannes. Cominciai a fare i corti e da lì è arrivato il cinema».

Prima, non aveva pensato di diventare regista? «Ai tempi, non disponevamo di tutte le informazioni che ci sono oggi. Non sapevo neanche che esistesse una scuola di cinematografia. A fare il regista mi ci sono trovato e la certezza di farlo l’ho avuta solo dopo Benvenuti al Sud».

Primo corto nel 1999: «Piccole cose di valore non quantificabile», regia sua e di Paolo Genovese. «Era la storia di un brigadiere dei carabinieri che registrava la curiosa denuncia di una ragazza, la quale sosteneva di essere stata derubata di tutti i suoi sogni. Con Paolo, ci eravamo conosciuti a Roma lavorando in McCann Erickson: era nata una grandissima amicizia diventata un sodalizio durato anni. Potevamo tutto perché eravamo amici, ci vedevamo da mattina a sera, immersi in un’atmosfera di risate e senza tensioni. Quando trovi un compagno di lavoro così, per quanto abbia un senso dell’umorismo diverso dal tuo, puoi fare grandi cose. Il cinema iniziò per gioco, con tutta una storia legata a «Incantesimo napoletano», complicata da spiegare».

Faccia uno sforzo. «Era il primo racconto che scrissi, mentre facevo su e giù fra Napoli e Milano per motivi non di lavoro, ma di ricerca di lavoro. Ai tempi, le differenze fra Nord e Sud erano davvero tante e mi venne in mente la storia di una famiglia col culto della napoletanità a cui nasce una figlia che parla milanese, sogna di aprire una fabbrichetta e ama il panettone invece della pastiera. Io e Paolo, però, non avevamo soldi per girarlo, ma un nostro amico, Tonino Risuleo, aveva girato un corto con delle immagini di pescatori che ci piacevano e che pensammo di rubare e doppiare. Vincemmo un premio al Festival di Locarno, Tonino ci fu pure molto grato, e il premio ci consentì di girare il primo corto vero, quello sulla ragazza derubata dei suoi sogni».

E da «Incantesimo napoletano» nacque anche il primo, omonimo, film, nel 2002. «Marina Gonfalone, che interpretava la mamma, vinse il David di Donatello. Fu un progetto molto fortunato. Poi il film uscì su Prime, la gente se lo ricorda, io ci sono molto affezionato».

Con Genovese ha firmato anche «Nessun messaggio in segreteria» e «Questa notte è ancora nostra». Perché dopo il 2008 vi siete separati? «Non c’è stato un momento in cui lo abbiamo deciso, è stato un allontanamento graduale. Lui andava verso la commedia sentimentale, io più verso il comico, ma non c’è mai stato un conflitto, anche perché litigare con lui è impossibile. Fra noi è finita come in una storia d’amore: non ti ricordi mai perché ti lasci con una persona».

Il primo film da solo fu «Benvenuti al Sud», trenta milioni di incassi, come si spiega quel successo? «Era un momento in cui c’era la Lega secessionista, Umberto Bossi aveva appena detto che SPQR stava per “sono porci questi romani”. E perché funzionano i luoghi comuni estremizzati: Claudio Bisio che va a Castellabate col giubbotto antiproiettile mostrava chiaramente il pregiudizio di chi vedeva il Sud come un’indistinta Bagdad. È come quando Totò va a Milano col colbacco e si meraviglia che non c’è la nebbia».

Altri luoghi comuni fra quel film e «Benvenuti al Nord»? «Mi interessano quelli legati alla socialità, al fatto che i milanesi non ti accompagnano a casa, ma alla metro o che i napoletani ti obbligano a prendere caffè, se no si offendono. Poi, il luogo comune ti porta a pensare che ci restano male per tutto il giorno. Oggi, però, le differenze si sono ammorbidite: ora, il confronto è più fra il centro e la periferia».

Un «Benvenuti a Roma» è immaginabile? «Non più, perché tutti si muovono fra Milano e Roma, ma un terzo episodio potrebbe trovare una sua attualità lavorando sui politici: in tempi di smartworking, gli ultimi pendolari sono loro».

Quando la nuova destra ha vinto le elezioni, cosa le è venuto in mente di «Sono tornato», il film in cui Benito Mussolini si risveglia nell’Italia di oggi? «Quel film era girato come un documentario, ma nelle scene in cui il duce passa per strada e le persone gli fanno il saluto romano non vedo un Paese fascista, vedo persone che scherzano con un attore e un quadro in cui il giudizio su Mussolini è quasi bonario. Mentre è facile dire che Adolf Hitler era il demonio, da noi, Mussolini era un demonio e la gente non lo sa. In ogni caso, oggi, non ha senso parlare di fascismo, oggi conta dire se sei contro gli immigrati o no... L’errore della sinistra, invece, è usare etichette».

Coi dovuti distinguo, avrebbe senso, più in là, un «Sono tornato» su Silvio Berlusconi? «Quando saranno passati 40 anni, mi candido».

Perché piace così tanto la sua serie Rai «Le indagini di Lolita Lobosco»? «Perché il vicequestore Lobosco è un altro personaggio del Sud che va al di là dei luoghi comuni. È una di noi, non molla mai. È brava su lavoro, ma non risolta nei sentimenti, vive un conflitto fra sposarsi o no, avere o no una famiglia».

Lei una famiglia ce l’ha, ma non ne parla mai. «Ho una compagna da sempre, un’economista che insegna a Firenze e che ha un figlio di 28 anni, mentre insieme abbiamo una figlia di 23, Vera, che studia sceneggiatura».

Con tanti film comici all’attivo, è stato un papà simpatico? «Non dovrei dirlo io, ma penso di sì. Sono stato molto assente nella prima parte della vita, quando i treni andavano più piano, ma alla fine è andata bene».

Da quanto tempo non va a Napoli? «Ci ho appena girato un documentario che forse porto a Venezia. È sulla tragedia di Melarancio del 1983: undici bimbi morti in gita. Ho incontrato le persone 40 anni dopo, ho toccato il senso di colpa dei sopravvissuti. E a breve, girerò il film per Raidue «Napoli milionaria», con Vanessa Scalera e con Massimiliano Gallo che ha la parte che fu di Eduardo De Filippo. Questo è il suo testo più poetico e il tema dell’avidità e dell’arricchimento lo rende molto attuale».

Cosa le piace e cosa no dell’Italia anno 2023? «Mi piacciono i posti, le persone. Siamo usciti dalla lebbra e vedo la foto di un Paese che non sta andando malissimo, anche se deve fare di meglio e i giovani non dovrebbero fare 80 colloqui per lavorare. Detto questo, mi piace ancora raccontare l’Italia. Purché lei non titoli: l’Italia è il Paese che amo».

Luca Ravenna: «Bestemmie, droga e raccomandati, rido su quello di cui nessuno parla». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.

Lo stand up comedian presenta lo spettacolo «Red Sox»: «Il teatro è più libero della televisione: si può esagerare e alzare di più il tiro»

«La blasfemia, le raccomandazioni, la droga: sono questi i tre grandi tabù italiani». Lo stand-up comedian Luca Ravenna li mette al centro del suo nuovo spettacolo (Red Sox) che girerà i teatri in autunno (il via dove, se non da Ravenna, il 29 settembre). Il dibattito comico ormai si concentra su un paletto e un interrogativo categorico: si può scherzare su tutto o no? «Si dice sempre che ormai ci sono argomenti su cui non si possono fare battute, che non si può dire più niente, ma in realtà non penso che sia così. Proprio per questo motivo nel nuovo spettacolo voglio affrontare temi che di solito hanno poco spazio». Cominciando dalla blasfemia: «Credo che il più grande momento di televisione italiana degli ultimi anni sia stata l’eliminazione di Silvano dei Cugini di Campagna all’Isola dei Famosi. È sceso dall’elicottero ed è stato cacciato un secondo dopo perché ha fatto l’unica cosa che non puoi fare in Italia: bestemmiare in diretta televisiva. Battere un’idea comica del genere è praticamente impossibile, è l’ascensione del genio comico, una storia troppo bella per non essere raccontata».

Anche di raccomandazioni, tanto diffuse quanto negate, si parla poco: «Racconto una favola assolutamente vera, la raccomandazione che io stesso ho avuto per trovare casa a Roma, un tema molto sensibile e attuale. Spiegherò anche come sono riuscito a buttare tutto in vacca». Non c’è solo questo in Red Sox (il titolo fa riferimento alla squadra di baseball di Boston), ma anche la scaramanzia («sono interista, molto tifoso, abituato a soffrire, mi perdo in piccoli rituali totalmente inutili») e la decadenza: «Voglio riflettere sul rapporto che abbiamo con gli Stati Uniti, del resto mi bullo di fare stand-up comedy quando potrei chiamarla tranquillamente comicità, ma c’è un motivo se la chiamiamo così e se siamo molto influenzati da questo impero che è stato fiorente nel Novecento e che ora sta crollando: lo vedo stra-decadente».

Il teatro è più libero della televisione? «Sicuramente, non c’è dubbio. I contesti contano, fanno la differenza: i social sono un luogo, la tv un altro, la radio un altro ancora; sono tutti posti diversi. Il palco ha il vantaggio che il pubblico assiste a qualcosa che sta accadendo dal vivo, si passa da una battuta a un’altra: si può esagerare, si può alzare di più il tiro». Anche i social sono un luogo a sé: «Preferisco dire una battuta piuttosto che scriverla perché ho sempre paura che poi non si capisca il tono: in questo senso meglio Instagram e TikTok di Twitter». Essere comico però in fondo è una tragedia: «Il luogo comune è vero, i comici sono tristi e malinconici, il bisogno di far ridere si genera nella tristezza».

Chi è Lucia Mascino, in tv con «Vivere non è un gioco da ragazzi». Il rapporto difficile con Roma e la vita privata molto riservata. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 22 maggio 2023.

Tra i protagonisti della serie “I delitti del BarLume”, l’attrice è nata ad Ancona ma non ha mai nascosto il difficile rapporto con la capitale, dove vive ora. Ha avuto una storia lunga 12 anni ma ora è single

Gli studi

Lucia Mascino, 46 anni, tra i protagonisti della serie “I delitti del BarLume” e nella fiction in onda stasera su Rai1 «Vivere non è un gioco da ragazzi», è amatissima dal pubblico del piccolo e grande schermo. Nata ad Ancona, ha frequentato il Centro di Ricerca e Sperimentazione teatrale di Pontedera, per poi muovere i primi passi nel mondo della recitazione. Prima si è concentrata soprattutto sul teatro, per poi passare al cinema e alla televisione.

Adesso a teatro

Promenede de Santé è il nome dello spettacolo teatrale della Mascino in scena a maggio 2023. Ha lo stesso nome del lavoro del francese Nicolas Bedos e si replica a Roma sino a domenica 28 maggio all'Ambra Jovinelli con la regia di Giuseppe Piccioni. Con lei c ‘è Filippo Timi.

La vita privata attuale

L’attrice non ha mai parlato della sua vita privata. Nel corso di un'intervista al settimanale “Elle”,ha sottolineato che non ama rivelare dettagli della sua sfera più intima perché crede che non sia giusto. Poi però ha rivelato di essere single alla rivista “Confidenze”.

Una storia di 12 anni

Mascino ha avuto una storia d'amore molto importante, durata 12 anni, ma adesso appunto è single. Lei ha ammesso di avere un "grande bisogno" di sentirsi amata.

Il rapporto con Roma

Lucia ora abita a a Roma: l’attrice, legata comunque alle sue radici natali, non ha mai nascosto che fra lei e la Città Eterna non sia stato proprio amore a prima vista.

Social, ma non troppo

È attiva sui social dove pubblica foto lavorative ma anche di momenti più privati, come la partecipazione a corse benefiche o viaggi in treno in compagnia di amici. O di un buon libro.

Estratto dell’articolo di Renato Franco per “il Corriere della Sera” il 22 giugno 2023.

Per ora siamo alle indiscrezioni (Giuseppe Candela su Dagospia), ma la possibilità di vedere doppio non sono così lontane. Luciana Littizzetto oltre a confermarsi spalla di Fabio Fazio nel nuovo-vecchio Che tempo che fa che approderà a settembre sul Nove, dovrebbe mettere anche i piedi su Canale 5 come giurata a Tú sí que vales.  È…] 

Luciana Littizzetto è una comica divisiva oltre i suoi meriti, più per quello che rappresenta che per quello che dice (del resto la censura è spesso ottusa). Perché per molti esponenti del centro-destra lei è il bersaglio perfetto da additare alla piazza, emblema — per loro — di quella sinistra vip e radical chic che si sente «superiore», con il pugno alzato e il portafoglio gonfio, una narrazione populista che a furia di essere ripetuta si auto-avvera perché disarmante nella sua semplicità (il pensiero profondo invece è assai più complesso, quindi la battaglia è persa in partenza ahinoi).

La politica infatti ha spostato la discussione su un piano diverso: il punto divisivo è diventato il suo orientamento politico, non se Luciana Littizzetto fa ridere o meno (argomento centrale per un comico). Al netto di un dato oggettivo che non esiste (c’è una persona che ride sempre in studio e a meno che non sia perennemente sotto acidi non si spiega) la risposta più interessante da cercare è la seconda. 

Quello che manca a Luciana Littizzetto attiene più che altro alla sua (in)capacità di rinnovarsi: il problema — consiglio non richiesto e che quindi l’interessata può anche cestinare — è che lei si è seduta troppo sul suo personaggio, si è adagiata nella sua confort zone con Fabio Fazio (20 anni di Che tempo che fa) e rischia di essere ripetitiva. […]

Piuttosto il doppio ingaggio è il capolavoro (l’ennesino) del suo agente Beppe Caschetto che riesce a moltiplicare gli assegni dei suoi assistiti più di quanto faceva alcuni anni fa un tipo più famoso di lui (lo trovate protagonista in molti quadri) con i pani e i pesci. […]

Littizzetto col vizietto (delle poltrone e dei sofà). Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 25 aprile 2023

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Dai, dai, che ora, lo dice. Con i miei figli, sdraiati sul divano, nelle domeniche affossate nella noia televisiva, ci divertiamo a fare un gioco: vince chi becca per primo Luciana Littizzetto a Che tempo che fa mentre cita le «Poltrone Sofà» o gli «artigiani della qualità», ficcati qua e là, come un cameo di Hitchcock in un monologo, in una finta battuta o in un ammicco che può sembrare improvvisato e invece è un capolavoro di calcolo.

Lucianina non s’è smentita, anche l’altra sera: la sua smodata passione per l’azienda mobiliera ha preso il sopravvento. «Papà, tranquillo, guarda che ora arriva...» mi ha rassicurato il piccolo Tancredi. E, infatti, ecco che al minuto 100 del programma arriva la battuta della comica nel descrivere «una delicatissima poltrona a forma di scorpione, idea di relax e serenità, ti punge e diventi un supereroe delle Poltrone Sofà...». Grande Tancredi. E grande pure Luciana. La quale riesce sempre a evocare l’azienda - che in Francia e in Italia è già stata multata per pubblicità ingannevole - in tutte le posizioni e occasioni possibili. Ma lo fa con classe innata. Cito random.

Il 20 febbraio 2020 la Litti, nel collegamento da casa sua, aveva ospite Piero Pelù; e, nella solita gag dell’ormone selvaggio, se n’era uscita, all'improvviso, con una frase sui pantaloni del rocker fiorentino, a suo dire sexyssimi «come un divano di Poltrone e Sofà». Che non c’entrava un piffero, frase avulsa dal contesto, assolutamente fuori luogo che ha spiazzato Pelù e ha imbarazzato Fazio collegato dallo studio. Solo pochi mesi prima, novembre 2019, nel divertente remix-parodia di Giorgia Meloni, Luciana aveva declamato: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana» aggiungendo la frase: difendiamo la nostra identità/difendiamo la nostra qualità/poltrone e sofà». E anche lì, le risate dell’insieme avevano lasciato scivolare sotto silenzio la frase posticcia sul mobilificio.

Ma, il mese prima, l’ardore irrefrenabile di Lucianina per i divani l’aveva portata a un gesto estremo. La signora aveva invocato in studio - come prassi - la presenza di virili maschi italiani guarda caso testimonial pubblicitari (ieri l’altro c’era il ragazzone nudo che offre un «succhino?», quello di un spot immobiliare).

Sicché prima s’era materializzato l’attore che impersona Capitan Findus; e dopo, a seguire, in una scena paradossale, avevano fatto irruzione proprio «gli artigiani della qualità», ossia i due testimonial della marca di divani che, in quel momento, inondava di spot ciclici i palinsesti. La Litti, introducendoli, aveva commentato «Ho bisogno di qualità, del 2X1». Ma i mobilieri erano stati citati anche l’8 ottobre 2018. E il 20 gennaio del 2020, quando si era rotta una gamba («Che artigiano della qualità. Il mio osteopata massofisioterapista»). E persino sulla sua rubrica sulla Stampa gli «artigiani della qualità» affiorano dappertutto; l’ultima volta nel pezzo titolato «Cadiamo tutti, sarà l’asse terrestre» o è colpa degli «artigiani della qualità».

Roba che, as usual, nel contesto del racconto, c’entrava come i cavoli a merenda. Il collega Luca Bottura mi rimproverava d’esser troppo sospettoso. Ma lo diceva due anni fa, assai prima che la Litti non piazzasse ancora una mezza dozzina di “poltrone e sofà” sul servizio pubblico. Laddove, di prassi, ogni spot, parola, viene piazzata col bulino; dove perfino le citazioni di eventi benefici e marchi no profit sono passati al setaccio di una spietata selezione. Ora, mi dicono che l’Authority -l'AgCom- abbia già avuto segnalazione del sordo lavorio degli artigiani, della loro incontinenza fatta di scaffalature, cuscini e piumoni divenuti per Litti insopprimibile richiamo ancestrale. E alcuni potrebbero pensare a uno spot spudorato in prima serata della Litti, che si perpetua come un contratto negli anni; ma non possibile, perché in quel caso, lo spot dovrebbe essere segnalato. A meno che anche Rai Pubblicità trovi del tutto normale il chiodo commerciale della comica.

Nel maggio 2021, su segnalazione dell’Unione Nazionale Consumatori, l’Agcom avviò un procedimento istruttorio nei confronti di British America Tobacco Italia e Stefano De Martino e Cecilia Rodriguez per uso occulto del marketing. Attendiamo ora il Codacons. Per dire. Forse non è soltanto ossessione per poltrone, tendaggi e truciolati...

Ludovica Martino oltre Skam: «Che fatica il mestiere d’attrice. Carlo Verdone? Mi ha detto che faccio ridere». Di nuovo sul set nei panni di Eva Brighi. Ma i progetti al fuoco sono tanti, Dal nuovo Vita da Carlo al grande schermo. Antonia Matarrese su L'Espresso il 18 Maggio 2023

Ludovica Martino è una romana che ama il profumo di Roma: «La mia città? È tanta roba. L’unico posto in cui riesco a vivere».

Classe 1997, chioma fulva, una passione per la moda, l’attrice è diventata famosa a 18 anni con l’interpretazione del pluripremiato personaggio di Eva Brighi in Skam Italia, serie cult sul mondo degli adolescenti. Fra un provino internazionale - parla fluentemente inglese, russo e spagnolo – e un festival – è stata ospite al recente RIFF, Riviera Film Festival di Sestri Levante, Ludovica racconta il suo ultimo impegno sul set de “Il mio posto è qui” di Cristiano Bortone, tratto dall’omonimo romanzo di Daniela Porto e ambientato nella Calabria rurale degli anni ’40.

Il film racconta una storia di emancipazione femminile. Come l’ha affrontata?

«Prima di tutto, ho perso 5 chili per sciupare il viso dato che i tempi erano quelli duri della Seconda guerra mondiale e poi ho studiato due mesi con un coach il calabrese stretto (il film sarà sottotitolato, ndr). Marta, la protagonista, è un’emarginata sociale, una ragazza madre che cresce il figlio da sola e trova conforto in Lorenzo, omosessuale molto più grande di lei che fa il sensale di matrimoni (interpretato da Marco Leonardi, ndr). Fra i due nasce un’amicizia innamorata, una grande complicità. Grazie a lui, che le compra una macchina da scrivere e la porta nella sezione del PCI, Marta impara un mestiere. Una figura di donna coraggiosa, sovversiva, vincente».

Quanta fatica c’è nel mestiere di attrice?

“Tanta. Al primo ciak devi entrare nel personaggio, avere i tempi giusti, beccarti pioggia e freddo, sopportare le parrucche. Per recitare serve fiato. Sono avvantaggiata perché fin da piccola ho praticato nuoto a livello agonistico, sono bagnina di salvataggio, faccio Pilates. Prima delle riprese di Carosello Carosone dove ero Lita, la moglie di Renato, ballerina di swing professionista, mi sono allenata con mia madre che è stata una danzatrice classica. Invece per il film Security di Peter Chelsom ho passato intere giornate in bicicletta. Avevo almeno venticinque scene sulle due ruote. Per fortuna la bici aveva la pedalata assistita».

Sia in Skam che in Security ha girato molte scene nuda. Qual è il rapporto con il suo corpo?

«Premetto che non giro volentieri le scene di sesso e che in Italia, così come avviene in America, dovrebbe esserci sempre un intimacy coordinator perché manca l’intelligenza emotiva. Per il resto, il mio mestiere mi costringe a guardarmi molto ma non faccio troppo caso all’aspetto fisico. Piuttosto mi focalizzo sull’interpretazione, sulla luce. In generale, nella vita mi sento un po’ goffa e ai tacchi a spillo preferisco il mezzo tacco. Al baby doll di seta il maxi maglione di Eva».

Come concilia, una ragazza di oggi, studio e lavoro?

«A luglio mi aspetta la laurea magistrale con tesi sull’interpretariato di guerra. Quello dell’interprete è un mestiere ‘cotto&mangiato’ esattamente come il lavoro di attrice: fingi di essere a tuo agio, tieni il ritmo, moduli la voce. È una performance artistica. L’aver studiato le lingue mi dà molte chances in più e aver frequentato le aule universitarie mi ha permesso di toccare con mano il successo di pubblico: i miei compagni di corso hanno seguito passo dopo passo l’evoluzione di Eva che parte timida, bullizzata, con poche amiche e poi riesce ad emergere, diventa estroversa. Il suo pregio maggiore è la naturalezza. Che vince sempre».

C’è spazio per i ruoli comici nel suo prossimo futuro?

«La commedia mi diverte molto. Carlo Verdone, con cui ho girato “Vita da Carlo 2” fra Roma, Ostia e Fregene (sarà visibile su Paramount+, ndr), dice che faccio ridere. Di sicuro, chi mi ha dato la prima lezione di tempi comici è stato Giacomo Ciarrapico che mi ha diretta con Luca Vendruscolo nella serie Rai Liberi tutti. Ricordo che mi diceva perentorio: “Non devi sbattere le ciglia’. È stata una grande scuola».

 Estratto dell’articolo di Massimo M. Veronese per corriere.it giovedì 21 settembre 2023.

Nella sua infinita carriera ha preparato più di 100 mila domande, radunate in quaderni a spirale scritti a mano. Ludovico Peregrini, il «Signor No» del «Rischiatutto», e di decine di altri quiz, ha appena compiuto 80 anni. 

Peregrini, in che materie non andava bene a scuola?

«In quelle scientifiche: matematica, fisica, chimica. Ho fatto il classico: ero bravo in italiano, latino, greco, storia».

[...] 

C’è un «no» di cui il Signor No si è pentito?

«Il padre di un mio amico, pianista alla Scala voleva insegnarmi pianoforte. Dissi di no e lo rimpiango ancora tantissimo». 

In quali materie si sarebbe presentato al «Rischiatutto»?

«Avrei scelto vita e opere di Giorgio De Chirico o di Gabriele D’Annunzio. Del Vate ho anche cimeli, lettere, libri con dedica». 

Il Signor No a chi non sa dire no?

«Mia moglie Monique è bretone, e i bretoni sono rocciosi, austeri. A lei è difficilissimo dire di no». 

C’è una domanda a cui non sa dare una risposta?

«Mi chiedo, come tutti, quale sia il senso della vita. E se potessi salire sulla macchina del tempo vorrei tornare al giorno della Resurrezione di Gesù per capire cosa sia successo veramente». 

Ha cominciato con Pippo Baudo, non con Mike Bongiorno.

«Facevo l’ultimo anno di Lettere alla Cattolica e un mio ex compagno di università che lavorava in Rai, Guido Clericetti, mi disse: cerchiamo un giovane tuttofare per un programma musicale che si chiama Settevoci: vuoi venire tu?». 

Un successone della tv degli anni Sessanta.

«E con Baudo ci prendemmo subito. Lui aveva 29 anni, io 23, passavamo ore a chiacchierare di tutto a zonzo per Milano. Sono stato testimone delle sue prime nozze con Angela Lippi».

Che differenze ci sono tra Baudo e Bongiorno?

«Pippo era più viscerale, impulsivo, uno sempre inquieto che ti chiamava alle due di notte. Mike era molto più controllato, anche se era un ritardatario cronico». 

Lei non frequentava Mike.

«Lui era un notturno e io un diurno, lui era sportivo e io no, lui guardava la tv e io leggevo. Poi lui non amava dare confidenza». 

Ma quella gaffe del divano è vera?

«A una concorrente con un vestito a fiori disse: bello, pensi che a casa ho un divano uguale. La più bella però è un’altra». 

Quale?

«In radio un conduttore, parlando della sua passione per le immersioni, gli fa un complimento: lei deve essere un sub eccezionale. E lui: macché, sono solo un sub normale…».

È vero che il Rischiatutto doveva chiamarsi Repentaglio?

«Sì, orrendo. Pensi cosa abbiamo rischiato...». 

La migliore delle vallette?

«Sabina Ciuffini. Nonostante parlasse poco aveva grande personalità e gambe bellissime. La più bizzarra però fu Paola Manfrin, aveva 16 anni e di fare la valletta non gliene fregava niente. Doveva girare una ruota e Mike le chiedeva sempre se avesse le mani pulite. Così una volta sui palmi scrisse “asino chi legge” e glieli mostrò. Rise anche lui». 

Cosa c’è da imparare dai quiz oggi?

«Che la cultura generale non c’è più. I giovani li ho trovati interessati molto sul presente, un po’ sul futuro e niente sul passato. Ricordo uno che sapeva tutto di Quentin Tarantino ma non aveva idea di chi fosse Fellini. La ricerca di certe radici, di certe basi non c’è più, non c’è la curiosità che avevamo noi».

Quanti concorrenti ha visto?

«Migliaia. Ho visto l’Italia cambiare attraverso i quiz. Siamo passati dalle domande su storia antica e mitologia a quelle su tecnologia e scienze. Invece di chiedere chi fosse il vice di Garibaldi interrogavamo sul Dna. Sapere le cose nell’era tecnologica non serve più». [...] 

Luigi Lo Cascio: «Il mio mostro ha i miei occhi». Aisha Cerami su La Repubblica il 7 Aprile 2023

Umorismo, fantasia feroce, senso della morte. L’attore siciliano ha realizzato una sorprendente raccolta di racconti brevi, “Storielle per granchi e scorpioni”. Che assomigliano ai ritornelli di una canzone. «La Distrazione e la Consolazione sono esperienze di conoscenza che creano la nostra identità»

07 APRILE 2023

Luigi Lo Cascio ha scritto una sorprendente raccolta di 33 racconti brevi che, dopo averli letti, ti restano in mente come i ritornelli di una canzone: ti ritrovi a canticchiarli senza accorgertene. Ma con una sostanziale differenza: la canzonetta non chiede niente, spesso se ne va, mentre queste piccole storie no. Loro restano e scavano, costringendoti, con una strana apparente allegrezza, a pensare. “Storielle per granchi e scorpioni” (Feltrinelli) è un contenitore di umorismo e fantasia feroce, una catena di novelle con una caratteristica che le lega: l’anomalia. L’autore dà voce a ogni cosa, viva o inorganica, giocando con la surrealtà, una libertà che gli concede spazio all’esercizio filosofico.

Come è nata l’idea del libro?

«Non c’è stato un momento preciso in cui mi sono detto: ora scrivo un libro. Io scrivo sempre, accumulo suggestioni, idee, esperienze, confessioni. Però c’è stato sicuramente un momento in cui ho pensato: per scrivere non ho bisogno di chissà quale preparazione. Durante la pandemia scrissi un raccontino surreale come risposta a un messaggio di un amico e mi accorsi che non era male, che forse avrei potuto fare, di quell’esperienza istantanea, un percorso narrativo. E così ho acuito i sensi, mi sono messo in ascolto e ho fatto in modo che la mia vita mi suggerisse molti inizi. Questo libro potrei definirlo addirittura un diario di bordo, ma scritto con criteri diversi».

Come mai ha deciso di chiamarle “storielle”?

«Avrei potuto chiamarle racconti, certo, ma ho voluto con questo termine giocosamente sminuirle. Come le dicevo le ho scritte di getto, anche se poi ci sono tornato sopra più e più volte, e le vedo così, come storielle umoristiche che possono anche essere lette ad alta voce».

Capisco cosa intende, ma poi quando si leggono sono tutt’altro che “storielle”. I suoi racconti, mascherati da favole o fiabe, sono pieni di intelligenza. Un tema che ho ritrovato spesso è quello della morte, o meglio, della fine.

«Sì, la morte è una costante; non come fine di qualcosa, ma come una delle tante possibilità. Non vorrei che il lettore si spaventasse, però...(ride)».

Non deve, perché lei tratta la morte come un evento qualsiasi, e lo fa così bene da avermi tolto la paura, per un po’. Un’altra riflessione che mi ha molto incuriosita è quella sul ruolo della distrazione e della consolazione. Per me la distrazione è sempre stato un fatto negativo. Eppure, leggendo il racconto “Il giardiniere”, ho percepito una sua fascinazione.

«Esistono le piccole distrazioni, quelle che ti allontanano da ciò che invece devi affrontare. E c’è la Distrazione con la sua compagna Consolazione. Sulla prima ho un giudizio negativo, è un palliativo inutile. Un travisamento della propria vita. La seconda invece è l’essenza della vita: il lavoro, il sentimento amoroso, la lettura, la scrittura. Una serie di fatti o emozioni che sostengono, che consolano. Se non c’è l’amore ci si sente soli, senza lavoro si può essere angosciati. Noi siamo fatti delle nostre distrazioni. Io sono fatto della cosa che mi distrae di più. E sono fatto di ciò che mi consola. La Distrazione e la Consolazione sono esperienze di conoscenza. Cosa siamo senza di loro? Forse niente. Loro creano la nostra identità».

Lei scrive per essere letto?

«Io scrivo per me. Per scoprire dove mi troverò, chi sarò dopo aver scritto. Per me la scrittura è un inseguimento, una corsa. E quando si corre non si corre per qualcun altro, ma per scappare o per raggiungere qualcuno. Certo, poi, una volta terminato il “viaggio” io mi sono chiesto: è una roba solo mia? Se la risposta fosse stata sì, mi sarei tenuto tutto in un cassetto, o l’avrei buttata nella spazzatura».

Invece ha pensato che queste storie potessero riguardare tutti.

«L’ho pensato, e in quel momento ho lavorato per renderle leggibili: interessanti, musicali».

E lo sono. Lei ha addirittura scritto dei racconti che, mi azzardo a dire, sembrano poesie.

«Un mio racconto in effetti inizia con due settenari, e segue con una serie di endecasillabi».

Parla di “Se fossi stata blu!”, un racconto meraviglioso. Mi sbaglio o lei affronta anche il grande tema del perdono, per esempio nel primo racconto dove una mosca è accusata di aver mangiato un divano?

«Non direi che parlo del perdono, ma di un’ingiustizia che mi ferisce, quando la vedo attuata: identificare una persona, per tutta la vita, con un unico fatto occasionale. Appiccicare un’etichetta è una violenza assurda».

Nel racconto “La Stella Nera” scrive che ognuno di noi ha dentro di sé un mostro che lo identifica. Un mostro in carne e ossa. Qual è il suo?

«Il mio mostro non mi somiglia, ma ha i miei occhi. Ha la mia stessa paura».

Luigi Lo Cascio: «Sono arrivato fino a 32 anni senza aver mai visto un film. Giordana? Un grande amico». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2023

L’attore: al provino per «I cento passi» andai malissimo. «Mio papà non si capacitava che nella Palermo di trent’anni fa ci fosse un ragazzo che preferiva la strada precaria dell’attore a quella sicura e remunerativa del medico»

Nel suo libro «Storielle per granchi e per scorpioni», uno dei racconti imbastisce un’alleanza inedita tra un microbo e un anticorpo. Un messaggio pacifista?

«In un certo senso. Dopo anni di pandemia abbiamo imparato che dai virus ci si difende con i vaccini e con le cure mediche. Però ho provato a immaginare una sorta di pacificazione, un non conflitto tra due forze opposte».

Si vivrebbe molto meglio.

«Si vive meglio anche rispettando la singolarità di ogni essere vivente. Dopo aver fatto Aldo Braibanti nel film di Gianni Amelio, per esempio, ho imparato a rispettare le formiche. Le faccio entrare, circolano liberamente. Ormai casa nostra prolifera di formiche, non ci vuole venire più nessuno».

E il film, «Il signore delle formiche», è anche una grande metafora di libertà, no?

«Sì, Braibanti viene accusato di plagio, gli danno 14 anni di carcere, uno in meno dell’omicidio. Poi la pena viene ridotta, però lui all’ingiustizia oppone il silenzio. Una difesa interiore, un lento e paziente coltivare quella libertà che abbiamo dentro e che ci dà forza. Oltre al fatto che lui osservava le leggi dei formicai, appunto. Anche Dmitrij Karamazov, accusato di parricidio dice che vuole restare in silenzio al processo».

Cinquantacinque anni, una lunga carriera di teatro e cinema, due libri. Come si sente oggi Luigi Lo Cascio?

«Non molto diverso da quando ho iniziato, però di certo sento che in me si delinea una misura che mi rende più stabile, più sereno. Ma non è sempre stato così, anzi. Peraltro la mia carriera è iniziata in modo bizzarro, dopo due anni di studi di Medicina all’Università».

Che cosa scattò?

«Qualcosa che non saprei dire. Di certo i miei genitori non compresero subito il senso di quella scelta. Papà, soprattutto, non si capacitava che nella Palermo di trent’anni fa ci fosse un ragazzo che preferiva la strada precaria dell’attore a quella sicura e remunerativa del medico».

Come lo convinse?

«Facendolo ridere. Alla sera gli recitavo brani comici che lo divertivano: gli facevo capire che non ero così male. Un giorno poi successe una cosa. Io ero in teatro alle prove, era il mio debutto assoluto in una piccola parte di Aspettando Godot con la regia di Federico Tiezzi. In fondo alla sala vidi una sagoma che parlottava con il regista e quell’ombra mi sembrò mio padre. La sera a cena gli chiesi se era effettivamente lui e papà, senza scomporsi, mi disse che sì, era venuto a parlare con il regista per chiedergli se davvero io ero bravo a recitare».

Tiezzi rispose di sì, immagino.

«Sì, però la mia carriera ha seguito traiettorie curiose. Per esempio, al cinema ci sono arrivato nello stesso giorno in cui, a teatro, un regista mi fece fuori dallo spettacolo perché secondo lui io ero un attore “scarsissimo”, “insentibile”. Tornai a casa affranto. Fu allora che mi telefonò mio zio, Luigi Maria Burruano, grande uomo di teatro, e mi disse: “Luigi raggiungimi a Mondello, sono qui con Marco Tullio Giordana che sta cercando un attore per fare Peppino Impastato”».

Ne «I cento passi».

«Mi sembrò una follia: ora, lei deve sapere che io ero arrivato a trentadue anni non solo senza aver mai recitato al cinema ma, praticamente, senza aver mai visto un film».

Mai andato al cinema prima di allora?

«Durante gli anni dell’Accademia d’arte drammatica ci ero andato due sole volte, e per vedere Air force one e Barton Fink. So che sembra una bestialità, ma voglio essere onesto: ero un giovane presuntuoso, credevo che il cinema non avesse lo stesso spessore del teatro, che fosse un’arte superficiale. La mettevo sul piano del testo: quello che ha scritto Shakespeare non potrà mai essere paragonabile a un film, mi dicevo. Che errore grossolano. Tuttavia, dovevo pur dirlo a Giordana. Arrivai a Mondello, mi feci coraggio e gli dissi: “Senta, io non ho praticamente mai visto un film. Non ho mai visto nulla di Orson Welles, nulla di Kubrick, nulla di Fellini”».

E lui?

«Lui mi guardò, tacque un attimo e poi disse: “Che culo”».

Nel senso di «fortuna»?

«Sì, perché ai suoi occhi ero un uomo fortunato nel dover ancora scoprire tante meraviglie. Mi disse che davanti a me avevo una prateria di cose belle da conoscere e che lui voleva affidarmi a tutti i costi il ruolo di Peppino Impastato».

Fece un provino?

«E andò malissimo. Lui mi telefonò: “Sei stato pessimo, però io so che quel ruolo è tuo. Torna e convincimi”. Solo molti anni dopo ho capito che cosa gli faceva credere che io fossi il perfetto Impastato: è vero che non avevo mai visto un film, però era anche vero che io ero già un assiduo lettore. Altra bizzarria della mia carriera: mai letto nulla fino ai 22 anni, poi all’improvviso scoprii Kafka, Dostoevskij, Majakovskij, Pasolini. Li conoscevo, li amavo e quelli erano anche gli autori di Peppino, quelli che avevano contribuito a rafforzare le su convinzioni. Giordana, da regista sensibile e intelligente, lo aveva intuito. Con I cento passi iniziò il mio percorso al cinema e ancora oggi Marco Tullio è uno dei miei migliori amici, ci telefoniamo spesso, mi segue e continua a darmi consigli affettuosi e pertinenti».

Una solidarietà, questa, che nel mondo del teatro non è così scontata, no?

«Negli anni ho coltivato belle amicizie, per esempio con Fabrizio Gifuni: eravamo colleghi all’Accademia. Lui tentava di farmi vedere dei film, mi trascinava a casa sua e metteva su delle videocassette. Io però ero annoiato, distratto, come se non volessi vedere quell’altra potenziale parte di me. Invece facevo chilometri e chilometri per andare a vedere uno spettacolo teatrale».

Per esempio?

«Una volta io e Fabrizio partimmo da Roma per andare al Lingotto di Torino dove Luca Ronconi metteva il scena Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, lo spettacolo più bello che io abbia mai visto. Alla fine, affranti, andammo a dormire in qualche posto, non ricordo bene quale pavimento o brandina ci ospitarono quella notte».

La sua scrittura narrativa nei racconti attinge anche all’immaginario pirandelliano. Che cosa è per lei Pirandello?

«È la Sicilia. È il modo di pensare di un siciliano: la maschera, l’umorismo, il paradosso, il sentirsi marginali e, a volte proprio per questo, superiori. È quello che ci hanno visto Sciascia, Consolo e il Camilleri regista. Pirandello rappresenta le mie radici, quello che sono».

Lei ha due figli, di otto e dieci anni. Come ha spiegato loro che mestiere fa?

«In realtà non gliel’ho mai spiegato, anche perché loro non hanno mai visto un mio film. Anzi, non è vero: hanno visto La città ideale, quello diretto da me, ma non perché sullo schermo c’è papà, bensì perché in quel film c’è la nonna Ida. Mia madre infatti fa una piccola parte e così loro hanno voluto vederla. E, certo, poi hanno visto anche La stranezza di Roberto Andò ma solo perché sono tutti e due dei fan di Ficarra e Picone. Qualche volta, però, vengono dietro le quinte, mi raggiungono in camerino, si aggirano curiosi. È bellissimo sentirli parlare tra di loro senza essere visto: i bambini sanno fare discorsi lineari e intelligenti».

Potrebbe essere uno dei suoi racconti?

«Nel libro, infatti, loro due in un certo senso ci sono».

Sua madre com’è?

«Guardi, io non so come faccia ma lei, nonostante viva lontano da noi, sa sempre tutto di me e dei miei fratelli. Mi scrive ogni giorno, si ricorda il numero di replica teatrale. Per me è importante, perché ancora oggi, dopo tanti anni, prima di salire sul palcoscenico mi assale una paura incontrollabile».

Attacchi di panico?

«Una cosa simile. Il teatro è ogni sera diverso e io non so mai se quella sera riuscirò a interpretare qualcosa di unico, tanto per tornare all’idea di singolarità. Per me il teatro è un sentire che si compie in modi differenti: anche nel libro c’è un accenno di sceneggiatura teatrale, ci sono dei racconti che sembrano quasi concepiti per essere messi in scena. Forse era questa qualità quasi magica che mi irretiva così tanto da non lasciare spazio al cinema».

Le piace questa imprevedibilità che accomuna l’arte del racconto breve e il teatro?

«Sì, pensi che ho cominciato a scrivere racconti mentre rispondevo per messaggio a un amico “complottista”, durante la pandemia. Non volevo dare lezioni, non è da me, così cominciai a inventare storielle metaforiche. E in teatro, certo, può succedere di tutto. Una volta ero in scena con Sergio Rubini a fare Delitto e castigo. Guardai per caso le mie mani e vidi che erano imbrattate di sangue: senza accorgermene avevo battuto la testa. Finì che una provvidenziale dottoressa in sala, alla fine dello spettacolo, mi mise dei punti in camerino».

Lei e sua moglie (Desideria Rayner, ndr) state insieme da vent’anni. Come si tiene la cucitura di un rapporto longevo?

«Semplicemente non ponendosi il problema. Senza un traguardo, ma con l’esserci, l’esserci dentro ogni giorno. Quando l’amore si vive e basta acquista l’inesauribilità dei classici».

Bello definire «classico» un amore. E con i suoi figli lei com’è?

«Loro mi hanno insegnato che non sono io la persona più importante al mondo. È diverso persino dall’amore coniugale, dove resta comunque un briciolo di autoreferenzialità. I figli vengono prima di ogni cosa, persino prima di me stesso. Qualche volta quando loro rientrano dalla scuola e si mettono in soggiorno, li sento parlare e giocare. Io magari sono nello studio a lavorare, ma quel tempo che non passo con loro mi sembra un tempo perduto. Le sembra assurdo?»

No.

Estratto dell'articolo di Elvira Serra per corriere.it sabato 9 settembre 2023.  

Emozionata?

«Ma no, sono tranquilla. Abbiamo organizzato tutto all’ultimo, ma l’avevamo pianificato già per il 26 giugno del 2020 in Franciacorta». 

In pieno Covid.

«Avevo perso dei parenti per il virus. Così abbiamo disdetto e non ci abbiamo più pensato». 

[...]

Luisa Corna sorride, ma centellina le parole mentre parla in videochiamata dell’imminente matrimonio con Stefano Giovino, tenente colonnello alla guida del reparto Supporti del Reggimento Carabinieri Paracadutisti Tuscania di Livorno. Quindici anni di differenza, lei 57 lui 42, stanno insieme da nove. Se non è stato colpo di fulmine, poco ci è mancato: si sono conosciuti a un evento per i 100 anni della Croce Rossa a Palazzolo sull’Oglio, la cittadina della cantante dove si sposeranno, nel Santuario della Madonna di Lourdes; pochi mesi dopo vivevano già insieme.

Lei lo ha anche seguito nei suoi trasferimenti.

«Adesso viviamo a Livorno, città bellissima che amo. Prima stavamo a Brindisi. Da buon sagittario amo muovermi e spostarmi, tranne al momento del trasloco». 

[...]

La differenza di età l’ha mai preoccupata?

«Quando l’ho conosciuto ci ho riflettuto: quindici anni non sono pochi. Ma è stato solo un pensiero. L’esperienza mi ha fatto capire che nella vita non c’è certezza e lui invece è diventato la mia. La sua presenza è stata talmente coinvolgente e quotidiana che l’età è passata in secondo piano». 

Lui aveva già due figli: oggi sono due adolescenti di 13 e 15 anni. È stato difficile inserirsi?

«Stefano è diventato da subito la mia famiglia e la presenza di questi due bambini che ho avuto il piacere di vedere crescere ha aiutato a cementare la relazione. Hanno la loro mamma, s’intende, ma è stato bello per me poter diventare una figura di riferimento».

Le è dispiaciuto non averne di «vostri»?

«Ci abbiamo pensato, ma quel pensiero non si è mai trasformato in desiderio. E comunque l’arrivo di questi ragazzi ha riempito la mia vita, hanno fatto sì che non sentissi il vuoto di una maternità». 

Chi è più geloso tra lei e Stefano?

«Lui non lo è per niente, quindi forse lo sono un pochino di più io. Anche se non me ne dà mai motivo».

[...] 

I suoi genitori che lavoro facevano?

«Lavoravano entrambi nell’azienda di mio padre, che si occupava di cavi e corde per l’edilizia. A lui è dispiaciuto non poter lasciare l’attività a me o a mia sorella, pure lei cantante: sarà la mia testimone di nozze. È mancato ormai da tanti anni, si chiamava Giacomo Giuseppe Corna. Il mio dispiacere è che non abbia potuto conoscere Stefano». 

Chi l’accompagnerà all’altare?

«Mia madre, Pierina. E sarò in abito bianco. Tradizionale». 

Quanti sono gli invitati?

«Non tantissimi, eravamo talmente in ritardo! Meno di cento». 

E al ricevimento chi canterà?

«Sarà una bella jam session. Di sicuro io canterò un brano che ho scritto, Angolo di cielo, che è un po’ una lettera a cuore aperto dedicata a mio padre e a Stefano. Per il resto, ognuno improvviserà».

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” lunedì 23 ottobre 2023.

L’intervista con Luisa Ranieri è lunga quanto il tragitto in macchina che dall’Auditorium la riporta a casa, dalla famiglia. «C’è il circo equestre che mi aspetta, la domenica sarebbe il giorno dedicato», ride. Il marito è Luca Zingaretti, le figlie hanno 8 e 12 anni. Alla Festa di Roma con Nuovo Olimpo , diretto da Ferzan Özpetek, è Titti, la cassiera di un cinema degli anni Settanta. Nel film — una storia d’amore struggente e di occasioni perdute, su Netflix l’1 novembre — i due giovani uomini protagonisti s’incontrano, si perdono, si ritrovano.

Titti, truccata come Mina, ironica e dolorosa, è un ruolo-regalo.

«Sì. Anche se Ferzan non aveva pensato a me. Mina gli ha detto “perché non usi quella ragazza, la Ranieri, che mi piace tanto?”. Lui ci ha ragionato e mi ha chiamata. È una grande chance: il fatto che mi abbia stravolta nel viso, invecchiata, mi ha dato la possibilità di far vedere ciò che si può costruire insieme. L’idea di come Mina è venuta a lui, è un omaggio». 

[…]

Essere “suggerita” da Mina?

«Come vincere un Oscar, è la nostra più grande interprete. Ha rivoluzionato l’immagine femminile. Dettava la moda, il trucco, i vestiti, ogni volta regalava un’immagine nuova e sconvolgente. […]». 

Cosa dice Mina della sua Titti?

«È impazzita. Ferzan mi ha fatto sentire il vocale: “Quella ragazza lì è stupenda… ha vent’anni negli occhi”. Mi sono emozionata». 

Spazia dall’allegria infantile alla sensualità, alla malinconia dell’età.

«Siamo fatti di tante cose. Oggi mi sono liberata, finalmente posso fare il mio mestiere lontana dal pregiudizio. Posso dare ai personaggi una follia, una sensualità che è una cosa che censuravo, prima». 

Perché la censurava?

«Perché ero giovane. Quando ho iniziato a fare cinema quelle con la mia fisicità facevano la televisione. Avevo paura che, mostrandola, diventasse uno strumento contro di me. Maturità, esperienza, successo ti danno la sicurezza di dire: vado bene perché sono così». 

Era già famosa, ma con “È stata la mano di Dio” c’è stato un salto.

«Ringrazierò Paolo per la vita. Ero già conosciuta e amata dal pubblico, ma lui ha avuto l’intuizione di darmi un personaggio che nessun altro avrebbe avuto: la zia pazza. È stato il regato più grande. Un ruolo per cui anche i più scettici, che non era il pubblico ma forse gli addetti ai lavori, hanno detto: ah, però… ».

Lei lo ha ripagato dando un valore aggiunto al ruolo. Siete pari.

«Il nuovo film insieme ( Partenope ndr ) è una nuova grande chance. Per anni ho molto combattuto con la cecità di alcuni autori. Ho avuto una carriera all’inizio esplosiva, poi un momento più fermo. Questa rinascita a 50 anni è quasi miracolosa». 

Li compie il 16 dicembre. Bilanci?

«Ciò che mi interessava di più nella vita era costruire una famiglia solida e ci sono riuscita. Ho avuto la fortuna di trovare la mia metà. Questo ha arricchito la mia carriera, mi ha reso più matura. Quindi è un bilancio positivo, lo dico quasi con paura». 

[…] Il regalo per i 50 anni?

«È quello che mi chiede mio marito tutti i giorni. Il regalo più bello ce l’ho già. Non sento la pressione dell’età se non attraverso quello che dicono gli altri. Vivo una nuova giovinezza, mi sento piena di vita, energie, cose che voglio fare. Non desidero nulla».Estratto dell'articolo da ilmessaggero.it domenica 10 settembre 2023.

(...) Luisa Ranieri, in una recente intervista, ha raccontato il motivo per cui le sue bambine non hanno mai visto "È stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino, pellicola in cui lei è una dei protagonisti.

Le dichiarazioni di Luisa Ranieri

Luisa Ranieri è stata intervistata da Grazia dove ha raccontato uno dei momenti più difficili sul set di "È stata la mano di Dio", ovvero quando si è spogliata: «Non è facile stare nuda davanti a una troupe e ai colleghi. Ti senti senza pelle. Però Sorrentino è un grande maestro, e mi ha dato sicurezza.

Due o tre sere prima di girare quella scena, ho avuto una specie di attacco di panico, ma mio marito mi ha detto: "Quanto vorrei essere quella donna, essere lì al posto tuo. Goditi il momento, te lo puoi permettere". Le sue parole mi hanno aiutato moltissimo. Se in questa fase della mia vita la mia femminilità è matura, più rilassata, lo devo a Luca. 

Col suo amore, col suo sguardo, mi ha sempre detto: "Va tutto bene, non devi temere, non devi dimostrare niente a nessuno". Poi le figlie danno un senso di responsabilità: ho dovuto fare un processo di accettazione per insegnare loro l’accettazione».

Le parole di Luisa Ranieri

Infine, Luisa Ranieri ha raccontato che il film lo hanno visto anche la mamma e il fratello che, quindi, hanno assistito anche alla scena di nudo: «Mi sono vergognata come una ladra, però. Mio fratello Alessandro, grande appassionato di Sorrentino, mi ha detto: "Sai Lu', il film è così potente, così bello, che quel nudo serve a raccontare la follia di lei, descrive una donna infelice, una depressa liquidata come pazza"».

Anticipazione da Oggi.it - oggi.it il 26 gennaio 2023.

Impegnata sul set di «Nuovo Olimpo» di Ferzan Ozpetek, protagonista di «Lolita Lobosco» nella fiction di successo di Rai 1, Luisa Ranieri si racconta sul numero di OGGI, in edicola di domani. E confida che il successo è stata una strada in salita. Studentessa di Giurisprudenza, modella, quando aveva capito di voler fare l’attrice «mia mamma mi ha detto: ti do due anni di tempo, se non succede nulla torni a casa. Quella cosa di avere una scadenza mi dette una grinta mostruosa». Erano seguiti tanti no («Non volevo fare la bellona di turno, che ha la carriera che dura due ore»), poi era arrivato Antonioni e il suo nudo per «Eros» («Non lo rimpiango, ma non l’ho vissuto bene») e il ruolo della svolta in «Luisa Spagnoli».

Dopo il matrimonio con il collega Luca Zingaretti, però, non aveva lavorato per tre anni: «Era cento volte più famoso di me, amatissimo. E sì, per un po’ mi si è fermata la carriera. Voglio pensare che sia un caso, ma è molto strano». Ma anche ora, a successo acquisito, l’attrice conferma che non è facile essere una donna protagonista sul set: «Per le attrici italiane la parte principale in una fiction è stata un miraggio per anni. Sempre la moglie di, la mamma di. Per “Lolita” è stato difficile trovare dei nomi noti, riconoscibili. Li chiami e dicono “ma così sembra che vengo a fare il secondo ruolo accanto a te”. Non sono abituati. Ma non sono i singoli, è il sistema che è maschile. Però sta cambiando». Contenta di Giorgia Meloni premier? «Sì e penso che dovremmo esserlo tutte, al di là della posizione politica».

Luisa Ranieri parla di Luca Zingaretti: «Un miracolo che stiamo ancora insieme, si lasciano tutti». Redazione Spettacoli Online su Il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

L’attrice, pronta a tornare su Rai1 con «Le indagini di Lolita Lobosco», ha parlato della sua famiglia a «Domenica In»: «Il film più bello sono le mie figlie»

Mentre è pronta a tornare in tv (da stasera su Rai1) con «Le indagini di Lolita Lobosco», Luisa Ranieri si è raccontata su un piano più personale a «Domenica In», ospite di Mara Venier. Sposata dal 2012 con Luca Zingaretti, a cui è legata dal 2005, ha avuto con lui due figlie: «Cerco di essere una madre presente e accogliente. Per noi la priorità sono i bambini, vengono prima loro e il loro benessere. Se un film coincide e le date si possono spostare… non è che uno deve fare tutti i film, il film più bello l’ho fatto e sono le mie figlie», ha detto l’attrice.

Lei e il marito, incontratisi sul set di «Cefalonia», sono ormai una coppia longeva, ha riflettuto: «Stiamo ancora insieme. Mi sembra un miracolo perché si lasciano tutti. Si stanno lasciando tutti. Che paura». Ranieri ha poi elogiato Zingaretti sia come compagno che come padre: «Luca è bravissimo. È un padre super presente, super coccolone, anche troppo, quindi ci vizia, siamo viziatissime. Io vengo da un’educazione da cui non sono stata viziata e quindi con lui ho incontrato l’amore, l’amante e sono anche viziata come se fosse un papà».

Barbara Costa per Dagospia il 23 luglio 2023.

E che, a faticare, sono rimaste solo le pornostar? E con chi altri? Io sono a-social, io non ho social, ma è vero che su Tik Tok fanno furore le sex creator che vantano e esaltano i loro guadagni d’oro grazie a OnlyFans? E saranno soldi veritieri? Mah. Nonostante il tintinnio di denaro facile, ottenuto senza fatica, e doverosamente divertendosi, io faccio la nota stonata e vi dico che, se pornostar volete diventare, mettetevi in testa di sudare, e di altri "piaceri"  sgobbare, oppure lasciate stare. Subito!

E vi sto dicendo di porno star vere, serie, di quelle che fanno porno vero, serio, e sul serio. E solo così tanto ci ricavano. Se è a questo che aspirate, non date credito a chi sui social di sé sex posta e si atteggia, estasiandosi del nulla, e annotatevi questo nome qui: Luna Star, 34 anni, da 10 nel porno e ora star professionista. Indiscussa e indiscutibile.

Luna Star ha 10 milioni di followers e solo su Instagram. Di cui non dico che se ne frega, ma sui quali certo non punta. Se porno star vuoi diventare, non puoi basare la tua scalata sui social, la di lì affermazione viene dopo. Ne è conseguenza. Se il successo nel porno vuoi acchiappare, è del porno che devi fare esperienza. Eccola, la parola proibita. Esperienza. Quella concreta, che oggi un po’ tutti disprezzano. 

Ma il porno, stare nel porno, fare porno, è quanto più empirico possa esistere. Calci in c*lo compresi (vale a dire, i no della vita). Non può essere altrimenti. Non ci sono vie preferenziali. Non ci sono scorciatoie. Come ci dice Luna Star, se nel porno vuoi entrare per alla numero uno puntare, preparati a star sola. Io non so come una tal panzana – e cioè che far porno sia una strada come un’altra per emergere in notorietà – possa aver attecchito e fatto proseliti.

Il porno non sarà mai mai e poi mai un settore come gli altri. Né vuole esserlo. Chiunque voglia entrarci si munisca di scorza emotiva spessissima, si prepari ad accettare il diniego di genitori e di amici (sparuti i leali che gli rimarranno a fianco) e a contare nient’altro che su sé stessa. Fai porno, e sei senza alcun paracadute: emozionale e sociale. Ed è durissima. E il porno non tollera infantilismi.

Io non auguro a nessuno un’infanzia come quella di Luna Star – lei è cubana, cresciuta in quella povertà – tuttavia vi sprono a trovar in voi la sua fame, di riscatto, unita al suo amore e slancio per il sesso. Pur se nati nella bambagia, non andrete da nessuna parte, nel porno, se non vi piace il sesso, se non ne avete genuina  passione.

Se mirate al porno per ogni altra ragione che non veda al primo posto la vostra sana e sincera ingordigia di sesso, unita a un sano e sincero esibizionismo, sceglietevi altra disciplina da scalare. A meno che non vogliate arcincasinarvi l’esistenza! Luna Star ha fatto le porno cose per gradi, secondo sue personali scelte – anali, di plurime penetrazioni, bdsm – ponderatissime.

A meno che non siate finiti/e in mano a sudici papponi, il porno quello serio non vi costringerà a far nulla che voi non vogliate e gradite. E però. Non illudetevi di fare soldi immediati. Se dopo 10 anni Luna Star è pornostar di prim’ordine, e tanto incamera, e firma contratti Brazzers in esclusiva, ed è una che ha investito in un bar-ristorante di lusso, e ha tre appartamenti, di lusso, e fa una vita, nel lusso, è perché lei come altre da novizia non ha investito se non su sé stessa. I primi guadagni delle pornoattrici vanno – tolti i bisogni base – nella cura estrema di sé, del proprio corpo.

Le novizie del porno abitano in affitto, in stanze, guidano auto usate, frequentano spiagge da sogno ma solo perché lì mandate a pornare. Nel porno i soldi – quelli veri – non li vedi all’istante (se non in casi rari, e qui, snervante è l’abnegazione necessaria per restarci, ad alti livelli) e tante/i nel porno lo status di una Luna Star non lo raggiungeranno mai. Saranno nel limbo. Incastrati. In una porno middle-class che ingrossano, gaudenti e volentieri. Nel porno, come fuori dal porno (anche se premono a incul(c)arci del contrario) non si è tutti uguali. Ne c’è ragione di esserlo.

(ANSA il 19 Giugno 2023) - "C'è chi mi ama, chi mi odia, e chi mi difende da chi mi odia". Madame parla così del suo rapporto con i social e con i follower, ospite del podcast Tintoria, condotto da Daniele Tinti e Stefano Rapone e co-prodotto da The Comedy, disponibile su tutte le piattaforme dal 20 giugno alle 12.30. 

E su Twitter aggiunge: "È un mondo che non mi vuole. Qualsiasi cosa io dica, su Twitter c'è qualcuno che sottolinea quanto io sia una persona di merda... è un social in cui o ti amano - come succede a Tananai ed Elodie - o ti odiano, tipo me. Infatti invidio Tananai, tutti ne parlano bene, beato lui che si è preso il popolo di Twitter. Io ora mi faccio problemi anche a pubblicare la data di uscita del mio nuovo singolo".

L'artista racconta dei suoi primi passi nella musica, quando inizialmente caricava pezzi su Youtube senza riscuotere successo: "Sono sempre stata abbastanza odiata a Vicenza, dai 15/16 anni ho cominciato a farmi degli amici, prima era abbastanza difficile. Anche perché diventare un rapper del tuo paese è un po' come fare le elezioni comunali: per farlo devi proprio piacere alla tua zona". Poi l'incontro con Sugar Music, con cui pubblica Sciccherie: è il singolo che la fa notare dalla manager Paola Zukar, e da lì inizia la svolta. 

Riesce a farsi conoscere anche dai rapper più influenti della scena: "Ricordo che mi scrisse Ghali e io stavo morendo, non ci credevo. Siamo andati al bar insieme. Fare il salto è un'emozione unica". 

Nella chiacchierata spazio a curiosità e passioni inaspettate, dalla Bibbia ai canti neocatecumenali: "Ho frequentato per qualche anno una comunità neocatecumenale, c'erano delle belle canzoni, il fondatore è spagnolo e ha riarrangiato tutti i salmi con ritmi latini. [...] Sono dei canti incredibili, voglio sposare qualcuno - stonato - che me li canti mentre vado all'altare." Sulla frequentazione della comunità neocatecumenale aggiunge: "È un genere di ambiente difficile, in cui devi avere consapevolezza di quello che stai facendo".

Madame: «Il vaccino falso? È stato l’errore di una diciannovenne». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2023

La cantante esce oggi con il suo nuovo disco, «L’Amore», in cui c’è anche il brano presentato a Sanremo, «Il bene nel male»: «Ho scoperto la perversione delle parole»

La questione del vaccino falso prima di tutto. Ci sono indagini in corso e la questione giudiziaria farà il suo corso. Dentro Madame il percorso sembra già chiaro. «La cronaca mi ha accompagnato a Sanremo e mi ha dato più voglia di spaccare e dimostrare chi sono al di fuori dell’errore che può aver fatto una 19enne e dello scandalo. Di errori ne farò ancora, sto crescendo. Chi mi comprenderà mi seguirà, chi no forse non aveva un legame forte con me», racconta l’artista femminile più ascoltata in Italia nei 10 anni di vita di Spotify.

La sua carriera esiste da poco più 2 e oggi esce il suo secondo disco. Un concept album. Tema, come da titolo, «L’Amore». Non trattato in stile ci siamo conosciuti, che follie abbiamo fatto e che tristezza ora che tu stai con un’altra persona.

C’è il racconto della puttana della sanremese «Il bene nel male», una ninfomane, gli stereotipi della visione maschile ... «L’ho diviso in vari personaggi che parlano fra autobiografia, biografia, fantasia. C’è una distinzione tra la razionalità e la persona da una parte, la creatività e l’artista dall’altra. Nel titolo Amore ha la maiuscola come nei racconti medievali in cui era un personaggio e lo tratto come il nucleo di tutto, l’essenza, l’assoluto che ognuno declina a suo modo, anche in maniera tossica a volte».

Anche nelle sue dark side quindi. Come in «Nimpha»: «Parla di una ninfomane per rappresentare tutte le persone con una sessualità pronunciata o reputata sbagliata che non si sentono amate dal prossimo. In tutto il disco cerco di fare luce su situazioni o persone di cui non si parla razionalmente, si sfocerebbe nel politico e nel sociale.. e allora meglio scriverci una canzone».

Il linguaggio è forte, nelle immagini e nelle scelte di vocabolario. «Ho scoperto la perversione delle parole. Non solo nel senso sessuale ma nella sua accezione latina di prendere un concetto e stravolgerlo. La poesia, amo Anne Sexton, è ciò che ci offre un punto di vista diverso, quindi perversione. Le mie canzoni sono una sfida per vedere la reazione di chi ascolta, per sedurlo o disturbarlo».

In «Donna vedi» si immagina essere stata un uomo in un’altra vita e il racconto gioca con gli stereotipi fra coccole e crudità sessuali: «Porto in luce gli stereotipi sulle donne e sul loro rispetto. Nonostante quello che scrivo a volte sia in contrasto con i pensieri la mia missione è valere come donna, vincere come donna».

C’è meno rap rispetto al suo disco d’esordio, una svolta cantautorale ma avvolta da suoni che parlano di 2023 e non con l’odore dell’armadio vintage. «Un disco rap l’ho fatto e sono una che si annoia in fretta. Ho scritto anche brani in quello stile ma non si inserivano in questo concept. Chissà che per il prossimo disco non ci torni o scelga una terza via». La politica oggi sembra voler limitare l’amore, almeno quello delle famiglie omogenitoriali: «Sarò banale, ma ognuno è libero di amare chi vuole e se dall’amore vuole nascere un frutto è un’ingiustizia tremenda negare di vivere la cosa più intima e potente che esiste».

Davide Desario per leggo.it il 9 gennaio 2023.

Madame se ne frega. A 29 giorni dall'inizio di Sanremo la giovane cantautrice vicentina, scelta anche quest'anno dal direttore artistico del festival della canzone italiana Amadeus per partecipare alla gara, e indagata in un'inchiesta per falsi vaccini, non si è ancora fatta da parte: ha fatto la vaga per giorni, poi ha scritto un post sui suoi canali social e l'ha subito cancellato, si è esibita sul palco di Roma a Capodanno e pensa magari con quale look stupire il grande pubblico del Festival.

 Madame se ne frega di tutti gli italiani che durante la pandemia hanno fatto pesanti sacrifici. Ha fatto sacrifici chi ha scelto di seguire le indicazioni scientifiche e governative sottoponendosi a vaccini e rispettando tutte le norme relative a green pass, tamponi, quarantene e mascherine. Ma li ha fatti anche chi tra mille polemiche ha deciso di non vaccinarsi pagando sulla propria pelle con estrema coerenza la scelta: qualcuno è stato sospeso dal lavoro e non ha ricevuto lo stipendio, qualcun altro ha visto pesantemente limitata la propria libertà di viaggiare, mangiare al ristorante, fare sport (basti pensare a Djokovic agli Open in Australia). E invece la signorina Madame, della scuderia Sugar, ha pensato di essere più furba di tutti: non ha fatto il vaccino, come ha candidamente ammesso in un post su instagram poi rimosso, ma ha voluto avere lo stesso i vantaggi di chi aveva il green pass.  Comodo no?

Peccato che il giochino sia stato scoperto. C'è un'inchiesta contro un medico (Daniela Grillone, 57 anni) che avrebbe rilasciato green pass senza sottoporre i pazienti al vaccino. E nella lunga lista dei suoi pazienti sono spuntati anche nomi eccellenti: quello della tennista italiana Camila Giorgi e quello di Madame (all'anagrafe Francesca Calearo).  Sono tutti indagati per "falso ideologico".

 Sia ben chiaro, essere indagati non significa essere colpevoli. Lo ha detto e ripetuto anche Amadeus stesso. C'è un'inchiesta in corso, ci sono degli inquirenti a lavoro e poi ci saranno delle sentenze. E questo è il motivo per il quale, regolamento alla mano, il direttore artistico di Sanremo e nemmeno la Rai hanno escluso Madame dal Festival.  Non possono farlo e se lo facessero rischierebbero ricorsi e chissà cos'altro e non possono permetterselo. Ma è lecito porsi alcune domande: e se a Festival concluso la cantautrice vicentina venisse condannata? La gara sarebbe comunque regolare?

Ma la signorina Madame se ne frega. Oltre a dare la colpa della situazione sul suo "post fantasma" ai genitori (roba da Zecchino d'oro più che da Sanremo) non ha un minimo di riconoscenza e rispetto per Amadeus e per il Festival di Sanremo. Perché se avesse riconoscenza per chi l'ha scelta e ha creduto in lei forse si farebbe qualche scrupolo. Magari le verrebbe in mente che in una situazione del genere sarebbe più opportuno fare un passo indietro, saltare un giro,  togliendo così dall'imbarazzo Amadeus e la Rai che per primi hanno fatto i salti mortali per fare il festival rispettando tutte le normative. Ma Madame, purtroppo, se ne frega.

 D'altronde se ne è fregata anche del Comune di Roma che l'ha coinvolta nel concertone di Capodanno al Circo Massimo mettendo in ambasce l'assessore capitolino  ai Grandi Eventi Alessandro Onorato e lo stesso sindaco Roberto Gualtieri . E se ne frega perfino della sua casa discografica, la Sugar della mitica Caterina Caselli che rappresenta tanti bravi artisti, che per colpa di Madame  non ci sta facendo una bella figura.

 Ora è vero che molti italiani hanno la memoria corta e magari hanno già rimosso i migliaia di morti causati dalla pandemia. E' anche vero che il covid sembra essere passato, sicuramente meno pericoloso. Qualcuno già crede che il non rispetto delle regole (per il bene proprio e del prossimo) sia un peccato veniale. Ma è anche vero che  mancano ancora 28 giorni a Sanremo.  Tutto il tempo, signorina Francesca Calearo, per evitare una figuraccia peggiore di quella che ha già fatto.

Michele Serra per “la Repubblica” il 6 gennaio 2023.

Vorrei intercedere (senza averne alcuna autorità) in favore della giovane cantante Madame, al secolo Francesca Calearo, che rischia l'esclusione da Sanremo, dunque la cacciata dalla Casa del Padre, per avere fatto pasticci mortificanti con i vaccini. Invoca clemenza, spiegando di avere dato retta alle persone sbagliate.

 Con la dolorosa aggravante (per lei) che tra le persone sbagliate ci sarebbero i suoi genitori, ferventi No Vax.

 Che lo faccia per riguadagnare la porta di Sanremo (la Sacra Porta!) è molto possibile. Ma la sua ricostruzione è verosimile, è tra i milioni di umani che hanno davvero creduto che esista una Scienza Ufficiale, malvagia e corrotta, e una fronda di giusti e di puri che svela la via di fuga. Il pensiero No Vax è, come tutti i pensieri settari, un pensiero riduzionista: riduce il magma tumultuoso della vita, della malattia, della paura di morire, alla cospirazione di pochi colpevoli contro una massa di innocenti.

 Ma la scienza è una sola, veritiera e fallace, salvifica e non, libera e venduta ai padroni tanto quanto ciascuno di noi, e dunque la lettura complottista del Covid, delle vaccinazioni, nonché di tutto il resto, è una scemenza consolatoria: fa credere a chi ci cade, e ci sono caduti in tanti, di appartenere a una minoranza di eletti. Tale sembra essere il percorso della ragazza Madame (vent'anni) così come ce lo racconta. Siccome potrei largamente essere suo padre, e tecnicamente anche suo nonno, ho deciso che bisogna crederle.

Ps - Quando avevo vent'anni palpitavo per la polemica di Asor Rosa contro Pasolini, oggi prendo posizione su Madame. Non sono sicuro che sia una diminuzione. La vita è una sola, e prende forma, anno dopo anno, con invariata energia.

Estratto dell’articolo di Luca Bottura per “La Stampa” il 5 gennaio 2023.

 […] La cantante Madame ha annunciato che si vaccinerà. È una svolta mistica: le è apparso San Remo.

 Il post di Madame sulla vicenda è così contorto che, mentre lo leggi, Facebook si disconnette da solo.  […]

(ANSA il 5 gennaio 2023) "Tolgo l'ultimo post per dare spazio al nuovo progetto e lasciando che l'indagine faccia il suo corso". Madame torna a parlare, via social, dopo le dichiarazioni pubblicate ieri, nelle quali rivelava di non essere mai stata sottoposta ad alcuna vaccinazione, ma di aver nel frattempo cambiato idea.

 La cantante, in gara al prossimo festival di Sanremo, non aveva però chiarito la sua posizione riguardo al possibile utilizzo di green pass falsi, motivo per cui è sotto indagine. "I dettagli legati al caso - spiega l'artista nel nuovo post - non ho potuto darli perché appunto sono sotto indagine ed è in quella sede che se ne dovrà discutere. Ne riparleremo in caso a processo finito, ora aggiungere altro è superfluo, tocca aspettare gli esiti.

Mi spiace per tutto quello che sta succedendo", aggiunge Madame che in questi giorni è stata travolta dalle critiche. "Vediamo come andrà, per ora avanti tutta che c'è tanto tanto tanto da viversi. Tutto "il bene nel male"", conclude, citando il titolo del brano che porterà al festival.

Green pass: il caso Madame e le “bufale” addossate a Meluzzi dalla stampa mainstream. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 5 Gennaio 2023.

Indagata dalla procura di Vicenza per falso ideologico, nell’ambito dell’inchiesta sui falsi green pass, la cantante Madame, al secolo Francesca Calearo, ha rotto il silenzio su Instagram con un lungo post, ammettendo di non essersi sottoposta né a vaccinazione anti-Covid né a quelle tradizionali, in quanto «nata e cresciuta in una famiglia che per vari motivi ha iniziato a dubitare dei medici e della medicina tradizionale». Per correre ai ripari dopo le polemiche che l’hanno travolta nelle ultime settimane, la cantante ha così incolpato le scelte dei genitori che l’avrebbero influenzata e che sono andate «in una direzione ostinata e contraria» rispetto alla scienza. Dopo aver appreso dell’indagine a suo carico si sarebbe rivolta a un infettivologo che le avrebbe prescritto le vaccinazioni ritenute “essenziali”. 

Secondo l’inchiesta de Il Giornale di Vicenza, oltre al nome di Madame, nell’indagine della procura di Vicenza era trapelato anche il nome della tennista di fama mondiale Camila Giorgi. 

Il caso, che ha tenuto banco per giorni sui media, sollevando anche polemiche per la presenza di Madame a Sanremo, ricorda quello di novembre 2021, quando venne indagato dalla Procura di Roma Alessandro Aveni, odontoiatra e medico di base, con lo studio a Colli Albani: i carabinieri sequestrarono nove green pass falsi, tra cui quello di Pippo Franco, anche lui indagato.

Fermo restando che le vicende sugli altri indagati sono ancora da accertare, è interessante sollevare alcune osservazioni.

La prima riguarda l’ipocrisia di quei vip che, come nel caso confermato di Madame, invece di prendere posizione contro l’imposizione del green pass e delle vaccinazioni anti-Covid, hanno preferito tacere e ricorrere a mezzi illegali, pagando per ottenere una certificazione falsa e poter continuare il loro lavoro indisturbati. La loro voce avrebbe potuto sensibilizzare l’opinione pubblica in un momento delicato di compressione dei diritti e delle libertà fondamentali. Hanno preferito invece tacere e adeguarsi, aggirando il sistema.

La seconda è che per continuare a far parte dell’élite politicamente corretta ma feroce e intransigente con chi dissente, ci si deve umiliare pubblicamente, abiurando come un eretico e rinnegando le proprie idee e le proprie scelte. 

La terza considerazione riguarda l’atteggiamento dei media nei confronti di chi ha criticato le misure adottate per il contrasto alla pandemia e ha provato a squarciare il velo di falsità.

Il 15 luglio del 2021 il noto medico, psichiatra e saggista italiano, Alessandro Meluzzi, nel corso di un incontro organizzato da Salute Attiva a San Marino, aveva denunciato alla platea l’esistenza di una rete di finte vaccinazioni: «Buona parte di quelli che si sono vaccinati da una certa sfera in avanti, hanno fatto falsi vaccini. Ve lo certifico perché lo hanno proposto anche a me. Sapete qual è stata la mia risposta che mi ha fatto passare definitivamente per pazzo? Perché non voglio sporcare il mio karma». 

La notizia era stata subito etichettata come una “bufala”, senza neanche il tempo di approfondirne la fondatezza. Meluzzi, dal canto suo, non solo non ha mai smentito le sue dichiarazioni, ma ha confermato ripetutamente questa versione, in svariate interviste e convegni. Invece di interpellarlo e chiedergli spiegazione su quanto esposto, i media mainstream hanno scelto di denigrarlo, continuando quell’opera di criminalizzazione del dissenso che si è consolidata durante la pandemia.

Su tutti è da segnalare Open che ha accusato Meluzzi di mentire e di diffondere «campagne complottiste e No Vax» senza alcuna prova. Dello stesso tenore Libero Quotidiano che in un articolo aveva bollato come «fake news della peggior specie» il suo intervento definendo «tontoloni della rete» coloro che avevano creduto al suo racconto e che «subito sono cascati nella bufala spacciata per atto di denuncia dallo psichiatra e opinionista televisivo».

Alla luce dell’ammissione di Madame, possiamo dire che Meluzzi aveva ragione. 

Eppure, sappiamo che non arriveranno rettifiche o scuse: invece di denunciare le storture del sistema, alcuni mezzi di informazione sembrano più concentrati a imporre all’opinione pubblica una narrazione unica della realtà. Non c’è spazio per il pensiero libero e indipendente né tantomeno per il sospetto, anzi, il dubbio viene additato come il segnale di uno squilibrio paranoico e la coscienza critica diventa sinonimo di “complottismo”.  [Enrica Perucchietti]

La legge di Madame. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 gennaio 2023.

La cantante Madame, coinvolta in un’inchiesta sulle false vaccinazioni anti Covid, fa sapere di avere nutrito dei dubbi (oggi scomparsi) sulla loro efficacia. Ma le sue passate perplessità potevano essere un motivo per non fare il vaccino, non per fare finta di averlo fatto pur di ottenere il green pass. Invece fin dall’inizio di questa storia abbiamo assistito a un bizzarro slittamento di senso: si è discusso se Madame avesse la libertà di non vaccinarsi, sorvolando sul piccolo particolare che l’indagine non riguarda la mancata vaccinazione, ma la falsa vaccinazione, cioè una truffa che danneggia innanzitutto quei No vax disposti a pagare un prezzo altissimo per restare coerenti ai loro ideali: c’è chi ha perso il lavoro, anziché produrre un falso green pass. Siamo uno strano Paese, dove quando qualcuno escogita una scorciatoia per dribblare una norma, non si discute della scorciatoia, ma della norma. Uno lascia la macchina in doppia fila e si parla della mancanza di parcheggi: i parcheggi mancano, è vero, ma non è una buona ragione per mollare l’auto in mezzo alla strada. Lo stesso schema si può applicare alle tasse, la cui indubbia invadenza non giustifica l’evasione, e persino ai concerti di Madame: il fatto che io li ritenga troppo costosi non può diventare un alibi per provare ad entrarvi con un biglietto fasullo. Mi auguro che Madame vinca il prossimo Festival della canzone italiana: non solo è brava a interpretare canzoni, ma anche un certo tipo di italiani. 

Laura Zangarini per corriere.it il 4 gennaio 2023.

Prima di Natale il suo nome era comparso nell’ambito di un’indagine su false vaccinazioni anti-Covid finalizzate all’ottenimento del Green Pass. Tanto che si era dubitato della sua partecipazione al concerto di Capodanno al Circo Massimo di Roma, poi svoltosi regolarmente (il Comune aveva dichiarato che «non essendoci alcuna certezza circa un comportamento illecito, il cast artistico del concerto di Capodanno al Circo Massimo “Rome Restarts 2023” non cambia»), e della sua presenza al Festival di Sanremo (7-11 febbraio). 

Madame , aveva poi confermato Amadeus , conduttore e direttore artistico del Festival, sarà regolarmente in gara (con il brano «Il bene e il male») nella lista dei cantanti che saliranno sul palco del Teatro Ariston . L’unica voce che non si era ancora sentita sulla vicenda era proprio quella dell’artista vicentina. Fino a oggi.

 Sui social infatti Madame è intervenuta con un lungo post per confermare di non aver fatto il vaccino anti Covid e le motivazioni di tale scelta. «Sono nata e cresciuta in una famiglia che per vari motivi — scrive la cantante — ha iniziato a dubitare dei medici e delle misure della medicina tradizionale, spingendosi su ricerche alternative. In effetti non solo non ho eseguito prontamente il vaccino del Covid, ma non ho altri vaccini».

 Poi conclude: «Non giudicherei a priori le scelte di una madre e di un padre innamorati di una figlia perfettamente sana dopo aver subito un aborto qualche anno prima. Anche le cure mediche che ho ricevuto sono quasi sempre (tranne i casi in cui servivano medicine chimiche come antibiotici, antidolorifici o cortisonici) state naturali. Tuttavia, si fa presto a partire dalla ricerca di un’alternativa e finire in un girone infernale di complottismo. Durante il Covid i miei ci cascano».

Dagospia il 4 gennaio 2023. Dal profilo Instagram di Madame: Sono nata e cresciuta in una famiglia che per vari motivi ha iniziato a dubitare dei medici e delle misure della medicina tradizionale spingendosi su ricerche alternative. In effetti non solo non ho eseguito prontamente il vaccino del covid, ma non ho altri vaccini. Non giudicherei a priori le scelte di una madre e di un padre innamorati di una figlia perfettamente sana dopo aver subito un aborto qualche anno prima. Anche le cure mediche che ho ricevuto sono quasi sempre (tranne in casi in cui servivano medicine chimiche come antibiotici, antidolorifici o cortisonici) state naturali. Tuttavia, si fa presto a partire dalla ricerca di un'alternativa e finire in un girone infernale di complottismo. Durante il covid i miei ci cascano.

Dato che sapevo che quel che dicevano si avviava in una direzione ostinata e contraria rispetto a quello che la scienza esponeva, decido di tapparmi le orecchie e di non volerne sapere più nulla né da loro né dalla televisione.

 Chiedo comunque ad amici e conoscenti cosa ne pensassero di questo vaccino e come immaginavo alcuni sono favorevoli e pochi altri meno. Successivamente chiedo anche a medici e a medici in pensione cosa ne pensassero e le risposte questa volta sono state tutte positive. Stavo dunque prenotando un vaccino a Milano quando mia madre mi avvisa che l'avrei fatto con lei a Vicenza. Una volta arrivata a Vicenza capisco che la sua posizione non era cambiata ma non glielo rimprovero.

Successivamente sfruttando la mia convivenza da sola a Milano, sotto il controllo di me medesima soltanto, decido mossa da buona volontà e ipocondria di sottopormi a varie visite.

 Ne prenoto una ventina circa, di ogni tipo, anche inutilmente (come hanno detto molti medici da cui sono andata) dato che spesso la risposta è stata "signorina, lei è sana come un pesce" salvo in alcuni casi, ma qui si entra nella mia condizione di salute e la ritengo una questione intima e privata.

 Chiedo ad ogni medico specializzato in ambiti inerenti al covid una sua opinione sui vaccini e la risposta è sempre e comunque stata positiva. Così una volta fuori dal marasma della pandemia, con l'ansia quasi a zero e nessuna pressione esterna decido di iniziare a stapparmi le orecchie e cominciare finalmente a documentarmi senza chiedere aiuti esterni.

Noto da video, documenti, dibattiti, interviste che tutto ciò che mi dicevano i miei erano esattamente le teorie che sostenevano dei personaggi ignoranti in materia medica e chiaramente sopraffatti dalla paura.

 Al che mi sono spaventata, e ho intuito di aver tenuto le orecchie tappate troppo a lungo. Un giorno a pranzo in montagna arriva una telefonata dalla questura. Il lunedì mi presento da loro, sono indagata. Questa situazione mi urla in faccia che devo fare una scelta, prendere coraggio e fare la mia ultima mossa.

 Dopo una lunga chiacchierata con un medico infettivologo e una revisione delle mie ultime visite, lui mi prescrive una serie di vaccinazioni che reputa essenziali. Gli espongo ogni mio dubbio, lui pazientemente lo accoglie, mi risponde con disponibilità e io comprendo. Mi dà il contatto dei suoi colleghi del centro vaccinazioni e proseguo e proseguirò a completare tutte quelle necessarie per me e utili per gli altri. Grazie Dottore.

A fronte di tutto ciò vorrei fare delle considerazioni. A tutte le persone che mi hanno scritto che ho fatto bene a non vaccinarmi e tutto, voglio invitarvi ad informarvi a mente lucida, senza farvi prendere dal panico. Fidatevi delle persone giuste. Nessuno vuole il nostro male. Lottiamo tutti quanti in fondo per un solo motivo: stare in salute e stare tranquilli.

 Queste parole sono indirizzate anche ai miei, che reputo persone davvero intelligenti ma prese da un timore che li ha condotti in contesti poco affidabili. Per fortuna questa vicenda ha fatto ragionare anche loro e ho ricevuto dei feedback positivi rispetto alle mie nuove prese di posizione.

 Questa è stata la vicenda Questa è stata la morale Non abbiate paura Perché la paura blocca la vita lo vi ringrazio dell'attenzione, del supporto e dell'amore che continuate a dimostrarmi per quello che stiamo costruendo assieme. Grazie della pazienza e dell'affetto. Ci vediamo molto presto

Francesca

Il tribunale dei medici attacca Madame: «Fuori da Sanremo!» Per fortuna Amadeus ha ricordato ai media che in questi giorni le stanno riservando una piccola gogna che «dare un giudizio con il panettone in bocca su una cosa così seria è poco serio». Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 29 dicembre 2022

La Federazione italiana di medicina generale (Fimmg) chiede di escludere la cantante Madame dalla scaletta del concertone di Capodanno che si terrà al Circo Massimo perché accusata dalla procura di Vicenza di aver falsificato il suo green pass.

Lo fa per bocca del suo segretario romano Pier Luigi Bartoletti che intervistato da La Repubblica si dice scandalizzato dall’invito rivolto alla giovane artista: «Senza entrare nella vicenda giudiziaria dico soltanto che gli australiani quando Djokovic faceva il furbo non lo hanno fatto entrare, mentre noi ai furbi no vax concediamo il concerto di Capodanno», tuona Bartoletti,

Non si capisce per quale bizzarro motivo un dirigente del più importante sindacato dei medici di base debba dire la sua sulla presenza di una cantante a un evento musicale.

Opinioni buttate giù a ruota libera e naturalmente «senza entrare nella vicenda giudiziaria», che agli occhi del censore in camice bianco deve essere un fastidioso orpello, di certo irrilevante ai fini della sentenza morale che lui ha già emesso dopo aver letto qualche titolo di giornale. Madame è colpevole e per questo non deve cantare! Né per la fine dell’anno, né al prossimo Festival di Sanremo che la vede inclusa nella lista dei big.

Per fortuna il conduttore e direttore artistico Amadeus ha ricordato ai media che in questi giorni le stanno riservando una piccola gogna che «in questo momento dare un giudizio con il panettone in bocca su una cosa così seria è poco serio. C’è un’indagine in corso e si è innocenti finché non si viene dichiarati colpevoli». Che debba essere uno showman a ricordare al circo mediatico i principi del garantismo e dello Stato di diritto dovrebbe far riflettere. Ma poi: anche se Madame fosse colpevole perché mai dovrebbe smettere di svolgere il suo mestiere?

Quello messo in piedi dal segretario della Fimmg è l’ennesimo, improvvisato tribunale della morale, uno dei tanti del nostro paese dove spuntano come funghi per giudicare, ieri un politico, oggi un’artista, domani chissà chi. Tribunali che non nessuno ha nominato e che, non avendo competenza specifica su nulla, si sentono in diritto di esprimersi su tutto, dispensando giudizi e chiedendo punizioni esemplari,

Michele Bovi per Dagospia il 28 dicembre 2022.

Madame è finora l’impareggiabile protagonista del prossimo Sanremo. Per il rischio squalifica a causa di una vaccinazione farlocca che le è già costata un provvedimento di giustizia e ancora prima per il titolo “Puttana” della canzone che aveva presentato al Festival. Quel titolo che ha fatto e continua a fare notizia in realtà risulta tutt’altro che originale. 

Ammessa tra i 28 interpreti in gara nell’edizione 2023 Francesca Calearo, in arte Madame, eseguirà il prossimo 4 febbraio il brano “Il bene nel male”, originariamente intitolato appunto “Puttana”.  Chi abbia deciso la modifica  – la stessa artista, il suo manager o lo staff di Amadeus per evitare imbarazzi – non è chiaro. Sta di fatto che quell’epiteto che un tempo veniva pudicamente ammorbidito in “donna di facili costumi” ha una valanga di precedenti. 

Nell’archivio delle opere musicali della Società italiana degli autori ed editori si trovano infatti a oggi ben 177 titoli che contengono il termine Puttana.Alcuni sono famosi, come “Grande figlio di puttana” degli Stadio del 1982, firmato da Lucio Dalla e Gianfranco Baldazzi sulle note di Gaetano Curreri e Giovanni Pezzoli.

 Un anno prima Luca Barbarossa aveva depositato un “Roma puttana” alternativo a “Roma spogliata”. Non ritenne di apportare modifiche al suo “Non fare la puttana” il rapper Fabri Fibra: il brano uscì nell’album “Mr. Simpatia” del 2004.

Tra i titoli presi in esame prevale il senso dell’imprecazione. Sono 10 i “Porca puttana” (uno lo depositò Alberto Baldan Bembo, arrangiatore e direttore d’orchestra in due edizioni del Festival di Sanremo) e 3 i “Puttana miseria” (uno del cantautore romagnolo Enrico Mancini per le edizioni Brutture Moderne). Ci sono i più delicati “La mia puttana” (Daniel Ursini), “La mia puttana triste” (Luca Signorini) o gli ingiuriosi “Sei una puttana” (Gabriele Deliperi), “Puttana che sei” (Silvano Rosso), “Brutta puttana” testo di Manuele Pepe (cantautore in gara a Sanremo nel 1983) sulla musica di Giuseppe Landro e Leonardo Rosi.

Talvolta gli insulti si estendono ai familiari: “Quella puttana di tua sorella” (David Florio) e addirittura “Mia madre è una puttana” (Eros Priori).

A riscattare la parità dei sessi ci ha pensato la showgirl e modella pugliese Gaetana Fasano, autrice del testo di “Uomo puttano”, musica di Pietro Forleo. 

Un’alternativa a Puttana è Prostituta, vocabolo citato nel titolo di 45 canzoni registrate alla SIAE. Si va da “La prostituta stupefatta”, scritta dal poeta e medico Ariele D’Ambrosio sulle note di Alessandro Cerino, a “Innocente prostituta” della pianista cantautrice Valeria Sanzone.

Il primo a depositare un brano con questa parola nel titolo fu il leggendario direttore d’orchestra Carlo Savina, che Ennio Morricone nella sua biografia ha citato come propria guida: è di Savina “Poppea… una prostituta al servizio dell’impero” motivo conduttore del film omonimo diretto nel 1972 da Alfonso Brescia. 

Tra i diversi sinonimi nell’archivio SIAE troviamo 6 “Peripatetica” (uno di Pino Morabito con la musica di Elvio Monti) e il latineggiante “Dolce meretrice” di Simone Andreoli. 

Un altro importante musicista che si cimentò in titoli con simili caratteristiche fu il maestro Geden Capellari, abituale accompagnatore negli anni Cinquanta di artisti di primo piano come Nilla Pizzi, Carla Boni, Giorgio Consolini. Il maestro Capellari fu insignito nel 1986 della medaglia d’oro della SIAE insieme con Ennio Morricone, Federico Fellini e Renato Carosone. Resta sua la canzone con il titolo più impetuosamente espressivo del concetto di donna di facili costumi. Nel 1981 Capellari compose e depositò “Mignotta”.

L’archivio della SIAE custodisce altre perle ipoteticamente assimilabili. 43 canzoni contengono il termine Zoccola, che però può essere riferito anche a un topo di fogna. Non lascia molto spazio a equivoci “Zoccolaccia isterica” depositato da Alessandra Amadii concertista e docente al conservatorio di Bolzano con il testo del concittadino paroliere Oscar Ferrari. 

Sono invece 205 i brani che contengono la parola Troia, che può confondere l’antica città dell’Asia Minore con l’ennesimo termine dialettale per diffamare una signora. Dovrebbe essere proprio questo il caso del titolo “Sei nata troia”, una canzone depositata da Francesco Miscoria, leader del gruppo friulano Quei bravi ragazzi. Miscoria viene da una scuola prestigiosa: si è diplomato al CET di Mogol e si è specializzato nella composizione di brani folk e goliardici: “La botta di culo” è un suo successo.

Senza dubbio il “Lucciole vagabonde” del paroliere Bixio Cherubini musicato nel 1927 da Cesare Andrea Bixio suonava più elegante rispetto a tutti i sinonimi utilizzati successivamente. Anche il termine lucciole era riferito a donne che offrono prestazioni sessuali dietro pagamento di un corrispettivo in denaro, ma certamente quel titolo non avrebbe provocato alcun imbarazzo ad Amadeus.

Rebecca Luisetto per corriere.it il 24 dicembre 2022.

Green pass illegale quello per cui sarebbero indagate la cantante vicentina Madame (Francesca Calearo, 20 anni) e la tennista professionista Camila Giorgi, 30 anni, assieme anche ad alcuni componenti della sua famiglia, come riportato per primo dal Giornale di Vicenza. Questa l’accusa sulla quale sta indagando la procura di Vicenza, che ha messo sotto la lente d’ingrandimento un giro di false vaccinazioni contro il Covid che lo scorso febbraio aveva portato all’arresto della dottoressa Daniela Grillone Tecioiu, assieme al suo compagno Andrea Giacoppo ed il dottor Erich Volker Goepel. 

Spuntano i vip nella lista degli indagati

Intanto, a carico delle due celebrità viene ipotizzato il reato di falso ideologico, secondo cui avrebbero ottenuto il certificato del green pass in modo illecito durante l’emergenza di Covid 19. L’indagine, oltre a loro, comprende un’altra decina di persone e tra queste qualcuno è sospettato per corruzione, perché avrebbero pagato per risultare vaccinato. Ad indagare sulla questione la squadra mobile della questura coordinata dal sostituto procuratore Gianni Pipeschi.

Tutto era partito un anno fa, quando l’Ulss 8 aveva segnalato una quantità sospetta di vaccinazioni nello studio di Vicenza della dottoressa Grillone Tecioiu (avvocato Fernando Cogolato) e da quelle avvenute anche nello studio di Fara del dottor Goepel (avvocati Massimo Malipiero e Porzia Vasco). Ma l’arresto del dottore era poi stato annullato a settembre scorso perché non sarebbe esistito il pericolo della reiterazione del reato, lo stesso sarebbe poi avvenuto per la dottoressa.

Perquisizioni nello studio medico

I nomi di Madame e della Giorgi sono proprio saltati fuori dalla lista dei nominativi dello studio della dottoressa Grillone Tecioiu. La cantante, però, era cliente della dottoressa da diverso tempo, mentre la tennista non avrebbe contatti con il vicentino essendo proveniente da Macerata. Pur essendo la loro posizione penale simile, in realtà le conseguenze per le due divergerebbero.

Infatti all’epoca dei fatti agli artisti bastava un tampone negativo per poter lavorare, mentre per il mondo del professionismo sportivo la storia cambia. Le sanzioni infatti sarebbero diverse e anche gli stessi provvedimenti da parte della Federazione italiana tennis potrebbero risultare assai severi.

Madame indagata per i vaccini falsi: diventa un caso la sua partecipazione a Sanremo. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 27 Dicembre 2022

La cantautrice avrebbe ottenuto un falso Green Pass

Indagata, confusa, irritata, polemica. Sono quattro delle centomila facce pubbliche di Madame, rapper e cantautrice, voce (era il titolo del suo brano) a Sanremo 2021 e protagonista anche del prossimo Festival. Voce della Generazione Z, libera e non omologata, finché — succede a tutti — non arriva il successo a ingabbiarti in una categoria e a silenziare la tua carica rivoluzionaria. «Se vuoi rompere un sistema devi fingerti parte dell’ingranaggio», diceva Kurt Cobain. Il nome d’arte nato grazie a un generatore di nomi per drag queen («sono usciti Pinky girl pink e Madame wild, che mi è piaciuto. Ma ho tolto Wild, mi sembrava infantile»), gender fluid («sono bisessuale, sono attratta sia da uomini che da donne»), ma paladina solo dei diritti di se stessa («vivo con normalità questa cosa, non sento il bisogno di dover aderire a determinati gruppi o movimenti»).

Indagata dunque. Madame, nome d’arte di Francesca Calearo, 20 anni, è finita in un’inchiesta della Procura di Vicenza, accusata di essere tra le «pazienti» di una dottoressa che ha certificato false vaccinazioni anti Covid per far ottenere il Green Pass a chi non aveva intenzione di sottoporsi alla profilassi. Il reato ipotizzato è quello di falso ideologico. Una grana con vista sull’orizzonte di Sanremo. O forse no. Perché tutti al momento rimangono a guardare. Non essendo sotto contratto con la Rai, la tv pubblica non può applicare il codice etico (usato invece per il caso di Memo Remigi) e dalla produzione del Festival come pure dalla direzione artistica (Amadeus) non arrivano prese di posizione. Per un motivo che scaccia tutti gli altri: Madame è solo indagata — non condannata — e difficilmente la giustizia farà il suo corso prima dell’inizio del Festival (7-11 febbraio).

Anche confusa, Madame. Dieci giorni fa, all’ultimo istante, prima dell’annuncio in diretta, aveva deciso di cambiare il nome del brano da portare a Sanremo: da un icastico «Puttana» a un ben più neutro «Il bene nel male». Eppure che il titolo dovesse essere quello «volgare» non c’è nessun dubbio. In un’intervista a la Lettura , l’inserto culturale del Corriere della Sera, Madame era stata chiara: «Nella canzone il termine “puttana” suona come una dolce offesa... In pratica mi immedesimo in una prostituta che si innamora di un uomo, ma lui la vede soltanto come un errore». La cantante però ha giurato che «non c’è stato nessun tipo di pressione. È stata una scelta artistica dell’ultimo minuto». Insomma al massimo si tratta di auto-censura.

Polemica. Un anno fa aveva pubblicato una foto che la ritraeva in un atteggiamento affettuoso con una ragazza. Scatto rimosso e scia di polemiche. «Secondo voi, cari giornalisti e opinionisti, io veramente vi darei in pasto una cosa delicata come un mio possibile fidanzamento, o qualcosa di così intimo e privato?». Marzullescamente aveva fatto tutto lei: aveva prima pubblicato e poi rimosso, si era fatta la domanda e data la risposta, si era indignata e poi placata. Uno di quei casi da manuale in cui il nemico, forse, lo guardi allo specchio...

Madame sa anche essere irritata. Come quando — sempre sui social, che sono la fotografia dell’eterno scontento della nostra rappresentazione — se l’era presa con uno pseudo-fan. «Se non mi segui, non chiedermi una foto mentre sto mangiando». Apriti social, pioggia di critiche e lei costretta a spiegare: «Questa polemica è partita da un errore mio, dovrei essere meno impulsiva. Avevo pochi caratteri a disposizione e troppa rabbia da sfogare. Io in quel contesto non sto lavorando, non sono Madame. Quello era un momento intimo con la mia famiglia». Eppure ha ben chiaro cosa significa avere successo: «Mia madre mi ha insegnato che della fama bisogna gioire per poco, sennò significa tirarsela e diventare cattivi».

Chi è Madame?, le aveva chiesto Teresa Ciabatti: «Per farle capire: non ho mai avuto una calligrafia mia, copiavo quella del compagno di banco, e siccome i compagni di banco cambiavano di continuo, i miei quaderni sembrano scritti da trenta persone diverse». Una nessuna e centomila.

Roberto Pavanello per lastampa.it il 26 Dicembre 2022.

Un successo rapido e apprezzato dalla critica è quello che Madame, al secolo Francesca Calearo, ha ottenuto da quando – nel 2018 – ha fatto la sua comparsa sulla scena musicale italiana con il brano Sciccherie. Un exploit che l’ha portata a rimbalzare da una radio all’altra e da una piattaforma di streaming all’altra. Un brano che colpì tutti per l’insolito modo di cantare di Madame che faceva sembrare il suo italiano quasi un’altra lingua, senza però arrivare agli estremi lessicali di Tha Supreme.

Oggi, a distanza di 4 anni dal suo debutto e a soli vent’anni di età, sta per affrontare il suo secondo Festival di Sanremo, sempre alla corte di Amadeus, dopo che nel 2021 vi debuttò con Voce, canzone che ha ricevuto il «Premio Lunezia per Sanremo» per la qualità musical-letteraria, il Premio Sergio Bardotti per il miglior testo e la Targa Tenco come migliore canzone di quell’anno. 

Inutile dire che c’è grande attesa per la sua nuova proposta sanremese Il bene e il male. Un brano che ha già fatto discutere prima ancora che se ne sia potuta ascoltare una sola nota. Era stato infatti presentato al Festival con il titolo di Puttana, che era stato accettato dalla commissione artistica, prima che lei stessa decidesse di cambiarlo, lasciando «puttana» solo nel testo. 

Nessuna censura, dunque, come sulle prime aveva iniziato a denunciare qualcuno sui soliti social. Si tratta di «una parola come tante, senza una connotazione positiva o negativa – ha spiegato la stessa Madam al Corriere della Sera –. Una volta uscita dalla creazione del brano e dopo averlo ascoltato, posso dare degli input di quello che mi arriva. Nella canzone il termine “puttana” suona come una dolce offesa…». 

Ed ecco spiegato il testo di Il bene e il male: «In pratica mi immedesimo in una prostituta che si innamora di un uomo, ma lui la vede soltanto come un errore. Tra loro nasce una discussione, rispetto alla quale lei fa un ragionamento più profondo: la morale è che puoi prendere ciò che di buono ti arriva da qualsiasi parte… Che sia il 70 per cento bene e il 30 per cento male o viceversa, il messaggio è: concentrati sulla fine del percorso, su ciò che anche una puttana può darti». 

Tra Sciccherie e Sanremo 2023, la carriera di Madame – che si muove in un territorio nel quale si confondono rap, canzone d’autore e pop – è proseguita tra qualche hit e molte collaborazioni di primo piano, come quella con Marco Mengoni, Fabri Fibra, Sfera Ebbasta, Marrachash, Ghali e Renato Zero, solo per citare qualche nome. 

A testimonianza anche della sua versatilità che l’ha portata anche a condurre l’ultima edizione della Notte della Taranta, dopo che l’hanno prima vi aveva partecipato come maestra concertatrice.

Non è mancata in questi anni nemmeno la curiosità intorno al suo orientamento sessuale, sul quale Madame, in maniera molto semplice e naturale, non ha mai fatto mistero: «Io sono bisessuale – ha risposto a Silvia Fumarola su La Repubblica –, sono attratta sia da uomini che da donne. Sono una ragazza che sceglie, a seconda di come si sente, di avere un portamento. Vivo con normalità questa cosa, non sento il bisogno di dover aderire a determinati gruppi o movimenti. Sono andata sul palco in giacca e cravatta». 

Della sua vita sentimentale poco altro si sa: «tutto ciò che riguarda la mia vita privata, è privato», aveva replicato nel novembre di un anno fa a chi ipotizzava il suo fidanzamento in seguito a una foto pubblicata su Instagram in compagnia di un’amica: «Non sarà vostro perché è mio, è mio patrimonio. Se un giorno dovessi scegliere invece di condividere la mia vita, lo farò. Lo farò bene però. A me non piace quando si ricama sulle bugie o si inizia a inventare di sana pianta cose che non esistono».

 Ora, prima che a far parlare di lei torni la sua musica, c’è questo fatto di cronaca che l’ha chiamata in causa: Francesca Calearo risulta infatti tra gli indagati nell’inchiesta della procura di Vicenza su un giro di false vaccinazioni contro il Covid per ottenere il Green Pass che lo scorso febbraio aveva già portato all'arresto di due medici. Uno dei quali, Daniela Grillone Tecioiu, ha proprio la cantautrice tra i suoi pazienti. 

Conoscendo i tempi della giustizia in Italia, dubitiamo che la vicenda verrà risolta prima di Sanremo 2023, che si svolgerà dal 7 all’11 febbraio. E, mentre sui social, Madame è già diventata (volente o nolente) paladina dei No Vax, sul fronte Festival non è stata presa nessuna posizione ufficiale. Va ricordato che, non essendo l’artista sotto contratto con la Rai, la tv pubblica non può applicare il codice etico (usato invece per il caso di Memo Remigi).

Madame indagata per falso Green Pass, cosa succede con Sanremo? A cura della redazione Spettacoli La Repubblica il 24 Dicembre 2022.

Per ora nessuna presa di posizione ufficiale dalla Rai e dalla casa discografica

La partecipazione di Madame al festival di Sanremo è in forse? La cantante, il cui vero nome è Francesca Calearo, risulta indagata in una inchiesta della procura di Vicenza, accusata di aver fatto ricorso a finte vaccinazioni per ottenere il Green pass (con lei anche la tennista Camila Giorgi). Madame, 20 anni, incide per l'etichetta Sugar che l'ha voluta tra i suoi artisti quando aveva appena compiuto 16 anni, ed è in gara anche quest'anno a Sanremo: la cantante partecipa con Il bene nel male, scritto da lei e composto con Bias e Brail.

Non essendo sotto contratto con la Rai, la tv pubblica non può applicare il codice etico (usato invece per il caso di Memo Remigi) e dalla produzione del festival come pure dalla direzione artistica, complice la vigilia di Natale, non arrivano prese di posizione come pure dalla Sugar.

Sui social invece il dibattito è acceso: Madame ora è paladina dei no vax ma sono moltissimi per i quali l'aver eventualmente fatto ricorso a finte vaccinazioni per avere il certificato verde è una caduta di immagine da parte di una cantautrice considerata sin dall'inizio libera e non omologata. E' indagata e non condannata Madame, ma difficilmente la giustizia farà il suo corso prima dell'inizio del festival (7-11 febbraio), dunque il nodo prima o poi verrà sciolto.

Madame, tra l'altro, la più giovane vincitrice della Targa Tenco per il miglior album d'esordio e per la miglior canzone Voce, con cui nel 2021 ha vinto il Premio Lunezia e il Premio Bardotti entrambi per il miglior testo, mentre il suo tour è andato sold out.

Green pass falsi, indagate la cantante Madame e la tennista Giorgi. Valentina Dardari il 25 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Per entrambe il reato ipotizzato è di falso ideologico a causa della presunta irregolarità utilizzata nella procedura per riuscire a ottenere il green pass legato alla vaccinazione anti-Covid

Anche la cantante vicentina di 20 anni Madame, all'anagrafe Francesca Calearo, e la 30enne tennista professionista Camila Giorgi sarebbero coinvolte nell'indagine che era stata avviata dalla Procura della Repubblica di Vicenza su false vaccinazioni anti-Covid. L'indagine aveva portato lo scorso febbraio al fermo di tre persone, tra le quali due medici e il compagno di uno di questi. Il reato ipotizzato a carico della cantante e della tennista, come riportato da il Giornale di Vicenza, è di falso ideologico per presunta irregolarità nella procedura di ottenimento del Green pass.

L'ipotesi di indagine

Le due donne risultano nella lista dei clienti di uno dei medici arrestati, ma non sono sue pazienti. Secondo l'ipotesi d'indagine, potrebbero essersi recate appositamente nello studio di Vicenza per ottenere il certificato verde pur non essendosi mai sottoposte alla profilassi. Ancora da accertare se i due personaggi pubblici abbiano realmente effettuato la vaccinazione anti-Covid oppure no. In ogni caso, per quanto riguarda le esibizioni della cantante Madame, all'epoca dei fatti era necessario avere solo un tampone con esito negativo per poter lavorare. Nel frattempo i due medici sono stati rimessi in libertà perché caduto il rischio di reiterazione del reato.

"Ci sono anche i nomi della cantante Madame e della tennista di fama mondiale Camila Giorgi nelle carte dell'inchiesta della procura di Vicenza sul presunto maxi giro di finte vaccinazioni anti-Covid per ottenere il green pass", è riportato sul quotidiano che ha tenuto a sottolineare che "la cantante e la tennista sono indagate, insieme ad altre decine di persone che, secondo gli inquirenti, avrebbero ottenuto la carta verde aggirando la normativa in vigore durante l'emergenza pandemica". Viene poi aggiunto che "il reato ipotizzato a carico di entrambe sarebbe quello di falso ideologico", e che "la cantante e la tennista sarebbero coinvolte in un troncone più marginale dell'inchiesta rispetto a quello principale".

Cosa succede adesso

Madame, nella Sugar come casa discografica che l'ha voluta tra i suoi artisti quando aveva appena compiuto l'età di 16 anni, è anche quest'anno tra gli artisti in gara a Sanremo. La 20enne è in concorso con Il bene nel male, scritto da lei e composto con Bias e Brail. Non essendo sotto contratto con la Rai, la tv pubblica non può quindi applicare il codice etico, che è invece stato utilizzato per il caso di Memo Remigi. Al momento, dalla produzione del festival e anche dalla direzione artistica, complice la vigilia di Natale, non sono arrivate prese di posizione come pure dalla Sugar. Invece sui social si è già acceso il dibattito: Madame adesso è la paladina dei no vax, ma per molti utenti l'aver eventualmente fatto ricorso a finte vaccinazioni per avere il green pass è da considerare una caduta di immagine da parte di una cantautrice considerata sin dall'inizio libera e non omologata. Ribadiamo che Madame è indagata e non condannata, ma difficilmente la giustizia farà il suo corso prima dell'inizio del festival che si terrà tra il 7 e l'11 febbraio.

Alberto Dandolo per Oggi - oggi.it il 13 aprile 2023.

È terminata da circa tre anni la storica amicizia tra  Elisabetta Canalis e Maddalena Corvaglia. Quest'ultima raggiunta da Oggi e interrogata sulla possibilità di un ricongiungimento risponde: «Non abbiamo mai litigato. Le amicizie, come gli amori, a volte hanno semplicemente un inizio e una fine. Inutile accanirsi nel voler prolungare un affetto. Meglio voltare pagina e conservare il bello e il bene , e ce ne è stato tanto, che ci siamo volute. Ed io le vorrò per sempre bene».

 Per anni le due sono state inseparabili in tutte le fasi della loro vita, tanto da essersi entrambe trasferite negli Stati Uniti, al seguito dei rispettivi, ora ex, compagni: il chirurgo Brian Perri per Canalis e il chitarrista Stef Burns, per Corvaglia. Entrambe hanno avuto una figlia a pochi anni di distanza una dall'altra.

Nel 2020 le due ex Veline, dopo aver anche messo su un'attività imprenditoriale insieme (una centro fisioterapico a Los Angeles) hanno infatti rotto ogni tipo di rapporto. I rumors hanno immediatamente dato la colpa proprio a dissapori sul lavoro, ma la verità è che nessuna delle due ha mai voluto parlare troppo apertamente di quel che è successo tra loro.

 Dallo scorso ottobre Maddalena Corvaglia ha deciso di lasciare Milano per trasferirsi a Palma di Maiorca. Con lei anche la figlia Jemie. Maddalena ci tiene a precisare : «Non sono fuggita dall'Italia, è il mio Paese e lo amo profondamente. Una scelta meditata a lungo e che come scopo quello di perseguire uno stile di vita più semplice ed autentico".

Maddalena Corvaglia: «Canalis? Io non la perdono. Con Morgan amore e liti, una volta dormì sullo zerbino». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2023.

La showgirl, che da settembre vive a Palma di Maiorca: «Adesso sono single. Costanzo rivelò la mia storia con Iacchetti. Volevo diventare avvocato, come mio padre»

Maddalena Corvaglia, 43 anni

«Avevo appena litigato con tutta la commissione all’esame di maturità classica. Ancora furiosa, ho tolto i libri dallo zaino, mi sono truccata con un orrendo mascara blu e ho preso il treno per Milano, che da Presicce mica c’era il Frecciarossa, praticamente si andava a vapore».

Destinazione: provino per Striscia la Notizia, estate 1999.

«Mi avevano già cercato per Ok il prezzo è giusto, ma avevo la terza prova scritta, quindi niente. A mandare la domanda con la foto erano stati dei miei amici, non io. Volevo diventare magistrato o avvocato come papà, che era amministrativista. Sono cresciuta dentro agli uffici del Tar, da bambina mi divertivo a mettere timbri sui fogli, il caratterino da rompiscatole c’era già, ero una piccola iena, saputella, rognosa, attaccabrighe. Però, come dice il mio caro Dario Vergassola: “Corvaglia, la Giustizia va già in vacca da sola, ci si voleva mettere anche lei?”».

Si è fatta riconoscere pure all’audizione?

«Le altre facevano stretching, provavano le pose, io invece raccontai candida che ero lì per rilassarmi dopo l’arrabbiatura all’esame, parlando a raffica con il mio bell’accento pugliese. Ripresi il treno per giù, ma arrivata a Brindisi mi richiamarono: “Torna, sei tra le prime dodici”. Passai per casa, presi una felpa e rimontai sul diretto per Milano. Un’ammazzata. Per lo stress mi spuntò un herpes gigante sul labbro».

Portò bene, la presero.

«Ero impreparata, rigida come un tronco, anche se avevo studiato danza classica, non avevo le movenze giuste e sinuose della sex-bomb, in compenso sorridevo a 89 denti».

Però tra mille Veline, tutti ricordano la coppia Maddalena Corvaglia- Elisabetta Canalis.

«Non so bene per quali meriti, forse perché la gente è cresciuta con noi, però ne sono orgogliosa. Quelle di oggi ballano molto meglio, io e Eli eravamo imbranate, pasticcione. Forse abbiamo fatto colpo perché siamo arrivate dopo la stagione delle ragazzine acerbe di Non è la Rai. Una pugliese e una sarda, con le labbrone, le tettone... Eh, a 19 anni avevo qualche chiletto in più, ho rivisto i reggiseni che portavo allora, quarta misura, adesso in una coppa sola ce le metto tutte e due».

In tre anni, dal 1999 al 2002, ne ha combinate di ogni.

«Sono scivolata dal bancone, ho dato una manata al Gabibbo facendolo cadere, strappato calze, perso scarpe. Una volta io e Eli dovevamo eseguire un doppio cambré, piegando il busto all’indietro. “Ocio alla testa”, ci avvisò il coreografo. Bang, che capocciata, una legnata pazzesca».

Mai come alla prima uscita pubblica.

«Oddio, era un premio televisivo, un Oscar non so cosa. Va avanti Eli, c’è un piccolo gradino, io non lo vedo, inciampo. Per non cadere d’istinto mi aggrappo al suo sedere e quasi la tiro giù con me. “Non vi mando più da nessuna parte”, minacciò Antonio Ricci».

Era protettivo con voi.

«Hanno sempre malignato: chissà le Veline che avranno fatto per arrivare lì. Ma va. Ricci è l’unico che non ci ha mai guardato, anche se tutte ne siamo state un po’ innamorate. Ti credo, era un figo. Ma lui zero, ci dava del lei, non ci filava manco di striscio. Come prima cosa, ci spedì a un corso di dizione. Mi chiamò sul telefono fisso per dirmi che ero stata scelta. Rispose mio fratello Tony. “Buongiorno, sono Antonio Ricci”. “E io Maurizio Costanzo”. Buttò giù. Poco dopo. “Pronto, sono sempre Antonio Ricci, cerco Maddalena”. “E io sono Pippo Baudo”. Giù di nuovo. Ricci ci prende ancora in giro».

Eli e Maddy, Maddy e Eli, la Velina bionda e la Velina bruna. Amiche per la pelle e poi di colpo non più.

«È stata una bellissima amicizia, che sia finita non toglie nulla. Con Elisabetta siamo state inseparabili e complici anche nei momenti più difficili. Durante quei tre anni insieme erano tutti convinti che prima o poi avremmo litigato, invece ci siamo sempre protette e sostenute».

Cos’è successo di tanto tremendo?

«Non lo dirò mai, è stato troppo grave per me. Quando si perde la fiducia, l’amicizia si spezza. Non sono una str…a, però tendo a non fare avvicinare troppo le persone proprio per la paura di vederle andare via. Sono guardinga, ho addosso ottanta strati di corazza, perdere qualcuno a cui tieni è dolorosissimo. Ho perso mio padre da piccola, so cosa si prova, non voglio mi ricapiti». 

Il perdono non è contemplato?

«Al momento no ed è giusto così, poi mai dire mai nella vita. Però le voglio ancora bene, voglio sapere che è felice, le auguro il meglio. So che adesso ha problemi personali e mi dispiace. Parlarne male ora sarebbe becero, non si fa. Per tanto tempo ho provato una sensazione di vuoto, senza di lei, adesso mi sono abituata alla sua assenza. E ho altre amiche intorno, poche ma buone, persone speciali, le ho scelte con cura. Una? Costanza Caracciolo, gran brava ragazza».

A Striscia non trovò soltanto un’amica ma anche un fidanzato, Enzo Iacchetti.

«Enzino… ci siamo messi insieme alla fine del secondo anno, senza dirlo a nessuno. Ma sul lavoro era un disastro: se c’era lui non aprivo bocca, invece di sentirmi forte ero bloccata dall’imbarazzo. Con Bonolis e Laurenti sono tornata spigliata, cantavo le canzoni in dialetto».

Nessuno sospettava niente?

«No, perché era dal primo anno che Enzino si dichiarava innamorato di me, aveva gli occhi a cuore, se qualcuno mi si avvicinava gli tirava addosso il cellulare. Eli, lei sì che lo sapeva. A rivelarlo fu Maurizio Costanzo, che però fu molto carino, disse cose bellissime di noi».

Cosa la fece innamorare e perché finì?

«Mi colpì perché Enzino non c’entrava niente con quel mondo, era puro, di un’intelligenza superiore, colto. L’ho rivisto un anno fa nel suo locale e ho capito perché ci sono stata sei anni. Le storie però finiscono, io ci provo e ci riprovo, ma quando dico basta è basta, per noi è venuto quasi da sé, lo abbiamo deciso insieme».

Fece Operazione Trionfo con Miguel Bosè, che tanto trionfale non fu.

«Infatti la ribattezzarono “Operazione Tonfo”. A Striscia ero abituata a sentirmi in famiglia, con lui non mi sono proprio presa. Faceva il divo, si chiudeva in camerino. “Ma questo qui da dove arriva?”, mi chiedevo. E poi piangeva sempre, si emozionava per un nonnulla».

Il flirt con Morgan.

«Pochi mesi di corteggiamento, mai stati fidanzati sul serio. Stavamo insieme, poi spariva, io mi arrabbiavo e lo mandavo al diavolo, lui tornava e si ricominciava. Un giorno la vicina di casa mi avvisò: “Maddy, c’è Morgan che dorme sullo zerbino del tuo pianerottolo”. Una volta a Pasqua si presentò a casa di mia madre in Puglia, lo invitammo a pranzo. Marco è un bravo ragazzo, mi dispiace quando lo attaccano. Tremendo? Figuriamoci, è dolcissimo, ci puoi parlare di tutto senza mai annoiarti, di lui ho un bel ricordo anche se adesso ci sentiamo poco».

Ha sposato Stef Burns, il chitarrista di Vasco Rossi, da cui poi ha divorziato.

«Sei anni anche con lui, in amore c’è questo numero che ritorna. Eravamo felici, innamorati, poi non ho visto più le basi, non è andata. Ma abbiamo una bambina stupenda, Jamie, e per lei facciamo dei colloqui online con una bravissima psicologa che ci insegna a trovare un punto di incontro da genitori. E mi sta aiutando a ritrovare la stima per Stef».

L’aveva forse persa per un tradimento?

«Magari fosse stato quello».

La cerimonia la celebrò il Blasco, a Mirandola, il 28 maggio 2011.

«Quando ha fatto il discorso, diceva cose buffe e subito dopo cose profondissime, la gente rideva e piangeva, piangeva e rideva».

La sposa si presentò su una Ducati bianca.

«Un prototipo creato per me. Arrivai sgasando, scortata da Ducati nere, ma avrò percorso venti metri, per non rovinare l’acconciatura».

Del resto a 12 anni scorrazzava per le vie del paese con una Vespa 50 HP bianca coperta di adesivi, inseguita dal maresciallo.

«A papà promisi: “Compramela, lo giuro, non uscirò dal cortile”. Ci ha creduto. Riuscivo sempre a scappare perché sgusciavo tra i piloni di cemento dove l’auto del maresciallo si bloccava per forza. Mi fregò una notte di Natale, beccati in tre sul sellino: il Vespino fu sequestrato».

Si è tatuata una frase di Vasco sulla schiena: «La vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia» (Sally, 1996)

«Sotto c’è il suo autografo, ricalcato dall’originale che mi ha fatto a un suo concerto».

Non è che si è innamorata di Vasco, prima che di Stef?

«Stef me l’ha presentato lui. Ma di Vasco sono più che innamorata e sempre lo sarò. È un sentimento superiore. Vasco per me è vita, è una parte di me, tutti si rivedono nelle sue parole, lo infilai pure nell’interrogazione di filosofia al liceo. A Scalo 76, su Raidue, nel 2008, litigai con Paola Maugeri per difenderlo, pretendeva di insegnarmelo lei, chi è Vasco. Se uno non lo conosce non può parlare. Feci uno show. Poco dopo mi arrivò il messaggio di Vasco: “Sei una delle poche che capisce davvero quello che scrivo”. Mi misi a piangere e io non piango facilmente».

Bella la vita a Palma di Maiorca.

«Sono terrona, cresciuta a pomodoro e friselle, appena vedo il mare mi rianimo, vivo qui da settembre ed è come essere a casa mia in Puglia, ma c’è la scuola internazionale per Jamie».

Fidanzati in vista?

«Nessuno, sono single».

L’hanno fotografata un paio di volte accanto a Paolo Berlusconi ed è ripartito il gossip.

«Lo conosco da anni, è una persona meravigliosa, speciale. Come Silvio. Il garbo e l’educazione che ho riscontrato in loro sono rari da trovare, ce ne fossero di uomini così. Quanto al resto, scrivano pure ciò che vogliono».

Brava, decisa e fortunata: alle radici del fenomeno Madonna. Una biografia racconta l'ascesa della cantante italo-americana. Che arrivò dal Michigan a New York proprio quando la scena musicale aveva bisogno di una performer edonista e scandalosa come lei. Gino Castaldo su L'Espresso il 5 dicembre 2023

Sembrerebbe quasi eccessivo, se non fosse che nulla che riguardi Madonna può davvero risultare tale, eppure a tenerlo nelle mani un libro di oltre mille e cento pagine che racconta la sua vita fa una certa impressione. Si intitola “Madonna. Una vita ribelle” (Rizzoli), scritto da Mary Gabriel dopo alcuni anni di meticolose ricerche.  

Fa impressione, certo, ma alla fine merita attenzione, perché al di là del fatto che ci piaccia o meno la sua musica, ci troviamo per le mani una storia esemplare, un romanzo dei nostri tempi, uno spaccato della cultura pop degli ultimi quarant’anni. A seguirla dall’inizio, in rigoroso e lineare ordine cronologico, è la storia di una ragazza americana con una forte componente italiana derivata dal padre Tony Ciccone, che cerca già nella provincia del Michigan la sua identità, la sua voglia di esprimersi col corpo, con la voce, con le idee e che poi approda a New York nel momento di svolta, alla fine degli anni Settanta, quando sta nascendo una nuova cultura pop che fa dell’edonismo, del ballo, del piacere, del glamour, del narcisismo e soprattutto della liberazione da limiti e tabù sessuali i propri punti fondamentali.  

Madonna entra nel gioco come una freccia avvelenata e con la sua determinazione feroce va a centrare il bersaglio dei tempi, diventa nel giro di pochi anni la più controversa, osannata, mitizzata icona pop, il volto femminile, bianco, sfacciato dell’altra parte della medaglia pop incarnata da Michael Jackson. Madonna diventa peccato, inclusione, simbolo di libertà sessuale ed emancipazione, rompe ogni confine e soprattutto manda al mondo femminile un messaggio imperioso: si può, anzi si deve fare.  

Contrariamente a tutti i luoghi comuni che vogliono le star del pop prodotti creati a tavolino da chissà quali occulti strateghi, Madonna ha deciso per intero il suo cammino, come viene confermato dal librone che la racconta. Per questo la sua storia non è solo la sua storia, e per questo vale la pena leggerla.

Estratto dell’articolo di Carlo Massarini per “la Stampa” lunedì 20 novembre 2023

Si può essere ribelli in molte maniere, nella vita e nello showbusiness.

«Ogni disco di Madonna contiene una affermazione politica», assicura Mary Gabriel, autrice di Madonna. Una Vita Ribelle, sontuosa biografia di quella che è stata ed è ancora, dopo 40 anni, la più grande icona pop femminile dei nostri tempi. […] 

Le 800 pagine del libro ripercorrono ogni momento topico, ogni svolta, ogni polemica, ogni atto artistico di Madonna Louise Ciccone. Gabriel è una scrittrice che ama la musica ma i cui interessi erano altrove: un libro su Marx, Love and Capital, finalista al Premio Pulitzer, e Ninth Street Women: Five Painters and the Movement That Changed Modern Art, un libro su cinque pittrici americane degli Anni 50 che hanno rotto schemi ma sono rimaste piuttosto oscure.

[…] tu che avrai studiato Marx, Madonna ti sembra un'ambasciatrice del mondo capitalista? «Il meccanismo gigantesco che ha creato intorno a lei Live Nation (spettacoli, biglietti, merchandising) è la cosa più capitalista al mondo, ma lei è sempre riuscita a essere sovversiva, a modo suo. Ragiona ancora come una "street kid", se qualcuno le dà dei soldi per fare quello che già fa bene, sono i mezzi per esprimersi a livello di massa. Ma non cambia i suoi messaggi per compiacere the money man». 

Madonna arriva dal Michigan a New York nel '78, con l'idea di fare la ballerina. La metropoli è lercia, pericolosa, ma anche strabordante di fermenti, tutte le arti che si mischiano e influenzano. Entra in diverse compagnie di danza, vive anche un intermezzo dorato a Parigi assoldata dai produttori di Patrick Hernandez che vogliono farne una star dell'euro-disco, ma fugge perché ha solo in testa la voglia di imparare, maturare, diventare qualcuna in quella città che adora.

Gli aggettivi che Gabriel usa sono arrogante, sfacciata, affamata, audace, innovativa, trasgressiva, con una volontà di ferro. La accompagneranno per sempre. Gira, si dà da fare, vede gente (una sera si ritrova al tavolo con Al Pacino, un po' intimidita ma in taxi gli caccia la lingua in un orecchio). La svolta è quando scopre nella Lower East Side un dance club gay. 

È l'inizio di un amore reciproco che sarà per sempre la sua cifra: «Da teenager si era sentita bullizzata da tutta la scena macho dei licei americani, e solo entrando in contatto con la comunità gay attraverso il suo primo insegnante di danza aveva trovato persone da cui sentirsi accettata, con cui poteva dar sfogo alla sua natura più stravagante. Ragazzi che non avevano nulla se non un'immaginazione selvaggia, che volevano vivere fuori della società ed essere creativi.

Un calderone di idee da cui assorbire, crescere e sperimentare. Il motivo per cui sono rimasti così legati negli anni è l'Aids: quando l'establishment conservatore del presidente Reagan scopre che colpisce soprattutto i gay e i tossici se ne disinteressa. Lei vede morire intorno a sé gli amici e visto che nessuno vuole parlarne, nei primi Anni 80 appena ha visibilità e potere comincia a parlarne negli spettacoli in modo esplicito, fondali con la scritta "sesso protetto", a circondarsi di ballerini gay sul palco, ad essere un sostegno pubblico per la comunità. Era anche una maniera di svergognare il Governo che non si preoccupava dei propri cittadini».

Il che conduce a un altro tema, il suo rapporto con la Chiesa.

«Cresce in una famiglia italo-americana in cui l'osservanza era molto rigida, ma vede le ingiustizie, l'ipocrisia del non accettare con amore gli omosessuali malati, considerati peccatori puniti. All'aeroporto a Roma, dopo che Giovanni Paolo II descrive il Blond Ambition tour "lo spettacolo più satanico mai apparso in terra", si rivolge ai giornalisti, "chi è senza peccato scagli la prima pietra", riferendosi agli omosessuali discriminati, agli abusi del clero, alle donne sottomesse. È come se manipolasse quelli che lei riteneva i manipolatori, e usa l'immaginario e l'iconografia della Chiesa per raccontare una storia diversa, di inclusione, di amore».

C'è un passaggio del libro in cui una quindicenne Madonna va a Detroit per vedere il tour di Ziggy Stardust, che mi ricorda quale fosse il toccante rapporto che si era creato con i teenager dei sobborghi, dei paesi sperduti dell'Inghilterra e del mondo, mille teenagers come lei a cui Bowie tendeva la mano, «give me your hands, 'cause you're wonderful!», guardatemi, siete meravigliosi. È un messaggio potente: non abbiate paura, per quanto strani non siete soli. 

«Esattamente. È il messaggio che manda, fin dagli inizi. Rappresenta un messaggio di libertà e coraggio ed emancipazione, non hai idea quanto sia adorata, e importante, soprattutto in quelle culture repressive fuori dell'asse occidentale. […] Madonna ha sovvenzionato personalmente i professori dei territori occupati palestinesi. Non canta e basta, dietro le quinte è un'attivista».

Rimane la Madonna artista e madre di famiglia. Nel primo campo detiene quasi tutti i record possibili […] Nel secondo, sono rimasto sorpreso di come nel 2016 si trasferisca a Lisbona per stare vicino al figlio adottivo David Banda che vuole diventare un calciatore professionista (con musicisti locali ha realizzato il suo ultimo Madame X, album di contaminazioni fra fado, hip hop, edm, reggaeton e quant'altro passasse da quelle parti, imparando per l'occasione anche a cantare in portoghese). «Ha perso la madre a 5 anni, e ha sempre cercato di riempire quel vuoto. Per quanto trasgressiva, ha una vena conservatrice ed è la famiglia. 

Ha un grande legame con i due figli naturali e i quattro adottati. C'era stata molta polemica sulla adozione di una bimba in Malawi, hanno scritto che una bimbetta nera era l'ultimo capriccio della star che ha tutto. Veramente crudele , ne ha sofferto molto. Ma lei è rimasta legata al Paese africano, ha costruito un ospedale pediatrico e non se l'è intestato ma gli ha dato il nome originale di sua figlia, il Mercy James Hospital, e come persona singola è la maggior donatrice di un Paese molto povero. […]» e ne soffrono anche i mariti, aggiungo, non è facile stare con la donna più famosa del mondo, magari (come è capitato al secondo divorziato, Guy Ritchie) arrivi alla prima del tuo film ma tutti guardano e chiamano tua moglie.

Ma immagino che essere donna in carriera e moglie/madre sia difficile, a tutti i livelli. Perché Madonna è davvero la «hardest working person in showbiz» (come diceva di sé James Brown): un lavoro duro, costante, da figlia della working class. Uno stile di vita disciplinato, anche massacrante, fatto di infortuni e lacrime sul palco e concerti rinviati, fino a quest'ultimo tour intrapreso contro il parere dei medici dopo essere stata in primavera in punto di morte. […]

Madonna, show a Londra «Pensavo di non farcela». Storia di Barbara Visentin su Il Corriere della Sera domenica 15 ottobre 2023.

«Sono molto sorpresa di essere arrivata fin qui», ha ammesso Madonna sabato sera, mentre la folla la osannava. E invece, ce l’ha fatta: il suo tanto atteso «Celebration Tour» ha preso il via dalla O2 Arena di Londra (arriverà a Milano, il 23 e 25 novembre, per due date esauritissime) e lei è salita sul palco per riprendersi scettro e corona da Regina del Pop.

A 65 anni compiuti, dopo lo spavento (suo e dei fan) per l’infezione batterica che a giugno l’ha costretta a diversi giorni di terapia intensiva, miss Ciccone ha tagliato il nastro della tournée mondiale che celebra 40 anni di carriera, ripercorrendo la sua vita attraverso le canzoni e dando ampio spazio alle hit che dagli anni 80 in su hanno contribuito a renderla una leggenda. È lei a rievocare i suoi esordi, approdata nel Lower East Side di New York a 20 anni «senza soldi, senza cibo, senza casa» e costretta a vivere in una sala prove senza bagno: «Non avevo modo di farmi una doccia e quindi uscivo con gli uomini che avevano una vasca da bagno o una doccia. Ad un certo punto della conversazione, chiedevo casualmente se avessero un bagno. E quindi sì, pom***i in cambio di docce, questa è la verità».

Madonna non si è mai abbattuta perché, ha detto, «vedevo il futuro», e non si è arresa neanche l’estate scorsa quando in molti tenevano il fiato sospeso, preoccupati delle voci secondo cui fosse sovraffaticata dalle prove del tour, poi posticipato, e avesse chiesto troppo al suo fisico. Lei stessa, ha confermato durante il concerto, intonando «I Will Survive» di Gloria Gaynor, non era certa di riprendersi dall’infezione: «Non pensavo che ce l’avrei fatta e neanche i miei medici: infatti mi sono svegliata con tutti i miei figli intorno a me. Ho dimenticato cinque giorni della mia vita, o della mia morte, non so bene dov’ero. Ma gli angeli mi hanno protetta e i miei figli erano con me, i miei figli mi salvano sempre». Quattro dei suoi sei figli erano anche sul palco con lei, parte integrante di uno show ricco di coreografie, visual, cambi d’abito e inframmezzato da qualche provocazione, come sua abitudine.

Non sono mancati i riferimenti all’attualità e in particolare alla guerra in Medio Oriente: «Stiamo tutti soffrendo a guardare quel che sta accadendo in Israele e Palestina, mi si spezza il cuore a vedere bambini che soffrono, teenager che soffrono, anziani che soffrono. È tutto terribile», ha detto. Ma poi il suo invito è stato quello di non abbattersi, come ha sempre fatto lei: «Anche se i nostri cuori sono spezzati, c’è tanto che possiamo fare. Prima di tutto possiamo dire “io posso fare la differenza perché individualmente posso portare luce al mondo con le mie azioni e le mie parole ogni singolo giorno”. Scusate, non voglio farvi una lezione, ma tutti insieme siamo molto potenti — ha detto —. Possiamo unirci in modo oscuro e cattivo oppure possiamo unirci partendo dalla luce e dall’amore. E se tutti abbiamo questa coscienza collettiva, possiamo cambiare il mondo e possiamo portare pace, non solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo. Siete con me?»

La doccia bonita. La favolosa carriera di Madonna e il rischio trasmissione di Formigli. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Ottobre 2023

Recensione sonciniana del concerto londinese della “vecchia”, la superstar sempre più intenzionata a darsi un tono culturale ma che poi svacca per accostarsi ai fan più impresentabili (come nei talk di La7) 

«So yes: blowjobs for showers». Amiche memorialiste, amiche romanziere, amiche monologhiste, amiche con ambizioni letterarie ma con l’handicap di tenerci alla reputazione: ne abbiamo di cose da imparare da Madonna Ciccone, che sale sul palco da sessantacinquenne e così riassume la propria giovinezza squattrinata.

Avevo fame, ero al verde, dice, e io mi metto a pensare a questo secolo in cui lo star system è fatto quasi interamente di figli di qualcuno, e il punto non è mica se siano raccomandati: è che, se a casa di Marcello Mastroianni ci fosse stato da mangiare, da dove gli sarebbe venuta la determinazione? L’indolenza sarebbe stata punto di partenza e non d’arrivo.

Se Rocco Ritchie fosse stato figlio d’un ragioniere e d’una massaia, tre giorni fa avrebbe inaugurato una mostra? Forse no: magari, non cresciuto con una madre fissata con Tamara de Lempicka, non gli sarebbe mai venuto in mente di dipingere (poi sul professoressademocraticismo di Madonna ci torniamo); ma di sicuro avrebbe una tigna che non può avere essendo nato ricco.

Poi anche sui figli torniamo (quello di Sua Madonnità è un concerto pieno di figli), ma prima vorrei che ci concentrassimo su lei che arriva a New York nel 1979, e non si può permettere un letto che abbia annessi una vasca o una doccia, e allora inizia a uscire con gli uomini solo dopo accurata indagine: vivi solo? Ce l’hai un bagno? «Mi guardavano come fossi matta».

Quando arriva a «pompini in cambio di docce», «those were the days», penso che è inspiegabile che una così secca ed efficace nell’umorismo poi abbia un tale debole per i comici scarsi. In un tour di qualche anno fa si faceva scaldare il pubblico da Amy Schumer; qui c’è Bob, gigantesco tizio nero che apre lo spettacolo vestito da aristocratica di Bridgerton, lancia dollari sulla folla per evocare appunto la giovinezza squattrinata della vecchia: invece del video di “Material girl”, chissà perché mi viene in mente DiCaprio. The baroness of Wall Street.

Ho passato tutto il pomeriggio della giornata in cui la vecchia è tornata sul palco – in ritardo rispetto ai programmi: quest’estate è stata male, non si capisce bene in che termini ma sul palco dice di non ricordare cinque interi giorni della sua vita, che è la stessa cosa che ha scritto Natalia Aspesi dopo l’ictus – a cercare di ricordarmi quando ho cominciato a chiamarla «la vecchia».

Di sicuro era già «la vecchia» la prima volta che la vidi da vicino, ventun anni fa, nella sala d’attesa d’un’estetista newyorkese. Aveva una canotta: passai mesi a dire a tutti «non sapete che bicipiti, la vecchia». Aveva sette anni meno di quelli che ho io ora.

Ora che siamo tutte le vecchie, e non è mai chiaro come prima dell’inizio di questo concerto pieno di tizie che ci sono venute come il pubblico andava a vedere “Barbie”: travestito da spettacolo. Forse le uniche cose che funzionano in quest’epoca d’imbarazzante esibizionismo sono quelle che ti permettono di sentirti parte dello show, e in questo senso il concerto per i quarant’anni di carriera di Madonna è ideale: quarant’anni di look da saccheggiare, quelle vestite da “Like a virgin” (mancano solo il leone e la gondola) e quelle con la maglietta «Italians do it better» del video di “Papa don’t preach”, quelli con la M di brillocchi come orecchino e quelle con la croce di “Like a prayer” al collo.

(È “Like a prayer” la sua canzone più bella? Probabilmente sì, ma soprattutto: l’unico non didascalismo che si concede la vecchia è farla, la canzone di «and down on my knees, I will take you there», mezz’ora dopo la battuta su docce e pompini).

La più bella (direi: l’unica) idea di questo concerto è la risposta a una domanda che è impossibile non farsi: quando hai quarant’anni di carriera, come le affronti le opere di quarant’anni fa? Non ti trovi ridicola come me quando rileggo i diari del liceo? Come fai a cantare che ti senti una vergine toccata per la prima volta, quando sei la vecchia, hai sei figli, le tue foto più famose sono semipornografiche.

La vecchia risponde con un’idea (non ne vedevo una da anni). Due sagome proiettate centralmente; dietro – didascalicamente – le foto paparazzate da Ron Galella (che nessuno saprà chi fosse, in platea lì né tra i lettori qui) della loro amicizia; e in audio un duetto virtuale: lei che canta “Like a virgin”, Michael Jackson che canta “Billie Jean”.

Il che impone altre due domande. È “Billie Jean” la più bella canzone degli anni Ottanta? (Sì). Oggi, verrebbe MJ linciato più per una canzone in cui la donna è una truffatrice che vuole incastrare un tapino per una gravidanza, che per i sospetti di pedofilia? (Sì).

Il momento dolente, cioè “Live to tell” con le foto dei morti di Aids e lei su una piattaforma sospesa sul pubblico, mi viene rovinato da una paranoia e una certezza. La certezza è che il pubblico non riconosca Robert Mapplethorpe né nessuno di coloro che Madonna mette in gigantesco bianchennero come se il grande pubblico avesse degli stracci di riferimenti culturali, e infatti si anima solo quando tra le foto compare quello famoso anche per i più ottusi: Freddie Mercury, ora sì.

La paranoia è che fino a quel momento ci sono stati talmente tanti disastri tecnici – canzoni interrotte per problemi audio, schermi che impallano altri schermi, una versione di “Burning up” costruita come il fu video di “Ray of light” ma se l’avessero girato a Telesanterno nel 1983, quindi con lo scontorno malfatto e le gambe della vecchia che appaiono e scompaiono – che io per tutto il tempo temo che la piattaforma crolli, i tiranti cedano, e la vecchia mi precipiti sul pubblico. Su quello da tremila sterline a seggiola, perdipiù.

È forse in quel momento che mi appare evidente cos’è diventata Madonna, invecchiando come tutte noi e smaniando per essere di contenuti, come tutte noi, ma non volendo rinunciare alla seduttività, come tutti gli infelici abitanti di questo secolo.

Ha aperto il concerto con un vestito molto bello nonché, definizione per cui mi ucciderebbe, age appropriate; ma poi ha sfoderato le tette entro la terza canzone, e non le rinfodererà più. È quando la vedo con la canzone dolente, e le gigantografie in bianchennero, ma le tette di fuori, è allora che ho l’illuminazione: Madonna è un programma di Corrado Formigli.

Che ti proietta sugli appositi teloni scenografici i quadri di Tamara de Lempicka, perché ci tiene a farti sapere che con la ricchezza si è comprata rispettabilità culturale.

Che a un certo punto, in un’altra galleria di morti incomprensibile (direi: morti che mi hanno formata – ma c’è pure Che Guevara, mica sarà una sua influenza culturale?), mette James Baldwin, e io vorrei sapere in quanti, tra i ventimila della pienissima arena londinese, non dico l’abbiamo letto ma almeno ne riconosciamo la faccia. Secondo me un numero così minimo che li potrei invitare tutti, loro e quelli di Mapplethorpe e quelli di Galella, a cena a casa. Una cena seduti.

Che ti mette sul maxischermo la citazione istruita – George Gurdjieff sull’essere vivi, l’essere morti, l’essere sarcazzo – prima di fare “Die another day”: casomai pensassimo che quella è una canzone che ha quel titolo solo perché gliel’hanno commissionata per il James Bond che aveva quel titolo, e non perché è il suo manifesto sulla mortalità.

Madonna è la tv di Formigli incarnata in una con più talento e più posto nella storia e più tenuta sul lungo periodo e più tutto, ma quello è. Una intenzionata a darsi un tono, ma che poi svacca, perché è così che incassi (share o royalties): somigliando al pubblico più impresentabile. Una che su Tinder dichiara che il suo mito è Frida Kahlo, ma poi sceglie la foto in cui le stanno più su le tette (e se somigliasse a Frida Kahlo si butterebbe dalla finestra).

Chi non è vestito da lei è vestito con qualcosa di suo: non ho mai visto tanto merchandising addosso al pubblico d’un concerto, le magliette e i cappellini e gli accessori, quando vedo un signore sessantenne con la sportina di stoffa con la faccia di Madonna penso che, se la vecchia incassa una sterlina a souvenir, i suoi figli potranno continuare a percepirsi artisti e non dovranno lavorare mai – ma pure i suoi nipoti.

Al concerto di Madonna non esistono i musicisti. Nessuno viene ringraziato, presentato, o anche solo visto. Tranne Mercy James, la figlia diciassettenne che appare al pianoforte in una canzone: ognuna ha il saggio scolastico che si può permettere, la figlia della vecchia ne ha uno con più pubblico degli altri.

Altre due figlie compaiono durante un siparietto su “Vogue”, Madonna e la primogenita fanno le Heidi Klum che giudicano la sfilata di ballerini seminudi, e chiude la sfilata un’altra delle bambine. Forse è una campagna per avere gli asili nei posti di lavoro.

Ma anche questo fa bene a farlo, anche in questo ha capito che al grande pubblico bisogna fare da specchio, mica da via di fuga. Che, quando fanno il siparietto in cui Bob fa il buttafuori che non vuole farla entrare in discoteca, e lei scandisce «My name is Madonna», il pubblico si esalta: sì, anche a me quella volta non m’hanno fatta entrare.

Quel pubblico che è quello delle cene dell’8 marzo, che pensa sia una serata di empowerment e di autostima, mica una serata di karaoke. Che, quando la cover rammollita di  “I will survive” domanda «mica pensavi mi sarei lasciata morire», non vede l’ora d’urlare alla vecchia «oh no, non io», trasformando la sé tappetino di tutte le angherie degli ex fidanzati cattivi in donna vincente e assertiva per mezzo d’un ritornello da discoteca.

Quel pubblico tale e quale (in molti casi, scommetterei: addirittura lo stesso) a quello che accompagna le figlie ai concerti di Taylor Swift dopo aver infilato braccialetti dell’amicizia che le piccine si scambieranno.

Un pubblico che, quando partono le prime note di “Live to tell”, un attacco che è impossibile non riconoscere se nel 1986 eri viva, capisce prima che lei inizi a cantare, e quando comincia, e il pezzo è effettivamente quello, si batte il cinque come avesse risolto un quiz non per dilettanti. Mitomani che dicono seri: ho la sindrome dell’impostore. Noi, insomma.

Un pubblico che, quando Madonna dice che è sopravvissuta al suo malanno perché doveva farcela «per esserci per i miei figli», annuisce forte; e quando dice che tutti insieme possiamo ottenere la pace, non solo tra Israele e Palestina ma nel mondo intero, pensa certo, giusto, quanta saggezza. Mica: figlia mia, sembri una finalista di miss America, un’opinionista di Instagram, un’ospite di Formigli.

Quel pubblico lì, nella fila per il metrò per tornare dal concerto, squarciagola canzoni, chiede alle sconosciute se anche per loro sia stata la più bella serata della vita, e quando le sconosciute (io) rispondono «ora non esageriamo», un po’ si offende.

Dopotutto ha appena visto una sessantacinquenne che in sottoveste si fa palpeggiare tale e quale a quando si infilava la mano nelle mutande nel concerto filmato in “Truth or dare”, ancora trasgressiva ma soprattutto ancora in forma: ciò che il pubblico vorrebbe essere, ciò che crede d’essere, ciò che gli piace pensare d’essere.

Ma soprattutto ha visto una che, esattamente come il pubblico pagante, ha fatto pompini per pure meno d’un bagno con vasca; ma, diversamente dal pubblico pagante, è disposta a raccontarlo, permettendo a noialtre narratrici scarse di riderne forte fingendo che tutto sia specchio, tutto, tranne le parti che ci fanno fare brutta figura.

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” venerdì 7 luglio 2023.

Madonna è stata più vicino alla morte di quanto si immaginasse. Quando il 24 giugno la regina del pop è stata trovata nella sua casa dell’Upper East Side, a Manhattan, priva di sensi, hanno dovuto sottoporla a punture di Narcan per “riportarla in vita”, come ha ammesso ai media newyorkesi un “insider”. 

C’erano anche poliziotti attorno a lei. Non è chiaro se a fare l’iniezione sia stato il medico della cantante, o gli stessi agenti che hanno in dotazione il farmaco sintetico d’emergenza. Il Narcan è un trattamento medico di emergenza usato nei casi di overdose, con gravi crisi respiratorie, ma viene impiegato anche per affrontare uno shock settico, dovuto a una grave infezione che coinvolge tutto l’organismo.

[…]

La rivelazione sul Narcan, intanto, ha scatenato illazioni. Già il ricovero improvviso, a 64 anni, alla vigilia del tour mondiale per celebrare quarant’anni di successi, aveva seminato il panico tra milioni di fans. Molti temono che Madonna possa fare la fine di Michael Jackson, scomparso a cinquant’anni, nel 2009, per overdose. Lo stesso entourage della cantante ha ammesso che l’artista aveva avuto, un mese prima, una febbre forte, ma non si era fermata. […] 

La prima tappa del “Celebration Tour” era prevista il 15 luglio a Vancouver, in Canada […] prevedeva 84 tappe tra Europa e Stati Uniti. Forse troppe. La cantante ha ricevuto le visite dei figli e di alcuni amici stretti, che le avrebbero consigliato di allentare il ritmo e “trovare tempo per riposare”. Nei prossimi giorni sapremo se Madonna li avrà ascoltati.

Estratto dell’articolo di Daniela pe fanpage.it il 26 febbraio 2023.

È morto Anthony Ciccone, il fratello di Madonna. L'uomo aveva 66 anni. A comunicare la tragica notizia, il cognato Joe Henry, marito di Melanie Ciccone. Anthony ha sempre avuto un rapporto conflittuale non solo con la star del pop, ma anche con altri membri della sua famiglia. Per qualche tempo, ha vissuto da senzatetto.

 […] Il rapporto tra Madonna e il fratello Anthony è sempre stato burrascoso. In un'intervista rilasciata al Daily Mail, l'uomo disse di non essere mai stato considerato degno di considerazione non solo da parte di Louise Veronica ma anche da altri membri della famiglia. Li accusava di non preoccuparsi dei suoi problemi di alcolismo, né del fatto che fosse costretto a vivere per strada:

 «Ai loro occhi sono uno zero, non sono un essere umano. Sono un imbarazzo. Se morissi congelato, probabilmente la mia famiglia non lo verrebbe a sapere per almeno sei mesi e poi non se ne preoccuperebbe. Madonna? Non l'ho mai amata e non mi ha mai amato. Non ci amiamo a vicenda».

Madonna, cos'è il farmaco che le ha salvato la vita. Un'iniezione di Narcan e la pop star Madonna avrebbe iniziato la via del recupero dopo il grande spavento: ecco di cosa si tratta e le cause del suo malore. Alessandro Ferro l'8 Luglio 2023 su Il Giornale.

La cantante pop Madonna ha rischiato davvero di lasciarci la pelle: come abbiamo visto sul Giornale.it, il 24 giugno scorso è stata trovata svenuta e in stato di incoscienza nel suo appartamento di Manhattan. Ricoverata d'urgenza, è rimasta in vita grazie alla prontezza dei medici che hanno iniziato tutte le cure del caso dopo essere stata colpita da un'infezione batterica molto forte. A riportarla, per così dire, in vita, sarebbe stata un'iniezione di Narcan come riportato dal giornale che ha avuto l'esclusiva sul malore, Radaronline.

"Ha sfiorato la morte...". La rivelazione sul malore di Madonna

Cos'è il Narcan

Il Narcan, chiamato anche aloxone cloridrato, fa parte della categoria di analgesici narcotici che viene utilizzato soprattutto nel trattamento delle intossicazioni acute. Nel caso della pop star, un'iniezione con questo farmaco sarebbe stata somministrata per invertire gli effetti, probabilmente letali, di un'overdose. C'è anche un'altra tesi, però, che come detto propende per un problema batterico e uno choc settico acuto di cui avrebbe sofferto Madonna. L'iniezione, spesso presente nei kit di emergenza dei personaggi ricchi e famosi, fa aumentare la pressione sanguigna quando si va incontro a choc settici, una condizione molto pericolosa per la vita che si verifica quando la pressione del sangue scende a un livello eccessivamente basso.

Come ha dichiarato in esclusiva Radaronline, la cantante 64enne è stata intubata almeno per una notte in un ospedale di New York con la versione ufficiale, che, come detto, rimanda a una grave infezione batterica che l'ha costretta alla terapia intensiva.

Il malore di Madonna

Sull'argomento è intervenuto anche Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, che con un tweet ha spiegato che a colpire Madonna siano stati i "superbatteri" che resistono agli antibiotici. Si tratta "di batteri più forti, già resistenti e in grado di causare infezioni più gravi. È per queston che tutti dobbiamo usare meglio gli antibiotici perchè tutti possono essere colpiti da questi superbatteri". Proprio sul Giornale.it abbiamo affrontato questo tema delicato tornato prepotentemente d'attualità in questi giorni e non per ciò che è avvenuto alla cantante ma per i numeri preoccupanti dell'Oms: entro il 2050 questo fenomeno potrebbe essere la prima causa mondiale per decessi e, attualmente, è una delle peggiori minacce alla salute globale.

Anche Walter Ricciardi, docente di Igiene all'Università Cattolica, ha spiegato che bisogna agire subito trovando nuovi e moderni antibiotici prima che sia troppo tardi e che l'antibiotico-resistenza, in Italia, possa addirittura diventare più pericolosa del cancro.

Madonna, morto il fratello Anthony Ciccone: per anni aveva vissuto sotto un ponte. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.

Anthony aveva 66 anni. Nel 2011 raccontava: «Io e mia sorella non ci siamo mai voluti bene. Mio padre sarebbe contento se morissi di ipotermia»

Anthony Ciccone, il fratello maggiore di Madonna, è morto venerdì a 66 anni. Ad annunciarne la scomparsa è stato il musicista Joe Henry, marito di Melanie Ciccone, una delle sorelle della pop star.

Anthony ha combattuto per molto tempo con l’alcolismo e la tossicodipendenza che lo avevano portato a vivere sotto un ponte di Traverse City, nel Michigan, per diversi anni. Una situazione estrema che lo aveva allontanato dalla famiglia fino al 2017, quando dopo un lungo percorso di riabilitazione (al quale inizialmente si era opposto: «La mia famiglia pensa che la riabilitazione sia una specie di magia») era tornato a casa.

Nonostante le offerte di aiuto rifiutate, Anthony Ciccone aveva attaccato pubblicamente più volte Madonna, e anche il resto della famiglia, per non averlo aiutato nei suoi anni bui. «Sono uno zero ai loro occhi, sono solo fonte di imbarazzo. Mi sono congelato fin quasi a morire, ma alla mia famiglia non è importato per mesi - raccontava nel 2011, come riporta il Daily Mail -. Mio padre sarebbe contento se morissi di ipotermia, così non si dovrebbe più preoccupare di me. Madonna? Non le ho mai voluto bene e lei non ne ha mai voluto a me».

Anthony, uno dei sette fratelli della pop star (insieme a Mario, Melanie, Christopher, Paula, Jennifer e Martin), figlio di Tony Ciccone e di Madonna Louise Ciccone, morta a 33 anni nel 1963 a causa di un tumore al seno, aveva lavorato nella tenuta viticola di famiglia, la Ciccone Vineyard, prima di essere licenziato e vivere da senzatetto.

«Perché mia sorella è una milionaria e io vivo per strada? Può capitare a tutti, mai dire mai». La pop star sapeva della situazione del fratello e avrebbe provato ad aiutarlo, una mano tesa sempre scacciata da Anthony Ciccone: «Non voglio che mi facciano l’elemosina perché sono il fratello di Madonna, non sto cercando pubblicità».

Nel 2013 era stato anche arrestato per violazione di domicilio, subendo una profonda ferita alla testa in seguito alla colluttazione con un poliziotto.

Mago Forest: «I miei volevano facessi il ragioniere. Mia madre a 88 anni mi fa le pulci in tv». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera sabato 18 novembre 2023.

Il conduttore del «GialappaShow»: «Parliamo di politica e difendiamo il gusto per la battuta anche scorretta. In passato forse con le ragazze abbiamo esagerato»

«E no che non me lo aspettavo, ma non se lo aspettava nessuno». Michele Foresta, il Mago Forest, era il primo a pensare che GialappaShow fosse un azzardo. Invece il programma che conduce ogni lunedì su Sky Uno e Tv8, «il ritorno della Gialappa’s», ora alla seconda edizione, è diventato presto un appuntamento imperdibile per tanti fan, nostalgici e non.

Davvero non ci avrebbe scommesso?

«All’inizio non volevo neanche farlo, davvero. Quando mi hanno proposto la cosa Santin e Gherarducci ho risposto: ma voi siete pazzi, abbiamo già dato tutto quello potevamo dare. Volevo andare a Camogli a fare compagnia al signor Carlo (Taranto, terzo “Gialappo”, che non ha preso parte allo show). Mi hanno convinto con delle cene a trabocchetto in cui mi accerchiavano e mi parlavano solo di quello. Non ho ancora finito di ringraziare».

Quali erano le sue perplessità?

«Mai dire gol è stata la mia casa, pensavo di averci già fatto tutto. Non era così. Io colleziono oggetti, sono un accumulatore e ho una passione per i mercatini dell’usato: ho preso una cantina, un box e pure un appartamento dove tengo un sacco di roba ammassata. Questo perché sono convinto che per capire le novità devi cercare tra le cose vecchie. Ecco, noi siamo come un bell’oggetto vintage, magari con qualche ammaccatura ma da collezionare».

Il Mago Forest è il suo alter ego?

«Nasco timido: lui è come una maschera che mi permette di fare ogni possibile follia. Come presentatore sono la somma del peggio di quello che un conduttore possa fare».

Si è presentato in studio vestito da Ken.

«Mia mamma, che ha 88 anni, mi guarda solo per vedere come mi vesto e come sono pettinato. Mi dice di non fare cose pericolose. Quando ero vestito da Ken avevo le lenti a contatto azzurre: si è arrabbiata perché diceva che si rovinavano gli occhi. Una volta a Stasera tutto è possibile ero su una poltrona vibrante e lei mi ha rimproverato perché così “ti si scombussolano tutti gli organi”».

Lei, proprio lei, ha studiato Ragioneria: come è possibile?

«I miei volevano che studiassi, sognavano il posto fisso. Mio papà, che è mancato a gennaio, era carpentiere e tornava a casa sempre tutto impolverato, con i vestiti strappati, quindi mia mamma voleva che io facessi un lavoro “al coperto”. Ho scelto di fare il ragioniere perché almeno non c’era il latino, inoltre di fronte a casa mia ne abitava uno che aveva una villetta con posto auto, della palme e due figlie carine. Quindi, pur essendo negato per la matematica, mi sono iscritto».

Poi è arrivata la radio.

«A radio Nicosia ho iniziato mettendo a posto i dischi che i dj lasciavano in giro. Quindi nonnismo. Ora tra le mie collezioni c’è quella dei vinili di quel periodo».

Ha una forte vena nostalgica...

«Forse a una certa età si cerca ricreare la propria infanzia, non so. Ho anche preso da poco due macchine a pedali... siamo la somma dei nostri ricordi».

Uno che le viene in mente pensando a quegli anni?

«Abitavo in via Matteotti, vicino al camo sportivo dove ogni anni arrivava il circo: stava tre giorni. Le carovane erano più larghe del portone di ingresso e quindi ogni volta, con il permesso del comune, abbattevano un muro che alla fine ricostruivano. Finché un giorno hanno pensato di fare il portone un po’ più largo. I ragazzi del circo venivano a scuola con noi e poi si esibivano in pista. Per me era magico. E ricordo ancora il clown, che mi faceva molto ridere: si chiamava Sessantasette, come il suo numero di scarpe».

Fu il suo imprinting?

«So che un giorno mia mamma mi trovò appeso con i piedi per aria a una sorta di trapezio che mi ero costruito da solo. Volevo fare il trapezista».

Quando ha iniziato a voler fare il comico?

«Non c’è stato un momento preciso. Lavoravo nei bar di Milano e a un certo punto mi sono detto: se riesco a guadagnare gli stessi soldi lavorando nello spettacolo sono contento. Ma sarebbe andato benissimo stare dietro le quinte. Poi le cose succedono e, senza che me ne accorgessi, ho fatto la gavetta. Ma neanche ci pensavo a diventare noto».

Il Mago Forest può dire tutto?

«Il comico deve essere irriverente, deve quasi offendere certe persone, perché se non le offendi non ti accorgi che esistono».

A chi si riferisce?

«Ai politici. Oggi ci si fa qualche scrupolo in più. La sensibilità è cambiata. Del resto i tre della Gialappa’s erano “i ragazzacci”. In passato forse abbiamo con trattato le ragazze con leggerezza, penso alle Letteronze con cui però eravamo tutti amici... Marco (Santin, ndr.) se ne è sposato anche una... però vista da fuori poteva sembrare un eccesso di confidenza. Questa nuova presa di coscienza, chiamiamola anche avanzamento culturale, è giustissima. Ma facendo così abbiamo diviso il mondo in categorie che non si parlano».

La battuta vince sul politicamente corretto, quindi?

«È una convinzione mia e della Gialappa’s. A Mediaset quando veniva detto qualcosa di più spinto si fermava la registrazione. Loro insistevano dicendo che la battuta andava fatta, gli avvocati dell’editore dicevano di no. Allora i Gialappi chiamavano i loro avvocati: hanno sempre difeso il principio del far ridere. E per questo si sono presi anche delle denuncie, tipo da alcuni ministri che ministri non sono più ma sono anzi finiti ai domiciliari».

Anche ora la politica torna spesso al «GialappaShow».

«Alcune cose le diciamo, sì. Tipo ho messo due finti poveri in coda per entrare nel locale allestito all’interno del nostro studio, questo perché dopo che il ministro Lollobrigida ha detto che i poveri mangiano meglio, se la gente li vede in fila pensa: “Allora lì si mangia bene”».

C’è qualcosa che, guardando al passato, non rifarebbe?

«Uno sketch con Sara Ventura, in cui mi fingevo arrabbiato perché avevo capito che sarebbe venuta sua sorella Simona. Era una mia amica, abitava sul mio stesso pianerottolo. Ci siamo messi d’accordo e ci siamo presi a botte veramente, schiaffi veri. Non lo farei più».

Siete ancora amici?

«Sì. Ma non abita più lì».

Come sono i rapporti con il signor Carlo?

«È gentile, ci chiama sempre, fa i complimenti. Quella tra tutti noi è una vera amicizia e lui, anche oggi, è con ognuno in buonissimi rapporti. In trasmissione ogni tanto lo sfottiamo... la sua mancanza si sente, prima a insultarmi erano in tre, ma è come quando viene espulso un giocatore: gli altri devono dare qualcosa in più. Marco e Giorgio lo hanno fatto».

Tornerà almeno per una puntata?

«Lo speriamo tutti, almeno come guest star, un cameo. C’è da dire che lui è andato via come ragazzaccio. Gli altri due adesso sono gli anzianacci... i due vecchietti dei Muppet, senza offesa per i Muppet».

Estratto dell’articolo di Maria Elena Barnabi per “Gente” il 10 giugno 2023

A 62 anni il Mago Forest, ovvero Michele Foresta, è una certezza televisiva: da 20 anni quando al centro del palco arriva lui, si ride. Segni particolari: basette d’ordinanza, sguardo sornione e battute stralunate […] che hanno conquistato il cuore di tutti. Da qualche settimana si è riunito con Giorgio Gherarducci e Marco Santin della Gialappa’s Band (Carlo Taranto si è ritirato) nella trasmissione Gialappashow, che sta andando benissimo su Sky Uno e TV8. 

[…] Ci dica del successo di Gialappashow.

«Guardi, non so se è merito mio. Giorgio Gherarducci mi dice sempre: “Tu le battute le dici così male che sembra tutto improvvisato”. Sarà quello. Però nel nostro caso dopo 20 anni di edizioni di Mai dire c’è molta alchimia, tutto viene fuori in modo naturale. Mi spiace che non ci sia il signor Carlo, vorrei anche io essere in vacanza al mare come lui».

Improvvisate molto?

«Al contrario è una trasmissione tutta scritta. Dura un’ora e mezza, ma ci lavoriamo una settimana intera a scriverla, notte e giorno. Sembra che sparo quattro cavolate, ma dietro c’è molto lavoro». 

[…]  «[…] Mi hanno chiesto di andare in alcune trasmissioni e ho pensato: “Ma che ci vado a fare?”. E così ho detto molti no». 

Tipo? Ce ne dica almeno una.

«Ho rifiutato Domenica In. Mi sentirei a disagio a parlare di me stesso. Sembro birichino, irriverente e un po’ scorretto, ma in realtà sono un timido bambino di Nicosia che ha paura a parlare con gli altri. Mia madre mi raccontava così».

Non vorrà mica rifilarci la solita panzana dell’attore timido.

«Mi spiace contraddirla, ma mi riconosco nella categoria del timido. La cosa che mi viene meglio è fare lo spettatore. Se potessi, non andrei sul palco. 

Riesco ad andarci solo perché mi nascondo dietro la corazza del mio personaggio. Alan Bennett (scrittore e drammaturgo britannico, ndr) ha detto che il personaggio è la somma dei nostri difetti e il Mago Forest è molto vicino a quello che sono». 

Tra basettoni e ciuffo non ha mai cambiato look: era anche uno dei segreti di Raffaella Carrà. Come mai?

«Pensi che da 20 anni mi faccio pettinare dalla stessa persona. L’ho voluta anche al mio matrimonio. È una questione di stare bene: noi comici siamo delicati, per noi l’umore è tutto. Un comico fuori fase è la cosa peggiore che possa capitare: un cantante ha la voce, può sempre cantare, ma noi dobbiamo far ridere». 

Lei ha iniziato da giovanissimo nei cabaret di Milano.

«Quando c’era una lampadina e un microfono che fischiava, ogni occasione era buona per esibirsi». 

Ecco, le sarà capitato di non avere feeling con il pubblico...

«In 40 anni mi è successo di tutto: gente che non rideva, che non era interessata, che era lì a fare altro. Ho lavorato dappertutto: nelle pizzerie, nei night club, nei locali per scambisti...». 

Locali per scambisti? Ci dica tutto!

«Non era una cosa così inusuale a Milano negli Anni 80-90. C’erano molti di questi club, uno si chiamava il Tulipano nero. All’inizio della serata, per far socializzare i clienti e per rompere il ghiaccio, c’era qualcuno che faceva un numero di cabaret. E spesso quel qualcuno ero io». 

Ha assistito a scene equivoche?

«Quando vai in un locale di scambisti lo sai perché sei lì. Ma l’atmosfera era molto elegante, con gente elegante, vestita bene. Sembrava di essere a una festa alla Eyes Wide Shut.(film di Stanley Kubrick del 1999, ndr). E poi in questi night club, a parte me che ero un pischello, a volte c’erano anche artisti e maghi internazionali, che poi andavano al Moulin Rouge di Parigi, come Johnny Hart o Otto Wessely». 

Parliamo di Nino Frassica, comico siciliano un po’ surreale come lei.

«Io a Nino gli voglio bene. Lo vidi per la prima volta a Quelli della notte (mitico programma Rai di Renzo Arbore del 1985, ndr) e rimasi folgorato: ricordo ancora le risate che mi facevo di notte, da solo, sul divano, mentre lo guardavo. Poi ci siamo incrociati a Indietro tutta (altro programma di Arbore, ndr), lui mi ha preso a cuore: sono diventato un suo “ragazzo di bottega”, mi chiamava nei suoi spettacoli. Abbiamo fatto mille cose».

[…] Leggenda vuole che lei e sua moglie Angela vi siate conosciuti a un suo show.

«In realtà io facevo uno spettacolo per la sua azienda. Ci siamo conosciuti lì, dopo: le feci un autografo, ma ci volle un po’ per farla cedere. Non si è innamorata della mia calligrafia, ma del fatto che sono un uomo irresistibile». 

Come le ha chiesto di sposarla?

«Ho poca memoria, forse me l’ha chiesto lei. Ricordo però che ci siamo messi assieme nel 2004 perché è la password della mia cassaforte. Poi ci siamo sposati dopo otto anni».

[…] Agli show era molto corteggiato? Le fan le lanciavano le mutande sul palco?

«Certo. Mi dicevano: queste me le lavi e me le riporti giovedì».

Estratto dell'articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 7 giugno 2023.

Stralunato, cialtrone, fa giochi di prestigio comici, presenta a modo suo: il Mago Forest, all'anagrafe Michele Foresta, conduce GialappaShow su Tv8 (sfiora il milione di spettatori) e Sky, fenomeno di questa stagione tv. Dal debutto con Renzo Arbore a Indietro tutta , a Mai dire gol, Zelig, Che tempo che fa, Lol, ha ritrovato gli amici Carlo Gherarducci e Marco Santin. 

[…] 

Cosa fa ridere?

«Lo spettacolo più bello è quello della gente. Ed è gratis. Mi piace osservare le persone che non hanno intenzione di farti ridere e sono comiche».

E in televisione?

«Stefano Rapone, che a GialappaShow fa il portavoce aggiunto al governo Galeazzo Italo Mussolini. Dice cose che possono essere verosimili. Coi politici, purtroppo, a volte basta ripetere pari pari quello che dicono». 

Pensa anche lei che vi rubino il lavoro?

«Certo. E non mi riferisco solo al governo odierno, alla destra. A sinistra, ne parliamo? Riescono a spaccarsi su tutto. Poi i politici mi mettono anche profonda tristezza: quando dovevano eleggere il presidente della Repubblica, hanno raggiunto un senso del ridicolo inarrivabile per un comico. Scrivevano nomi assurdi. Era una cosa seria». 

Perché secondo lei?

«È come se puntassero sulla scarsa memoria dell'elettore, che invece si disamora. Ce lo ricordiamo chi avrebbe ammazzato i meridionali e ora vuole fare il ponte sullo Stretto?». 

Il più comico di tutti?

«Sono vari. Quelli che difendono a oltranza l'indifendibile sono i miei preferiti. Poi la banderuole, e chi cavalca mi piace. Non sono più cacciatori di voti, ma di like». 

Dove nasce il mago Forest?

«A Radio Nicosia. A scuola facevo sempre lo spiritoso, mi ci mandarono i professori. Facevo un mago esoterico che si occupava di problemi d'amore, salute, e non dava speranza a nessuno» 

[…] 

Quando è diventato un mestiere?

«Ho studiato ragioneria ma speravo di lavorare nello spettacolo: macchinista, aiuto scenografo — papà era carpentiere, ho una certa manualità. Sono partito per Milano, dove vivere uno zio, ho frequentato la scuola “Il palcoscenico”». 

Il rapporto con Renzo Arbore?

«Al provino doveva andare un amico, non poteva. Renzo tirò fuori il meglio di me, mi presentai come mago scalcinato, andai a cambiarmi in bagno. È nel mio cuore da quando papà mi portava in campagna per fare i lavoretti. Attaccavo la radiolina a un ramo per ascoltare Alto gradimento. Ogni volta che fai qualcosa credendo che sia una novità, Arbore l'ha già fatta. Pensi a L'altra domenica , è un archetipo. Faccio bella figura quando uso questa parola». 

Ha ritrovato Nino Frassica a “Che tempo che fa”.

«Lo ritengo un mio maestro, l'ho conosciuto a Indietro tutta e per anni abbiamo fatto le serate, ero il suo ragazzo di bottega. Gli sono grato. Ancora adesso riesce a sorprenderti. Ci siamo frequentati per un film con Diego Abatantuono. La cameriera a colazione fa: “Abbiamo anche i cornetti senza glutine”. Nino: “A me ne può aggiungere un po'?”».

Nel 2001 l'incontro con la Gialappa's, alchimia perfetta: cosa vi unisce?

«Il modo di vedere le cose, stiamo facendo l'ennesima puntata di una trasmissione iniziata nel 2001. C'è molto affetto, sono stato testimone di nozze di Gherarducci in Comune, con la fascia del sindaco Sala. C'è questa naturalezza nel confrontarci, un clima bellissimo. Abbiamo ritrovato i vecchi truccatori, gli assistenti di studio, il regista Andrea Fantonelli. È una rimpatriata». 

Ha detto: «Il mestiere della comicità è superare i paletti». Nell'era del politicamente corretto come si fa?

«Se una battuta fa ridere la dici, l'importante è non insultare o diffamare. Puoi dire tutto, dipende come e dove, uno show comico non è il Tg1. Capisco la nuova sensibilità culturale, ma le battute sono battute.

È solo rock'n'roll, no? È solo cabaret». 

A “GialappaShow” c'è più scrittura o improvvisazione?

«Gherarducci ripete: “Sembra che improvvisi perché dici malissimo le battute”. Con i miei autori, Claudio Fois, Giovanni Tamburrini e Laura Bernini scriviamo tutto. In onda l'istinto ti porta a improvvisare». 

L'uscita di Fazio dalla Rai?

«Mi dispiace che la Rai abbia perso un grande professionista che portava qualità al servizio pubblico, che non è dei partiti, è degli italiani. Piuttosto che perdere Fazio, sarebbe stato meglio aggiungere una voce di destra che fa il suo lavoro».

Prende in giro le sue compagne.

Rapporto con le donne?

«Sembrano tutte bellissime grazie a me. Con l'ultima, Cristina Chiabotto, avevo lavorato al Festivalbar nel 2006, c'era Ilary Blasi. Vedevamo la tv e ci abbracciavamo quando segnavano Totti e Del Piero, bei tempi. Nella vita sono felicemente sposato con Angela, se fossi davvero quello che appaio sarei da rinchiudere».

Mago Forest: «I miei erano poveri e ridere non costa ... così ho imparato». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Il debutto con Arbore, la Gialappa e poi il successo a «Lol»: «Mio padre era carpentiere, a 95 anni fa ancora battute sferzanti. Io due volte a Sanremo? Baglioni si era dimenticato di avermi già invitato l’anno prima»

Il mago Forest, alias Michele Foresta, è nato a Nicosia, in Sicilia, 61 anni fa

Una geometria asimmetrica, una visione paradossale, lo sguardo dispari e trasversale, il Mago Forest (all’anagrafe Michele Foresta) riveste il reale con la sua comicità che vola tra i cieli rarefatti dell’assurdo. Un fenomeno, tanto da Fabio Fazio dove è ospite irrinunciabile, quanto in Lol. Nello show di Prime Video si è presentato come Re magio in versione natalizia su cammello gonfiabile che porta oro incenso «e soprattutto birra». Dopo 20 minuti che si aggirava così conciato per lo studio ha estratto battute dal cappello del surreale: «Devo dare una brutta notizia a chi si è affezionato: il cammello è finto». Poi ha fulminato Frank Matano per come era vestito: «Durante la settimana della moda ti fanno andare a firmare in Questura». Ha sparato seriamente scemenze d’autore: «Ho vinto tre volte il palio di Siena, ma come cavallo».

L’attitudine alla comicità da dove nasce?

«Vengo da una famiglia modesta, papà carpentiere e mamma casalinga, eravamo poveri ma non ci è mai mancato niente. Soprattutto la casa è sempre stata piena di senso dell’umorismo, mio papà ha 95 anni e ancora adesso fa battute sferzanti. Si rideva e si ride sempre. Spesso nelle famiglie del sud quando c’è poca roba l’intrattenimento te lo devi fabbricare da solo».

Con il suo diploma ha ucciso lo stereotipo del ragioniere...

«I miei insistevano perché studiassi, per l’epoca andare alle superiori dopo le medie era già studiare... Al mio paese, Nicosia, ragioneria valeva come frequentare l’università. Scelsi a caso un istituto commerciale e il segretario mi chiese se preferivo ragioneria o geometra. Una domanda a bruciapelo che non mi aspettavo. Mi venne in mente che di fronte a casa mia abitava un ragioniere che aveva la villetta con la palma, il garage, le figlie carine... e allora ho risposto subito: ragioneria!».

La gavetta?

«Ho cominciato con un mago sensitivo in radio, una parodia. I disperati in amore o nel lavoro telefonavano e io non davo speranze... Poi mi sono appassionato ai giochi di prestigio e ho iniziato a scherzare anche su quelli. Ho frequentato la scuola di mimo, e tra i primi numeri ne avevo uno muto da mago, copiavo Mac Ronay, un francese dall’aria sempre alticcia. Pensi che sono iscritto all’Enpals come mimo tersicoreo, mi daranno la pensione come ballerino, forse in dracme...».

La svolta professionale arriva con Arbore...

«Ero un ragazzino e sono finito a fare un provino per Indietro Tutta perché un altro comico mi chiese se volevo andare al posto suo. Arbore lo ascoltavo fin da adolescente, appendevo una radio verde a un albero per seguire Alto Gradimento , poi impazzivo per Quelli della notte, che è stato rivoluzionario. Quando iniziai a lavorare per lui ero acerbo, impreparato, ma Arbore capì che potevo funzionare. È stata la mia prima pacca sulle spalle per dire che forse ero sulla strada giusta. Lui era tutto vestito di bianco, lo guardavo con ammirazione; ero in soggezione. Soggezione però non è la parola giusta, ma purtroppo ora non ho portato con me il dizionario dei sinonimi e dei contrari».

A Indietro Tutta ha incontrato anche Nino Frassica, parlate lo stesso linguaggio comico...

«L’ho conosciuto lì, siamo rimasti amici, ho lavorato con lui. All’inizio ero il suo ragazzo di bottega, ho imparato tantissimo, ho assorbito, è uno dei pochi che nonostante la lunga carriera riesce ancora a essere spiazzante. Quando chiede come facevano di cognome Adamo ed Eva vorrei entrare nel suo cervello per capire come gli vengono».

Il pubblico che si aspetta di ridere davanti allo spettacolo di un comico quanta ansia mette?

«Non poca ansia, tanta. Billy Crystal dice che se sei già famoso parti avvantaggiato ma quando sei sul palco poi è meglio se fai ridere. Insomma aiuta... Con l’ansia ci convivo preparandomi ad oltranza, cerco di avere una rete di protezione. Tutti, anche quelli piu bravi, improvvisano solo il 5% in uno spettacolo...».

L’improvvisazione come si prepara invece?

«Essere informati serve... Ad esempio se tutte le settimane leggi 7 del Corriere conosci l’attualità ed è più facile improvvisare... ».

La partner inaspettata della sua carriera invece è Cristina D’Avena, avete lavorato insieme tre anni nella serie Cri Cri .

«Mi aveva tirato dentro un amico con cui giocavo a pallone al parco Sempione. Interpretavo un mago malato e un po’ fallito, insomma ho precorso i tempi... Erano gli Anni 90, lei oltre a essere la cantante delle sigle, faceva delle serie seguitissime. A quei tempi era come lavorare con Lady Gaga o Shakira».

La Gialappa?

«Ho lavorato con loro una decina d’anni, in tanti Mai dire... declinati in tutte le forme; li seguivo dai tempi in cui c’erano Teocoli, Littizzetto, Gene Gnocchi, Aldo Giovanni e Giacomo, avrei fatto carte false per lavorare con loro, poi è successo in modo naturale. Mi hanno fatto sentire a volte il quarto gialappo, altre la settima letteronza. E siamo diventati amici, amici veri. Sono testimone di nozze di Marco, ho celebrato il matrimonio di Giorgio in Comune a Milano, ho chiesto in Curia che quando sarà il momento dell’estrema unzione vorrei che me la desse il signor Carlo...».

Fan di Abatantuono e poi un film insieme, Improvvisamente Natale ...

«Il filo rosso della mia carriera è che ho lavorato con tutti quelli che ammiravo davvero, Arbore, Frassica, la Gialappa... Ho passato un mese tutte le sere a cena con Diego, è un’esperienza che auguro a tutti. Quando dicono che nella vita i comici sono tristi dovrebbero mettere una telecamera nascosta a casa di Diego».

Sempre su Prime Video è tra i protagonisti di Lol Xmas Special : le ha dato più soddisfazione vincere o arrivare alla fine?

«Beh lì non vince il più bravo, ma il più pirla. Infatti pensavo vincesse Matano. Solo che lui ride sempre. Soffre di una malattia rara che se non ride muore».

Qual è il segreto del format?

«Sarebbe bello saperlo... la tv è un po’ una giungla ma quando si incontrano animali della stessa razza, come in questo caso la razza dei comici, se metti quelli giusti nell’ambiente giusto viene qualcosa di bello. Mi sembrava di essere brillo, con gli amici, in una baita dove succede di tutto».

Il politicamente scorretto è il killer della comicità?

«Il mestiere della comicità è superare i paletti, fare qualcosa di inaspettato. Se non uccidi nessuno è bello fare qualcosa che va oltre. Anche a me è capitato di fare battute scorrette sul mondo della prostituzione, il mio presentatore è il peggio di quello che un uomo potrebbe essere. Capisco la nuova coscienza culturale, ma chi difende il proprio territorio alla fine diventa la parodia di sé stesso, si finisce al paradosso comico del principe che bacia la Bella Addormentata senza il suo consenso. La comicità deve essere un porto franco e chi ascolta deve capire che il comico non è un telegiornale, il suo mestiere è rifiutare la prevedibilità. Penso che sia venuto il momento che la satira venga protetta dall’Unesco».

È stato due volte a Sanremo...

«Ci sono stato due anni di fila con Baglioni: si era chiaramente scordato che c’ero anche l’anno prima e mi ha chiamato di nuovo».

Estratto dell'articolo di Marianna Vazzana e Andrea Fasani per quotidiano.net giovedì 24 agosto 2023.

"[...] sono felice per mio figlio e per il suo successo. Però mi fa star male sentire da lui che l’ho abbandonato. Il messaggio che passa è quello di un padre che un giorno è sparito nel nulla, lasciandolo solo quando era un bambino e uscendo dalla sua vita. Invece sono stato presente anche dopo la separazione con la mamma". Parla Ahmed Mahmoud, il papà di Mahmood, nome d’arte di Alessandro Mahmoud [...] 

Ahmed ha 63 anni ed è arrivato in Italia dall’Egitto quasi 40 anni fa. Adesso vive con la sua quarta moglie e sua figlia in una casa popolare del quartiere Corvetto, periferia Sud di Milano.

Nelle sue canzoni e in tante interviste Mahmood racconta che suo padre è andato via di casa quando lui aveva 5 anni. Non è così?

"Io sono andato via di casa quando lui era piccolo, è vero, perché era finito il matrimonio con sua madre. [...] ma non ho mai abbandonato Alessandro: ci sono foto di noi due al parco, in momenti di vacanza, in diverse occasioni, anche in Egitto. Andavamo a mangiare fuori insieme, è anche venuto a casa mia quando vivevo a Trezzano sul Naviglio, ha preso in braccio la sua sorellina (che ho avuto da un’altra donna) che ora ha 11 anni e mezzo.

La settimana prima che partecipasse al Festival di Sanremo siamo andati a fare insieme un aperitivo. Non sapevo che sarebbe andato a Sanremo né che io avessi ispirato le sue canzoni. Anche se non ci vedevamo spesso, il rapporto non si è mai interrotto e non avrei mai immaginato che potesse parlare di abbandono". 

[...]

’Gioventù Bruciata’ è piena di riferimenti a lei. Per esempio la sfinge ’vista a 8 anni. Ridevi ma mi hanno detto che a volte ridere è come fingere’. Oppure ’ricordo bene quando mi dicesti resto’. Cos’ha pensato quando l’ha sentita?

"Ho sofferto. Come ho sofferto sentendo ’Soldi’. Non è vero che pensavo solo ai soldi, anzi. Come se fossi interessato solo alle cose materiali. Io ho sempre voluto parlare con mio figlio e mi ritengo un uomo dalla mentalità aperta: da musulmano ho accettato tutti i riti cattolici nella mia prima famiglia.

Sono stato ricoverato in ospedale per una brutta malattia, prima all’ospedale San Paolo e poi in Egitto durante il periodo Covid. Alessandro lo sapeva, gli ho chiesto di venirmi a trovare ma non è mai venuto. Io ci sono rimasto male. L’ultima volta ci siamo sentiti via messaggio più di un anno fa, ma sempre superficialmente". 

Vorrebbe provare a riallacciare i rapporti?

"Mi piacerebbe, sì. [...] Sono orgoglioso di lui e del suo successo. [...] Però c’è una cosa che non mi va giù...".

Cosa?

"Se lui davvero pensa che io l’abbia abbandonato e non vuole avere più a che fare con me, vorrei che cambiasse il suo cognome: non più Mahmoud. Non pretendo che cambi il suo nome d’arte ma quello reale".

Ha provato a chiederglielo?

"Sì. Mi ha risposto di no. E sto valutando se rivolgermi a un legale".

[...]

Mahmood: «Sono ancora discriminato, ma adesso so reagire». Andrea Laffranchi, inviato a Liverpool, su Il Corriere della Sera il 12 maggio 2023.

Mahmood ospite all’Eurovision, le origini egiziane da parte di papà erano un bersaglio 

«Qualche preoccupazione ce l’ho... Metti caso che qui non piaccia... non mi fanno più tornare a casa...». Mahmood è stato invitato alla finale di Eurovision, insieme a una pattuglia di altri ex concorrenti, per un omaggio al pop di Liverpool. A lui è toccata «Imagine» di John Lennon. Quella che vedremo in diretta su Rai1 sarà una performance concentrata sui ricami vocali di Mahmood con un arrangiamento per un’orchestra di archi (e qualche tocco elettronico). «Con il mio team abbiamo fatto qualche minimo cambiamento senza stravolgere un inno come questo», spiega il cantautore dopo le prove.

Il doppio vincitore di Sanremo si concentra sul testo. «È riduttivo considerarla una canzone pacifista. “Imagine” è di tutti e ognuno dovrebbe sentirla propria: parla di unione e fratellanza. La parte che sento più mia è quella che immagina un mondo senza nazioni, senza motivi per uccidere, senza religioni. La sento mia perché ho visto la discriminazione colpire altri e a mia volta mi sono sentito discriminato in più fasi della mia vita». Le origini egiziane da parte di papà erano un bersaglio: «Ancora adesso sui social qualcuno mi scrive “torna nel tuo Paese”. Pensavo ormai fosse chiaro che sono italiano al 100%, ma stiamo regredendo. Nel tempo ho cambiato modo di reagire: prima non sapevo difendermi, adesso saprei rispondere. Se posso dare un consiglio a chi subisce discriminazioni è quello di confidarsi con le persone vicine, ci si difende aggrappandosi agli altri. Sono cose che fanno soffrire, ma fanno crescere».

Bisognerà seguire la finale in diretta su Rai1 (26 concorrenti, per l’Italia c’è Mengoni) per ascoltare questa «Imagine». «Non la pubblicherò sulle piattaforme: è troppo pura per essere commercializzata». Da quando ha pubblicato «Ghettolimpo» due anni fa, Mahmood non ha sfamato periodicamente le piattaforme con nuove uscite come le regole dello streaming vorrebbero. «Non ho l’ansia di sparire e di dover fare qualcosa di nuovo ogni mese per evitarlo. Starei male a dover cantare sul palco qualcosa che è stata fatta di fretta o perché la dovevo fare e sentire che non mi rappresenta al 100%». Dietro le quinte qualcosa si muove. Sta lavorando a un nuovo album: «Sarà frutto dei viaggi che sto facendo, Parigi, Londra, Berlino, Los Angeles... ho incontrato produttori internazionali e ognuno di loro mi ha dato la sua visione della musica».

Troveremo la sua voce altrove. È il doppiatore di Sebastian, il granchio della Sirenetta nel nuovo live-action Disney: «Quando il direttore del doppiaggio, Massimiliano Alto, mi ha detto che lui era la voce di Inuyasha, manga cui ho dedicato una canzone, mi sono commosso». Al cartone è legatissimo. Non sono frasi di circostanza. Quando ha annunciato la sua presenza ha mostrato una foto del suo quinto compleanno, con alle spalle la locandina del film: «Era il mio cartoon preferito da bambino. Poi sono arrivati quelli giapponesi. Se nel copione c’erano battute diverse, provavo a correggere... Mi sento un po’ Sebastian, non solo perché tutte le estati eravamo in Sardegna dai parenti e mamma mi iscriveva sempre in piscina: quel granchio ha una personalità pungente, però alla fine ti dà il cuore».

All’Eurovision c’è già stato due volte: «Con “Soldi” ho avuto la prima opportunità di viaggiare nel mondo; l’anno scorso con Blanco è stato magico. E ora mi sembra di tornare indietro nel tempo: nella primavera 2024 avrò un tour europeo (16 date in 10 Paesi, in Italia solo Milano ndr). L’Eurovision è il mio punto di partenza verso il continente».

Malena e il suo pop porno: «La mia vita da imprenditrice». Storia di Rosanna Scardi su Il Corriere della Sera il 27 gennaio 2023.

Rocco Siffredi l’ha definita la sua versione al femminile. L’attrice hard Malena è attesa al Bergamo Sex, che si svolge da oggi a domenica, dalle 15.30 alle 3 di notte, al Bolgia di Osio Sopra (ingresso solo per i maggiorenni, 20 euro).

All’evento, che in agosto ha registrato un’affluenza record, parteciperanno 60 tra porno e sexy star che si esibiranno nei due palchi. Ma i visitatori potranno anche curiosare tra gli stand di sex toys, abbigliamento, tatuaggi, bondage e perfino farsi fare un ritratto «a nudo». Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino sarà presentatrice con Corrado Fumagalli, direttore artistico, e la sarda Martina Smeraldi. Ha un passato da agente immobiliare e in politica dirigente del Pd, ed è diventata volto della tv generalista dopo la partecipazione all’Isola dei famosi.

Malena, come spiega il record di presenze a Bergamo Sex?

«Più che voglia di evasione post pandemia, direi che c’è voglia di normalità».

A breve usciranno la serie «SuperSex» dedicata a Siffredi e «Nacho», biopic dello spagnolo Nacho Vidal. Le donne nel vostro settore sono spesso bollate come oggetti.

«Non è assolutamente così, io mi sento l’emblema della liberazione sessuale, tutte noi sex worker facciamo quello che vogliamo del nostro corpo. Siamo imprenditrici di noi stesse. Non vedo nessuno sfruttamento. In tal senso, la mia autobiografia, “Pura, il sesso come liberazione”, edita da Mondadori, che è un successo personale, rappresenta un traguardo per le donne. Sul set, poi, si potrebbe dire lo stesso della parte maschile. Siamo attori alla pari, alle direttive di regista e produttore».

Si definisce «pop porno». Cosa significa?

«Più che famosa, mi sento popolare. Grazie alla possibilità che ho avuto di poter partecipare a un reality e a diversi talk show, sono andata oltre la mia professione. Sono riuscita a colorare di rosa questo settore e sono entrata nelle case a tutti i livelli. Non per forza devo essere su un piedistallo. Sono la Malena di tutti, nazionale, come lo è il porno. E precisiamo: siamo porno attrici. É il pubblico a decidere se diventiamo anche star».

Qual è la quotidianità di una pornostar?

«È la vita di un’imprenditrice che deve convivere con le difficoltà dell’essere un personaggio pubblico. Sei costantemente fermata per una foto. Ci sono momenti in cui sei al telefono e vorresti stare per i fatti tuoi, ma non puoi: è l’altro lato della medaglia e non mi lamento. L’importante è che ci sia educazione. Poi sono legata alla famiglia, agli amici, alla mia cagnolina. Mi piace ascoltare la musica di Ludovico Einaudi e di Mina, la chill out e la techno. Seguivo lezioni di tango. Ma da quando mi sono trasferta in Puglia, non mi è più possibile applicarmi».

Siffredi l’ha definita il suo alter ego al femminile. Lusingata?

«Io sono umile, l’ha detto lui. Ci voleva la parte femminile, la bandiera rosa. L’altro lato della mela. Adesso siamo al completo. Era ora».

Giorgia Meloni è il primo premier donna in Italia. Cosa ne pensa?

«Subito dopo la sua elezione, ero negli Stati Uniti. Appena salita su un taxi, avendo capito che ero italiana, mi hanno detto: “Wow, your president is a woman”. Mi sono sentita orgogliosa di essere italiana».

Il 19 gennaio ha spento 40 candeline. Tempo di bilanci?

«Prima c’era Filomena, che ha commesso errori; erano tappe che andavano fatte, tasselli, bagagli. L’importante è assumersi sempre le proprie responsabilità e amare il prossimo».

Malika Ayane. Bruno Ventavoli per “La Stampa – TuttoLibri” il 16 maggio 2023. 

(...)

Che cos'è l'ansia da felicità?

«Un vago e potente senso di colpa verso qualsiasi tipo di soddisfazione. È molto radicato nella società cattolica e lo sento persino io che ho un padre musulmano e parte della famiglia ebrea. O ci dobbiamo pentire della gioia, o siamo preda dell'ansia di soddisfare canoni, di entrare in determinate caselle, di sentirci all'altezza. È quella maledizione del lieto fine con cui siamo cresciuti. Nelle favole è una regola, ma nella realtà è un bel viatico per l'infelicità». 

E la felicità, invece?

«Mi pongo spesso la domanda. Sicuramente sono felice sul palco, completamente connessa con i musicisti, il pubblico. Però, indipendentemente dal contesto, la felicità è riuscire ad essere nel qui e ora». 

Un principio molto zen.

«In effetti faccio yoga da due milioni di anni e meditazione zen. Mi rendo sempre più conto che la felicità è la capacità di assaporare l'istante. Cosa non facile. Ho cantato nei teatri più belli d'Italia e nei paesi più belli del mondo. Eppure spesso ero a cercare il dettaglio che potesse, non tanto rovinare l'esperienza, ma compromettere il mio stato di abbandono. Insomma anche la condizione più straordinaria può essere rovinata se non riesci a sganciarti dal senso del dovere, dal pentimento, dal rigore, dalla ossessione del perfezionismo.

Capita talvolta?

«Due settimane fa, durante un viaggio nella Guadalupe, mi sono ritrovata seduta su una grossa roccia in mezzo a un bosco dopo un'arrampicata. Ero grande come una foglia di banano, impercettibile rispetto alla grandezza della natura, però connessa, mi sentivo parte del disegno, indipendentemente dal fatto di essere il centro o un dettaglio insignificante. Era felicità». 

Ha delle paure?

«Mi terrorizzano le blatte. E poi il vuoto. Non di cadere (anche se quando mi affaccio sui baratri non sto benissimo), ho paura del vuoto esistenziale. Di non usare bene il tempo che mi è stato concesso. E questo mi spinge a fare troppo in modo molto disordinato». 

Beh, il contrario dello zen…

«Esatto. Per questo mi rifugio al tempio. Purtroppo la testa è ancora ballerina, e ho la capacità di concentrazione di un moscerino». 

L'amore nei suoi racconti è spesso fonte di frustrazione.

«Durante il lockdown ho scritto una canzone, che i discografici non hanno apprezzato. Diceva "l'amore è una possibilità, non l'unica". Mi chiedo che senso ha pensare solo alla monogamia.

Abbiamo intorno la palese dimostrazione che non funziona. Le coppie scoppiano. Ci sono quelli che si separano da dio, ma ne ho conosciuti pochi. Di solito avviene il contrario. Eppure se usciamo dagli schemi tradizionali della sfera affettiva stiamo male, ci portiamo dietro strascichi di dolore immensi. Perché non dedicarsi a un sano individualismo? Alla bellezza del vivere da soli. Vuoi mettere il piacere di fare la prima, lunghissima, pipì del mattino in un bagno che non usa nessun altro?». 

Gli uomini dei suoi racconti sono abbastanza disastrosi. È solo fiction o lo pensa davvero?

«In effetti ho sciorinato un bel filotto di disadattati. Scherzi a parte, credo che i maschi abbiano un problema importante in questo momento storico in cui si è sviluppata l'autonomia femminile. 

Gli è stata giustamente tolta la responsabilità del patriarcato ma non gli è stata riconosciuta la possibilità di essere fragili. Non possono ancora piangere in pubblico. Vengono trattati come panda se portano i figli all'asilo. Non ti sentiresti un deficiente se ti dessero un premio perché hai cambiato un pannolino? 

Frastornati dalle accelerazioni della storia gli uomini oggi si dimostrano incapaci. Naturalmente parlo di ciò che ho visto, origliato, immaginato letterariamente rispetto al mio piccolo universo personale. Scorgo numerose "vittime" nel panorama maschile».

Non per insistere, però, nonostante le delusioni, le sue protagoniste non riescono a fare a meno degli uomini...

«Sperano di trovare qualcosa di meglio del precedente. O meglio, sperano di sapersi comportare, di saper essere una versione migliore di sé nella stessa situazione. Come il sognatore che non si arrende. 

È la solita ansia da felicità che riaffiora, legata a modelli culturali ben radicati. Persone libere, esploratrici o esploratori, ci sono sempre state, ma al pranzo di Natale prevalgono sempre le stesse domande, "Non ti fidanzi?", "Quando ti laurei?" "Sei proprio sicura di divorziare per la seconda volta?". 

Domandarsi se si è completi in uno stato di individualità sentimentale assoluta è ancora una cosa preziosa, per pochi. A mia figlia, invece, non frega nulla di avere relazioni. Le nuove generazioni sono affascinate da reti di contatti geograficamente sparpagliati. Si sentono liberi, indipendenti».

Una protagonista dice che avrebbe dovuto rendersi conto che il fidanzato era un pacco perché non gli piaceva Woody Allen. Lei ne ha prese fregature?

«Mi è capitato di uscire con un uomo bellissimo. Di quelli che li vedi e capisci il concetto di perfezione. A tavola gli ho chiesto, tipo test, se preferisse (Chet) Baker o (Miles) Davies. Lui ha risposto Boris Becker tutta la vita». 

Com'è andata a finire?

«Ho preso un taxi». (risata)

(...)

Da golssip.it il 28 maggio 2023.

Lorenzo Amoruso e Manila Nazzaro si sono lasciati da alcuni mesi. La coppia era prossima alle nozze, ma le sempre più insostenibili incomprensioni hanno evidentemente portato alla rottura della relazione. L'ex calciatore e la ex Miss Italia hanno anche attraversato un'esperienza di lutto molto pesante, perdendo un bambino. In una recente intervista Lorenzo si è sfogato: «Potrei dire tante cose ma la cattiveria con la quale questa persona mi ha trattato tenendomi lontano tre mesi e mezzo, dicendomi "fatti curare", "sei malato" solo perché passavo un po' di tempo con la playstation».

«Ho scoperto che piangeva e parlava sui giornali di matrimonio. Abbiamo litigato è vero. Io ho pianto una settimana intera. Ci sono state delle problematiche però non può dare delle responsabilità solo a me facendomi passare per una persona cattiva. Ha fatto tutto lei, allora scordati di me, non ne parlare più. Hai deciso di abbandonare il nostro progetto di vita e quindi fai le tue interviste senza parlare di me. Non mi sarei mai aspettato che la signora Nazzaro dopo pochi giorni dalla rottura - probabilmente già da prima - si frequentava con un altro. Ci sono le prove e credo che a Roma lo sappiano tutti che si sta frequentando con uno», ha concluso Amoruso accusando la ex di averlo tradito. 

Estratto da corrieredellosport.it il 26 maggio 2023.

È finita male la storia d'amore tra Lorenzo Amoruso e Manila Nazzaro, che con il loro legame hanno fatto sognare tutti prima a Temptation Island e poi al Grande Fratello Vip. Dopo mesi di silenzio l'ex calciatore si è lasciato andare ad un lungo sfogo su Instagram, accusando l'ex Miss Italia di tradimento. "Dopo pochissimi giorni che avevamo rotto - probabilmente già prima mi viene da pensare - si frequentava già con un altro. Ci sono le prove", ha raccontato Amoruso ai suoi follower. 

Manila Nazzaro ha tradito Lorenzo Amoruso?

"L’ho sempre amata, io ho cambiato la mia vita per lei, ho messo lei e suoi bambini davanti a tutto e tutti" - ha aggiunto Lorenzo Amoruso a proposito della rottura con Manila Nazzaro avvenuta dopo sei anni insieme, un aborto spontaneo e una proposta di matrimonio - "Credo che a Roma lo sappiano tutti che lei si sta frequentando con uno. Va pubblicamente nei posti. Se seguono le storie di lei lo sanno. Se lei ha scelto il chiodo scaccia chiodo per dimenticarmi va bene, ma non parlare più di me. Dopo pochissimi giorni che avevamo rotto - probabilmente già prima mi viene da pensare - si frequentava già con un altro". 

Manila Nazzaro, chi sarebbe l'altro uomo

Secondo indiscrezioni riportate da Today l'altro uomo di Manila Nazzaro, quello di cui parla Lorenzo Amoruso, sarebbe Stefano Oradei, ex ballerino di Ballando con le Stelle 

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Estratto dell’articolo di Katia Ippaso per il Messaggero il 12 luglio 2023.

«Tutta la mia vita è stata una pazzia totale e non sono un grande fan di me stesso».

Manuel Agnelli, 57 anni, storico frontman degli Afterhours con una nuova, parallela vita da cantante solista, si dispone a parlare di sé senza sovrastrutture, accettando di andare anche in territori impervi e poco illuminati: la costante ricerca di un luogo di appartenenza, il conflitto tra la vocazione solitaria e il bisogno di tenere insieme il sistema-famiglia, l'inclinazione malinconica. 

Nel suo modo di parlare, sopravvive a tratti il transfert con David Bowie, interpretato nello spettacolo Lazarus, regia di Valter Malosti, che lo ha fatto avvicinare ad una materia dolorosa e sublime. Ma è con intatto entusiasmo che l'artista oggi si avvicina all'appuntamento con il pubblico romano, «forse il migliore che io abbia mai avuto»: il 17 luglio all'Ippodromo delle Capannelle per Rock in Roma. 

(...)

Sono passati sette anni dall'ultimo album degli Afterhours ("Folfiri o Folfox"). È una lunga pausa di meditazione che potrebbe annunciare uno scioglimento?

«Non ci stiamo sciogliendo. Però non abbiamo neanche progetti imminenti. È un duro lavoro tenere insieme i bisogni di tutti. Considero tuttora gli Afterhours il progetto più importante della mia vita. Facendo un disco da solo, ho voluto però in qualche modo ricominciare da zero. Cercavo un po' di leggerezza, di semplicità». 

(...) 

Essere David Bowie. Non è un'impresa che fa tremare i polsi?

«Lo è. Cantare David Bowie è difficilissimo perché lui era molto asciutto e al tempo stesso emozionante. Però adesso, dopo 66 repliche e la gratitudine del pubblico, mi calmo e cerco di riflettere su quello che mi sono portato a casa. Ho imparato tantissime cose, anche musicali». 

Per esempio?

«Che posso finalmente avere il coraggio di lavorare sulla mia zona di comfort, che invece mi ero sempre negato. La tessitura e l'estensione vocale di Bowie sono molto simili alla mia, quindi diciamo che, cantando Bowie, sono finalmente riuscito ad essere me stesso senza dover forzare verso l'alto o verso il basso». 

(...)

Si è mai pentito di quella che molti hanno letto come una pericolosa "deviazione", cioè la partecipazione a "X Factor"?

«Se non avessi fatto il giudice a X Factor, probabilmente non sarei neanche stato scelto per fare Lazarus. Quell'esperienza mi ha dato più popolarità e alla fine più libertà di scelta. Ho accettato perché ero stanco del mio mondo, soffrivo di claustrofobia. E poi, essendo un introverso di natura, ho imparato a stare con gli altri. Non è certo la prima cosa irrazionale che ho fatto nella mia vita».

Manuela Arcuri: «Con Coco fu una grande passione. Prince mi contattò via email». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 20 agosto 2023.

Intervista all’attrice: «Io e Francesco eravamo troppo giovani perché potesse durare, ma era un sentimento bello e profondo. Ora non ci sentiamo più. La grande delusione? Troisi mi scartò quando avevo 16 anni»

«Che sai fare?». «Ballerina sadomaso sui cubi». «E si guadagna bene?». «Sì, sulle 25 mila lire a vergata» («I Laureati», 1995).

«Avevo solo quella scena. Ma quanto mi sono divertita sul set con Leonardo Pieraccioni».

Come debutto assoluto al cinema non c’è male , dai.

«Il primissimo ruolo in realtà è stato con Pappi Corsicato per I buchi neri. A 17 anni compiuti da poco. Lo incontrai a Napoli, nel suo ufficio. Mi vide ed esclamò: “Adelaide!”. E io: “Mi scusi, veramente mi chiamo Manuela”. “No, no, Adelaide è il mio personaggio, sei tu, sei perfetta”. E mi prese al volo. Non sapevo recitare, non lo avevo mai fatto prima. Però ho scoperto subito che il set per un attore è la scuola più importante». Manuela Arcuri, 46 anni, nata in quel di Anagni, ma presto adottata da Latina (città che zitta zitta vanta nel tempo una singolare concentrazione di bellezze: lei, Francesca Dellera, Elena Santarelli, Debora Salvalaggio, Ilaria Spada), per anni reginetta delle fiction Mediaset (Io non dimentico, l’Onore e il Rispetto, Sangue caldo), tornerà presto, manco a dirlo, con una fiction, titolo provvisorio: La donna della Seconda Repubblica.

Carlo Verdone in «Viaggi di Nozze» le insegnò l’arte della coatta perfetta.

«Ero Mara, la tamarra di “’n’ascella sì e ‘n’ascella no”, nell’episodio con Carlo-Ivano e Claudia Gerini- Jessica (“E che è ‘na trovata? Due anni fa l’ha fatta già Cùrtneylòv”. “Ma che davéro? Che siluro m’hai tirato”). Mi ha aiutata tantissimo, ha impostato il personaggio, la voce, l’atteggiamento da borgatara (“Ottanta sacchi pe ‘na biretta”). Un ruolo nelle mie corde».

Avanti così.

«Carlo si era inventato il format dell’Orgoglio coatto, che abbiamo portato in tv anche dopo il film. Facevamo insieme un ballettino su musica disco, con le dita a V passate davanti agli occhi. La scena dell’ascella se la ricordano tutti, è rimasta impressa, per anni le persone mi fermavano per chiedermi: “Te prego Manuè, che me la rifai?”».

Venditrice di bomboloni per Panariello («Bagnomaria», 1998).

«Film girato tutto a Forte dei Marmi. Primo ruolo da protagonista. Giorgio lo ricordo un gran signore, fu molto carino con me».

Ne assaggiò qualcuno, di nascosto, magari in una pausa?

«No, mai. I bomboloni erano un pretesto per mettere in risalto le mie forme, c’era tutto un riferimento manco tanto nascosto».

E tanto per chiudere il cerchio, fu presa pure da Vincenzo Salemme per «A ruota libera».

«E finalmente non ho fatto più soltanto la parte della ragazza brava e bella, il mio personaggio era una matta indemoniata, è stato uno spasso».

Però da ragazzina fu scartata da Massimo Troisi per «Il Postino».

«La mia prima delusione, avevo 16 anni. Gli ero piaciuta, avevo anche fatto un provino in costume, gli sceneggiatori erano molto indecisi. Troisi fu gentilissimo, mi consigliava di essere naturale: “Parla come se fossi con le tue amichette di scuola”. Alla fine però non mi prese. Ci rimasi male, lo ammetto. Ma ci sta, non sa quante occasioni non sono andate a buon fine, succede. Già mi ritengo fortunata ad averlo conosciuto. Forse quello non era il mio momento, non avrei fatto una bella figura».

Nella fiction omonima sull’Arma fu la prima carabiniera della tv.

«Sul set con noi c’erano dei veri carabinieri che ci insegnavano a fare il saluto, come prendere la pistola, come maneggiare le manette».

Qualcosa andava mai storto nelle scene di azione?

«Uh, tra inseguimenti e porte sfondate accedeva di tutto. Un classico era la maniglia che ti resta in mano. O l’attacco improvviso di ridarella, come alle medie. Le scene romantiche poi mi mettevano ansia. Ero inesperta, mi vergognavo a baciare un attore davanti a tutti. Non si vede, ma intorno ci sono almeno undici persone. Imbarazzatissima, non ci riuscivo, alla fine ho rotto il ghiaccio».

A «Mai dire Gol» era la vittima prediletta della Gialappa’s.

«Mi infilai nella tana del lupo. Mi hanno massacrata di scherzi. Sul copione non c’era scritto. Ma di colpo qualcuno mi gettava addosso acqua colorata. O dall’alto mi cadeva in testa una secchiata gelata. Una gabbia di matti. Ma quanto mi sono divertita con loro».

A Sanremo 2002 — con Pippo Baudo e Vittoria Belvedere — Roberto Benigni le si infilò sotto al vestito rosso-arancio di Valentino: «Uh mamma mia, signorina, un momento solo, esco subito».

«No vabbè, già ero agitatissima per l’emozione di stare in diretta su quel palco, sapendo che ci seguivano milioni di persone, non ci ero abituata. Con Benigni non sapevo che fare, se ridere o sgridarlo. Era incontrollabile. Avevo paura di inciampare e cadere. Sul web la scena la fanno vedere di continuo, è cult».

Con Baudo tutto bene?

«Si, fu super-carino, preparatissimo, sceglieva tutto lui».

Le dedicarono una statua a grandezza naturale (1 metro e 75) in pietra leccese, esposta sul lungomare di Porto Cesareo, con tanto di epigrafe: «A Manuela Arcuri, simbolo di bellezza e prosperità».

«Fu un’idea di Gianni Ippoliti, per attirare più turisti. E in effetti ha funzionato. Il giorno dell’inaugurazione arrivai dal mare, su una barca, sembrava una favola. La piazza del paese era strapiena. Applausi, foto, interviste».

Le mogli dei pescatori protestarono, non si sentivano rappresentate, così nel 2010 la statua fu rimossa. Ma l’anno dopo fu rimessa al suo posto, dopo il restauro delle natiche, consumate a forza di tocchi portafortuna.

«A quanto pare funzionava. Mi arrivano tuttora un sacco di messaggi su Instagram di gente che ha sfiorato il fondoschiena della statua ed è stata premiata. O di chi si è giurato eterno amore e alla fine si è sposato. Ben venga se porto bene».

Il suo amico Vittorio Sgarbi le ha mai fatto una stima del valore artistico dell’opera?

(Ride) «No, non ne abbiamo mai parlato».

Ha girato un videoclip per Prince.

«Forse il fiore all’occhiello della mia carriera. Pensi che mi contattò per mail, scrivendo al mio commercialista. Ero reduce da Scherzi a parte, pensai che qualcuno mi stesse prendendo in giro. Risposi con freddezza: “Vedremo”. Invece era proprio lui. Mi aveva visto su una rivista americana che mi aveva inserito tra le dieci donne più belle del mondo. E Prince ordinò: “Voglio lei”».

Incontro segreto a Londra.

«Era lì per un concerto. La sicurezza mi accompagnò nel suo camerino. In penombra, solo con delle lucine accese. Mi venne incontro. Bassino, ma con un viso bellino, la vocina sottile e due occhioni così. Emanava un’energia che ti trapassava. Ci siamo seduti sul divano e abbiamo parlato, con quel poco di inglese che conoscevo».

E dopo?

«Rimasi per il concerto. A un certo punto mi chiamò sul palco. Presentandomi come la star del suo nuovo video, Somewhere here on earth , che poi girammo a Praga, di notte. Che imbarazzo, davanti a tutta quella gente».

La corteggiò?

«No, zero, giuro che non ci ha provato, solo tanti complimenti».

In passato i suoi celebri amori hanno animato i settimanali di gossip. L’ex calciatore Francesco Coco, in una recente intervista, ha detto che la vostra relazione finì per colpa dei paparazzi.

«Fu una storia d’amore, la prima, la più importante. Una grande passione».

Nati lo stesso anno, lo stesso mese, lo stesso giorno: 8 gennaio 1977.

«Due gemelli. In realtà di carattere non ci somigliavamo per niente. Eravamo troppo giovani perché potesse durare, anche se era un sentimento bello e profondo. È finita per forza di cose. No, non ci sentiamo più, lui poi è andato all’estero e ci siamo persi di vista».

Aldo Montano , lo spadaccino gentiluomo.

«Una dolce storia d’amore. Ci siamo tanto divertiti, conservo u n bel ricordo».

Gabriel Garko.

«Un breve flirt senza molta importanza, non si può paragonare agli altri».

Poi è arrivato suo marito Giovanni Di Gianfrancesco. Nozze a Las Vegas, nel 2013.

«Ci eravamo stati insieme tre anni prima, poi però ci siamo lasciati. Con la lontananza siamo maturati e ci siamo ritrovati e ri-fidanzati. Così abbiamo deciso di tornarci. E sposarci lì, io e lui da soli, al Bellagio. Al momento del sì sono partiti i giochi d’acqua, meraviglioso».

Bis il 23 luglio dell’anno scorso. Al Castello Odescalchi di Bracciano. Che non porta proprio bene alle coppie celebri: vedi alla voce Eros Ramazzotti e Michelle Hunziker, Tom Cruise e Katie Holmes.

«Lo so, si sono lasciati, me lo disse pure mia suocera: “Cara, hai letto cosa si dice del castello?”. Che c’entra, a tanti altri è andata bene, no?».

Finora tutto okay?

«Tutto a posto, siamo super-collaudati. Anzi, penso: per fortuna che l’abbiamo fatto, sposarsi è stupendo, lo che vivo di emozioni lo consiglio a chiunque».

Come suo testimone, oltre ad Alberto Tarallo, ex produttore della Ares Film, c’era il presidente del Coni Giovanni Malagò. Siete così amici?

«Da molto tempo, fin da quando ero ragazzina. D’estate mi invitava spesso nella villa di Sabaudia insieme agli altri della compagnia».

Ha fatto felice sua nonna Angelina, 97 anni.

«Ci teneva tanto. È lei la vera capofamiglia, lucidissima, forte, severa, detta ancora legge, una vera forza della natura, non si è mai abbattuta davanti a niente, è il mio mito».

Mara Maionchi: «La sfuriata al mio provino per X Factor. Orietta Berti? Precisina e ironica. Sandra Milo? A 90 anni cerca l’amore». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

La produttrice: «Ho iniziato a lavorare come impiegata, non sempre ho capito il talento». «Vanoni mi passava gli abiti». «Suonava dalle 9 di mattina e finché non era soddisfatto non potevi parlargli»

Mara Maionchi, lei si ritrova in questa serie di interviste intitolata «Il gran lombardo», pur essendo nata a Bologna.

«Più che una “gran lombarda” sono una “gran bastarda”: madre di Como, padre toscano, una giovinezza a Bologna. Ma poi, Milano».

Era il 1961.

«L’anno in cui scelsi di vivere qui e di diventare milanese. Cercavo un sacco di cose in questa città, facevo l’impiegata. A Bologna per una società di spedizioni internazionali, qui mi presero subito alla Sipcam, una ditta di anticrittogamici. Organizzavo le promozioni, tenevo i conti».

E poi?

«Leggevo il Corriere della Sera tutti i giorni. C’erano gli annunci di lavoro, una figata perché funzionavano, ti mettevano in contatto con le ditte che cercavano. L’Ariston Records, la casa discografica di Alfredo Rossi, cercava un’impiegata che piazzasse gli artisti. Mi presero, cominciai a lavorare con i big. Ornella Vanoni, Mino Reitano».

Il decollo nella musica. Lei ha lavorato, tra l’altro anche alla Ricordi e alla Fonit Cetra. Una carriera da discografica che a Milano, all’epoca, prometteva bene?

«Milano era la capitale della discografia, e non solo perché c’erano le etichette, ma anche perché la musica attingeva al teatro che a sua volta attingeva all’editoria. Oggi gli artisti si possono ascoltare in tanti modi, ma all’epoca li dovevi piazzare, trovargli degli spazi. Anche nella promozione. E lì cominciavano i problemi: Mina voleva solo le copertine sennò si intristiva, Lucio Battisti cominciava a suonare alle nove della mattina finché non trovava l’accordo giusto e prima di allora non gli potevi parlare».

Quando lui e Mogol fondarono la Numero 1 lei andò con loro.

«E portai con me anche Finardi, per dire. Lucio Battisti è stata una delle persone che mi hanno fulminato al primo incontro. Aveva qualcosa di complesso e semplice al tempo stesso. Non sempre ho capito il talento. Per esempio, La bambola di Patty Pravo non la capii subito, dovetti riascoltarla. Nannini invece no, quando la sentii suonare per la prima volta mi commossi».

Com’era Gianna all’inizio?

«Un vulcano, una voce incredibile. Una volta facemmo una litigata furiosa, tirai un cazzotto sul tavolo».

Una milanese irascibile, lei?

«Sono una che non le manda a dire, anche se cinque minuti dopo mi passa. In famiglia mi cazziano perché dico parolacce, ma che ci posso fare se perdo la pazienza? E qualche volta i cantanti te la fanno perdere».

Un esempio?

«Recente. Provino per X-Factor, non dei cantanti, ma mio, perché Giorgio Gori mi aveva appena chiamata a fare la prova. Arriva una tipa, giovanissima e pure bravina, ma lei ci dice che avrebbe cantato Janis Joplin sebbene convinta che nessuno di noi giurati sapesse chi era. La lasciai finire, poi partì uno shampoo che la ribaltò. Ma come si permette di dire che noi discografici siamo ignoranti?»

E come andò a finire?

«Gori mi disse: Mara, il posto da giudice è tuo».

Dov’era lei il 12 dicembre del 1969?

«Non lontano da Piazza Fontana, nella sede della Numero 1. Io, Lucio Battisti e il papà di Mogol eravamo in ufficio quando sentimmo un boato. Scendemmo a vedere e fummo investiti da fumo, folla, urla. Che anni. Le case discografiche stavano quasi tutte in centro e allora ogni sera tornare a casa era un’avventura: scioperi, contestazioni».

Andiamo al 26 giugno 1976: il Festival di Parco Lambro si trasforma in una forte protesta contro gli organizzatori. Lei c’era?

«Certo e posso dire di aver avuto paura. Oggi è difficile spiegarlo a questi giovani, ma all’epoca si temeva davvero uscendo da casa. Se non ti individuavano subito come “una di loro” erano guai».

Lei ha mai preso droghe?

«Non le sembro già abbastanza “fuori” di mio?»

Neanche una canna?

«Manco quella, anche perché ho paura pure dell’aspirina. Ho avuto artisti che hanno fatto uso di droghe pesanti, ho visto quello che succede e tanto basta per starne fuori».

Accanto a lei, nella vita milanese, c’è stata anche la sua amica, Ornella Vanoni.

«Mi passava gli abiti: avevamo la stessa taglia e se le capitava un vestito che metteva solo per una o due sere, me lo regalava. Ero così elegante».

Alberto Salerno, suo marito, è arrivato nei primi anni Settanta?

«Eravamo amici, io fidanzata con un altro e lui con la sua donna di allora. Poi ci siamo “sfidanzati”, ma niente di che. Un giorno una mia amica mi fa le carte e mi dice “Mara, tu quest’anno ti sposi”. Era il 1976 e al massimo vedevo Alberto una volta alla settimana per un caffè. Dissi “Ma va”. Ebbene, quell’anno ci sposammo. Non mi chieda come si fa a restare 46 anni insieme, con due figlie e tre nipoti perché davvero non lo so».

Però le chiedo se anche con lui fa le sfuriate.

«Eccome! Ma è pure lui che urla, eh. Quando si è dichiarato io avevo dei dubbi, perché ho dieci anni di più. A fare da nave scuola non ci tenevo. Mia madre però mise tutto a posto dicendomi: “Ma se si sposa una vecchia è un problema suo, mica tuo”».

Lei ha fatto «Quelle brave ragazze» con Orietta Berti e Sandra Milo. Che cosa le piace delle due?

«La Berti mi fa morire dal ridere, perché è una precisina che alla sera lava tutto ma poi se ne esce con una ironia raffinata. La Milo ha le stesse passioni di una fanciulla: a 90 e passa anni sta aspettando ancora il principe azzurro. E non ho detto che vuole fare sesso, ma che cerca l’amore. Capito, l’amore? A me cala la stanchezza al solo pensarci».

C’è stato «LOL Xmas Special»: che cosa fa ridere Mara Maionchi?

«Ho affinato una tecnica per evitare di ridere ma non c’è niente da fare, rido lo stesso. Proibirsi una risata è un peccato assurdo. Mi hanno curato due tumori al seno, ho figlie e nipoti, un marito che mi sta accanto da tutti questi anni, una seconda vita in televisione che mai mi sarei aspettata, tanti amici e tantissimi ricordi: perché oggi non dovrei concedermi il lusso di ridere in santa pace e di dire qualche parolaccia?».

Estratto dell'articolo di liberoquotidiano.it il 18 Settembre 2023

"Con te sono stata anche un po' fidanzata, ma non lo diciamo a nessuno": Mara Venier lo ha detto a Domenica In durante l'intervista a Red Canzian e ai Pooh, protagonisti della prima puntata della nuova edizione del programma di Rai 1. In ogni caso, la vita privata di Red Canzian è sempre stata al centro dell'attenzione dei media. Si sa che ha avuto relazioni con alcune delle più grandi artiste italiane, come Marcella Bella, Patty Pravo, Loredana Bertè, Mia Martini e Serena Grandi. 

Il primo matrimonio per Canzian è arrivato nel 1986, con Delia Gualtiero, sua compagna dal 1980, da cui si è poi separato nel 1992. I due hanno avuto una figlia. Nel 2000, poi, ha sposato Beatrice ‘Bea’ Niederwieser. […]

L'anno scorso Red è stato ricoverato a causa di una brutta infezione e in quel momento Mara Venier gli è stata molto vicina. "Siamo come fratelli - ha detto la conduttrice qualche tempo fa - e stavolta quando non mi rispondevi ai messaggi che ti mandavo ogni giorno ho avuto veramente paura". E ancora: "Mandavo un cuoricino tutti i giorni e messaggi d'amore". […]

Estratto dell’articolo di Maria Volpe per il Corriere della Sera mercoledì 6 settembre 2023.

Lui porta lei in una splendida isola caraibica, quasi deserta, dove vive da tempo. Lei gli chiede: «Cosa hai fatto qui tutti questi anni?». Lui risponde: «Ho letto tutti i libri che non avevo letto». E lei s’innamora perdutamente. Un amore quello tra Mara Venier, conduttrice di grande successo, signora della domenica, grazie alla quindicesima edizione di «Domenica In», (al via il 17 settembre su Rai1) e Nicola Carraro, ricchissimo editore e produttore cinematografico. «Nessuno ci dava due lire - rivela Mara, attesissima ospite, venerdì sera al Festival «Il Tempo delle donne», in Triennale a Milano - tutti pensavano che io fossi innamorata dei suoi soldi e che ci saremmo lasciati prestissimo. Dopo 23 anni di amore e 17 di matrimonio eccoci ancora qui».

Il loro primo incontro è noto, lo hanno raccontato molte volte: cena al ristorante organizzata da Melania Rizzoli, amica carissima di Mara, nonché cugina di Nicola (in quanto moglie di Angelo Rizzoli). 

Cosa ricordate di quel 19 settembre 2000?

Venier: «Avevo sempre sentito parlare di questo Nicola, l’avevo idealizzato e quella sera mi ero messa tutta elegante. Volevo fare colpo. Quando l’ho visto entrare, vestito con il blazer, mi sono detta: “Ma questo è un cumenda, cosa c’entro io con lui... “»

(...)

Si frequentano, si piacciono. Ma qualcosa non gira. Mara spezza gli indugi e guardandolo fisso negli occhi gli dice: «Ricordati che io resto una pescivendola».

Perché quella frase?

V. «Lui viene da una famiglia pazzesca (padre Gian Gerolamo Carraro e madre Pinuccia Rizzoli, secondogenita di Angelo Rizzoli, fondatore dell’omonima casa editrice, ndr); io sono sempre stata anarchica, libera, indipendente, famiglia semplice. Volevo essere chiara».

Nicola non si scompone per nulla. Anzi, da quel momento si comincia a fare sul serio. Nonostante Mara all’epoca abbia un fidanzato e nonostante la famiglia Carraro, non apprezzasse la liaison con una donna di spettacolo, la storia continua. Vengono paparazzati mentre si baciano in piazza, in mezzo a Campo dei Fiori. Novella 2000 fa lo scoop. E loro escono allo scoperto. Arriva Natale e Nicola la invita a Turks and Caicos, e lì sull’isola le dice la famosa frase sui libri, quella per cui Mara capitola davvero: «Uno che dice così, è un gran figo». 

Tornati a Roma, lei presenta Nicola ufficialmente agli amici.

V. «Tutti erano pazzi di Nicola appena lo hanno conosciuto. Una su tutti, la mia più cara amica a quel tempo, Edwige Fenech, che mi disse: “È l’uomo giusto per te”. Ma non è stato tutto facile: alcuni amici di Nicola mi consideravano inadatta. Non mi invitavano alle cene, perché non ero all’altezza». 

Anche la famiglia stretta di suo marito i primi tempi era piuttosto diffidente...

V. «Ho chiesto un appuntamento alla mamma di Nicola e guardandola negli occhi ho detto: “Io sto con suo figlio perché lo amo, non per altro”. Credo che lei abbia capito che non sono quel tipo di donna che si sposa per interesse». 

Parliamo di gelosia. Mara è molto legata a Jerry Calà, Renzo Arbore...

C. «Tanto per cominciare non posso essere geloso di una che dice “Ti amo” a chiunque conosca... Ma la verità è che lei non mi ha mai dato motivo di essere geloso e soprattutto trovo folle la gelosia retroattiva. Quanto ai suoi ex, con Arbore c’è grande stima e rispetto; Jerry lo conosco da tanto tempo, quando ancora facevo il produttore cinematografico. Siamo amici». 

V. «Io sono stata gelosissima nella mia vita, specialmente delle ragazze coccodè nel programma di Arbore. Ora proprio no, sia perché Nicola non me ne dà motivo, sia perché il nostro rapporto è basato sulla fiducia e su un accordo preciso: ciascuno di noi mantiene i propri spazi».

C. «Ricordo che stavamo insieme da poco e nel 2001 chiesero a Mara di rifare Domenica In. Io non ero tanto contento, volevo trascorrere più tempo con lei. Ma ho capito che per lei era importante. E così abbiamo chiarito che ciascuno di noi avrebbe sempre mantenuto i propri spazi: io avrei trascorso i mesi invernali a Santo Domingo per questioni di salute e lei avrebbe lavorato nei tempi e nei modi che desiderava». 

«Domenica In» ha rotto spesso i piani nella vostra vita...

«Sì, nel 2018 ero a Santo Domingo e mi è arrivata una videochiamata dove Mara mi annunciava che la Rai - dopo un esilio forzato - l’aveva richiamata e la rivoleva a Domenica In. Ero molto perplesso, ma lei mi ha convinto. Ho capito che quel ritorno per lei era una rivincita».

V. «La Rai mi aveva mandato via perché ero troppo vecchia. È stata una grande mortificazione, una ferita profonda. E la rivincita è stata fortissima. 

(...)

Qualche crisi c’è stata?

V. «Il vero momento duro nella nostra storia è stata una vacanza in Sardegna. Una brutta estate, liti continue. Quando siamo tornati, ho detto: “Qui ci dividiamo. Siamo troppo diversi”. Ma dopo tre giorni mi ha chiamato un suo amico per dirmi che Nicola stava male, sono corsa da lui e ci siamo dimenticati di tutto». 

C. «Ma non è stata una grande crisi! È stato solo un momento un po’ difficile, un’estate storta..»

V. «No no caro mio, è stata una crisi. La verità è che quando io mi diverto molto, lui non si diverte. A me piace andare alle feste con tanto casino, divertirmi anche con gente improbabile, fare tardi. Lui non ama queste cose e diventa molto snob. E allora gli dico “Quando fai il Rizzoli mi stai proprio antipatico”».

C. «Serate impossibili...». Preferisco quando facciamo cene di amici a casa. Mara cucina per tutti e lava pure i piatti. Ultimamente vengono spesso Alberto Matano e il marito e anche Diaco e il marito. Ma io a un certo punto ormai ho imparato: do la buonanotte e vado a letto. Fanno troppo tardi a cantare».

L’aspetto più bello dell’altro?

V. «Lui mi dà consigli su tutto: vita privata e carriera. Senza lui sono persa».

C. «Stare con Mara è come avere la televisione senza pagare il canone».

Estratto da fanpage.it il 9 giugno 2023.

Nella notte tra l'8 e il 9 giugno è morto Pier Francesco Forleo. Direttore della Direzione Diritti Sportivi della Rai aveva 62 anni. A darne notizia l'azienda di Viale Mazzini con un comunicato: "La perdita di Pier Francesco Forleomci lascia sgomenti. Professionista impeccabile, dalla solida e variegata esperienza professionale, era da anni un punto di riferimento nel cruciale settore dei Diritti sportivi della nostra azienda. Ci mancherà non solo la sua grande capacità di analisi e direzione di aspetti finanziari e gestionali complessi, ma la sua cifra umana speciale". Per quanto riguarda la sua vita privata, era sposato con Elisabetta Ferracini, figlia di Mara Venier.    

La carriera di Pier Francesco Forleo 

Nato nel 1962 a Firenze, Pier Francesco Forleo si è laureato in Economia e Commercio e, dopo aver lavorato nella Direzione della Pianificazione e Controllo dell'IRI, nel 1997 entra in Rai. 

(..) Dopo i primi anni di esperienza, nel 2006 viene nominato Direttore degli Acquisti e, successivamente, nel 2015 ottiene l'incarico ricoperto fino alla sua scomparsa, quello di direttore della Direzione Diritti Sportivi. Ad annunciare la sua morte, avvenuta a 62 anni, è stato proprio l'azienda con un cominciato firmato dal presidente Rai Marinella Soldi e dall'Amministratore Delegato Roberto Sergio: La perdita di Pier Francesco Forleo  ci lascia sgomenti. Professionista impeccabile, dalla solida e variegata esperienza professionale, era da anni un punto di riferimento nel cruciale settore dei Diritti sportivi della nostra azienda. Ci mancherà non solo la sua grande capacità di analisi e direzione di aspetti finanziari e gestionali complessi, ma la sua cifra umana speciale. Affabile e signorile, Pier Francesco Forleo è stato sempre capace di un proficuo gioco di squadra, con grande giovamento dell'azienda e dei colleghi tutti, di cui ha saputo far emergere i tratti migliori, motivandoli e aiutandoli a crescere. Ai familiari inostri pensieri e le condoglianze nostre e di tutta l'azienda. 

Per quanto riguarda la sua vita privata, da diversi anni Forleo era sposato con la figlia di Mara Venier, Elisabetta Ferraccini. In diverse occasioni la coppia si era mostrata insieme sui social, pubblicando alcune foto di famiglia in cui era presente anche la suocera "Zia Mara". Dopo la notizia della sua morte, la conduttrice ha pubblicato un post per ricordarlo: "Pier, sei stato un genero meraviglioso..hai portato solo gioia e amore nella nostra famiglia ..ed io ti ho voluto bene come un figlio….Siamo tutti annientati tutto troppo veloce". 

Morto Pier Francesco Forleo, genero di Mara Venier e Direttore dei Diritti Sportivi della Rai.  La Repubblica il 9 giugno 2023.

Aveva 61 anni. Il cordoglio della conduttrice e dei vertici dell'azienda

Pier Francesco Forleo, il Direttore Diritti Sportivi della Rai, è morto questa mattina all'improvviso alla sola età di 61 anni. Classe '62, nato a Firenze, era anche noto per essere il compagno di Elisabetta Ferracini, la figlia di Mara Venier. "Pier,sei stato un genero meraviglioso..hai portato solo gioia e amore nella nostra famiglia  ha scritto Mara Venier in un post instagram ..ed io ti ho voluto bene come un figlio....Siamo tutti annientati tutto troppo veloce".

A diffondere la notizia il direttore generale di San Marino RTV Andrea Vianello: "Svegliarsi con la notizia terribile che un grande dirigente della Rai, bravo, perbene e pieno di vita, Pier Forleo, non c'è più - ha detto il giornalista - era un amico: lo chiamavamo 'il Principe'. Sapeva vivere e lavorare: un talento di pochi. Vicino a Elisabetta". 

Laureato in economia e commercio, professore universitario di economia aziendale, entra a far parte del gruppo di Viale Mazzini nel 2004. Da quel momento, la scalata verso il successo: dalla direzione del settore di finanza e pianificazione, fino a quella dei diritti sportivi - nel 2015. Nell'aprile dello stesso anno è stato poi nominato membro dello Sports Rights Committee e della Sports Right Assembly dell'UER. 

"La perdita di Pier Francesco Forleo ci lascia sgomenti - ha detto la presidente Rai Marinella Soldi - era un professionista impeccabile, un punto di riferimento nel settore dei diritti sportivi della nostra azienda". "Ci mancherà non solo a livello professionale, ma anche per la sua speciale cifra umana - l'amministratore delegato Rai Roberto Sergio  - era un uomo affidabile e signorile: sempre capace di gioco di squadra. Ai familiari inostri pensieri e le condoglianze nostre e di tutta l'azienda".

Non si conoscono le circostanze del decesso. Chi era Pier Francesco Forleo, il “Principe” gentile della Rai. Genero di Mara Venier. Redazione su Il Riformista il 9 Giugno 2023 

Si è spento la scorsa notte all’età di 62 anni Pier Francesco Forleo, marito di Elisabetta Ferracini, figlia della conduttrice Mara Venier. Responsabile della Direzione Diritti Sportivi della Rai. Era un dirigente molto amato, lo chiamavano “Il Principe” per i suoi modi sempre gentili. L’annuncio della morte di Forleo è stato dato questa mattina dalla Presidente della Rai Marinella Soldi e dall’amministratore delegato Roberto Sergio.

Pier, sei stato un genero meraviglioso. Hai portato solo gioia e amore nella nostra famiglia… ed io ti ho voluto bene come un figlio…”. ha scritto Mara Venier su Instagram. Aggiungendo: “Siamo tutti annientati tutto troppo veloce. Rip”.

Andrea Vianello, giornalista e volto tv lo ricorda così: “Svegliarsi con la notizia terribile che un grande dirigente della Rai, bravo, perbene e pieno di vita, Pier Forleo, non c’è più. Era un amico. Lo chiamavamo il Principe, per la sua eleganza naturale. Sapere vivere e sapeva lavorare: un talento di pochi. Vicino a Elisabetta”.

La nota della Rai – “Professionista impeccabile, dalla solida e variegata esperienza professionale, era da anni un punto di riferimento nel cruciale settore dei Diritti sportivi della nostra azienda. Ci mancherà non solo la sua grande capacità di analisi e direzione di aspetti finanziari e gestionali complessi, ma la sua cifra umana speciale. Affabile e signorile, è stato sempre capace di un proficuo gioco di squadra, con grande giovamento dell’azienda e dei colleghi tutti, di cui ha saputo far emergere i tratti migliori, motivandoli e aiutandoli a crescere. Ai familiari i nostri pensieri e le condoglianze nostre e di tutta l’azienda”

Nato a Firenze nel 1962, laureato in Economia e Commercio era entrato in Rai nel 1997, dopo aver lavorato nella Direzione Pianificazione e Controllo dell’IRI. In Rai aveva fatto parte della struttura Reporting e Controllo Operativo nella Direzione Amministrazione, Finanza e Controllo. Successivamente era stato chiamato a ricoprire il ruolo di controller della Divisione Radiofonia e nel 2006 nominato direttore degli Acquisti coordinando operativamente dal 2010 il Codice degli Appalti Pubblici nei processi aziendali d’acquisto. Da marzo 2015 ricopriva il ruolo di direttore della Direzione Diritti Sportivi e membro dello Sports Rights Committee e della Sports Right Assembly dell’UER.

Estratto dell’articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 25 maggio 2023.

Mara Venier, c'è una frase nella sua infanzia che ancora l'accompagna?

«La frase che mi torna in mente è quando mia mamma mi diceva: "Mara va a tourè il papà". Cosa significa? "Vai a prendere il papà". Mio papà, ferroviere, finiva di lavorare, si fermava in un'osteria di fronte al lavoro. Suonava la fisarmonica con tutti i ferrovieri e faceva molto tardi sbevazzando. Io andavo in questa osteria a prenderlo me lo portavo a casa. Avrò avuto cinque sei anni, tornavamo insieme: lui con la sua bicicletta a mano e io a manina». 

(...)

Che cos'è Domenica in?

«Domenica in è la consapevolezza che qualcosa valevo per me e per tutti». 

Che cosa le interessa soprattutto di capire negli altri quando li intervista?

«Cerco di capire chi sono veramente nel momento in cui ho qualcuno davanti e la mia curiosità mi porta a cercare di capire chi è, come se le telecamere non ci fossero».

Lo sguardo del suo interlocutore per lei è anche lo specchio dell'anima?

«Sì, sgamo immediatamente i falsi, quelli che recitano». 

C'è un'intervista che le è rimasta nel cuore?

«Ce ne sono due. La prima è quella a Enzo Biagi. Per me è stato un maestro di giornalismo. Ero molto emozionata, nessuno come lui riusciva a fare le interviste. E io mi ricordo proprio lo sguardo fra me e lui. È scattato proprio qualcosa di bello, tant'è che avevamo un progetto di fare un programma insieme per gli italiani all'estero per Rai International. 

L'altra era Antonio Banderas, lo intervistai a Londra. Era un periodo molto infelice dal punto di vista amoroso. Mentre lo intervistavo entrava la Griffith continuamente e lo baciava, e dovevamo interrompere. E io provai una grande invidia per tutto questo. Chiesi a lui "Ma sei felice?" Mi rispose "la felicità è un colpo di vento che ti accarezza i capelli". E questa frase è diventata mia». 

Che effetto le fa l'amore del pubblico?

«Mi riempie, mi fa sentire meno sola». 

Il successo ha dei lati negativi?

«Non sai mai se le persone che stanno vicino a te è perché ti vogliono bene, oppure perché hai successo e magari in qualche maniera ti possono usare». 

Come difende il suo privato?

«Non lo difendo: mi lascio travolgere e prendo le mie fregature. Io do magari alle persone che non lo meritano, che poi alla lunga negli anni ci si rende conto che, come si dice, si danno perle ai porci». 

Litigare fa bene qualche volta?

«Complica la vita». 

C'è una ragione che ricorre in queste liti?

«Io come carattere dico sempre quello che penso, non riesco a mediare e questo porta a dei contrasti. Con mio marito non litigo mai perché lui ogni volta che io comincio a discutere si mette a ridere per cui mi smonta automaticamente. Non amo litigare, quando ho una discussione con i miei figli poi la notte non dormo». 

Ha rimpianti o rimorsi?

«Nessuno: rifarei tutto, anche le cose che mi hanno fatto soffrire». 

(...) 

Un dolore che l'ha trafitta?

«La perdita di mia madre».

I ricordi riscaldano la vita?

«I ricordi tormentano la vita». 

“Però io cerco di aiutare le donne, soprattutto se sono più giovani». Eleonora Daniele, conduttrice tv, l'ha ricordato...

«Quello è un episodio che pensavo lei non ricordasse più. Io all'epoca avevo le mie prime domeniche, un successo incredibile. Feci una telepromozione: c'era questa ragazza bellissima, aveva già fatto il Grande Fratello per cui era già un po' nota come Eleonora Daniele. Nelle telepromozioni volevano chiamarla Cristina. Andai dal produttore, mi sembrava una roba così brutta nei suoi confronti e mi impuntai. Tutto questo all'insaputa di Eleonora. All'inizio dissero "No, non si può fare". Poi quando minacciai di non fare la telepromozione se non si fosse chiamata col suo vero nome l'ebbi vinta».

Hai mai pensato di tirare i remi in barca?

«Quasi ogni giorno». 

 Si sente più attrice prestata alla conduzione o conduttrice pura?

«Mi sento conduttrice per caso».

Che cosa la soddisfa di più del suo mestiere e che cosa le pesa di più?

«È molto difficile dare sempre qualità al pubblico. In un programma popolare come Domenica in, 40 puntate, è complicato cercare di dare l'eccellenza a chi crede in me. Questa è la mia 14ma Domenica In, un record - Baudo ne ha fatte 13 - per cui sento il dovere di dare al pubblico quello che si aspetta. Invece la cosa più facile è andare in onda, mi diverto. La diretta mi piace». 

Quando non lavora che cosa fa Mara Venier?

«Pulisco casa e cerco di stare con i miei nipoti, che sono l'essenza della felicità».

In cinque parole chi è davvero Mara Venier?

«Una donna allegra, malinconica, tormentata, sognatrice, concreta».

E per il pubblico una grande amica. Questo è sicuro.

Barbara Visentin per il Corriere della Sera - Estratti domenica 3 dicembre 2023. 

Per la prima volta, in una carriera lunga oltre 50 anni, Marcella Bella diventa cantautrice: «Prima non sentivo la necessità di scrivere perché avevo un fratello (Gianni Bella, ndr ) che mi scriveva canzoni meravigliose. Poi lui si è ammalato e allora ho detto “voglio provare”». Così sette dei 10 brani che compongono il suo nuovo disco di inediti, «Etnea», in uscita venerdì, portano la sua firma. Tra loro «Mi rubi l’anima», duetto con Loredana Bertè che parla della violenza sulle donne 

(...) 

Sul ruolo di rap e trap in materia, Marcella Bella riflette: «Cosa posso dire di questi ragazzi giovani che trattano un po’ maluccio le donne, son ragazzi, anche noi lo siamo stati. Quelli che arrivano dalle periferie più violente cercano di scrivere qualcosa che hanno vissuto, non dico sia positivo, certamente non devono trattare le donne in questo modo». E poi precisa: «Certi testi ostili non mi piacciono assolutamente, non li capisco e non li condivido. La violenza è da condannare sempre».

Nel disco (che presenterà al pubblico con quattro instore a partire da domani e poi porterà dal vivo in primavera con un tour nei teatri) non ci sono featuring con artisti giovani: «L’hanno già fatto in tanti, è una scorciatoia, se vogliamo. Io finora ho evitato, anche se forse mi conveniva. Cerco di essere fedele alla mia musica, provando però a rinnovarmi». 

Tra i brani di «Etnea», chiamato così perché «io mi sono sempre sentita figlia del vulcano», ci sono invece «Un amore speciale», scritto da tutti e quattro i fratelli Bella insieme (Marcella, Gianni, Rosario e Antonio) e il singolo già uscito «Tacchi a spillo» «che ha un testo impegnato, metafora della vita, e un ritmo che mi fa sentire nell’attualità musicale, senza nulla da invidiare ai cantanti più giovani». Sull’ipotesi di tornare in gara a Sanremo, Marcella Bella alza gli occhi e le mani: «Mi piacerebbe poter dire sì, l’idea ci sarebbe, stiamo a vedere cosa succede. Sono molto legata a Sanremo perché ci sono arrivata da giovane e sconosciuta e “Montagne verdi” è nata lì. Ma se non è per quest’anno chi lo sa, magari sarà per il prossimo. Penso che prima o poi ci tornerò».

Carlo Moretti per “la Repubblica” - Estratti venerdì 17 novembre 2023.

Marcella Bella è tornata. Il suo nuovo singolo si intitola Tacchi a spillo ed è pura dance, genere non nuovo per lei che nel 1974 fu tra le prime a far ballare tutti con il brano Nessuno mai . 

Stavolta però, a 71 anni, l’artista catanese si spinge oltre: il pezzo annuncia l’album Etnea che uscirà il primo dicembre, in cui debutta come autrice. 

(...) 

Con “Tacchi a spillo” incontra l’elettronica.

«Mi sono chiesta se fosse giusta per me perché è completamente differente dal mio mondo, come da quello di Gianni che ha sempre scritto per me. Mi ha convinto il testo, i tacchi a spillo sono una metafora per parlare della vita e dei suoi momenti difficili». 

(...)

Come buen retiro ha scelto Ibiza.

«Senza cercarla me ne sono innamorata. È una piccola Sicilia dove però non mi conosce nessuno. Amo l’Ibiza fuori stagione, mi piace l’entroterra, è piena di fichi d’india, ci sono palme altissime, ce ne sono tre anche nel mio giardino». 

La sua casa lì è un ex albergo.

«Un piccolo hotel di charme frequentato negli anni da tanti artisti, attori, musicisti, cantanti. L’anima artistica di questa casa mi è piaciuta subito, l’ex proprietaria aveva chiamato una delle camere “la stanza di Marilyn”, tant’è che ho messo alle pareti le sue foto in bianco e nero. 

In un’altra ci sono quadri di gesso con le impronte delle mani di molti attori tedeschi e spagnoli che, ammetto, non conoscevo, a parte Penélope Cruz».

A proposito di tacchi a spillo, lei ha detto: “Tacchi e guêpière fanno parte di me”.

«Lo penso dai tempi di Nell’aria che cantavo quasi sempre indossando gonne strette e guêpière. Quel pezzo sottolineava la femminilità». 

L’avevano scritto Mogol e suo fratello Gianni Bella.

«Mio fratello aveva scritto solo la musica, non avrebbe mai scritto un testo come quello da far cantare a sua sorella. Il testo era di Mogol che mi aveva anche consigliato di cantarlo con un certo abbigliamento “sfacciatamente sexy”, disse, ma io poi lo bocciai, per me la sensualità bisogna tirarla fuori solo in un secondo momento. Il massimo che potevo indossare era questa guêpière che amavo: avevo scoperto un posticino a Milano che le realizzava. Era gestito da tre sorelle, le chiamavo “le mie sorelle Materassi”».

È vero che colleziona calze?

«Non è che le collezioni, ne ho tre cassettoni pieni, di tutti i tipi. Ho anche un armadio pieno di scarpe con i tacchi a spillo, di tutti i colori». 

Lei è una donna del desiderio per tanti, chissà quanti ammiratori.

«Non mi voglio vantare ma sono stata molto corteggiata, tra di loro c’è stato anche Julio Iglesias: molti anni fa facevamo parte della stessa scuderia, la Cbs, e una sera ci ritrovammo per una trasmissione tv. Lui non sapeva del mio compagno, che poi sarebbe diventato mio marito, e appena mi ha visto mi ha preso la mano. Io ero in un brodo di giuggiole, Julio era un grande latin lover: “Marcelita, tieni il fidanzato?” mi chiese, tutto speranzoso. Gli risposi, anch’io dolce: “Sì, è là”, indicando Mario. Mollò subito la mano». 

Ce ne saranno stati tanti anche di meno famosi.

«Alcuni diventavano pesanti. Uno si era fissato, mi ha perseguitato per anni, si faceva trovare davanti casa di mia mamma a Parma. Si era piazzato con la tenda: diceva che mi doveva sposare. 

Ci siamo preoccupati, soprattutto quella volta che venne a Sanremo e il portiere dell’hotel mi chiamò in stanza dicendo che mio marito mi aspettava giù nella hall, gli dissi che era con me in camera ma quello insisteva tanto che il portiere s’era convinto. “Vuole che non sappia chi è mio marito?”». Com’è finita? «Male, ho dovuto denunciarlo, abbiamo scoperto che era un pregiudicato appena uscito dal carcere. Mi scriveva lettere, è stato uno stalker pesante, quando ancora non si chiamavano così. Erano gli anni Ottanta». 

Oggi lei è anche un’icona gay.

«I gay amano la donna sexy, si identificano, non parlo di tutti, ovviamente ma un certo tipo di gay sì, hanno sempre amato la donna molto femminile. Sono stata tra le prime a difendere i diritti degli omosessuali, mi fa piacere condividere questo ruolo con altre cinque o sei mie colleghe». 

Nel 1972 il debutto a Sanremo con “Montagne verdi”: cosa ricorda?

«Il giorno delle prove, era la prima volta che salivo le scale del Casinò, dove in quegli anni si faceva il festival. Per me erano scale magiche, le avevo sognate. Qualche anno prima avevo cantato in una discoteca di Sanremo, i miei musicisti insistevano per salirle, ma io mi rifiutai: “Le voglio salire quando canterò al festival”, dissi, e tutti risero: “Sì, aspetta e spera”. Ero testarda, infatti ci sono riuscita». 

L’anno dopo interpretò in modo straordinario “Io vivrò senza te” di Lucio Battisti.

(…) Battisti le disse qualcosa?

«All’epoca possedeva una sala di incisione, il Mulino, e io spesso chiedevo di poter registrare lì così da poterlo incontrare. Una volta, mentre incidevo dei pezzi, me lo ritrovai lì. Si complimentò per come avevo cantato Io vivrò senza te , quel giudizio mi dette il coraggio per chiedergli un pezzo inedito. Mi diede Perché dovrei, che aveva scritto con Mogol e che incisi nel mio primo album, L’anima dei matti registrato dal vivo alla Bussola». 

Vi univa il taglio di capelli, la chiamavano “il cespuglio”.

«I capelli afro erano un riferimento al mondo del blues, del soul, ai cantanti neri. Io ero abituata, Gianni ascoltava solo quel genere di musica, il rhythm‘n’blues e il soul».

Come sta suo fratello Gianni?

«Scrive meno ma segue molto la musica. Mi consiglia e, anche se non parla, capisce ogni cosa e si fa capire. È un grande artista, non lo dico come sorella ma come persona che lo ammira per ciò che ha scritto e fatto. A cominciare dall’opera La capinera che gli è costata molto: quando l’ha finita era così stressato che ha avuto l’ictus. Prima o poi verrà apprezzata come merita». 

Tornerebbe al Festival?

«Perché no? A Sanremo ho vissuto momenti bellissimi. Ma non mi pongo il problema, del resto sono sicura che tornerò, prima o poi».

Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” il 24 maggio 2023.

Problemi di abbondanza prima della puntata di oggi a Domenica In: “Ho sei minuti e devo selezionare un medley dei miei successi”. Con cinquant’anni di carriera non è semplice. “Per scherzo ho detto: ‘Salto Montagne verdi’”. Risposta: “No!”.

Marcella Bella, da Montagne Verdi non può prescindere, la cantano pure all’estero. 

“Ho lavorato ovunque, anche in Spagna, Sud America e Giappone; (pausa) in Giappone ho fatto tre tournée”

Non male.

“L’unico posto che ho sempre rifiutato è la Russia; ma non per qualcosa in particolare…” 

Per cosa?

“Se ci fossi andata altro che Pupo; (pausa) ogni tanto riprovavano, io vacillavo”. 

E poi?

“Leggevo che era precipitato un altro Tupolev”. 

Quindi non era refrattaria ai comunisti.

“Ecco, non la butti in politica. È che ogni tanto arrivava qualche notizia drammatica”. 

[…] 

Quindi ha partecipato alle celebri tournée americane degli anni 70…

“In America del Nord seguivo Mike Bongiorno in una specie di piccolo Festival organizzato da lui; (sorride) ogni volta ripeteva: ‘Si va a Manhattan’, e pronunciava ‘Manhattan’ calcando molto sull’acca”. 

Da vero newyorchese.

“Doveva sfoggiare il suo essere di madrelingua”. 

In generale Bongiorno c’era o ci faceva?

“In gran parte direi la seconda, perché era molto intelligente e aveva capito la forza di certe battute, allora ci marciava; (pausa) e poi è stato il mio scopritore: è lui ad avermi dato l’opportunità di un provino discografico”.

Conosciuto, come?

“In Sicilia, durante uno dei suoi eventi, dove presentava una lacca, della cosmetica o qualcosa di simile: nella prima parte dello spettacolo coinvolgeva i cantanti del posto; avevo 13 anni e mi sono presentata con mio padre”. 

E lì?

“Canto la prima canzone e subito dopo mi prende da parte: ‘Piccolina sei con qualcuno?’ ‘Con papà’. ‘Datemi il numero di telefono: vi chiamerò così venite a Milano’”. 

Lei tredicenne davanti al mito…

“In silenzio, affascinata. Lo guardavo come fosse la Madonna (e mima uno sguardo estatico); mica ci credevo, era mio padre a tranquillizzarmi. Esattamente un mese dopo è squillato il telefono”. 

[…] 

Sta in forma, i maligni diranno “chissà se è vero”.

(Ri-sposta i capelli) “Guardi. Non ho alcuna cicatrice, anche perché ho il terrore della chirurgia e dei cambiamenti”. 

Alcune colleghe non hanno lo stesso timore.

“A volte le incontro o le guardo in televisione e mi imbarazzo”. 

Addirittura.

“Non le riconosco: ‘Ma chi è quella lì’; (pausa) non le dico chi, alcune sono amiche”. 

Tra artisti c’è vera amicizia?

“Con Loredana (Bertè) lo siamo da una vita, certo a modo suo, un modo molto particolare. Per fortuna la conosco bene e sono passata sopra a tante situazioni”. 

Quindi c’è amicizia.

“Perché non provo invidia“. 

Neanche di un brano.

“Magari dico ‘avessi avuto questa canzone’”. 

[…] 

Bigazzi la interrogava prima di scrivere.

“Voleva sapere tutto, era come un sarto pronto a cucirmi il vestito addosso”.

 Come Montagne verdi.

“Quella è la mia storia, la storia di una ragazzina che lascia gli amici, la scuola e il coniglio dal muso nero”. 

Aveva un coniglio?

“No, rappresentava la bambola sul letto e il mio cuore da ragazzina; è un testo profondo e molti non l’hanno capito”. 

Era felice di quell’avventura?

“Le montagne verdi erano le mie speranze”. 

E qualche rinuncia.

“Niente vita da teenager”.

Niente leggerezza.

“Quella sì, per fortuna. Anche se sono passionale in tutto quello che mi accade”. 

Sembra equilibrata.

“È vero. Lo sono”. 

Da sempre?

“Sempre stata una brava ragazza”. 

Però l’hanno tentata.

“Eccome; sono passata vicino a persone che si drogavano, bevevano, che ne combinavano di tutti i colori e si sono persi; ma grazie a mia madre ho sempre saputo qual era la strada giusta”. 

Una ragazza che nel 1972 a Sanremo era sul palco insieme a Milva, Nada, Dalla, Bobby Solo…

“Si rende conto?”. 

Cosa ha pensato?

“Ero felice di stare tra di loro e convinta delle mie qualità; (pausa) venivo dalla gavetta ed è fondamentale, come è accaduto ora per Elodie: ci ha messo anni per emergere”. 

Avrebbe vinto un talent?

“Credo di sì, ma in qualche modo mi è successo: al concorso di Venezia, del 1971, eravamo in 100”. 

Secondo Mara Maionchi sul palco bisogna risultare erotici.

“Ce l’ho di natura, non lo faccio”. 

Bene.

“È venuto fuori a trent’anni, prima mi vergognavo del mio lato sexy”.

Con Nell’aria.

“Un brano tra virgolette erotico”. 

Senza virgolette.

“Il testo l’hanno capito dopo anni, nessuno aveva focalizzato cos’era la gatta (recita il brano: “La mia voglia è grande, è scandalosa ormai; c’è una gatta accanto a me e non rinuncia a lei”)”. 

Lei rideva.

“Un po’; ricordo ancora il fax inviato da Mogol con sopra il testo: io e Gianni lo riceviamo, leggiamo, Gianni contento e io che gli domando: ‘Di quale gatta parla?’. ‘Miao, miao’. ‘L’hai letto bene? Sembra pornografico’. ‘Marcella, te lo puoi permettere’”. 

Suo fratello non si è ingelosito.

“Proprio per niente, con Mogol che aveva in testa pure il giusto look da adottare: ‘Gonna con lo spacco, magliettina quasi trasparente, niente reggiseno e si deve intravvedere il reggicalze’”. 

Alla Eyes Wide Shut.

“Abbiamo iniziato a litigare: ‘Per me questo non è sexy, lo sarà per te che sei anziano’. ‘Non capisci niente’. Alla fine ho indossato la guêpière e un bel décolleté”. 

Le hanno proposto calendari o foto sexy?

“Certo, ma per carità”.

 Film erotici.

“Sì, già dopo Montagne verdi; uno era veramente spinto con il mio manager che urlava, riferito al produttore, ‘io lo ammazzo’”. 

Nell’aria l’ha cambiata?

“Mi ha reso più consapevole del mio fascino”.

Un potere in più.

“La donna consapevole, femminile, ha un vantaggio in più ed è anche per questo se sono un’icona gay; (sorride) tacchi e guêpière fanno parte di me”. 

Ha dichiarato di cucinare in tacchi.

“Io e mio marito non sopportiamo le ciabatte”. 

Colleziona scarpe.

“Ne avrò 300 paia”. 

Stalker ne ha avuti?

“Uno pazzesco; ero in albergo a Sanremo, mi chiamano dalla reception: ‘C’è suo marito che l’aspetta al bar’. ‘In realtà è qui accanto a me’. ‘No, è al bar’. Insomma, un tizio si era spacciato per mio marito e non è finita qui: per un mese è vissuto in una tenda davanti a casa mia e di mia mamma”. 

Da avere paura.

“Era appena uscito dal carcere (cambia discorso) lo sa che ho firmato con Bmg per un disco d’inediti? Sarà prodotto da Federico Nonato e ci sarà sempre il mio manager, Pasquale Mammaro”.

[…] 

La prima volta che ha detto “sono famosa”.

“In taxi quando alla radio, durante la Hit Parade di Luttazzi, mettono un mio pezzo”. 

Primo acquisto.

“La casa per i miei”.

[…] 

Tecnicamente chi l’ha stupita in questi anni?

“Lucio Battisti era un fenomeno, anche se timidissimo: quando parlava difficilmente ti guardava negli occhi”. 

E Mina?

“Siamo state molto amiche; circa 15 anni fa l’ho incontrata, per caso, in spiaggia, a Forte dei Marmi: da lontano ho riconosciuto la sua sagoma e l’ho chiamata. Con me c’erano pure mamma, Mario (Lavezzi) e Ornella (Vanoni)”. 

E…

“(Ride) Ci mettiamo a chiacchierare fino a quando mia mamma se ne esce malissimo: ‘Signora Mina… lei mi scuserà signora Vanoni, ma Mina è Mina’. E io: ‘Mamma!’ ‘Marcella, sono sincera, lo sai’”. 

Felice la Vanoni.

“Ha odiato mia madre e pure Mina; sono schietta come mamma e non va sempre bene”. 

Vince il politically correct.

“Meglio frenarsi”. 

In Giappone si è frenata? Sono molto attenti…

“Lì la gaffe è stata loro: alla mia prima conferenza stampa, con almeno 50 giornalisti presenti, alla fine uno alza la mano e domanda: ‘Quante volte va in bagno?’. E poi non contento: ‘E come la fa?’. L’ho mandato via”. 

Verità o leggenda: è stata corteggiata da Iglesias…

“Gli piacevo”. 

Lui era così affascinate?

“Cenavamo, a un certo punto cambia il tono di voce, cambia la postura, mi prende le mani e mi guarda negli occhi: ‘Marcelita, tieni il fidanzato?’. ‘Sì, è qui’. Ha immediatamente mollato la mano e mutato atteggiamento”. 

Era naturale o costruito?

“Quando arrivava in Italia pretendeva quattro o cinque modelle sempre attorno a sé. Era scena organizzata”.

Il cantante più sexy che ha incontrato.

“Non mi interessano, preferisco uomini di un ambiente differente. Perché in casa, di diva, ci devo essere solo io”. 

Chi è lei?

“Ho ancora tempo per capirlo”.

Rapito, ennesima grande prova di Marco Bellocchio. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 29 Maggio 2023 

Un bimbo ebreo ammalato riceve i sacramenti di nascosto. Una sorta di “caso Dreyfus” dimenticato, all’ombra del Risorgimento. Dove esplodono temi cruciali: nazione, famiglia, religione

Chi ha visto “Marx può aspettare” sa che  a casa Bellocchio col battesimo non si scherza. Il gemello di Marco, Camillo, nacque tre ore dopo il futuro regista e la madre, temendo morisse, lo fece subito battezzare. Tre volte già che c’era, i Bellocchio erano molto devoti. A somministrare i sacramenti a Edgardo Mortara, piccolo ebreo nato nel 1851 a Bologna, è invece una domestica cattolica che vedendolo febbricitante e sentendo i genitori pregare lo battezza di nascosto segnandone il destino. Pochi anni dopo un maresciallo, peraltro mite e premuroso (eccellente Bruno Cariello), bussa a casa Mortara, una vasta dimora borghese piena di stanze e di bambini: siamo nel 1858, Bologna è Stato Pontificio, Edgardo (Enea Sala) ormai appartiene alla Chiesa.

Seguono vane suppliche all’Inquisitore (un Fabrizio Gifuni scintillante di perfidia), irruzione di sgherri nerovestiti, rapimento notturno del bimbo caricato su una carrozza sferragliante tra De Amicis e Poe, fuga a Roma con sosta nel Duomo di Senigallia, dove Pio IX era stato battezzato. E al piccolo Edgardo in lacrime appaiono le prime immagini di un mondo ignoto, minaccioso quanto affascinante. Il Battesimo di Gesù, un Cristo in croce, San Sebastiano. Lo strappo si è consumato. A nulla varranno le denunce e lo scandalo internazionale, le pressioni dei Rotschild, le angosce del cardinale Antonelli (Filippo Timi).

Il piccolo Edgardo cresce sulle ginocchia di Pio IX, ultimo Papa Re (un ineffabile Paolo Pierobon). Nella Casa dei Catecumeni, fra altri piccoli cristianizzati a forza, scopre l’astuzia, la simulazione, la morte (c’è anche un bambino malato). E il fasto, la potenza, le seduzioni di quella fede così diversa.

Quando, adulto, si troverà di fronte il fratello, tra i bersaglieri che irrompono a Porta Pia, Edgardo (Leonardo Maltese) è ormai un altro. Un sacerdote cattolico, sia pure scosso da violenti lampi di rivolta. Un “traditore” insomma, altro tema caro a Bellocchio.

Un’anima spezzata intorno a cui questo regista, capace come nessuno di indagare la dimensione carnale della politica, tesse una complessa polifonia di voci, sentimenti, visioni: i genitori, divisi a loro volta (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi); gli ebrei romani, stretti tra sotterfugi e sottomissione (Paolo Calabresi); le strategie (e i grotteschi incubi) del pontefice; naturalmente il Risorgimento, mai in primo piano. In un gran teatro che rimescolando nazione e famiglia, religione e identità, scava nel profondo, dando a questo dimenticato “caso Dreyfus” preunitario un’urgenza e un impatto inesorabili. L’ennesima grande prova di un regista che non finisce di stupire. E per il nostro cinema una - laicissima - benedizione.

AZIONE! E STOP

Il Risorgimento? Una miniera. Storie mai raccontate, personaggi da scoprire, icone da ribaltare. Dopo “Rapito” esce infatti “La versione di Anita” di Luca Criscenti, docu-fiction che ripercorre la breve e tumultuosa vita di Anita Garibaldi sottraendola all’abbraccio dell’Eroe dei due mondi. Per restituirle tutta la sua complessità e la sua libertà.

Agli incassi pensa l’AI. Sede a Losanna, ideatore turco, ambizioni mondiali. L’ingegnere informatico Sami Arpa ha messo a punto un sistema capace di predire il successo di film e serie analizzando cast, trama, genere, set, lingua. Per poi suggerire eventuali modifiche. Addio sorprese dunque. Al cinema e in tv dilagheranno i cloni. Che noia. 

Marco Bellocchio: «Volevo fare l’attore Ma con la voce che mi ritrovo…». Paolo Mereghetti su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2023  

Il regista intervistato per “7” da Paolo Mereghetti racconta il suo film «Rapito» in gara al Festival di Cannes. «Nella chiesa c’è carità, c’è misericordia ma i dogmi di fede non si possono discutere. neppure il nostro amato papa lo fa» 

Marco Bellocchio, 83 anni, durante le riprese dell’ultimo film, «Rapito», in gara al Festival di Cannes che si chiude domani e da ieri nei cinema italiani (foto di Anna Camerlingo)

Questa intervista di Paolo Mereghetti a Marco Bellocchio è stata pubblicata su 7 in edicola il 26 maggio, alla vigilia della conclusione del Festival di Cannes - che due anni fa gli ha conferito la Palma d’oro alla carriera - dove il suo film «Rapito» è in concorso. La pubblichiamo online per i lettori di Corriere.it

Per raggiungere gli uffici di Marco Bellocchio a Roma bisogna passare per Porta Pia, proprio dove ha ambientato una scena del suo ultimo film, Rapito (qui sotto dopo il sommarietto, la locandina), presentato martedì 23 maggio in concorso a Cannes e dal 25 nei cinema (in attesa, il 27 maggio, del verdetto dei premi). Dopo aver raccontato il passato prossimo con Esterno notte (che gli ha fatto vincere il David di Donatello come miglior regista), con Rapito torna indietro di 150 anni, nel 1858, quando il piccolo Edgardo Mortara fu strappato alla sua famiglia ebrea perché era stato battezzato di nascosto dalla sua tata. Un fatto che scatenò infinite polemiche contro Papa Pio IX e la Chiesa di allora a cui nemmeno la presa di Roma mise il punto finale.

Quando ha scoperto la storia di Edgardo Mortara?

«L’ho scoperta una quindicina di anni fa, come al solito per caso, da un articolo sul Corriere della Sera che parlava di quel caso attraverso un libro di Vittorio Messori, un giornalista cattolico che utilizzava la biografia dello stesso Mortara per difendere Pio IX e ribadire che quello che tutti consideravano (e considerano) un vero e proprio rapimento era accaduto senza che fosse stata esercitata alcuna violenza. In ogni modo l’articolo mi aveva incuriosito: quella storia — che io non conoscevo assolutamente — poteva essere potenzialmente molto interessante. E ho iniziato a documentarmi».

Una storia che aveva attirato anche Steven Spielberg.

«Quasi subito ho scoperto che anche Spielberg si stava interessando al caso di Edgardo Mortara. Anzi, che la sua macchina produttiva si era già messa in moto: non so se lo stesso regista, ma lo scenografo e il direttore della fotografia erano venuti a fare i sopralluoghi in Italia e avevano fatto anche dei provini. E così ho accantonato l’idea: non aveva nessun senso mettersi in competizione con lui».

«MI HANNO COLPITO DUE ELEMENTI. IL PRIMO È PROPRIO IL RAPIMENTO: COME SI SIA POTUTO PORTAR VIA UN BAMBINO DI SEI ANNI ALLA SUA FAMIGLIA E AL SUO MONDO. NON MI INTERESSA ASSOLUTAMENTE SCATENARE POLEMICHE, MA SOTTOLINEARE COME LA FEDE, COME LA RELIGIONE SIANO INEVITABILMENTE INTOLLERANTI» 

Poi però Spielberg ha abbandonato il progetto.

«Come ho fatto io. Ma quando sono andato in America per la promozione del Traditore, alla fine del 2019, mi è tornata in mente quella storia, che continuava a intrigarmi perché raccontava una certa Italia, e poi l’Ottocento e il Risorgimento e il potere della Chiesa. Così ho scoperto che Spielberg aveva abbandonato il progetto, mi sembra perché non avesse trovato l’interprete adatto. Solo in quel momento mi sono sentito libero di tentare».

Anche Julian Schnabel sembrava volesse filmare quella storia, ma sia lui che Spielberg hanno origini ebraiche e si possono intuire le ragioni del loro interesse. Lei, invece, è un ateo convinto: che cosa l’ha interessata?

«Mi hanno colpito due elementi. Il primo è proprio il rapimento: come si sia potuto portar via un bambino di sei anni alla sua famiglia e al suo mondo. Non mi interessa assolutamente scatenare polemiche, ma sottolineare come la fede, come la religione siano inevitabilmente intolleranti, perché sono costruite su una verità che non può essere contestata. È il senso del non possumus che pronuncia Pio IX: come capo della Chiesa non può comportarsi diversamente perché il battesimo ha fatto cristiano il bambino e in quanto cristiano non può fare altro che prenderlo con sé. La religione ha le sue certezze che non sono contrattabili. Anche il nostro attuale Papa tanto amato dice: Nel nome del signore... C’è la carità, c’è la misericordia, però non è che in nome della carità o della misericordia si possano mettere in discussione i dogmi della fede».

«EDGARDO, PUR CONVERTITO A FORZA, ADERÌ TOTALMENTE ALLA FEDE CATTOLICA, CHE NON RINNEGÒ MAI, FINO ALLA MORTE NEL 1940. SE NE PUÒ DARE UNA SPIEGAZIONE PSICOANALITICA»

E la seconda ragione di interesse?

«L’adesione di Edgardo alla fede cattolica, che non ha mai rinnegato e a cui ha aderito totalmente, fino alla morte nel 1940. Se ne può dare una spiegazione psicoanalitica: in quanto bambino, vede solo nell’adesione alla religione cattolica la possibilità di sopravvivere, anche se storicamente molti di quei ragazzi convertiti a forza sono poi tornarti all’ebraismo, soprattutto dopo la liberazione di Roma. Edgardo invece ha voluto seguire sempre il Papa, forse per un senso di riconoscenza (il Pontefice era stato molto generoso con Edgardo, pagando i suoi studi) o forse per qualche altra ragione. C’è stato anche un ricercatore americano che ha interpretato il rapporto tra il Papa e il bambino come un rapporto di abusi, ma non credo proprio che ci fossero stati». 

Non è la prima volta che in un suo film il protagonista si trova di fronte a un Potere che lo affascina. Ma è la prima volta che questo protagonista è un bambino.

«Questa è la grande sfida del film, perché viviamo in un mondo talmente lontano da quello che succedeva a metà Ottocento che il bambino non poteva essere come quelli che si vedono sempre in televisione, e che fanno venire i brividi. Il problema degli attori bambini è che quando recitano, finiscono sempre per rifare un po’ sé stessi: sei tu che devi adattarti a loro, non puoi chiedergli quello che chiedi a un attore adulto. Alla fine, davvero dopo tantissimi provini, mi sembra di aver fatto la scelta giusta perché il piccolo Enea Sala sa dare credibilità alla sua sofferenza e alla sua rassegnazione».

«NON HO INVENTATO NULLA NEL FILM, MENO CHE MENO QUELLO CHE FA PIO IX. CERTO, LA SCENEGGIATURA PUO’ SOTTOLINEARE CERTI FATTI... MA TUTTO QUELLO CHE SI VEDE NEL FILM È ASSOLUTAMENTE VERO. ANCHE LA SCENA IN CUI IL PAPA NASCONDE EDGARDO SOTTO LA SUA VESTE»

È un bambino ebreo?

«No, non è ebreo e non è neppure battezzato, ma ha rivelato una sensibilità perfetta per il ruolo: ha imparato l’ebraico e il latino con notevole disinvoltura e ha anche quella leggera inflessione emiliana che cercavo. Se diventava una macchietta mi giocavo il film. Spero di aver fatto la scelta giusta».

Paura delle polemiche?

«Se penso al peso che aveva la politica (e l’ideologia) in Esterno notte, devo dire che vedo Rapito come una specie di romanzo sospeso nel tempo, e lontano più di 150 anni. Il che mi ha fatto sentire piuttosto libero. Non ho inventato nulla nel film, meno che meno quello che fa Pio IX. Certo, la sceneggiatura finisce per sottolineare certi fatti, a volte calca di più a volte meno, ma tutto quello che si vede nel film è assolutamente vero. Anche la scena in cui il Papa nasconde Edgardo sotto la sua veste è stata raccontata dallo stesso Mortara nella sua autobiografia, così come quella in cui deve fare tre segni di croce con la lingua per terra. Lo dice lui, e lo racconta come un ordine che era giusto ricevere dal Papa».

Certe scene fanno capire che anche l’adesione di Edgardo al Cristianesimo aveva i suoi momenti di debolezza.

«Certe sconnessioni, certe ribellioni di cui Mortara sembra non rendersi perfettamente conto sono raccontate con insolita sincerità da lui stesso, come per esempio la scena in cui fa cadere il Papa per un eccesso di devozione. E i suoi ricoveri in ospedale per certe strane crisi (non dimentichiamo che Freud era ancora di là da venire) sono tutti documentati. Poi ci siamo presi qualche libertà, per esempio nella scena in cui segue il feretro del Papa o in quella in cui incontra la mamma sul letto di morte, ma il senso delle azioni di Mortara è assolutamente coerente con quello che ha raccontato lui stesso della sua vita».

«LO DICEVA ANCHE MIO FRATELLO PIERGIORGIO: PER LA VISIONE CRISTIANA SONO STATI MOLTO PIÙ PREZIOSI I GRANDI ARTISTI CHE NON I GRANDI TEOLOGI, COME SE IL MESSAGGIO DELL’ARTE PRODUCESSE UN’EMOZIONE CHE COSTRUISCE UN CAMPO COMUNE TRA CHI CREDE E CHI NON CREDE»

Se si ripensa a Marx può aspettare e lo si collega a questo Rapito , sembra di vedere un suo diverso atteggiamento rispetto alla religiosità, alla spiritualità.

«Sicuramente in me c’è una disponibilità maggiore ad ascoltare. Cito spesso la mia reazione a una scena di Ordet - La parola di Carl Theodor Dreyer (film del 1955 del grande regista danese; ndr ), quando Johannes si trova di fronte al cadavere della cognata: il vedovo lo supplica di andarsene, temendo le sue escandescenze, ma lui chiede a Dio la grazia di resuscitarla e la donna torna in vita. Ora, io non credo al miracolo, ma vedendo come quel miracolo è raccontato in una scena di sublime bellezza, mi sono commosso. È quello che diceva anche mio fratello Piergiorgio: per la visione cristiana sono stati molto più preziosi i grandi artisti che non i grandi teologi, come se il messaggio dell’arte producesse un’emozione che costruisce un campo comune tra chi crede e chi non crede. Io non credo lo stesso e non mi converto, però devo dire che la bellezza mi colpisce».

Discuteva con Piergiorgio dei suoi film?

«No, anche perché è stato solo a partire dalle riprese di Marx può aspettare che i nostri rapporti si sono ammorbiditi. Prima lui vedeva i miei film quando uscivano al cinema e a volte mi scriveva le sue reazioni».

«I RAPPORTI CON MIO FRATELLO PIERGIORGIO DA POCO ERANO PIÙ MORBIDI: PRIMA I MIEI FILM LI VEDEVA AL CINEMA E A VOLTE MI SCRIVEVA»

Una delle scene più emozionanti del film è quando Edgardo sogna di liberare il Cristo dai chiodi della croce. E spesso nei suoi film i personaggi sognano. Lei sogna molto?

«Dal momento che da parecchi anni non vado in analisi, non sono più molto allenato a lavorare sui miei sogni. Il sogno per me è libertà di immaginare e se metto i sogni nei miei film è perché vorrei dare ai miei personaggi questa stessa libertà. Ma io preferisco sognare a occhi aperti, avere degli scatti di immaginazione grazie ai quali mi separo dalla verosimiglianza della realtà, il che non avviene per me necessariamente nel sogno. Alcune volte, abbastanza di rado, anch’io vengo sorpreso da sogni inaspettati, legati a persone care che sono mancate, come mio fratello Piergiorgio, una volta anche Camillo. Ma non hanno rapporto con il mio lavoro artistico, dove magari sono più facilmente recuperabili certe influenze artistiche, non in maniera così puntuale come ha fatto Pasolini ma in modi più sfumati».

Lei ha 83 anni e sta vivendo una straordinaria giovinezza creativa: accetta addirittura di mettersi in discussione andando ai festival in concorso. Cosa che non tutti i suoi colleghi sembrano disposti a fare.

«Ho sempre accettato di andare in concorso ai festival quando me lo proponevano, anche se poi non ho ricevuto molti riconoscimenti. Mi è andata meglio con i premi alla carriera, che ho ricevuto a Berlino, a Venezia e a Cannes. Ma io sono abituato ad ascoltare chi lavora con me: mi dicono che il concorso dà più forza al film mentre il fuori concorso assomiglia a una specie di giubilazione. E allora per il bene della vita commerciale del film accetto di non vincere niente in concorso».

C’è un film che avrebbe voluto fare e non è riuscito a realizzare?

«Mi attraggono certe cose di teatro. Ricordo che dopo aver fatto Zio Vania a teatro pensai di farne un film che però non si fece. Harvey Keitel mi propose di dirigerlo al cinema nel Mercante di Venezia di Shakespeare ma poi mancò il potenziale produttivo per farlo. Peccato, perché avrei potuto misurarmi con la lingua inglese: mi affascinava molto l’idea di essere a Venezia e parlare la lingua di Shakespeare. Avrei voluto fare anche un film su Madame Curie ma poi seppi che qualcuno lo stava già facendo e così abbandonai l’idea. Ecco, queste due o tre occasioni mancate mi hanno lasciato qualche rimpianto. Anche la storia della spia Sorge mi incuriosiva, anche qui per la possibilità di lavorare con due o tre lingue diverse. Questa idea di girare in un’altra lingua che non sia l’italiano mi intriga molto».

«ALL’INIZIO VOLEVO FARE L’ATTORE. POI PERÒ... QUESTA MIA VOCE, CHE IO ADESSO SOPPORTO, ERA COME SE MI DICESSE DI NON PROVARCI»

Non è tentato dal salto bertolucciano verso il kolossal straniero.

«Non lo escludo però ci devono essere le condizioni. Un’idea che ho accarezzato è stata quella di fare un film su Matteo Ricci, il grande gesuita che viaggiò in Cina. Poi però conosco i miei limiti e so le mie fragilità: ci vorrebbe un grande produttore internazionale capace di trascinarmi dentro un’idea così».

All’inizio voleva fare l’attore. Si era iscritto anche al Centro sperimentale per seguire i corsi di recitazione. Nessun rimpianto?

«Nessuno. Anche antropologicamente mi sono strutturato come regista. E poi questa mia voce, che io adesso sopporto, era come se mi dicesse: no, l’attore deve emettere degli altri suoni. Anche perché credo che nel fare il regista e nel comunicare con gli attori, io faccia ancora un po’ l’attore».

«VARI REGISTI HANNO MOGLI MONTATRICI, COME LA MIA FRANCESCA. PENSO A WENDERS. SUL LAVORO C’È DIALETTICA E AFFETTO PER IL FILM»

La montatrice dei suoi film è Francesca Calvelli, che lei ha sposato e con cui ha fatto una figlia. È complicato lavorare con la propria moglie?

«Intanto ho scoperto che molti registi hanno delle mogli montatrici, come Wenders per esempio. Quando inizia il montaggio di un film i nostri rapporti sono molto dialettici, se non addirittura litigiosi — mi sento dire che ho scelto un attore cane o che mi sono dimenticato di fare un controcampo a una scena dove serviva — però ad un certo punto scatta l’atteggiamento di chi vuole fare tutto il possibile per ottenere il risultato migliore. Eliminando ogni tipo di rassegnazione. È un atteggiamento suo ma anche mio: lottare fino all’ultimo per dare al film la sua forma migliore. Così l’atteggiamento diventa molto più affettuoso, di forte reciprocità. E il film recupera forza nella seconda parte».

Estratto dell'articolo di tgcom24.mediaset.it il 3 maggio 2023.

Marco Bocci è stato ospite de "Le Iene" nella puntata di martedì 2 maggio: l'attore si è raccontato in un toccante monologo in cui ha parlato della malattia che lo ha colpito qualche anno fa.  [...] "Quattro anni fa sono sopravvissuto a un virus raro - ha spiegato l'attore e marito di Laura Chiatti -. Mi ha colpito parte del cervello che governa la memoria e la parola".

[...] "Oggi non riconosco i volti di amici, e può capitarmi anche di guardare un film per sei volte prima di accorgermi che l'avevo già visto - spiega ancora -. Ricordo pochi aneddoti della mia infanzia tanto che i miei amici mi chiamano e io rispondo: Ma chi? Ma dove? Ma quando? Perché ripeto in continuazione queste domande. Vivo con Google Maps perché non ricordo le strade dei paesi attorno a dove sono cresciuto e ho dovuto imparare a fare il mio mestiere in un modo nuovo, studiando il doppio".

[...] "Spesso mi sono sentito ignorante, limitato, danneggiato - dice - perché i ricordi che ci portiamo dentro da una vita ci dicono ogni giorno chi siamo. E allora io, che tanti di quei ricordi non li ho più oppure li ho, ma corrotti, mischiati all’immaginazione, chi sono veramente? Me lo sono chiesto spesso.  Poi ho smesso di cercare e mi piace immaginare che anzi è stato invece un colpo di fortuna, che nel mio passato ci fosse qualcosa che dovevo assolutamente dimenticare". 

[...] "Oggi con questa scocciatura ho imparato a convivere, anzi a volte me ne approfitto e fingo di non ricordare cose che invece ricordo benissimo". E conclude: "Ogni giorno rinasco come un uomo che ha lasciato indietro un pezzo del suo passato, per vivere il presente. Un uomo nuovo, e anche se può sembrarvi strano, un uomo felice".

Marco Columbro: «Passai da Lotta Continua al salotto di Berlusconi. I fan per me si riunivano in veglie di preghiera». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.

Il conduttore: «All’inizio rifiutai di dare la voce al pupazzo Five, io speravo in una chiamata di Strehler». Le ammiratrici: «Una telefonava alla mia segretaria due volte al giorno». L’amore: «Da 13 anni sto con Marzia, è solare, mite»

Marco Columbro con la compagna, Marzia Risaliti

Mangiamo uno strudel senza glutine preparato da lui, sotto gli occhi di 12 telegatti e di un Buddha gigante con tanti mala colorati al collo. I settimanali dell’epoca lo avevano ribattezzato «lo scapolo d’oro». Certe sere, a guardarlo mentre metteva il dito «Tra moglie e marito» c’erano cinque milioni di telespettatori, e aveva contro Tg1 e Tg2.

Marco Columbro, come si spiega quel successo?

«Anche se il format era spagnolo, penso di avergli dato un registro preciso: lo conducevo in modo delicato, come una sorta di psicologo».

Momenti imbarazzanti?

«Con il tempo le donne erano diventate più loquaci. Una signora abruzzese raccontò che in spiaggia “tirava fuori le ciocie”: non ci fu verso di farle dire “topless”. Un’altra, che faceva l’amore con il marito sulla lavatrice con la centrifuga».

Chissà quante ammiratrici.

«Una telefonava alla mia segretaria due volte al giorno. Diceva che doveva parlarmi perché mi amava».

Marco Columbro con Sandra Mondaini ai tempi di «Caro Maestro»

E per strada la fermavano?

«Quando facevo Caro Maestro non potevo andare in piazza Duomo a maggio, quando c’erano le gite scolastiche: i bambini mi circondavano, mi chiedevano quando sposavo Elena Sofia Ricci».

Entrò a Mediaset grazie a un pupazzo di nome Five.

«Avevo già dato la voce a sei pupazzi in polietilene realizzati da Kitty Perria ed Enrico Valenti, del Gruppo 80. Un giorno, loro due mi chiamarono per proporre questo “Five” a Telemilano. Risposi un no secco, io aspettavo la chiamata di Strehler!».

Ma cedette e incontrò Silvio Berlusconi.

«Andai con Kitty ed Enrico a fare il provino, svogliatissimo. Berlusconi, che fino a quel momento stava facendo la regia ad Augusto Martelli, si avvicinò e mi diede una serie di indicazioni su cosa cambiare. Io replicai che ero un attore di teatro, con una certa strafottenza. Lui insistette: voleva un personaggio simpatico, donnaiolo, petulante, guerrafondaio e perdente. “Vado a casa e lo preparo”, risposi. E lui: “No no, venga. Lei è un attore di teatro, lo improvviserà”. Stavo tremando, ma quando Martelli cominciò a suonare, io iniziai a prendendolo in giro: “Martellazzi mani da carciofo!” e così via. Berlusconi rise come un pazzo: “È quello che volevo!”».

Andava spesso a casa sua?

«Una sera sì e tre no mi invitava ad Arcore e mi chiedeva di portare la cassetta con il registrato di Five. Mentre noi eravamo in un’altra sala, la faceva vedere ai figli, alla cuoca, al giardiniere e ad altre maestranze. Era la sua indagine di mercato casalinga».

La leggenda narra che lo fece digiunare per 10 giorni, facendogli bere brodi di cipolle.

«Io avevo fatto un digiuno di 10 giorni a Udine, con la mia maestra spirituale. Potevamo bere solo brodi e succhi vegetali, facendo bollire frutta o verdure. La sera, invece, prendevamo sali minerali: serve per purificare il corpo umano, tutto si rallenta, sei in uno stato meditativo continuo».

Cosa c’entra Berlusconi?

«Mi rivide dopo che lo avevo fatto, magro come un chiodo. Lui aveva la pancia gonfia per via di tutte le cene per Publitalia. La faccio breve: mi diede retta e perse 11 chili. Un settimanale titolò che gli avevo fatto fare la fame».

È vero che ha comprato lui la sua casa qui a Basiglio?

«No, non è vero».

Abbiamo ricordato tanti momenti belli. Ma se dico «Ugo»?

«Rispondo aneurisma».

Racconti.

«Ugo era una sit-com. All’inizio dovevo esserne il direttore artistico, scegliere gli attori e avere il pubblico. Mantennero gli impegni solo sulla direzione. E mi fecero rimettere mano con i miei autori solo a 10 delle venti puntate previste. Furono mesi di arrabbiature, la pressione mi salì alle stelle. Cominciai a soffrire di mal di testa fortissimi, ma pensavo alla sinusite. In quello stato andai a trovare mio padre ricoverato a Viareggio, senza sapere di avere già un’emorragia cerebrale. Tre giorni dopo a Biella per una conferenza di geometria sacra mi sentii male: feci in tempo sdraiarmi sul letto e mi risvegliai il 24 dicembre».

I suoi fan organizzarono gruppi di preghiera.

«Ricevetti due sacchi di lettere e telegrammi. Un condominio mi scrisse che si riunivano una volta alla settimana per pregare per me. Era prova del fatto che con il mio lavoro avevo toccato il loro cuore».

Negli ultimi 20 anni ha fatto poca tv. Come mai?

«È un enigma».

Marco Columbro con Lorella Cuccarini nei primi anni 90

Dei colleghi di allora chi sente ancora?

«Lorella (Cuccarini, ndr). Abbiamo formato per 15 anni una bellissima coppia televisiva. Mi piacerebbe ritrovare Elena Sofia Ricci».

In compenso ha fatto tanto teatro. Da ragazzo aveva cominciato con Dario Fo.

«Mi ha insegnato lui a stare sul palco, a occupare lo spazio scenico».

Militò in Lotta Continua.

«Negli anni ‘60 frequentavo la scuola tecnica industriale di Pisa ed erano tutti di sinistra e di Lotta continua. Una volta occupammo l’istituto e venne la polizia a mandarci via. Un mese dopo arrivò a casa una lettera del ministero di Grazia e giustizia che mi incriminava. Mio padre era disperato. Per fortuna ci fu un’amnistia per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica».

Suo figlio ha seguito le sue orme?

«Vive in Portogallo ed è felice: di giorno lavora per un’azienda in smart working e la sera fa il prestigiatore. A 11 anni mi chiese perché non uscivamo mai insieme con la mamma. Gli spiegai che avevo visto sua madre solo tre volte e che poi era nato lui. Oggi so che ha capito».

Nella sua vita c’è Marzia.

«Stiamo insieme da 13 anni: è in gamba, solare, mite. Ha fatto l’attrice, ha vissuto all’estero, tra poco prenderà in gestione la mia Locanda Vesuna, in Toscana. Vuole trasformarla in un polo artistico».

Cosa fa adesso?

«Conduco un programma su Business24 dedicato all’imprenditoria green e alle eccellenze: si chiama Leader. E a fine anno uscirà per Macro edizioni il libro che racconta i miei 40 anni di ricerca spirituale. È un saggio sulla consapevolezza. Il cuore è l’organo più importante che abbiamo: sa ciò che è vero e falso; se siamo in dubbio, basta chiudere gli occhi e ascoltarlo».

Alla tv generalista ci pensa?

«Mi piacerebbe una bella fiction, da coprotagonista. A teatro, invece, sarebbe bello la Pantera rosa: potrei dare molto all’ispettore Clouseau».

Estratto da open.online il 16 giugno 2023.

Il comico Marco Della Noce è diventato popolare in tv partecipando a programmi come “Drive In”, “Striscia La Notizia”, “Mai dire goal” e “Zelig”. Il suo personaggio più famoso è Oriano Ferrari, capotecnico della scuderia. Ma dopo il divorzio dalla moglie è finito in una situazione finanziaria disastrosa. 

Ha accumulato debiti per 700 mila euro e i pignoramenti gli hanno tolto tutto. Ora il tribunale di Monza ha avviato nei suoi confronti una procedura per sovraindebitamento che gli consentirà di estinguere 500 mila euro. Ma una parte dei suoi guadagni sarà ancora trattenuta per qualche anno dal fisco. Lui però in un’intervista rilasciata all’edizione milanese del Corriere della Sera dice di essersi stupito per l’affetto del pubblico. E ringrazia gli amici di Zelig che lo hanno aiutato in concreto. 

Il divorzio dalla moglie

Tutto per Della Noce comincia con il divorzio dalla moglie. E con gli affitti e gli assegni per il mantenimento dei figli non corrisposti. «Rivendico il diritto di fallire», dice oggi con ironia. A causa di pignoramenti, dice, ha dormito nella sua Opel Zafira. Poi è arrivato il tribunale: «È una liberazione, della mente soprattutto. Ho trovato tanta comprensione anche da parte dei giudici. 

Non c’è mai nulla di negativo e basta. La procedura è stata complicata. Applicare la legge del sovra-indebitamento a un lavoratore dello spettacolo era nuovo per tutti. Dopo oltre due anni, con i legali dello studio Pagano siamo riusciti a ottenere l’avvio della sovraesposizione del debito, istituita dopo la crisi economica del 2008». Ma non è ancora del tutto finita: «Per qualche anno ancora, parte dei miei guadagni sarà trattenuta per coprire il debito, che includeva affitti pregressi e assegni di mantenimento dei figli. Ma sono rinato».

Due anni senza spettacoli

È stato due anni senza fare spettacoli. «Non mi lasciavo andare e non agivo d’istinto. Pensavo troppo», spiega. Dice che non poteva essere creativo «perché tutto mi stava scappando via. Non trovavo soluzioni e poi è arrivata la depressione, quindi due anni di cure psichiatriche: uscivo la mattina e tornavo a casa la sera. Prendevo farmaci, ma non mi chieda quali perché non conservo nulla». 

Ha fatto anche qualche lavoro saltuario per ripartire: «Il vigilante notturno al parco di Monza durante uno street food. Avevo anche aperto, con un amico, una società di gonfiabili». Mentre i figli «oggi mi ringraziano per quello che ho trasmesso in questi anni». Anche adesso non è solo un comico: «Sono tutor per We family, un centro di formazione che incentiva il dialogo genitoriale. Sto anche avviando incontri con le aziende per sensibilizzarle sulla centralità della persona in prospettiva orizzontale. Ma con gli spettacoli continuo».

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Marco Della Noce: «700 mila euro di debiti, ero finito a dormire in macchina. Salvato dagli amici di Zelig». Matteo Castagnoli su Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2023.

Il comico, ex Drive in, Mai dire Gol e Striscia la notizia, aveva perso tutto dopo il divorzio con la moglie. Ora il riscatto: il 9 maggio il Tribunale di Monza ha ridimensionato il suo debito col fisco. «Faccio il tutor per famiglie e incontri nelle aziende. Non provavo vergogna, oggi i miei figli mi ringraziano»

La sua carriera inizia nel 1982 al Festival del cabaret di Loano. Lì dove nel 1987 si aggiudica il premio speciale della critica. «Quello che di solito si dà a chi è bravo, ma non fino in fondo. No, scherzo». D'altronde ha trascorso 40 anni a farlo nei teatri e 35 in tv, tra Drive in, Mai dire gol, Striscia la notizia e Zelig, che l'ha fatto entrare nei salotti degli italiani con il suo personaggio più famoso, Oriano Ferrari, il capotecnico della scuderia di Maranello. 

Ora Marco Della Noce ha 65 anni. Ma è nato una seconda volta. La data: lo scorso 9 maggio, quando il Tribunale di Monza ha avviato la procedura di sovraindebitamento che ha estinto quasi 500mila euro di debiti dei circa 700mila che aveva accumulato dopo il divorzio con la moglie. Da lì, l'abisso. Fisco, assegni di mantenimento dei figli, affitti regressi. I pignoramenti non gli avevano lasciato nulla. Era finito a dormire sulla sua Zafira. Quindi la battaglia legale e il riscatto. Adesso è tornato a varcare i palchi a cui si sono aggiunti gli impegni da tutor per le famiglie e nelle aziende. «Rivendico il diritto di fallire», spiega al telefono con quell'accento romagnolo prestato al personaggio di Luigi nel cartone Cars e che si porta dietro dopo cinque anni a Bagnacavallo, nel Ravennate. 

Della Noce, il Tribunale di Monza lo scorso 9 maggio ha ridimensionato il suo debito con il fisco. 

«È una liberazione, della mente soprattutto. Ho trovato tanta comprensione anche da parte dei giudici. Non c’è mai nulla di negativo e basta». 

Un percorso comunque lungo. 

«La procedura è stata complicata». 

Perché? 

«Applicare la legge del sovraindebitamento a un lavoratore dello spettacolo era nuovo per tutti. Dopo oltre due anni, con i legali dello studio Pagano siamo riusciti a ottenere l’avvio della sovraesposizione del debito, istituita dopo la crisi economica del 2008». 

I prossimi passi? 

«Per qualche anno ancora, parte dei miei guadagni sarà trattenuta per coprire il debito, che includeva affitti regressi e assegni di mantenimento dei figli. Ma sono rinato». 

Ha fatto ridere generazioni di persone, per poi disimparare lei stesso. 

«Non a caso mi sono fermato due anni con gli spettacoli. Non mi lasciavo andare e non agivo d’istinto. Pensavo troppo». 

Si riferisce allo sfratto e alle notti da senzatetto nella sua Zafira. 

«Sì, non potevo essere creativo perché tutto mi stava scappando via. Non trovavo soluzioni e poi è arrivata la depressione, quindi due anni di cure psichiatriche: uscivo la mattina e tornavo a casa la sera. Prendevo farmaci, ma non mi chieda quali perché non conservo nulla».

Provava vergogna? 

«Non è una parola che userei. Piuttosto ero spaesato». 

E a cosa pensava? 

«A quale esempio stavo dando ai miei figli. Oggi mi ringraziano per quello che ho trasmesso in questi anni, dove ho fatto lavori saltuari per mettere da parte qualcosa». 

Per esempio? 

«Il vigilante notturno al parco di Monza durante uno street food. Avevo anche aperto, con un amico, una società di gonfiabili». 

Ha avuto la forza di ripartire. 

«Mi hanno aiutato i colleghi e la gente comune. Quando ho toccato il fondo, tutto il gruppo di Zelig si è mosso. Da Giancarlo Bozzo, direttore artistico, a Claudio Bisio, passando per Luciana Littizzetto. Avevano avviato una raccolta fondi. A loro si erano aggiunte le persone che mi avevano pagato una stanza. Da lì passo dopo passo ho trovato una casa. Poi mi ha motivato molto una lettura che ho fatto». 

Quale? 

«S’intitola Evviva il fallimento di Francesco Chesi. Racchiudeva 22 chiavi per trasformare la propria vita». 

Cioè? 

«Vivere il presente e dare un peso alle parole. A questi si aggiungano gli insegnamenti della filosofia buddista che pratico da 35 anni: il punto di partenza è dentro di noi». 

L’affetto dei fan l’ha spinta di nuovo sul palco. 

«Mi ha stupito davvero. Anche di recente qualcuno mi ha chiesto: “Ma quando torni?”». 

Se pensa a Zelig, cosa le viene in mente? 

«Le serate passate a improvvisare fino a tardi. Uno si metteva dietro al bancone e noialtri chiedevamo i drink più strani. Era lì che nascevano i pezzi da portare sul palco». 

Adesso non è solo un comico. Anzi… 

«Faccio diverse cose. Sono tutor per We family, un centro di formazione che incentiva il dialogo genitoriale. Sto anche avviando incontri con le aziende per sensibilizzarle sulla centralità della persona in una prospettiva orizzontale. Ma con gli spettacoli continuo». 

Anche con il suo personaggio più celebre, Oriano Ferrari, il capomeccanico della scuderia di Maranello. 

«E come no, l’ho portato in un live il 5 maggio». 

Impossibile non chiederle della Ferrari allora. Che non sta passando un gran momento. 

«Sono stato il primo a ironizzare su un mostro sacro qual è la Ferrari e per questo mi permetto di essere un po’ polemico: manca una figura di riferimento». 

Quale messaggio vorrebbe lanciare con la sua storia? 

«Il diritto di fallire. Che non è una brutta cosa. In certe culture è quasi necessario perché significa che ti sei ricostruito. E poi non dobbiamo legarci ai messaggi della televisione: non sono veri».

Estratto dell’articolo Alessandra Arachi per “il Corriere della Sera” il 12 luglio 2023.

Marco Ferradini ma lei l’ha mai trattata male una donna?

«Macché. E’ successo il contrario». 

Chi l’ha trattata male?

«La stessa donna a cui ho dedicato la canzone, Teorema». 

Una canzone che è un successo senza tempo.

«Una prima opera che mi ha travolto. Per tutti sono quello di Teorema» 

E invece lei ne ha scritte tante di canzoni.

«Una cinquantina, soltanto quelle d’amore».

Ma noi tutti canticchiamo: «... fuori dal letto nessuna pietà... e allora si vedrai che t’amerà...». E’ quello che è successo a lei?

«A parte invertite, sì. Nella canzone invece è l’uomo che tratta male la donna». 

Chi è questa donna?

«Teresa». 

Ha saputo che Teorema era dedicata a lei?

«Sì gliel’ho fatta sentire appena composta». 

E lei che ha detto?

«Sei uno stronzo». 

Non si è smentita. La sente ancora?

«Dopo 42 anni? No basta». 

Sono passati 42 anni da quando è uscita la canzone e sta ancora tra noi.

«Era il 1981, è un pezzo che continua a rimbalzare. Ogni tanto... hop... e torna su. Prima con il film di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ora la cantano in chiave pop Fiorello e Giorgia. A me non piace la chiave pop, sono affezionato all’originale». […] 

I primi anni Ottanta. Che importanza hanno avuto?

«C’erano gli strascichi degli anni della contestazione, gli uomini non potevano raccontare i propri sentimenti, dovevano fare la rivoluzione. Capiamo: io sono un ex-sessantottino, un hippie. Ma ho trovato il coraggio». 

Di fare cosa?

«Di raccontare me stesso, i miei sentimenti. Ecco il successo: la gente era stufa di concetti finti, pugnetti alzati, slogan vuoti. L’hanno accolta come una liberazione dall’oppressione ideologica».

Poi ha detto di aver scritto tante canzoni d’amore...

«Sì, ma poi si ritorna sempre a quella, non ne esco. In un concerto se non canto Teorema mi tirano le freccette». […] 

Cos’altro ha fatto?

«Il vocalist. Ho lavorato con Eros Ramazzotti. Mina, Toto Cutugno, Giorgio Gaber, Pupo. E poi, fantastiche, le sigle dei cartoni animati». 

Le sigle dei cartoni animati? Quali?

«Tutte quelle degli anni Ottanta». 

Ovvero?

«Per dirne alcune: Tex Willer, Daitarn3, Mazinga, Ufo Robot». 

Ha cantato la sigla di Ufo Robot?

«No, no , facevo il vocalist». 

Cosa vuol dire in pratica?

«A un certo punto di Ufo Robot si sente dire: “Lame Rotanti”, “Alabarda spaziali”. Bene quella è la mia voce». 

Si divertiva?

«Tantissimo. Un mestiere che creava fratellanza fra tutti i vocalist . Teniamo presente che le sigle di queste canzoni le ha scritte un artista del calibro di Vince Tempera. Questo è successo dopo Teorema. Ma c’è anche un prima».

Qual è il prima?

«Negli anni Settanta ho cominciato a cantare con un gruppo che si chiamava “Drogheria Solferino”, che era il negozio di vestiti dell’Equipe ‘84. Sponsorizzavamo il negozio e loro ci davano giacche e pantaloni per i concerti». […]

Marco Giallini compie 60 anni: ha fatto l’imbianchino, l’incidente in moto, 10 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2023

L’attore, che tornerà in tv nei panni del vicequestore Rocco Schiavone, è nato a Roma il 4 aprile 1963

I lavori prima di dedicarsi alla recitazione

Domani sera tornerà su Rai 2 in prima serata nei panni dell'amatissimo vicequestore fuori dagli schemi Rocco Schiavone (protagonista dei libri di Antonio Manzini), ma oggi Marco Giallini festeggia il suo 60mo compleanno. È nato infatti a Roma il 4 aprile 1963, da papà operaio (appassionato di cinema) e mamma casalinga. Forse non tutti sanno che agli inizi, prima di dedicarsi esclusivamente alla recitazione, Giallini ha fatto numerosi lavori: è stato imbianchino ma ha anche consegnato bibite a domicilio. «Facevo l’imbianchino, otto ore - ha raccontato al Corriere -. E la sera, la scuola di teatro. Poi, otto ore erano troppe. Ho iniziato a portare il camion delle bibite, la mattina. Dopo, tornavo a casa, doccia, prendevo il mio Yamaha, andavo a scuola. Parcheggiavo contro il muro, non avevo manco il cavalletto e entravo, col chiodo, i capelli lunghi. Boom! A volte, mi prendevano per uno spettacolo. Un giorno, per strada, avevo il cappello di carta da muratore, incontro un collega attore. Mi guarda: ma che fai? E io: stamo a fa’ un film». In attesa di rivedere Marco Giallini sul piccolo schermo ecco altri 9 segreti su di lui.

Ha fatto l’educatore

«Il mio vero sogno era diventare un insegnante, un mentore mentale - ha raccontato Giallini a Sette nel 2020 -. Quando avevo 25 anni lavoravo nei centri ricreativi estivi: sono passato dall’avere 8 bambini a 46 l’anno dopo. Volevano venire tutti con me. Avevo i capelli lunghi e le mamme erano un po’ preoccupate, ma alla fine ero bravo a fare l’educatore, ci mettevo il cuore. Con qualcuno sono ancora in contatto».

Comparsa in «Grandi magazzini»

Mentre frequentava la Scuola di Arte Drammatica di Roma è stato scelto per fare la comparsa in «Grandi magazzini» di Castellano e Pipolo (1986). Appare nella scena della riunione, accanto ad Heather Parisi e Michele Placido.

L’amicizia con Valerio Mastandrea

Amicizia di lunga data quella tra Marco Giallini e Valerio Mastandrea: fu lui a segnalare l’attore al regista Marco Risi dopo averlo visto in teatro (recitava in «Casamatta vendesi» di Angelo Orlando) per il film «L'ultimo capodanno» (1998). Nello stesso anno i due hanno recitato insieme in «L'odore della notte» di Claudio Caligari.

I complimenti di Vittorio Gassman

In questa intervista al Corriere Marco Giallini ha ricordato i complimenti di Vittorio Gassman ricevuti per «L’ultimo capodanno»: «All’anteprima del film al cinema, al termine della proiezione, mi sento toccare sulla spalla da dietro e una voce profonda dice: complimenti! Io non avevo neanche capito chi fosse ma poi, uscendo dalla sala, riconobbi il braccio cui apparteneva quella mano: era proprio lui, il grande Vittorio, per me un mito. Indossava un elegante cappotto di cammello e stava fumando una sigaretta. Allora mi avvicinai timidamente, non sapevo come apostrofarlo, chiamarlo “maestro” mi pareva eccessivo... Lui capì il mio imbarazzo e mi strinse la mano: era come se avessi stretto la mano a Brigitte Bardot».

Nel videoclip di «Quelli che benpensano»

Marco Giallini è apparso nei videoclip di «Torno subito» di Max Pezzali, «Gino e l’Alfetta» di Daniele Silvestri, «Quelli che benpensano» di Frankie hi-nrg e «Fammi entrare» di Marina Rei.

Il successo dopo anni di carriera

Il grande successo per Marco Giallini è arrivato dopo anni di carriera, nel 2008 grazie alla serie «Romanzo criminale». Negli anni successivi ha recitato in numerose pellicole, da «Io, loro e Lara» di Carlo Verdone uscito nel 2010 ad «ACAB - All Cops Are Bastards» (2012) per la regia di Stefano Sollima, da «Tutta colpa di Freud» di Paolo Genovese (2014) a «Loro chi?» con Edoardo Leo (2015). Il 2016 è stato uno dei suoi anni d’oro, diviso tra due Rocco: quello di «Perfetti sconosciuti» di Paolo Genovese e Rocco Schiavone, protagonista dell’omonima serie tv di Rai 2 per la regia di Michele Soavi tratta dai libri di Antonio Manzini. Nel 2022 lo abbiamo visto in «C'era una volta il crimine» di Massimiliano Bruno, «La mia ombra è tua» di Eugenio Cappuccio e «Il principe di Roma» di Edoardo Falcone.

La passione per le moto (e l’incidente)

Per l’attore le moto sono una grandissima passione (ereditata da suo padre): ne possiede tre. Era in sella ad una di queste due ruote quando nel 2007 rimase coinvolto in un brutto incidente, proprio prima di iniziare le riprese di «Romanzo Criminale»: riportò 52 fratture in tutto il corpo e finì in terapia intensiva. Si riprese e dopo soli 90 giorni si presentò sul set.

L’amore per il rock

Marco Giallini possiede una ricca collezionista di vinili, e ama il rock: tra i suoi gruppi preferiti ci sono i Clash (che ha visto anche in concerto), gli Who e i Sex Pistols. Nei primi anni Ottanta ha fatto parte di una band, i Sandy Banana & The Monitors, un power trio con cui proponeva cover dei Joy Division, e ancora oggi strimpella basso, chitarra, batteria.

Vita privata: la moglie morta e i figli

Nel 1993 Marco Giallini si è sposato, e dal matrimonio con sua moglie Loredana sono nati due figli (Rocco nel 1998 e Diego nel 2004). Purtroppo nel 2011 Loredana è scomparsa prematuramente a causa di un’emorragia cerebrale. «Il pensiero che lei rientri a casa da un momento all’altro dura due anni, poi, capisci che morire è prassi. Non a 40 anni. Non fra le mie braccia, mentre prendiamo le valigie per le vacanze», ha spiegato in una intervista al Corriere. Con Rocco e Diego oggi l’attore è un papà protettivo: «Molto protettivo - ha svelato nel 2020 a Sette - Se il più grande rientra alle 4 io sto sveglio fino alle 4...come faceva papà con me, alla fine. Quando rientravo vedevo la lampada del suo comodino accesa e appena aprivo la porta sentivo il suo clic: era lui che la spegneva. Quando mi capitava di sgarrare e facevo l’alba lo trovavo sul balconcino con la sigaretta, di spalle. Non mi diceva niente se non: li mortacci tua. E andava a letto».

Marco Giallini compie 60 anni. Il talento di un duro dal cuore tenero: "Non faccio bilanci e non festeggio ma mia moglie è sempre con me". Silvia Fumarola La Repubblica il 4 Aprile 2023

Il 4 aprile è il compleanno dell'attore romano. Da 'ACAB' a 'Perfetti sconosciuti', da 'Romanzo criminale - La serie' a 'Rocco Schiavone' una carriera di successi

Il pubblico gli ha voluto bene subito, perché è impossibile non voler bene a Marco Giallini, romano e romanista, faccia da mascalzone malinconico, duro dal cuore tenero: il 4 aprile l’attore compie 60 anni. Il 5 aprile debutta su Rai 2 la quinta stagione di Rocco Schiavone, il vicequestore di Aosta creato da Antonio Manzini (i libri sono editi da Sellerio). "Schiavone invecchia con me” dice Giallini, che, nonostante il compleanno tondo non è un fan dei festeggiamenti (né dei bilanci). “Ma no, non me ne frega niente, per me è come quando avevo 35 anni. Faccio la stessa 'caciara', dico le stesse cose, vado in motocicletta. Il compleanno proprio non lo vedo... da quando avevo 18 anni. Eravamo in tre, mi ricordo: io, Walter e il 'Banana'... Poi dopo non l'ho più festeggiato. I miei figli invece mi festeggiano".

Due ragazzi in gamba, Rocco e Diego, avuti dalla moglie Loredana, tragicamente scomparsa nel 2011 per un'emorragia cerebrale. Parla spesso di lei. “Sempre. Mi viene naturale”, ha spiegato “so di non essere l’unico ad aver perso la moglie, l’amore della vita… È il modo in cui è successo: un momento prima c’era, poi non c’era più. Per me c’è sempre”. I figli sono il futuro: “Il più grande ha iniziato a lavorare nel mondo del cinema come aiuto regista e fotografo, mentre l'altro studia ancora al liceo. Per fortuna non sembrano voler seguire le orme paterne, almeno non la strada dell'attore.

Rocco ha lavorato con Paolo Genovese, ma lui vorrebbe fare l'operatore o lavorare nel reparto fotografia. Diego invece per ora frequenta il Liceo classico... Loro hanno fatto il Classico, per me ‘fare il classico’ significava andarsene in giro in motorino". Prima di recitare ha fatto l'imbianchino e il venditore di bibite. A 22 anni la scoperta del teatro, frequenta la scuola La Scaletta di Roma. Fiero di essere cresciuto in borgata, da ragazzino sognava di diventare rockstar. Nei primi anni Ottanta suona una band, i Sandy Banana & The Monitors, con cui propone cover dei Joy Division. Ancora oggi Giallo, come lo chiamano gli amici, è un grande appassionato di musica.

Tra il 1988 e il 1996 lavora con i grandi del teatro, da Arnoldo Foà a Ennio Coltorti, da Adriano Vianello a Maurizio Panici a Angelo Orlando, che gli affida il primo ruolo importante al cinema nel 1995, la parte di un poliziotto nel film 'L'anno prossimo vado a letto alle dieci'. Giallini si fa notare. E nel 1998 il regista Marco Risi lo chiama per L'ultimo Capodanno; gira con l'amico Valerio Mastandrea L'odore della notte, secondo film di Claudio Caligari.  Da qui la carriera decolla: in Romanzo Criminale del ruolo del Terribile. Tra i suoi film più famosi, due che gli hanno fatto vincere il Nastro d'Argento come miglior attore: ACAB - All Cops Are Bastards di Stefano Sollima e Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, che gli affida il ruolo dello psicanalista padre di tre figlie in Tutta colpa di Freud. Con Sergio Castellitto  gira Non ti muovere e La bellezza del somaro. Con Carlo Verdone Io, loro e Lara e Posti in piedi in paradiso. Poi Io sono Tempesta di Daniele Luchetti, Io sono Babbo Natale di Edoardo Falcone, accanto a Gigi Proietti. In tv, tra i tanti titoli, Buttafuori, Boris 3; dal 2016 indossa il loden e le Clarks, la divisa del vicequestore Rocco Schiavone, personaggio amatissimo protagonista della serie diretta da Simone Spada.

Grande appassionato di moto, nel 2007 rimane coinvolto in un terribile incidente: nonostante il coma e le 52 fratture multiple, Giallini si rimette in piedi in soli tre mesi, per girare Romanzo criminale-La serie con Sollima per Sky. “Sollima mi ha aspettato: ho aperto gli occhi ed ero circondato da Alessandro Roja, Francesco Montanari, Vinicio Marchioni. “Come stai?”. Non li potevo deludere. Tutti pensavano che sarei stato fermo un anno: dopo cinque mesi ho ripreso la moto, non posso farne a meno”.

Ironico, battuta pronta, talento naturale, dice: “Fare il cialtrone mi viene molto naturale, pure troppo. Il mio mito è I vitelloni, il massimo è Vittorio Gassman nel film di Dino Risi Il tigre, era un genio. Essere diventato amico di Alessandro Gassmann è un onore. Solo da adulto ho scoperto Tognazzi, Manfredi. Sordi? Lo tolgo dalla lista perché per me è di un altro pianeta, come Totti. Sono molto legato a Marco Risi, che mi fece il provino dopo avermi visto a teatro: facevo lo spettacolo di Angelo Orlando. Mi ha chiamato per L' ultimo Capodanno e abbiamo girato insieme Tre tocchi, in cui mi sono vestito da donna con Santamaria e Argentero".

"A me", prosegue, "non sembra ancora vero che ormai vivo di cinema, sarà che nella vita ho faticato tanto. A casa mia non c' erano soldi. Ho costruito tutto pezzo per pezzo, ho lavorato tanto… La scoperta più bella è stata l' affetto del pubblico. Non so cosa voglia dire ‘essere famosi’ ma la popolarità, il fatto di ispirare simpatia, mi gratifica”.

Le donne stravedono per lui, ha schiere di fan. Rideva raccontando l’assalto: “Eravamo al Festival della Letteratura di Mantova con lo scrittore Antonio Manzini per Rocco Schiavone. Un casino, tipo l’arrivo dei Duran Duran quando erano al massimo o forse dei Beatles. Ad aspettarci ci saranno state duemila donne dai 12 ai 75 anni, coi cellulari in mano. Le donne sono forti, mica le fermi. Allora ho preso il microfono: ‘Ma se ero pure bello, che facevate?’. Le ho spiazzate e sono scappato con la macchina dei vigili, che figlio di....”.

Marco Masini: «So chi tentò di rovinarmi dicendo che portavo sfortuna. Ho i capelli artificiali: sono giapponesi». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2023

Il cantautore: per la Fiorentina ho anche preso qualche schiaffo. Lo sbaglio più grande? Uno schiaffo che diedi a mio padre, avevo 18 anni. E l’aver suonato la stessa sera in cui è morta mia mamma Annamaria: non riesco a perdonarmelo

Gli «schiacciata party» di Castiglioncello.

«Ogni estate noi quattro bischeri ci si ritrova a casa di Carlo Conti. Io, lui, Giorgio Panariello e Leonardo Pieraccioni. A mangiare focaccia all’olio sfogliando i giornali sportivi con le dita unte, discutendo delle amichevoli d’agosto e degli affari più improbabili del calciomercato. E il più scatenato del gruppo sono proprio io».

Qu ello di «quando sei disperato/ come me senza te», lo stesso di «È la malinconoia/ che uccide a questa età/ è il cuore che si scuoia/ cercando quel che ha già» è quindi l’allegrone della compagnia?

«Eh già. E pure quello che racconta le barzellette, che arriva sempre tardi, che non vuole mai andare a letto, quello che più mi prendono per il c... e più mi diverto, noi toscani siamo così. Carlo è il più saggio. Leonardo, che sembra non prendere mai niente sul serio, invece ha una grande sensibilità».

E Giorgio?

«Milanista sfegatato, ad ogni Milan-Fiorentina ci prendiamo in giro fino alla morte. Però di calcio ne capisce, il ragazzo è competente. E poi Giorgio è molto sensibile, ha passato momenti difficili con suo fratello ed è stato uno dei primi a starmi vicino quando ne ho avuto bisogno, riesce sempre a sdrammatizzare e questo aiuta».

Vi conoscete da una vita.

«Io e Carlo dal 1980, ci siamo incrociati nelle radio private, quando faceva il dj. Scrisse un pezzo per la sigla del programma: “It’s okay it’s all right”, che arrangiai io».

E come andò?

«Beh, chiedetelo a lui (ride). Però i miei veri amici sono anche Riccardo il ferramenta, Giuseppe il rappresentante e Giacomo il parrucchiere, c’erano già prima di Carlo, Leonardo e Giorgio e ci saranno sempre».

Mollò un ceffone a suo padre Giancarlo.

«Lo sbaglio più grande della mia vita. Avevo 18 anni, volevo andare a suonare con la band, sarei stato fuori per tanti giorni, viaggiando in auto di notte. Papà aveva paura. “Tu non ci vai”. “Io fo quel che mi pare”, urlai. E prima che lo facesse lui, gli diedi quello schiaffo. Rimase immobile, incredulo. Non mi punì nemmeno e fu quasi peggio. Gli ho chiesto scusa tante volte, però il rimorso mi resta ancora dentro».

Eppure eravate molto legati, tra sentimenti opposti («Eri il mio più grande eroe/Eri il primo vero amico/Eri assente e irraggiungibile/ Io ti odiavo e te lo dico», da «Caro Babbo»).

«Papà faceva il rappresentante di prodotti per parrucchieri, spesso lo accompagnavo nei suoi giri: era capace di entrare in un negozio per un caffè e uscire con 700 mila lire di ordine. Io stesso ho frequentato un corso tecnico su permanenti e colore».

E si è mai cimentato?

«Non ho mai tinto i capelli a nessuno, tantomeno i miei, però in caso sarei in grado. Nella mia vita ci sono stati tre “Giancarli” importanti, il primo era lui».

Gli altri due?

«Bigazzi, produttore discografico e paroliere. E Antognoni, la bandiera della mia Fiorentina. Siamo amici, gli dico sempre: “Oh, sei l’ultimo Giancarlo che mi è rimasto, non fare scherzi”».

Quante pazzie ha fatto per la Viola?

«Qualche schiaffo l’ho preso. Trasferte impossibili, freddo, treni regionali strapieni, in quattro in una singola più i tamburi, perché ero capo tamburino».

Sognava di diventare calciatore?

«No, mi sono accontentato di giocare per la nazionale cantanti, mezzala destra».

I primi concerti.

«Nelle piazze, nei paesi, alle fiere. Una volta arrivammo in ritardo perché sulla strada c’erano tre tori che non volevano spostarsi».

Nel 1987 fece da voce guida per «Si può dare di più» del trio Morandi, Ruggeri, Tozzi.

«Nello staff di Bigazzi, curavo gli arrangiamenti, ero il più intonato, perciò Giancarlo mi chiese di cantarla, per sentire com’era la melodia».

Nel 1990 vinse il Festival di Sanremo, categoria Nuove Proposte, con «Disperato».

«Vendetti 850 mila copie, tantissime. Però non me la sono goduta come avrei dovuto. Purtroppo gli anni più belli e felici sono anche quelli consumati più in fretta. Sul momento non apprezzi ciò che hai, se li potessi rivivere sarei diverso».

Incontri vip nel backstage del suo primo Festival?

«Non tanti, perché eravamo tutti esordienti. Però ho conosciuto i Pooh, che vinsero con “Uomini soli”. Mi hanno incoraggiato come degli zii, sono tuttora dei fratelli maggiori. E mi hanno insegnato dei trucchi per stare sul palco.

Quali?

«Non si svelano».

L’anno dopo arrivò terzo tra i Big con «Perché lo fai», dietro Riccardo Cocciante e Renato Zero.

«Renato fu carinissimo, un amico anche lui. Mi disse: “Se io smetto, continui tu per me”».

Ma sono tutti amici suoi?

«Molti. Di recente ho legato con Francesco De Gregori, simpaticissimo. Sono stato a vederlo in concerto con Venditti. Mi ha riempito di complimenti, quella sera sono andato a letto felice. Con Antonello ci conosciamo dagli anni ‘90».

Cantava storie tristissime: «Perché lo fai, disperata ragazza mia/ perché ti sdai, come un angelo in agonia».

«Mi accusarono di parlare di droga senza competenza. In quel periodo ricevevo 400 lettere al giorno, in molte c’era scritto: “Sai Marco, dopo averti ascoltato, da domani provo a smettere”. La musica è un linguaggio universale, ero contento di poter fare qualcosa di buono per gli altri».

Dopo di che inanellò altri successi ma con titoli poco televisivi o radiofonici: «Vaffan...o» e «Bella str..za».

«Erano mooolto televisivi invece. Pippo Baudo ci giocò e su Raiuno mi presentò di getto: “E ora Marco Masini Vaffan...o!” All’inizio le radio mi censurarono, poi una sera a mezzanotte Radio Italia, la più conservatrice e politicamente corretta, lo mandò in onda. E da lì tutte le altre».

Chi era la bella str..a? Era forse dedicata a una ex?

«Non ho mai dedicato canzoni a nessuno, scrivo e canto le storie di tutti. Comunque chi nella vita non ha mai incontrato una bella str..a o un bello str...o?»

In effetti. «Ci vorrebbe il mare per andarci a fondo». «Se la malinconia con tutti i suoi ghiacciai/ti paralizza il cuore/se tutti questi se/ li senti dentro te/hai voglia di morire». Fu dopo versi così che cominciarono a girare le voci assurde che lei portasse sfortuna. Nel 2001 annunciò che non avrebbe cantato più: «Non mi rovineranno la vita come a Mia Martini».

«Non volevo ritirarmi, solo avvisare i miei fan che non era colpa mia se non mi si vedeva più in giro. Le tv non mi volevano ospitare. Quelli della mia casa discografica mi comunicarono: “Ci spiace, ma sei un prodotto invendibile”».

Chi era stato a far partire la vergognosa catena?

«Un addetto ai lavori. Lo stesso che, ogni volta che mi si nominava, faceva le corna o altri scongiuri. I colleghi, gli amici, per fortuna mi sono rimasti vicini. Eros Ramazzotti è tra quelli che più mi hanno difeso».

La musica è un ambiente particolarmente cattivo?

«No, è come tutti gli altri. E in ogni campo quel che ti succede dipende anche da te».

Non vorrà mica dire che è stata colpa sua.

«Qualche sbaglio posso pure averlo fatto. Nella scrittura, nel modo di socializzare. L’ho capito e sono cambiato. Mi sono evoluto. Non è stato facile, però avevo la certezza che il tempo aggiusta tutto. C’è chi non arriva a fine mese, quelli sono problemi, io nel complesso mi ritengo molto fortunato».

Il suo peccato di vanità sono stati i capelli.

«Ho cominciato a perderli da ragazzo, quando facevo il servizio militare nella Vam, la vigilanza dell’aeronautica, per colpa dell’elmetto stretto. Non ho fatto il trapianto, ma un rinfoltimento con capelli artificiali, sono giapponesi, tengono fino a 80 kg di strappo».

Della sua vita amorosa si sa poco.

«E continuerete a saperne poco. Ho una compagna da qualche anno, punto e basta».

Ci faccia un riassunto.

«Non mi sono fermato, sistemato, non ho famiglia. Ho amato e sono stato amato, ho tradito e sono stato tradito, ho lasciato e sono stato lasciato».

Qual è più facile, delle ultime due?

«Da giovane si è più bravi a lasciare, dopo c’è sempre l’affetto e quindi diventa più complicato. L’ultima che mi ha lasciato mi ha fatto un favore, risparmiandomi di doverlo fare io».

Ha avuto anche lei le sue groupie, ammiratrici pronte a tutto?

«Anni fa sì. Una volta me ne trovai una in casa, alle quattro di notte, che dormiva nel mio letto. Sul momento, stanco com’ero dopo il viaggio, credevo di essere in hotel e di aver sbagliato stanza. Era entrata da un buco nella recinzione, scavalcando la finestra».

Che cosa le ha detto?

«Scusa ma questa è casa mia, è stato un piacere, ora però ti chiamo un taxi, pago io, e te ne vai».

È in tour per i suoi oltre 30 anni di carriera (sono 33). Rifarebbe tutto, nel lavoro e nella vita?

«Sì. A parte quello schiaffo al babbo. E non andrei a suonare la sera che è morta mia mamma Annamaria. Avevo 18 anni e di lei mi resta un ricordo sbiadito ma dolcissimo, è stata un angelo che mi ha salvato tante volte e mi salva ancora. Stava già male, ma avevo un concerto alla Bussola di Chianciano Terme. Ho rispettato l’impegno. La più grande caz...ta della mia vita».

Marta Donà manager di Mengoni: «Da piccola facevo i compiti nel salotto di zio Celentano. La chat con i Måneskin e i loro genitori». Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

Donà: «Marco Mengoni mi ha convinto a fare questo mestiere. In agenzia siamo tutte donne». Il soprannome: «”Latarma” me lo ha affibbiato Fiorello quando portavo gli ospiti al suo programma»

Perché «Latarma»?

«Perché è l’anagramma di “la Marta”. Era una gag di Fiorello: quando lavoravo in Sony e portavo gli ospiti al suo programma, lui scherzava sul mio nome. Così l’ho tenuto come nickname su Twitter e poi l’ho scelto per la società che ho aperto nel 2016».

Marta Donà compie 40 anni tra un mese. Festeggerà sul palco, come le è capitato spesso negli ultimi dieci anni. Questa volta a San Siro, dietro le quinte del concerto di Marco Mengoni, che non è soltanto l’artista che segue da più tempo — dalla fine del 2011 — ma è quello al quale deve il lavoro che fa. Fu lui a chiederle di diventare la sua manager. Lei rispose: «Sei pazzo». Oggi nel «suo» personale palmarès vanta tre vittorie a Sanremo (due con Mengoni, una con i Måneskin), due podi (entrambi con Francesca Michielin), cinque partecipazioni all’Eurovision (due con Mengoni, poi con Michielin, Måneskin e Alessandro Cattelan da conduttore). Nell’azienda che ha fondato l avorano soltanto donne: in tutto sono 14. Un traguardo inimmaginabile per la bambina di Mira, cresciuta nella Riviera del Brenta, che «da grande» voleva scrivere. In effetti lo ha fatto: nei giornalini di classe, alle elementari e al liceo, e per i giornali locali veneti, dove giovanissima intervistò Piero Pelù e Tiziano Ferro. Poi ha capito che non era quella la sua vocazione e dopo una montagna di fotocopie da stagista, e una parentesi in Spagna, è entrata in punta di piedi in una agenzia di comunicazione, la N&M Management, da lì è passata a Sony come ufficio stampa, finché Marco Mengoni non le ha fatto la proposta indecente.

Come andò?

«Quando mi chiese “Marta, ti licenzi e mi fai da manager?”, la prima risposta fu: “No, non sono in grado”. Quindi gli feci incontrare dei veri manager. Ma lui tornò da me e disse: “In effetti sono tutti più bravi di te, però penso tu sia la persona giusta perché mi fido di te e perché dove non arrivi tu arrivo io. Alle brutte, tu torni in azienda e io mi iscrivo all’università».

Non è stato l’unico matto a fidarsi di lei. Alessandro Cattelan è un altro.

«Soprattutto perché ai tempi non sapevo nulla di televisione! Era appena scomparso Franchino Tuzio, il suo storico agente, un manager fortissimo. Ale ha fatto la pazzia di propormi di costruire qualcosa insieme. Anche con lui, per me, è stata una super sfida. Ho cominciato a studiare, a prepararmi. Con Antonio Dikele Distefano, poi, che aveva già scritto una serie tv per Netflix, è stato un altro salto. Mi piace imparare».

Ha una formazione umanistica: come ha fatto con i primi contratti?

«All’inizio ho chiesto aiuto all’avvocato di Marco (Mengoni, ndr). Sono andata a casa sua: ricordo ancora il divano, la moglie, le figlie, e io con tutti quei contratti davanti che gli chiedevo perché qui è così, perché lì c’è quella clausola? Se i primi tempi qualcuno mi ha sottovalutata, adesso ho la fama di essere una gran rompiscatole. Spero di essere diventata autorevole senza essere autoritaria».

È nipote d’arte: sua zia è Claudia Mori. L’ha aiutata?

«Credo che questa parentela mi abbia agevolata soltanto per fare i primi tre mesi di stage a Milano dopo la triennale in Scienze della comunicazione, editoria e giornalismo presa a Verona».

Sarà cresciuta a pane e musica.

«Per me zio Adriano (Celentano, ndr) era come zio Franco, assolutamente normale. Certo, quando andavamo con i miei fratelli a casa sua e stavamo lì per l’estate, con la nonna, il salotto era abbastanza grande per contenere il divano dove giocavamo o facevamo i compiti e più in là il computer con il microfono. Maturando, vedendo le persone che gli chiedevano le foto, ho realizzato chi fosse».

A lei i compagni di classe non hanno mai chiesto l’autografo di suo zio?

«No, però rivendevo i suoi dischi con l’autografo che facevo io!».

Ha mai assistito a un incontro memorabile?

«Capitava che mio zio incidesse con noi in casa, penso a Io non so parlar d’amore , Acqua e sale, che è un pezzo con Mina. Se devo scegliere un incontro, mi viene in mente il suo abbraccio con Gaber per un programma in tv. Soltanto dopo ho capito quanto fosse significativo per loro».

Ha seguito i Måneskin per più di quattro anni.

«Da prima di X Factor fino all’Eurovision del 2021».

Quando ha cominciato non erano maggiorenni.

«No, a parte Damiano. Thomas aveva 16 anni».

Sarà stato complicato.

«Avevo una chat con i genitori, una con loro e i genitori insieme, e una con loro quattro da soli. Abbiamo condiviso 4-5 anni bellissimi, era impensabile ottenere più di quello che abbiamo ottenuto. Sono molto felice di quello che stanno facendo».

Come vi eravate conosciuti?

«Li avevo visti un po’ prima che loro entrassero a X Factor, in una sala prove. Fin da lì avevano le idee molto chiare sui brani che volevano cantare e performare. Devo dire che hanno avuto la grossa fortuna di avere un coach come Manuel Agnelli, che non li ha snaturati. Penso solo all’esibizione di Damiano sul palo in mutande e tacchi a spillo per Kiss This».

La vostra «rottura» ha colto tutti di sorpresa.

«Ci si lascia tra marito e moglie e ci si può lasciare anche con gli artisti, uno lo mette in preventivo».

Vi sentite ancora?

«È capitato».

Nel 2020 è diventata mamma di Orlando. Si è preoccupata, pensando al lavoro?

«Quando l’ho scoperto è stato uno choc, però bello. Ho avuto la fortuna di lavorare fino all’ultimo giorno, era il 31 marzo del 2020, in una Milano da film tipo The day after tomorrow. Quel giorno è andato in onda un progetto a cui avevo appena finito di lavorare: una maratona musicale di 6 ore trasmessa su Rai 1 per beneficenza».

Orlando viene ai concerti?

«Viene ovunque, ma ai concerti indossa le cuffie. Devo ammettere che mi aiutano molto i miei suoceri e poi il mio compagno, Jacopo».

Il team al femminile de «Latarma» 

Quanti figli ha «Latarma»?

«Adesso cinque, ma alcune ragazze sono giovanissime».

Progetti per il futuro?

«Una nursery in ufficio. E poi a breve una divisione all’estero».

Dismorfismo corporeo, cos’è e come combatterlo. Una patologia che porta all'ossessione su aspetti del proprio corpo che non piacciono. Il dismorfismo corporeo può fare scaturire altre malattie psicologiche. Sofia Dinolfo il 14 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Come si manifesta

 Caratteristiche di chi è affetto da dismorfismo corporeo

 Chi soffre di questo problema?

 Come curare il dismorfismo corporeo

Sempre più persone soffrono di dismorfismo corporeo, una patologia psicologica a seguito della quale ci si concentra su una o più parti del proprio corpo notando dei difetti che, agli occhi delle altre persone appaiono minimi o, addirittura, inesistenti. Tra queste c'è anche Marco Mengoni, il noto cantante laziale, vincitore del Festival di Sanremo 2023. La non accettazione di quella parte del proprio fisico diviene un problema così grande da interferire sulla vita quotidiana. Secondo diversi studi si tratterebbe di un problema che colpisce i giovanissimi da una parte e, dall’altra, i quarantenni che iniziano a fare i conti con i segni del tempo. Come si fa a riconoscere questa malattia? Scopriamolo.

Come si manifesta

Un po’ tutti guardandoci allo specchio siamo soliti trovare degli aspetti del nostro corpo che vorremmo migliorare. Cercare di curare il proprio aspetto fisico, conviverci serenamente e avere il piacere di essere apprezzati, sono sicuramente elementi positivi che aiutano a migliorare lo stile di vita. Ed allora, quando sorge il problema? Qual è la linea che separa la necessità di prendersi cura del proprio corpo dal dismorfismo corporeo?

La patologia sorge nel momento in cui si investono tutte le proprie attenzioni ed energie sul proprio aspetto non accettandolo, seppure sia normale. La non accettazione può essere rivolta ad una parte specifica (spesse volte il naso, la pancia) o a tutto il corpo. Si tratta di aspetti che il diretto interessato non riesce a sopportare e che finiscono per influenzare il suo modo di vivere e che dagli altri non vengono nemmeno notati. Chi è affetto da dismorfismo corporeo si concentra solo su quel problema ignorando di avere una vita, mettendo da parte piaceri e doveri. Si può arrivare anche al punto in cui ci si vergogna tanto del proprio aspetto da evitare di uscire di casa e privarsi della quotidianità.

Caratteristiche di chi è affetto da dismorfismo corporeo

Chi è affetto da questo problema mentale mette in atto dei comportamenti che, inequivocabilmente, sono collegati alla presenza della malattia. Attenzione quindi agli atteggiamenti di seguito elencati:

passare gran parte del giorno a preoccuparsi dei difetti percepiti;

guardare di continuo lo specchio e controllare le parti non accettate;

curare in maniera eccessiva ed ossessiva il proprio aspetto;

essere sicuri che il proprio aspetto attiri gli occhi degli altri per essere compatiti o derisi;

sottoporsi con una certa frequenza ad interventi chirurgici rimanendo insoddisfatti del risultato;

evitare la vita sociale, scolastica o lavorativa per paura di essere oggetto di critiche e derisioni.

Chi soffre di questo problema?

Ad essere maggiormente colpiti dal dismorfismo corporeo sono le donne, ma gli uomini non ne rimangono immuni. Quanto all’età, principalmente, sono due le fasce maggiormente coinvolte, ovvero quelle degli adolescenti e dei quarantenni. Gli adolescenti sono colpiti da questo problema in quanto vivono gli effetti dei cambiamenti che li portano ad assumere la conformazione da adulti. A questo si aggiunge anche il loro atteggiamento mentale che, proprio in questa fase, è vulnerabile e capace di lasciarsi influenzare facilmente dai modelli che vengono proposti dai social. Chi invece ha raggiunto la soglia dei 40 anni, inizia a confrontarsi con le prime importanti rughe e cambiamenti del proprio corpo che si allontanano dai tratti della giovinezza. Il disagio di chi vive il dismorfismo coroporeo può portare ad altre spiacevoli conseguenze come il comparire di problemi di ansia, depressione, disturbi alimentari e disturbi ossessivi convulsivi.

Come curare il dismorfismo corporeo

Difficile combattere questa malattia se non la si riconosce in tempo perché diventa una vera e propria ossessione. Gli esperti del settore aiutano i loro pazienti con la terapia cognitivo-comportamentale e con i farmaci antidepressivi. La combinazione di queste terapie di solito dà buoni risultati con significativi miglioramenti sulla qualità della vita dei pazienti.

Estratto dell’articolo di Andrea Laffranchi per corriere.it il 12 febbraio 2023.

Non dite a Marco Mengoni che è bello . «Potrei rispondervi in tono finto stizzito...». Non fatelo, ma lui è così. «È un atteggiamento figlio della mia storia psicologica... Tutta colpa del dismorfismo, un problema di famiglia». […]

 Il dismorfismo è un disturbo che ci fa percepire difetti inesistenti o più grandi di quanto non siano in realtà. Ci racconta le sue origini?

«Sono cresciuto in una famiglia matriarcale. Nonna Iolanda è rimasta vedova presto e ha fatto la mamma, la nonna e la manager del negozio di famiglia a Ronciglione. Ci teneva all’apparenza, sempre precisa nel trucco e nei capelli, quasi caricaturale. Lei, mamma e zia erano donne bellissime che però nell’intimità soffrivano vedendosi piene di difetti. Si buttavano giù. Quante volte le ho sentite dire “quanto so’ brutta”. Mamma ha delle bellissime gambe e non si è mai messa la gonna, per vergogna...».

A lei i complimenti davano fastidio anche da teenager o è una conseguenza del successo perché temeva che avrebbero coperto il talento?

«Da ragazzino proprio no, nel senso che non pensavo proprio di poter avere appeal. Pesavo quei 106 chili, avevo i capelli lunghi che mi coprivano gli occhi quasi a non voler far individuare il mio stato d’animo. Più avanti ho fatto fatica a capire il confine fra bellezza oggettiva e soggettiva proprio per il dismorfismo, che è una patologia, e così ho iniziato a lavorare su me stesso. È stato difficile accettare che gli altri mi vedessero bello e anche nel mio percorso di analisi e terapia ci siamo incagliati su questo. Alla fine fa piacere sentirselo dire, però penso che la bellezza sia quel condimento in più in un piatto che deve essere già buono».

[…]

L’anno scorso all’uscita di Materia ( Terra ) ha detto di aver preso a schiaffi le sue paure. Scomparse?

«In questi due anni ho imparato a dare il peso giusto alle cose. Se ne è andata anche quella di addormentarmi che era legata alla paura di perdere il controllo. Nella fase di sonno si attiva una zona del cervello che dà sfogo alla parte emotiva. Ancora oggi a volte ci vado in conflitto. E quando accade si riversa pure sul fisico e mi si incricca la schiena... Mi resta forse la paura di perdere i punti di riferimento, ma per fortuna ci sono persone che mi tengono ancorato».

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Il primo ricordo di famiglia?

«Ho il cervello fatto male e la memoria si perde... Mi ricordo di mio nonno paterno, Sestilio, e della malinconia del Natale. Sono nato il 25 dicembre e non ho mai avuto la festa di compleanno. Da bambino avevo un po’ di invidia per gli altri amichetti... Adesso festeggio quando mi pare, invito gli amici e cucino io».

[…] Ritorni al nonno. Che faceva con lui?

«I miei genitori lavoravano molto e sono cresciuto con lui. Mi portava a scuola, a fare gite al lago di Vico, stavo con lui nell’orto e in campagna dove c’erano molti animali. Odio le oche perché quando i miei mi tolsero il ciuccio dissero che se l’era portato via una di loro. Ho visto anche cose orribili per un bambino... un pollo a un certo punto va anche mangiato... ma quelli del nonno facevano una fine migliore di quella che oggi gli riservano gli allevamenti intensivi.

 Serviva a metterti davanti a una realtà forte, ad avere rispetto per la natura. Nonno era un soggetto popolare, era romanista e frequentava un club. Me lo ricordo sempre pieno di fumo. Giocava a carte con gli amici e alla fine mi comprava il Mordicchio, un dolcetto fatto di arachidi caramellate con una confezione gialla e rossa».

Il primo ricordo musicale?

«In famiglia c’era molto talento, mamma cantava nei pianobar, zio suonava la chitarra e organizzava concerti jazz... Alle medie mamma mi obbligò a prendere lezioni di pianoforte. Non sopportavo i solfeggi... All’epoca avevo l’hobby del cavallo, ereditato invece dal ramo paterno. Un giorno papà mi portò una nuova cavalla, una tre quarti imponente e abbastanza nervosa. Eravamo in un noccioleto e lei a un certo punto partì per una cavalcata senza fine. Furono dieci minuti brutti, avevo perso le redini ed ero aggrappato alla criniera.

 Davanti a un ruscello lei si bloccò, smontai e quando mio padre ci raggiunse gli consegnai le briglie e dissi “mai più”. Tornai a casa a piedi. Mollato il cavallo chiesi di prendere lezioni di chitarra. Quindi arrivano le prime amicizie con la stessa passione e a 13-14 anni fondiamo la prima band, The Brainless. Facevamo rock, punk, cover dei Deep Purple e inediti».

Ha scoperto lì la voce?

«No, ero alle tastiere e ai cori. In quei tempi qualcuno iniziò a notare la mia voce e un giorno mamma, sentendomi provare in cameretta, disse “forse dovresti cantare”. Arrivò così un altro gruppo, The Play Mars. Cominciavo a divertirmi, era uno sfogo. Per sostenere la passione investivo i soldi guadagnati nei lavoretti, tipo pulire i cessi dei ristoranti di qualche amico di famiglia durante l’estate, per comprare casse, cavi e strumentazioni varie».

La più grande cavolata che ha fatto quando invece ha iniziato a guadagnare bene?

«Nonno e papà mi hanno insegnato a essere misurato. Vorrei spendere, ma non riesco. Mia cugina, che segue i miei conti, mi dice che ogni tanto dovrei anche portarle qualche fattura. Il massimo è la spesa per colori a olio particolari o pennelli. A proposito di spese non fatte, mi sono confezionato pure le tende di casa con una macchina da cucire (va anche a prenderla per mostrarla ndr ). Nonna era sarta...».

[…]

Si è iscritto all’università. Psicologia.

«Ho avuto problemi a gestire le fasi post tour: tornavo a casa, felice per qualche settimana e poi avevo un crollo. Mi sentivo perso e scappavo per un viaggio. A un certo punto avevo preso casa a New York, il volo avrebbe dovuto essere il 10 marzo 2020 e tre giorni prima hanno chiuso l’Italia... Avevo bisogno di qualcosa per tenere allenato il cervello e la paura degli esami che ricordavo dall’unico anno che ho frequentato in passato era la sola che mi dava l’ansia del pre-concerto. Una tensione che mi fa sentire che esisto».

[…] Lei ha omaggiato le sue radici black nella prima parte del progetto, in Pelle c’è una parte di canzone italiana ( Caro amore lontanissimo , inedito di Sergio Endrigo che è la colonna di Il colibrì , film di Francesca Archibugi tratto dal romanzo di Veronesi; un duetto con Samuele Bersani) e la sua apertura alla contaminazione e alla diversità. In Unatoka Wapi il ritornello è in swahili, in America l’accuserebbero di appropriazione culturale.

«Per quel brano ho collaborato con Clap Clap, produttore che è un’autorità in materia di percussioni africane, ha studiato l’afrobeat sul posto, il suo è un gesto d’amore. Sarebbe espressione dell’estremismo di questi tempi se si parlasse di appropriazione culturale. Ci sono confini terrestri ma credo che la musica debba essere senza».

 Il politicamente corretto è un estremismo?

«Il discorso è delicato. Ho paura degli estremismi, ma certe battaglie devono passare per una forzatura. Le rivoluzioni hanno momenti di picco dopo i quali, ottenuti i risultati, si può allentare la presa».

 Aveva fatto un appello per andare al voto il 25 settembre. Il risultato delle urne la soddisfa?

«Vedo qualcosa che mi spiace ed è l’astensionismo. Il voto è il momento in cui puoi esprimere potere sul tuo futuro. E poi che dico... auguri. Non mi nascondo: c’è stato un voto e non condivido certe posizioni di chi si appresa ad andare al governo. Spero vengano presi provvedimenti utili e che non si regredisca su temi come i diritti, la libertà della donna di fare del corpo ciò che vuole... Se cambiano queste cose mi incazzo e scendo in piazza pure io. Siamo nel 2022, non dimentichiamocelo, e non si torna indietro». […]

Marco Mengoni: «Vinco dopo momenti bui, ringrazio la vita per avermi fatto superare esperienze forti». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023

Il cantante dopo il trionfo a Sanremo 2023: «Ora non riesco a frenare l’emotività. Di notte la telefonata a mia madrema lei non rispondeva: era in piazza a festeggiare»

Marco Mengoni conta le foglie della palma su cui si arrampica il leone del trofeo destinato al vincitore del Festival. «Sono 27, ne darei una a ciascuno degli artisti in gara». Due ore di sonno alle spalle, «oltre 350 messaggi non letti sul telefono», il cantautore riflette sulla sua seconda vittoria dopo quella del 2013 con «L’essenziale».

Ha pianto nel pomeriggio in sala stampa e anche sul palco al momento della proclamazione. Che succede?

«Mi scuso, non ho trattenuto le emozioni. L’emotività è il mio pregio e anche il mio difetto. Non riesco a frenarla. Vorrei essere più professionale e non lasciarmi andare ma sono così. Erano lacrime di gioia che dedico alla donna che mi ha messo al mondo. Ringrazio la vita per avermi fatto superare esperienze forti. Sono momenti bui che però ti forgiano e ti fanno crescere. Sono esperienza di vita privata che non tirerò fuori perché sono delicate e vorrei rimanessero lì».

Perché scusarsi?

«Credo sia una forma di pudore. L’altro giorno l’emozione è salita durante la conferenza e ha interrotto il dialogo e il momento. Le lacrime sono parte della gamma di sentimenti che ogni essere umano prova».

Ha sentito mamma?

«Alle 4 e l’ho redarguita perché non era ancora andata a dormire. Avevo provato a chiamarla due volte prima ma non rispondeva: era a fare festa in piazza a Ronciglione».

Il paesino tutto per lei?

«Erano già carichissimi perché c’erano i festeggiamenti per il carnevale che è una festa molto sentita».

È stato il preferito per tutte e tre le classifiche: sala stampa/radio/web, demoscopica e televoto.

«Che peso... Mi sono sentito come se fossi il primo della classe. Non ho mai amato esserlo a scuola e mi sono sentito a disagio».

Un po’ lo è...

«Ma mi sentirò sempre da meno, mi sento di non meritare. Questo modo di essere mi ha portato sin qui e allora devo restare fedele a questo me stesso per un po’ di anni».

Seconda vittoria: si sente nella storia del Festival?

«È il festival a essere stato consacrato, non io. Ed è accaduto per la vittoria dei messaggi positivi. Ho sentito canzoni che parlavano di fragilità, momenti bui, del fatto che sia normale vivere quei momenti e parlarne».

La canzone parla di confronto fra conscio e inconscio. Domanda marzulliana: la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?

«I sogni sono parte della vita, è il nostro inconscio che parla, la parte più vera di noi, più sincera».

Al momento della proclamazione ha dedicato la vittoria a «tutte le donne meravigliose che hanno partecipato». Perché?

«Avevano canzoni incredibili. C’erano in gara figure mitologiche e ci sono rimasto molto male vedendo che nella cinquina non ce ne fosse nemmeno una come Madame o Giorgia. Bisogna andare avanti per cambiare le cose in questo Paese. All’estero vedo artiste come Beyoncé e Lizzo prime in classifica che si prendono i loro meriti».

Questo successo la rende più sicuro nell’affrontare gli stadi o più autorevole per mandare messaggi?

«Mi sentivo già “grande” dopo prova degli stadi dell’estate scorsa. Non c’è dubbio che questa vittoria mi porterà ad avere sicurezze in più (il suo promoter Live Nation ha annunciato che dall’inizio del festival ha venduto 70 mila biglietti per il tour estivo ndr). Però è servito anche il contrario: fare gli stadi per poi arrivare su questo palco e avere gli strumenti per mettere da parte le ansie e divertirsi. Mi sono sentito come sul palco del mio tour».

Nella cinquina finale c’erano anche tanto soul, gospel, urban, hip hop... quella musica nera con cui lei è cresciuto.

«Va bene che sia più spazio per ogni genere. Tutto fa parte del magico mondo della musica. Anche l’Italia finalmente apprezza quel mondo musicale».

Il presidente ucraino Zelensky ha invitato il vincitore a Kiev...

«Sarebbe bello andarci tutti insieme, più siamo meglio è. Più voci ci sono, prima il messaggio arriva».

Ora c’è l’Eurovision Song Contest a Liverpool.

«Per oggi non c’è spazio per le aspettative: mi voglio godere la vittoria. Mi piace l’idea di conoscere Liverpool, città in cui non sono mai stato. Ma prima ancora devo concentrarmi sulla chiusura del capitolo della trilogia Materia».

I primi due avevano sottotitoli fisici, Terra e Pelle. Al Festival ha parlato di sentimenti e fragilità... sarà etereo il riferimento del terzo?

«Hai quasi ragione... Questo disco concentrerà molti colori. A buon intenditore poche parole».

Lo rifarebbe il Festival?

«Mille volte. Mi sono divertito tantissimo».

 Marco Mengoni ha vinto il Festival di Sanremo. DANIELE ERLER su Il Domani il 12 febbraio 2023

Era il favorito della vigilia e si è confermato vincitore. Secondo Lazza. I cinque finalisti sono tutti maschi e lui se ne accorge: «Dedico questo premio a tutte le cantanti donne che hanno partecipato al fesival», ha detto

Il cantante Marco Mengoni, di 34 anni, ha vinto il 73° festival di Sanremo con la canzone Due vite. Lo ha fatto rispettando perfettamente i pronostici della vigilia e al termine di una cavalcata senza intoppi. È rimasto primo dal martedì al sabato e, per non farsi mancare nulla, ha vinto anche la serata dei duetti e il premio Giancarlo Bigazzi per la musica. Ha dedicato il premio a tutte le donne del festival, sottolineando che i cinque finalisti erano tutti maschi (secondo si è classificato a sorpresa Lazza, terzo Mr. Rain).

Per Mengoni è il secondo successo all’Ariston, dopo quello del 2013 con L’essenziale. Non sono molti gli artisti che possono vantare lo stesso titolo di bi-vincitore fra i big di Sanremo: da oggi lui è il decimo e si affianca, fra gli altri, a Nilla Pizzi, Anna Oxa e Matia Bazar. Solo in tre hanno fatto di meglio: Iva Zanicchi (tre volte), Domenico Modugno e Claudio Villa (quattro volte).

L’EMOZIONE DELLA VITTORIA

L'annuncio è arrivato intorno alle due e mezza di notte. Già al mattino della finale, durante la conferenza stampa in cui era stato accolto da gran favorito, Mengoni aveva dimostrato la sua emozione.

«Questo Sanremo me lo sto godendo tantissimo e vorrei mollare ancora di più le redini», aveva detto scoppiando a piangere. «Uno dei miei difetti è però che sono molto emotivo». In realtà il pubblico italiano non sembra disprezzare questa emotività.

In ordine di classifica, dopo Mengoni sono arrivati Lazza, Mr. Rain, Ultimo e Tananai. Tutti uomini appunto, come ha detto Mengoni.

DUE VITE

In un’intervista a Domani, Mengoni ha spiegato che Due vite, la canzone che ha vinto Sanremo, è una condivisione di ciò che ha vissuto negli ultimi anni. «Anche se all’interno ha un’apocalisse lunare, qualcosa di lontano e di notturno».

È una sorta di viaggio introspettivo, in cui ha imparato ad accettare ogni aspetto della sua esistenza. «E ci siamo fottuti ancora una notte/ fuori un locale/ E meno male/ Se questa è l’ultima/ canzone e poi la luna esploderà/ Sarò lì a dirti che sbagli ti sbagli e lo sai».

DANIELE ERLER. Giornalista trentino, in redazione a Domani. In passato si è laureato in storia e ha fatto la scuola di giornalismo a Urbino. Ha scritto per giornali locali, per la Stampa e per il Fatto Quotidiano. Si occupa di digitale, tecnologia ed esteri, ma non solo. Si può contattare via mail o su instagram.

Il legame con il nonno, il lavoro come barista, il trionfo nel 2013: tutto su Marco Mengoni, il vincitore di Sanremo 2023. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2023.

Il cantautore, 34 anni, ha trionfato di nuovo all’Ariston 10 anni dopo la vittoria con «L’essenziale»

Era arrivato all’Ariston da favorito e aveva provato a stemperare il peso delle aspettative dicendo di volersi divertire senza pensare troppo alla gara: «Se si vince bene, sennò l’importante è partecipare», aveva commentato nelle interviste della vigilia, ribadendolo anche sabato mattina nell’ultima conferenza stampa, quando si era anche commosso.

Ma non c’è mai stata gara, e fin dalla prima sera, il Festival di Sanremo 2023 è sempre stato di Marco Mengoni. Una vittoria annunciata , arrivata 10 anni dopo il suo primo trionfo sanremese con «L’essenziale» nel 2013, per un’edizione che l’ha visto sempre in testa alle classifiche provvisorie, sia nelle serate in cui proponeva il suo brano «Due vite» sia nella serata delle cover, dove è arrivato primo con la sua interpretazione di «Let it be» in chiave gospel.

Tutto il racconto della finale di Sanremo

Il cantautore di Ronciglione (in provincia di Viterbo) ha così aggiunto un nuovo trofeo alla sua collezione di premi, inaugurata alla fine del 2009 quando ha vinto la terza edizione di «X Factor», concorrente della squadra di Morgan nella categoria 16-24 anni, presentatosi ai provini con una voce e un’estensione a cui era impossibile rimanere indifferenti.

Classe 1988, nato il giorno di Natale («Non ho mai avuto la festa di compleanno. Da bambino avevo un po’ di invidia per gli altri amichetti... Adesso festeggio quando mi pare, invito gli amici e cucino io», ha raccontato in un’intervista a 7), Marco cresce con il nonno paterno, Sestilio, perché i genitori sono molto impegnati con il lavoro: «Stavo con lui nell’orto e in campagna», dice. Da ragazzino racconta di aver sofferto di dismorfismo: «Pesavo quei 106 chili, avevo i capelli lunghi che mi coprivano gli occhi quasi a non voler far individuare il mio stato d’animo. Più avanti ho fatto fatica a capire il confine fra bellezza oggettiva e soggettiva proprio per il dismorfismo, che è una patologia, e così ho iniziato a lavorare su me stesso.

Prima di approdare a «X Factor» Marco studia canto: da adolescente si fa le ossa nei locali con un quintetto vocale e poi a 16 anni si lancia come solista, cantando nei piccoli club, ai matrimoni, in ogni situazione gli si presenti davanti. Per comprarsi microfoni e attrezzature musicali, fa il barista e poi il barman, ma anche lavoretti «tipo pulire i cessi dei ristoranti di qualche amico di famiglia durante l’estate», racconta. La passione gli arriva dalla mamma, Nadia Ferrari, che ha un negozio, ma nel tempo libero canta nei pianobar: «Alle medie mi obbligò a prendere lezioni di pianoforte. Non sopportavo i solfeggi...», dice ancora.

Appassionato di equitazione e di pittura, a 19 anni si trasferisce a Roma, iscritto a Lingue, e lavora come fonico negli studi di registrazione. Quando approda a «X Factor» ha 20 anni: vincendo il talent si aggiudica un contratto discografico e anche l’automatica partecipazione a Sanremo, nel 2010, dove arriva terzo dietro a Pupo, Luca Canonici & Emanuele Filiberto e a Valerio Scanu (il vincitore). La sua carriera decolla, tra premi, album e decine di dischi di platino: è il primo italiano a vincere il «Best European Act» agli Mtv Europe Music Awards (lo vince nel 2010 e nel 2015), il primo italiano a cantare alla Billboard Film & Tv music conference di Los Angeles... e la lista è lunga.

Oggi la sua voce riempie gli stadi (lo scorso anno ha debuttato a San Siro con un sold out da 54mila persone e quest’anno si replica, tra Bibione, Padova, Salerno, Bari, Bologna, Torino e Milano) e la sua creatività si lancia in progetti anche eclettici: gli ultimi due album fanno parte di una trilogia, «Materia», che contiene contaminazioni e sperimentazioni, in attesa del prossimo capitolo.

Sanremo 2023, Mengoni: «Prima del Festival 2013 mi davano per spacciato. Sera dopo sera li ho visti tornare». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera l’1 febbraio 2023.

Il cantautore laziale in gara al festival con «Due vite»: «Il brano è un dialogo fra onirico e realtà».

Non fa scongiuri o gesti scaramantici. Soltanto gli occhi un po’ sgranati.

Allora Marco Mengoni, lei con «Due vite» è dato come favorito di questo Festival di Sanremo...

«Un po’ mette pressione... Nonostante questo vorrei divertirmi e non pensare al sabato. Fortunatamente nella mia carriera ho già una statuetta con il leone, l’unico premio che tengo in studio... Se si vince bene, sennò, come diceva qualcuno, l’importante è partecipare».

È la terza volta che si presenta in gara. La prima nel 2010, due mesi dopo la vittoria «X Factor».

«Venni catapultato al Festival, fu un buttarsi e “vediamo che succede”. Ho pochi ricordi e confusi. Arrivammo con una 500 carica di sogni e vestiti... Allora non avevo stylist, truccatori e parrucchieri al seguito.... e guardando foto e video si capisce. Ero immaturo e inconsapevole, caratteristiche che a volte giocano a favore».

Nel 2013 vinse con «L’essenziale», pezzo che le ha svoltato la carriera.

«Il 2012 era stato un anno pieno di cambiamenti. Avevo cambiato manager. Io e Marta (Donà, ancora con lui oggi ndr) eravamo giovani e nessuno credeva in noi. Mi davano per spacciato e finito. È stato strano a Sanremo, mi sembrava di combattere contro tutto. Poi piano piano, sera dopo sera, ho visto che qualcuno mi tornava vicino. Io stesso però mi tiravo schiaffi perché non credevo di poter reggere una carriera. Avevo dubbi, stavo per iscrivermi di nuovo all’università sapendo che la musica sarebbe rimasta nella mia vita ma in altro modo. La vittoria mi ha svegliato dai miei stessi dubbi».

Il suo quartier generale sarà uno stabilimento balneare, ribattezzato Lido Mengoni. Che succede?

«Un punto di ritrovo per scambiare idee, fare attività, giocare a burraco e calcetto. Tutte le mattine ci sarà con me Fabio De Luigi e le nostre chiacchiere in libertà diventeranno un podcast, titolo “Caffé col limone”».

Rimedio per hangover...

«Sono alla ricerca di equilibrio... E la sera prima non devo esagerare con i cocktail...».

Sempre alla ricerca del suo equilibrio personale?

«Da 7 anni dedico un’ora o due alla settimana ai miei pensieri assieme a una terapista. E chiamo questo lavoro su me stesso la mia storia infinita. Non ci si scopre mai... La canzone di Sanremo nasce da un flusso di coscienza fra me e Davide Simonetta (co-autore della musica ndr) durante le session del terzo capitolo di “Materia” che uscirà prima del tour negli stadi».

Di cosa parla?

«È un parallelismo fra la ratio e inconscio, l’alternarsi di queste vite parallele, entrata e uscita dall’onirico al reale. L’inconscio, il mondo di Morfeo, mi dà risposte, a volte pungenti, che l’analisi della vita quotidiana, quindi la ratio, non riesce, o non vuole darmi. “Due vite” però è un brano positivo. Nel testo c’è un’apocalisse ma è lunare, lontana, notturna... A un certo punto parlo di notti buttate via fuori da un locale... Non sono buttati via quei momenti di noia, sono importanti, a me fanno uscire la parte creativa. Mi auguro, quindi, di sbagliare ancora nella vita, di prendere altri schiaffi».

Il video messaggio del presidente ucraino Zelensky previsto per la finale ha diviso la politica. Che ne pensa?

«Condividere la serata con un messaggio di pace è in linea con il mio animo. Non ci vedo proprio nulla di oscuro o negativo».

Lei con «Let It Be» dei Beatles ed Elodie siete gli unici ad aver scelto brani in inglese per la serata delle cover. Come mai?

«Mi sono misurato spesso col cantautorato italiano. Anche a Sanremo nel 2013 con Tenco e l’anno dopo da ospite con Endrigo. Quest’anno porto in gara un pezzo che ha dentro molte parole e volevo confrontarmi con qualcosa fuori dai confini. Quella è una canzone, anzi un inno all’andare avanti. Con me ci saranno 13 voci del Kingdom Choir di Londra, professionisti che hanno cantato al matrimonio di Harry e Meghan, per dare un colore gospel. La contaminazione con la musica afro è parte della mia vita a tal punto che non la chiamerei nemmeno contaminazione visto che ci sono cresciuto dentro grazie agli ascolti di mamma: mi rappresenta, mi libera».

Marco Mengoni dieci anni dopo: "Spero di sbagliare ancora, gli schiaffi insegnano tanto". Ernesto Assante su La Repubblica l’1 febbraio 2023.

Nel 2013 vinceva il Festival di Sanremo con 'L'essenziale'. Ora torna in gara con 'Due vite'. "Essere tra i favoriti mette pressione. Io spero solo di portare qualcosa di bello"

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Chissà se Marco Mengoni ci pensa davvero alla vittoria a Sanremo. Pubblicamente dice di no, si fa così, anche per scaramanzia. Sarebbe strano se non lo avesse fatto: «Ma no, perché pensare di essere tra i favoriti mette un po’ di pressione» dice, «non voglio pensare a quello che può accadere sabato sera. Vado per partecipare, spero di portare qualcosa di bello. Se si vince, bene, se non si vince fa lo stesso. Porto un me stesso diverso da quello di dieci anni fa, alla fine di un percorso, e per me è una festa, mi voglio divertire». Tutto qui, insomma, ed è anche giusto, visto lo status di Mengoni, star del nostro panorama musicale, per il quale in fondo il “passaggio” a Sanremo oggi resta tale.

Marco Mengoni dopo la vittoria a Sanremo 2013 con 'L'essenziale' 

Comunque vada, il festival è solo una tappa di un percorso iniziato a X Factor nel 2009 e passato per Sanremo altre due volte, nel 2010 e poi, con la vittoria, nel 2013. «Del 2010 ricordo poco, al primo Sanremo, appena uscito da X Factor era tutto incredibile, c’era tanta confusione, ero giovane e immaturo e forse era un bene che fossi del tutto inconsapevole. Nel 2013 di vincere non me l’aspettavo — continua — in tanti mi davano già per finito, nessuno credeva in noi, mi sembrava di combattere contro tutti e tutto. Pensavo addirittura di tornare a fare l’università, la musica avrebbe fatto sempre parte della mia vita ma non sarebbe stata il mio lavoro. Invece…». Invece siamo al 2023 e dieci anni dopo la vittoria con L’essenziale Mengoni è ancora in viaggio. Un viaggio che non è solo musicale ma anche personale, una “storia infinita” come la definisce lui, centrata sulla scoperta di se stesso, sul mettere d’accordo, in fondo, proprio le Due vite di cui parla la canzone che porta in gara, che sembra una canzone d’amore e invece è un dialogo con se stesso.

«La storia infinita è quella del lavoro di analisi che sto facendo — spiega — per sua natura infinito perché non ci si scopre mai e si è sempre un po’ in contrasto con una parte di noi stessi. Lo vedo nei miei sogni, l’inconscio mi presenta delle verità che la vita fenomenica non mi mostra. Trovo delle risposte, nella notte, che la ragione non riesce o non vuole darmi perché il cervello cerca di non farti soffrire o tormentare di più. Di certo i miei sogni mi fanno riflettere molto, portano la parte razionale di me su qualcosa che la mia mente non vuole farmi vedere».

Sanremo sarà un’occasione non solo per far partire la terza parte di Materia, ultima parte del progetto in tre album, che è ancora in lavorazione e uscirà probabilmente prima dell’estate, ma anche per proporsi al pubblico in modo diverso, come farà con Lido Mengoni, «un quartier generale, un hub creativo» al Circolo canottieri di Sanremo, nel quale l’artista, attraverso i social, le piattaforme streaming, offrirà momenti di intrattenimento e musica, ritagliandosi ogni giorno un angolo divertente con Fabio De Luigi, un podcast intitolato Caffè al limone in cui commenterà con leggerezza il festival, le notizie, le curiosità della settimana sanremese «senza un copione scritto».

A quasi 35 anni, dopo una lunga sequela di successi, Mengoni non ha paura di sbagliare, «anzi mi auguro di sbagliare ancora perché prendendo schiaffi ho capito molte cose. E sono cambiato. Lo dico nella canzone: ho capito che il tempo che sembra buttato via ci permette di fare cose importanti. Che la noia, che ho sempre disprezzato, fa uscire la parte creativa di te. È una canzone di speranza, c’è del contrasto positivo, quello che ti permette di crescere, nel bene e nel male». E se dovesse capitare di cantare dopo il messaggio di Zelensky? «Condividere la serata con un messaggio di pace è del tutto in linea con quello che è il mio animo. Non ci vedo nulla di oscuro o negativo: aggiungerebbe qualcosa alla mia vita».

Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per repubblica.it martedì 24 ottobre 2023.

Marco Predolin, classe 1951, nasce a Borgo Val di Taro e cresce a Sestri Levante. Diventa famoso all’inizio degli anni ‘80 presentando i programmi televisivi “M’ama non m’ama” e “Il gioco delle coppie” prima su Rete 4 poi su Canale 5 e Italia 1. Dopo un successo senza precedenti, abbandona la tv. Oggi ha un ristorante in Sardegna, a Porto Rotondo, che gestisce insieme alla moglie Laura.

[…] 

di cosa campava?

Fino ai 20 anni avevo la band che era un lavoro part-time. Suonavamo nei locali, partecipavamo a un mucchio di concorsi che non vincevamo mai. Poi è arrivato un ingaggio su una nave da crociera per due anni. Il primo viaggio faceva il giro dei Caraibi, il secondo da New York alle Bermuda.

Com’era la vita in crociera?

Una schifezza, sulla nave eravamo trattati tipo equipaggio con cabine senza bagno. Poi non eravamo nel mood giusto perché se agli americani non fai dello swing non ballano, quindi abbiamo dovuto rivedere tutto il nostro repertorio. 

Alla fine dei due anni è tornato in Italia?

Finite le crociere sbarco a New York e mi faccio tutto il Canada in autostop. Il mio sogno era andare in Polinesia. Invece sono rimasto un paio di anni a Vancouver dove mi han dato il permesso di soggiorno. 

E cosa faceva?

Prima ho fatto l’uomo delle pulizie in una discoteca dove i proprietari erano italiani di origine calabrese. Si chiamava Point After. Sempre nello stesso locale poi ho fatto il cameriere e alla fine il dj. Quindi ho deciso di mettermi in proprio e da buon hippie qual ero mi sono messo a fare delle borse e delle cinture di cuoio che vendevo una bancarella per strada.

A casa non voleva più tornare?

Le stesse persone con cui avevo suonato sulle crociere mi dicono che hanno un contratto pazzesco per andare in Polinesia all'hotel Hilton. E visto che andare in Polinesia era il mio sogno sono tornato in Italia. Ma dopo sei mesi mi sono trovato a suonare in un night club a Lugano con tre piani sotto terra: un posto schifoso! Così sono tornato a Sestri Levante. Avevo circa 24 anni. 

Quando arriva la grande occasione che poi la porterà in tv?

Prima, grazie alla mia conoscenza dell’inglese, comincio a lavorare in alcune radio locali a Genova. E si guadagnava bene. Mia madre era incazzata nera e mi diceva sempre: “Io faccio la maestra e guadagno un terzo di quello che guadagni te”. La svolta arriva nel ‘79 quando partecipo a un concorso per dj a Radio Montecarlo: eravamo in duemila e sono arrivato primo. Iniziando a lavorare in radio in maniera seria ho strizzato l’occhio anche alla tv. Perché in quel momento c’era un gran fermento in quelle che sarebbero poi diventate le reti Mediaset.

Inizia subito a Rete 4?

No, prima ottengo un ingaggio a Canale 51 dove facevo una trasmissione con Memo Remigi. Poi ho fatto un quiz con Walter Chiari, una delle persone che ho stimato di più. Era simpaticissimo e non se la tirava. A Rete 4 arrivo grazie a Paolo Limiti. 

Racconti.

[…] comincio a fare provini per “M'ama non m’ama”. Ma i Mondadori che erano i padroni della rete non mi volevano perché dicevano che non ero conosciuto. Il direttore Davide Rampello mi prendeva in giro “Hai un cognome da ciclista Predolin, dove ti posso mettere?”. Ma alla fine ho sbaragliato tutti i concorrenti e han scelto me. 

Il quiz “M’ama non m’ama”e poi “Il gioco delle coppie” le danno una grande popolarità.

Da speaker di Radio Montecarlo a “M’ama non m’ama” sono passato da essere signor nessuno a non poter più uscire di casa senza essere fermato per strada. […] Però io quel successo non l’ho vissuto bene perché non potevo più fare quello che mi pareva. 

A un certo momento diventa patron delle tre reti Silvio Berlusconi.

Berlusconi l’ho conosciuto in una discoteca in spiaggia a Rimini sotto al Grand Hotel. Dopo una serata in cui eravamo tutti ubriachi e ci eravamo tirati delle cozze, insomma ero tutto sporco, il costumista che lavorava per me mi dice: “Ti presento il nuovo proprietario della tv” e mi porta davanti a Berlusconi che mi ha parlato un‘ora al bancone del bar. 

Che rapporto ha avuto col Cavaliere?

Rapporto è una parola grossa. Con Berlusconi non ci poteva essere un dialogo alla pari, perché non ti lasciava nemmeno parlare. Mica era abituato al confronto con noi comuni mortali. Però era un mito, con un carisma pazzesco e molto simpatico. 

All’apice del successo però scompare dalla tv. Cosa è successo?

A un certo momento capisco che quel mondo mi andava stretto. Poi c’era una produttrice di rete molto dura, che rompeva le scatole e con cui nessuno andava d’accordo. Inoltre di fare i quiz mi ero stancato, cosi sono andato da questa signora e le ho detto: “Non lavoro più”. 

Un salto nel buio.

Nel delirio di onnipotenza che avevo allora per la popolarità mi dicevo “Esco da qui ed entro in Rai in 3 minuti”. In effetti sembrava che dovesse andare così. Comincio a fare un po’ di cosette su Rai 2 e su Rai 3 e poi mi chiamano per presentare un programma di Sergio Japino che si chiamava “Serata a sorpresa” che poi era l’antesignano di “Carramba che sorpresa". Vengo presentato insieme a Gabriella Carlucci al palinsesto a Riva del Garda, vanno in onda tutti gli spot ma il direttore di rete viene cambiato. Per me è stata la fine della carriera televisiva.

Come ha reagito?

È cominciato il grande pentimento. Ho provato a richiamare i vecchi contatti a Mediaset ma nessuno si voleva mettere contro la famosa produttrice che me l’aveva giurata. Era il 1990 

Da un momento all’altro è tutto cambiato.

Ho dovuto riprogrammare tutta la mia vita. Sono finito a fare le televendite di padelle e materassi per le tv minori. Poi per guadagnare un po’ di soldi facevo casini e avevo in corso anche una separazione molto pesante con due figli. Fino al 2010, quando ho aperto il ristorante a Porto Rotondo, ho avuto 20 anni di alti e bassi, di aperture e chiusure di locali, compagnie messe in piedi per fare degli spettacoli, comparse in fotoromanzi, corsi di sub alla Maldive.

È stato un lungo periodo fatto anche di forti depressioni. Quando le porte si chiudono sempre e non riesci a fare niente tutto diventa complicato. C’erano giorni che andavo avanti ad antidepressivi. 

Si è mai pentito?

Non sono un invidioso però ho pensato tante volte, anche oggi, che se avessi fatto il bravo al posto di Paolo Bonolis o Gerry Scotti ci sarei potuto essere io. Conosco tutti i direttori di rete che un tempo mi si gettavano ai piedi, do del tu a tutti, ma se poi li chiamo rispondono: “Sai Marco, c’è un problema”.

A un certo momento è uscita anche la notizia che aveva l’Aids.

Sono dovuto andare al Maurizio Costanzo Show col certificato medico che provava il contrario. Le garantisco che è stata una cosa molto imbarazzante. 

Ha capito chi ha messo in giro la voce?

Quella è stata una leggenda metropolitana messa in giro nel mondo dello spettacolo per farmi male. Andavo in autogrill a bere il cappuccino e sentivo con la coda dell’orecchio “Mi raccomando lava bene la tazzina”. Anche con le ragazze ho avuto un mucchio di problemi.

La luce del sole torna a vederla con il ristorante a Porto Rotondo. Come mai questa scelta?

Dall’oggi al domani, tanto per cambiare, mi dicono che c’è un problema con le televendite e dopo 12 anni mi lasciano a casa. Quindi decido che devo comprarmi un lavoro, e con gli ultimi soldi che avevo ho preso in gestione questo locale a Porto Rotondo. Ovviamente ho fatto la cavolata di aprirne un secondo anche a Milano con l’ennesimo bagno di sangue. 

[…] Ho partecipato anche ad alcuni reality per fare un po’ di cassa o come dico io “non per soldi ma per denaro”. E adesso siamo qua.

[…]

Marco Risi: «L’artista è solo per definizione. Picasso non lavorava in coppia e neppure Caravaggio». Un motto del papà Dino per rivendicare la capacità di estraniarsi. La solitudine creativa, i viaggi, le vacanze e il rapporto tra generazioni. Dialogo a tutto campo con il regista. Antonia Matarrese su L'Espresso il 28 Agosto 2023

Marco Risi, regista, sceneggiatore, scrittore, padre, nonno, figlio di, è un po’ come il quartiere Trieste di Roma, dove ha scelto di abitare da qualche anno: raffinato, flemmatico, intellettuale de core.

Mentre indugia a guardare i villini freschi di restauro a Piazza Caprera, dove si incontrano neolaureati chiassosi con corona di alloro che brindano al futuro incerto e amanti furtivi che si danno appuntamento proprio qui, alle spalle di quel liceo Giulio Cesare cantato da Antonello Venditti, sorseggia un succo alla pesca e inizia a parlare delle vacanze. «I ricordi più belli sono quelli di ragazzino. Come diceva François Truffaut: mi piacciono gli adolescenti perché gli succede tutto per la prima volta. Negli anni Sessanta trascorrevamo le estati a Tor San Lorenzo, un posto selvaggio vicino ad Anzio: il nostro tucul, una casa di paglia, non aveva corrente elettrica né acqua. Già allora i compagni di avventura miei e di mio fratello Claudio erano Carlo ed Enrico Vanzina assieme a Massimo Gualdi e Paolo Lucernari. La sera si andava all’arena per vedere i film: quello che ci spaventò di più fu “La maschera di cera” con un giovanissimo Charles Bronson. Una volta tornati faticammo a prendere sonno. Le giornate al mare erano scandite dalle canzoni di Edoardo Vianello, Michele, Mina che arrivavano dallo stabilimento della Sor’Emilia. Poi ci fu il periodo di Castiglioncello e della prima fidanzatina, Flaminia Sanjust, avevo 12 anni e lei 14. Negli anni Settanta, i miei genitori comprarono la casa al Circeo, dove vado ancora oggi: 91 scalini per arrivare al mare. Sei isolato dal mondo. D’inverno si saliva a sciare al Terminillo, dove mi ruppi una gamba e papà, che era laureato in medicina, si precipitò a soccorrermi, ma anche in Svizzera dove vivono ancora i parenti di mia madre, Claudia Mosca. Ci torno spesso con i ragazzi. E poi il lungo periodo di Todi, dove ho sposato Francesca (D’Aloja, attrice e scrittrice con cui ha condiviso quattordici anni di vita, madre del figlio Tano, 30 anni, ndr), assieme agli amici e colleghi Enzo Siciliano, Bernardo Bertolucci, Guido Torlonia, Marco Tullio Giordana, spesso nostro ospite. Una vacanza che mi torna in mente con particolare nostalgia fu quella alle isole Canarie, durante il periodo natalizio. Io, mamma e papà. L’unica volta di noi tre insieme. Le nostre valigie andarono perse e mamma, accanita lettrice di gialli, ci prestò il libro che aveva con sé in aereo. Ecco, quella fu la prima volta che mi sentii trattato da adulto. Avevo undici anni. Tra i viaggi più divertenti della mia gioventù c’è sicuramente quello con la scuola (il San Giuseppe de Merode in Piazza di Spagna, ndr) nel 1967: un tour fra Canada e Stati Uniti in un momento storico di certo poco tranquillo visto che i disordini erano all’ordine del giorno. L’organizzatore ci portò in un hotel di Pittsburgh che era dentro un bordello».

Una comitiva di burloni. Eppure si fa fatica oggi a immaginare questo elegante e altissimo signore di 72 anni come un tipo da pacche sulla spalla e battute a raffica. «Sto bene anche da solo e penso che solitudine ed estro creativo possano convivere felicemente. E poi l’artista è solo per definizione. Quando scrive, dipinge, compone. Picasso non lavorava in coppia e neppure Caravaggio così come Mozart o Philip Roth. Sartre diceva che all’innamoramento e quindi al rimbambimento che ne consegue, si poteva dedicare al massimo una settimana per poi tornare al proprio lavoro. Mio padre Dino, che di solitudine se ne intendeva, ha trascorso gli ultimi trent’anni della sua vita in un residence, solo, che non vuol dire disperato, semplicemente vedeva le persone che aveva voglia di vedere quando ne aveva voglia. Un’attitudine che forse mi ha trasmesso. Ricordo che un giorno mio zio Nelo (poeta e regista fratello di Dino, scomparso nel 2015, ndr), dopo aver visto un mio film in televisione mi telefonò per dirmi che tutti i miei lavori parlavano di persone solitarie. Credo sia abbastanza vero. Lo era Jerry Calà in “Vado a vivere da solo” oppure Luca Argentero in “Cha cha cha” e ancora i ragazzi di “Mery per sempre” o le tre donne abbandonate dai mariti protagoniste di “Tre mogli”».

Da qui la celebre frase di Dino «se fossi a casa vostra andrei a casa mia» che Marco ha apposto come un mantra sul suo profilo WhatsApp. «Era un pretesto per dileguarsi quando c’erano persone che cominciavano a diventare noiose. Se la serata virava sul moscio, si alzava dalla sedia o dalla poltrona e pronunciava le fatidiche parole, ereditate dallo zio Antonio. Capita l’antifona?».

Nella famiglia Risi, tutta declinata al maschile, l’ultima arrivata è Matilda, 8 mesi, figlia di Andrea, 35 anni, nato dalla relazione con Eliana Miglio. L’unico che non ha seguito il richiamo del cinema. «Ha avuto successo come imprenditore e sta con la stessa donna da quando andavano a scuola. Mio padre pagava i nipoti per non farsi chiamare nonno, io dedico più tempo ai ragazzi, li abbraccio e mi lascio abbracciare, dispenso consigli se richiesti. Del resto, papà girava due film all’anno, io uno ogni quattro anni. In generale c’era poco, mamma c’era di più, la Gina c’era sempre».

Gina era la tata di casa Risi: lombarda, comunista, con una certa antipatia per gli americani. «Diceva che non erano mai stati sulla luna ma avevano ricostruito tutto nei teatri di posa. Sono andata a trovarla con i miei figli due mesi prima che morisse. Era finita in un ospizio e si lamentava». E proprio in un ospizio è ambientato il prossimo film di Marco Risi, co-sceneggiato con Riccardo de Torrebruna e Francesco Frangipane, che uscirà nelle sale in autunno prodotto da Domenico Procacci e Rai Cinema. Nel cast, uno stuolo di mostri sacri del teatro italiano: da Massimo De Francovich a Eros Pagni, da Erica Blanc a Elena Cotta, da Maurizio Micheli ad Ariella Reggio. E poi volti giovani come Alessandro Fella, Roberto Gudese, Lucia Rossi.

«Sono più di dieci anni che giro intorno al tema del film, l’incontro tra due generazioni. È la storia di un ragazzo che una sera ne combina una grossa: invece che mandarlo in galera, lo spediscono in una casa di riposo per un anno intero. Lì conosce un vecchio - Dino, non a caso – sarcastico, scorbutico, cinico ma anche attento e stimolante. Fra i due nasce un’amicizia che porta verso qualcosa che, in questo Paese, non è permesso. Il titolo del film è piuttosto insolito: “Il punto di rugiada” ovvero quando la temperatura esterna si scontra con quella interna e mi è stato suggerito da un anziano avventore del ristorante “Al Padovano”, che frequento solitamente». Ma, una grande vecchia c’è pure in casa Risi: Edith Bruck, scrittrice ebrea di origini ungheresi sopravvissuta ad Auschwitz, vedova di Nelo. «Vado a trovarla quasi tutte le settimane. Ha 92 anni e una testa brillante. Parliamo di affetti, di vita, di politica».

Ecco, la politica, capitolo speculare al suo cinema di impegno civile come ne “Il muro di gomma”, su soggetto del compianto Andrea Purgatori che cofirmò la sceneggiatura. «In passato ho votato anche per Cicciolina e il suo Partito dell’Amore. Oggi confesso di essere parecchio disorientato: mi piacerebbe avere una salda, forte appartenenza a sinistra e sono spesso tentato di astenermi. Ma non si fa. Se penso ai miei film, il più politico è stato “Cha Cha Cha” (uscito nel 2013 e interpretato da Luca Argentero, Eva Herzigova, Claudio Amendola, ndr) mix di faccendieri, intrighi e sottobosco in una Roma decadente».

S’è fatta una certa, come si dice a Roma. I tavoli dei locali si riempiono di clienti. Il sole di agosto lascia il posto alla luna che sbuca tra le chiome degli alberi secolari a Villa Torlonia. Sentinelle della movida, rombante di moto e di chiacchiere.

Marco Risi è pronto per raggiungere la famiglia al Circeo, nella villa disegnata da Michele Busiri Vici, l’architetto della borghesia pariolina che firmò pure il paesaggio urbano della Costa Smeralda nei primi anni Sessanta. Alle spalle, la montagna. Davanti, il mare. Una casa candida. Piena di curve. Come quelle affrontate con spavalderia da Bruno Cortona-Vittorio Gassman nel film “Il sorpasso”. «Eh già, le curve. Quando incontrai papa Francesco a casa di mia zia Edith, finimmo col parlare di cinema. Gli chiesi cosa ricordasse de “Il sorpasso”. E lui rispose sorridendo: “Tutte quelle curve”. All’inizio non capii. Poi qualcuno mi spiegò che, in Argentina, le curve non esistono».

Margherita Buy: «Vogliono inchiodarci al divano a vedere serie, ma un film al cinema vale molto di più». Una produttrice decisa a lasciare il marito, un cineasta egoriferito interpretato da Moretti. Attore e regista de “Il sol dell’avvenire”. L’attrice: “Per lasciarsi ci vuole grande coraggio, ci si sente soffocare ma non si ha la forza di cambiare”. Claudia Catalli su L'Espresso il 2 Maggio 2023 

Ha fatto cinque film con Nanni Moretti e ora vuole lasciarlo. O meglio, è Paola, la produttrice che Margherita Buy interpreta ne “Il sol dell’avvenire”, a voler chiudere quarant’anni di matrimonio con il cineasta egoriferito Giovanni (Moretti). «Un ruolo incoraggiante», lo definisce l’attrice, sottolineando che chiudere una relazione può coincidere con l’inizio di una nuova vita migliore per entrambi. Il suo sodalizio con l’ex marito Sergio Rubini lo dimostra, lo ha scelto per il suo primo film da regista “Volare”, attualmente in fase di montaggio. Intanto Buy attende il 10 maggio, giorno in cui saprà se alla sua collezione di premi si aggiungerà un nuovo David di Donatello come miglior attrice protagonista per la sua magistrale performance in “Esterno Notte” di Marco Bellocchio. 

Che cosa le è rimasto addosso di Eleonora Moro?

«Quel tipo di donna, diversa da me ma ugualmente combattiva, riservata, decisa a rifiutare l’idea di essere una first lady e in questo molto moderna. Ho sentito addosso una grossa responsabilità nei confronti del progetto, di Bellocchio, ma anche di questa donna poco rappresentata. Sono stata felice di raccontare la sua storia».

Che rapporto ha con i premi?

«Sono molto competitiva. Sin dall’asilo, le medaglie, i premi, mi piacciono. Li conservo tutti, un po’ sparsi ovunque, ci parlo pure ogni tanto (ride, ndr). Ma c’è ancora posto a casa, eh».

Parliamo di Nanni Moretti: è “faticoso” come il personaggio che interpreta nel nuovo film?

«Si prende molto in giro, è sempre una persona esigente e con grande rispetto del proprio pensiero, se uno non ci arriva le difficoltà poi ci sono. Per me è diventato semplice, perché lo conosco abbastanza bene lavorativamente, so soprattutto quello che non gli piace».

Cioè?

«Tutto ciò che è artificioso, che stona ed esce fuori dal suo disegno. Se si esce fuori dai puntini si irrigidisce, e lo capisco».

Come le comunica che la vorrebbe in un suo film?

«La prima volta mi è venuto un colpo. Pensavo fosse uno scherzo, ho sentito il respiro corto e ho dovuto prendere dei betabloccanti, un problema cardiaco che mi sono portata dietro per un po’, poi si è risolto. Un’altra volta mi ha passato un trattamento con scritto “Margherita” e detto: “Leggiti un po’ questo”. Questa volta, invece: “C’è un bel ruolo per te, siamo marito e moglie, mi raccomando”».

Non è la prima volta che sullo schermo siete marito e moglie…

«Lo siamo già stati in “Tre piani”, è vero, sempre in crisi».

Questa volta però ha il coraggio di lasciarlo.

«Ho fatto un passo avanti. Per lasciarsi ci vuole sempre un grande coraggio, a volte ci si sente soffocare, eppure non si ha la forza di cambiare. Per la paura di rimanere soli, per l’incertezza delle novità. Eppure se non si cambia non succede niente. Ho trovato molto bello che Nanni assegnasse questo ruolo di cambiamento a una donna, è lei che fa il passo decisivo».

Sarà che le donne sono più coraggiose degli uomini in questo?

«Siamo più coraggiose nei cambiamenti: soffriamo in silenzio per un po’, ma quando decidiamo siamo forti. Ho avuto tanti miei cari che si sono separati in età avanzata, non è mai troppo tardi per reinventarsi una vita e chiudere una storia che non funziona».

Com’è stato cantare “Sono solo parole” di Noemi, considerato che a differenza di Moretti è molto intonata?

«Trovo meraviglioso che Nanni non si vergogni a cantare! Quanto a me, è dai tempi dell’Accademia che amo farlo. Al cinema non mi capita mai, magari il pubblico pensa sia stonata anch’io. Mi ero già divertita a cantare con Nanni “Soldi” di Mahmood, un pezzo non facile tra l’altro».

Nel film interpreta una produttrice decisa a produrre opere controverse ma moderne.

«È la prima volta che interpreto una produttrice, è una donna in cortocircuito che ha bisogno di grande libertà e in questo l’ho capita molto. Fellini diceva che il produttore è un nemico, qui lei invece è un mezzo per far funzionare le cose».

Ha appena finito di girare “Volare”, il suo primo film da regista. Come si è decisa?

«Sono lenta nelle decisioni. Prima della pandemia avevo scritto la storia, poi ho passato la pandemia videochiamandomi con gli sceneggiatori e mi è tornata la voglia di fare, riscrivere, mettermi in discussione. A un tratto sembrava che il film non si facesse più, poi sì, poi no, alla fine è andata. Incredibile, l’ho addirittura girato. Un miracolo».

Che tipo di film sarà?

«Un film leggero, in cui ho scoperto tanti nuovi talenti: mi ha fatto bene, cambiare prospettiva fa sempre bene».

Passata la paura di volare dopo il film?

«No, però è stata un’occasione per parlarne e parlare in generale di come le paure ci condizionino la vita».

Com’è stato autodirigersi?

«Una fatica assurda. Per fortuna il mio film non è come quello di Nanni, è piccolino».

Non ama rivedersi, stavolta è stata costretta.

«Per forza. Sono esperienze nuove e utili, per fortuna per il montaggio posso contare su Francesca Calvelli, bravissima. Resta che quando registi come Nanni mi dirigono non guardo nulla, mi affido totalmente».

Sergio Rubini ha detto che lei è la Meryl Streep italiana, nel senso che è brava come lei ma ha avuto meno opportunità.

«Ma quale Meryl Streep! Semmai dovessimo avere qualcosa in comune è solo che abbiamo avuto modo di sperimentare tanti ruoli molto diversi tra loro».

Riesce a dirsi “brava” oggi, a 61 anni?

«No. Devo ancora capire chi sono».

Che cosa direbbe alla Margherita che frequentava l’Accademia?

«Di avere meno paura. Di vivere all’estero ed esplorare senza timore ciò che non conosce bene».

Rimpianti?

«Rifarei tutte le scelte che ho fatto, mi aprirei solo un po’ di più».

Come vede oggi il cinema italiano?

«È fortissimo, ci sono tante storie e talenti validi, ma come dice Nanni non è sostenuto realmente. Non c’è una trasmissione di approfondimento sul cinema, come anni fa quella del mio amico Vieri Razzini, solo trasmissioni-contenitore di intrattenimento».

Il cinema non interessa in tv?

«L’interesse oggi è tenerci inchiodati al divano a vedere una serie. Invece per me un’ora e mezza in sala vale due milioni di puntate della serie anche più geniale: sono ancora convinta che il cinema possa cambiarci la visione del mondo».

Margherita Buy: «Credo di rappresentare uno dei 2 o 3 principi (saldi) di Nanni Moretti». Al quinto film con il regista romano, con Il sol dell’avvenire che sarà in concorso al festival di Cannes, l’attrice (e ora neo-regista) rientra - non proprio in punta di piedi - nel suo mondo. Per raccontare di un cinema amatissimo e che forse non c’è più, parlare di sogno, cinismo, pudicizia. E di una malinconia che condividono. «Facciamo tutti finta di essere fortissimi e invece...» PAOLA PIACENZA su iO Donna il 15 Aprile 2023

 Isabot no. «Non sono scarpe serie, al massimo pantofole. Dietro i sabot c’è una tragica visione del mondo. Se si coprono le dita non si può lasciare scoperto il calcagno». Rieccoci, con Il sol dell’avvenire (in Concorso al festival di Cannes, ma prima, dal 20 aprile, al cinema), nel mondo di Nanni Moretti. L’ultimo film del regista romano è insieme un viaggio nel tempo e il prosieguo di un ragionamento che dal 1973 – tutto iniziò con il cortometraggio La sconfitta – ci parla di cinema, politica, dolci viennesi, mocassini e crisi varie (della sinistra, del maschio, della famiglia…).

Almeno una scena sarà da prevedere al quartiere Mazzini, sostiene l’autore: «Sembra Budapest negli anni ’50». Il circo Budavari – che nel Sol dell’avvenire fa la gioia dei bambini del quartiere popolare di Roma dove da poco è arrivata la luce elettrica – da lì viene. Ed è il 1956, l’anno dell’invasione sovietica.

Ri-entrare nel mondo di Nanni Moretti, dopo l’escursione in terra straniera di Tre piani, come tra pochi giorni farà lo spettatore e come ha fatto la cronista che ha visto il film in anteprima, rassicura (perché come dice Silvio Orlando che questa volta interpreta un redattore dell’Unità fedele all’ortodossia: «Alla fine per sapere come sta Nanni l’unico modo è vedere i suoi film». Per fortuna ci sembra stia bene).

Ma ritornare in quel mondo anche un po’ commuove: vorremo avere la tenacia che Moretti mette nel difendere un’idea di cinema su cui non è disposto a mollare di un centimetro, né di fronte agli executive di Netflix che parlano di slow burner, arco narrativo e what-the fuck, né di fronte al giovane autore che sta per filmare un’esecuzione a sangue freddo («La scena che stai girando fa male al cinema!»). La produttrice del nuovo talento dal fulgido esordio (Orchi) è Margherita Buy, moglie di Moretti da 40 anni nella finzione, al quinto film col regista romano nella vita e almeno in un’occasione suo alter ego (come avrebbe potuto, se no, pronunciare la battuta: «Oggi ho girato solo primi piani, ma ho litigato un po’ con tutti»?).

I rimpianti della politica

Ricordo la prima intervista che le ho fatto: non era distante da qui. Sua figlia di pochi mesi dormiva nella culla.

E non lasciava dormire me. Ora ha 21 anni…

Il sol dell’avvenire è un film sul tempo che passa, sui rimpianti, molti riguardano la politica. Ma con punti fermi. Moretti lo dice chiaro: «Nella vita due o tre principi bisogna averli».

Non a caso Nanni ha chiamato attori con cui lavora spesso, come me e Silvio. Credo che noi, in fondo, rappresentiamo i suoi principi.

Bello essere i principi di Moretti, impegnativo però.

Questa nostra lunga storia di lavoro e di amicizia forse rispecchia quello che noi dobbiamo essere secondo lui. Gli piace ritrovarsi con certe persone. L’ho chiamato prima, gli ho detto: «Guarda che oggi devo fare l’intervista». «Dì quello che vuoi».

Curioso, perché le interviste con lui sono veri palinsesti su cui si torna e ritorna, che prendono sempre qualche giorno.

Mi ha dato fiducia, lo interpreto così. Credo che Nanni stavolta avesse voglia di ribadire il suo amore per il cinema, anche se il tempo passa. Alcuni di noi, però, restano uguali.

Le interviste, vera sofferenza

La scena girata negli uffici di Netflix lo dice chiaro che il tempo è passato.

È una scena buffa, però questa idea che si debbano fare i film in base a parole d’ordine un po’ ridicole la sperimentiamo tutti, nel bene e nel male.

Lei non ci è cascata, anche lei due o tre principi ce li ha?

Non ci sono stati grandi tentativi di seduzione, non do l’idea di essere tanto corruttibile, mi lasciano stare. Ma non voglio puntare il dito e dire che tutte le piattaforme sono male. Però la scelta che fece Nanni per Tre piani, di non cedere allo streaming quando le sale erano ancora chiuse per la pandemia, e aspettare per programmarlo al cinema, è stata quella giusta. Un segno di coerenza nei confronti della sua storia. E in questo film in fondo lo spiega bene.

Il sol dell’avvenire ci costringe a una riflessione politica, parte dal ’56 e arriva a oggi… Sospira, perché sospira? Le interviste sono una tale sofferenza?

Per la generazione cui appartiene, impossibile che non abbia fatto politica, che non abbia sognato un mondo migliore.

Ma non l’abbiamo portato avanti quel sogno, siamo la generazione che ha creato questa società. Qualche errore dobbiamo averlo fatto. Ci siamo allontanati dalla politica, pensavamo che avremmo sempre potuto recuperare la situazione, ora però forse è tardi. Anzi, stiamo anche tornando indietro su alcune cose, le questioni che riguardano le donne.

Sono calate le aspettative su MeToo?

Non lo so, non voglio parlare a vanvera, ma non vedo un vero cambiamento. Forse qualcosa è addirittura peggiorato: la comunicazione tra uomini e donne per esempio, e questo ha creato una vera incapacità di comprensione. Prima si comunicava di più, magari lottando, faticando, cercando di farsi spazio in un mondo di maschi. Ora non ci capiamo più. E non ci parliamo.

Dove lo vede questo?

Lo vedo nelle giovani generazioni, anche con mia figlia: tra i suoi coetanei c’è poca voglia di ascoltarsi, lei ha difficoltà anche con le sue compagne di università, c’è divisione, non ci sono ideali che vengono portati avanti insieme. Magari dico fesserie, forse è solo una mia impressione.

Nel film ci sono bellissimi archivi. Il finale della Dolce vita, per esempio, con il saluto a Marcello Mastroianni di Valeria Ciangottini, ragazza angelica, simbolo della generazione che verrà, rispetto a quel mondo di anime perdute che Fellini racconta…

È lo stesso saluto che farà Nanni più tardi… Ci sono tanti riferimenti a Fellini nel film. Quello di Nanni, come prima di Fellini, è un cinema che sogna, che si oppone a chi si limita a raccontare in maniera cinica quello che succede nel mondo.

I film cinici, come quello di cui il suo personaggio è produttrice. Come Henry pioggia di sangue?

È quella violenza che ha preso il sopravvento sul sogno, sull’invenzione. Nel Sol dell’avvenire c’è tutto il dolore per un cinema che non esiste più, che Nanni porta avanti con il suo lavoro e con le scelte che fa al Sacher, la sua sala romana.

Ma lei lo guarda il cinema «che ha preso il sopravvento»?

Me ne tengo alla larga. Se vedo violenze psicologiche, sangue, uno a terra sparato, mi butto sui cartoon. Non è una questione ideologica è psicologica. Però capisco che c’è una forma d’arte di tutto rispetto che contiene anche questa apocalisse.

La vocazione d’attrice della figlia

Sua figlia sta facendo l’ingresso in questo mondo. Potrebbe seguire la sua strada.

Lei seguirà la mia strada! Ha una fascinazione per questo mondo, ma la seguirà a modo suo. Sta frequentando l’Accademia nazionale d’arte drammatica.

Quella che ha frequentato anche lei. Una vocazione nata grazie ad Andrea Camilleri, all’epoca docente all’Accademia.

Caterina invece non ha ricevuto suggerimenti da nessuno, sta facendo tutto da sola e ha preso anche la borsa di studio. L’accademia evidentemente le ha restituito consapevolezza per una scelta che comunque aveva già fatto, ma quasi senza accorgersene. Studiare lì ti ricolloca come attore, c’è il teatro, i classici: anche se poi sceglierà di fare cose più contemporanee lo farà con una coscienza diversa. Poi spero che la sua sarà una carriera internazionale, cosa che a me non è riuscita.

Non ha voluto farla. Non credo che non l’abbiano richiesta.

Sono io che non ce l’ho fatta, non ho avuto il carattere. Mia figlia ha vissuto all’estero, parla le lingue, sa stare nel mondo.

Ci sono sedute psicanalitiche nel film e il suo personaggio dice: «Di sesso non voglio parlare». Una pudicizia…

Che è la pudicizia di Nanni.

Però ci sono stati momenti soprattutto all’inizio della sua carriera, in Prestazione straordinaria, in cui c’era un erotismo…

Me l’hanno subito spento.

Avrebbe voluto provarci ancora?

Difficile da dire. Sono stata io che mi sono un po’ censurata, perché forse non mi reputavo all’altezza. O forse non mi sono sentita abbastanza libera e obiettivamente non lo sono. Poi ho fatto la suora… (Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni, era il 1999, ndr). Un po’ mi dispiace, il pubblico maschile è una colonna su cui molte attrici costruiscono le loro carriere, ma io non l’ho saputo fare. (Ride). E ormai…

Il primo film da regista

Lei sta girando il suo primo film da regista (storia di un gruppo di persone decise a vincere l’aviofobia, la paura di volare)…

Non ne parliamo, ne parleremo più avanti, magari brucio tutto, indebitandomi a vita.

Il regista di solito non si indebita.

Non è detto. Ho un senso critico così forte che se vedessi che ho fatto una cosa improponibile restituirei i soldi a tutti.

Tra i ruoli che ha interpretato per Moretti c’è stato anche Moretti stesso. In Mia madre era una regista e si lasciava andare a uno suo sfogo meraviglioso in cui accusava la troupe: «Il regista è uno str… e voi gli permettete di fare tutto!». Ora che è passata dall’altra parte, si lascia mettere in discussione?

Certo, pure troppo. Ma l’idea che tu scrivi una cosa e che tutti si muovono al tuo volere perché quella cosa venga realizzata è pericolosa, si impadronisce di te.

Produce hybris?

Come vivi dopo, quando tutto è finito? Col brindisi di fine riprese finisce tutto, tu continui a schioccare le dita ma nessuno fa più niente per te. Io per ora non sfrutto tanto questo bonus, sono abbastanza tranquilla, ma ho capito che se punti i piedi e urli può essere che ottieni quel che vuoi. Pure quattro elefanti (come in Il sol dell’avvenire, ndr).

Nanni Moretti e Valentina Romani che nel film interpreta sua figlia.

Ha sentito anche lei una malinconia, un senso di rimpianto in Il sol dell’avvenire?

Sì, c’è per forza. Nanni è malinconico, è nato così. Anch’io sono nata così. Ci troviamo. In lui c’è sempre questo pensiero rivolto alla madre che ogni volta mi strugge, perché quello è un vuoto incolmabile. Facciamo tutti finta di essere fortissimi e invece…

Tra le fragilità del suo personaggio c’è quella di non riuscire a lasciare, a chiudere una storia d’amore di 40 anni. Lasciare è sempre complicato?

Ci vuole una grande rabbia. Io ho avuto un esempio in famiglia, mia zia che, in età avanzata, ha deciso di separarsi da mio zio. In famiglia la guardavano straniti: «Sei arrivata fino a qui» le dicevano. «Finisci il percorso». E invece no, io la capisco, la sua è stata una scelta di grande dignità, ci si può ribellare sempre a una situazione difficile, fino alla fine, continuare a vivere storie sbagliate è la scelta peggiore che si possa fare nella vita. E per fortuna chiudere le cose è il primo passo per poi andare avanti.

(Prende i biscottini).

Devo andare a Fiumicino. Sono per il viaggio.

iO Donna

Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per repubblica.it il 17 aprile 2023.

Maria Giovanna Elmi, classe 1940, si divide tra Tarvisio, in Friuli Venezia Giulia, e Roma dove è nata. Volto simbolo della televisione italiana, sia come presentatrice sia come annunciatrice. È stata la prima donna a presentare il Festival di Sanremo.  

(...) 

Nella sua carriera da "signorina buonasera" c'è un clamoroso fuori onda rimasto impresso in tanti telespettatori.

Era il Capodanno del 1979, io ero spesso di turno per le feste anche perché non avendo figli lasciavo libere le mie colleghe. Avevo indossato un abito elegante con le pailettes e mi stavo controllando la scollatura per non sembrare troppo sexy, perché per entrare nelle case degli italiani non bisognava esagerare. Succede però che mentre mi aggiustavo un po' il vestito e i capelli ero in diretta da più di un minuto. Ma ci tengo a dire che non è stata colpa mia

E di chi?

Mi spiego. Davanti a me c’erano due monitor, quello di Rai 1 e quello di Rai 2. Mancava quello di Rai 3, forse perché la terza rete era nata da pochissimo. Nei primi due canali non c'ero più, mentre nel terzo ero ancora in diretta. Quando ho finito mi è arrivata una telefonata, credevo fosse qualcuno per farmi gli auguri. 

E invece?

Alzo la cornetta: “Maria Giovanna, siamo gli avieri di Caserta, ma tu ce voi fa morì!". 

La grande notorietà arriva con “Il dirigibile”.

Era un programma magnifico, una sorta di Sereno variabile per bambini. Io ero Azzurrina. Prima con me c'era Tony Santagata, poi Mal che era bello come il sole con tutte le ragazzine che gli andavano dietro. Una volta aveva la fronte lucida e gli prestai un mio piumino dalla borsa. Un mucchio di fan mi chiesero impazzite quanto volevo per quel piumino.

In quel momento arriva il soprannome che si porta dietro ancora oggi.

Per tutti divento la fatina. Ed è un soprannome che mi tengo stretto perché me lo han dato i bambini. Quando entri nel loro mondo non ne esci più. E ne ho avuto la prova poco tempo fa. 

Racconti.

Avevo fatto una manovra un po’ spericolata in auto. A un certo momento un uomo sulla cinquantina dietro di me esce tutto infuriato, poi quando mi vede sorride e dice “Azzurrina, fatina, finalmente ti ho trovato”.

Lei è stata la prima donna a presentare Sanremo.

Sì, da sola nel ‘78. La prima volta, nel ‘77, con Mike Bongiorno. Mi aveva voluto ordinando un sondaggio su chi fosse il volto televisivo più amato. E sono venuta fuori io. Oltretutto mi dissero dal giorno alla notte che dovevo essere sul palco per l'ultima serata di Sanremo che era l'unica che andava in tv. Tutto compreso nel contratto che avevo. Non come oggi, che per il Festival girano cifre da capogiro.

(...)

In quel momento di grande successo, Playboy le chiede di fare un servizio.

Mi fece una di quelle offerte irrinunciabili che però io rifiutai. 

Poi però posa senza veli per Playman.

Assolutamente no, quello è stato un furto. Ho pianto per giorni pensando che la Rai mi volesse licenziare.

Cosa è accaduto?

Ero in barca con un amico al largo, e questi sono riusciti a farmi degli scatti in cui ero in costume e si vedeva il seno. Incredibile. Non so come possa essere successo.

Poi è arrivato Sereno variabile con Osvaldo Bevilacqua.

Eh sì. Ero sempre in giro per l’Italia e non solo.

In tanti ricordano l’intervista a Sylvester Stallone.

Arriviamo a Tel Aviv dove stava girando Rambo 3. Mi dicono che avrei incontrato un buzzurro. Invece è stato gentile e disponibile. Dopo lo sketch con Bevilacqua dovevamo fare l’intervista insieme. Ci domandiamo cosa fare nel deserto e a un certo punto mi carica su un cavallo nero e parte al galoppo. Alla fine nella sua roulotte ha aperto il frigo pieno di carne e pesce, una puzza esagerata. Lui mangiava solo proteine per il fisico, Mi ha offerto il pranzo ma ho declinato. Ma di personaggi famosi ne ho incontrati tanti. Tony Curtis si era preso una cotta per me. 

Davvero?

Eravamo al Festival del cinema di Taormina. Lui si siede vicino a me e comincia a farmi mille complimenti. Addirittura mi dice che gli ricordo Marilyn Monroe. Il giorno dopo, non trovandomi, si era messo a girare per l’hotel con il mio nome scritto sulle mani. 

È vero che Audrey Hepburn le chiese un autografo?

Eravamo in un ristorante a Roma. Lei era seduta da sola a un tavolo. Arriva un cameriere e mi dice: “La signora Hepburn le vuole parlare”. Nel mentre vedo che ha alzato un braccio verso di me. Io mi avvicino tutta emozionata e lei mi spiega: “Vorrei un autografo per il mio bambino che si chiama Luca ed è innamorato di Azzurrina”. Poco tempo fa attraverso un amico giornalista ho parlato al telefono proprio con Luca e si ricordava della madre che gli aveva portato l'autografo 

(...)

Nel 2005 ha fatto anche l’Isola dei Famosi.

Non mi sono fatta mancare nulla. È stata una bella esperienza, poi a me piace nuotare... Sono un delfino mancato. Mi dispiace solo di essere arrivata terza. Meritavo il secondo posto dietro a Lory Del Santo. Invece la medaglia d’argento è andata alla Signora Coriandoli, che però è arrivata sull’isola dopo di noi. 

Da pochissimo ha ritrovato uno spazio in tv. Nella sua Rai.

All’inizio dell’anno vado ospite nella trasmissione BellaMa' di Pierluigi Diaco. Gli racconto che insieme alla mia ex collega annunciatrice Rosanna Vaudetti avevo proposto due piccoli format alla Rai. Magari da introdurre in un programma che già c’era. Lui non ha voluto sentire storie: "Lo fate con me". Così è partita la Posta del cuore, un momento scherzoso in cui con Rosanna ci stiamo divertendo tantissimo.

Estratto dell'articolo di Luca Pallanch per “La Verità” l'1 maggio 2023.

Come una creatura surreale, Maria Grazia Buccella si è aggirata sui set del grande cinema italiano a fianco dei mostri sacri, non sfigurando mai.

Impossibile dimenticarla. Un personaggio unico, una delle poche attrici nostrane votate per la commedia, grazie all’effetto straniante di chi è sempre fuori posto. Riuscire a bloccarla su una sedia e tempestarla di domande è stata un’impresa. Ne è uscita con la consueta nonchalance. E tanta grazia. 

(...) 

Il suo primo film importante è stato Il boom di Vittorio De Sica, con Alberto Sordi.

«Con Sordi ero così emozionata che non riuscivo a dire neanche mezza parola!». 

Poi ha girato in Argentina Il gaucho di Dino Risi.

«Il gaucho è stato veramente importante. Ho conosciuto Vittorio Cecchi Gori, al quale sono legata da rapporti di profonda amicizia ancora oggi. In quel periodo non avevamo più notizie di uno zio che si era trasferito in Sudamerica, ma non sapevamo dove. Mia madre stava impazzendo. Grazie al console sono riuscita a rintracciarlo, ci siamo messi in contatto con lui e a Natale è tornato in Italia». 

Un ricordo di Vittorio Gassman, protagonista de Il gaucho?

«Che posso raccontare di un personaggio così straordinario come Gassman, così particolare, così tutto? Aveva una mimica facciale pazzesca, detto da un’attrice che non ha mimica. Era molto altruista con gli altri attori, mi dava continue spiegazioni… però come si incavolava quando facevo delle cose che non andavano fatte!». 

C’era anche Nino Manfredi in quel film.

«Molto carino anche lui nei miei confronti, ma completamente diverso come carattere da Gassman». 

In Ménage all’italiana di Franco Indovina ha lavorato con Ugo Tognazzi. Nel giro di due anni è stata al fianco dei quattro grandi della commedia all’italiana.

«Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi e poi De Sica: ero sotto shock! Tognazzi era un altro grande attore, di una simpatia unica. Ricordo le serate che passavamo a casa sua, perché mi ha invitato subito, con mia sorpresa, a Torvajanica». 

La rimproverava anche lui sul set?

«Poteva anche rimproverarmi, però con quella sua parlata lombarda era piacevole. Uno si faceva una risata». 

Un altro film importante della sua carriera è L’Armata Brancaleone di Mario Monicelli.

«Facevo la parte di un’appestata. Quando è scoppiata la pandemia e siamo stati rinchiusi in casa, mi sono sentita come il personaggio di quel film». 

(...) 

Il pubblico la identifica con il personaggio di Dove vai tutta nuda? di Pasquale Festa Campanile, un po’ svampita, tra le nuvole, allegra e divertente.

«Non è che io sia molto diversa da quel personaggio».

Si ritrova?

«Certo che mi ritrovo, anzi mi ritrovo solo in quello, a parte l’abbigliamento!». 

In quel film aveva problemi a girare sul set tutta nuda, o quasi?

«Ero abituata dal nuoto, poi nel cinema ci sono tanti accorgimenti. È più complicato su un palcoscenico. Ho fatto un po’ di cabaret alla francese, nello stile di Rosa Fumetto. Mi spogliavo, canticchiavo, con tutta la mia gestualità, cercando di essere avvincente. Era una cosa spiritosa». 

In casa le hanno mai creato problemi per il nudo?

«Non pochi. Capirai, erano tutti molto religiosi».

Quindi non andavano a vedere i suoi film?

«No, li hanno visti tutti. E mi facevano pure osservazioni su come recitavo! Comunque, mio padre, borbottando, era contento. Forse era anche orgoglioso di questa figlia attrice». 

Un’altra commedia divertente è Ti ho sposato per allegria di Luciano Salce, con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi.

«Veramente bellissimo. Salce era talmente spassoso che mi divertivo di più stando con lui che a girare il film. Mi ha diretto anche in Basta guardarla e Il provinciale, con Gianni Morandi. Monica Vitti era favolosa, però anche lei qualche volta si incavolava». 

Lei invece non si arrabbia mai?

«Come no! Quando mi capita, prendo e parto in quarta. Ho fatto anche un po’ di kung fu». 

Aveva una buona memoria?

«Una memoria pessima. Ho fatto qualche volta teatro, dove la memoria è fondamentale, sapesse cosa ho combinato un giorno…». 

Ce lo racconta?

«In uno spettacolo con Renato Rascel, Venti zecchini d’oro, mi sono dimenticata di entrare in scena. Dovevo uscire da un armadio. Non vedendomi, Rascel ha improvvisato una sceneggiata, inventandosi delle battute, io non uscivo, e allora altre battute, finché è venuto a prendermi. Il pubblico ha applaudito». 

Non avevano capito?

«Non lo so. Poi mi sono esibita spesso con la compagnia del Bagaglino di Pier Francesco Pingitore e Mario Castellacci, con i quali al cinema ho fatto Remo e Romolo e Nerone. Interpretavo personaggi sopra le righe, molto divertenti».

Come mai a un certo punto ha interrotto la carriera?

 «Veramente non ho mai capito quando ho smesso! Comunque, nella vita si cambia, io sono stata presa da altre cose e ho cominciato a viaggiare. A un certo punto ho conosciuto uno scrittore americano, Robert Miller, e con lui sono andata nelle scuole, nelle università a parlare della questione razziale, su cui bisognava sensibilizzare i giovani». 

Adesso le è tornata la voglia di recitare?

«Sì, se è per questo, mi è tornata anche la voglia di ballare».

Potrebbe andare a Ballando con le stelle.

«No, no…». 

Ha sempre mantenuto attorno alla sua vita un alone di mistero, separando nettamente la sfera privata da quella pubblica, e il suo prematuro addio dalle scene ha contribuito ad alimentarlo.

«C’è stato un periodo in cui non mi potevo affacciare da casa perché il giardinetto di fronte era pieno di fotografi. Da una parte mi dava un certo orgoglio, dall’altra mi sentivo impreparata e intimorita». 

Non si è mai sentita una diva?

«Sinceramente no. Ho giocato forse a fare la diva». 

Sul set?

«Anche fuori».

Da ilnapolista.it il 2 maggio 2023.

Su Specchio un’intervista a Maria Grazia Cucinotta. Parla della sua carriera, del suo corpo. A partire dal seno. In passato ha dichiarato: “All’inizio è stato difficile, la gente non mi guardava nemmeno in faccia”. Le chiedono se oggi lo sguardo maschile nei suoi riguardi è cambiato. La Cucinotta risponde: 

«Dipende dalle persone. Ma mica solo uomini: anche donne, e sono perfino peggiori. L’uomo infatti dà un’occhiata e finisce lì, invece le donne ti scrutano per capire se sei vera, se sei rifatta, se hai cicatrici. Ecco, di questo non ringrazierò mai abbastanza mia madre che invece mi ha insegnato ad amare la bellezza altrui, senza invidia». 

La Cucinotta spiega cos’è la bellezza.

«Guardi che la bellezza non è solo un fatto estetico o fisico: è un insieme di tante cose. È carisma, intelligenza, temperamento, portamento. Ci sono delle donne che hanno un’energia meravigliosa, che ti catturano per il loro carattere o il loro sorriso. Ecco, io le guardo sempre ammirata, mai con invidia: per me la bellezza è un dono che alimenta la creatività, è una gioia per gli occhi che ispira voglia di vivere».

Ci sono stati altri ostacoli nel corso della sua carriera? La Cucinotta parla del razzismo verso i meridionali.

«Be’, all’inizio la mia provenienza meridionale non ha aiutato perché, non c’è niente da fare, il razzismo purtroppo esiste. Io lo considero una malattia mentale per cui si creano delle stratificazioni sociali sulla base delle origini delle persone. Il luogo di nascita invece è solo un punto di partenza: tutti abbiamo le stesse possibilità. 

Ecco, in questo mi ha salvato l’America: mi seguiva la stessa agenzia di Charlize Theron che, pur essendo una donna bellissima, ha comunque interpretato ruoli di primo piano, senza alcun problema. In Usa guardano infatti solo ai risultati al botteghino, senza pregiudizi personali. Ed è giusto così perché noi lavoriamo per il pubblico. Invece qui in Italia molti vivono per sparlare degli altri. All’inizio me ne hanno dette di ogni colore, poi però si sono zittiti».

Sulle scene di nudo:

«Ogni tanto alcuni registi frustrati sfogano le loro mancanze nel cinema ma basta dire “no” e non farle. Io lo metto addirittura in ogni contratto: o mi prendono a queste condizioni, oppure ciao. Sono dell’idea che non bisogna accettare un film per forza, a tutti i costi, anche perché, diciamocelo, c’è sempre qualcuno che interpreterebbe quel ruolo meglio di te. Ripensando alle mie scelte, non sento quindi di aver perso l’“occasione della mia vita” perché so che, presa da mille ansie, avrei fatto male quel lavoro. Intendiamoci, non ho nulla contro il nudo: è il mio nudo a non piacermi. Per funzionare le scene di intimità devono essere eleganti mentre il mio fisico formoso rischia di risultare volgare». 

La Cucinotta ha fatto uno spot per gli integratori per la menopausa.

«La menopausa in questo senso è liberatoria: ci siamo tolte finalmente una gran rottura di scatole. Noi donne trascorriamo un’intera vita “appese” agli ormoni. Se dovessi rappresentare la mia categoria, disegnerei un enorme ormone gigante con noi donne sopra, che cerchiamo di restare in equilibrio. Quando sei ragazza hai infatti i brufoli, e poi il seno gonfio, e i dolori di pancia. Poi ti passa il ciclo e arrivano le vampate, gli sbalzi di umore. Alla fine, però, si trova un equilibrio. Personalmente quando l’ormone è andato, l’ho lasciato fare: non ho optato per le cure sostitutive. Però faccio palestra, seguo una dieta, uso integratori e ceno alle sei per evitare le vampate notturne».

Ha paura della vecchiaia? 

«No, sarebbe come avere paura di vivere. Invecchiare tra l’altro è un grande dono: da anni sono ambasciatrice della Komen Italia e stare con donne che, ogni giorno, lottano per sopravvivere mi ha insegnato a dare valore al tempo che passa». 

Teme invece la morte?

«Non la mia, perché da credente sono certa che ci sia un dopo. Mi terrorizza la morte altrui: la perdita crea un baratro che non va più via».

Estratto dell’articolo di Andrea Parrella per fanpage.it il 25 giugno 2023.

La vicenda di Maria Sofia Federico, l'attivista 18enne che da mesi racconta la sua scelta di entrare nel mondo del sex work e del porno alla corte di Rocco Siffredi, non è una semplice questione pruriginosa, ma un caso che sta forzando i confini del dibattito pubblico. È una storia che tira dentro al discorso i nostri costumi, il nostro rapporto con la sessualità, la genitorialità (se consideriamo le parole del padre di Maria Sofia Federico). 

Per questo se ne deve parlare, con tatto ma bisogna farlo. Ne abbiamo discusso con Andrea Maggi, docente e scrittore divenuto noto pubblicamente per il suo ruolo di insegnante de Il Collegio, programma Tv al quale la stessa Maria Sofia Federico ha preso parte nel 2019. […] 

Lei in questi giorni ha parlato della vicenda Maria Sofia Federico in risposta ad alcune domande sui social. Perché la sua posizione è critica?

Premetto di essere per la libertà di espressione, contro ogni forma di censura. Se una persona ha deciso di intraprendere un determinato percorso ed è maggiorenne, come lo è lei, che Dio la benedica. Tuttavia, io sono perplesso perché dal mio punto di vista, in questa battaglia per la libertà di costumi Maria Sofia Pia Federico è, a tutti gli effetti, un corpo estraneo.

Cosa intende per corpo estraneo?

Ha voluto sposare una causa pur avendo vissuto in quell'ambiente sempre a livello amatoriale e mai come professionista, senza adeguata preparazione. Se da un lato questo le fa onore, io penso anche che non abbia gli strumenti per portare avanti la causa in maniera credibile. Ci si è gettata a capofitto, direttamente in prima linea. 

Quale strada avrebbe dovuto seguire, invece?

Secondo me avrebbe potuto sostenere certe istanze e tematiche in altro modo. È una ragazza di rarissima intelligenza e potrebbe fare queste battaglie, tranquillamente, anche senza l'uso delle performance. 

In quanto corpo estraneo, in quanto attrice amatoriale, non credo che nell'ambiente professionistico delle sex worker lei sia accolta molto bene. Approfitto per suggerire un sondaggio: quante delle sex worker la considerano un contributo e quante un'interferenza alla causa? Sarebbe curioso capire meglio la percezione di chi lavora in quel mondo. […] 

C'è però chi crede che Maria Sofia Federico sia troppo giovane per una cosa di questo tipo. Ma non è proprio quando non si è "contaminati", immaturi, che si impara il proprio rapporto con la sessualità? 

[…] Un punto cruciale, secondo me, è che il pubblico di Maria Sofia sui social credo sia costituito per la maggior parte da minori, anche da pre adolescenti. Questo significherebbe che alcune tematiche da lei portate avanti, condivisibili o meno, sono poste in maniera a volte non consona all'età dei suoi follower. 

Sui social bisogna porsi sempre pensando a chi hai davanti. Mi viene in mente la scena della lezione di sesso dei Monthy Python, con il professore che per spiegare il sesso agli alunni fa venire sua moglie e si accoppia con lei sulla cattedra. Dal punto di vista dello humour fa molto ridere, però diciamo che se noi dovessimo spiegare a scuola l'educazione sessuale così, ci sarebbe la rivolta di popolo. […]

L'educazione sessuale resta una questione di primaria importanza. Il caso di Maria Sofia Pia Federico rimanda a questo tema. C'è carenza nelle scuole italiane?

Secondo me, alla luce di una liberalizzazione della pornografia e del sesso – e non lo faccio come discorso moralistico – in Italia l'educazione sessuale a scuola dovrebbe essere incrementata. Ci vuole maggiore preparazione e consapevolezza di se stessi e degli altri, soprattutto per trasmettere il rispetto degli orientamenti e delle scelte. Di fatto, l'approccio alla sessualità un giovane lo fa da solo. 

A scuola è calato un tabù, se ne fa troppo poca, anche rispetto a quando ero studente io e c'era un minimo di approccio ed educazione alla sessualità sia alle medie che alle superiori. […]

La pornografia rischia di sostituire l'educazione sessuale?

Trattandosi di pornografia e non educazione, non può supplire, perché di fatto è show, il corpo diventa materia di speculazione. Ma è chiaro che molto spesso i ragazzi, che hanno accesso a numerosissimi canali in cui possono fruire dello spettacolo della pornografia, vengono messi di fronte a un teatro per il quale non sono preparati. Questo non fa bene allo sviluppo di una sana sessualità. Può diventare divertimento, ma nulla ha a che vedere con l'educazione. 

Può esserci un legame tra la poca educazione sessuale e un caso come quello di Maria Sofia Federico?

[…] Io le auguro ogni bene possibile, ma conoscendola, credo lei stia agendo di pancia, da Giovanna d'Arco del porno, senza il giusto seguito, ad esempio un manager. Dall'altra parte senza che nessuno nel mondo del sex work la stia considerando come una Giovanna d'Arco del porno. 

Insomma, la mia percezione è che stia combattendo una battaglia da sola, ma poi sarò felice di essere smentito. Se risulterà effettivamente la Giovanna D'Arco del porno che avanza queste istanze di libertà, non potrò che farle gli auguri. 

Perché si riferisce ad un manager?

Perché nel caso in cui avesse un manager significherebbe che ha una strategia e anche una exit strategy. Significherebbe poterne uscire eventualmente pulita- In caso contrario si sta gettando da sola in questa missione potenzialmente suicida, perché è un tritacarne che potrebbe spolparla viva ed è quello che non mi auguro. È vero che è maggiorenne, ma è giovanissima. Certi errori sono a senso unico, a volte ci precludono determinate strade e mi auguro non sia così per lei. […]

Estratto da leggo.it il 24 giugno 2023.

Maria Sofia Federico, ultimamente, è sotto i riflettori dei media perché, prima, dalla trasmissione Il Collegio è passata a OnlyFans e, poi, ora, ha deciso di partecipare all'Academy del porno di Rocco Siffredi. La 18enne, in tutte le dichiarazioni rilasciate, ha detto che questo progetto le sembrava interessante, in quanto, desidera affinare le sue competenze per quanto riguarda il sex work e, poi, perché crede fermamente di potere arricchire il proprio bagaglio culturale. […] 

L'avventura di Maria Sofia Federico all'interno dell'Academy di Rocco Siffredi è finalmente cominciata e sui social iniziano a circolare i primi video delle "attività" svolte dagli aspiranti attori per farli conoscere meglio. Tra i giochi proposti c'era anche quello "della sedia" ovvero: quando finisce la musica bisogna cercare di sedersi prima che qualcuno si prenda il posto.

Nella scuola della porno star questo gioco viene reso un po' più hot: alcuni attori o coach sono già seduti e, quindi, le ragazze devono accomodarsi sopra di loro. Così, è successo che Maria Sofia, quando si è fermata la musica, si è lanciata sopra le ginocchia di Rocco Siffredi in una posizione abbastanza eloquente, mentre il divo se la rideva. Questo video ha scatenato i commenti degli utenti social: «Che vergogna, è solo una bambina», «Da ricordare che lei ha 18 anni e lui 60...senza parole» oppure ancora «Tutti a parlare di Maria Sofia ma vogliamo parlare di lui?». 

[…] C'è, poi, un altro video che circola sui social e che riprende il momento della presentazione delle aspiranti attrici. Quando arriva il turno di Maria Sofia, che comincia a parlare di porno legato al tema dell'attivismo, Rocco Siffredi le mette una mano davanti come per zittirla e un'altra aspirante attrice le dice: «Dì la verità... avresti preferito essere zittita in un altro modo».

Estratto da leggo.it il 24 giugno 2023.

Recentemente, durante una diretta su Twitch sul canale di GrenBaud, Rocco Siffredi ha menzionato Valentina Nappi, paragonandola a Maria Sofia Federico. Il porno attore di fama internazionale ha affermato che molte persone in Italia sono impazienti di vederli insieme in un video, ma ha sottolineato che ciò non accadrà mai. 

Il video con le parole di Siffredi è arrivato anche a Maria Sofia Federico, che lo ha condiviso su Twitter commentando: «Una donna che nel 2023 lascia che il padre decida per lei non dovrebbe avere diritto di voto». 

Quando le è stato fatto notare la notevole somiglianza tra lei e Maria Sofia, la Nappi ha risposto dicendo che Maria Sofia è molto più bella di lei, ma non ha neanche una frazione del suo coraggio. 

Ha anche aggiunto che non ha motivo di essere invidiosa e che di recente ha lavorato sul set di Rocco. 

Da open.online il 22 giugno 2023.

Rocco Siffredi e il padre di Maria Sofia Federico hanno fatto un accordo per il debutto nel porno della ragazza diciottenne. A dirlo è lei stessa in un video pubblicato sul canale twitch di Grenbaud. Dopo l’ammissione alla Siffredi Academy della ragazza che ha partecipato a “Il collegio” il padre della ragazza aveva detto che non era d’accordo con la scelta della figlia. 

Adesso i due si sono accordati: «Io (i porno) non li posso registrare per un accordo tra mio padre e Siffredi. Lui gli ha detto: “Ok Rocco, la faccio andare ma tu non farla scop…”. Quindi non posso», dice Maria Sofia. Che però dice di aver «morso le chiappe a Kelly Stafford perché l’accordo era non fare sesso con nessuno, non con nessuna». 

Estratto da leggo.it il 21 giugno 2023.

«Se gira delle scene hard? Non è che mi dà fastidio, mi strazia». Con queste parole, Luca Federico, papà di Maria Sofia, che dopo aver aperto un profilo su OnlyFans, ha annunciato di essere stata scelta per la Rocco Siffredi Academy. Il papà di Maria Sofia Federico, ex volto de Il Collegio, ha spiegato a La Zanzara, che lui e sua moglie sono quasi «collassati» quando hanno saputo la notizia. 

Nelle ultime ore, è stato proprio Rocco Siffredi a La Zanzara da Giuseppe Cruciani a spiegare cosa ha detto al papà di Maria Sofia. Andiamo a vedere tutto nel dettaglio. «Quando l'ho vista ieri sera era un po' in difficoltà - ha sottolineato Rocco Siffredi -. Sembra un gioiellino in miniatura. L'ho vista e le ho detto "ma tu che ci fai qui?". Lei credo sia una Valentina Nappi in miniatura, Guardatela bene. 

Lei comunque con questo mondo non c'entra niente. Lei vuole fare altro, è una professoressa. Dite al papà che questa non sc**a, una cosa è certa e può stare tranquillo». […] 

Estratto dell'articolo di leggo.it il 18 giugno 2023.

Nelle ultime ore, l'ex collegiale Maria Sofia Federico ha pubblicato un video sul suo profilo Instagram in cui ha spiegato cosa pensano i suoi genitori in merito ad una delle sue ultime decisioni che sta facendo molto discutere. Il tutto è nato dall'annuncio caricato sui social da parte di Maria Sofia Federico che, qualche giorno fa ha condiviso con i suoi fan l'opportunità ricevuta di entrare a fare parte dell'Academy a luci rosse di Rocco Siffredi. […] 

«Oggi ho deciso di svelare l'arcano del perché i miei genitori mi hanno intimato di parlarne poiché ci tenevano a far sapere pubblicamente che non mi supportano affatto - ha spiegato Maria Sofia Federico -. Più volte hanno provato a dissuadermi dicendomi che prima o poi Dio sarebbe entrato dentro di me e mi avrebbe fatto ritrovare la retta via». 

Poi, ha aggiunto: «Una persona risolta è in grado di cogliere questa contraddizione e affrontarla in terapia, evitando di scaricare la propria rabbia e la propria incomprensione su una figlia per cui dovrebbe rappresentare un modello di riferimento nonché una figura con cui dialogare per crescere assieme senza pregiudizio».

L'obiettivo

«Quindi alla sua domanda, condivisa da mia madre, “non volevi cambiare il mondo?” io rispondo che non c’è nulla di più rivoluzionario che cogliere la profonda incoerenza di queste reazioni collettive e denunciarla continuando a essere me stessa in libertà […]

Io voglio far capire alla mia famiglia che nel mio caso è diverso poiché è da quando ho 14 anni che sono abituata a ricevere un trattamento spietato dall'Italia intera per la "colpa" di fare attivismo. E sinceramente non desidero altro che passare la mia esistenza a lottare per ciò in cui credo». 

Poi, ha concluso: «Termino con una domanda che spero porti a una riflessione: «È giusto "proteggere " un individuo come me invece che affiancarlo nella sua lotta per cambiarlo?»

[…] 

Estratto dell'articolo di Andrea Parrella per fanpage.it il 17 giugno 2023.

Si parla sempre più spesso di Maria Sofia Federico e del percorso, certamente inusuale, che ha scelto per se stessa non appena ha compiuto 18 anni, decidendo di diventare una sex worker, sia perché appassionata, ma soprattutto con l'intento di sensibilizzare la comunità sulla dignità di questo lavoro.

Nelle scorse ore, inoltre, l'ex del Collegio ha annunciato di essere stata scelta per entrare a far parte della Siffredi Academy: "non vedo l’ora di partecipare a questa splendida iniziativa", ha aggiunto lei. 

Una notizia commentata nelle scorse ore da suo padre, Luca Federico, che per la prima volta si è espresso sulla decisione di sua figlia parlandone a La Zanzara, il programma radio di Giuseppe Cruciani: “Il compito di un genitore è quello di attendere, se Sofia ha deciso di intraprendere un determinato percorso significa che c’è stato un difetto di comunicazione fra lei e noi, mi sento in parte colpevole. Partendo dal presupposto che la libertà è sacra. Non è che non rispetto la sua decisione, ma non la condivido, non la comprendo, è differente. Io sono rispettoso di qualsiasi tipo di scelta liberale e libertaria. La più grande dote di una persona è quella di essere non ipocrita. Ritengo che determinate scelte di mia figlia non siano coerenti”.

Il padre di Maria Sofia non si nasconde e aggiunge: "Io in gioventù ho anche io usufruito di escort che erano di alto livello per passare una serata, però ritengo che Sofia abbia fatto una scelta non incline con la vita che potrebbe vivere tranquillamente. Io posso capire se lo fa una ragazza di diciotto anni perché ne ha bisogno e vuole soldi; ma non è questo il caso. Perché lo fa? Ritengo che lo faccia perché condizionata dal pensiero unico, è plagiata. […] Quanto ha guadagnato? Siamo oltre gli 80 mila euro. Non so però perché lo faccia: le piace davvero o vuole guadagnare? La scorsa settimana mi ha fatto fare un bonifico a un’associazione. Vuole fare Robin Hood?".  

Sui video di sua figlia: “Ho visto qualche suo contenuto di Maria Sofia Federico, ma mi sono fermato, sono pur sempre suo padre. Il p**no l’ho visto e mi è piaciuto, ma quando si tratta di mia figlia mi fa male. Spero che le persone che abbiano fatto dei video con mia figlia non l’abbiano plagiata, spero solo questo. Vedere però dei quarantenni con lei non mi piace, ha pur sempre 18 anni e 3 mesi”. 

Quindi ha concluso così: “Ho paura degli haters che riversano odio su Sofia, perché lei è un arcobaleno bellissimo e un pianeta magnifico. Ho paura la possano aggredire quando è da sola. Non so chi incontra, è un mondo strano” […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Costabile per fanpage.it il 16 giugno 2023.

Da quando Rocco Siffredi ha inaugurato la sua prima scuola professionale dedicata al mondo del cinema porno, sono piovute richieste da ogni dove, ma non era mai stata allestita una classe solo al femminile. 

Il divo dei film hard, però, ha deciso di allargare i suoi insegnamenti anche alle giovani appassionate del settore e, infatti, sono state scelte dodici creator italiane di OnlyFans per prendere parte alla prima settimana di corso intensivo dedicata a sole donne. Tra loro vi è anche l'attivista ed ex volto de Il Collegio, Maria Sofia Federico, che ha parlato di questa sua nuova avventura anche su Instagram. 

Mariasofia Federico, l'ex allieva de Il Collegio, ormai diventata famosa anche per l'apertura del suo account OnlyFans, ha raccontato in più occasioni la decisione di voler entrare a far parte del mondo dei film a luci rosse. 

La 18enne ha motivato la sua scelta non solo parlando dell'interesse che nutre nei confronti di questa branca del cinema, ma anche della necessità di normalizzare alcuni concetti legati al "sex work". Nell'annunciare questa sua nuova esperienza nella Rocco Siffredi Academy, la creator dichiara: “Ora posso annunciarvelo, sono stata presa alla Siffredi Academy, e non vedo l'ora di partecipare a questa splendida iniziativa. Perché sapete bene che da quando ho compiuto 18 anni, a gennaio di quest'anno, sono entrata nel mondo del porno e da lì ho cominciato a rilasciare tantissime interviste e pubblicare post sulla mia pagina di attivismo per sensibilizzare sul sex work, così da abbattere quegli stereotipi nocivi sulle persone che come me, attualmente, rientrano in una categoria ancora giudicata male, da parte della maggior parte della società, quindi sarà veramente incredibile potermi confrontare con persone molto più esperte di me e così accrescere il mio bagaglio culturale.” 

[…] 

Estratto dell’articolo di Stefania Rocco per fanpage.it il 6 giugno 2023.

“L’incesto andrebbe normalizzato”: è questa la frase pronunciata da Maria Sofia Federico che ha innescato la polemica del giorno. L’attivista, ex protagonista de Il Collegio e oggi sex worker, ha partecipato a una live i cui spezzoni – decontestualizzati e tagliati ad arte, sostiene lei – sono finiti in rete provocando il consueto terremoto social, oltre che una valanga di insulti rivolti alla giovane. Fanpage.it l’ha raggiunta per approfondire il suo punto di vista sulla questione. 

Circolano sui social una serie di video che stanno facendo discutere perché ti vedono esprimerti a proposito di, cito, “incesto che andrebbe normalizzato”. Puoi spiegarti meglio?

Ah, quindi il video è stato tagliuzzato male? 

Si tratta di pochi secondi. Qual era il contesto?

Sui social hanno veicolato solo la parte secondo la quale sarei stata a favore dell’incesto perché, come al solito, si utilizzano i nomi delle persone come farebbero gli sciacalli. Parto con un disclaimer grande come una casa: la maggior parte delle relazioni incestuose sono intrise di dinamiche di potere e rappresentano l’esordio di abusi familiari.

Quelle, però, sono relazioni che partono da un presupposto di costrizione.

Esatto, pari a uno stupro. Questo l’ho detto ma nei video è stato tolto. Ho spiegato che queste dinamiche di potere non ci sono se ho un cugino che non vedo da 10 anni, che non conosco e con cui mi ritrovo ad avere un rapporto romantico e fisico. In quel caso, non credo ci sia un rapporto di potere. 

Se ci fa strano, è un fatto culturale. Diversi sono i rapporti tra fratelli e sorelle oppure con i genitori, perché in quel caso i rapporti di potere ci sono. Mi sono chiesta: ma cosa accadrebbe se si ripensasse il concetto di famiglia? Se si trovasse un’altra struttura con cui intendere la famiglia e il sesso, potrebbe diventare una cosa non problematica? 

Con “normalizzazione” intendevo questo. Parlare dell’argomento come se non fosse un tabù per cercare di capire fino a dove ci possiamo spingere nelle nostre concezioni etiche. Mi dispiace di essere stata fraintesa e che la gente stia dicendo che io debba uccidermi per questa cosa. 

In una parte del video che circola in rete si parla del rapporto tra madri e figli.

E io ho spiegato che non si può fare perché bisognerebbe ripensare al concetto di famiglia. Se mia madre volesse avere un rapporto con me, ed è la stessa persona che mi ha cresciuta, è chiaro che sarebbe problematico. Ma se si intendesse la famiglia in maniera diversa?

Diversa in che modo?

Magari immaginandoci in un sistema comunitario, dove veniamo al mondo e siamo cresciuti come in una sorta di grande comunità. Io quasi non so chi è mia madre, poi la conosco e cominciamo un rapporto. […] 

Per chiarire: intendevi dire che se tra due persone non esiste una relazione familiare, ma solo una consanguineità, l’incesto sia da considerare lecito?

Sì. Penso a quelle storie che si sentono. Un padre che dona il seme e poi 18/20 anni dopo incontra una persona che non sa manco essere sua figlia e si innamora, non so quanto si possa considerare incesto in senso negativo. Quando si parla di incesto, non si parla solo, giustamente, di dinamiche relazionali. Lì è chiaro che è sbagliato.

Si parla di consanguineità. Ma se io e mio cugino non abbiamo alcun rapporto poi ci vediamo, ci conosciamo meglio e lì nasce un rapporto…oppure nel caso di questa società ideale che al momento non esiste, la consanguineità rimane invariata ma i rapporti ci sarebbero comunque. Con normalizzazione intendevo solo che bisognerebbe parlare del tema. […] 

Estratto da leggo.it il 26 maggio 2023.

Maria Sofia Federico è diventata famosa grazie alla sua partecipazione alla sesta edizione de "Il Collegio", un docu-reality trasmesso su Rai2, dove dichiarava di essere femminista e di voler cambiare il mondo. Il suo profilo Instagram è stato per mesi pieno di post dedicati all'attivismo per i diritti delle donne e degli animali. Negli ultimi tempi, tuttavia, qualcosa è cambiato. 

La giovane ha da poco compiuto 18 anni e ha deciso di dare una svolta alla sua vita, aprendosi un canale a pagamento su OnlyFans. Sono stati in molti a criticarla dall'inizio dell'apertura. «Sei troppo giovane, non hai idea di quello che ti aspetta», ma Maria Sofia è andata avanti per la sua strada. 

Lei lo ha sempre detto, la battaglia per la parità dei diritti passa anche per OnlyFans. Purtroppo, però, qualche mese fa le sue foto private sul social sono state condivise su gruppi Telegram e lei ha denunciato il fatto con un post su Instagram: «Sono una sex worker e sono stata vittima di revenge porn».

La risposta alla sua denuncia non si è fatta attendere e i commenti sotto al post la criticano amaramente per le sue scelte. «Non puoi paragonarti alle vittime di revenge porn, tu hai fatto la tua scelta e devi accettare le conseguenze». […]

Dagospia venerdì 10 novembre 2023. Da "Happy Family" - Radio 2

Maria Teresa Ruta è stata ospite di Radio2 Happy Family, il programma condotto da Ema Stokholma e i Gemelli di Guidonia,  in onda tutti i pomeriggi dalle 17 alle 18 su Rai2 e Radio2. 

 Maria Teresa Ruta ha raccontato: "La prima volta che la mia vita è cambiata? Ballavo sui tavoli, me lo dicono i miei genitori, mi portarono in balera per farmi ballare, e una volta diedero un numerino e chiamarono tutte le donne in pista. Io sono corsa, e ho vinto un ombrellino di carta, un giubbino di carta e da lì è partito il mio lancio miss. Sono stata miss Trota, miss Mondo Suzuki e poi Miss Muretto. Ho una passione per le lapidi. L'epitaffio che sceglierei per me? Ho bevuto la vita tutta in un sorso, ma mi è rimasta ancora tanta sete.  Quello è un viaggio, io sono una grande viaggiatrice".

Il 25 novembre uscirà un progetto importantissimo contro la violenza sulle donne: "Non ho denunciato un tentativo di violenza subito diversi anni fa. Ne ho parlato dopo, con grande dolore.  Una grande autrice e cantautrice ha scritto questo testo leggendo o ascoltando le mie dichiarazioni. Ho parlato con grande dolore di questa cosa, lei ha pensato che potevamo provare ad aiutare le donne a parlare almeno tra noi, soprattutto sulla violenza domestica. Bisogna stare attente ai primi segnali, saperli leggere".

Sul momento più brutto della sua carriera: "A ripensarci oggi diventa ancora più brutto. Io che sono cristiana, cattolica, credente, ho sempre educato i miei figli al dialogo e alla libertà. Nel 1996 due amici mi hanno chiesto di officiare al comune di Milano il loro matrimonio gay. Era uno dei primi. Io ho accettato con grande piacere, ma sono stata attaccata da quotidiani e settimanali. La mia vita lì è cambiata, io ho semplicemente risposto che se qualcuno dei miei figli volesse essere felice, non potrei mai mettermi contro la sua serenità".

Maria Teresa Ruta: «Trovai i nomi di 2 mila donne sull’agenda del mio ex Goria. Iniziai come stuntwoman». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera lunedì 14 agosto 2023.

La presentatrice: «Un potente della tv mi fece avances, rifiutai»

Al telefono non risponde Maria Teresa ma suo marito.

Come mai, era lontana?

«Oh no, Roberto parlava dal suo. È che abbiamo i cellulari collegati, lui vede le mie chiamate, le mie foto, i messaggini di WhatsApp e viceversa».

Sul serio? C’è gente che di nascosto spia il telefono del partner come uno 007 corrotto e voi siete addirittura comunicanti?

«Roberto ha tutte le mie password, anche di Instagram e TikTok, sa pure il pin del Bancomat, di lui mi fido totalmente».

E dorme serena?

«Sì. Fidarsi è meglio, ti libera da dubbi e angosce per ciò che potrebbe succedere e magari non succede mai. Non ho nulla da nascondere».

Manco un whatsappino compromettente?

«Ogni tanto in effetti arriva sui social qualche messaggio un po’ osé e lui si arrabbia. Ci sono molti feticisti dei miei piedi. O qualcuno che scrive: “Io una botta ancora te la darei”. Ci rido, Roberto meno. “Non dargli corda”, mi rimprovera se rispondo con una faccina sorridente. Magari quella persona ha una vita difficile».

Nel 1977 vinse Miss Muretto ad Alassio.

«Prima fui eletta Miss Mondo Suzuki, il premio era una moto 750 GT, i miei mi costrinsero e venderla. Giacomo Agostini mi insegnò a guidarla, ma avevo 16 anni, ce ne volevano 21».

Controfigura e cascatrice al cinema.

«Ai provini non mi prendevano mai. “Somigli troppo a Barbara Bouchet”. “Sembri Annamaria Rizzoli”. Un giorno sentii che il produttore cercava una controfigura per una scena in cui la Bouchet doveva cadere in piscina con gli sci. E mi sono buttata: “Eccomi! Sono una stuntwoman!” Non era vero, però avevo fatto tanto sport. Mi aiutò Lino Banfi, facendomi avere una particina in La moglie in vacanza, l’amante in città».

«Sabato, domenica e venerdì» con Celentano.

«Ballavo impacciata, restando in seconda fila. Adriano mi vide con il Borsalino in testa. “Così sembri proprio un maschio”, disse. Lo presi come un complimento. Da bambina giocavo a calcio e portavo i capelli corti. Niente Barbie. Al 25 del mese a casa si mangiava riso e latte, perché non c’erano più soldi. Se mi serviva una matita dovevo farmela prestare, mamma era molto rigida sul superfluo, un’educazione che ho trasmesso anche ai miei figli, con ben altra disponibilità economica: niente paghette, pochi giocattoli, molti libri e viaggi».

Caccia al 13 su Rete4 e il primo Telegatto.

«Al provino finale eravamo io a Cristina Parodi. L’emittente era stata appena comprata dalla Fininvest. Il produttore ci diede una dritta: “Tra poco arriva un pezzo grosso, uno dei luogotenenti di Berlusconi, se siete libere è un bell’acchiappo”. Il buon partito era Giorgio Gori. Carino e garbato, però non era il mio tipo, mi piacevano mori con gli occhi verdi. Lui e Cristina invece attaccarono a chiacchierare di tennis».

Cinque anni di «Domenica Sportiva» (1986-1991) con Sandro Ciotti e Tito Stagno.

«Cinque anni bellissimi e incredibili in cui raggiunsi una notorietà pazzesca. Giovanni Trapattoni mi disse che non dovevo limitarmi a leggere i pronostici, che di pallone ne capivo, leggeva i miei articoli su Tuttosport. Del resto sono nata di fronte a un campo da calcio, giocavo da ala, sono una che corre» .

Ciotti la ribattezzò: «il sorriso che non conosce confini».

«E anche “La flemma che non colsi” perché ero frenetica oppure “Una finestra sul mondo”, perché indossavo tailleur che sembravano scollati ma non lo erano. Sotto la giacca portavo sempre un body o un reggiseno. Una sera Sandro, per scherzo, mi aprì il bavero in trasmissione, un gesto innocente, solo che quella volta di intimo non mi ero messa niente. Sbiancò e rimase senza parole, per fortuna la telecamera non mi inquadrava. Si scusò mille volte, mortificato, anche con mio marito Amedeo che lo tranquillizzò: “Non ti preoccupare, Maria Teresa è una donna come tutte le altre”».

Incrociò una giovane Simona Ventura.

«Era ospite alla Ds con Alberto Tomba, credo che uscissero insieme. Propose a Ciotti: “Se per caso vuoi cambiare conduttrice, mi offro io”».

I calciatori ci provavano?

«No, l’unico galante, che mi inviava fiori, era Falcao. Boniek, Platini e Tardelli e altri no, ero molto amica delle mogli».

Su Instagram ha pubblicato una vecchia copertina de «Il Monello» con Gianluca Vialli e Walter Zenga.

«Vialli l’ho intervistato tante volte, come Roberto Mancini, che tra i due era il vero playboy. Anche Gianluca piaceva molto alle donne, però era molto serio, difficile da conquistare, metteva su un muro. Walter è stato mio testimone di nozze, conoscevo bene sua moglie Roberta Termali, i loro figli giocavano con la mia Guenda».

Li convinse a ballare sulle punte.

«All’inaugurazione del villaggio Valtur di Brucoli, in Sicilia, con Fiorello, metà anni Ottanta, vennero molti calciatori per un torneo di tennis. Vialli, Mancini, Stefano Tacconi, Massimo Mauro, Aldo Serena. Alla serata finale gli abbiamo fatto danzare la Morte del Cigno, in tutù bianco con le gambe pelose, allora non si depilavano».

Maradona e l’elefantino, la prego.

«Nel 1986 sono stata la prima giornalista donna a intervistarlo per Number one, programma su Canale 34, tv privata napoletana, che conducevo ogni lunedì. Quel giorno avevamo ospitato alcuni animali del circo, tra cui un piccolo elefante. Ad un tratto ci ordinarono di sgomberare lo studio perché stava arrivando Diego che, per un compenso stratosferico, aveva accettato di venire da noi. Era un ragazzino, tutto riccioli e sorriso, mi baciò e abbracciò. Dietro le quinte però gli addetti non riuscirono più a tenere fermo l’elefantino, che scappò trotterellando verso di noi. Si fermò e mollò una pipì cosmica davanti ai piedi di Maradona. E lui: “Porterà fortuna, vedrai che vinciamo lo scudetto”. E andò così».

Le poste sotto casa di Paolo Rossi.

«Ai tempi di Caccia al 13, Tuttosport voleva un articolo su di lui, ma negli spogliatoi e in ritiro non mi facevano entrare. Scoprii dove abitava. Citofonai. Rispose la moglie Simonetta. “Ti seguiamo sempre in tv”. “Devo scrivere un pezzo su Paolo, purtroppo non posso intervistarlo”. “E chi l’ha detto? Torna stasera alle sette che ti preparo un aperitivo e ci parli quanto vuoi”».

La dritta gliel’aveva data Amedeo Goria.

«Un redattorino di Tuttosport che mi passava i numeri giusti. Mi faceva tenerezza, sempre dietro alla scrivania, balbettava per la timidezza. Gli dissi: “Sbagli a prendere fiato, perché facevi i 400 ostacoli, prova così”. Funzionò. Non era bello, però aveva l’aria del cucciolo abbandonato».

E l’ha sposato.

«Mi giurò: “Sono innamorato davvero, per te potrei anche fare un matrimonio bianco, non ho fretta”. Di sicuro è stato un matrimonio d’amore. Con il senno di poi avrei dovuto chiudere anche il terzo occhio per non vedere le sue marachelle, specie quando partiva in trasferta con le squadre. Erano ingenuità, dovute alla sua insicurezza cronica, ma allora le ho vissute come un affronto e a un certo punto non ho più perdonato».

Come ha scoperto gli altarini?

«Trovando scontrini del parcheggio di una discoteca sotto il tergicristallo. O bigliettini di tali Jeannette o Jasmine. E poi la famosa agendina nera di cui favoleggiavano i colleghi. La nascondeva, un giorno l’ho vista. C’erano annotati almeno duemila numeri di telefono, solo di donne, in tutto il mondo, con accanto le stelline del punteggio. Per carità, forse l’ho trascurato anch’io, troppo presa dal lavoro. Ma a volte Amedeo faceva il cascamorto con le altre persino davanti a me, era incorreggibile».

E lei invece nei secoli fedele?

«Integerrima, tagliata con l’accetta, eppure le occasioni non mi sono mancate, però non ho mai avuto difficoltà a dire di no. Due scuffie le ho prese anch’io, quando il matrimonio già traballava, ma non ho combinato niente».

Per chi? Calciatori, cantanti, attori?

«Non posso dirlo, si capirebbe subito».

Ricevette una proposta indecente.

«Da un potente della tv. Mi convocò in un hotel fuori Roma per parlare di un programma. C’erano anche gli autori. Mi disse: “Tra poco salgo in camera da te che ne discutiamo meglio, lascia la porta aperta”. Non sospettando nulla, lo assecondai. Entrò e mi chiese: “Ma come, sei ancora vestita?”. “Certo. Non dovevamo parlare della trasmissione?”. “Sì, ma prima ci divertiamo, poi pensiamo al lavoro”. Mi misi a ridere, lo feci uscire e richiusi la porta a chiave. Quello show non l’ho mai fatto».

E infine è arrivato Roberto Zappulla, secondo e attuale marito, produttore musicale.

«Cercava una conduttrice per un programma di canzoni napoletane, gli consigliarono me. Io non volevo farlo, lui preferiva prendere una presentatrice meno conosciuta ma che costasse di meno. Così si presentò all’incontro al ristorante vestito da Padrino, parlando con accento siciliano, per indurmi a rifiutare. Poi di colpo mi fissò come imbambolato, smise di mangiare, riprese a parlare italiano, gli venne un tic alla gamba. Mi aveva riconosciuto: ero la naufraga bionda che una sera aveva visto piangere a dirotto all’Isola dei Famosi. Ne era rimasto folgorato ma non sapeva chi fosse. Alla fine mi offrì quasi un assegno in bianco».

Vi siete sposati nove volte.

«In Messico con rito Maya, sull’isola di Corisco, Guinea Equatoriale, con rito benga, sulla Muraglia cinese in mandarino, in Tanzania come i Masai, in Etiopia con la cerimonia del Sole, sul veliero ai Caraibi come i pirati, in Sri Lanka con il rito della Luna, a l’Avana, Cuba e infine a Cana, in Israele. In Italia ancora no».

Vivete in un castello a Luino. Fantasma incluso?

«Sentivano dei lamenti notturni, poi abbiamo scoperto che sotto passa una galleria segreta che porta al lago, è uno scherzo del vento».

Estratto dell’articolo di Massimo Galanto per “il Messaggero” giovedì 17 agosto 2023.

Amedeo Goria, la sua ex moglie Maria Teresa Ruta (nel 1987 le nozze) ha raccontato al Corriere della Sera di aver scovato una agendina nella quale erano annotati almeno duemila numeri di telefono, solo di donne, in tutto il mondo, con accanto le stelline del punteggio.

Maria Teresa ha esagerato, al massimo erano 1800 (ride, Ndr). A parte le battute, è vero, mi beccò. Sull'agendina scrivevo i nomi delle donne che incontravo. Ma non davo i voti, assolutamente no, è una cosa brutta... le femministe mi si scagliano contro...

Cosa scriveva accanto ai nomi femminili, allora?

Uno squallido e volgare segnetto per indicare il tipo di rapporto avuto, se fosse stato solo un bacio o qualcosa di più. 

Conserva ancora l'agendina?

(pausa di qualche secondo, Ndr) In qualche anfratto o comodino... l'ho rinnovata, sono passati tanti anni. 

Insomma, continua ad aggiornarla?

Non metto più segnetti. E poi adesso comincio a perdere anche un po' la memoria. Capita che qualcuna mi chieda: "Ti ricordi di me? Ho dormito da te...". Sono disordinato, ma sempre in buona fede. 

Il rapporto con Maria Teresa Ruta com'è oggi?

L'ho ricostruito. Lei con me ha un po' il dente avvelenato, io la ringrazio sempre e le chiedo scusa pensando al passato. Sono un penitente.

[...] 

Le donne sono il suo punto debole?

Con le donne ho esagerato, forse è stata l'ebbrezza della notorietà, mi ha dato un po' alla testa. Ma ancora oggi, alla mia età, vedere una bella donna anche col desiderio di conoscerla mi dà motivo di vita.

Questa passione ha pesato anche sulla sua carriera?

Sono andato in pensione da inviato Rai dopo 45 anni di contributi, non ho fatto chissà quale carriera.  [...] ho buttato via occasioni per delle sciocchezze, per le donne... Ho esagerato a mostrarmi in un certo modo e ho rovinato un matrimonio. [...] sono stato fortunato, ho sposato una donna famosa, che mi ha aiutato a stare davanti a un microfono, all'inizio della mia carriera balbettavo.

E il sesso?

Sono un salutista. Non ho mai fumato, non mi sono mai drogato, bevo poco. Sono un fautore benemerito del fatto che il sesso faccia bene. [...]Il sesso mantiene giovani [...]

Che rapporto ha con il mondo LGBTQIA+?

Sono un liberale. Rispetto tutti, purché non ci siano manifestazioni clownesche. Nel mondo di oggi - in cui c'è grande libertà di genere e sessuale - è paradossale che vi rivolgiate a me perché mi piacciono le donne quasi fossi un depravato. 

Parlare di sesso agevola l'incontro con le donne?

No, anzi, può essere un autogol. 

Eppure lei racconta pubblicamente di aver partecipato a orge e di aver frequentato locali per scambisti.

Ma sì, io non mi faccio mancare nulla. Sono un giornalista, sono curioso. Perché non sperimentare i locali per scambisti? Non c'è niente di male. 

[...]

Ha scritto con la collega Savina Sciacqua il libro Due cuori e un app, di cosa si tratta?

È un manuale semiserio. Tracciamo dieci profili di donne e di uomini che si possono incontrare sui social e su Tinder. 

Frequenta questo mondo?

Mi sono iscritto sotto falso nome ad un sito di incontri. Ho incontrato un paio di persone, ma mi hanno smascherato. Mi è servito a titolo didascalico. 

[...]

Nel 2005 una ragazza a Le Iene la accusò di aver chiesto esplicitamente prestazioni sessuali in cambio di un lavoro in tv. 

Fu una macchinazione, una trappola ben orchestrata. Una gogna. Ne soffrii moltissimo. Una situazione dovuta ad un concentrato di notorietà e di sprovvedutezza mia. Quella persona - che in quel momento mi fece male, vennero aperte due inchieste, poi chiuse -  io oggi sarei disponibile a incontrarla per un caffè.

Mai ricevuto accuse di molestie?

Mai. Ho sempre rispettato le donne. Anche se qualche volta hanno provato a sfruttare la mia notorietà, chiamando i fotografi a mia insaputa. 

Donne, donne, donne. Eppure lei esteticamente non somiglia, diciamo, a Stefano De Martino.

Beh, non sono giovanissimo, ho tanti giorni di vita alle spalle e ogni giorno di vita in più è una occasione per incontrare persone. A maggior ragione se scegli una vita molto libera, come ho fatto io. E comunque ricevo anche tanti no. Per me ogni donna ha un valore morale, psicologico e culturale, oltre che estetico. Per piacermi non deve essere Miss Universo. 

Tempo da dedicare alle donne ne ha, insomma.

Sì, mi ci impegno. Silvio Berlusconi un giorno a Milanello mi disse: "Goria, so che con lei posso parlare non solo di calcio".

Ora è single?

Sì, con la modella Vera Miales è finita un anno e mezzo fa, ma ci siamo visti l'altra settimana a San Benedetto del Tronto. Mi ha rimproverato perché stavo parlando con due ragazze, è gelosa.

[...]


 

Marina Suma: «Jerry Calà mi corteggiava ma a me veniva da ridere. I Vanzina mi hanno delusa. Le nozze sono contro natura». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l’1 aprile 2023

L’attrice: «I fan mi chiedono ancora di Sapore di Mare. Stavo con l’attore che faceva mio fratello, ci lasciammo. Troisi sapeva parlare d’amore. Incontrai John Travolta: un figo, ne rimasi folgorata»

«Questo biglietto vale per tutte le lettere che non ti ho mai scritto. A proposito, sei sempre la più bella. Luca». Marina sorride, i due si fissano tra la folla e poi — bam — parte la voce roca di Riccardo Cocciante: «Quel lampo negli occhi, ciao/ D’accordo fa male, ciao, ma tu/ Dentro di me non muori più/ Azzurra celeste nostalgia». L’ultima scena con Jerry Calà è un superclassico da 40 anni.

Passa il tempo però Marina Suma=Sapore di Mare, non ci si schioda.

«I fan ancora mi mandano o mi chiedono sempre quella. Il cuore del film è racchiuso lì. E quell’incrocio di sguardi tra me e Jerry racconta la malinconia per gli amori che finiscono, la spensieratezza dell’estate che se ne va e gli anni belli che non ritornano».

A cosa pensava in quel momento?

«Ai miei flirt estivi, al mare, a noi che suonavamo la chitarra sulla spiaggia, ogni anno sempre gli stessi amici. A quando ci si divertiva con poco e il bagno a mezzanotte di Ferragosto ci sembrava chissà che avventura, al brivido di un bacio al gioco della bottiglia. I ragazzi di oggi ci prenderebbero per matti».

Ricordi dal set?

«Era un film corale, ci siamo divertiti tantissimo. Purtroppo mi stavo lasciando con il mio ragazzo, Angelo Cannavacciuolo, che interpretava mio fratello Paolo. E mentre lui piangeva da una parte, perché non voleva chiudere, dall’altra c’era Jerry che mi corteggiava alla sua maniera e io non riuscivo a prenderlo sul serio, mi veniva da ridere».

Il corteggiamento andò a buon fine?

«Nooo. Soltanto un bacio, niente di più».

Virna Lisi.

«Amica meravigliosa, una signora, intelligente, bellissima, la guardavo con due occhi così. In quegli anni ho conosciuto i miti del cinema : Gassman, Tognazzi, Manfredi, Mastroianni, Vitti, Sordi».

Albertone quando?

«Lo incrociai al Festival di Ischia, negli anni 80. Simpaticissimo, mi dava degli schiaffetti sul viso chiamandomi “Marina bella”».

Eppure non voleva fare l’attrice ma la hostess.

«Da ragazzina avevo la cameretta tappezzata di fotografie di aerei. Avevo frequentato anche un corso per assistente di volo e passato le selezioni con l’Alitalia . Poi mi chiamò Salvatore Piscicelli per Le occasioni di Rosa».

Che fu poi anche l’occasione di Marina.

«Ero molto diffidente, non ne volevo sapere, mi convinse il mio fidanzato Angelo che era il protagonista. C’erano scene di sesso molto forti e almeno le ho girate con lui».

A 21 anni vinse un David di Donatello e un Nastro d’Argento e si ritrovò in passerella al Festival di Venezia.

«Era tutto nuovo per me, l’Excelsior, il Lido... mi giravo e c’era una star: Ornella Muti, Eleonora Giorgi, Gillo Pontecorvo. Una sera vidi a pochi metri da me John Travolta, un figo allucinante, restai folgorata. E Rob Lowe, con certi occhi azzurri, mica male...».

Fioccarono le proposte.

«Il primo film fu Dio li fa e poi li accoppia con Johnny Dorelli e Lino Banfi, regia di Steno, il papà dei Vanzina. Un tipetto piccolino, magro, sveglissimo, molto bravo sul set, c’era sempre, mi dava consigli, mi correggeva, ma in maniera gentile. Dorelli era un signore vero. E Banfi un tesoro, una persona semplice, umile a cui voglio un gran bene».

Con i Vanzina non ha più lavorato.

«No e non so perché. Ci speravo, però non mi hanno mai chiamato, un po’ ci sono rimasta male, lo ammetto. Nemmeno Piscicelli mi ha più cercato, a parte per Blues metropolitano, eppure fu conosciuto grazie a me».

Forse passa per un tipo difficile.

«Per niente, non ho mai litigato con nessuno. Ho un mio carattere, certo, però non ho mai creato problemi. Resta un mistero anche per me».

«Sing Sing» con Adriano Celentano.

«Bel tipo Adriano, carismatico, scherzava tanto. Durante una scena portavo un cappellino, di colpo mi abbassò la visiera, non vedevo più niente».

La corteggiò pure lui?

«No, che poi c’era Claudia Mori sul set».

«Cuori nella Tormenta» con Verdone e Lello Arena.

«Uno spasso. Carlo era già ipocondriaco e si portava dietro tutta la farmacia. In quel periodo soffriva di labirintite, poverino, ogni tanto gli girava la testa e ci dovevamo fermare. Poi mi sono scoperta ipocondriaca pure io e giro con un sacchetto di medicine, ma più piccolino. Sono una fissata con la prevenzione».

E Lello Arena?

«Verdone gli faceva scherzi continui. Per una scena a bordo di una nave eravamo vestiti da Carnevale. Lello portava un costume da coniglio e Carlo gli premeva la pancia facendo il verso del pupazzetto, oppure gli tirava la coda. E lui ogni tanto si arrabbiava».

Massimo Troisi.

«Una sera mi invitò a una festa a casa sua, era già malato e aveva poche energie. Non ci ho recitato però l’ho sempre considerato un punto di riferimento. Aveva una bella testa e sapeva parlare d’amore».

Lavorava tantissimo, poi l’abbiamo persa di vista.

«Ma io non ho mai lasciato il cinema. In Italia funziona così. Se diventi famosa con un film, te ne fanno fare subito tanti altri, ti spremono come un limone e poi basta, passano a un’altra. Ho fatto cose più diradate nel tempo. Tre anni fa ero in teatro con Sandra Milo. Lo scorso ottobre ero in Bulgaria per il film Axes of Life. Ora sto girando a Napoli Nati pregiudicati, sono la moglie di un boss».

La telefonata di lavoro che vorrebbe ricevere.

«Da Sorrentino o da Ozpetek, li adoro».

Amava il parapendio.

«Quando avevo il fidanzato a Milano, andavamo sul lago di Lecco, al Carnizzolo, sapevo tutto sulle correnti ascensionali. Avrò fatto cento voli. Amo il pericolo e gli sport estremi. Mi sono lanciata anche sul Monte Bianco e sul Monte Rosa. E per due anni ho fatto immersioni con le bombole: Maldive, Mar Rosso, Seychelles, Eolie».

Era contraria al matrimonio e non si è sposata.

«Lo considero contronatura, siamo nati per essere liberi, perché legarsi tutta la vita alla stessa persona?»

Gliel’hanno chiesto?

«Due o tre volte, ma ho detto no. Adesso sono single da tre anni e mi godo la vita tra Roma, Napoli e l’isola di Salina. Non perdo più tempo con gli uomini».

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Mario Biondi: «Ho 9 figli da 4 donne, però ne vorrei 10. Non sempre si va d’accordo in una famiglia allargata». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera mercoledì 4 ottobre 2023.

Il cantautore racconta la sua famiglia e il nuovo disco «Crooning Undercover». Da metà ottobre tour nei teatri con 18 musicisti senza microfoni 

Da un lato il nuovo disco, «Crooning Undercover», dall’altro la sua big band personale, o «la tribù», come la chiama lui, i nove figli che, incredibilmente, gli sembrano ancora pochi. Ma Mario Biondi, a 52 anni, si è anche appena sposato (per la prima volta, con la mamma degli ultimi due) e da metà novembre è pronto a ripartire in tour.

Il 16 settembre ha detto sì. Era il momento giusto?

«Ho aspettato prima di promettere, ma ora ho promesso e quindi manterrò, con grande piacere e non perché devo. È stata una scelta ponderata, non sono più un ragazzino: sono pronto».

Che matrimonio è stato?

«Indimenticabile, in una terrazza davanti al golfo di Sorrento, dove “un uomo abbraccia una ragazza”. Abbiamo invitato solo 40 delle persone più vicine a me e mia moglie, una cerimonia molto raccolta, di scambio».

Poi il suo nuovo album, tra cover e inediti.

«Ho scavato nei brani che più amo, pezzi che hanno contaminazioni, come tutti i miei dischi, ma dove faccio il crooner, visto che sono sempre stato “additato” come tale. Poi altri brani originali, con tantissimi amici ospiti, da Paolo Fresu a Fabrizio Bosso, i migliori fra i migliori».

Ci sono anche degli omaggi a Burt Bacharach, con cui ha lavorato.

«Ho avuto la grande fortuna di vivere attimi preziosissimi con lui. Rendo omaggio al suo affetto, a quel che mi ha regalato in quei brevi periodi trascorsi insieme. Me lo sarei portato a casa, avrei voluto svegliarmi con lui in sala seduto al piano».

Da novembre sarà in tour nei teatri, insieme a 18 musicisti, non microfonati. Come mai questa scelta?

«L’idea è rappresentare la verità, solo io avrò un microfono e non so neanche quanto amplificherà. In un momento in cui gli artifici sono la caratteristica preponderante nella musica, io vado in controtendenza e il pubblico dovrà essere necessariamente silenzioso, senza suonerie né vibrazioni nel telefono».

Lei va in controtendenza anche su altri fronti: ha ben nove figli, da quattro madri.

«Sì, la mia tribù, anzi a volte li chiamo il piccolo paese o la delegazione. Mi danno grandissime soddisfazioni e mi riempio d’amore per loro. Compaiono tutti nel video di “My favorite things”, cover a loro dedicata. Non posto mai foto personali, ma questo video ha una valenza diversa, è stato molto coinvolgente, divertente e tragicomico, come quando la più piccola, Mariaetna, che ora ha 3 anni, è scoppiata in lacrime. È un po’ un documento che resta, per me e per loro».

Ha sempre voluto averne così tanti?

«Tanti sì, ma se mi avessero detto “nove” avrei risposto “no, ve’?”. Eppure li guardo quando siamo tutti insieme, faccio una sorta di conteggio e dico “ma sono solo questi?”. Mi sembrano sempre pochi, forse perché adoro quando siamo in tanti, quando c’è condivisione. Avere tanti amori vicino è una benedizione incredibile».

Arriverà anche il decimo?

«Credo proprio di sì. So che è una scelta non comune, siamo in un’epoca molto autoreferenziale, dedicata a noi stessi, in cui si preferisce divertirsi, andare in vacanza, fare altro. Nella mia mentalità ho scoperto che non sono fatto così. Vivo anche io la mia vita e ci tengo a dire che non faccio sacrifici per vivere i miei figli, li faccio perché voglio vivere i miei figli».

E poi ci sono le quattro madri.

«La parte materna è fondamentale. Io sono un papà che lavora, si prende cura e mantiene tutti, ma le madri hanno più responsabilità di me naturalmente».

Vi vedete mai tutti insieme?

«Il weekend quando è possibile sì. Poi crescendo stanno diventando tutti più indipendenti e hanno tanto da fare, il più grande, che ha 26 anni, sta studiando per diventare magistrato, la seconda è una grafica e la terza modella, ma entrambe sono interessate anche alla musica e sono reduci da una tournée con Renato Zero. Quindi magari qualche domenica arrivano in cinque e non in nove».

C’è qualche ricorrenza imprescindibile?

«Il 26 dicembre, cascasse il mondo, ci ritroviamo tutti, anche le mamme».

E si riesce ad andare d’accordo in una famiglia così allargata?

«No, non sempre. Ci sono discussioni, litigi, sguardi, battuttine ed è normale. Ma l’importante è restare sempre entro un livello civile. Loro si chiamano fratelli, non ci sono fratellastri».

Si ricorda tutti i compleanni?

«Assolutamente sì (li elenca, ndr.), forse solo una volta ne ho invertiti due. Però scambio spesso i nomi e loro mi tollerano. A parte Mia, la settima, che una volta si è arrabbiata di brutto».

Quando in politica si parla di natalità e dell’importanza di fare figli lei come la vede?

«Mi sembra una sciocchezza. Non si può imporre a una persona di fare figli, è una violenza assurda, come quando a una donna di 30 anni si dice che è “in età”. La trovo una delle cose più fastidiose e offensive. Le esigenze di ripopolazione sminuiscono molto il tema, i figli devono nascere dall’amore».

Mario Biondi: «La mia grande famiglia senza distinzione di genere e ruoli tra padri e madri». Il cantautore ha avuto nove figli da quattro donne diverse. E vuole che si sentano tutti fratelli. Perché non è sempre facile e si può litigare, ma ci si ama. Francesca Barra su L'Espresso il 6 Luglio 2023 

Un letto matrimoniale che viene occupato, pian piano, da nove ragazzi felici che finiscono per prendersi a cuscinate. Al centro non c’è una mamma, ma un padre: Mario Biondi che con la sua iconica voce canta “My favourite things”. È il video in cui, sulle note della celebre canzone tratta dal film “Tutti insieme appassionatamente” interpretata in origine da Julie Andrews, mostra per la prima volta i suoi nove figli riuniti e Concetta, la nonna paterna. La sua ampia famiglia abbraccia davvero ogni fascia d’età: Marzio ha ventisei anni, Zoe ventiquattro, Marica ventidue, Chiara ventuno, Ray quindici, Louis quattordici, Mia otto, Milo sei e Mariaetna appena due. Il suo nome è un omaggio al vulcano, essendo Mario catanese.

Le quattro madri non sono presenti nella scena e per Mario Biondi è anche importante che al centro ci sia finalmente il papà: «Non amo la distinzione padri, madri; siamo genitori, persone, non è questione di genere o di ruoli». Malgrado il suo lavoro e la famiglia non ordinaria, ha sempre cercato di tenere tutti legati, di essere presente, di coinvolgerli facendoli sentire fratelli.

«Odio il termine fratellastri: sono fratelli. Per riuscirci è importante che entrambi i genitori abbiano un cuore buono, capace di comprendere quanto sia fondamentale per loro questo legame. Ho vissuto momenti di grandi lotte, di rancori, non voglio dire che sia semplice. Sono un padre severo, anche a costo di vivere fasi di distanza con alcuni dei miei figli, ma preferisco essere un ostacolo piuttosto che assecondarli. Qualche volta si sente parlare di “punti” guadagnati o persi. Come se la severità te li facesse perdere e, al contrario, li facesse acquisire al genitore più accondiscendente. Io non faccio il padre per vincere, per prendere punti, ma per dare loro qualcosa di concreto con cui fare i conti. E se devo essere duro o stronzo, lo faccio. Posso essere antipatico perché metto sotto stress, ma so che è per il loro bene e lo capiranno crescendo».

Mario Biondi si sta anche sposando, per la prima volta, con Romina Lunari, dalla quale ha avuto gli ultimi due figli. «È lei perché siamo cresciuti insieme, ci siamo sviluppati. La compagna per una persona come me è fondamentale per garantire un rapporto sereno con i figli. Anche questo fa parte della crescita, mi ha supportato anche quando c’erano dei problemi e dei dispiaceri dovuti a delle scosse interne. Capire il grande valore di questa esperienza ci ha permesso di goderne appieno». Nella loro casa, disseminata di ogni strumento immaginabile, si condivide soprattutto la musica, un collante, così come il silenzio. «Perché anche il silenzio è una musica meravigliosa».

«Forse è il mio karma. Famiglia è per me anche il gruppo di musicisti con cui condivido la vita duecento giorni l’anno e con i quali ci sono confronti, scontri, abbracci. O mio fratello Stevie, al quale ho fatto da padre a 26 anni, quando il nostro è venuto a mancare, e lui ne aveva solo otto. Ancora oggi mi manda un messaggino per la festa del papà. Non avrei mai pensato di avere nove figli, è ovvio, e non esiste un vademecum. Ma l’importante è che crescano come fratelli, ripeto, in una grande famiglia dove si litiga, ma ci si ama». Al di là delle definizioni, che spesso sono una gabbia: famiglia arcobaleno, tradizionale, allargata, di sangue, di cuore, monogenitoriale… Conta solo il sentirsi legati da un filo di seta che non stringe, ma unisce per sempre.

Mariolina Cannuli: «Io, signorina Buonasera che chiamai Papa Giovanni “Sua Maestà”. Quante multe per il mio look». Massimo M. Veronese su Il Corriere della sera il 12 Febbraio 2023.

Da speaker a Fiumicino ad annunciatrice tv: «Impiegata classe 12». «Eravamo influencer prima della Ferragni»

Nicoletta Orsomando era «Miss fossette, ma anche «la Preside», Anna Maria Gambineri «la fidanzata di tutti», Paola Perissi «la moglie ideale», Gabriella Farinon «Viso d’angelo», Peppi Franzelin «la ragazza della porta accanto», Maria Giovanna Elmi «la fatina». Poi c’era lei, la numero uno, Mariolina Cannuli, primadonna delle «Signorine Buonasera», quelle che per 65 anni, entrando nelle case di tutti per annunciare i programmi tv, diventarono modello di donna da imitare, influencer prima delle influencer. Sono state più di sessanta, ma, scriveva Maurizio Costanzo, solo «quando Mariolina Cannuli, dava la buonanotte le mogli diventavano gelose dei mariti».

Papà siracusano, mamma agrigentina, una vita tra Roma e Milano: cosa c’entra Mariolina Cannuli con Siena?  

«Ci sono nata, quando papà agli inizi della guerra lavorava alla Corte dei Conti di Firenze. Sono figlia della Contrada della Tartuca». 

 E cosa la lega alla città?  

«Me l’ha fatta amare un gigante della Rai come Silvio Gigli, cantore storico del Palio. Era della Tartuca come me e mi fece firmare una delle mattonelle della Contrada. Poi amo Piazza del Campo: vederla, la prima volta, fu come un pugno allo stomaco, un’emozione fortissima».

Mamma Minù Calimera era attrice e doppiatrice...  

«All’inizio ho provato a seguire le sue orme. Avevo una bella voce, calda come quella di mamma, conoscevo Giulio Panicali, la voce italiana di Tyrone Power e Robert Taylor. Ma il sync, la sincronia tra voce e labiale, era impossibile per me».  

Così si ritrovò speaker all’aeroporto di Fiumicino 

«Hostess di terra. Mi alzavo alle quattro di mattina, parlavo inglese, francese, spagnolo e un po’ di tedesco. Invece che sceneggiati e telequiz annunciavo voli in partenza. Avevo 21 anni e dovevo pagarmi l’università». 

Cosa voleva fare nella vita?  

«La biologa. Ma la frequenza obbligatoria all’università era un problema in Rai, così passai a Scienze Politiche. Ho dato un esame e ciao. Un bel 29 però preso in soli 20 giorni di studio».

Appunto. Dopo Fiumicino arriva la Rai. 

«Il mio amico cantante Otello Profazio mandò a via Asiago per un concorso di presentatrici una mia foto fatta con la polaroid mentre portavo il cane a spasso. Mi chiamarono e andai». 

Ricorda il provino? 

«Avevo appena finito il turno in Alitalia ed ero ancora in abito da hostess. Il direttore dei programmi Sergio Pugliese mi dice di sciogliermi i capelli e mi chiede quale lingua parlo meglio. E io: l’inglese. Prego allora, mi legga quest’annuncio. Glielo leggo in inglese. Tutti ridono. E lui: bene, ora lo faccia in italiano...». 

E così lasciò l’Alitalia. 

«Mi davano 40 mila lire per correre dalla mattina alla sera, alla Rai 200 mila per stare seduta. Veda lei...».

Il primo annuncio lo ricorda? 

«Fu prima di un tg del pomeriggio. La mia madrina, Aba Cercato, mi tirò talmente forte la gonna per darmi il segnale di cominciare che mi scivolò sui piedi e rimasi in sottoveste. Continuai senza fare una piega ma i tecnici ridevano e facevano i cori da stadio che non le ripeto».  

Gaffe clamorose?  

«Santa Messa in Eurovisione celebrata da Papa Giovanni anziché dire Sua Santità Giovanni Vigesimo terzo dissi Sua Maestà. Se ne accorse solo il Mattino di Napoli che scrisse: questa nuova ragazza della tv non sa neanche quello che dice».  

Lettere ne riceveva?  

«Lettere, messaggi, bigliettini sul parabrezza della macchina Mai dato peso. Ci fu un tassista che non mi fece pagare la corsa perché così, mi disse, penserà a me quando andrà in video».

Proposte indecenti?  

«Mai arrivate. O sono molto scostante o mi è andata bene. Noi però eravamo dipendenti di azienda, non avevamo bisogno di essere protette da qualcuno. Certo è strano che si denuncino molestie solo dopo decenni».  

Le «Signorine Buonasera erano le prime influencer.  

«Eravamo la copertina della Rai, ognuna di noi incarnava un modello di donna diverso. Come vestivamo, ci truccavamo e ci pettinavamo faceva scuola. Averlo saputo, altro che Ferragni».  

Eravate delle dive.  

«Macché. Impiegate classe dodici con tanto di cartellino da timbrare. E che gli annunci li imparavano a memoria compresi gli interminabili riassunti della puntata precedente prima degli sceneggiati».

Lei era la più sexy: la chiamavano la Maliarda di famiglia. 

«La colpa è di Alighiero Noschese e di un boa delle gemelle Kessler che i tecnici mi arrotolarono intorno al collo per nascondere la camicetta bianca che per sbaglio mi ero messa per un annuncio. Il bianco sparava...».

E quindi?

 «Alighiero mi vide e si inventò quest’imitazione da femme fatale che mi regalò un’enorme popolarità ma mi appiccicò per sempre l’etichetta di vamp».

Ma se in Rai la bacchettavano di continuo... 

«Ho fatto una collezione di lettere di richiamo perché mi piaceva indossare orecchini vistosi o accessori colorati. Punivano solo me però, con soldi trattenuti dallo stipendio».

Per forza. Una volta andò in onda in costume da bagno... 

«Macché costume da bagno. Era una giacca di Armani con un reggiseno sotto. Elegantissimo».

Però le proposero di posare per una rivista per adulti 

«Adelina Tattilo, editrice di Playmen, ma se l’avessi fatto sarei uscita dalla Rai. Peccato, mi sarebbe piaciuto...».

Fece anche un film con Alberto Sordi, «Amore mio aiutami». 

«E lui mi fece uno scherzo carogna. Mi disse: ti porto a cena in un posto nuovo e mi ritrovai al Quirinale a tavola con il presidente della Repubblica Leone e la moglie Vittoria. Lui di una simpatia unica, lei di una bellezza sconvolgente, io sui carboni ardenti per tutta la cena. Per evitare figure imitavo qualunque gesto facesse la first lady. Emozione profondissima».

Noschese mori suicida a Villa Stuart dov’era ricoverato per depressione. Aveva 47 anni. 

«A me è stato detto due giorni dopo perché ero ricoverata nella stessa clinica per un intervento. Non sapevo neanche fosse lì».

Che uomo era? 

«Una persona straordinaria e un genio dello spettacolo che ho amato molto. Aveva paura di ammalarsi ma con me era molto protettivo. Non sono mai riuscita a spiegarmi il suo gesto, a capire se a ucciderlo sia stato più il coraggio o la debolezza».

Anche la vicenda di Enzo Tortora fu amara. 

«Enzo era colto, sensibile, onesto. Mi scrisse una lettere per ringraziarmi di averlo difeso pubblicamente durante la sua disavventura giudiziaria. Ho visto l’arresto di Messina Denaro in tv: per il capo della mafia niente manette, per Enzo si. Lo vollero umiliare perché era amato e popolare. Vergognoso».

È vero che Berlusconi la voleva a Mediaset? 

«Mi offrì la stessa cifra della Rai ma non le stesse garanzie. Però, mi spiegava Mike Bongiorno, potevo fare tutta la pubblicità che volevo, programmi tv, film che in Rai erano vietati. Accettare era una scommessa, mi spiace non averla fatta, avrei guadagnato tantissimo. Fu un treno perso».

Alla fine comunque andò a lavorare da lui.

  «Mi ingaggiò per insegnare dizione alle sue presentatrici: la Foliero, la Golia, Didi Leoni. Davo loro i dizionari sulla testa e curavo il loro look. Berlusconi ci teneva molto: quando arrivava negli studi salutava il tecnico, il carrellista, chiedeva come sta tua moglie, come va tuo figlio, sapeva i nomi di tutti a memoria. Aveva un attenzione totale per chiunque».

E un giorno se ne va dalla Rai 

«Lavoravo otto ore al giorno, correvo dal primo all’ottavo piano solo per mangiare, timbravo il cartellino da una vita, al terzo richiamo dopo 33 anni di lavoro e visto che anche Berlusconi mi aveva versato i contributi, ho detto: cara signora Moratti, la ringrazio, me ne vado e mi occupo della mia famiglia».

A proposito: è vero che i suoi figli sono tifosi della Lazio? 

«Colpa del catechismo che hanno seguito dalle suore».

Chi le somiglia di più in famiglia? 

«La più mariolina è Bianca, una delle mie cinque nipoti, che vive a Milano. Ha sei anni, le piace cucinare, non le piace andare a scuola, ha il mio stesso taglio di occhi e non si lascia mettere i piedi in testa da nessuno».

Un reality lo farebbe? 

«Una volta mi chiamarono per “La Talpa”. Oggi nella mia follia potrei fare tutto e bene. Mi creda io sono una bella rompipalle».

Estratto dell’articolo di Anna Lupini per repubblica.it il 30 aprile 2023.

Marisa Laurito è una presenza familiare e allegra per chi si è formato nella parrocchia laica della tv di Stato, dove un tempo (udite udite) si trascorrevano serate spensierate a ridere dei tormentoni di Quelli della Notte. 

(…)

La sua carriera artistica è iniziata molto presto, e nel segno della ribellione al parere dei suoi genitori. Nella sua gioventù, più che l'amore, l'ha appassionata il lavoro: creare e consolidare una carriera artistica, che dura da più di 50 anni. Essere indipendente, lavorare, viaggiare. Ma anche essere un porto sicuro di amicizia e l'ospite di "cene epocali" in casa sua, dove tutti, ma proprio tutti, amavano andare. Da Francis Ford Coppola a due Presidenti della Repubblica, dagli amici di sempre Renzo Arbore, Luciano De Crescenzo, Gigi Proietti, Mariangela Melato a registi, artisti, intellettuali. E dove si finiva a cantare canzoni napoletane o a litigare furiosamente per la politica.

(…) Parlando di amori, non ne ho quasi mai avuti nel campo del lavoro, ma sempre al di fuori, forse anche perché io ho iniziato a lavorare con Eduardo De Filippo, ed era vietato essere fidanzati in compagnia perché si veniva licenziati, quindi ce ne guardavamo bene. D'altronde credo che Eduardo avesse proprio ragione: non è una cosa corretta..." 

In compagnia con Eduardo De Filippo è entrata a 21 anni, giovanissima

"Lo inseguivo da tempo, e lui mi aveva dato la data dell'audizione il giorno in cui compivo 21 anni e quindi ho potuto firmare il contratto senza il consenso dei genitori. I miei non erano certo contenti che io mi mettessi a fare l'attrice, immaginavano per me una vita diversa. Invece ho firmato il primo contratto e sono andata a vivere da sola, perché ho iniziato a girare con la compagnia, e allora le tournée duravano anche sei o sette mesi, quindi praticamente non si rientrava mai a casa."

Per un periodo ha convissuto con Marina Confalone?

"Sì, avevamo messo in piedi una comune a Roma con Marina Confalone e arrivavano persone di tutti i generi. Praticamente io e Marina avevamo preso in affitto questa casa, avevamo seri problemi economici, però c'era chi stava peggio, attori che non avevano letteralmente un posto dove andare, e noi li ospitavamo. Quindi in questa casa venivano una marea di ragazzi e ragazze, dormivamo in ottomila, io ho dormito anche nella vasca da bagno, è stata una cosa divertente. 

Erano gli anni Settanta, tra i frequentatori della casa c'erano Massimo Ranieri, Roberto Benigni, Sergio Castellitto. Un periodo bellissimo, elettrizzante, pieno di cose belle e divertenti. Erano tutti ragazzi che avevano voglia di arrivare e la forza di poter intraprendere questa arte, erano molto formati, diretti, precisi, tutta gente che aveva voglia di diventare brava. C'erano anche gli attori di Eduardo, molte belle teste, anche quelli che non sono diventati famosissimi. Tanta gente è passata di là e ne ho un ricordo bellissimo" 

Che ricordo ha invece degli anni Ottanta, quelli della popolarità televisiva?

"Anche quello bellissimo. Fu una popolarità enorme, che incredibilmente ancora regge. Erano anni in cui si faceva una televisione bella, sono stata molto fortunata, la gente ancora mi ferma per strada ringraziandomi per quanto li ho fatti ridere, per quante cose belle abbiamo dato. E' un affetto impagabile, un amore che io ricambio, sento anche il dovere di rispettare l'amore del pubblico con le scelte professionali. Sono stati anni meravigliosi, peccato non averli vissuti oggi, mi sarebbe servita l'esperienza che ho adesso" 

Eravate davvero così affiatati come sembrava a Quelli della notte?

"Eravamo e siamo una famiglia. Molti di noi sono rimasti in sintonia e ci incontriamo spesso. Con altri più raramente, ma quando ci incontriamo è come se ritrovassimo uno di famiglia, perché Quelli della Notte è stata un'esperienza incredibile, di quelle che capitano una volta nella vita e mai più. Eravamo un gruppo con un grande capo che era Arbore che tirava le fila in modo straordinario. 

Renzo è un grande talent scout, uno che non ti mette mai in agitazione, sempre sorridente e aveva ben presente l'obiettivo che ognuno di noi si sentisse esattamente a proprio agio. Una cosa che non tutti capiscono: un artista quando lavora deve sentirsi a suo agio per poter dare il meglio. Avevamo anche un grande produttore che era Ugo Porcelli, grandi autori e noi che eravamo molto "sgarzulini" e avevamo voglia di imparare, diventare bravi e metterci a disposizione." 

Come ha sedotto gli uomini della sua vita?

"Non saprei. Probabilmente ho sedotto con l'accoglienza e con l'amore, come mi aveva insegnato mia madre. Non sono stata una donna che ha avuto avventure, mi sono innamorata nella vita di alcuni uomini e le mie storie sono state sempre durature..." 

Nell'accoglienza rientra anche la cucina che è un suo cavallo di battaglia

"Ho imparato a cucinare per accogliere, più che per la passione per la cucina. La cucina è un passe-partout per accogliere amici e mettere intorno al tavolo persone e raccontarsi la vita. Nella mia casa a Roma sono passati tutti. Qualcuno ha definito le mie "cene epocali" e in effetti è stato così, perché qui sono passati tutti. 

Questa casa è stata una specie di cenacolo, la cosa interessante, molto interessante che avveniva da me è che si stava bene, c'erano persone "arrivate", grandi intellettuali come Francesco Rosi, Lina Wertmuller, Luciano De Crescenzo, due presidenti della Repubblica, Napolitano, quando era Ministro dell'Interno e Cossiga, e artisti che non erano ancora arrivati ma che avevano 'un che', artisti 'importanti' perché avevano cose da dire e questo miscuglio era molto interessante: parlavamo di politica, di arte, di lavori da fare, ci si scambiavano idee. Adesso tutto questo non c'è più.

Non riesco a capire perché, ma questo mood, questo ambiente, questo movimento è diventato scarso, la gente ora sta chiusa in casa. Non ho nominato tante persone: Monica Vitti, Sergio Corbucci, Nori Corbucci, in questa casa è passata l'intelligenza e l'arte italiana. E' stata un'esperienza bellissima, anche se molto spesso finivamo a litigare. Ma era interessante anche quello, perché c'erano scambi di idee." 

Una lite che ricorda in particolare?

"Sulla politica più di una in verità. Mi ricordo che un giorno arrivò Francis Ford Coppola, avevo organizzato una cena per lui che era in Italia. Arrivò con una cassetta di vino che produceva lui sulle spalle e abbiamo cantato canzoni napoletane, perché lui adorava le canzoni napoletane e a un certo punto è esplosa una lite furiosa tra uno di destra e Gigi Proietti che era di sinistra. Per fortuna Coppola non capiva bene perché parlava quasi solo americano. Comunque la serata gli piacque molto, perché era tutto abbastanza tipico. In quella serata c'erano una marea di cantanti napoletani e in America non c'era tutto questo movimento culturale o quantomeno come avveniva qui da me". 

Come selezionava gli invitati per una sua cena?

"Bisognava essere artisti. Artisti importanti, squattrinati ma che avessero qualcosa da dire. Perché io vengo da lì, mi sono formata alla scuola della strada, non ho avuto né padri né padroni: so riconoscere gli artisti veri e quelli che combattono per fare arte". 

Le donne della sua vita?

"Ho sempre avuto un ottimo rapporto con le donne intelligenti. Mi piace ricordare Mariangela Melato tra le persone più care. Era una donna intelligente e straordinaria, quando entrava in questa casa, aprivo la porta e non potevo fare a meno di dire 'come sei bella'. Aveva una luce ed una grazia innata, era impossibile guardarla e non dirle quanto sei bella, non per la bellezza in sè ma per tutto quello che si portava dentro: era intelligente, simpatica, colta, politicamente ben indirizzata: anche con lei ci sono state molte discussioni in questa casa. Anche Monica Vitti è venuta spesso qui, abbiamo passato molti natali insieme, per non parlare di Lina Wertm?ller, di Marina Confalone, una grande attrice e una donna speciale, Barbara Boncompagni... ho tante amiche." 

Queste amicizie sono tutte rimaste?

"Molti sono rimasti sempre. Ahimé la maggior parte degli amici che sono andati, sono andati perché non ci sono più. E questa è una tragedia per me, vera. Perché l'amicizia per me è una forma di amore straordinaria, la prima forma d'amore, la primissima e la più vera, quella che mi interessa davvero. Perché non muore mai. È quella che ti accompagna nella vita. Ho avuto tanti amici straordinari e purtroppo, dato che ho frequentato sempre persone più grandi di me di 10 o 15 anni, molte se ne sono andate, ed è una perdita infinita. Mi sento molto più sola.

Gli amici sono i testimoni della vita. Non potrò più dire, visto che Luciano De Crescenzo non c'è più, 'Lucià ma ti ricordi quella volta che siamo andati a Napoli...'. Per esempio quest'anno il Napoli diciamo, per scaramanzia, che molto probabilmente vincerà lo scudetto: a me già manca Luciano, perché ne ho vissuti due con lui, e già penso mannaggia, Luciano non c'è più, e con chi lo vado a vedere quest'anno lo scudetto del Napoli? È stato un amico di 50 anni di vita, mi sento molto più sola senza queste persone care. Per fortuna ce ne sono altri nuovi che prendono il loro posto" 

Chi sono i nuovi amici?

"Come io ho frequentato persone più grandi di me, ora ci sono giovani artisti che frequentano me, e anche parecchi. Incontrare delle persone della mia stessa età che abbiano la mia stessa energia non è semplice. Stefano Bollani e Valentina Cenni sono due amici carissimi. Il fatto che molti giovani e molti artisti mi cerchino mi rende felice." 

(...) 

Il suo spirito indipendente le ha mai creato problemi nei rapporti d'amore?

"Sempre. Perché una donna libera non è una donna molto amata. O meglio: la libertà si paga. Si paga per l'espressione, per quello che uno vuole essere, per quello che vuole raccontare, per le posizioni che prende che spesso sono molto scomode, la si paga perché con un uomo, ancora oggi, paga più la dipendenza che l'indipendenza. Fortunatamente io ho trovato, in questo periodo della mia vita, e ormai sono 23 anni che convivo con un uomo (Piero Pedrini, Ndr) che è la mia relazione più lunga, una persona che non ha problemi nei confronti del successo e dell'indipendenza, della mia indipendenza." 

È una rarità?

"Sì, è una personalità abbastanza rara, devo dire"

Partner artistici invece? Chi è stato il migliore?

"Sono stata molto fortunata, ho lavorato con persone di grande valore. Renzo Arbore mi ha insegnato molto, Gino Landi è stato un partner artistico straordinario, Adriano Celentano, Charlie Cannon. Ho accompagnato e sono stata accompagnata da grandi personaggi. Antonio Banderas era giovane ma già famoso in Europa ed è stato bellissimo lavorare con lui perché era anche un uomo simpatico.

Ricordo andavamo con questo pulmino scassato per le montagne delle Ande, perché stavamo girando questo film Tierra Nueva e la troupe si trasportava con questo pulmino senza aria condizionata, a porte aperte con la musica a palla cantavamo Volare suonata dai Gipsy King. Ho vissuto momenti bellissimi e incontrato persone magiche. Intorno a loro volava questa polverina d'oro e io speravo che un po' cadesse anche su di me". 

La voglia di viaggiare non le manca neppure ora, lo abbiamo visto anche in Quelle Brave ragazze, con Sandra Milo e Mara Maionchi.

"La curiosità nei confronti della vita è innata, io ho ancora oggi grande energia e curiosità. È una cosa che non posso frenare. Gli anni che passano si sentono fisicamente. Non ho l'agilità e lo scatto che avevo a 20 e 30 anni, ma i dolori faccio finta di non averli e vado. Non mi fermo, ho molta curiosità e molta voglia di vivere bene. Molte persone non capiscono una cosa basilare: che bisogna vivere bene". 

(…)

A proposito di accettazione, a un livello più superficiale, che rapporto ha con il suo aspetto fisico? Si è sempre piaciuta?

"Quando ero più giovane non mi piacevo quasi mai. Pensavo di non essere mai all'altezza della situazione. Ora invece guardando le fotografie mi trovo anche una bella donna, oggi non capisco come mai all'epoca io non pensassi di essere bella. Negli Anni Ottanta l'Espresso fece un sondaggio sulla donna più erotica sognata dagli italiani e risultammo io, la Parietti e un'indossatrice inglese che andava per la maggiore. Ma al primo posto c'ero io. Questo mi fece molto ridere, per come vedevo io le cose. Con il tempo ho imparato ad accettarmi. Gli anni sono passati, ho una mia bella età, mi accetto per come sono. I tentativi di dimagrire ormai sono solo per la salute. Ora sto bene con me. Il fisico peggiora, ma l'anima migliora con l'età. La vita ti toglie qualcosa, ma ti dà sempre qualcos'altro." 

L'anima migliora con l'età. Cosa accende la sua anima oggi?

"Ne ho parecchie di passioni e di curiosità. Per quello che riguarda il lavoro il teatro che dirigo a Napoli è la mia grande passione, mi piace far lavorare artisti bravi, che contano e conteranno un domani. Mi è piaciuto anche molto avere a che fare con Sandra Milo e Mara Maionchi, è stato molto bello viaggiare con loro. Sono una visual artist, dipingere, scolpire mi appassiona. Ho anche delle passioni che non riguardano il lavoro che sono il mare, la musica, le piante, i viaggi, le case, ho una passione pazzesca per l'arredamento. Ho molte curiosità che coltivo come e quando posso." 

Per concludere, la vita da artista è una vita felice?

"La vita da artista è sempre felice. Perché se uno sceglie la vita da artista vuol dire che sta seguendo quello che gli piace fare. Chi sceglie di fare la vita da artista solo per essere famoso è destinato ad essere infelice, perché è piena di sacrifici, rinunce anche sentimentali, noi lavoriamo quando gli altri vanno in vacanza. Ma ogni vita è bella se la si sceglie e la si abbraccia. Nei momenti di fatica immane mi chiedo se avrei potuto fare altro ma la risposta è sempre la stessa: no. Quello che voglio fare domani è sempre tentare di essere un'artista, perché è un tentativo, questa parola è anche molto abusata. L'artista è uno speciale che corre avanti agli altri, un pioniere che inventa cose nuove e che cerca di trasmetterle."

Estratto dell'articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2023.

I diritti delle donne in Iran come in Italia sono una cosa seria, il politically correct no.

Marisa Laurito è un fiume in piena. In un Paese in cui i cliché del politicamente corretto vorrebbero mettere la morsa alla libertà di parole, lei guarda ai fatti. Parla di tutto e le canta pure, alla maniera di Carosone.

 Come nel recente brano scritto con Lorenzo Hengeller dal titolo Nun se può cchiu parlà. «È ridicolo pensare a chi si è messo a cancellare il bacio del principe a Biancaneve. Parliamo di cose serie!».

 Galvanizzata dalle oltre 105 mila firme alla petizione sulla questione iraniana e dall'affollato sit-in presieduto da lei stessa a Napoli, di fronte al teatro che dirige, il Trianon Viviani, lo scorso fine settimana, l'attrice ripercorre con passione e dovizia di particolari una carriera multiforme che da mezzo secolo la vede sulla cresta dell'onda.

Un volto popolarissimo e amatissimo tornato in autunno nella prima serata di RaiUno grazie al ruolo di Rosa, interpretato nella seconda stagione della serie Rai Mina Settembre, mentre a febbraio la rivedremo su Sky e in streaming su Now nella seconda stagione del format Quelle brave ragazze assieme a Mara Maionchi e Sandra Milo.

 Signora Laurito, un'artista del suo calibro è un maestro o una maestra?

«La lingua italiana predilige il maschile dato che in passato le donne erano un po' sottomesse. Però io non credo conti la differenza nel linguaggio ma nei fatti. Mi spiego meglio. Io sono direttore di un teatro a Napoli. Mi hanno chiesto come volessi essere chiamata. Io scherzando ho detto: chiamatemi madre badessa!

(...)

 E della cucina che oggi deborda in tv cosa ne pensa lei che invece l'ha trattata per prima con grande ironia, le pare una cosa seria?

«Mi pare vi sia una sovresposizione. La cucina è gioia. Tutte queste trasmissioni serissime con tempi scadenzati da pause che le fanno sembrare film di Hitchcook... Io con Andy Luotto facemmo Pasta Love e Fantasia dove cucinavamo e si giocava molto».

 Sta certamente seguendo le nuovissime polemiche sul #MeToo all'italiana. Ultima in ordine la denuncia postuma sugli agguati sessuali subiti dalla sua collega Fioretta Mari. Che ne pensa?

«Io credo che quando siamo state giovani tutte siamo state colpite da attacchi sessuali e sensuali. Credo che le cose vadano avanti. Bisogna sicuramente difendere le donne e dare loro giustizia. Al tempo stesso recriminare 40 anni dopo mi pare un atto non utile.

Noi che siamo state femministe, ancora oggi, guardando la tv, notiamo ragazze che si pongono non in modo non corretto. Vedere come subiscono o fanno ruoli da cretine, da ochette spogliate, mi fa stare molto male perché dietro ci sono gli uomini che continuano a non rispettare e loro che si adattano a subire tutto questo. Ma tutto ciò è l'indice del fatto che le donne per prime devono ancora capire il significato della parola libertà. Solo così anche gli uomini potranno capire cosa vuol dire essere una donna».

 (...)

 L'impegno per l'Iran può sfociare in qualcosa di nuovo, magari artistico in questo 2023?

«L'impegno proseguirà. Cercherò di farlo diventare europeo. Non molliamo».

Roberta Petronio per il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

Il tempo dell'Avvento si tinge di rosso con «La Furibonda». La dimora di Marisela Federici è un tripudio di stelle di Natale, melograni, candele porpora e rose appena colte: la «signora con la spilla» per eccellenza, che ci ha abituato ad osservarla mentre «danza» da un ricevimento all'altro con leggerezza, ha aperto agli amici la sua residenza per il tradizionale lunch degli auguri di fine anno. 

Puntuale, illuminata dal sole tiepido di dicembre, si materializza la sequenza di habitué, come la principessa Maria Pia Ruspoli insieme all'inseparabile barboncino Nino, la principessa Elettra Marconi con il figlio Guglielmo Giovanelli Marconi e la moglie Vittoria, padre Simeon Catsinas, Raffaele Curi con Livia Morellini e Christiana Ravizza, la creatrice di profumi Laura Bosetti Tonatto con il marito scrittore Vittorio Sabadin, e poi Maddalena Letta, Marisa Stirpe, Lella Bertinotti e Isabella Vattani, Valeria Licastro, Edoarda Vesel Crociani. 

La diplomazia non può mancare, e allora ecco l'ambasciatrice di Spagna presso la Santa Sede Isabel Celaà e l'ambasciatrice designata di Colombia Ligia Margarita Quessep con il consigliere culturale Néstor Pongutà Puerto (gran voce da tenore, ha cantato con la padrona di casa, altra tradizione). La lista, lunghissima, include tra gli altri Lamberto e Donatella Dini, il sovrintendente dell'Opera di Roma Francesco Giambrone, Saverio Ferragina, e l'avvocato Laura Sgrò, autrice del libro «Sangue in Vaticano».

Marisela Federici: «Alle mie feste voglio sempre il ricco, un prelato e la bellona. A casa ho 24 frigoriferi». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

La regina dei salotti: «Roger Tamraz, il mio primo marito, mi disse che faceva il parrucchiere ma era banchiere». «Angiolillo? Un’impeccabile lobbista». Alberto Sordi? «Era davvero irresistibile»

«Mi vedete sempre in mezzo alla gente, io invece adoro il silenzio». È il primo dei paradossi di Marisela Federici, la regina dei salotti. Ma non diteglielo, lei detesta questa parola: «Noi non facciamo divani, diceva mio marito». Forse non le piace nemmeno la parola vip... «La trovo orrenda. Come quando si dice che ho l’arte di mettere a proprio agio le persone. Detesto. Per stare a proprio agio si va in camera da letto e in bagno. Io prendo l’anima delle persone per farle sognare e divertire». Conosce l’ironia e l’opulenza. Donna di forti contrasti, come la vita nella sua splendida dimora: grandi feste e una rapina traumatica.

Lei vive nella villa accanto a quella di Berlusconi.

«No, quella è via Erode Attico, un’appendice dell’Appia Antica, dove sono io. Prima eravamo in via XXIV Maggio, ma in affitto, e mio marito, Paolo Federici, voleva vivere a casa sua. Accanto al Quirinale. Una vista impressionante. Decisi di andare sull’Appia perché i miei figli a scuola scrivevano che gli alberi crescono dall’alto in basso, pensando che il cielo fosse giù per terra a causa della vista dall’alto. Così ci trasferimmo a Villa La Furibonda, così mi chiamavano i figli vedendomi incavolata. Era stata costruita dall’architetto Piacentini, non si poteva toccare nulla».

È ancora esclusivo, oggi, vivere sull’Appia?

«Ti godi la natura. Qui viviamo cinque stagioni, abbiamo la rugiada. C’è il privilegio della solitudine, che paradossalmente mi appartiene. È andata bene con Paolo perché era sordo da un orecchio e mi ha dato il privilegio di entrare nel suo silenzio. Tutti parlano bene dei morti, ma Paolo se lo merita. Uomo di finanza, elegante, nobile in tutto, mi dava equilibrio. All’epoca gli apparecchi acustici riproducevano ogni rumore, gli dicevo una cosa e me ne rispondeva un’altra. Questo è matto, pensai la prima volta».

Difficile associare il silenzio a lei.

«Invece ne faccio buon uso. Sono apparentemente esibizionista, ma quello è un obbligo, è un impegno che mi sono imposta. Sono così anche in casa, calze, tacchi, collana di perle. E dico sempre gracias a la vida».

Perché veste sempre di nero?

«Solo così riesco a sentire Paolo, mi fa compagnia. Sono sei anni che se n’è andato. Ricordo il funerale qui alla Furibonda, due preti gesuiti, i due figli, il notaio e il chitarrista che si chiama Mario Mio, è il suo cognome, non è mio. Io cantai, in vita era sordo ma la mia voce la sentiva».

È vero che ha dodici frigoriferi?

«Sono ventiquattro, ma spenti. Paolo aveva una collezione di vini bianchi preziosi. Io vivo sola con i camerieri e con un cane (non come un cane). Non ho voglia di sedermi a tavola in solitudine. Mangio crudo, preparo il cibo in una cucinetta accanto alla mia stanza».

Ma darà ancora belle feste...

«Sono colazioni in piedi. Se ti siedi e sei sfortunato di avere accanto un rompiscatole, è la fine. Qui a Roma le cene sono noiose, i club, il generone, i professionisti. Si parla di calcio e di salute. Non è divertente».

Chi non deve mancare nei suoi inviti?

«Deve esserci una miscela, una principessa, un cardinale, uno scrittore non mancano mai. Non è necessario avere un gran cognome. Mi divertono gli ambasciatori, o gente che si occupa di musica. Una conversazione altrettanto importante posso averla con il pastore del Quarto Miglio, qui vicino, o con Riccardo il gommista. Poi voglio il ricco sfrenato, le povere ma belle e qualche mignotta ma mi rimangio questa volgarità, diciamo qualche donnina leggera».

Ospiti fissi, Cesare Romiti, Mario D’Urso...

«Sono tutti morti quelli dello zoccolo duro. Roma è molto cambiata, però una buona qualità, se sai scegliere, si trova sempre».

Come ricorda la rapina in casa?

«Non te la dimentichi, ancora oggi apro una porta e mi sembra di vedere quei tre maledetti incappucciati. Mi è rimasto addosso il loro odore d’aglio. Erano le sette del pomeriggio di tanti anni fa. Entrarono da una finestra, ce ne saranno trecento qui, accanto alla mia stanza da letto, mai dormito con nessuno salvo per fare i figli. Ho avuto prontezza d’animo. Sono credente e mi affido allo Spirito Santo. Gridai, ma come vi permettete? Rimasero increduli. Poi mi inginocchiai davanti a uno di loro: mio marito è malato. Gli dissi, non potete prendervi tutto, qualcosa dovete lasciarmelo. Misi qualcosa nella federa del cuscino. Si sono portati via le cose più belle, anelli, orecchini, collane. Paolo non sentì nulla e rimase inconsapevole. Quel giorno ho capito che nella vita puoi perdere tutto, che in fondo abbiamo troppe cose, sembra ridicolo che lo dicessi io, ma ero viva. Il dolore fu più per la paura che per la perdita. Ora tutte le porte hanno l’allarme, anche la mia cagnolina Frida è blindata».

Parla sempre di Paolo. E il suo primo marito?

«Ci sentiamo ogni tanto. Roger Tamraz, libanese. L’ho conosciuto a Gstaad in Svizzera a una festa mascherata per Vittorio Emanuele di Savoia. Avevo i capelli sciolti e stavo esagerando nell’alcol. Io vestita da zingara, lui è molto basso, un nano col cappello di D’Artagnan. Si presentò come parrucchiere e mi invitò a ballare. Ballava divinamente. Mi invitò al ristorante: al riccone posso dire no, un parrucchiere lo offendi. Ordinai dell’acqua e una insalatina, non volevo metterlo in difficoltà. Lo rividi a Parigi al matrimonio di un messicano. Pensai: sarà il coiffeur della sposa. Altro ristorante, lì se non prenoti tre mesi prima non ti danno il tavolo. Gliene diedero uno speciale. Mi mandò a prendere con la Rolls Royce. Passò Niarchos, l’armatore greco e gli mise una mano sulla spalla, come va amico mio, disse. Si può essere sceme ma non troppo, ditemi chi è questo signore, esclamai. Banchiere, si muove tra petrolio e gas, ricchissimo. Suni Agnelli mi disse, ma come fai a innamorarti di uno alto come un divano?».

La sua amica Susanna Agnelli.

«Una donna a cui devo moltissimo, ho visto più lei della mia vera madre, è la madrina dei miei figli. Ma non voglio parlare di Suni, hanno fatto delle illazioni sul nostro sentimento, non voglio tornarci sopra. Sono una signora di 73 anni e certe parole non stanno bene».

Che idea s’è fatta della querelle ereditaria tra Margherita Agnelli e i suoi figli?

«Ha ragione lei. Lì è tutta una maschera, non dovrei dirlo ma c’è anche abbastanza ignoranza, hanno quel cinismo che ti dà la grande ricchezza. Tante cose di famiglia non si dicono. Di Margherita, hanno privilegiato figli con un certo cognome e depennato i de Pahlen. Romiti, un romano tosto, non era così amato in casa Agnelli, benché avesse salvato la Fiat era visto come uno del popolo».

Tornando al primo marito, anche lei non se la passava male, famiglia di latifondisti venezuelani...

«Ma sa, Caracas era come un villaggio, ci chiamavano gli oligarchi del Venezuela. Ora sono tutti poveri, c’è un disastro economico. Mio nonno materno fu presidente della Repubblica, mio padre era nella politica, era impegnato ma per divertimento. C’era la dittatura, la corruzione, si lottava per l’ingiustizia sociale. Un grande caos. Papà finì in carcere. Mia madre andò da Gallegos: rivoglio mio marito, sto per partorire. Lui era presidente del Paese ma anche scrittore, la protagonista di un suo romanzo si chiamava Marisela ed ecco perché mi chiamo così».

È stata amica del pittore Salvador Dalí.

«Era pazzo: di sé e di Gala, sua moglie, talmente brutta da essere bellissima. La compagna ideale. Salvador era asessuato. Un matto totale, basta vedere lo sguardo, i baffi a punta...».

Chi sono i grandi personaggi di oggi?

«Mi fa una domanda a cui è difficile rispondere... Trovo brava Camilla, la moglie di re Carlo, ha capito che bisogna aspettare il momento, mentre non mi piaceva per niente Lady Diana che ho conosciuto a una serata di beneficenza a Palazzo Farnese. Non la potevo vedere, non ha capito il suo ruolo. Essendo una Spencer, famiglia forse più antica dei Windsor, ha avuto un comportamento imperdonabile, lo sapeva che non sposava un geometra del Comune».

Ha conosciuto Alberto Sordi.

«Venne a casa mia e disse, ci sono troppe telecamere, non posso baciarti. Simpaticissimo. Non posso dire altrettanto di Kashoggi, non aveva gusto, quei rubinetti d’oro che erano solo dorati, la volgarità del nuovo ricco arabo. Poi ho un ricordo orrendo a Montecarlo, dovevo andare sul suo panfilo e persi un brillante prezioso: feci letteralmente smontare il bagno della mia stanza all’hotel de Paris».

Cos’è la mondanità?

«È farsi una foto e apparire in un video. Io non ho più voglia di apparire, fuggo da Dagospia. Roberto D’Agostino è intelligentissimo ma dà un’immagine di me che... Sembro una imbecille che non fa altro che feste. Le faccio, ma non le pubblico».

Lei è erede dei salotti di Maria Angiolillo?

«Io non sono erede di nessuno, io faccio le feste perché mi diverto, lei si faceva pagare per le sue cene, da signori che la usavano. Era una impeccabile lobbista, se un tale aveva bisogno di un certo ministro, combinava. Sapeva coordinare un tavolo. La politica con me c’entra poco, a parte la campagna per Tajani sindaco, fu divertente ma andò male».

In lei convivono diverse anime: frivola e giocosa, organizza feste di cha cha cha e cene coi potenti della terra, è devota, fa volontariato e aiuta la ricerca contro il cancro. Dimentichiamo qualcosa?

«Sì, che piango per il mio Venezuela, penso a come sarebbe stata la mia vita se vi fossi rimasta. La prego solo di una cosa, non mi dipinga come una superficiale, non lo sono per niente».

Non ci ha detto nulla dei suoi figli.

«Edoardo ha quasi 40 anni ed è un uomo di finanza, Margherita è una pazza, fa foto di nudi, la chiama Dior, butta il vestito per terra e ritrae le modelle senza vestiti. Il problema di Margherita sono io».

Estratto dell'articolo di Savannah Walsh per vanityfair.it il 18 maggio 2023.

Martin Scorsese, il cui attesissimo nuovo film, Killers of the Flower Moon, sarà presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023, parla senza censure della sua mortalità. 

Parlando del suo ultimo progetto, che riunisce Leonardo DiCaprio e Robert De Niro, due degli attori con cui ha collaborato più spesso, Scorsese ha dichiarato a Deadline di «dover» iniziare a tutti i costi il suo prossimo film. «Vorrei potermi prendere una pausa di due mesi e intanto fare un film», ha detto ridendo. «Mi si è aperto davanti il mondo intero, ma ormai è tardi. Troppo tardi».

Quando gli è stato chiesto di spiegarsi meglio, l’ottantenne premio Oscar ha detto: «Sono vecchio. Leggo un sacco di roba. Vedo cose. Voglio raccontare storie, ma non c’è più tempo. Kurosawa, quando ha vinto l’Oscar, quando George Lucas e Steven Spielberg gliel’hanno consegnato, ha detto: “Sto iniziando solo ora a capire che cosa può essere il cinema, ed è troppo tardi”. Aveva 83 anni. All’epoca, mi sono chiesto: “Cosa vuol dire?”. Adesso so cosa voleva dire».  […]

Estratto dell'articolo di Marco Consoli per repubblica.it sabato 14 ottobre 2023. 

In un’epoca in cui se sei maschio e bianco raccontare la storia di una minoranza etnica rischia di vederti accusato di appropriazione culturale, Martin Scorsese è riuscito con Killers of the Flower Moon, il suo nuovo film in uscita il 19 ottobre, a compiere un’impresa: […] è […] una delle più limpide e commosse ricostruzioni che il cinema abbia mai fatto del massacro dei nativi americani da parte dei bianchi. 

[…]

Siamo negli Anni Venti, e gli Osage sono tra le comunità più facoltose d’America, grazie all’abbondanza del petrolio scoperto sul loro territorio a partire dall’inizio del Novecento. Ernest (DiCaprio alla fine si è preso la parte), veterano della Prima guerra mondiale, rientra in Oklahoma sperando che suo zio, l’allevatore Bill Hale (Robert De Niro), gli trovi un lavoro. Lo zio, che ama apparire come un benefattore degli Osage, gli propone di diventare l’autista di una ricca nativa, Mollie Burkhart (Lily Gladstone). Quindi spinge il nipote, che nel frattempo se ne è innamorato, a sposarla. Coinvolgendolo così nel suo piano: sottrarre, con sotterfugi e vari omicidi, il diritto allo sfruttamento dell’oro nero. Mollie però riesce a coinvolgere l’Fbi, che invia l’agente White (a questo punto interpretato da Jesse Plemons) a indagare.

«Insomma, quando ho incontrato gli Osage i loro discorsi sull’amore e sul rispetto per la Terra mi hanno commosso profondamente, e ho capito che dovevo rivoltare la vicenda come un guanto perché diventassero loro i veri protagonisti», spiega Scorsese. «Solo così questa storia poteva diventare universale, e raccontare come i bianchi hanno colonizzato altri popoli depredandoli barbaramente. In qualche modo ho fatto tesoro di una lezione imparata quando guardavo i film da ragazzino».

Quale?

«Mi sono ricordato di quanto avessi amato Il fiume di Jean Renoir e altre pellicole sull’India di registi britannici e americani. Poi però vidi Il lamento sul sentiero di Satyajit Ray e mi resi conto che quelli che nei film precedenti erano solo comparse diventavano qui i protagonisti. Quella lezione mi ha aperto gli occhi sul cinema di altri Paesi, ma mi ha fatto anche capire che se ti avvicini a culture e tradizioni diverse dalla tua devi farlo con enorme rispetto, accuratezza e passione. Negli anni Cinquanta guardavo i western, e scioccamente pensavo che le storie di indiani e cowboy avessero detto tutto. Invece non era così».

Anche questa è una storia di violenza, come diversi altri suoi film. Perché ha deciso ancora una volta di mostrarla in primo piano, anziché fuori campo?

«Questa domanda me la pongono dal 1972 e rispondo oggi come rispondevo allora. Potrei fare come la tragedia greca, che lasciava immaginare allo spettatore gli omicidi, ma sono convinto che sia necessario far vedere di cosa sono capaci gli esseri umani. Questo non vuol dire che mi diverta farlo, ma credo che nascondere la brutalità sotto un tappeto non sia mai la scelta giusta».

Girare un film costa una fatica enorme. A 81 anni cosa la spinge ancora ad affrontarla?

«Il cinema è la mia vita, e ogni volta che giro un nuovo film trovo sempre qualcosa da imparare. Per esempio, dopo Toro scatenato, che non fu un successo, ho dovuto ricominciare tutto da capo con Re per una notte e Fuori orario. Nella mia carriera ho cercato di non ripetermi e trovare ogni volta nuove forme di narrazione: […]

Cosa ne pensa del trionfo al box office di Oppenheimer e Barbie?

«Non ho visto nessuno dei due, ma sono felice che siano due successi, perché ammiro sia Chris Nolan che Margot Robbie – venne lanciata proprio da Wolf of Wall Street. In generale sono felice se la gente torna al cinema, e spero che film come questi diano respiro a un cinema diverso da quello che ha dominato a Hollywood negli ultimi 20 anni. Non capisco perché i produttori pensano che i film indipendenti debbano interessare solo a poche persone».

Lei è al suo decimo film con De Niro e al sesto con DiCaprio. Cosa rappresentano questi due attori per lei?

«Bob l’ho conosciuto a 16 anni, me lo presentò Brian De Palma: è uno dei pochi a sapere da dove vengo e chi sono veramente. Dopo Mean Streets e Taxi Driver capiì che ci accomunava l’interesse per certe storie e anche certi conflitti psicologici nei personaggi. Tra noi si è costruita una reciproca fiducia, e fu lui a propormi di fare vari film, come Toro scatenato che all’inizio non volevo girare, o New York, New York: […] Le parole chiave per descrivere Bob sono assenza di vanità e mancanza di paura, sia nell’affrontare un ruolo sia nel discutere con gli studios che varie volte volevano sottrarmi il controllo sui miei film. Fu proprio lui a presentarmi Leo. Mi disse: ti consiglio di lavorare con questo ragazzo. E così iniziammo a girare Gangs of New York».

Che cos’hanno in comune?

«L’ho capito quando ho girato The Aviator: entrambi sarebbero pronti a fare qualsiasi cosa per il film. Anche se poi, in realtà, lavorano in modo molto diverso». 

In che senso?

«Bob è uno silenzioso, con lui non c’è bisogno di perdersi in chiacchiere, è troppo interessato a trovare il personaggio che deve interpretare nell’azione del momento. Con Leo invece parliamo molto. E proviamo, prima di andare sul set. Ma sono entrambi straordinari. Gran parte della mia fortuna come regista è dovuta al loro talento».

Estratto da tgcom24.mediaset.it domenica 30 luglio 2023.

Nel 2001 aveva conquistato il pubblico della seconda edizione del "Grande Fratello", oggi è un’imprenditrice affermata. Stiamo parlando di Mascia Ferri che mercoledì 26 luglio ha festeggiato 50 anni: arrivata da Ravenna nella Casa più spiata d'Italia all'età di 28 anni, la concorrente fece perdere la testa ai suoi coinquilini. Oggi, Mascia ha una vita diversa: […] gestisce ben sette attività nella sua città d'origine. 

Nata Ravenna il 26 luglio 1973, dopo aver conseguito il diploma inizia a lavorare come barista e ragazza immagine in alcuni locali di Milano Marittima. Decide di partecipare alla seconda edizione del programma che iniziò con una settimana di ritardo a causa degli attentati dell'11 settembre 2001, di nuovo sotto la conduzione di Daria Bignardi. 

[…] Mascia aveva fatto innamorare uno dei concorrenti del programma: Alessandro Lukacs, ma la storia dopo il reality non è andata avanti a lungo. Dopo la fine della sua avventura al "Grande Fratello" è stata protagonista di un calendario molto chiacchierato con Alessia Fabiani, poi l'approdo in tv: da "Scherzi a parte" a "Mezzogiorno in famiglia".

Quella popolarità però le causò anche qualche problema. […] "Non posso negare che fui costretta ad assumere una guardia del corpo a tempo pieno - aveva raccontato qualche anno fa -. Ho iniziato a soffrire di claustrofobia, cosa di cui non avevo mai sofferto. Venivo assalita ovunque mi trovassi. Da Roma in giù, non potevo mai fermarmi in nessun autogrill, nemmeno per andare in bagno". 

Oggi […] è un'imprenditrice di successo: sposata da 17 anni con Cristiano Ricciardella, nella sua Ravenna gestisce diverse attività tra cui un bar e uno stabilimento balneare. L'ex concorrente del "Grande Fratello" è mamma di Nina e Lola, ed è anche diventata una giocatrice professionista di poker.

"L'epoca degli yuppies? Meglio dell'era influencer". Intervista a Massimo Boldi. L'attore ricorda gli anni '80, fra spensieratezza e ricchezze: "Non mi spiego come oggi si guadagni senza fare niente". Marco Leardi il 12 Settembre 2023 su Il Giornale. 

Gli anni d'oro degli yuppies e la Milano da bere li ricorda ancora con divertimento, quasi con nostalgia. E non solo perché ne fu un protagonista diretto. Dopo aver interpretato quell'epoca effervescente e quei giovani rampanti sul grande schermo, Massimo Boldi si ritrovò infatti con un bel gruzzolo sul conto corrente. Volto di popolari film comici e di cinepanettoni dagli incassi record, «Cipollino» continuò negli anni a ottenere cachet che al giorno d'oggi in molti si sognano.

Massimo, a colpi di risate e di gag è diventato ricco...

«Sono nato sul lago Maggiore, a Luino, in una famiglia senza grandi possibilità economiche. Mio padre purtroppo morì giovane, nel 1964, e io rimasi da solo con mia madre appena quarantenne e con due fratelli più piccoli da crescere. Per contribuire al mantenimento della famiglia cominciai a lavorare prestissimo. Inizialmente i guadagni erano modesti, normali. Poi sono stato forse miracolato: a un certo punto ho iniziato ad avere più denaro in tasca. E lì è un po' cambiata la vita».

Quand'è arrivata la svolta?

«Con un carosello girato nel '77 e ancora reperibile su YouTube. Era lo spot dell'Audi 80 e per quella pubblicità ebbi un compenso di 50 milioni di lire. Il mio povero suocero, napoletano di origini, subito si apprestò a consigliarmi: Massimo, compra 'na casa.... E infatti acquistai un appartamento a Luino. Avere una casa dov'ero nato era un mio sogno, potevo far vedere ai miei conoscenti e agli amici che ce l'avevo fatta».

E i cachet stellari dei film?

«Per Yuppies, il primo film che girai con De Laurentiis, presi 500 milioni. In parte li misi subito in banca, ma dovete considerare che sopra quelle cifre si pagavano comunque le tasse. Erano lordi. Anche i successivi lavori con la Filmauro si aggiravano su quelle cifre. Erano incassi eclatanti pure per l'epoca: non ero abituato a guadagnare quelle cifre, quindi era sempre una grande festa. Così ho iniziato a far star bene la mia famiglia; in quegli anni ero già sposato e quindi pensai subito a mia moglie e alle mie figlie, investendo in immobili».

Il mattone, un grande classico...

«Sì, però negli ultimi anni mi sono pentito di non aver tenuto delle abitazioni che invece sarebbero state preziose adesso. Mi ero comprato una casetta sul lago, una a La Thuile, un appartamento a Beaulieu-sur-Mer e un altro a Milano 3 dove abito ancora adesso. Alcuni di quegli immobili sono andati alle mie figlie, altri invece li ho venduti e ora me ne rammarico un po'».

Confessi, si è tolto anche qualche sfizio?

«Quello delle automobili. Le ho avute praticamente tutte. Ricordo ad esempio una Bentley Continental, ordinata appositamente dalla casa madre e con gli interni in pelle Connolly. Un'auto veramente straordinaria. La acquistai nel 2008 e nel 2012, al termine del leasing, non la voleva nessuno: roba da matti!».

La popolarità, i soldi, le auto... Ha mai corso il rischio di sperperare il denaro?

«Sono stato avvicinato parecchie volte da cosiddetti imprenditori che promettevano investimenti e guadagni incredibili. Ma avevo appena girato un film in cui raccontavamo proprio situazioni simili. Nella trama, i fidanzati delle mie figlie finivano in bancarotta e così ho evitato di ripetere quella cosa anche nella realtà. Negli ultimi tempi, piuttosto, osservo con curiosità le azioni della Tesla e la loro possibile resa. Perché, come mi hanno spiegato degli esperti, a volte il problema è che le persone investono in titoli che danno delle garanzie sul rischio ma che alla fine non fruttano niente. Non ci perdi, ma nemmeno ci guadagni».

«Cipollino» si interessa pure di mercati finanziari?

«Sì, ma poi le mie figlie mi redarguiscono. Ma lascia stare, papà. Cosa fai.... Eppure l'unica vera perdita economica subita, ma non voluta, è stata legata al Covid. Per me e per il nostro settore cinematografico è stato deleterio. Io sono tre anni che non faccio un film, perché i produttori non investono più come un tempo, non sapendo se quel denaro poi tornerà. La gente va meno al cinema, oggi ci sono le piattaforme streaming che tuttavia pagano troppo poco per il genere che faccio io. Questa situazione ha messo in difficoltà tutta l'azienda Boldi...».

Nel tempo è cambiato il suo approccio alla gestione del portafoglio?

«No, in sostanza è rimasto sempre lo stesso. Diciamo che invecchiando mi sono però abituato al lusso. Io sono rimasto vedovo vent'anni fa e sono andato avanti da solo. L'uomo, nella vita quotidiana, cresce in tutto. Io ho sempre cercato di non esagerare con le spese, anche se a volte magari un pochino è capitato».

Ha fatto qualche piccola pazzia?

«Le piccole pazzie sono solo i super regali che ogni tanto fai alle amiche, alle fidanzate, diciamo così. Questa è una confessione molto innocente che faccio».

In famiglia chi ha il fiuto per gli affari?

«Le mie figlie sono brave, autonome e diligenti. Ma non mi fanno mai pressioni per fare degli investimenti. Quando c'era mia moglie Marisa, assieme abbiamo fatto e costruito qualcosa di buono. Oggi sono completamente fermo su questo fronte. Però mi piacerebbe investire qualcosa in qualche settore emergente o nelle azioni di Tesla e vedere cosa succede in sei mesi, un anno. Così, solo per curiosità».

Meglio gli yuppies di un tempo, che millantavano ricchezze mirabolanti spesso non reali, o gli influencer strapagati di oggi?

«Il clima degli anni '80 l'ho vissuto ed era migliore: ne sono stato protagonista, non potrei dire il contrario. Gli influencer di oggi? Non mi so davvero spiegare perché uno debba guadagnare cifre esagerate senza fare assolutamente niente. Questo fenomeno mette anche in difficoltà altri settori, magari già in crisi, aggravando la situazione. Ma il mondo gira così, bisogna accettarlo».

Estratto da leggo.it il 28 maggio 2023.

Massimo Boldi qualche giorno fa è stato protagonista di un incidente con il suo suv nuovo di zecca. E' successo a Milano, in zona Porta Venezia: "Cipollino" è finito con la sua vettura sopra alle rotaie del tram in pieno centro, rimanendo bloccato e interrompendo la circolazione dei mezzi. 

Una scena immortalata da alcuni fan che non hanno resistito alla tentazione di filmare tutto e pubblicare la scena sui social network, facendo diventare la disavventura subito virale.

Oggi a "Pomeriggio Cinque" con Barbara d'Urso lo stesso Massimo Boldi ha ironizzato sull'accaduto, ammettendo di essere stato vittima di una distrazione: "Era un bel sabato sera e pioveva, ho preso la macchina che aveva appena venti giorni e sono uscito - ha raccontato - ero al telefono al vivavoce con Giorgia Carniti, una modella bellissima che è una mia amica. Mentre stavo parlando con lei mi chiama un'altra persona: Elisa, un'altra mia amica, mi sono agitato e ho visto che le rotaie del tram andavano dritte e la strada prendeva una forma a V. Io frequento molto le modelle, mi hanno chiamato tutte insieme e sono andato fuori col melone", ha scherzato.

Dagospia il 14 gennaio 2023. Da I Lunatici Radio2 

Massimo Boldi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e le due e venti circa.

 L'attore ha parlato un po' di se: "Siamo ancora dentro alla situazione del Covid, per questo non sono riuscito neanche quest'anno a preparare il film di Natale. Però l'anno prossimo lo faremo. Adesso dobbiamo anche pensare a quello che vuole il pubblico, sono cambiati i meccanismi, il gusto della gente. Io mi sono svegliato da un sogno lungo due anni e mezzo e mi trovo sinceramente in una città diversa, nuova, dove le nuove generazioni hanno addirittura cambiato professione. Dalla pandemia non siamo ancora usciti. Come sta la gente? Io dico uno slogan: l'Italia s'è rotta. Come si rompe un'automobile. SI è rotta l'Italia, la devono aggiustare con la colla. Speriamo che trovino la colla giusta".

Sui film di Natale: "Inizia tutto con il Film che ho fatto con De Laurentis. Era il 1990, è passato quasi un quarto di secolo. Insieme a Christian De Sica avevamo già fatto Yuppies. Il primo approccio con De Sica andò benissimo. Lui faceva il cantante, io il batterista. Se c'è mai stata gelosia? Sì, sì! Come si supera? Dandosi quattro calci nel sedere a testa. De Sica è un signore, io sono Braccio Di Ferro, parlo parlo ma poi non faccio niente. E finisce lì. Ogni tanto ci sentiamo. Quanto c'è di Massimo Boldi nel personaggio che interpreto nei film di Natale? Tanto. Non sono mai uscito dal binario. Sono andato su un binario morto per poco, ma poi sono tornato. Infatti questi ultimi due anni e mezzo sono stati duri".

Ancora Boldi: "Non immaginavo che avrei fatto l'attore da piccolo. Mi piacevano molto le bambine. Io stavo sempre in classe mista, ero sempre insieme alle bambine. Poi quando ho iniziato a fare le feste con i ragazzi della scuola, gli altri limonavano e io mettevo su i dischi. Se non avessi fatto l'attore forse avrei fatto il lavoro che faceva il mio papà, le decorazioni per la pasticceria"

 Sulle donne: "Il primo amore? Si chiamava Adriana, ma fu un palo. Ma il vero amore è stata solo mia moglie. Quella vera. Siamo stati sposati 33 anni. Quando è morta sono stato male. Non so come si superi un lutto del genere, so che ce l'ho fatta grazie alle mie tre figlie e alla mia famiglia. Io e mia moglie ci siamo conosciuti in un bar latteria che avevo in gestione negli anni '70. Lei faceva l'impiegata lì vicino, scendeva per bere un cappuccio, fare colazione. L'ho notata e le ho chiesto il numero, però fu lei a telefonarmi. Marisa mi ha scelto prima che diventassi famoso e popolare. E' bello, è raro. Il successo alcune volte ha rischiato di farmi perdere la testa. Donne che mi si sono buttate addosso? Tutte super belle, ma io sono sempre riuscito a tenere le distanze. Fino a un certo punto. La mia vita è stata sempre felice. Il periodo meno bello è legato alla malattia di mia moglie".

Su Berlusconi: "Siamo molto amici. L'ho conosciuto a casa di Bettino Craxi a Milano. Non ero ancora famoso. Facemmo un accordo quella sera e iniziai a lavorare con lui. Era sempre molto brillante".

 Sulla televisione: "La tv mi ha dato il primo successo, ma oggi non ho più voglia di fare una televisione che non esiste".

 Sul Milan: "Sono un grande tifoso, quest'anno lo vedo benissimo. Calciatori conosciuti? Quasi tutti quelli che stavano a Milano".

Da mowmag.com il 27 dicembre 2022.

Ci mancava solo che Massimo Boldi, rimasto senza Cinepanettone, entrasse nel mirino del politicamente corretto. Ma come, Cipollino, adesso che non si fanno battute sul pistolino e sul me la ciula, perché dovrebbe nascere la polemica? Perché l’attore milanese, a quanto pare, si potrebbe dire che ha scambiato i social per un sito di incontri o qualcosa di simile. Tutto è nato anni fa quando l’attore coinvolse nelle sue scorribande Taylor Mega, modella e influencer, molto attiva su tutti i social, in particolare su TikTok, dove conta un milione di followers, e ancora di più Instagram, dove arriva a 2,8 milioni. In pratica, numeri di altissimo livello per l’audience italiana, e che alla fine ha conquistato anche Massimo Boldi.

Infatti, l’ex star dei Cinepanettoni e leggendaria spalla di Christian De Sica nelle commedie italiane, aveva postato (salvo poi rimuoverla) sul suo profilo Instagram una foto di Taylor Mega. Alla fine, che qualcuno reposti o condivida un post social di qualcuno è un conto, ma che Boldi - quindi, fra tutte le considerazioni del caso, anche il fatto che è un personaggio pubblico - condivida con il suo pubblico una foto di Taylor Mega scrivendo anche “Molto carina riservata simpatica“ sembra di essere su Scherzi a parte. Invece è andata proprio così, salvo che poi l’attore ha cancellato la foto sia da Facebook sia da Instagram (che utilizza per lo più per condividere foto e video della sua fanpage ufficiale di Facebook). 

In questo modo, Boldi non soltanto ci ha dato informazioni sulla personalità di Taylor Mega (magari la conosce), ma ha anche suscitato i commenti di scherno dei suoi followers. Infatti, si sono ritrovati sotto la foto molte frasi sul fatto che Massimo Boldi utilizzi i social come un sito di incontri, qualcuno ha chiesto chi fosse la ragazza in questione, qualcun altro si è domandato se addirittura il suddetto Boldi stesse bene; le offese sono state più o meno pacate, ma si intende che la gente su Facebook e su Instagram ha sfottuto l’attore di Vacanze di Natale per questa leggerezza. Arrivò, in seguito, anche la risposta della Mega, che aveva commentò la foto con una risata. Quella che con Boldi si dovrebbe fare sempre, tranne che questa volta. Un gesto da boomer che però ha replicato altre volte. 

Il post di Massimo Boldi su Facebook

Come quando nel 2020 scrisse su Facebook: “Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate se un uomo adulto, più o meno della mia età, si potrebbe innamorare ancora…di una donna molto più giovane, e la donna più giovane, molto più giovane, potrebbe innamorarsi dell’uomo più grande?”. Questa la domanda che, attraverso il suo canale ufficiale, Boldi rivolse ai suoi followers. E il perché lo spiegò sempre lui stesso: “Vi domandate se quell’uomo sono io? Perché no….!!!”. Un nuovo amore era infatti arrivato nella sua vita, Irene Fornaciari di ben 34 anni più giovane (ma ora è finita anche con lei). Ma che Massimo Boldi abbia un debole per le belle donne è cosa nota e lo ha dimostrato (sempre via social) un'altra volta quando nel 2021 ha condiviso una dedica indirizzata ad una ragazza speciale della sua vita, Enrica Tarolla, giovane manager della quale si era parlato come di una nuova fiamma per il comico.

E lui scrisse su Instagram: "Nonostante i 43 anni di differenza, ci capiamo al volo". Sul suo utilizzo dei social gli è stato chiesto conto in alcune interviste. Le donne cercano di contattarla anche via social? “Su IG mi scrivono molte donne dandomi dei numeri di telefono accompagnati da foto. Ma io no ho mai cercato nessuno”. Sarà vero, ma di certo Boldi è scivolato altre volte in gaffe che fanno pensare a un utilizzo delle piattaforme un po’ troppo disinvolto. Come due anni fa, all'indomani della nuova puntata di 'Ballando con le Stelle' su Rai 1, quando Paolo Conticini festeggiò sui social l'approdo in finale in coppia con Veera Kinnunen: "E finale sia! Grazie del vostro aiuto, vi voglio bene, mi avete fatto felice", scrisse l'attore su Instagram, pubblicando una foto insieme con la Kinnunen. E tra i tanti like non passò inosservato il commento, decisamente sopra le righe, del profilo ufficiale di Massimo Boldi: "Trombala... se lo merita".

Di recente Massimo Boldi sui social è stato avvistato alla cena con altri importanti nomi del mondo comedy italiano. Jerry Calà, Cochi e Renato, Enzo Iacchetti, Diego Abatantuono e Teo Teocoli tutti a cantare La vita, la vita, una delle hit, di Cochi e Renato. Ma appunto, solo cene ed eventi mondani, perché è da un po’ in effetti che Cipollino manca dal grande schermo - ma in realtà, anche dal piccolo. Infatti, l’ultima volta di Massimo Boldi è comparso in un film è stato (ma dai) nell’ultimo cinepanettone con Christian De Sica, In vacanza su Marte. Per il resto, il nome di Boldi era un po’ sparito dai radar, al contrario del suo storico partner nei cinepanettoni, Christian De Sica, che invece continua a comparire in molti film e anche con dei lavori da regista.

Estratto dell'articolo da leggo.it l'1 maggio 2023.

Ospite di “Da noi…a ruota libera”, l’attore, regista, comico e sceneggiatore Massimo Ceccherini si racconta in un’intervista intima e profonda e rivela a Francesca Fialdini: «Non esco mai di casa, sono sempre in pigiama e non ce la faccio a stare in televisione, perché mi sento solo. Soprattutto mi manca il mio cane Lucio, il mio bambino, che ho dovuto abbandonare per venire in studio oggi». 

Il rapporto con il suo cane

E sul rapporto profondo con il proprio cane, aggiunge: “Come si parla ai bambini, io parlo a Lucio e passo tutto il giorno così. Lui è tutta la mia vita. Sono riuscito a tenere legati i demoni che avevo dentro, proprio grazie a mia moglie e a Lucio, che batte qualsiasi amore e questo lo sa anche mia moglie. Da quando c’è lui, mia moglie non dorme più con me, perché io devo dormire con lui. 

Quando stavo per essere riagguantato dal demone, Lucio mi dava dei segnali, cominciava a spaventarsi e io per non farlo soffrire non ricadevo nel baratro. Sono i cani che proteggono noi, sono i nostri angeli custodi. Penso che questa fase della mia vita sia la più bella, senza rinnegare le altre, perché non avevo mai avuto un rapporto con degli animali prima d’ora”.

[…]

Massimo Ceccherini: «Mia moglie Elena e il mio cane Lucio mi hanno salvato dai demoni. Ho un passato nei Testimoni di Geova». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

L’attore: «La bestemmia all’Isola dei Famosi? Mi confortò Roberto Benigni. Prima di morire voglio litigare con Pieraccioni» 

«Mi sono fatto pure la doccia per quest’intervista, ho messo il telefono in carica. Ma io non ho tutte ’ste cose da dire», dice l’enigma Massimo Ceccherini. Uno spaccone, un uomo timido, insicuro e sincero fino alla crudeltà, un grullo toscano, un ciclone, come il film che lo rese celebre. Oppure, come dice il suo amico Leonardo Pieraccioni, «un vero artista, uno che non legge nemmeno i copioni».

Lei come si vede?

«Come posso rispondere a una domanda così? Se avessi la risposta non sarei tormentato da quando mi alzo fino a sera, sogni compresi. Vado avanti pieno di tormenti. Se uno parla male di me mi garba».

Pieraccioni ci ha detto che ora vive solo per il suo cane.

«Ne ho due, Leo non sa che ho anche Mina, abbandonata dalla figlia che aveva già mia moglie Elena. Il mio si chiama Lucio che mi è stato mandato da Dio in persona, era piccolo, pioveva, camminava per una specie di tangenziale a Roma. In quel periodo ero disperato, un mio amico, quello coi capelli rossi che nei tg appare sempre dietro le interviste ma non ricordo il nome, sapeva che cercavo un cane, l’ha raccolto e me l’ha dato. Lucio m’ha salvato la vita. L’amore che ho per lui batte tutti quelli che ho avuto, ci dormo insieme, anche Elena lo ama. Poi ho un pappagallo che quando mi sente parlare comincia a fischiare, e una tartaruga».

Anche da Elena sarà stato aiutato.

«Sì, ci mancherebbe. Quando mi ubriacavo era impossibile tenermi. Lei mi picchiava e fermava la bestia dentro di me. Picchia oggi picchia domani, il colpo di fulmine lo ebbi una notte. Ora ha cambiato lavoro all’ospedale di Prato, ma all’epoca la vedevo al mattino che si preparava indossando la divisa, dietro c’era scritto misericordia. E mi sono detto: Dio è arrivato. Ho avvertito la sua presenza. Devi essere pronto ad agguantare l’aiuto».

Beh, più che Dio ha visto la Madonna.

«Sono passati otto anni. Dalla bestia non si guarisce, però riesco a tenerla legata. Ho bisogno quasi sempre della presenza di Elena. Sono stato in Africa sul set di Matteo Garrone e mi son fatto mettere WhatsApp per poter fare le videochiamate a Elena e Lucio, perché non potevo portare il cane nel deserto».

Quel film, «Io Capitano», era previsto a Cannes.

«Penso che andrà a Venezia ma te lo dirà lui. I protagonisti sono due ragazzi senegalesi che intraprendono il viaggio per andare in Italia. Io il film l’ho scritto insieme con Matteo, non recito. Siamo amici, siamo simili su certe cose, abbiamo una complicità quasi sessuale, dico per dire. L’ho conosciuto nella fase buia, lui è uno che non si ferma alle apparenze. Mi aveva già chiamato per una piccola parte nel Racconto dei racconti. Non mi ha mollato come avrebbero fatto tutti. Poi mi richiamò per Pinocchio. Il provino fu in un posto sulla Tiburtina, ricordo una scaletta lunga, si arrivava in una casetta tra gli alberi. Matteo sembrava la mia fatina».

Come ha conosciuto Elena?

«Ma a chi vuoi che interessi come l’ho conosciuta. Ti dico che dopo la disperazione più profonda le cose mi sono arrivate come per magia».

E Leo Pieraccioni può dirlo come l’ha conosciuto?

«Facevo cabaret da giovanissimo con Alessandro Paci. Conobbi un impresario che si arrabattava, in ufficio aveva una foto di Leo che tiene in braccio Benigni, un po’ come Benigni aveva fatto con Berlinguer. L’impresario mi fece vedere un assegno per un contratto a Leo di 300 mila lire, chi l’aveva mai viste. Leo mi chiamò per un filmino amatoriale, io ero il santone che pregava in mezzo a un campo arato, lui mi guardava e ridevamo sotto un sole che picchiava. Rifacemmo quella scena trenta volte, presi l’insolazione. È sempre andata così. Mi richiamò per I laureati , per andare al provino non avevo nemmeno i soldi per il taxi, me li diede mio padre. Poi arrivò Il ciclone, nessuno di noi immaginava che successo sarebbe stato. C’erano le ballerine protagoniste, ma io ero fidanzato e non potei fare niente».

Le donne sembrano una sua ossessione.

«È tutta finzione, fa parte della mediocrità del mio talento. Vado sul facile, sul sesso. Io vengo dal bar di San Giusto, se da quel buco di osservatorio incontri Lorena Forteza e le altre...».

Cosa pensa la gente di lei?

«Mi accorgo per strada, anche se non esco quasi mai, che la gente mi vuol bene. È chiaro che sono in bilico. Ognuno pensa come gli pare. Ho debuttato a 25 anni, ho girato una cinquantina di film. Mi sono sempre mangiato tutti i soldi guadagnati. Ebbi un momento difficile all’Isola dei famosi, volevo vivere un’avventura sperduto nell’isolotto a pescare, la mia passione, anche se non mi ci vedevo lì. Avevo buone possibilità di vincere ma la vittoria non fa parte di me. Mi scappò la bestemmia che rovinò tutto e mi cacciarono. È una battaglia e un controsenso la mia vita. Mi capita di vedere uno che mi sta antipatico e vado ad amarlo, mentre se uno mi sta simpatico per troppo affetto rovino tutto. Batistuta, il calciatore della Fiorentina, lo amavo talmente che quando lo incontravo nei locali per troppo affetto diventavo fastidioso, lo vedevo che gli davo noia, lo abbracciavo dopo tanti bicchierini».

A Roma era un pesce fuor d’acqua?

«Mi schifava il giro di quelli che in tv sembrano tanti preti. Ma Roma l’ho amata subito. Era il paese dei balocchi di Pinocchio. Infatti sono diventato un asino. Quelli del cinema facevano feste nelle case e dopo Il ciclone ci arrivavo per qualche motivo. Mi sentivo schifato. Io nasco imbianchino col mi’ babbo, sai quando uno non è adatto, ecco. Io ero attratto dai locali notturni, il Jackye O’, quella roba lì. Ma questa non è un’intervista, è una seduta psichiatrica. Ci andai per davvero dallo psichiatra, gli parlavo dell’alcol, delle prostitute, dei locali. Alla fine mi chiese di uscire con me la sera».

Che bambino era?

«Ero marchiato già da piccolo. Una volta in gita scolastica mi tirai giù i pantaloni. Non sono arrivato alla terza media, Leo invece sì, ci sono foto di lui bambino che sembra Bambi. Io penso di essere uno molto buono, ma attratto dai vizi. Non è che non studiassi, ne combinavo di tutti i colori, arrivavo a un punto che mandavo tutto a puttane. Ora sai cosa sogno? Di andare in tv a Quarto Grado , di fare la pipì di nascosto sui divani dello studio, e poi col Dna gli esperti criminologi devono scoprire chi è stato».

Pieraccioni alla festa dei suoi 50 anni...

«Sì, l’ho letto l’articolo, mi ha pregato di non andare temendo che lo mettessi in imbarazzo con gli altri amici. Ero vittima della grappa, mi sdoppiavo e facevo casino. Lo capisco».

Senta, quella storia dello scherzo a Renzi...

«L’hanno un po’ infiocchettata, la storia dell’ortica sul suo sedere coi pantaloni tirati giù. È vera ma hanno esagerato nel raccontarla. Gli facemmo anche di peggio, subì il masa, quel grattino sulla testa che fa un sacco male. Lui non era ancora niente, non faceva politica. Ma non vorrei parlare di lui e di quelli come lui, con quel ghigno. Per capire la grandezza di Gino Strada e del giudice Falcone bastava osservarne lo sguardo. Invece in Renzi tutto incravattato, così come tanti altri in tv, penso alla nuova Isola dei famosi, penso a Ilary Blasi, Vladimir Luxuria, Enrico Papi, ecco vedi nei loro occhi la cattiveria, la spietatezza, quello gli leggi. Di me invece hanno ricordato soltanto la bestemmia».

Mica una cosa da poco.

«Mi vergognai, ne dissi una non cento. Con me si amplifica e amplifica. Nessuno per strada mi ha detto che avevo fatto schifo. È una cosa nella natura dei toscani. Sai chi mi confortò? Roberto Benigni. Mi disse che con la bestemmia ero più vicino a Dio. Mica ce l’hai con l’Onnipotente. Dio non lo pigli in giro, lui lo sa che lo ami ugualmente».

Lo psichiatra Alessio Meluzzi parlando di lei disse che la bestemmia è una preghiera al contrario.

«Proprio lui, un falso che non vi dico, mi chiamò al tempo del fattaccio. Mi passava i preti al telefono. Come se dovesse farmi un esorcismo. Mi leggeva pezzi della Bibbia, che tra l’altro conosco meglio di lui, ho un passato da Testimone di Geova, questo non l’avevo detto mai. Meluzzi voleva fare uno spettacolo con me, ma non capisce nulla del rapporto con Dio».

Come passa le giornate?

«Guardo molta tv nella mia casa sopra le colline di Pistoia. Ad Amici fanno cantare tre giovani disgraziati e non inventano nulla, usano belle canzoni, i giudici sulle poltroncine guadagnano un sacco di soldi, come gli autori. Gli unici che non guadagnano nulla sono i ragazzini da sbranare. Anche lì vedo tanti ghigni e occhi cattivi. A casa seguo i film, mi piace leggere il cast, vado a vedere se gli attori sono morti. Sono molto attratto dalla morte. Ho 57 anni, sono vecchio. Quando morirò dovrò litigare con Pieraccioni, quella scena del Ciclone con la bara aperta, dove voglio morire se non mi porto a letto nemmeno una ballerina, mi ha marchiato a vita. Per colpa sua mi farò cremare».

Ma da dove nasce la sua rabbia?

«Non lo so, posso dirti che la rabbia è la cosa che mi tiene vivo. Le marachelle le facevo fin da piccolo, mi piaceva rubare, nei supermercati entravo e scappavo. Mica ammazzavo nessuno. Quando nei furti stavo facendo il salto, incoraggiato da quelli più grandi di me, mi sono fermato. Ero davanti a un appartamento vuoto, qualcuno da lassù, ovvero Dio, mi fermò. Così ridiscesi le scale e me ne andai».

Cos’è per lei la volgarità?

«È una cosa che fa schifo e io non sono uno schifoso. Posso essere uno che non fa tanto ridere, ma non uno schifoso. Io poi ’sta parola, volgarità, non la uso proprio, credo sia la prima volta che la pronuncio, non so cosa vuol dire».

Lei è il Bukowski italiano, un poeta maledetto?

«In comune con lui ho soltanto l’alcol».

"Meno sto a contatto con la gente e meglio mi sento". La vita ascetica di Massimo Ciavarro: “Vivo in una comunità, non mi è mai piaciuto fare l’attore”. Vito Califano su Il Riformista il 15 Marzo 2023

Massimo Ciavarro, “il biondino che negli anni ’70 e ’80 faceva impazzire le donne”, vive in nelle Marche, in un ashram. “Vita ascetica, pratico yoga, cure ayurvediche, convivo con chi c’è. Ogni tanto, vengo qui per qualche giorno: è la mia fuga da questo mondo impazzito e folle. Abbiamo di colpo le persone maciullate alle porte di casa, il Covid, la crisi economica, energetica. E già c’erano il consumismo, i social… Poi, io meno sto a contatto con la gente e meglio mi sento”, ha raccontato l’attore in una lunga intervista al Corriere della Sera.

Ciavarro è nato a Roma nel 1957, è esploso negli anni Settanta grazie a i fotoromanzi con i quali raggiunse la popolarità. “È più strano che sia finito nei fotoromanzi e al cinema piuttosto che, dopo, mi sia ritirato in campagna. Fin da piccolo andavo sempre con papà in un campo che aveva fuori Roma. Ma papà morì prestissimo: io avevo 13 anni. E prima di morire mi disse la frase che mi ha rovinato: Massimo, questa è forse l’ultima volta che ti vedo, prenditi cura di tua mamma e delle tue due sorelle. Mi ha lasciato ‘sto fardello a 13 anni”.

Così cominciò a lavorare da commerciante. A 14 anni il primo fotoromanzo, la porta per entrare nel mondo dello spettacolo e del cinema. “Non mi è mai piaciuto essere attore. Per recitare, devi essere narcisista, egoriferito, esibizionista. Io sono l’esatto contrario. Certo, non potevo sputare su una fortuna economica, ma il cinema mi metteva ansia e stress, appena ho potuto, ho fatto cose che mi somigliavano di più: l’azienda agricola, il produttore di tre film e di tre documentari, e oggi un’attività turistica a Lampedusa, dove organizzo pure, da 14 anni, un festival di cinema, Vento del Nord, con Laura Delli Colli”.

Dal matrimonio con Eleonora Giorgi è nato il figlio Paolo, conduttore televisivo, che ha avuto un figlio con l’influencer Clizia Incorvaia. Ciavarro era considerato un sex symbol. Moana Pozzi le diede 6, “dato che non m’ero tolto i boxer”. La gente lo riconosceva per strada. “Ci ero abituato: venivo da dieci anni di fotoromanzi e, in redazione, arrivavano tonnellate di lettere di fan. Vengo riconosciuto ancora oggi. La metà delle donne mi dice che aveva il mio poster nella cameretta. Faccio parte di quei dinosauri che riconoscono tutti. Oggi, invece, i personaggi nascono e spariscono”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Massimo Ciavarro: «Faccio una vita ascetica. Eleonora Giorgi? Quando mi ha lasciato mi sono fidanzato con una svedese. Isabella Ferrari? Non c’è stato niente». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023.

L’attore, 65 anni: «Odiavo fare l’attore, lavorai con Nicole Kidman e la trovai priva di ogni sex appeal. Con Moana Pozzi sono stato solo una sera»

«Mi fa strano parlare con una giornalista. È un secolo che non faccio interviste».

Per questo l’ho cercata: per sapere dov’è e che fa Massimo Ciavarro, il biondino che negli anni ’70 e ’80 faceva impazzire le donne. «Dove sono non glielo dico, se no, mi prende in giro».

Io? Mai.

«In un Ashram nelle Marche».

E che ci fa in un Ashram?

«Vita ascetica, pratico yoga, cure ayurvediche, convivo con chi c’è. Ogni tanto, vengo qui per qualche giorno: è la mia fuga da questo mondo impazzito e folle. Abbiamo di colpo le persone maciullate alle porte di casa, il Covid, la crisi economica, energetica. E già c’erano il consumismo, i social… Poi, io meno sto a contatto con la gente e meglio mi sento».

Ma è un 5 stelle lusso?

«Ma che è pazza? Si dorme in un camerone condiviso, laviamo i piatti, cuciniamo, puliamo a rotazione. Si lavora da paura. E pure i trattamenti sono pesanti se hai da sistemare gli acciacchi fisici: io ho passato trent’anni a zappare la terra e notti e notti a pescare».

Come finì a zappare la star dei fotoromanzi, il biondino di «Sapore di Mare 2»?

«È più strano che sia finito nei fotoromanzi e al cinema piuttosto che, dopo, mi sia ritirato in campagna. Fin da piccolo andavo sempre con papà in un campo che aveva fuori Roma. Ma papà morì prestissimo: io avevo 13 anni. E prima di morire mi disse la frase che mi ha rovinato: Massimo, questa è forse l’ultima volta che ti vedo, prenditi cura di tua mamma e delle tue due sorelle. Mi ha lasciato ‘sto fardello a 13 anni. Presi in mano la sua attività, lui era commerciante: acquistava in tutta Europa e vendeva in Italia. Ma succede che tutto quello che compravo dovevo pagarlo e tutto quello che vendevo non mi veniva pagato. Così, quando a 14 anni mi offrirono un fotoromanzo, accettai».

Grand Hotel le dava cinque milioni di lire al mese.

«Erano tanti: ma i fotoromanzi andavano forte perché non c’era nient’altro, non c’erano fiction, social, niente. Poi da lì, arrivò il cinema. Ma non mi è mai piaciuto essere attore. Per recitare, devi essere narcisista, egoriferito, esibizionista. Io sono l’esatto contrario. Certo, non potevo sputare su una fortuna economica, ma il cinema mi metteva ansia e stress, appena ho potuto, ho fatto cose che mi somigliavano di più: l’azienda agricola, il produttore di tre film e di tre documentari, e oggi un’attività turistica a Lampedusa, dove organizzo pure, da 14 anni, un festival di cinema, Vento del Nord, con Laura Delli Colli».

Quanto sta a Lampedusa?

«Dai primi di aprile ai primi di novembre. Facendo avanti e indietro: non è che sparisco da Roma. Ora, sono pure nonno»

Suo figlio Paolo, conduttore tv, ha conosciuto al Grande Fratello l’influencer Clizia Incorvaia e hanno un maschietto.

«Gabriele ha un anno, è bellissimo, anche se stando tanto a Lampedusa, non è che l’ho stravisto. Ma domenica, Clizia non c’era, Paolo doveva giocare a tennis e mi ha chiesto: lo tieni? L’ho preso. Il bimbo era un po’ sconcertato, Paolo terrorizzato che gli dessi cose che non gli vanno date. Infatti, gli ho dato una pallina da tennis e Paolo è uscito dal campo infuriato dicendo che era sporca di terra».

Come fu essere un sex symbol?

«Che ne so… Io stavo sempre chiuso a casa».

La volta che usciva?

«Mi riconoscevano. Ma ci ero abituato: venivo da dieci anni di fotoromanzi e, in redazione, arrivavano tonnellate di lettere di fan. Vengo riconosciuto ancora oggi. La metà delle donne mi dice che aveva il mio poster nella cameretta. Faccio parte di quei dinosauri che riconoscono tutti. Oggi, invece, i personaggi nascono e spariscono».

Nei primi film, interpretava sempre il bel ragazzo che faceva innamorare tutte. Era così anche nella vita?

«Il contrario: avevo una fidanzata, stavo sempre con lei, costruivo reti da pesca, cucivo bandiere della Roma. Mi è sempre piaciuto costruire cose. Dopo, ho avuto un paio di anni di vita notturna: i miei anni più schifosi».

Fu allora che ebbe una storia con Moana Pozzi?

«Una storia? Ci sono stato una sola sera. Dopo dieci esami in Giurisprudenza, mi ero iscritto a una scuola di recitazione, la Scaletta, c’erano lei e pure Margherita Buy, già stressatissima come oggi. Moana era timidissima, sensibile, di buona famiglia, ricca. Una volta, stavamo chiacchierando e finimmo a letto».

Moana le diede voto 6.

«Così scrisse nel suo libro, dato che non m’ero tolto i boxer».

Con Isabella Ferrari, la Selvaggia di «Sapore di mare» successe mai qualcosa?

«Ma no».

Con Nicole Kidman?

«Era carinissima, ma al di fuori da ogni tentazione. Giravamo Un’australiana a Roma, era giovanissima, una cavallona alta alta, tutta riccia, priva di ogni sex appeal. Quando si chiacchierava col regista Sergio Martino, diceva: io arriverò, io farò un gran carriera… Io e Sergio pensavamo: guarda ‘sta disgraziata. Fra noi, non ci fu niente. E poi stavo già con Eleonora, che mi mettevo a fare il pagliaccio?».

Eleonora Giorgi era il sogno erotico del cinema anni ’70 ed è stata sua moglie, negli anni della campagna.

«Avevamo un progetto condiviso: abbiamo costruito case, allevato animali, fatto l’olio, siamo stati bene, è nato Paolo. Preferivamo quello ai film. Poi, Eleonora mi ha lasciato, mi sono fidanzato con una svedese e, quando se n’è andata anche lei, mi sono detto che lì, da solo, rischiavo l’abbrutimento. Intanto, avevo già scoperto Lampedusa».

Ora, è fidanzato?

«Ho una persona a cui voglio molto bene. Voler bene è di più dell’amore, che è una cosa un po’ folle, contorta».

In tv, ha confessato d’aver detto «ti amo» per la prima volta a 58 anni.

«È così».

L’ultimo film è Natale a 5 stelle di Marco Risi, del 2018. I copioni arrivano ancora?

«Arrivano. Gabriele Muccino mi voleva nella serie A casa tutti bene, ma, alla fine, lo stress da set non m’interessa. E non si tratta neanche di rifiutare dei soldi: ormai sono pagati bene solo i grandi protagonisti. L’attore lo fai se hai la passione e io non ce l’ho».

Che cosa ha voglia di fare nei prossimi anni?

«Vorrei come tutti, tranquillità. Vorrei non lottare contro i mulini a vento. E, per non capire e non vedere tante cose, vorrei essere stupido».

Massimo Ghini compie 69 anni: il matrimonio negli anni Ottanta con Nancy Brilli, i quattro figli, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2023.

Le tappe della vita sentimentale dell’attore romano, nato nella Capitale il 12 ottobre 1954

Gli inizi con Strehler

«Mi proposero di fare il chierichetto nella mia parrocchia e accettai subito. La celebrazione del rito cattolico è una rappresentazione: si indossa un costume, si compiono determinati gesti, si dicono frasi e si intonano canti da copione. Diciamo la verità: è un vero e proprio spettacolo... È stato lì, da ragazzino e davanti a un altare, che ho avvertito dentro di me i primi sintomi, i primi segni di un’anima da attore». Compie oggi 69 anni l’attore e regista teatrale Massimo Ghini. Nato a Roma, il 12 ottobre 1954, ha iniziato a recitare negli anni Settanta. Al provino per l’Accademia d’Arte drammatica fu bocciato, ma dopo qualche tempo arrivò la sua rivincita: «Quando Giorgio Strehler mi scelse, sia pure per un piccolo ruolo, nel suo Re Lear.. e scusate se è poco - ricordava Ghini qualche mese fa al Corriere -. Quando lo dissi a mia madre, ha pensato che me l’ero inventato... Invece il grande regista mi adorava, si divertiva a chiamarmi il “romanaccio”. Ma poi sono stato scelto da Vittorio Gassman per interpretare Cassio; Franco Zeffirelli per fare Mortimer nella Maria Stuarda con Rossella Falk e Valentina Cortese... e così via. A certe persone dava fastidio che venissi ingaggiato da tali personalità, perché ero troppo figo, non avevo il fisico da giovane Werther e poi non ho fatto scuole e nemmeno le cantine dell’avanguardia anni ‘70: sono subito passato in serie A. Semmai, per guadagnare un po’ di soldi d’estate, quando finivano le tournée teatrali, mi sono fatto le ossa organizzando spettacoli nei villaggi Valtour con Rosario Fiorello. Insomma, non mi sono fatto mancare niente».

Il primo incontro con Nancy Brilli

Nella seconda metà degli anni Ottanta, sul set della miniserie diretta da Alberto Lattuada «Due fratelli», Massimo Ghini ha conosciuto quella che sarebbe diventata la sua prima moglie: Nancy Brilli. L’attrice nel 2015 ha rivelato al Corriere i (buffi) dettagli di quel primo incontro: «Entrò sbagliando camerino, eravamo entrambi in mutande».

Il matrimonio nel 1987

Massimo Ghini e Nancy Brilli sono convolati a nozze dopo sei mesi di fidanzamento nel 1987. «Lui è andato a chiedere la mia mano a mio padre - ha ricordato Brilli a L’Arena -, forse è il momento più imbarazzante nella vita di mio padre. Voleva fare le cose tutte per bene come una volta. Mi ha fatto un regalo bellissimo perché Massimo è molto generoso. Questo famoso punto luce…Credo abbia girato la metà dei negozi di Roma. Alla fine mi ha comprato questo punto luce. L'ho accettato, ero felicissima però dopo sono andata a riportarlo perché non c'avevamo una lira in due».

Sposi…anche per finta

Dopo tre anni la coppia si è detta addio, ma Nancy Brilli e Massimo Ghini sono rimasti in ottimi rapporti: «Io e Nancy non abbiamo avuto figli ma ci siamo amati molto - ha detto qualche anno fa Ghini in un’intervista a Sorrisi -, poi il lavoro che facciamo ci ha portato a essere sempre più distanti e a prendere strade diverse, senza conflitti. Anzi, siamo rimasti ottimi amici». Nel 2016 i due si sono incontrati di nuovo sul set, in abiti nuziali per la fiction «Matrimoni e altre follie».

Due gemelli

Dalla relazione con Federica Lorrai nel 1994 Massimo Ghini ha avuto due gemelli, Camilla e Lorenzo. La separazione tra l’attore e la sua compagna, avvenuta quando i figli erano ancora piccoli, non è stata semplice: «Con la madre di Camilla e Lorenzo - raccontava nel 2022 Ghini a Sorrisi - è stata una separazione molto difficile: sarebbe stata un caso perfetto per “Studio Battaglia” (fiction trasmessa lo scorso anno su Rai 1 con l’attore tra i protagonisti, ndr.)».

L’amore per Paola Romano

«Ogni tanto mi dipingono come Jean Paul Belmondo, ma sto con la stessa donna, mia moglie Paola, da 22 anni», diceva l’attore nel 2017 a Io Donna. Negli anni Duemila Massimo Ghini ha ritrovato l’amore con Paola Romano, ex costumista, sposata nel 2002. «L’ho conquistata a casa di Alessandro Haber a una festa di Capodanno - ha raccontato l’attore ospite di Oggi è un altro giorno -. Ci siamo guardati e ci siamo riconosciuti perché ci eravamo già incontrati (ma non avevamo parlato)».

Leonardo e Margherita

Paola Romano e Massimo Ghini sono genitori di Leonardo (1996) e Margherita (1999). I quattro figli dell’attore hanno seguito percorsi molto diversi tra loro: Lorenzo non fa parte del mondo dello spettacolo, Margherita si è trasferita a Londra mentre Leonardo ha scelto la recitazione. Anche per Camilla si sono accesi i riflettori del mondo dello spettacolo: è tra gli assistenti di Forum su Canale 5 ed è speaker di Rtl 102.5 e Radio Zeta.

"A causa del politicamente corretto stiamo sfiorando il ridicolo". L’attore capitolino protagonista al Teatro Parioli con lo spettacolo “Quasi amici”, tratto dal celebre film di Eric Toledano e Olivier Nakache: la nostra intervista. Massimo Balsamo il 15 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Teatro Parioli per le grandi emozioni. Dal 15 al 26 febbraio sarà in scena “Quasi amici”, tratto dal celebre film di Eric Toledano e Olivier Nakache: una storia importante, di quelle che meritano di essere condivise e raccontate. Al fianco di Paolo Ruffini ci sarà Massimo Ghini, entusiasta all’idea di affrontare la sfida presentata dallo spettacolo adattato e diretto da Alberto Ferrari: “L’intelligenza degli autori è stata quella di affrontare argomenti delicati attraverso l’incontro tra un tetraplegico e un maghrebino maleducato e ignorante. Sì, perché nella realtà è maghrebino e non di colore. E infatti ci hanno chiesto, pensando al film: ‘Perché non avete preso un attore nero?’. I francesi avevano tradito la storia, il protagonista in realtà è maghrebino. Due mondi, due classi sociali che si incontrano e si scambiano. E uno cambia la vita all’altro, bellissimo”.

Una storia amata e toccante, come nasce questa avventura?

Io sono arrivato strada facendo. Sono stato chiamato per prendere parte al progetto in un momento ricco di impegni tra film e serie. Sono sempre stato molto istintivo e ho capito che questa era una produzione interessante. Mi piaceva l’idea di confrontarmi con un personaggio tetraplegico, una bella sfida per un attore molto fisico come me. Credo che in questo momento ci sia una crisi di valori in senso generale, che porta il teatro ad essere tradito. Io sono cresciuto con i grandi classici, ma mi sembra che da alcuni anni a questa parte tutto si sia ridotto. In questo caso qui, l’essenza del racconto di ‘Quasi amici’ è molto teatrale: basti pensare che il film è tratto da un libro. La struttura dello spettacolo non è stata violentata, arrivando da una drammaturgia letteraria. Non si tratta solo di un’operazione di ‘business’, ma c’è l’idea di raccontare un argomento delicato attraverso il politicamente scorretto”.

Altro tema particolarmente delicato…

Io penso che politicamente corretti lo erano i giornalisti durante la dittatura del fascismo. Noi dobbiamo essere intelligentemente scorretti, mettendo in discussione determinate cose. Altrimenti non si potrebbero più fare i film di Lina Wertmuller, con Giannini che dà della ‘bottana industriale’ alla Melato. La società moderna semplifica un po’ tutto per non affrontare i temi. Come i termini ‘nero’ e ‘negro’: se dico ‘negro’ non sono razzista, non lo sono mai stato e sono sempre sceso in piazza per i diritti. Ma oggi dovremmo ridoppiare tutti i film, da ‘Via col vento’ in poi. In ‘Quasi amici’ c’è questa componente divertente che si unisce a una componente molto commovente: il pubblico esce dal teatro ridendo e piangendo. Mi piacerebbe se tutti ritornassimo ad avere forza, coraggio e soprattutto denaro per poter fare anche un po’ di scuola ai più giovani”.

L’esempio dei film di Lina Wertmuller è particolarmente calzante…

Io mi sono sempre esposto, ho avuto responsabilità anche politiche pur continuando a fare il mio mestiere. E non sono mai stato ipocrita. Ho paura che la politica di oggi – da destra a sinistra – sia un po’ ipocrita e l’ipocrisia nasce dall’impreparazione. E’ giusto affrontare temi di etica e di morale, ma faccio un esempio: c’è chi reclama il ‘controllore’(l’Intimacy Coordinator, una sorta di ‘arbitro’, ndr) per le scene di sesso sul set. Ma stiamo sfiorando il ridicolo per una problematica che esiste, è vera! Io sono stato amante, marito, tombeur de femme di mezzo cinema italiano per i ruoli che facevo e c’è sempre stata la questione etica-morale. Ma da qui a chiedere che ci siano controlli sul set mi sembra una follia. Ma nemmeno nei film di Natale… Io sono padre di quattro figli, di cui due femmine: non posso non pretendere il rispetto nei confronti delle donne. Ma non dobbiamo sfiorare il ridicolo”.

Lei è uno dei volti più amati del cinepanettone. Ma oggi molti di quei film non si potrebbero più fare…

Che tristezza, eh? Io ho 110 film sulle mie spalle, ne ho viste di tutti i colori, ho lavorato con registi internazionale, passando dalla farsa alla tragedia. Quello che mi fa impazzire è che vengo fermato per strada continuamente da ragazzi che ricordano le battute a memoria. Non abbiamo fatto del male a nessuno! Penso ad Alberto Sordi, che ha rappresentato il peggio della società nella quale viveva. Ricordo quando ho fatto ‘Il vizietto’ a teatro con Cesare Bocci: quel testo ha avuto più valore di un convegno sull’omosessualità e sull’omofobia”.

Tanta gavetta, grande versatilità, grande carriera. È soddisfatto di quanto raccolto? O ha qualche rimpianto?

Se ero un pochettino più furbo, a Roma direbbero paraculo, non avrei accettato di imboccare la strada che ho accettato. Me la sono resa difficile, ma non mi lamento: sono conosciuto, popolare, molto amato. Ho scelto la strada più difficile perché in Italia c’è l’idea del posto fisso, del padroncino… Io mi sono guadagnato l’indignazione di molti perché quello che ho sempre amato del mestiere è la capacità mimetica di trasformazione. E sono passato da Shakespeare ai film di Natale, non mi sono mai voluto far classificare in una certa maniera. Io non ho mai vinto un David di Donatello, una volta ci stavo male ma oggi non mi interessa: se me lo danno lo uso per fermare la porta (ride, ndr). Ciò che mi continua a dare la soddisfazione è il pubblico, l’affetto e la stima delle persone non hanno eguali”.

Quali sono i suoi prossimi impegni?

Ho appena finito di girare molte cose. C’è ‘Gioia’ di Fausto Brizzi, dove torno al fianco di Sabrina Ferilli: un’altra operazione molto provocatoria, mi è piaciuta tantissimo. Poi, dopo la tournèe, ho le riprese di un altro film e della nuova stagione della serie ‘Studio Battaglia’. E stanno ultimando le sceneggiature del sequel de ‘I cassamortari’ di Claudio Amendola, che ha avuto un grande successo su piattaforma”.

Massimo Ranieri, la figlia Cristiana Calone rivela: «Non mi serve il cognome di mio padre sul palco e dei soldi non m’importa». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2023

Nata dalla relazione fra Giovanni Calone (è il vero nome del cantante), che all’epoca aveva 19 anni e Franca Sebastiani, morta di tumore nel 2015, l’artista è stata riconosciuta legalmente alla fine degli anni ‘90 e pubblicamente in tv nel 2007

È stata riconosciuta in tribunale nel 1997 e poi in tv dieci anni più tardi, quando Massimo Ranieri (il cui vero nome è Giovanni Calone) decise di parlare pubblicamente della figlia Cristiana Calone, che fino a quel momento era stata un segreto. Nata nel 1970 dalla relazione fra il cantante, all’epoca diciannovenne, e Franca Sebastiani, la Calone ha raccontato la sua storia nel libro «Riconosciuta», dove spiega cosa abbia significato per lei crescere senza un padre, pur sapendo benissimo chi fosse, perché la madre non glielo ha mai nascosto. E adesso ne ha parlato anche con il settimanale «Chi» nel nuovo numero in edicola.

«Quando sono nata non c’era, non poteva mancarmi qualcosa che non ho mai vissuto. Non ricordo nulla di quel periodo. Poi quando sono cresciuta avrei desiderato avere anche un papà. Io lo chiamo Gianni, ricordo il nostro primo incontro, la sua vestaglia porpora con i ricami. Poi verso i dieci anni, sentendo mia mamma cantare le sue canzoni e sentendola parlare con la sorella al telefono, ho capito bene chi fosse papà». Buon sangue non mente, anche la Calone è una cantante (ha pubblicato il singolo «She’s mine») e la madre sognava di vederla un giorno duettare con il celebre papà. «A me piace la musica che fa lui e mi piacerebbe anche cantare in napoletano», ha confessato l’artista, rivelando inoltre che qualche anno fa scelse di partecipare ad alcune serate con il nome di Cristiana Ranieri, ma che gli avvocati del padre glielo impedirono. «Oggi mi sono riconosciuta come artista, non ho bisogno di usare il nome di mio padre, perché Massimo Ranieri è solo lui, io sono un’altra persona. Adesso il suo cognome ce l’ho nel cuore, non mi serve sul palco».

La sera in cui Ranieri decise di presentarla in diretta tv è stata indimenticabile per la Calone, che non se l’aspettava. «Evidentemente per lui erano i tempi giusti, per me conta quello che ha fatto. È sempre stato un uomo riservato che, in quell'occasione, ha compiuto un gesto importante, mettendosi in gioco come non aveva mai fatto. Mi ha invitata a vedere il programma senza anticiparmi, che, poi, a un certo punto avrebbe detto: “Vi presento mia figlia”. Ancora oggi non trovo le parole per descrivere quell’emozione. Fino al 2007 ero la figlia di Giovanni Calone solo sulla carta d’identità, poi lo sono diventata a tutti gli effetti». Il timore che Ranieri potesse pensare che lei fosse solo un’opportunista in cerca dei suoi soldi l’ha avuto.

«Ma a me dei soldi non è mai fregato niente - ha precisato la Calone - non ho fatto certo la vita della figlia di papà. Ho passato momenti duri, ho fatto di tutto, dalla cameriera alla cubista, dalla donna delle pulizie alla segretaria. Non ho mai chiesto niente, non elemosino aiuto, io chiedo solo a Dio e a Papa Giovanni Paolo II». Nel 2015 la cantante ha perso la madre di tumore e l’ha pianta da sola, perché il padre non era con lei, ma ha capito il motivo della sua assenza. «Ha fatto una scelta diversa, ha vissuto il proprio dolore in maniera riservata», ha concluso la Calone che ha un figlio, Massimo Claudio, di 22 anni, il che significa che Ranieri è nonno.

Massimo Ranieri: «Ho iniziato a lavorare a 7 anni, vivevamo in 10 in una stanza. Le donne? Le ho trascurate». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 26 marzo 2023.

Intervista a Ranieri, che torna al Teatro Sistina di Roma con il recital «Tutti i sogni ancora in volo»: «Tanti gli amori perduti: pensavo solo al lavoro. Il mio impegno è stato sempre quello di far star bene genitori, fratelli, sorelle»

«Sono nato lavorando». Massimo Ranieri e la sua lunga storia, nuovamente sul palcoscenico del Teatro Sistina con il nuovo spettacolo «Tutti i sogni ancora in volo», dal 29 marzo al 2 aprile: già sold out. Più che sognare, il cantante-attore continua a essere molto desto in palcoscenico e torna a dialogare con il suo numerosissimo pubblico.

Una storia che inizia da bambino...

«Ho iniziato a lavorare a 7 anni, facendo tutti i mestieri possibili: il garzone, il barista, il panettiere, e poi mi esibivo con la mia vocina nei ristoranti e le mance erano preziose... insomma, mi arrangiavo perché in casa eravamo tanti: 8 figli più due genitori, 10 persone in una sola stanza. In fondo al letto grande di papà e mamma, dormivamo io e mio fratello, poi c’erano tre lettini per le sorelline femminucce... e poi c’era un cesso. Quel bambino di tanto tempo fa ogni tanto bussa alla mia porta quando non ho tanta voglia di lavorare. Mi dice: forza, muoviti, vai a fare le serate... È lui che mi dà la spinta a proseguire e gioca con i miei spettacoli, i viaggi, gli alberghi, gli applausi, gli autografi...».

E questo che sta per iniziare è un nuovo percorso di coraggio?

«Assolutamente sì, come al solito senza paracadute. Passano gli anni e le riflessioni sono tante. Avvicinandomi ai miei 72 anni, voglio che il pubblico sappia che ho bisogno di raccontarmi, oltreché di cantare: descrivere i momenti belli e i dolori dell’anima. In questo spettacolo ho setacciato la mia avventura umana e professionale, tirando fuori gli errori, le vittorie, gli amori belli finiti male, le sconfitte che ti fanno chiudere lo stomaco e non riesci più neanche a mangiare, vorresti nasconderti in casa, però devi comunque fare buon viso a cattivo gioco e reagire...».

Sono stati tanti gli amori perduti?

«Bè, sì: come dar torto a una donna che ti lascia perché io penso solo al lavoro e si sente trascurata? Ma il mio impegno è sempre stato quello di far star bene i miei genitori, i fratelli, le sorelle... il dover affrontare la mannaia dell’affitto, del piatto a tavola, del risolvere i debiti familiari... Questa è la mia vita, un cammino dove speri che ci sia sempre il sole, ma arrivano le nuvole, la pioggia, e se non riesci a ripararti ti bagni... poi torna il sole».

Papà Umberto e mamma Giuseppina erano contenti di avere un figlio artista?

«Mamma non ci credeva, era una donna con i piedi per terra. Papà mi incitava a provarci, aveva intuito il mio potenziale, anche perché da ragazzo suonicchiava la tromba, e sono certo di aver ereditato l’amore per la musica proprio da lui, dal suo dna. Però la volta che firmai il mio primo contratto, a soli 12 anni, con una casa discografica, a momenti sviene...».

Per la contentezza?

«Più che altro per le 300 mila lire che mi avevano dato come acconto. Lui guadagnava a malapena 30 mila al mese! Entrammo in ascensore e quando spinse il pulsante per scendere, gli cedettero le gambe. Inoltre non sapeva dove nascondere quel pacco enorme di soldi: se li infilò dentro la tasca interna della giacca, era talmente rigonfia, che sembrava una tetta... Temeva lo rapinassero. Ma grande fu poi lo stupore di mia madre... soprannominata la carabiniera».

Cosa vi disse?

«Quando papà mette i soldi sul tavolo, ci guarda storto e esclama: dove li hai pigliati ‘sti soldi, l’hai rubati? E mio padre la rassicura: no, Peppi’, so’ i soldi dell’anticipo. Ma lei non era per niente entusiasta, perché per suo figlio desiderava un posto fisso e non un lavoro precario da cantante».

Un cantante, poi attore, che oltretutto cambia nome: da Giovanni Calone a Massimo Ranieri.

«Il primo pseudonimo fu Gianni Rock, il mio idolo era the King of Rock, Elvis Presley. Col passare del tempo e la mia graduale affermazione, i miei discografici osservarono che di Gianni famosi ce n’erano troppi. Siccome una volta gli avevo espresso la mia felicità per essermi esibito davanti al Principe Ranieri di Monaco, mi consigliarono di utilizzare Ranieri come cognome e Massimo, al posto di Gianni, suonava meglio».

La vera svolta attoriale con Giorgio Strehler?

«Come negarlo! Io non ho mai frequentato accademie, la mia scuola è stata quella napoletana di strada. Poi ho esordito in palcoscenico con Patroni Griffi e Giorgio De Lullo, miei maestri, ma furono proprio loro a consigliarmi di lavorare con il mitico regista del Piccolo. Fortuna volle che fu proprio lui a farmi cercare per il ruolo di Yang Sun nell’Anima buona di Sezuan : mai avrei immaginato di essere diretto dal “teatro fatta persona”. L’emozione era talmente grande che una volta, durante le prove, assalito da un attacco di panico, decisi di scappare. Presi il taxi per l’aeroporto ma, quando arrivai là e stavo per scendere dall’auto, il bambino che è in me intimò: se chiudi lo sportello, è finita. Dissi al tassista di riportarmi al Piccolo».

Un artista a 360 gradi, tra musica, teatro, cinema. Pesa la maturità dell’età che avanza?

«Non voglio diventare maturo, voglio continuare a divertirmi fino a quando la forza fisica, psichica mi assisteranno. La maturità? Non verrà mai, è così bello questo gioco e ha regalato tante soddisfazioni a Giovanni Calone».

Lidia Poët, il nuovo fidanzato e Sanremo: ecco chi è Matilda De Angelis. Matilda De Angelis è la protagonista della nuova serie Netflix sulla storia della prima avvocatessa donna, ma a fare parlare è soprattutto la sua vita privata (tra Pietro Castellitto e Alessandro De Santis). Novella Toloni il 21 Febbraio 2023 su Il Giornale.

 Chi è il nuovo fidanzato di Matilda De Angelis

Sanremo, serie tv americane, film e fiction da protagonista in Italia e copertine delle maggiori riviste nostrane. Il curriculum di Matilda De Angelis, attrice classe 1995, è uno dei più lunghi - considerata l'età - del panorama cinematografico soprattutto se si considera che la data del suo esordio è fissata a pochi anni fa. Era il 2016, infatti, quando la giovane bolognese conquistava la scena nella pellicola "Veloce come il vento”, rivestendo il ruolo di pilota Gt accanto al "fratello" Stefano Accorsi. Un esordio che le è valso la candidatura ai David di Donatello a soli 21 anni.

La legge di Lidia Pöet, la nuova serie Netflix tra realtà storica e fantasia

Da quel momento la sua carriera è decollata. Nel 2017 entra nel cast di "Una famiglia" di Sebastiano Riso al fianco di Michaela Ramazzotti, poi è protagonista ne "Il premio" di Alessandro Gassmann, in "Una vita spericolata" di Marco Ponti nel 2018 fino al ruolo al fianco di Elio Germano in "L'incredibile storia dell'Isola delle Rose" diretto da Sydney Sibilia. È nel 2020, però, che il talento di Matilda De Angelis viene riconosciuto a livello internazionale, quando viene scelta per entrare nel cast di "The Undoing - Le verità non dette", la miniserie americana andata in onda su HBO di Sky Atlantic con Nicole Kidman e Hugh Grant. Gli americani l'hanno osannata e in Italia Amadeus l'ha voluta sul palco dell'Ariston per condurre l'edizione 2021 del festival di Sanremo. Poi sono arrivati i ruoli nelle serie più belle della tv da "Leonardo" fino all'ultimo progetto.

Matilda De Angelis è Lidia Poet

Matilda De Angelis è la protagonista della nuova serie Netflix "La legge di Lidia Poët" (diretta da Letizia Lamartire e Matteo Rovere) in sei episodi, che racconta la storia della giovane Lidia Poët, prima donna a entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia. "La sua battaglia mi ha ispirata", ha raccontato l’attrice durante la presentazione ufficiale della serie, sfoggiando un nuovo look, decisamente più rock rispetto a come il pubblico l’aveva conosciuta al teatro Ariston quasi due anni fa. E in effetti di tempo ne è passato da quel Sanremo e la De Angelis ha catturato l’attenzione anche per le sue relazioni amorose.

Pietro Castellitto mette in scena i disastri di due famiglie, dove tutti sono "Predatori"

Chi è il nuovo fidanzato di Matilda De Angelis

La scorsa estate era uscita allo scoperto ufficializzando la relazione con Pietro Castellitto, figlio d'arte. I due si erano conosciuti e innamorati sul set di "Rapiniamo il Duce" e dopo avere mantenuto la relazione segreta si erano mostrati felici e complici nella loro prima apparizione pubblica avvenuta alla Festa del Cinema di Roma. Poi, però, qualcosa si è rotto e a gennaio Matilda De Angelis è stata paparazzata in teneri atteggiamenti con il cantante dei Santi Francesi (duo vincitore dell’ultimo X Factor). Piemontese, classe 1998, Alessandro De Santis è apparso al fianco dell’attrice in una recente uscita pubblica e di lui la De Santis dice: "Sono sempre stata molto controllata nelle relazioni e di indole sono ultra indipendente. Ora sono contenta perché aspettavo una persona così, uno che mi ha investito come un camion a 250 all'ora. Non era mai successo prima. Ci speravo, ma non accadeva. Invece ora è successo questo casino ed è bello aver perso il controllo". L'attrice ha poi rivelato che con Castellitto la storia era finita da mesi.

Anticipazione da “Oggi” l’1 febbraio 2023.

È appena andata in onda su Rai 1 la sua «Fernanda», il film che racconta la storia della prima direttrice donna della Pinacoteca di Brera e salvatrice di rifugiati ebrei. E dal 14 aprile è nei cinema con Alessandro Siani nella commedia «Tramite amicizia».

 Milanese, 33 anni, 20 film all’attivo oltre alla popolarissima fiction «Doc – Nelle tue mani», Matilde Gioli racconta a OGGI, in edicola domani, come tutto è cominciato («Mi fermarono mentre andavo a prendere a basket mio fratello per chiedermi di fare la comparsa.

 Poi saltò fuori il provino… Il personaggio di Serena nel Capitale umano mi è stato affidato da Virzì sull’onda di un’intuizione») e dove ha imparato a trovare il suo equilibro: «Dopo tanti anni passati in cerca di pace interiore ho capito che bisogna ascoltarsi, senza avere paura che agli altri ciò che desideri appaia strambo…

 Fin da quando ero ragazzina ho cercato di piacere e compiacere gli altri. La recitazione è arrivata per caso. Ma adesso so chi sono, so che ciò che faccio mi piace e che sono portata per farlo».

Riguardo al film di Siani, che tratta anche il tema della solitudine, dice: «Spero che servirà da incoraggiamento a chi si sente diverso, a chi pensa di non essere abbastanza perché oggi vincono i perfettini, i precisini, gli influencer».

 E il futuro? «Il teatro? Ne avrei molta voglia. Mi attira il brivido di recitare senza paracadute, senza possibilità di rifare la scena. E credo che mi farebbe bene: sono stata un’adolescente chiusa, ho sempre fatto fatica a… Ma mi serve del tempo, sono consapevole che per debuttare in scena dovrei studiare sodo».

 E ancora: «La prossima sfida? Non ho mai fatto la parte di una persona cattiva o molto disturbata. So che potrei interpretarle. Non ho ancora la forza di propormi. La mia non è mancanza di coraggio, ma umiltà».

Racconta anche come abbia trovato «il mio posto nel mondo» in sella al suo cavallo: «Quando sbaglio me lo fa capire, pure con un morso. Questa comunicazione così diretta, con pochi fronzoli, mi piace da morire.

 Se dovessi trovare un mio posto nel mondo so che sarebbe più in mezzo agli animali che tra gli esseri umani… Il cavallo è un animale esigente: se lo vuoi cavalcare ti chiede equilibrio, stabilità. Per me, che sono una che va molto per “eccessi”, che ho il sangue caldo, è una terapia incredibile».

Amici, vince Mattia. Grazia Sambruna su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023

La ventiduesima edizione di Amici di Maria De Filippi ha incoronato il suo vincitore: Mattia Zenzola. Il ballerino, 19 anni, ha sconfitto in Finale la giovane cantante e trionfatrice annunciata Angelina Mango. Terzo il rapper Wax, quarta l’acclamatissima Isobel. 

Sulla carta, un’impresa impossibile. Invece, il talentuoso ballerino Mattia Zenzola ha vinto la ventiduesima edizione di Amici di Maria De Filippi, battendo in Finalissima la vincitrice annunciata Angelina Mango che si ferma, quindi al secondo posto. Il televoto ha sancito questo straordinario risultato per Mattia che ha trascorso l’intera puntata a danzare (e piangere per l’emozione).

La Finale, andata in onda domenica 14 maggio 2023, si è giocata a quattro: gli altri tre concorrenti riusciti ad aggiudicarsi la maglia d’oro dopo mesi di permanenza nella scuola tv di Canale 5 sono stati i cantanti Wax (classificatosi terzo) e Angelina Mango (seconda a sorpresa), insieme alla ballerina Isobel Kinnear (quarta). A Mango è andato il prestigioso Premio della Critica.

Mattia Zenzola, amatissimo anche sui social, è al suo secondo tentativo nella scuola televisiva di Amici di Maria De Filippi. Lo scorso anno era in gara, ma, nonostante un percorso senza macchia, si era dovuto ritirare a un passo dal Serale per via di un brutto infortunio. Fortemente voluto di nuovo in gioco dal Professore di Danza Raimondo Todaro, Zenzola è tornato per vincere. A lui, grazie al trionfo, anche un Premio in denaro pari a 150mila euro.

Madre insegnante di zumba e appassionato di latino-americano, per il giudice Cristiano Malgioglio, il giovane vincitore è un Joaquín Cortés in erba. Intanto, perfino Roberto Bolle si è interessato al talento del ragazzo, invitandolo ufficialmente a uno stage nella sua Accademia OnDance, presso il Teatro della Scala di Milano. Per Mattia, dopo il trionfo al talent, si stanno aprendo le porte verso un radioso futuro nel mondo della danza con la “D” maiuscola. Comunque, la sua è già una bellissima storia di talento, successo e rivincita.

  Amici 2023, il vincitore è il pugliese Mattia Zenzola. Al secondo posto la lucana Angelina Mango. Ha battuto al televoto la cantante figlia di Pino Mango su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Maggio 2023

Orgoglio del Sud: il ballerino Mattia Zenzola vince la 22ª edizione di Amici, il talent di Maria De Filippi. Il diciannovenne barese porta a casa un premio del valore di 150 mila euro in gettoni d'oro. Nella finalissima ha battuto la cantante Angelina, lucana e figlia del cantante Pino Mango, favoritissima nelle ultime punta e vincitrice di categoria con un premio del valore di 50 mila euro in gettoni d'oro.

La giovane artista conquista anche il Premio della Critica del valore di 50 mila euro in gettoni d'oro, assegnato da una giuria composta da 25 tra le principali testate quotidiane, agenzie di stampa e web, e il Premio delle Radio, assegnato da otto network radiofonici (Radio Italia, Rds, Rtl 102.5 e Radio Zeta, Radio 105, R101, Radio Norba e Radio Kiss Kiss).

Nella serata finale erano arrivati anche la ballerina Isobel, alla quale è andato il Premio Tim del valore di 30 mila euro in gettoni d'oro, assegnato da una giuria tecnica, e il cantante Wax che ha vinto il Premio Oreo del valore di 20 mila euro in gettoni d'oro assegnato da una giuria tecnica. Infine a ciascun finalista va il Premio Marlù del valore di 7 mila euro in gettoni d'oro

Chi è Mattia, il vincitore di Amici 2023: "Ballo perché non mi fa pensare a niente". Andrea Pascoli su La Repubblica il 15 Maggio 2023

Il 19enne ballerino pugliese ha trionfato alla finalissima del talent di Maria De Filippi. Sfida finale con la favorita Angelina

È Mattia il vincitore della ventiduesima edizione di Amici di Maria De Filippi, il talent targato Canale 5 e terminato ufficialmente con la finalissima in onda domenica 14 maggio. Membro del team dei TodArisa Raimondo Todaro e Arisa, puntata dopo puntata il ballerino specializzato in latinoamericano ha saputo conquistare pubblico e giudici, vincendo innumerevoli sfide fino a raggiungere il gradino più alto del podio.

Diciannove anni, pugliese, Mattia Zenzola è il classico esempio di “chi la dura la vince”: formatosi sin da giovanissimo con Alberto ‘Beto’ Perez, ballerino e coreografo colombiano fondatore dello Zumba Fitness, nel 2017 ha partecipato ai campionati del mondo di ballo latino a Bucarest, classificandosi primo ai campionati italiani della Fids (Federazione italiana danza sportiva) ed entrando poi nella scuola di Amici nell’edizione 2021/2022.

Finale di Amici 2023, la diretta: tutta la serata minuto per minuto

Costretto a ritirarsi a causa di un infortunio a pochi passi dal serale, Mattia ha potuto godere di una seconda chance grazie all’insegnante Raimondo Todaro, che gli ha fatto riavere il banco a settembre per l’edizione attuale, sbaragliando infine la concorrenza e posizionandosi primo.

“Nella sfortuna e nella tanta sofferenza ho cercato di fare il possibile per arrivare al meglio” ha confessato, “È stato difficile, ci sono stati momenti in cui ho pensato di non farcela perché il dolore era tanto”. E Mattia ce l’ha fatta eccome, invece, distinguendosi per le sue esibizioni (spesso in coppia con la collega Benedetta) e riuscendo a entrare nelle grazie del pubblico a casa, che ieri sera l’ha così incoronato. “Ballo perché non mi fa pensare a niente” le parole del ballerino che, passati i malumori post rottura con Maddalena, con la quale era nata una certa intesa all’interno della scuola, si trova ora all’inizio di una grande avventura: “Da grande? Voglio fare quello che sto facendo in questo momento”.

La guerra dei dieci anni è finita: Alessandra Moretti e Maurizio Battista si sposano. Nicola Teofilo su Notizie.it Pubblicato il 17 Agosto 2023

Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Alla fine l’amore ha vinto, anche per Maurizio Battista e Alessandra Moretti. Dopo “la guerra dei dieci anni” insieme, in autunno sbocceranno fiori d’arancio. L’annuncio di nozze sui social arriva dopo un percorso lungo e tortuoso.

Guerra e pace: alla fine Maurizio Battista e Alessandra Moretti si sposano

“Ma siete seri? Vi siete scannati e offesi per mesi. Ma come si fa a dimenticare certe parole?”. È solo uno dei tanti commenti delle reazioni incredule all’annuncio di matrimonio su Instagram.

Non mancano pure apprezzamenti al lieto annuncio: “L’amore vince su tutto”.

Tutto questo è a margine di un lungo post Instagram di Alessandra Moretti. Con un “Save the date” l’attrice ha comunicato che sposerà il comico Maurizio Battista.

“Ci sono stati momenti difficili – ammette lei – incomprensioni forti, salite che sembravano impraticabili ma se in quel posto ti senti al sicuro è lì che devi tornare. Ad ottobre 2023 io e Maurizio ci sposeremo dopo dieci anni di vita insieme, dieci anni di forti emozioni, cambiamenti, cadute dolorose ma una certezza solida come una quercia secolare: il bisogno che abbiamo l’uno dell’altra.

Quella necessità interiore che rende quella persona fondamentale e caposaldo della tua esistenza. Quella che chiami quando ti sei cacciato nei guai, quando hai bisogno di una pacca sulla spalla… quella mano che ti sostiene nonostante tutto.. sempre”.

Legati solo dal bisogno?

Alcuni follower fanno notare che a legare i due ex coniugi, ora ricomposti, è solo il bisogno. Come due anime che temono la solitudine. La stessa Moretti scrive di un non meglio precisato “bisogno che abbiamo l’uno dell’altra”. Ma lei chiarisce:

“La passione finisce, l’amore dura per sempre e le forme di amore sono tante e con altrettante sfaccettature. Ma quando si giunge a consolidarsi dopo aver sbagliato allora si diventa davvero FAMIGLIA. E la mia famiglia è la mia più grande RISORSA. Mia figlia è frutto di un percorso duro fisicamente e psicologicamente ma è la prova più alta d’amore che potessi donare a me stessa. Eternamente grata. E nonostante tutto non c’è altro uomo al mondo che sposerei”.

Il matrimonio sarà celebrato a Roma il prossimo ottobre.

Il comico Maurizio Battista contro la ex: «Non mi fa vedere mia figlia, io faccio una battaglia». Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

«Qui ci sono dei problemi seri, devo chiedere l’elemosina per vedere due giorni mia figlia? Ma secondo voi si fa così? Ogni telefonata è un problema. La bambina va tenuta una settimana uno e una settimana l’altro (...). Andiamo ancora in tribunale (...), io ci faccio una battaglia». Con uno sfogo acceso affidato a un video su Facebook, il comico romano Maurizio Battista ha denunciato i suoi problemi famigliari e nello specifico l’impossibilità di vedere la figlia Anna, 6 anni, poiché a suo dire la ex compagna non starebbe rispettando la suddivisione dei giorni in cui è affidata a ciascun genitore e starebbe ostacolando i loro incontri.

Battista, che dal 31 dicembre è atteso all’Auditorium della Conciliazione di Roma con il suo spettacolo «Uno contro tutti», ha detto di non vedere la piccola da due settimane e di sperare di poterla avere con sé in teatro per Capodanno: «La bambina sono 15 giorni che non la vedo per vari motivi. Adesso sti giorni c’ha un po’ di febbre, arriviamo al 31, dico “va bene se sta con me?”. Du’ giorni, la devo vedè sta bambina o no? E la signora dice “vediamo”». Battista, visibilmente arrabbiato, ha accusato la ex di voler creare dei problemi e ha detto in modo esplicito di essersi stancato e di voler ricorrere alle vie legali.

Video correlato: Lo sfogo di Maurizio Battista sui social. «Devo chiedere l'elemosina per vedere mia figlia? Andiamo in tribunale» (Corriere Tv)

In un altro video, il comico ha detto poi di voler regalare la cameretta della figlia, visto che non viene utilizzata: «A oggi siamo a circa due settimane che non vedo la signorina Anna per vari motivi, veri o inventati, sono due settimane che non vedo la signorina e gli sviluppi mi costringono, con piacere verso qualcuno, a regalare, vendere non sono capace, la cameretta della signorina Anna, visto che non può venire perché le manca la mamma, visto che c’ha altro tipo di problemi, reali o indotti».

Valentina Ruggiu per repubblica.it l’11 gennaio 2023.

Non uno sfogo, ma violenza mediatica. Ci tiene a usare "le parole corrette" Emanuela Valente, giornalista e fondatrice dell'osservatorio sui femminicidi In quanto donna, quando parla del video in cui il comico Maurizio Battista accusa l'ex moglie di non farle vedere la figlia e la minaccia di chiedere una Ctu psicologica. Un filmato diventato virale, "su cui però - spiega - nessuno si è posto una domanda cruciale: sappiamo se quello che dice è vero?". 

Insieme ad altri esponenti del mondo dell'attivismo contro la violenza sulle donne, a giornalisti e sindacalisti, Valente è la promotrice di una petizione pubblicata su Change.org dal titolo Basta violenza mediatica: un appello che, prendendo spunto dal caso del comico romano, si rivolge agli utenti e ai media per far notare la disparità di trattamento che su casi simili ricevono le donne, "e i padri che hanno meno visibilità".

"Da oltre dieci anni mi occupo di violenza contro le donne - spiega Valente - e nel tempo mi sono dedicata anche ai figli portati via da uomini denunciati per violenza. Figli sottratti alle madri anche nel cuore della notte, con irruzioni dentro casa, proprio dopo una Ctu, che è lo stesso strumento invocato da Battista per l'ex moglie. Sono donne che quasi mai vengono credute se non hanno prove in mano, nemmeno dai media, perché se a una donna viene tolto un figlio deve per forza aver fatto qualcosa di grave. Per un uomo famoso invece basta un video pubblicato sui social per avere tutta l'attenzione possibile ed essere creduto".

Per Valente quello del comico romano è "il racconto di una verità parziale. Un attacco preciso che contiene offese e minacce nei confronti dell'ex moglie, del suo nuovo compagno e di chiunque, anche sotto al video, abbia provato a fargli notare che stava sbagliando i toni".

 "Senza contare - continua la fondatrice dell'osservatorio sui femminicidi - che dice di agire nel bene della figlia, ma in realtà facendo così l'ha esposta pubblicamente con nome e cognome su un contenuto che quando sarà più grande potrà rintracciare online". Tutti elementi che, in questo come in altri casi, andrebbero considerati prima di decidere se riprendere o meno un contenuto.

L'appello pubblicato su Change.org è arrivato anche a Battista, che al tema ha dedicato qualche post sul suo profilo Facebook. Tra questi c'è un video indirizzato alla fondatrice di In Quanto Donna: "Ma cara signora lei sa cosa c'era prima? Dov'era quando un milione e mezzo di uomini e donne hanno lo stesso problema? O lo fa ora perché sono io e le fa comodo?".  "Eppure - conclude Valente - pensavo fosse chiaro che il nostro appello non fosse contro di lui, ma un invito alla riflessione per i media e per i cittadini".

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per la Repubblica l’8 aprile 2023.

Deve tutto al comunista col borsello che discettava nel salotto di Renzo Arbore a Quelli della notte (tormentone: “Non capisco ma mi adeguo”) e a una vedova indomabile, la signora Emma Coriandoli, presenza fissa a Che tempo che fa da Fabio Fazio, la domenica su Rai 3. Maurizio Ferrini da Cesena (ma ora vive a San Marino), 70 anni il 12 aprile, comico e grande osservatore, dal successo al dimenticatoio, si racconta: dai genitori che lo hanno ispirato ai no di cui ancora si pente (“Ma si può dire no a Sergio Leone? Ero matto? No, purtroppo solo snob”), l’Isola dei famosi, i momenti difficili.  

Maurizio Ferrini, il 12 aprile sono 70 anni. Tempo di bilanci? 

 “No, 70 contiene solo la magia del numero, bilanci in questo momento non ne faccio. Li ho già fatti. Come diceva mio babbo: ‘Finiti i 70 vado verso i 71’, e si irritava molto quando lo contraddicevano. Era un tornitore meccanico molto preciso”. 

Sta vivendo una nuova giovinezza con il successo da Fazio. 

Dovendo tirar fuori la signora Coriandoli dall’armadio avevo due strade: o rimaneva la semplice ragazza di paese di un tempo o diventava trendy, social, e seguiva le mode come le donne di oggi. Io ho scelto la seconda via, ho una stilista molto brava, Giovanna Guglielmi, che mi fa tutte le mise”. 

(...)

Gianni Boncompagni, Renzo Arbore, Antonio Ricci, Fabio Fazio sono stati fondamentali nella sua carriera. 

La Coriandoli a Striscia la notizia è fiorita. Con Fabio c’è un’affinità naturale, aspetto magico che non puoi creare in laboratorio. Ricevo l’elenco degli ospiti a metà settimana, nessuno sa di cosa parleremo. E’ un allievo di Arbore, Renzo disse che lui ricreava il jazz della parole e Fazio continua su questa strada. Noi siamo jazzisti della parole, non abbiamo la più pallida idea di cosa succederà”. 

Quale è stato Il momento più difficile? 

Ho detto una marea di no. Purtroppo per snobismo. Ma non mi hanno mai cercato per farmi fare ciò che volevo. Ho una mia idea di comicità. Vacanze di Natale per me è peggio del porno, però i ragazzi lo guardano per riderne”. 

 Ma perché, scusi? 

Vanzina ha fatto le scuole francesi (..) vede tutti come simpatici borgatari, gli attribuisce il peggio. La sua è la commedia all’italiana vista dai Parioli”. 

 I Vanzina hanno saputo fotografare un mondo e una certa società. Ma lei non è quello che ha rifiutato di lavorare con Sergio Leone? 

Sì ma non ero io. Mi ero espropriato della mente, ancora mi scuso. Quando ho incontrato Francesca Leone, mi ha detto che a casa ero conosciuto come ‘quello stronzo di Ferrini’. Giusto così. La cosa avvenne a metà anni 80, a maggio ricevo la proposta. Eravamo a ottobre, con Paolo Hendel a Roma andiamo a mangiare da Settimio. C’era Carlo Verdone che mi fa: ‘Tu però sei uno stronzo perché hai detto no al mio film, sei uno dei miei miti’. Poi con lui ho girato Compagni di scuola”. 

 Con Leone, che era legatissimo a Verdone, come andò? 

Ricordo ancora la telefonata, la voce: ‘Sono Sergio Leone, le faccio i complimenti, la vorrei al posto di Alberto Sordi nel film Troppo forte’. E io dico no. ‘Può ripetere per favore?’, e si incrinarono i vetri. Capisce? Ferrini l’unico genio… Parlavo con lo scopritore di Clint Eastwood, Eli Wallach, Charles Bronson, ci vogliamo mettere che ha diretto De Niro?, e il genio Ferrini dice no. Vorrei prendere la pillola di cianuro”.

 Visto che abbiamo aperto il capitolo buio: è vero che ha perso tutto? 

Non lavoravo, per guadagnare facevo persino gli oroscopi, sono un grande studioso di oroscopi. Ho vissuto un momento veramente difficile”. 

 Aveva guadagnato tanto, che fine avevano fatto i soldi? 

Quando uno compra, compra l’amore, vuol dire che non è appagato. Ho speso un sacco di soldi, solo in viaggi e libri. Negli anni ero stato parsimonioso, non macchine sportive, scommesse, no. Solo libri e viaggi di cui non mi pento però ho speso molto di più di quanto avessi. Poi ho avuto la depressione. Tutto il peggio del peggio che andava avanti, non vedevo la qualità. Solo il degrado di tutto. Ma alla fine è stata una depressione creativa, ho scritto tre film che un giorno dovrei fare. Scrivevo come un pazzo”. 

 Ma non la chiamavano, che succedeva? 

Ambiente difficile: se ti proponi non vali niente. Arbore, invisibilmente, e Nino Frassica, grande amico, mi aiutarono”. 

Si è pentito di aver fatto L’isola dei famosi nel 2005? 

Appena arrivato mi vergognavo come uno che ruba, mi sentivo nudo inside. Arianna David, accusandomi di molestie sessuali inventate, mi ha fatto arrivare secondo. Lei fu cacciata, e il pubblico era dalla mia parte. Popolare, ok, in una fascia non intellettuale, ma una notorietà da paura. Atterrai a Ginevra e in aeroporto la hostess mi fa: ‘Ma lei ha fatto L’isola dei famosi’. Capisce? Loro, snobissimi”. 

 (…)

Cosa pensa di Elly Schlein? 

Mi sembra fuori giri, è entrata in un partito già in crisi e tenterà di cambiarlo, rompendo la pellicola. Ha un’idea più selvaggia. Bisogna aspettare per giudicare. Come la Meloni, è un’altra debuttante”.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 3 settembre 2023.

Qualche tempo fa circolava sui social una foto, in bianco e nero, dov’erano ritratti alcuni dei comici più significativi della scorsa generazione: Aldo, Giovanni e Giacomo, Antonio Albanese, Antonio Cornacchione e… “l’ultimo a destra”. Era Maurizio Milani, che con quel manipolo di cabarettisti è stato uno dei fondatori dello storico Zelig, il locale milanese che ha sfornato i migliori talenti dell’umorismo a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 ma che, a differenza degli altri, ha raccolto – almeno a livello di notorietà – molto meno di quello che in tanti si sarebbero aspettati. Surreale, caustico, disincantato, il collega Daniele Luttazzi, di certo non tenero nei giudizi, lo ha incensato: «Fra noi comici ci sono come delle gerarchie, e lui in questo momento è Dio».

(...) 

Ormai il tuo “posto fisso” è a Il Foglio, dove collabori da anni.

Devo ringraziare della segnalazione Mariarosa Mancuso, che mi ha fatto conoscere all’allora direttore Giuliano Ferrara. Lui mi dedicò anche una puntata monografica su La7. Finché c’è stato il produttore Paolo Guerra ho sempre lavorato (è venuto a mancare nel 2020, nda), oggi faccio un po’ più fatica. I produttori più potenti sono Beppe Caschetto e Lucio Presta, che vendono programmi alle tv a scatola chiusa. Anche se poi in Rai si lamentano le maestranze.

(...) A Bolzano con Paolo Rossi inciampai per davvero in una cassa acustica e le persone cominciarono a ridere. La sera dopo l’abbiamo inserito nel copione e hanno riso in due. Si percepiva che era finto. Anche se mangi le parole o sbagli i congiuntivi va bene, ma risulti fresco e arrivi. Poi c’è chi esagera, come Bebo Storti.

È famoso per il personaggio del Conte Uguccione. Che cosa faceva?

Lui non preparava nulla, una roba da pazzi. Almeno un canovaccio su un’ora e mezza di spettacolo dovresti averlo, lui niente. A Forlì il direttore del teatro alla fine ci ha detto: «Una roba così non l’ho mai vista, non so neanche dire se è bella o è brutta». Un’altra volta al Ciak di Roma, arriviamo in camerino e la moglie di Bebo ci fa: «Non si viene qui a fare queste figure…». È come se io e te adesso salissimo sul palco a improvvisare per un’ora.

Dopo ci avete riso sopra o è qualcosa su cui si recrimina?

Bebo aveva questa caratteristica: se ingranava subito l’improvvisazione andava alla grande, ma se non succedeva era facile prendere i fischi. Come a Livorno, siamo andati davanti alla gente ma si capiva che non avevamo voglia di lavorare. Al teatro Goldoni a Venezia altra situazione imbarazzante con me e Dario Vergassola, non rideva nessuno. Ma proprio perché non rideva nessuno, paradossalmente, c’era una signora in prima fila che rideva come una matta. Una scena talmente parossistica che si è trasformata in un successo.

È anche per questa vena da improvvisatore che non ti abbiamo mai visto al cinema?

Può essere, eppure Bebo Storti lo ha fatto. Anche Paolo Rossi, che è furbo, improvvisa ma ha sempre un canovaccio al quale aggrapparsi. Bebo invece saliva sul palco alla garibaldina. Ma un conto è andare in discoteca con tutti ubriachi, un altro nei teatri importanti con il tuo spettacolo in abbonamento. E lui arrivava alla cazzo di cane mezz’ora prima. Intanto che camminiamo per le strade e nel parco pubblico della cittadina lombarda, ogni passante lo saluta con un sorriso, tanto che a un certo punto ci appartiamo in un angolo. 

(...)

Dopo sei anni, dal 2003 al 2009, non ti abbiamo più visto anche a Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio. Come mai?

Perché Fazio è bravo, però è molle. Quando ho accettato di collaborare a Il Foglio di Giuliano Ferrara, mi chiamò l’allora capo struttura di Rai3 in quota Pd, Loris Mazzetti, che mi disse: «Guarda che la linea editoriale qui è chiara e tu vai a scrivere su un giornale di Berlusconi?». Da quel momento i miei spazi sono stati ridotti e spostati nella zona meno nobile. Poi sono passato a una settimana sì e una no, a seguire solo il sabato finché una volta non mi hanno mandato in onda dicendo di aver sforato con i tempi. Così gli ho detto che non ci sarei più andato. Quando ti fanno mobbing lo capisci. Non volevo rimanere di fianco a Filippa Lagerbäck come un figurante. Fazio poteva dire qualcosa a Mazzetti, ma non lo fece.

(...)

C’è qualcuno che ti ha deluso nel mondo dello spettacolo?

Direi Gino e Michele. Non mi hanno più chiamato, ma posso capirli perché hanno dato allo Zelig un taglio da villaggio turistico. Io sono un monologhista che non ha bisogno di travestirsi con le pinne o come una drag queen. La comicità di situazione è un’altra cosa.

Insomma, con Gino e Michele sembri avere un conto aperto.

Sono stato a casa di Michele Mozzati sul lago di Varese, ha una villa della madonna. A un certo punto vado in bagno e vedo che c’è una vasca lunghissima molto strana. Così quando esco chiedo a cosa serve a Diego Parasole, un collega che era con me. E lui: «Ah non lo sai? Quella vasca fa le onde al contrario, così nuoti e intanto fai esercizio». Ed era vent’anni fa. Sai, Flavio Briatore è Flavio Briatore ed è coerente, non va a far finta di essere un “compagno” che gli spiace per il salario minimo. Così come non ti aspetti che un calciatore vada a rompere le vetrine per protestare insieme a quelli dei centri sociali.

C’è ancora chi, come hai raccontato in passato, rimane spiazzato alle tue battute?

Alcuni mi dicono: «Scusi, ma sa che lei non mi fa ridere?». La gente è ormai abituata al comico che deve avere il naso rosso tipo clown. Ma come nella musica ci sono vari generi. A me piacciono, oltre a Nino Frassica, Valerio Lundini, Nicola Vicidomini e Rocco Tanica.

Sai che c’è un giovane comico che alcuni dicono ti somigli?

Se ti riferisci a Valerio Airò, vai a vedere su Youtube i commenti ai suoi filmati. In moltissimi scrivono: “Milani come sei invecchiato bene” oppure “ma chi è il figlio di Milani?”. Mentre sotto ai miei video: “Sei uguale a Valerio Airò”. Lì però gli ho risposto: “Questo è stato girato nel 1993 a Cielito Lindo”. Lui avrà 30 anni, forse non era neanche nato. Non c’è problema, però non ditemi che sono io a copiare lui. Ma sai che ho avuto una soffiata? 

Su Valerio Airò?

Mi hanno detto che lui si è messo su quella strada imbeccato da Gino e Michele e da Giancarlo Bozzo, che sono spregiudicati. Lo so perché ho ancora conoscenze all’interno di Zelig. Pare gli abbiano fatto vedere le videocassette dei miei vecchi sketch consigliandogli di prendere spunto. Pensa che quando fece un’apparizione a Sky e c’era Rocco Tanica gli disse: «Assomigli a Maurizio Milani». Lui può fare quello che vuole, ma i pezzi si sovrappongono. Mi pare stia succedendo quello che era accaduto tra Giorgio Porcaro e Diego Abatantuono.

Ti riferisci alla paternità del personaggio del “Terrunciello”?

Lo inventò Giorgio Porcaro, ma i benefici se li prese tutti Diego Abatantuono. Diego non aveva voglia di andare a scuola e la mamma, che faceva la guardarobiera al Derby, lo portava con sé. Non aveva la patente e andava in giro con i I Gatti di Vicolo Miracoli ad aggiustare le luci. Un giorno ha visto Giorgio Porcaro che interpretava il ‘Terrunciello’ e l’ha rifatto avendo successo. Un po’ come sta succedendo tra me e Airò. 

Maurizio Milani ce l’ha ancora un sogno che vorrebbe realizzare?

Se ci penso, di tutti i colleghi della mia generazione sono l’unico che non ha mai fatto neanche una posa al cinema. Con Aldo Giovanni e Giacomo una volta gliel’ho detto: «Ma con tutti i film che avete fatto, cosa vi costa mettermi lì a fare il barista?». A 62 anni non sono mai stato su un set per lavorare. Non spero mi chiami Marco Bellocchio, basterebbe un regista underground. Ho fatto la tv, il teatro, i libri e i giornali, ma il cinema non è capitato.

In effetti, guardando quella foto degli inizi allo Zelig sei l’unico che manca all’appello.

E la gente sui social si chiede “chi è il primo a destra?”. Sono cose che fanno rimanere male.

Estratto dell'articolo di Renato Piva per corrieredelveneto.corriere.it il 25 marzo 2023.

«Sul set di Grand Hotel, mio primo fotoromanzo, c’era Claudia Rivelli. Era bellissima, allora davvero tra le top del genere. Al primo bacio in scena, le diedi un bacio vero, alla francese». E lei che fece? «Mi tirò uno schiaffone di quelli pazzeschi…». Non andò bene quella volta, altre decisamente meglio. La mano poco benevola dell’«altra» Ornella Muti, del resto, aveva centranto la guancia di un bellissimo dei primi Ottanta. Occhio chiaro per sguardi killer, corona bionda e fluente sopra tratti delicati, all’epoca in cui Discoring era Discoring, Maurizio Potocnik, in arte Reeds, era un puledro della dance italiana su cui scommettere. La scuderia – Discotto Production - era quella giusta. Quanto al ragazzo, nato a Pieve di Cadore (Belluno) e passato da Conegliano (Treviso), dire che c’era il phisique du role è dir poco. Reeds – le cronache dell’epoca confermano – era l’altro Sandy Marton: per molti persino più bello… 

Maurizio, se è così, perché Sandy Marton lo ricordano tutti mentre il ricordo di Reeds è più sbiadito? 

«La differenza tra me e Sandy, Tracy Spencer e simili artisti è che i loro pezzi, in Italia, sono stati tormentoni pazzeschi. Non è stato così all’estero, però, e non per tutti. Alcuni in Sud America o in Giappone non hanno venduto nulla, mentre io e altri lì abbiamo venduto valanghe di dischi...». 

Da Pieve di Cadore a Milano, via Conegliano, a vent’anni… 

«In quegli anni la musica si suonava nei garage. Con mio fratello avevamo grande passione, ascoltavamo un sacco di musica, soprattutto italiana: a fine Settanta era così. Abbiamo formato vari gruppi, dal pop al dandy. Da qui la mia passione per scrivere canzoni, melodie ma anche testi. Un giorno, credo fosse l’82, mi sono iscritto a un concorso regionale per cantanti ad Asolo. La madrina era Rettore, che arrivò un po’ in ritardo. Quando mi vide, disse: “Hai partecipato anche tu? Peccato, non ti ho sentito ma ti avrei fatto vincere…”. Mi fece ricantare ma, ormai, la giuria aveva deciso per un altro. A quel punto disse: “Ti presento i miei produttori a Milano”. Era l’anno di “Lamette”, Donatella era famosissima…». 

Rettore fu il link con Milano, quindi… 

«Sì. Da lì è partita la mia storia di Maurizio Potocnik, in arte Reeds». 

 (...)

Con i fotoromanzi di Grand Hotel cominciano anche i flirt con tante bellissime… 

«Non tutti veri. Qualcuno era montato dalla stampa…». 

Giochiamo a vero-falso? Laura Antonelli?

«Vero». 

Licia Colò?

«Falso, ma eravamo molto amici. Facevamo un percorso assieme in quel periodo…». 

Miss Spagna ’85 Amaro Martinez Cerdan? 

«Vero, vero. Amaro era anche Miss mondo di quell’anno». 

Carol Bouquet? 

«Vero…». 

In Francia si parlò di lei e Lio, la cantante belga di Amoureux solitaires: «He toi, dis-moi que tu m'aimes…». 

«Vero…». 

Tutti veri, Maurizio… Lory Del Santo? 

«Mezzo vero e mezzo falso… La verità è che, all’epoca, passavano tutti dal salotto milanese di Marta Marzotto. I personaggi erano tanti. Tu eri lì, tranquillo, chiacchieravi, c’era chi faceva foto e, con quelle, qualcuno che montava le storie che voleva…».

Gli Ottanta sono gli anni gaudenti per eccellenza. Si ballava, si beveva, si faceva anche altro, non diversamente da oggi, per altro. Se parliamo di stupefacenti, anche per Reeds vale la regola: io no, ma gli altri…? 

«In quegli anni girava un po’ di droga, certamente, però si prendeva in maniera molto…».

 Molto? 

«Molto artistica, ecco». 

E Reeds? Ha peccato? 

«Qualche volta…».

 Rivisto ora, il primissimo Reeds era molto “ispirato” al Gazebo di Raining days. Cambia quasi subito: capelli biondi lunghi, spallone, tanti colori. Stile tra brit e elettropop e tanta immagine. Troppa, forse? 

«All’inizio, in effetti, si puntò molto sulla bellezza del mio personaggio, anche se io ho cominciato a suonare la chitarra a 13 anni e, alle spalle, avevo una mia storia pop-rock, che nel tempo è uscita. Penso di essere l’unico personaggio della dance italiana che abbia raggiunto tutto il mondo senza fare la dance degli altri. La mia dance era più culturale… Più raffinata, ecco».

Nel primo disco a lei, biondo, fecero i capelli scuri: sempre per l’effetto Gazebo? 

«Noooo! Era la foto che era fatta male…». 

Quanti dischi ha venduto in carriera? 

«Con “In your eyes” quasi un milione. Fu fatto in due versioni: una molto pop, con sassofono, e una molto più dance. Con quel disco fui il primo a lanciare il filone della dance raffinata, un po’ alla Shade. Nello stesso periodo scrissi una canzone che la casa discografica non capì e, di lì a poco, ebbe un successo grandissimo…». 

Ovvero? 

«Immagination (successo mondiale dell’85, cantato dall’inglese Belouis Some, ndr). La Discotto Production non capì il pezzo e io, in quel momento, avevo bisogno di soldi. Si presentò a Milano un produttore londinese, che cercava un prodotto dance. Ascoltò il mio provino e disse: “Tra due giorni ci troviamo qui e ti do sette milioni”. All’epoca erano tanti. Gli dissi: per sette no, ma se me ne dai dieci ti cedo completamente il brano, anche con titolo Siae. Così ci ritrovammo: da una valigetta tirò fuori 10 milioni in contanti e gli cedetti Immagination…». 

Discotto, forse la maggiore etichetta della dance italiana di allora, finì male...

«Discotto è stata un’onda pazzesca in tutto il mondo. Ha venduto dischi in Giappone, Cina, in Russia, Inghilterra, Francia, Germania, Sud America. Poi ci fu un periodo di errori di gestione e commerciali. Avevano scelto me come uno degli artisti di punta - il disco era Marines – ma poco dopo finì tutto...». 

A fine Ottanta arriva la musica house: si può dire che uccise Reeds, come tutti gli altri campioni della dance italiana?

«Siamo vittime della musica house, di sicuro, e anche dei dj. Tanti amici tra i dj dicevano: “La dance italiana? Non la vuole più nessuno”. Coi 130 bpm (battiti per minuto, ndr) è cambiato il mondo». 

Veniamo all’oggi: Maurizio Potocnik, oltre che di musica, si occupa di critica gastronomica. Come ci arriva? 

«Mi sono diplomato alla scuola enologica di Conegliano nel ’79. Conosco e conoscevo il vino. Cantando in giro e avendo diverse “morose” in varie città, ho cominciato a segnare in un’agendina il nome di un ristorante in cui andare a mangiare con l’una e con l’altra. Segnavo il piatto da ordinare – una volta i menù erano più stabili di adesso – e il vino da ordinare. Così ho segnato più di 180 ristoranti tra Italia ed Europa. A Parigi sapevo che potevo andare nel tal posto, mangiare il tal piatto, bere il tal vino e spendere tot. Così è nato il mio primo progetto editoriale: I migliori ristoranti della provincia di Treviso, nel ‘94. Ho comunque fatto, nel tempo, corsi di sommelier e di assaggiatore di formaggi, di salumi, di oli… E ho addirittura vinto il "Miglior libro al Mondo” nel 2016». 

 (...)

Maurizio Seymandi: «Portai le hit parade in tv con Superclassifica Show. Fui silurato per Gerry Scotti». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2023.

«Cossiga mi chiese un lavoro. Mike Bongiorno in barca faceva battute irripetibili»

Maurizio Seymandi, bella casa.

«E non ha visto quella del lago. L’ho comprata con i soldi di Soleado».

La canzone senza un testo ma che fa «oh oh oh»?

«Proprio quella, scritta con Dario Baldan Bembo e altri. Ma ne ho scritte tante di canzoni, sa? Il punto è che spesso il nome non compariva».

Se dovesse racchiudere la sua infanzia in una parola?

«”Senofonte”, che poi è stato il mio primo nome d’arte. Sono nato a Bengasi, nel 1937, all’epoca colonia italiana. Ma dopo dieci mesi i miei si trasferirono a Milano, in via Senofonte, appunto».

E poi la guerra.

«Sfollammo nel Comasco, come tanti. Papà morì in guerra a soli 36 anni, era azionista. Tornammo a Milano, la ricordo ancora in macerie. Ero gracilino, così le donne di casa mi mandarono a Nervi, in collegio. Il consiglio venne da Virginio Ferrari, medico e futuro sindaco di Milano».

Com’era la Milano del secondo dopoguerra?

«Vivace, piena di vita. Andavo con gli amici a giocare nel prato accanto alla via Gluck, quella cantata da Celentano. E trovavo sempre una scusa per infilarmi negli studi Rai. Vianello e Tognazzi erano i miei punti di riferimento».

Poi la Rai le fece un vero contratto.

«Sì, ma a Roma e con mansioni di autore. Che tempi. Conobbi Renato Rascel e Walter Chiari. Lo sa che la famosa battuta “Walter Ego” è mia?».

Anche Mike.

«Gli devo moltissimo. Mi invitava sulla sua barca e faceva certe battute che però qui non si possono riportare».

Questo è il «Corriere».

«Assieme all’Inter, per me un faro».

Tanta radio, tante trasmissioni. Si lavorava parecchio in Rai all’epoca?

«Ma c’era anche un bellissimo incrocio di personaggi. Per esempio, io curavo una trasmissione legata al gusto e un giorno intervistai Eugenio Montale e gli chiesi che cosa mangiano i poeti. Lui rispose: “Spero che mangino”».

Altri incontri?

«Gianni Brera. Nella sua casa al lago cucinò lui, apriva bottiglie e diceva “Le bottiglie aperte vanno finite”».

E poi arrivò «Sorrisi». La grande intuizione dell’allora direttore Gigi Vesigna: con le classifiche musicali si può costruire uno show.

«Televisivo. Eravamo alla fine degli Anni 70, le prime televisioni private prendevano forma e così mi misi a girare l’Italia per comprendere questo mondo che nasceva».

E che cosa vide?

«Di tutto. Un’anarchia totale, perché c’era una corsa sfrenata ad accaparrarsi le frequenze ma spesso chi se le aggiudicava non aveva i mezzi per fare televisione».

Un esempio?

«Nel Bolognese una tv aveva per sede una stalla, senza nemmeno la corrente elettrica. In altre zone della provincia magari c’erano una stanza e un telefono. In una tv parrocchiale in Veneto, di notte andavano in onda gli spogliarelli delle casalinghe. Non c’era nessuna organizzazione, era un Far West. Però sia Gigi che io intuimmo che stava per accadere una rivoluzione».

Che cosa glielo faceva pensare?

«La mia esperienza in Rai. Non era possibile che restasse quel monopolio in un’Italia che cresceva, con imprenditori e industriali pronti a investire. Così nacque la Superclassifica di Sorrisi, da questo fermento che vedevo intorno a me. Al giornale ricevevamo tante lettere di piccole emittenti che volevano farsi conoscere, ma le cose molto lette erano le classifiche musicali. La disco music viveva il suo periodo d’oro, perché non portarla in televisione?».

La prima puntata?

«La girammo in pellicola, una cosa assurda, costosissima, ma non avevamo la telecamera. Poi, mesi dopo, Telealtomilanese, dove andavamo in onda, venne comprata da un certo Silvio Berlusconi».

La svolta.

«Assoluta. Il simbolo, però, il Discolaccio, quel pupazzone ideato da Giorgio Ferrari con la voce di Franco Rosi, c’era già. Non c’ero però io in video, pensi che usai degli spezzoni di film, opportunamente montati, per annunciare i brani musicali».

La cosa che però ricordano tutti, anche chi all’epoca era bambino, è la sigla.

«SuperTelegattone... Maooo».

Nel 1980 il passaggio a Canale 5, giusto?

«L’avventura divenne straordinaria perché in studio avevamo ospiti di tutti i tipi. Ricordo, per esempio, Francesco Cossiga: alla fine dell’intervista mi chiese di trovargli un lavoro in tv perché era convinto che lo avrebbero fatto fuori dalla politica».

Musica e politica erano intrecciate.

«Una cosa assurda accadde quando arrestarono Vasco Rossi per possesso di cocaina. Nella registrazione io ospitai una band che lavorava con lui e, quando mi dissero che lui era sempre troppo impegnato per venire in trasmissione, io mi misi a gridare “Liberate Vasco”, intendendo dire lasciatelo più libero da impegni, non sapendo che in quelle ore lo avevano fermato davvero. La puntata andò in onda così, fummo sommersi da lettere e telefonate dei fan di Rossi».

Tre mesi dopo i festeggiamenti per la puntata numero 900 lei viene a sapere dai giornali che non condurrà più la trasmissione.

«Appresi che mi avrebbero sostituito a breve con Gerry Scotti. Prima che me lo chieda con malizia: con Gerry, anni dopo, ci siamo parlati, chiariti e mi ha invitato spesso nelle sue trasmissioni».

Nostalgia?

«Ammetto che un po’, sì, la televisione mi manca. Ma, vede, a me basterebbe far sapere a tutti che scrivo, scrivo tutti i giorni».

Che cosa?

«Le spoesie, piccoli aforismi, pensieri. Ne vuole ascoltare uno?».

Prego.

«Ho perso tutto, ma avevo trovato tanto».

Cerebrale.

«Leggo molto, specie i classici, ascolto musica, guardo pochissimo la televisione e sto con i miei nipoti».

E con sua moglie, Wilma Mereghetti, con la quale sta da mezzo secolo e più.

«Cerco di trasformare ogni giornata in una sorpresa. Di meravigliarmi per ogni piccolo dettaglio che compare nelle nostre vite. Cerco di non perdere quell’aria da ragazzo che avevo quando facevo Superclassifica».

Idee nuove?

«Tante, ma non mi va di lavorare a vuoto».

Estratto dell'articolo di Luigi Bolognini per repubblica.it il 27 maggio 2023.

Uno che come primo suono significativo della vita ascolta, a un anno, le campane a festa per il 25 Aprile è un predestinato: una vita di musica e una vita libera. Maurizio Vandelli l'ha vissuta così la vita, nei suoi primi 79 anni, seguendo la sua passione, vendendo milioni di dischi con l'Equipe 84 e da solista, conoscendo i giganti del pop, non solo Lucio Battisti, ma anche Lennon e McCartney. Per tutti ha un aneddoto, una storia, un ricordo, un commento schietto. L'ospite ideale per il Memoria Festival, dove sarà domani alle 19 a Mirandola, in Emilia, a parlare di radio e vinili. 

(...) 

E nel 1964 ecco l'Equipe 84. Chiariamo il nome: è la somma delle età?

"No, la somma era 85. Volevamo un nome straniero e nacque l'Equipe, e 84 subito dopo suonava bene. Qualcuno, dicendola come battuta, sperava sotto sotto che ci facesse fare uno spot la Stock di Trieste, che produce il brandy Stock 84". 

Forse avevate già abbastanza da fare con la musica, visto che il successo fu immediato.

"La prima canzone in assoluto fu Vola canarino, inno del Modena calcio, l'anno dopo finimmo a Sanremo con Notte senza fine e uscì Sei già di un altro. Vendevamo, come tutti, ma il nostro discografico ci diceva che al massimo erano 1000-1500 copie. Insomma, ci fregava alla grande, come le etichette allora facevano. Riuscimmo a rompere e andare alla Ricordi, ma in cambio ci toccò andare a Sanremo. Per vendicarsi il discografico ci fece soggiornare in un hotel che noi chiamammo La Piattola perché le stanze erano piene di insetti. E i lettini così stretti che sembravano bare. Però alla Ricordi esplodemmo". 

Quel successo vi travolse?

"Artisticamente no, eravamo affiancati da un ottimo staff e pensavamo solo a crearci più repertorio possibile. Umanamente diciamo che potrei farle un elenco di 2-3 giorni delle follie che facemmo. Ma non glielo farò".

Grazie a questo successo lei riuscì a conoscere un'altra band che all'epoca non andava malissimo, i Beatles.

"Non facendoci grandi figure però. Un giorno ero a casa di due amici comuni, c'era anche Lennon. In una nuvola di fumo che preferisco non definire partì una jam session con tanti strumenti etnici, si crea un'atmosfera fantastica, rovinata a un certo punto da una piccoletta dai tratti orientali che stonava e faceva chiasso. 

Chiesi a Lennon chi è quella "p. che fa casino?", e lui "Temo sia mia moglie". Avevo appena incontrato Yoko Ono. Quanto a Paul, ci trovammo nello stesso ristorante. Gli fui presentato come "il leader del più grande gruppo beat italiano". Sul volto gli si dipinse una smorfia di disgusto, pensando a chi erano i Beatles, e a fine cena neppure mi salutò". 

Più piacevole il rapporto con Lucio Battisti.

"Decisamente. Un genio. Lo portai io in Ricordi, ma lo dico senza assumermi meriti, solo un dato di fatto: gli presentai Mariano Rapetti, padre di Giulio-Mogol e direttore dell'etichetta. E gli suggerii che le sue canzoni doveva cantarle lui". 

Era così spigoloso come si dice?

"Macché, un gran battutaro. E noi ricambiavamo. Un giorno lo aggredii perché aveva appena cantato una canzone porno. Lui allibì. E io "certo, Balla Linda vuol dire testicolo pulito". Poi Lucio era un po' fatto a modo suo. Ha presente i foulard che metteva spesso? Erano miei, me li aveva presi a casa mia aprendomi gli armadi, e mai ridati". 

Avaro come si dice?

"Di più. La famosa leggenda che fosse fascista e finanziasse gruppi neofascisti era una palla anzitutto perché figuriamoci se lui poteva finanziare qualcuno. E se andava al bar con gli amici, prendeva il caffè e usciva dicendo "auguri a tutti"". 

Però le regalò "29 settembre".

"E che regalo fu! Me la fece ascoltare con la chitarra, l'inizio non mi convinceva. Finché non partì la strofa "Poi d'improvviso lei sorrise", e fu una folgorazione, un'apertura di mondo". 

A proposito di capolavori regalati, è vero che fu lei a far dare "Senza luce" ai Dik Dik?

"Le cose andarono così. A Londra ascoltai un concerto dei Procol Harum in cui spiccava questa A whiter shade of pale. Nei camerini il cantante Gary Brooker mi regalò la lacca originale, è dispersa in casa mia. Quando provammo a suonarla mi resi conto che non avere un organo in formazione era un ostacolo insormontabile. Così dissi a Lucio di darla ai Dik Dik, che invece lo avevano". 

Mentre "Io vagabondo" la fecero i Nomadi invece che voi. Rimpianti?

"Per nulla. Capolavoro, intendiamoci, ma quando la sentii, percepii netta la voce di Augusto Daolio come quella ideale. Andai a Novellara a portargliela"

Sciolta l'Equipe 84 lei si mise a fare il pubblicitario. Stanco della musica?

"Abbastanza, sì. Non che il mondo dei pubblicitari fosse tanto meglio: lavoravo a Londra, presto scoprii che erano i capi delle aziende committenti a ideare gli spot, noi facevamo solo da prestanome. Tornato in Italia feci tanti spot musicali, ricordo il primo disco di Fiorello, Veramente falso". 

Poi beccò l'onda del revival. Con "29 settembre" a fine anni Ottanta la trasmissione "Una rotonda sul mare". Circola voce che sia stato anche per il fatto che il padrone di Canale 5 sia nato proprio quel giorno.

"L'ho sentita anch'io. Spesso la gente parla solo per parlare, quella è un capolavoro e io non mi ritengo una cima ma sono bravino. E fu l'ultima volta che sentii Battisti: mi fece una telefonata di10 secondi per complimentarsi per arrangiamento ed esecuzione".

Ma non le dà fastidio questo revival? È una condanna a fare sempre le stesse cose.

"No, suvvia, io sono un musicista, amo fare la musica sulla base delle emozioni che mi dà. E a me la musica piace tutta, anche quella di oggi, eliminerei solo la trap che inneggia a droga e omicidi. Poi amo sempre fare i concerti: adesso uso dei maxischermi con cui duetto con amici come Shel Shapiro, ovviamente registrati, in tante canzoni. Un modo per averli sempre con me"

Estratto dell'articolo di Mazzimo Falcioni per tvblog.it lunedì 20 novembre 2023

Villaggi turistici, andata e ritorno. In mezzo a questo lungo viaggio un’esperienza televisiva che gli ha regalato la notorietà nelle vesti di portalettere a C’è posta per te, programma che ha dominato l’ultimo ventennio di Canale 5. Maurizio Zamboni ha visto nascere lo show, all’inizio del 2000, e ha assistito alla sua crescita, fino alla consacrazione definitiva. 

“Era la fine del 1999 e Maria De Filippi stava testando le prime consegne per una nuova trasmissione – racconta Zamboni a TvBlog – inizialmente provò con dei modelli, ma notò che davanti alle persone facevano fatica a creare una relazione, a generare empatia. Fu Maurizio Costanzo a suggerirle di chiamare qualcuno dai villaggi”.

E fu così che quello di Zamboni divenne uno dei volti (e pizzetti) più popolari del piccolo schermo. Sorridente, estroverso, simpatico. Una centralità avvantaggiata dal fatto che i postini, all’epoca, erano pochissimi: “C’eravamo io, Rossella Brescia e Walter Nudo. Poi in una seconda fase si aggiunse pure Walter Zenga”. 

La primissima consegna non andò mai in onda, in quanto inclusa in una puntata zero: “Venni mandato al luna park dell’Eur, dovevo consegnare la posta ad una signora e si trovò subito a suo agio. Si tratta di un gesto molto delicato, perché vai a toccare l’intimità di un individuo che ha qualcosa da risolvere. Bisogna portare rispetto e pensare che si sta portando un messaggio di pace, da parte di qualcuno che vuole chiedere scusa. Devi andarci con i piedi di piombo”. 

La De Filippi rimase soddisfatta del ‘provino’?

Sì, lo vide e lo considerò perfetto come tempi, modi e impatto. Mantenne dunque quella traccia.

Nei primi tempi eravate dei perfetti sconosciuti per il pubblico. Immagino che la consegna delle lettere fosse più complicata.

E’ vero, c’erano molti interrogativi. La gente si chiedeva chi fossero quegli inviati vestiti da postini. A quel punto spiegavamo la dinamica della trasmissione, ovviamente senza mai rivelare chi li aveva fatti chiamare. Le storie di C’è posta per te sono sempre state vere, ci tengo a sottolinearlo. 

I destinatari quindi non vengono mai avvisati in anticipo.

Nessuno sa che arriviamo, te lo assicuro. Per C’è posta per te la verità è l’aspetto più importante. Giunti nella città stabilita, andiamo alla ricerca dell’abitazione della persona, sperando di trovarla in casa. Non è scontato che ci sia. Le riprese in bicicletta magari si girano successivamente, in modo da evitare di dare nell’occhio. Non ho mai ricevuto accoglienze sgradevoli, mi sono posto sempre con la massima educazione. 

Una consegna che le è rimasta nel cuore?

La più incredibile fu quella a Diego Armando Maradona, all’aeroporto di Fiumicino. Quando si aprirono le porte gli arrivarono incontro 3 mila persone. Dovevo bloccare Maradona in mezzo alla folla che lo trascinava. Il rituale prevedeva le tre domande per capire se fosse il Diego che cercavo e ricordo ancora il suo sguardo. Pensò: ‘ma questo è scemo!’. Fu un’emozione mostruosa. 

Il successo dello show fu fulminante.

Partimmo fin da subito bene, per arrivare ad una vera esplosione. In origine C’è posta per te andava al mercoledì. Passò al venerdì e infine al sabato. Sfidammo e battemmo Fiorello, Morandi, Panariello.

Maria De Filippi [….] Mi ha aiutato e insegnato tantissimo.

Quali pregi le riconosce?

E’ intelligentissima e molto sensibile. Ha un grande dono: la capacità di sintesi. Riesce a parlare poco senza perdere di autorevolezza. Ha tempi comunicativi eccezionali. Lei e le persone che la affiancano sono straordinarie. 

Non si fece mancare nemmeno la partecipazione come tronista a Uomini e donne.

Fu un gioco che durò pochi mesi. Maria amava mettermi in difficoltà proponendomi situazioni comiche per vedere come ne uscivo. Pure in quel caso portai un po’ di clima da villaggio turistico. Non mi innamorai, l’anima gemella l’ho trovata in seguito. Mi sono sposato con Linda nel giugno 2022, dopo sette anni di convivenza. E’ tutta la mia vita.

[…] L’impegno a C’è posta per te durò fino al 2019. Perché abbandonò?

Lasciai poco prima dell’arrivo del covid. Dopo venti anni di fila sentivo di aver chiuso il cerchio. Ho preferito concentrarmi anche su altre cose. 

In vent’anni la trasmissione si è trasformata, pur mantenendo i suoi punti fermi.

[…] Il segreto della lunga vita del programma sta nella preparazione, nell’attenzione e nella sincerità con cui si raccontano le storie. 

Ha mai percepito come limitante il ruolo del ‘postino’?

No. Davo una mano alle persone per fare la pace. Inoltre, avere la possibilità di lavorare fianco a fianco con la De Filippi è stato come conseguire un Master universitario in vita e comunicazione. Era un ruolo piccolo ma importante, è stato un onore.

Torniamo ai villaggi turistici. A quando risalgono i primi passi?

Al 1990. Lavorai per quindici anni alla Valtur. Nei villaggi ci vado tuttora, lavoro come capo-animatore, ci tengo. […] 

Il primo approdo in tv risale al 1997.

Fu una brevissima apparizione, su Italia 1, con Appuntamento al buio. Andava in onda prima di Generazione X di Ambra. Facevamo il 4% di share al pomeriggio e dopo qualche tempo ci comunicarono che erano terminati budget e periodo di garanzia. Ad ogni modo, non ero all’altezza di gestire da solo una roba del genere. 

Tra Appuntamento al buio e C’è posta per te c’è un buco di tre anni.

In quel periodo tornai nei villaggi, ero scioccato, non ero pronto per quel mondo. Mi ero montato la testa e feci un bagno di umiltà. Presi una botta forte e ripartii da ciò che sapevo fare. Mi dissi: ‘se vorranno, mi chiameranno’. 

Dopo la Valtur ha creato un’agenzia di animazione tutta sua.

L’ho fatto assieme al mio carissimo amico Antonio Alfieri. Si chiama Anima Vera ed è attualmente il mio lavoro. Facciamo lavorare 150 ragazzi, tra estate e inverno, dai 20 anni in su. […]

Con la televisione ha rotto definitivamente i ponti?

Al momento non c’è più alcun contatto, ma mai dire mai. Seguo molto la tv, occupandomi di comunicazione. Insieme ai social, è uno dei mezzi più potenti in circolazione. E’ importante seguirla, studiarla, capirla.

"Dovevo bloccare Maradona...". Che fine ha fatto Maurizio Zamboni, l'ex postino di C'è posta per te. Da C'è Posta Per Te ai villaggi turistici. Ecco perché Maurizio Zamboni ha deciso di lasciare il ruolo da postino nella nota trasmissione di Maria De Filippi. Cristina Balbo il 20 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’esperienza a C’è Posta Per Te

 La veridicità di C’è Posta Per Te

 La consegna a Maradona e l’addio alla trasmissione

 Maurizio Zamboni e il suo nuovo lavoro

Chi mai potrà dimenticare lo storico postino di C’è Posta Per Te dal pizzetto biondo più popolare del piccolo schermo? Stiamo parlando di Maurizio Zamboni, uno dei volti storici della trasmissione televisiva del sabato sera di Maria De Filippi. Zamboni fu uno dei primi postini a consegnare le lettere nel people show di Canale 5 - all’epoca di Walter Nudo e Rossella Brescia - e ad oggi gestisce un’agenzia di animazione. Maurizio ha deciso di raccontare come ha vissuto quell’esperienza e i motivi che l’hanno portato all’abbandono in una lunga intervista rilasciata a Tv Blog.

L’esperienza a C’è Posta Per Te

“Divenni un volto riconoscibilissimo, grazie anche al pizzetto biondo che era un segno di distinzione”, ha subito spiegato l’ex postino a Tv Blog. Maurizio ha raccontato come nacque l’idea della consegna della posta e del postino. Era la fine del 1999, quando Maria De Filippi era alle prese con le prove delle prime consegne di quella che poi sarebbe diventata C’è Posta Per Te. “Inizialmente provò con dei modelli, ma notò che davanti alle persone facevano fatica a creare una relazione, a generare empatia. Fu Maurizio Costanzo a suggerirle di chiamare qualcuno dai villaggi”, ha riferito Zamboni.

La prima consegna naturalmente, in quanto puntata zero, non andò mai in onda e, a questo proposito Maurizio ha raccontato: “Venni mandato al luna park dell’Eur, dovevo consegnare la posta ad una signora e si trovò subito a suo agio. Si tratta di un gesto molto delicato, perché vai a toccare l’intimità di un individuo che ha qualcosa da risolvere. Bisogna portare rispetto e pensare che si sta portando un messaggio di pace, da parte di qualcuno che vuole chiedere scusa. Devi andarci con i piedi di piombo”. Maria De Filippi, rimase impressionata dal provino di Maurizio Zamboni e così scelse di arruolarlo: “Lo vide e lo considerò perfetto come tempi, modi e impatto. Mantenne dunque quella traccia”.

La veridicità di C’è Posta Per Te

Naturalmente, nelle primissime edizioni, i destinatari della consegna della posta erano molti titubanti e increduli dal momento che non conoscevano la trasmissione: “C'erano molti interrogativi. La gente si chiedeva chi fossero quegli inviati vestiti da postini. A quel punto spiegavamo la dinamica della trasmissione, ovviamente senza mai rivelare chi li aveva fatti chiamare”, ha rivelato Maurizio. L’ex postino, poi, ci ha tenuto a precisare quanto le storie di C’è Posta fossero assolutamente vere: “Le storie di C’è Posta Per Te sono sempre state vere, ci tengo a sottolinearlo”.

E ancora, ha ribadito: “Nessuno sa che arriviamo, te lo assicuro. Per C’è Posta Per Te la verità è l’aspetto più importante. Giunti nella città stabilita, andiamo alla ricerca dell’abitazione della persona, sperando di trovarla in casa. Non è scontato che ci sia. Le riprese in bicicletta magari si girano successivamente, in modo da evitare di dare nell’occhio. Non ho mai ricevuto accoglienze sgradevoli, mi sono posto sempre con la massima educazione”.

La consegna a Maradona e l’addio alla trasmissione

Zamboni si è anche lasciato andare alla nostalgia dei ricordi, confessando che la consegna più emozionante per lui fu quella fatta a Diego Armando Maradona all'aeroporto di Fiumicino: “Quando si aprirono le porte gli arrivarono incontro 3 mila persone. Dovevo bloccare Maradona in mezzo alla folla che lo trascinava. Il rituale prevedeva le tre domande per capire se fosse il Diego che cercavo e ricordo ancora il suo sguardo. Pensò: 'Ma questo è scemo!'. Fu un’emozione mostruosa”.

Parole di affetto e gratitudine anche nei confronti della padrona di casa, Maria De Filippi per la quale Maurizio nutre una profonda stima: “È intelligentissima e molto sensibile. Ha un grande dono: la capacità di sintesi. Riesce a parlare poco senza perdere di autorevolezza. Ha tempi comunicativi eccezionali. Lei e le persone che la affiancano sono straordinarie”. Nonostante la bellissima esperienza, Zamboni lasciò il programma poco prima dell’arrivo del Covid e ai microfoni di Tv Blog ne ha spiegato i motivi: “Lasciai poco prima dell’arrivo del covid. Dopo venti anni di fila sentivo di aver chiuso il cerchio. Ho preferito concentrarmi anche su altre cose”. Tuttavia, l’ex postino è certo che il ruolo del postino non sia stato limitante per lui: “Davo una mano alle persone per fare la pace. Inoltre, avere la possibilità di lavorare fianco a fianco con la De Filippi è stato come conseguire un Master universitario in vita e comunicazione. Era un ruolo piccolo ma importante, è stato un onore”.

Maurizio Zamboni e il suo nuovo lavoro

Per ben 15 anni, Maurizio ha lavorato alla Valtur, nei villaggi turistici. Adesso, invece, dopo aver chiuso il capitolo televisione, Zamboni gestisce un’agenzia di animazione insieme ad un amico: “Facciamo lavorare 150 ragazzi, tra estate e inverno, dai 20 anni in su. […] Il nostro scopo è creare relazioni tra le persone, far nascere delle amicizie. Oggi è tutto più complicato, tutto si è raffreddato, un po’ per i social, un po’ per la pandemia. Ci siamo disabituati a relazionarci, c’è timidezza e maggiore freddezza”.

Ma non è finita, perché Maurizio tiene anche dei corsi di formazione sulla comunicazione, insieme alla moglie Linda Salvador, con cui è convolato a nozze nel 2022, dopo ben 7 anni di convivenza. Con la tv, invece, “al momento non c’è più alcun contatto”. Tuttavia, Zamboni ha concluso: “Seguo molto la tv, occupandomi di comunicazione. Insieme ai social, è uno dei mezzi più potenti in circolazione. Ed è importante seguirla, studiarla, capirla”.

Estratto dell'articolo di Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 7 marzo 2023.

Mauro Coruzzi alias Platinette, il mese prossimo al debutto del musical «Hairspray, grasso è bello». Un sottotitolo che è già da censura, se sul «grasso» dei racconti di Roald Dahl si sono accapigliati…

«C’è una gran voglia di pulizia e mediocrità di questi tempi. Un brutto segnale. Penso che dopo il Covid più che mai si punti a una “società igienizzata”, con una grandissima dose di ipocrisia. A cui io non ho intenzione di inchinarmi».

 Dell’essere scorretto lei ha fatto un’arte. Ora si appresta a cantare, ballare e recitare nuovamente.

«E ho un dolore alla caviglia dopo le prove, mannaggia, che spero il fisioterapista possa rimediare».

 (...)

Gli slogan contemporanei del «body positivity» dicono che occorre accettarsi per come si è.

«Fantastico, ma io avevo un tema importante da affrontare sull’incapacità di tessere rapporti importanti. Sa quella canzone per cui “non c’è sesso senza amore?”, ecco, secondo me funziona proprio al contrario. E poi guardi, tanta bella positività sbandierata e va a finire che le modelle di Milano della scorsa settimana erano tutte secche come betulle, smunte, poverine. Quanta ipocrisia c’è in giro al giorno d’oggi su tutto. Pure sugli 007».

 Colpevoli di razzismo, secondo il politically correct.

«Già lo fu Via col vento, quando invece l’attrice che interpretava Mami, Hattie McDaniel, era la prima nera dichiaratasi lesbica dopo la prima guerra mondiale. Occorre forse che la censura si ricordi anche di Fausto Leali e della sua Angeli negri, lo segnalo.

 Bisogna che stiamo attenti, perché la storia ripulita non vale come l’originale. Sono testimonianze di un’epoca, non si possono toccare. Peraltro “negro” detto da persone di colore non è un’offesa ma ormai bisogna stare attenti a tutto, e io non ci sto».

 Politica: alle primarie del Partito democratico hanno eletto Elly Schlein. Promette opposizione dura e cambiamento.

«E bene ha fatto la presidente di Arcilesbica, Cristina Gramolini, a prender già le distanze, sull’identità di genere, dando ragione alla premier».

 La comunità Lgbt si è spaccata. Giorgia Meloni ha detto che «la rivendicazione del diritto unilaterale di proclamarsi donna oppure uomo al di là di qualsiasi percorso, chirurgico, farmacologico e anche amministrativo andrà a discapito delle donne».

«Io mi permetto sommessamente di far notare la semplice coincidenza: le donne sono sempre state considerate meno di zero in politica - non raccontiamocela - e poi guarda caso: Meloni va alla guida del governo e toh, anche la sinistra elegge un segretario donna.

 Dall’altra parte hai una madre di famiglia di stampo molto tradizionale e forse anche un po’ intransigente, ed eleggi la Schlein, per i contenuti o per quello che rappresenta il suo stile di vita? Lasciando perdere il fatto che, a casa mia, innovare vuol dire trovare un territorio comune e non annunciare opposizione durissima. Ma al di là di tutto, guardi, lei ha voltato pagina chiedendomi della politica ma il foglio è sempre lo stesso».

Intende quello dell’ipocrisia?

«Quello. L’anno scorso ero ad Atreju, mi invitò Meloni per parlare delle mie posizioni contrarie al ddl Zan. Ma lo sa che la sinistra col cacchio che mi ha mai invitato a un confronto? L’ho proposto a Luxuria, ma niente da fare. Posso per favore dire che tra tutti quelli che hanno votato Meloni ci sono anche persone omosessuali? Un po’ come questo fantomatico rigurgito del fascismo: è tutto al contrario, mi sa».

 In che senso?

«Nel senso che i benpensanti progressisti sedicenti artisti, non hanno nemmeno idea di cosa fosse. Cosa è fascista? Mi viene da dire che è fascista impedire ogni pensiero che si scosti dal loro, no? Io voglio poter dire che l’utero in affitto è una violenza sulle donne.

 Perché c’è prima l’affido, o l’adozione: si combatta eventualmente su queste leggi, non puntando alla comodità di chi, visto che ha 100.000 euro a disposizione, usa una donna come un forno del panettiere. E parlano di tolleranza e inclusione, mah…».

 La Russa, però, l’avrà fatta arrabbiare, con la dichiarazione sul figlio gay…

«La dichiarazione sarà pure stata inopportuna, ma persino Luxuria lo ha difeso: non è una persona omofoba. So di vicende in cui La Russa si è speso in prima persona per aiutare senza alcun pregiudizio. Penso sia semplicemente una frase uscita sbagliata e cucita ad arte sui giornali.

 Guardi che anche quando parlo con la Mussolini, io tanto retrograda questa destra non la vedo. Anzi: lei firmò le proposte per le unioni civili, con la Carfagna… Dopodiché l’ho già detto chiaro e tondo: se le leggi sull’aborto ci sono, vanno rispettate, e occorre accettare che oltre alla famiglia tradizionale ce n’è ormai un’altra. Non riconoscerlo, significa non fare passi avanti, non crescere e non stare al passo con i tempi».

Questa destra è quindi retrograda, oppure così la dipingono?

«Non lo sono tutti quelli di destra. Io temo piuttosto che si stia cercando di far passare un messaggio assurdo: che l’orientamento sessuale di una persona ne determini la qualità. E che le qualità migliori stiano a sinistra. Bizzarro, non crede? Prenda Sanremo: Rosa Chemical si fa paladino della fluidità e va su quel palco senza saper cantare».

 (...)

 Al Festival di Sanremo c’era anche Ariete, convinta che l’omofobia sia ben radicata in Italia.

«E poi vedo che è testimonial di una piattaforma online di abiti. Questo è un punto importante: la verità che nessuno osa dire è che comanda il mercato. La pubblicità ha capito che il business si fa se si mette un omosessuale a girare il minestrone nel pentolone. Quando cerco un film da vedere alla sera mi impressiona ancora che la dicitura “Lgbtq” identifichi un genere: è evidentissimo che si etichetta così un prodotto - indipendentemente dalla qualità - perché attraente per il consumatore. Pannella capì tutto prima di tutti».

 Perché?

«Perché andò ad Arcore a dire a Berlusconi: mettiamo insieme il mercato e i diritti civili. Era l’unico a capirci qualcosa per davvero, di cos’è la politica».

(...)

Mauro Pagani: «Oggi c’è tanta bella musica, ma si fa fatica a trovarla. Escono duemila dischi a settimana». Gli anni Settanta. Le influenze dal mondo. E le sonorità di oggi. Parla l’artista storico membro della Pfm. Simone Siliani su L’Espresso il 06 Febbraio 2023

È un pezzo importante di storia della musica, più che un’autobiografia, il libro “Nove vite e dieci blues” (Bompiani), di Mauro Pagani. Anche un tentativo di sprovincializzarla.

«Inizio a fare musica seguendo il blues e il primo rock americano, che nasce con la fine della guerra in Corea. La prima che gli Usa avevano perso. I soldati, soprattutto delle aree povere, venivano trattati male al loro ritorno. I giovani che avevano rischiato tutto senza avere nulla in cambio, reagirono: pretesero “tutto e subito”. La parte più conservatrice del Paese, che amava il country e detestava il rock perché nero, lanciò una campagna contro il movimento giovanile...».

Musicalmente l’America è ancora un punto di riferimento?

«Sì. Io ho sempre avuto passione per il blues che ci ha insegnato a improvvisare, a essere creativi, ad avere un rapporto personale con la musica. Nessuno ci insegnava il blues o il rock. Li imparavamo dai dischi. Con il blues abbiamo imparato a suonare con gli altri, ad ascoltare e interpretare. La musica classica lo consente poco».

Alcuni vanno alla ricerca di altre tradizioni musicali.

«Sì, ma attenti. BB King diceva che il blues è la musica più facile da imparare, ma anche la più difficile da suonare. Il concetto vero di improvvisazione è “composizione momentanea. Anche il libero linguaggio ha bisogno di pratica e di ascolto».

È sempre stato aperto alle musiche del mondo.

«Sì, però sono figlio di una storia italiana. Negli anni ’70, tra i migliori per la musica, nasceva il progressive, genere che ci ha permesso di essere ascoltati con rispetto in tutto il mondo. C’erano la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Giovanna Marini, i Dischi del Sole, Lomax. Molti venivano a lavorare in Italia per raccogliere materiale. E poi gli Area, il Canzoniere del Lazio e di Napoli Centrale. Tutti bravi musicisti attenti alla cultura popolare. Molti definiscono Creuza de mä, uscito nell’84, il primo disco italiano di musica del mondo. Non è vero, l’Italia era avanti, sul mercato erano già usciti dischi di world music. Peter Gabriel fondò la Real World nel 1988».

A parte la musica, ha avuto sempre a cuore la libertà.

«Mi sono iscritto in Statale nel 1964 vivendone tutte le contraddizioni degli anni a seguire. Ero e sono un uomo di sinistra».

Nel libro racconta l’esperienza di insegnante di musica nel centro sociale occupato di S.Marta a Milano.

«Quando ho cominciato pensavo solo a fare il musicista. Poi ho trovato quattro bravi musicisti (la PFM), e dopo il primo disco finimmo primi in classifica: mi cambiò la vita. Ho imparato a suonare nei dancing e night club con musicisti di cultura jazz di una generazione più anziana. Sono stato fortunato, per questo sento di restituire qualcosa».

Cosa vede d’interessante nella musica d’oggi?

«C’è tanta bella musica, ma si fa fatica a trovarla. Escono duemila dischi a settimana: come si fa a starle dietro? A volte sembra difficile capire la musica di oggi. Ma anche noi facevamo musica che i nostri genitori non capivano».

Max Felicitas e il porno etico: «I video hard educano, sono l'unico modo per i ragazzi di conoscere il sesso davvero». Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera mercoledì 22 novembre 2023.

Il pornoattore torna sul tema proposto da Erika Lust e rilanciato da Chiara Servello, vincitrice del Fabermeeting. «Dico sempre ai giovani: bisogna imparare sperimentando»

Trentun'anni e una carriera hard che si avvicina a quella di Rocco Siffredi. Alcuni dicono che ne sia l’erede, sui social ha 950mila followers e chissà quanti click sul suo sito. 

Ma Max Felicitas, nome d’arte di Edoardo Barbares, non è un pornodivo qualsiasi. A parte essere uno dei più importanti di Italia, si contraddistingue per la modalità con la quale opera nel settore. È uno dei promotori del porno etico, di cui ha parlato anche Chiara Servello, 24enne premiata all'ultimo Fabermeeting, che pone l'attenzione su una serie di temi che spesso nel mainstreaming vengono a mancare. Ne aveva parlato anche a Torino. Lo scorso anno aveva avviato un tour nelle scuole italiane per un progetto di educazione sessuale. E aveva fatto tappa anche al Liceo Alfieri, non senza polemiche. Quest’anno continuerà a parlare negli istituti per spiegare alle giovani generazioni il sesso: come farlo nel modo più bello e più giusto.  

Porno etico: che cosa significa?

«Più che di porno etico, bisognerebbe parlare di sex workers etici. Nel mio caso, ho sempre cercato di esserlo il più possibile. Il che significa porre attenzione a tanti aspetti quando si realizza un prodotto pornografico. In primis, il consenso. Non è scontato: le piattaforme più famose non fanno un controllo reale sui contenuti, spesso non chiedono neanche la licenza».  

Quindi l’eticità risiede nel modo in cui un prodotto viene realizzato? 

«Sì, e anche nel modo in cui viene consumato. Nel momento in cui si sceglie un prodotto nel quale viene garantita la tutela delle persone, a quel punto si fa una scelta etica».  

C’è chi sostiene che il porno, in qualsiasi modo venga realizzato, non sia mai etico per una questione di commercializzazione dei corpi…

«Il sesso è ancora un tabù, figuriamoci il porno. C’è chi ha deciso di fare questo lavoro. E allora? È una scelta, ognuno è libero di decidere cosa fare della propria vita. L’importante, ribadisco, è farlo sempre nel rispetto degli altri. E poi attenzione: se esiste un’offerta è perché esiste una domanda. Tutti hanno guardato un video pornografico almeno una volta nella vita. Che male c’è? Oltretutto, lavorare nel settore non è così facile. Ci vogliono buone capacità di marketing e comunicazione, altrimenti si guadagna decisamente meno di uno stipendio medio». 

Esistono gusti sessuali più aggressivi di altri. Come si comporta in questo senso il porno etico?

«Quando ho iniziato ad essere consumatore, andavano molto di moda i video hardcore. Sono cresciuto con l’idea che la violenza creasse piacere. Poi ho scoperto che, in realtà, alle donne non piace affatto. Si trattava di finizione, non di vero sesso. Così, nella mia produzione, cerco di essere fedele a ciò che realmente piace. Questo perché la pornografia educa, è l’unico strumento che i ragazzi hanno per scoprire il sesso davvero. Dico sempre ai giovani: bisogna imparare sperimentando. Però è innegabile che il porno abbia un ruolo educativo e ciò significa che deve essere realizzato con responsabilità». 

Sui siti, però, le categorie più aggressive continuano ad esserci. Quanto influenzano i comportamenti oltre l’immaginario? 

«Ci possono anche essere donne che apprezzano un atteggiamento aggressivo. Va bene, l’importante è che ci sia il loro esplicito consenso. Questo è il punto. Se c’è il consenso, non c’è niente di male. Se invece parliamo di un gusto per la prevaricazione e per la dominazione, può essere una soluzione andare dallo psicologo. Non è una battuta. La sessualità è legata all’aspetto psicologico della persona ed entrano in ballo questioni come l’infanzia, i traumi. Un sesso sano assomiglia molto di più all’amore che al conflitto. Se può influenzare i comportamenti? Non è l’unico fattore da ricondurre alla violenza di genere, questo è chiaro. Però può essere rischioso se non si hanno gli strumenti per capire».  

In che senso? 

«Se un bambino guarda un film e c’è una scena di un omicidio, sarà compito del genitore spiegare al bambino che non si uccide. La stessa cosa vale per i prodotti pornografici, solo che nessun ragazzo guarda questi contenuti insieme ad un adulto. È ovvio. Quindi non viene spiegato il tema del consenso, e c’è un fraintendimento dettato dall’assenza di una guida. Questo può avere conseguenze. In conclusione: bisogna parlare di sesso e bisogna farlo bene. Può farlo un genitore? No, perché gli adolescenti non ascoltano i genitori. Può farlo un docente? Sì, ma quanto può essere efficace? Secondo me, sono i sex worker le figure più indicate per andare nelle scuole e fare educazione sessuale. Io ci vado gratuitamente, accompagnato da un avvocato e da un urologo».  

Perché?

Perché è importante spiegare anche gli aspetti legali e sanitari. Il mio avvocato si concentra sul tema del revenge porn: se non si è professionisti, bisogna sempre evitare di fare video. Perché con i social, Telegram e WhatsApp, la diffusione avviene in un attimo. Il mio urologo invece si occupa dell’aspetto sanitario e dei rischi. Molti ragazzi, ad esempio, fanno uso di Viagra e altri prodotti acquistabili su internet senza ricetta. È grave perché ci sono delle conseguenze sulla salute. E sono rimasto stupito quando mi sono reso conto che non sanno cosa sia l’MTS Test. È il test per le malattie sessualmente trasmissibili, che si può fare gratuitamente in qualunque ospedale».  

Quanto il porno etico, infine, è davvero erotico?

«È il più erotico. Sempre di sesso si parla, ma di un sesso fatto di attenzione e cura. Elementi che definiscono anche i trend del momento. In una recente ricerca, si è cercato di capire quale categoria pornografia fosse in cima alle classifiche. Primeggia il romantic porn.  È significativo perché gli uomini sono i maggiori fruitori. E sono quindi coloro che ricercano contenuti sempre più in armonia con quello che dovrebbe essere il vero sesso. Un gioco tra il dare e il ricevere, dove l’affetto non diventa antagonista dell’erotico. Anzi, lo potenzia». 

Max Felicitas: «Ragazze di 18 anni mi contattano ogni giorno per entrare nel porno. Ma è un punto di non ritorno: rischiano di rovinarsi la vita per 180 euro». Roberto Rizzo su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2023.

Vive a Milano, ha 31 anni, è il più famoso attore hard dopo Rocco Siffredi (con cui ha litigato): «Il classico scontro generazionale». I genitori? «Mamma vicepreside, papà amministratore di condominio e fervente leghista: da bimbo mi portava a Pontida. Anche oggi per loro la mia carriera è un tabù»

Edoardo Barbares, in arte Max Felicitas, 31 anni, è il più famoso pornoattore italiano dopo Rocco Siffredi. Influencer su Instagram dove ha quasi un milione di follower, da qualche tempo viene invitato nelle scuole di tutta Italia a parlare con gli studenti: «Di stalking, revenge porn, cyberbullismo, malattie sessualmente trasmissibili di cui gli adolescenti sanno poco o nulla. Alle medie e alle superiori sono stato bullizzato. Ero il classico sfigato della scuola: magrissimo, l’apparecchio ai denti, il viso devastato dall’acne. Non ho mai avuto il coraggio di affrontare i bulli, però le loro offese mi caricavano invece di deprimermi». 

Cosa raccomanda agli studenti che incontra? 

«Di non filmarsi mai quando fanno sesso, di non inviare foto e video intimi perché quelle immagini sono un’arma pericolosa». 

Nell’epoca di OnlyFans esibirsi davanti a una telecamera è diventata la normalità. 

«Di recente un giornale titolava: “Da commessa a milionaria grazie a OF”. Sa qual è il guadagno medio di chi posta contenuti erotici su quella piattaforma? 180 euro al mese. Ma nessuno lo scrive. Vedo ragazzine andare in tv a raccontare come sia facile diventare ricchi in questo modo. La verità è che rischiano di rovinarsi la vita per 180 euro. Certo, ci sono le eccezioni ma, appunto, sono eccezioni. Ogni giorno mi contattano ragazze di 18-20 anni che vogliono girare scene con me perché sui social sono popolare ed è un modo per guadagnare visibilità. Le incontro, ci parlo, cerco di capire se sono veramente convinte, faccio presente quali saranno le conseguenze, che i loro genitori, la loro famiglia, gli amici vedranno quelle immagini. È un punto di non ritorno. Qualcuna cambia idea, altre no». 

Lei come ha iniziato? 

«Fin da ragazzino ero attratto dalla sessualità, soprattutto dalle trasgressioni. Per guadagnare qualcosa, finito il liceo, lavoravo nelle discoteche fino a quando si è presentata l’occasione di entrare nel mondo del porno. Sinceramente, è stata una grande delusione». 

Perché? 

«Innanzitutto perché si guadagna poco. Oggi ho la mia società, faccio tutto da solo, ma se lavori per una produzione come performer maschile al massimo sei pagato 200-300 euro a scena. Per abbattere i costi, in poco tempo si girano più scene possibili. Attori e attrici sono costretti a convivere per giorni o settimane nello stesso appartamento dove spesso succede di tutto, altro che vita dorata in hotel di lusso. Non bevo, non fumo, non ho mai preso droghe. Mi sono trovato in situazioni di forte disagio. Se, all’epoca, avessi saputo quanto è brutto l’ambiente non avrei mai iniziato. Lo dico sempre a chi si avvicina a questo mondo». 

Poi cosa è successo? 

«A quel punto, non avevo più una reputazione da difendere perché le mie scene già circolavano. Era il 2014, ho aperto una pagina Facebook e intanto veicolavo utenti sul mio primo sito hard. Ho iniziato a girare scene usando il telefono cellulare, casa mia come set mentre iniziava il boom del genere porno-amatoriale. In Italia sono stato un precursore, mi è andata bene, anche perché non ho certo il fisico per questo ruolo: pochi muscoli e normodotato. Sono il ragazzo un po’ sfigato della porta accanto, chiunque potrebbe essere al mio posto. Chi guarda i miei video deve potersi immedesimare». 

I suoi video non si trovano su piattaforme gratuite tipo Pornhub, ma solo sul suo sito ed è tutto a pagamento. 

«Infatti, si è rivelata una mossa vincente. Ho un pubblico fedele, che paga l’abbonamento». 

In passato ha dichiarato di fatturare circa un milione all’anno. 

«Guadagno molto bene, ma non parlo più di cifre. In Italia se fai tanti soldi non sei un modello da seguire ma un bersaglio da distruggere. Oggi preferisco definirmi un imprenditore, non solo un pornoattore. Diversifico gli investimenti, sono seguito passo dopo passo da un legale e da un commercialista. Non amo fare debiti, un insegnamento di mio padre: non si compra a rate, piuttosto non si compra». 

La sua famiglia come ha preso la carriera nel porno? 

«Molto male. Ho avuto un’educazione rigida, mia madre era vicepreside in una scuola, mio padre amministratore di condominio e fervente attivista della Lega Nord. Da bambino mi portava con lui a Pontida per il raduno leghista. Fino a 18 anni passavo il tempo libero in oratorio e durante la messa raccoglievo le offerte. Ancora oggi la mia carriera è argomento tabù. Non se ne parla». 

Padre leghista, lei politicamente come si definisce? 

«Sono un liberale, soprattutto sono una persona concreta. Nella politica di oggi ci sono tante promesse e pochi fatti». 

Che studi ha fatto?

 «Liceo Scientifico, poi Economia e commercio ma ho lasciato a pochi esami dalla laurea».

Lei è friulano di Codroipo, ma vive a Milano. 

«Sì, mi sono trasferito da qualche anno. Il piccolo paese mi stava stretto. Abito a Dergano, dietro piazzale Maciachini, mi trovo bene, nel quartiere c’è tutto quello che mi serve e la città mi piace molto». 

In questi giorni il tema sicurezza è molto dibattuto: Milano è insicura?

«L’unica volta che hanno tentato di rapinarmi è successo a Codroipo, dopo un prelievo bancomat. Qui, per ora, non mi è successo niente. Sono accorto, se esco da un locale a notte fonda aspetto il taxi, non mi incammino da solo». 

Sui social posta foto a bordo di auto potenti e costose. 

«Mi piacciono le belle auto. Le compro e le rivendo, è una piccola parte delle mie tante attività. Ora ho una Porsche e una Panda. In città giro con la Panda».

Ha iniziato anche una carriera da dj. 

«Da tempo mi proponevano di fare serate nelle discoteche, ma non mi piace andare in un locale, fare la comparsata, scattare foto e andare via. Così ho seguito dei corsi per diventare dj, mi sono allenato. Ora faccio almeno quattro serate al mese a mettere musica». 

Sembra che con Rocco Siffredi non sia in buoni rapporti. 

«Lui è un pornoattore della vecchia scuola, io della nuova. È il classico scontro generazionale».

Estratto dell’articolo di Roberto Pavanello per lastampa.it il 28 aprile 2023.

L’attore porno e imprenditore Max Felicitas, all’anagrafe Edoardo Barbares, è indispettito – e non poco – per la reazione che ha scatenato, in parte del corpo docenti del liceo di Torino Alfieri, la lezione tenuta per parlare agli studenti di bullismo, sesso in sicurezza e dei rischi che comporta un uso non ragionato di web e social. 

Max, hai letto delle proteste di alcuni professori dell’Alfieri?

«Sì. E come prima risposta ho fatto una storia su Instagram per appellarmi al ministro Valditara e al ministero dell’Istruzione. Chiedo che venga fatto un chiarimento sul perché degli insegnanti che dovrebbero essere i primi a educare gli alunni sull’inclusione e sull’ascolto prima di esprimere un giudizio, sono essi stessi che si limitano a un giudizio superficiale […]». 

Quel giorno nessuno ha avuto da obiettare?

«All’assemblea non c’era nessun professore, era presenta solo la preside. Magari se fossero venuti, avrebbero imparato qualcosa anche loro. A parlare non c’era solo un pornoattore, che magari per loro è un buffone, solo per un pregiudizio sul mio lavoro. Non sanno che sono anche un imprenditore, non sanno che ho parlato solo di prevenzione delle malattie sessuali e ho informato i ragazzi che ci si può fare gratuitamente gli esami all’ospedale in maniera anonima. 

Ho sensibilizzato i ragazzi “contro” il mondo del porno, ho detto loro di fare attenzione con i video perché potrebbe diventare materiale per ricatti. Il mio avvocato ha spiegato come difendersi in caso di stalking e revenge porn. La sessuologa ha parlato di sesso elevandolo a connessione mentale. Ringrazio la preside dell’Alfieri per l’occasione di confronto che ha dato ai suoi studenti». 

«Pregiudizio» mi pare la parola chiave.

«Mi hanno offeso. Mi sento discriminato al pari di un gay che viene insultato. È come se mi avessero detto “sei ne*ro e quindi non puoi parlare”. La scuola è un presidio di cittadinanza nel quale si deve dare ascolto a tutti. […]».

 Il mondo del porno oggi è facilmente accessibile e può comportare difficoltà nel rapportarsi al sesso da parte dei più giovani. Ne hai parlato all’Alfieri?

«Sì, la prima cosa che ho detto è di non prendere il porno come un riferimento per la propria sessualità e per l’educazione sessuale. Il porno è solo intrattenimento, è pieno di finzione e non corrisponde mai alla realtà. Ho invitato i ragazzi a tenere un distacco dal porno. È come vedere un film con The Rock e pensare che siamo tutti palestrati capaci di buttare giù un monte con un pugno». […]

Dagospia. Da “La Zanzara – Radio24” il 20 febbraio 2023.

Ai microfoni di Radio 24, ospite de La Zanzara, il pornodivo Max Felicitas racconta la sua esperienza da creatore di contenuti amatoriali: “Mi ritengo un anticipatore di Onlyfans. Da cinque anni ho il mio sito personale e sono stato il primo ad autoprodurre filmandomi con il cellulare e poi pubblicando i video. Ho tantissimi abbonati. Ci sono persone normalissime che pagano per vedere cosa pubblico, dal politico allo studente universitario”.

 Confessa: “Non ho le caratteristiche fisiche di un pornoattore, la mia forza è la comunicazione: do consigli anche a importanti imprenditori e politici su come comunicare con le persone”. Onlyfans ti ha fregato? “No, anzi, da quando l’ho aperto ricevo più richieste. Sono diventato una sorta di promoter di ragazze, le lancio. Quando ne noto qualcuna che si è appena iscritta, la contatto e cerco di organizzarci qualcosa”.

Differenza tra il mio sito e Onlyfans? Uso molto di più il sito. Su quello paghi una quota fissa e puoi vedere tutti i video caricati dall’inizio della mia carriera. Sull’altro funziona che ti abboni, vedi poco e niente e ti fai mandare principalmente video privati, pagandoli. E’ una forma di prostituzione 2.0”. E sull’impatto di Onlyfans sul mondo della pornografia, commenta: “Prima fare porno era una cosa lontana dalle persone, solo chi aveva i mezzi poteva farlo. Adesso chiunque può e pure da casa”. Le dimensioni contano? “Oggi non contano più, anzi, se uno è troppo dotato magari la gente lo vede distante da sé, si immedesima poco. E spesso finisce per avere meno successo di uno normalissimo, come posso essere io”.

A chi lo accusa che la prostituzione non sia un lavoro, risponde: “Allora non fatemi pagare le tasse! Pago più tasse io col mio cazzo che lei col suo libro” - rivolgendosi alla scrittrice Annarita Briganti, in collegamento telefonico. “Col mio cazzo - prosegue - costruisco più strade di lei. Produco reddito, do un contributo. Nella vita, tutti noi offriamo qualcosa per soldi: c’è chi vende la propria mente, io offro il mio cazzo, che differenza fa?” E proprio grazie al suo lavoro, Felicitas afferma di riuscire a guadagnare “settanta, centomila euro lordi al mese”.

 Vizi? “Ogni tanto vado a prostitute. Sono malato di sesso. Alla qualità preferisco la quantità: vado cinque volte a settimana, oltre a tutto quello che faccio sul web”. “Cosa mi piace della prostituzione? Il fatto di poter scegliere e comandare io, applicando una sorta di sottomissione”. “Sono fidanzato da due anni - continua - e la mia ragazza accetta la mia vita, così come io la sua. Io sono fatto così, e se qualcuno ti ama, ti accetta per quello che sei”.

Quello che fai distrugge i rapporti sentimentali, la tua compagna dovrebbe lasciarti”, incalza la Briganti. E Felicitas: “Lei è una retrograda, vive nel Medioevo! Le società civili lasciano le persone libere di fare quello che vogliono”. Le piace Giorgia Meloni?: “A me piacciono le persone libere. Il parlamentare che amerò io sarà quello che aprirà le case chiuse. Ad oggi c’è un grosso problema: che uno può liberamente bucarsi, farsi di crack o di eroina davanti a tutti e non rischia nulla, invece se scopa dentro a una macchina e lo beccano rischia 30.000 euro di multa”.

Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 9 gennaio 2023.

Salire in auto i tornanti di Cuasso al Monte - provincia di Varese, poco più in là è già Svizzera - è poesia. La luna è lassù sulle cime, «e vedrai che tra poco si infiammano tutte di rosso, al tramonto», indica Max Laudadio offrendoci un vin brûlé. Lo raggiungiamo alle panchine di una pista da pattinaggio sul ghiaccio tra alberi carichi di lucine: l'ha ordinata lui dall'estero, «completamente ecologica», per l'associazione "On", una delle mille idee dell'inviato di Striscia la Notizia, per migliorare la vivibilità dei boschi di queste Valli.

 «Da 15 anni abito qui, in una baita in mezzo alla natura e con una vista clamorosa sulle montagne», racconta lui che di anni ne ha 51. Origini pistoiesi, con la moglie si è innamorato di questi luoghi dopo il consiglio del pediatra per la figlia, Bianca, che si ammalava troppo spesso nell'aria di Milano.

Qui la tranquillità, ma per lavoro sei sempre in viaggio. Spesso c'è chi per le tue inchieste si arrabbia, qualcuno arriva ad aggredirti. Quando è iniziata con Striscia la Notizia?

«Vent'anni fa, dopo tre alle Iene. Prima ho fatto tanti mestieri, sempre con l'obiettivo di lavorare nel mondo dello spettacolo. Sono stato "veejay" a Match Music, che era l'alternativa di Mtv. E poi autore a Disney Channel. Alle Iene sono approdato con un'inchiesta durata sei mesi: per guadagnare qualche soldo facevo pure il fotomodello, e mi è venuta l'idea di prostituirmi per finta su un noto sito internet di escort, filmando tutto con telecamera nascosta».

 Rischioso...

«Forse, un po', ma avevo un'altra età e una certa incoscienza, e poi mi sottraevo un momento prima di salire in camera. Quando la mandarono in onda si era scoperto che alcuni calciatori facevano festini con ragazze in vendita su quel sito. L'inchiesta fece "rumore"...».

 Tu cosa tifi?

«Sempre stato doriano, ma a un certo punto il calcio l'ho proprio abbandonato. Giocavo a buon livello, avevo anche fatto le selezioni per la Nazionale under 18».

Ma...?

«Ma era il sogno di mio padre, non il mio. Un giorno l'ho guardato e gli ho detto: parto, vado in un villaggio a fare l'animatore».

 Come l'ha presa?

«Si è incazzato moltissimo. Ma abbiamo avuto tutto il tempo di recuperare. Papà è andato in cielo un paio d'anni fa. È sempre stato il mio mito, solo negli ultimi anni avevo scoperto che qualche difetto lo aveva pure lui».

 Com'è lavorare con Davide Parenti e con Antonio Ricci, due mostri sacri della tv?

«Sono entrambi tostissimi. Parenti è stato per me l'inizio a Mediaset, il primo autore importante. Con Ricci... beh, ho sempre un po' il timore che risulti piaggeria, ma dico davvero quando racconto che ha la caratteristica di dare una fiducia totale, è come un padre. Controlla tutto, ovviamente, per un programma che fa ascolti così importanti come Striscia. Ma si fida, e ha grande attenzione. Mi ha permesso di seguire i miei interessi. Oltre ad avere spesso idee geniali».

Ha creato per te le vesti del Cicalotto.

«Per anni mi sono rifiutato di interpretare quel personaggio.

Ma lui mi ha "fregato" convincendomi che sarebbe stata un'interpretazione da attore, e per me che avevo fatto scuola di teatro era l'idea giusta. Sono i panni che indosso ancora oggi quando ci sono inchieste sui truffatori. Il Cicalotto può dire quel che vuole, cicaleggia, a differenza dell'inviato di Striscia che è più imparziale e lascia allo spettatore il decidere se qualcuno ha torto o ragione».

Oggi ti diverti, a indossare quel costume?

«Il divertimento è iniziato quasi da subito, devo dir la verità. Ricordo ancora quando una truffatrice mi menò per 47 minuti di fila. Roba da morir dal ridere, perché non picchiava Laudadio ma questo pupazzo vestito di verde e giallo. Per fortuna non erano botte che facevano male. È stato divertente anche tornare a casa un giorno con mia figlia ancora piccola in lacrime, che mi diceva di smettere di vestirmi da Cicalotto perché si vergognava di me e non voleva andare a scuola».

Come l'hai convinta?

«Le ho spiegato che ero un po' come il Gabibbo, con la differenza che facevo un lavoro serio di inchiesta. Ma non c'è stato molto da fare: mi ha gridato che l'unica differenza con il Gabibbo era che io ci mettevo la faccia».

 (Ci interrompono, con gentilezza, per chiedere un selfie, e un uomo sulla settantina gli dice: «Si vede che sei un puro, è cosa rara al giorno d'oggi»). Dai, questi li hai pagati per far bella figura per questa intervista.

(Ride) «Ho iniziato da un po' a credere nella bontà delle persone».

 La tua è anche una storia di un profondo cambiamento personale.

«Quando si fanno lavori come il mio, ci sono due categorie di persone. Chi capisce che serve crescere interiormente, e chi si perde nell'oblio del niente, del successo e della ricchezza. Non sto a farti i nomi, ce ne sono tantissimi. E spesso anche lo spettatore se ne accorge».

 Hai corso questo rischio?

«A un certo punto avevo tutto: il lavoro che avevo sempre desiderato fare, un matrimonio felice, tre figli: una biologica e due ragazzi che abbiamo accolto in casa nostra, che oggi hanno 27 e 37 anni. Vengono dall'Albania e dal Niger. E però non ero felice».

 Come te lo spieghi?

«Oggi per farla semplice la racconto così: mi sono reso conto che la vita è come una scala mobile. Vale per qualsiasi lavoro: c'è sempre un obiettivo davanti da raggiungere.

Ma sul gradino con scritto "felicità" rischiamo di non appoggiare mai il piede. Né i soldi, né la fama me l'avevano regalata».

 E poi?

«Poi è successo che mia figlia frequentava l'oratorio e il prete - don Silvano Lucioni - si era messo in testa che io dovevo entrare in Chiesa, ma non mi passava neanche dall'anticamera del cervello. Non ero semplicemente ateo, ero proprio in rivolta, a tratti persino violenta. Allora lui che ha fatto? Mi ha regalato un libro: Per una Chiesa scalza, di Ernesto Olivero».

 Il fondatore del Sermig di Torino, grande opera missionaria.

«Ho iniziato quel libro una sera per rispetto per il prete - di mio leggo parecchio - e non sono riuscito a smettere finché non era finito. Racconta di una Chiesa priva di orpelli e vestiti dorati, di persone che si dedicano agli altri. Al mattino ho chiamato la mia assistente e le ho detto che quel giorno non sarei andato al lavoro.

Son partito per Torino da solo, e arrivato all'Arsenale della pace ho bussato e mi sono messo a piangere. Ho chiesto di vedere Olivero, mi han detto che era appena atterrato dalla Terra Santa e poco dopo mi ha accolto. La prima cosa che mi ha detto è "ti voglio bene"».

 Da lì la conversione?

«Fu più quella notte che don Silvano mi convinse, o costrinse, a fare l'adorazione eucaristica. Mi ero persino dimenticato di averlo promesso: mi ero segnato per le 3 del mattino. Suonò la sveglia e scesi in valle in una notte con la bufera di neve, incazzato nero, ma poi entrato in Chiesa l'illuminazione.

 Mi sono messo in ginocchio e non mi sono alzato fino al mattino. Da lì, giuro, è iniziata una serie impressionante di quelle che io chiamo "dioincidenze"».

 Cosa è cambiato?

«Ero un megalomane, egocentrico ed esibizionista. Ho chiesto il dono dell'umiltà. E sono partito: tre mesi in missione. Prima ad Haiti in un orfanotrofio, poi in Giordania in un centro disabili mussulmani gestito da tre suore, e poi in Benin in un ospedale piccolissimo che serve quattro Stati».

 A fare che?

 «Principalmente a portare sorrisi con le mie competenze. Ho scoperto lì che la felicità esiste solo nel dono agli altri, se una cosa la fai per gli altri».

 Uno sforzo o una vocazione?

«Quello stato di benessere che ho vissuto poi per due anni purtroppo non dura per sempre, ma nella lotta della vita è per me stato decisivo don Bosco, una sua frase. A un ragazzo che gli chiedeva come fare a diventare santo, cioè una brava persona in vita, rispose che occorreva rispettare tre parole. Guarda le ho tatuate qui (alza la manica del giaccone, sono in corsivo sull'avambraccio, ndr): responsabilità, misericordia e allegria. La perfezione è impossibile all'uomo, ma cerco di fare il massimo che posso. Così racconto a tutti cosa sia per me la fede».

 Nell'ambiente della televisione come hanno accolto questo cambiamento?

«Non è cambiato molto rispetto a prima, a esser diversa è stata la mia disponibilità verso gli altri, e questo ha regalato parecchi frutti. Sono contrario a ogni estremismo. Certo, mi prendono sempre un po' per il culo eh: c'è chi pensa che vivo qui in montagna come un monaco in preghiera, ma lo senti anche tu il profumo della salamella, no?».

Estratto dell’articolo di Valentina Ariete per “La Stampa” il 9 ottobre 2023.

Ci stiamo liberando degli Anni '80, è di nuovo il momento dei '90. E in Italia il 1992 è stato cruciale: scoppiava lo scandalo di Mani pulite e usciva l'album Hanno ucciso l'Uomo Ragno degli 883, alias Max Pezzali e Mauro Repetto. Da Pavia con furore. 

A loro è dedicata la serie Hanno Ucciso l'Uomo Ragno – La vera storia degli 883, in arrivo nel 2024 in esclusiva su Sky e in streaming su NOW, fortemente voluta da Sydney Sibilia: «[…] Trent'anni fa invece il successo era nazionale. Noi raccontiamo un successo vero, con vendita di milioni di dischi e la gente che ti ferma per strada perché tutti sanno chi sei.

 Gli 883 sono riusciti a ottenere questo perché hanno colmato un buco narrativo: il buco delle persone normali. Tutti nel campo della musica cercavano di essere più fichi di quello che erano, loro invece, con la sincerità, che poi è sempre la chiave per il successo, si sono palesati per quello che sono. Dei ragazzi di provincia. E all'epoca milioni di ragazzi di provincia si sono rispecchiati in loro. Perché erano come loro. […]».

L'ansia di un primo appuntamento con una ragazza, l'angoscia della «friendzone», che allora non si chiamava così ma che il brano La regola dell'amico racconta molto bene: Pezzali è diventato veramente il confidente degli italiani cresciuti nei '90 .

Ed è entusiasta del progetto: manda lunghi vocali al regista e sta seguendo passo passo la lavorazione della serie, che avrà anche una seconda stagione, già confermata. Più misterioso Mauro Repetto, che concede pochissime interviste e ha preferito affidare la propria storia a un libro, Non ho ucciso l'Uomo Ragno, recentemente uscito. Ma la sua figura è centrale: a scrivere e cantare era Pezzali, ma Sibilia si è reso conto che senza l'entusiasmo di Repetto gli 883 non sarebbero mai nati. […]

Francesca D’Angelo per la Stampa- Estratti il 10 ottobre 2023.

A Parigi è sera. (...)Un bicchiere di vino, qualche risata, il suono distante della musica. Qualcuno canta. Molti, tra poco, balleranno. Ed è in questo brulichio festoso di vita, così familiare e al contempo nostalgico, che Mauro Repetto ha scelto di vivere: ha messo su famiglia nel quartiere della Bastiglia, «il ventre molle della città», come lo chiama lui, «cuore della movida». 

Ha una moglie, due figli di 16 e 17 anni, un bell’appartamento «haussmaniano, tipico parigino», e un lavoro stabile come Event Executive alla Disney. Eppure non può rinunciare alla magia delle serate parigine: «Mi piace sentirmi accarezzato dalla movida: ascoltare il chiacchiericcio vivace per le strade, mentre torno a casa, e addormentarmi con quel brusio nelle orecchie».

Un mondo - quello della notte e della musica - che lui conosce molto bene. Perché se Max Pezzali era (ed è) la super star degli 883, Mauro Repetto è invece la leggenda vivente: il “biondino” che negli anni 90 ballava, dimenandosi, dietro a Pezzali, e che poi ha improvvisamente mollato tutto, all’apice del successo. C’è chi lo dava per morto, chi spergiurava di averlo beccato vestito da Pippo a Disneyland, chi come clochard per le strade di Parigi.

«Non è successo nulla di tutto ciò. Non giro di notte, con Jim Morrison, per le tombe dei cimiteri parigini, e non ho nemmeno mai buttato tutti i vestiti giù dalla finestra del decimo piano, nel rabbioso pentimento di aver lasciato gli 883».

Per certi versi è come se il mondo, che del successo ha fatto il proprio faro, non gli abbia mai perdonato di aver gettato tutto al vento: Repetto non poteva, semplicemente, «volere altro», come sostiene. Ci doveva per forza essere qualcosa sotto: un mistero, un segreto, un litigio. «Quindi, sì: alla fine sono diventato una leggenda metropolitana». 

(...) 

Oltre ai sogni, non sono mancati gli errori, come la droga: «Pensavo mi potesse dare qualcosa in più, invece toglie e basta. A 16 anni, ho fumato eroina in discoteca rischiando di morire. Da allora non ho più toccato nulla». 

Nessun rimpianto invece per l’addio all'Italia: «Soddisfatta la voglia di musica pop, ho puntato verso un nuovo desiderio: il cinema e il grande sogno americano». Parte quindi alla volta di Hollywood, complice anche una cotta per una modella ballerina («era bellissima, forse puntai un po’ troppo in alto…»), ma non succede nulla. «Frequentavo la stessa palestra di Brad Pitt: all’epoca non era ancora esploso, quindi non poteva darmi agganci».

Così, si trasferisce a Parigi e resetta tutto, partendo da zero: inizia da figurante a Disneyland Paris, ma viene subito promosso a event executive. Per vent’anni va avanti così, sbirciando la movida dai vetri di casa, finché non incontra per caso il regista Stefano Salvati e il desiderio si riaccende: arrivano il libro autobiografico Non ho ucciso l’uomo ragno (Mondadori) e, prossimamente, uno spettacolo teatrale. 

«La vita è come una partita di calcio: per fare anche solo un gol, devi prima creare mille occasioni. Da credente, penso che il regalo più grande di Dio sia stato darci il libero arbitrio: il bello della vita è proprio questo slalom, continuo, tra scelte ed errori». E se chiedi a chi, tra lui e Pezzali, alla fine sia andata meglio, risponde: «Come punti in classifica, Max è il Manchester City e io il Genoa. Ma quello che conta è altro: trovare il proprio sole, provare a vivere».

Storia e geografia degli "883". Il duo che ha incarnato la provincia anni '90. Max Pezzali e Mauro Repetto hanno trasformato in musica i luoghi di Pavia e i suoi dintorni. Ecco una road map delle persone e delle suggestioni che li hanno formati. Raccontati da chi c'era. Alessandro Gnocchi il 30 Settembre 2023 su il Giornale.

Forse gli storici, un giorno, stabiliranno che Max Pezzali e Mauro Repetto, gli 883, sono stati i migliori sociologi della loro era, la fine degli anni Ottanta e tutto il decennio successivo. Entrambi residenti a Pavia (Mauro però è nato a Genova), si conoscono sui banchi del Liceo scientifico Copernico, quando Max, più vecchio di un anno, viene bocciato. Iniziano quasi subito a scrivere canzoni insieme. La vita nella sonnolenta Pavia viene trasfigurata nel mito. Gli 883 però sono campioni mondiali di precisione. Parlano sempre di luoghi frequentati e persone conosciute. Della provincia, che poi è l'intera Italia, colgono tutto o quasi. I pregi e i difetti spesso coincidono. A Pavia è quasi impossibile sentirsi soli. Però sapere sempre chi incontrerai, e in quale luogo, rischia di essere noioso. La città è a misura d'uomo. Ma viene voglia di mettersi alla prova con qualcosa di meno facile. Io, comunque, c'ero e questi sono i miei ricordi.

HANNO UCCISO L'UOMO RAGNO «Solita notte da lupi nel Bronx / nel locale stan suonando un blues degli Stones / loschi individui al bancone del bar / pieni di whisky e margaridas».

Innanzi tutto il Bronx non è un quartiere ma era un locale di Pavia frequentato da Max Pezzali e Mauro Repetto, alias Flash per i conoscenti. All'epoca, i futuri 883 erano un gruppo hard rock, con sfumature rap, per motociclisti (da cui presero la ragione sociale, essendo la 883 un modello della mitica Harley Davidson). La svolta pop avvenne perché Claudio Cecchetto, passando per un locale (l'Insomnia) in cui suonavano ad esempio i Tipinifini o i Viaverdi, colse qualcosa nei testi. L'altra versione, forse non alternativa ma complementare, è che Cecchetto, in cerca di un nuovo Jovanotti, abbia ascoltato un demo degli 883 e sia rimasto colpito da Non me la menare, un rap rock molto anni Ottanta. Ricordo il mio amico Riccardo sconcertato dopo il primo ascolto di Hanno ucciso l'uomo ragno (1992): «ma che, davero» (sic)? Al Bronx girava sempre un blues degli Stones, ossessione del proprietario. Credo addirittura di poter affermare che fosse I Got the Blues da Sticky Fingers (album suonato a ripetizione al Bronx). Era in effetti un locale «losco», per quanto possa essere losco un locale di Pavia, cioè per modo di dire. Whisky e Margaridas sono una licenza poetica. Al Bronx potevi bere una birra media o, in alternativa, due birre piccole. Da mangiare c'erano solo piadine, ma i titolari si arrabbiavano moltissimo se li costringevi a cucinare (Quattro ristoranti e Masterchef erano ancora molto ma molto lontani nel tempo). Occorre dire che a Pavia c'è sempre stato un locale, nei pressi della stazione, aperto h24, è quello in effetti era un po' losco.

GLI ANNI

«Stessa storia,

stesso posto, stesso bar / Stessa gente che vien dentro, consuma poi va».

Il Bar Dante è il bar per eccellenza degli 883, immortalato in diversi brani e sempre citato da Max come un luogo di ritrovo a cui deve il fatto di non essersi mai sentito solo. Pezzali però era anche avventore regolare del Borgo Calvenzano, una birreria davanti al naviglio e a poche centinaia di metri da casa sua (come il Bar Dante, del resto). Mauro Repetto decise di lanciarsi all'avventura dopo aver ascoltato il demo di questo brano, evidentemente lo colpì nel profondo. Da lì cominciò il suo tortuoso percorso, da Los Angeles, sulle tracce di una modella, a Parigi, dove lavorava a Disneyland (nega però di essere stato dentro al pupazzo di Pippo). Mauro voleva un'altra storia, un altro posto e un altro bar e ha avuto il coraggio di rimettere tutto in discussione. La provincia dà e toglie. Può essere confortante abbandonarsi alla sua tranquillità. Ma può anche essere un limite insopportabile. La provincia si ama soprattutto da lontano. Mauro Repetto è un nome che ancora oggi viene iscritto dai buontemponi agli esami di lettere. A quanto ricordo, Repetto era realmente iscritto a lettere moderne e contemporanee e credo proprio abbia ancora gli appunti di Filologia romanza sui quali abbiamo studiato io e il mio amico Andrea (nel caso, tienili pure, Mauro). Max invece fece un rapido passaggio da Scienze politiche, diede un solo esame, sociologia, non a caso.

ROTTA PER CASA DI DIO «Avvistiamo da lontano un cavalcavia / Ci sarà un'autostrada là (Shalala) / Appena entrati dal casello come per magia / Ecco appare un autogrill».

Il luogo magico, lontano, avventuroso (shalala) in cui rifugiarsi dopo essersi persi è l'autogrill di Dorno, autostrada dei Giovi, 20 chilometri scarsi da Pavia, effettivamente meta dei disperati in cerca di una birra notturna. È l'unico a occupare appunto l'intero cavalcavia e non le piazze di sosta e rifornimento. Max, ma come si fa a perdersi nel circondario di Pavia, non sei mica di Berlino, direbbe Lucio Dalla.

SEI UN MITO

«Sei un mito, sei un mito per me / Sono anni che ti vedo così irraggiungibile / Sei un mito, sei un mito perché / Tu per tutti noi sei la più bella ma impossibile».

Non faccio nomi ma la bellissima ragazza di cui si parla nel pezzo era innamorata del mio amico Guido, che la rifiutò. E questa è Storia. Non risultò turbata dall'essere immortalata in un singolo, anzi credo che non l'abbia capito fino a quando non le è stato detto. La canzone però lascia intendere che sia successo qualcosa tra la ragazza e Max. Spiace ma il dubbio è lecito.

JOLLY BLUE

«La sala giochi / che per noi era un non so cosa / forse una seconda casa»

Il Jolly Blue era una sala giochi nei pressi della stazione ferroviaria. Nel brano, si ricordano i tanti eventi traumatici o divertenti di una giovinezza in provincia, a partire dalle agghiaccianti domeniche pomeriggio in discoteca e a finire con «il 125», la moto, sfoggiato in centro. Jolly Blu (senza la e) è il titolo di un film in cui gli 883, con un concerto di beneficenza, salvano il bar dove si riunisce la loro compagnia di amici. Saturnino, bassista di Jovanotti, è tra le guest star.

CON UN DECA

«Ne parlavamo tanto, tanti anni fa / Di quanto è paranoica questa città / Della sua gente delle sue manie / Due discoteche, centosei farmacie».

Ecco, le due discoteche ovvero il Matisse e il Docking. All'epoca degli 883, il Docking era in fase calante e ci si andava, prevalentemente, dopo la chiusura del Matisse. Quest'ultimo era il locale degli universitari, che si pregiava di avere DJ Porcellone alla console. Era un luogo all'avanguardia nella tutela dei diritti delle donne, ricordo infatti la mia futura moglie, tra gli applausi, inseguire e abbattere con un calcio nel sedere un tipo che aveva provato un approccio con palpata. Il Matisse, colpo di scena, prima aveva un altro nome, dai che lo avete già capito: era il Celebrità, dove si esibiva la cubista cantata da Max in La ragazza del Celebrità. E le centosei farmacie? Non mi pare che i pavesi fossero più ansiosi della media. Tutto sommato, Pavia era un posto abbastanza divertente e vicino a Milano. C'era un locale, che non mi pare venga mai citato dagli 883, Spaziomusica, dove si ascoltava della bella musica dal vivo, venivano a fare le prove le band di Vasco o di Guccini o di De André. Una volta, all'ingresso, mi capitò di sbattere contro un signore con: parrucca di capelli lunghi, baffi posticci, giubbotto di pelle senza maniche, torso nudo, pantaloni neri e stivali da cowboy. «Piacere - mi disse - Joe Sarnataro, bluesman, suono qui». Era un «irriconoscibile» Edoardo Bennato, che voleva tornare a far la musica che amava nei posti piccoli. Alessandro Gnocchi

Francesco Persili per Dagospia lunedì 25 settembre 2023.

Stessa storia/stesso posto/stesso bar. “Quando ho sentito l’attacco del brano “Gli Anni” ho capito che dovevo andar via dagli 883”. A “Non è Un paese per giovani”, il programma di Radio 2 condotto da Massimo Cervelli e Tommaso Labate, irrompe il mitologico Mauro Repetto, che quasi 30 anni fa lasciava Max Pezzali e gli 883 al culmine del successo: “Non c’era astio, non c’è stato nessuno screzio con Max. Volevo solo avere un’altra storia, un altro posto, un altro bar”. Quello che a Pavia resta per tutti “Flash” ha scritto un libro con Massimo Cotto per raccontare la sua fuga negli States.

Inseguiva una modella, il cinema, forse il sogno americano che negli anni Novanta era ancora un magnete: “Ho seguito il fiume in piena dei miei sogni, avevo voglia di fare delle cose a New York e a Los Angeles, ci ho provato”. Martin Scorsese non ha avuto mai il coraggio di fermarlo e così poi è tornato in Europa, a Parigi. “Ho ricominciato da zero”. Animatore a Disneyland Paris: “Lavoravo come cowboy a Frontierland, la parte del parco dedicata al Far West”. 

Tante leggende metropolitane. “Ci tengo a dire che non mi sono mai vestito da Pippo”. Leggende, appunto. “Il vicepresidente del parco di Eurodisney, che era italiano, mi ha riconosciuto e mi ha trasferito nel dipartimento “spettacolo” del più grande parco di divertimenti d’Europa. Ho avuto fortuna. E il futuro? “Ho sempre amato perdermi negli occhi di Max..”. Ma "il tempo passa/ e nessuno indietro lo riporterà/ neppure noi…”

Da deejay.it il 18 Settembre 2023

In tanti si chiedono da tempo che fine abbia fatto Mauro Repetto, dopo lo scioglimento degli 883 e l’addio a Max Pezzali. 

Ebbene oggi Mauro Repetto è stato ospite di Linus e Nicola Savino durante Deejay Chiama Italia. 

D’altronde, se sparisci quando sei all’apice del successo, la gente due domande se le fa. Così lui ha raccontato la sua verità, tutta la verità, in un libro autobiografico – scritto a quattro mani con Massimo Cotto – dal titolo emblematico: Non ho ucciso l’Uomo Ragno. 

L’ex 883 l’ha presentato a Radio DEEJAY, dove ha rilasciato una lunga intervista parlando di tutti i temi che lo riguardano da vicino. Per vedere l’intervista completa potete cliccare qui sotto: è divisa in due parti. 

Ho rotto le scatole a Linus chiamando il 02 3450740 a partire dagli anni ’80. Sono arrivato a Radio DEEJAY con già la nomina di stalker, con la cassetta di Non me la menare. Era il settembre del ’91.

Questo è l’inizio di Mauro Repetto. Più di recente ci sono stati anche gli anni di Parigi e della California, un tentativo di entrare nel mondo del cinema. “Dopo il successo con gli 883 per me era la cosa più logica”, racconta lui che è cresciuto col mito di Hollywood nel cuore e nella testa. 

È per questo, in sostanza, che il ragazzo che ha praticamente inventato Max Pezzali (conosciuto tra i banchi di scuola) ha lasciato il progetto di grande successo 883: per inseguire i suoi sogni, come ha anche raccontato in passato. Stavolta, però, rivela anche che dietro questa storia c’è anche un altro motivo ben preciso: una ragazza americana. 

Era il 1994. Alla settimana della moda vedo questa Brandy, una modella. Io ero molto in forma e mi dico: “Io ci provo. È la più bella del mondo, io vado”. Non volevo riuscirci per forza, ma volevo almeno gareggiare. Così annuncio a Max che vado a Miami e che forse non torno. E Max mi risponde con la sua solita calma: “Va beh, ok”. A Miami non la trovo ma conosco i suoi amici a New York, così è a New York che ho fatto Zucchero Filato Nero. 

Zucchero Filato Nero è il primo e unico album da solista di Repetto: fu un flop. Ma se Repetto potesse tornare indietro non farebbe mai le cose diversamente: Ho sempre cercato di guardare la linea del destino della mia mano: sono sempre stato incollato ai miei sogni, non pensavo a quello che sarebbe piaciuto fare agli altri, ma a me. Adesso sembra ridicolo, ma in quel momento al sogno americano ci credevo davvero. E volevo giocare lì il mio campionato. Perché non ha funzionato? Perché era difficilissimo: è come fare il salto in alto con l’asticella a 2 metri e 70, e io sono passato sotto di 2 metri. Scoraggiato? Mai: avevo sempre altri sogni da raggiungere. 

Queste storie, ovviamente, sono approfondite nel suo nuovo libro edito da Mondadori. 

Zucchero Filato Nero è andato male perché era stato progettato in inglese, spiega lui, ma il ritorno in Italia avviene repentinamente a causa di una lite. Ma Mauro non si abbatte, anzi, è addirittura felice: 

Sono contento sia andato male: era un disco rap, funky, soul di fibra newyorkese. E con i soldi del disco volevo produrci un film a Hollywood. 

Per il mercato discografico italiano, insomma, non aveva molto senso. Per il cantautore era il primo esperimento dopo gli 883, il cui primo singolo era stato proprio Non me la menare quattro anni prima al Festival di Castrocaro (1991), insieme anche al produttore Claudio Cecchetto. 

Il successo arriva immediatamente con Hanno ucciso l’Uomo Ragno, confermatissimo da Nord Sud Ovest Est e Remix ’94. Repetto vince quattro Telegatti e due World Music Awards, diventa famoso come cantautore e come ballerino. Poi prende, molla tutto e vola negli States per Brandy e Hollywood. 

Dopo il ritorno in Italia Repetto decide di volare ancora, stavolta in Francia, dove realizza un corto e trova lavora presso Disneyand.

Mia madre lavorava in un ufficio di collocamento e voleva che avessi un posto fisso, sereno, tranquillo, e che mi laureassi, cosa che ho fatto. Vado a Disneyland per questo colloquio senza raccontare le cose della musica, dissi solo che avevo una laurea in lettere. Preso. Il giorno dopo mi trovo vestito come un marinaio sul fiume Mississippi, un po’ cowboy e un po’ fantasma. 

A proposito di linee del destino: l’avventura da mascotte finì perché il vicedirettore del posto da ragazzo era stato in Erasmus nella sua Pavia e un giorno riconosce l’artista sotto la maschera. 

Nel frattempo con Max i rapporti sono sempre rimasti ottimi: “Sono sempre il Flash del ’91, gli dico io”. Nel 2013 Repetto è tornato sul palco con l’ex compagno di scuola come compositore d’eccezione, mentre nel 2022 compare a sorpresa live a Bibione, a San Siro e all’Arena Suzuki.

Mauro Repetto oggi vive a Parigi con moglie e figli

Per esserci, Repetto ha fatto avanti-indietro da Parigi, dove oggi vive e dove ha trovato la sua stabilità.

Vivo a Parigi nel quartiere della Bastiglia, mi piace di brutto: è un po’ come il downtown di New York di 30 anni fa, abbastanza movimentato e abbastanza giovane. Sono lì dal 7 ottobre 1997, quasi 26 anni. Ho messo su casa: ho una moglie e due figli. 

La moglie si chiama Josephine, è una designer francese con cui lui ha fondato la ditta di design Manjaca e dalla quale ha avuto due figli. Oggi Mauro Repetto è un marito e un papà felice che vive nella capitale francese. Au revoir, Flash.

Francesco Persili per Dagospia il 7 Settembre 2023

“Sarò l'ultimo ad aver suonato al Circo Massimo? Diranno che ho portato sfiga”. Gli anni Novanta si annidano nei dettagli, nelle battute, nelle parole. Sfiga. Non c’è nessuno meglio di Max Pezzali che sappia declinare, in parole e musica, la sindrome di Calimero o, come direbbe lui, di quelli che “prendono il palo interno”. 

Saranno stati “i due di picche” che ha collezionato (come tutti), saranno state le serate estive del Festivalbar in cui sbagliava l’abito e esibiva un discutibile giubbotto di pelle che lo faceva grondare di sudore, sarà stata la decisione di non continuare Scienze Politiche (“In diplomazia devi avere un cognome altisonante, Pezzali è da sfigato”) fatto sta che il cantante pavese è diventato il cantore per antonomasia della nostalgia per le cose che non abbiamo mai avuto: figaggine, macchine sportive, Naomi Campbell.

La femme fatale in minigonna, autoreggenti, sigaretta e unghie rosse di “Lasciati toccare” è rimasta una libidine irraggiungibile, una fantasia erotica che mostra plasticamente, e bombasticamente, lo iato tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. Si faticava molto nel corteggiamento ma alla fine spesso non c'era alcuna ricompensa. Il “grande gioco” della seduzione non trovava alcuna finalizzazione. 

“E’ la dura legge del gol, fai un grande gioco però/ se non hai difesa gli altri segnano/e poi vincono”.  

La via zemaniana ai fallimenti sentimentali. Calcio e amorazzi, fumetti e luci stroboscopiche (che facevano vedere la forfora sulle giacche) divertimento cazzone e disimpegno post-ideologico, tutto skakerato in musica.

Del resto, come ricorda Mauro Repetto, l’altra parte degli 883, nel libro “Max 90-La mia storia”, il colpo di cannone degli anni Novanta è la finale dei Mondiali italiani tra Argentina e Germania con Max Pezzali che cita Lothar Matthaeus, uno dei riferimenti più solidi di quel periodo insieme a Radio Deejay e Moana Pozzi: “Teniamo gli occhi sulla palla”, come dire “restiamo concentrati sulla musica, e vinceremo”. 

Peccato che lo stesso Repetto fosse il grande assente sul palco del Circo Massimo, nel sabba pop (che si potrà rivedere stasera su Canale 5 in prima serata) per celebrare i 30 anni di carriera di Max Pezzali. Una storia di rivincita, da sempre. Da “merdacce di serie C” alla rivalutazione sociologica del Grande Emiliano, Edmondo Berselli: "Gli 883 non possono essere catalogati come un fenomeno irrilevante". E Max, con le sue storie di bar e di baracca, “è il figlio di una provincia lombarda che si rivolge a una provincia italiana apparentemente eterna”. 

Il Bruce Springsteen italiano? Troppo. Manca la forte appartenenza politica. E la storia della tessera del Fronte della Gioventù? “Avevo 14 anni e un amico del bar ci chiese di tesserarci per votare a un congresso, qualche giorno prima della votazione”  

E l’inno di Alleanza Nazionale? Non fu composto da lui ma da un suo amico di Pavia, Claudio Apone, scrittore ed ex attivista (“Mi chiese una consulenza “tecnica” e gli diedi qualche dritta sulle modalità di registrazione più adatte alle sue necessità”). Del Max Pezzali più politico si ricorda, ma il “reato” è ormai prescritto, solo una partecipazione a una manifestazione al Circo Massimo del Pd veltroniano. 

Un cantante post-ideologico che ci ha accompagnato dal mondo predigitale a Internet, dalle sale giochi alle piazze social, con le sue avventure che non portano da nessuna parte, gli amorazzi sfigati, i collant, i deca e l'Arbre Magique. Così quando Pezzali canta “Il tempo passa per tutti lo sai/Nessuno indietro lo riporterà neppure noi”, tiriamo un sospiro di sollievo. Meglio non rovinare i ricordi con la nostalgia.

«Gli Anni» di Max Pezzali: com’è nato il brano simbolo del cantante degli 883. Redazione online su Il Corriere della Sera giovedì 7 settembre 2023.

Al bar Dante di Pavia, dove il cantautore andava da ragazzo. Le origini della canzone e la malinconia dell’adolescenza

Il periodo dei grandi successi del Real Madrid e di “Happy days”, dei jeans Roy Rogers e delle compagnie numerose di amici. «Gli Anni» di Max Pezzali è per sua stessa ammissione il brano più autobiografico del cantautore, una rievocazione malinconica dell’adolescenza. Un viaggio musicale indietro nel tempo, tra emozioni vissute e passate. La canzone, pubblicata nel 1995 e rifatta in una nuova versione nel 1996, è diventata un simbolo degli anni Novanta, continuando ad avere successo anche nel nuovo millennio (su Spotify conta più di 35 milioni di riproduzioni). 

Com’è nato il brano

«Ci sono dentro tanti ricordi veri, e ricordo anche i momenti in cui l’ho scritta», raccontava qualche mese fa al Corriere il cantante. Tutto nasce a Pavia, la città dove è nato Max Pezzali, al bar Dante. Spiega che stava ripensando a un periodo ormai passato della vita e prendendo degli appunti, nel bar che frequentava da sempre (“Stessa storia, stesso posto, stesso bar / stessa gente che vien dentro consuma e poi va”). Con la macchina parcheggiata lì davanti, oltre la vetrina trasparente, i fari dell’auto sembravano degli occhi. «Erano un po’ tristi e allora poi ho scritto “E vedo i fari delle auto che mi / guardano e sembrano chiedermi chi cerchiamo noi”». Un posto fisico è spesso anche un incubatore di memoria. Così, dal bar Dante di Pavia, chiuso ormai nel 2007, Max Pezzali dà forma ai propri ricordi e a quelli di un’intera generazione. 

«Gli Anni» sono per Max Pezzali istantanee di cose vissute. I “ruggenti anni Ottanta” del boom economico e del ritorno nel privato, delle fiction e delle mode d’oltreoceano (Happy Days con Ralph Malph e gli epici jeans Roy Rogers), del mito del calcio con l’imbattibile Real Madrid di Butragueno e compagni, di chilometri percorsi in motorino «sempre in due», di «immense compagnie» con cui condividere gioie e dolori. 

“Il tempo passa per tutti lo sai / Nessuno indietro lo riporterà neppure noi”, canta alla fine del brano. Ma se il tempo scorre veloce, «Gli Anni» degli 883 (il gruppo di Max Pezzali e Mauro Repetto) è un brano che non è ancora passato. Sesto e ultimo singolo dell’album “La donna il sogno & il grande incubo”, che sarà anche l’ultimo progetto della formazione, è stato anche disco di platino grazie alle più di 50 mila copie vendute.

Il testo completo

Stessa storia, stesso posto, stesso bar

Stessa gente che vien dentro consuma e poi va

Non lo so che faccio qui

Esco un pò

E vedo i fari delle auto che mi

Guardano e sembrano chiedermi chi cerchiamo noi

 

Gli anni d’oro del grande Real

Gli anni di Happy days e di Ralph Malph

Gli anni delle immense compagnie

Gli anni in motorino sempre in due

Gli anni di che belli erano i film

Gli anni dei Roy Rogers come jeans

Gli anni di qualsiasi cosa fai

Gli anni del tranquillo siam qui noi

 

Siamo qui noi Stessa storia, stesso posto, stesso bar

Una coppia che conosco ci avrà la mia età

Come va

Salutano

Così io

Vedo le fedi alle dita di due

Che porco giuda potrei essere io qualche anno fa

 

Gli anni d’oro del grande Real

Gli anni di Happy days e di Ralph Malph

Gli anni delle immense compagnie

Gli anni in motorino sempre in due

Gli anni di che belli erano i film

Gli anni dei Roy Rogers come jeans

Gli anni di qualsiasi cosa fai

Gli anni del tranquillo siam qui noi

Siamo qui noi

 

Siamo qui noi Stessa storia, stesso posto, stesso bar

Stan quasi chiudendo

Poi me ne andrò a casa mia

Solo lei Davanti a me

Cosa vuoi

Il tempo passa per tutti lo sai

Nessuno indietro lo riporterà neppure noi

 

Gli anni d’oro del grande Real

Gli anni di Happy days e di Ralph Malph

Gli anni delle immense compagnie

Gli anni in motorino sempre in due

Gli anni di che belli erano i film

Gli anni dei Roy Rogers come jeans

Gli anni di qualsiasi cosa fai

Gli anni del tranquillo siam qui noi

Siamo qui noi

Siamo qui noi


 

Max Pezzali: «Ho raccontato un'epoca in cui era tutto più semplice» Gabriele Antonucci, Luca Gardella il 27 Maggio 2023 su Panorama

Il cantautore pavese festeggerà 30 anni di carriera il prossimo 2 settembre con un grande evento al Circo Massimo di Roma, ribattezzato per l'occasione "Circo Max". Un'occasione per riflettere sulla lunga carriera e sul rapporto con la Capitale

Da Pavia al Circo Massimo, passando attraverso trent' anni di musica e di costume dell'Italia, di cui è sempre stato un attento e acuto osservatore. È stato questo, in estrema sintesi, l'avvincente percorso di Max Pezzali, che il prossimo 2 settembre celebrerà al Circo Massimo di Roma trent'anni di carriera, costellati da un'incredibile quantità di successi, in un concertoevento ricco di ospiti e di amici del mondo della musica. In Italia si contano sulle dita di una mano gli artisti di cui più o meno chiunque, a prescindere se fan o meno, saprebbe cantare a memoria una ventina di canzoni. Uno di questi è sicuramente Max Pezzali, co-fondatore degli 883 e artista solista dal 2004, che ha segnato profondamente gli anni Novanta con le hit Hanno ucciso l’uomo ragno, Sei un mito, Nord sud ovest est e la romantica Come mai, che è stata la colonna sonora di innumerevoli storie d’amore e di baci romantici. I fan di allora sono cresciuti insieme a lui, lavorano e hanno figli, così come Max, che nel corso degli anni ha trovato una sua collocazione più matura e introspettiva come artista. Il cantautore pavese non ha mai perso, però, una delle sue qualità precipue: quella di descrivere con immediatezza e onestà la realtà che lo circonda, i sentimenti comuni a tutti noi, le piccole e grandi gioie quotidiane, con un sapiente mix di ironia e malinconia.

Le sue canzoni, soprattutto in un periodo come quello attuale soffocato da una cappa di pessimismo e dalle continue emergenze, sono una salutare boccata di ottimismo e di positività, una sorta di ancora per non affogare nel nichilismo senza costrutto. «Ho raccontato un tempo in cui era tutto più semplice, un periodo caratterizzato dal passaggio dall'analogico al digitale», ha raccontato Pezzali nell'aula consiliare del Campidoglio, dove è arrivato da Pavia a bordo della sua inseparabile Harley-Davidson. «Non voglio, però, passare per "boomer", gli artisti di oggi sono pazzeschi, scrivono da Dio: noi, in confronto, sembravamo studenti delle medie». Artista dotato di grande umanità e umiltà, Max ha spiegato qual è, secondo lui, il segreto della straordinaria longevità delle sue canzoni: «In un'epoca in cui c'è una competizione continua e la ricerca dell'eccellenza in ogni campo, io voglio rappresentare un modello facile. Io e Mauro eravamo due tamarri di provincia senza le caratteristiche da campioni, ma è proprio la mia "medietà" che mi ha permesso di arrivare a tante persone. Non sono un fenomeno e vengo amato anche per quello. Ancora oggi mi stupisce vedere ragazzini di 15 anni che riempiono i miei concerti e che cantano le mie canzoni, brani che hanno avuto successo ben prima che loro nascessero». L'ultimo anno è stato davvero straordinario per Pezzali: oltre 30 date sold-out nei palazzetti, che hanno seguito il doppio appuntamento da 120mila persone allo stadio San Siro dello scorso luglio. Le celebrazioni dei 30 anni di carriera si chiuderanno in pompa magna con Circo Max, un grande concerto-evento al Circo Massimo di Roma il 2 settembre, unico appuntamento live dell'estate. «Il primo sogno straordinario che ho realizzato è stato il doppio concerto soldout a San Siro: all'inizio non pensavo che fosse possibile, mentre ci ha creduto più di tutti Clemente (Zard,managing director di Vivo Concerti, che organizza il tour di Pezzali n.d.r.), che ha avuto sempre grande fiducia in me. Ora il Circo Massimo è un altro sogno alla pari: uno dei luoghi più importanti del mondo, sia dal punto di vista storico che simbolico, oltre che musicale. Sarà una festa collettiva con la partecipazione di tanti artisti amici, tra cui Articolo 31, Paola e Chiara, Lazza, Colapesce e Dimartino, Sangiovanni ed il dj set di Deejay Time. Dopo che fai il Circo Massimo, puoi anche smettere anche il giorno dopo. Non avrei mai pensato di arrivare un giorno qui, a 55 anni». Riguardo alla possibilità di una partecipazione di Mauro Repetto (l'altra metà degli 883) all'evento del Circo Massimo, Pezzali non si sbilancia: «Ancora non si sa, c’è la possibilità che lui abbia dei progetti in arrivo, ma non voglio spoilerare i suoi». Nella lunga chiacchierata con i giornalisti, Max ha escluso una sua partecipazione al prossimo Festival di Sanremo («No, non è per me. È roba da centometristi che danno tutti in tre minuti, io sono più per la lunga distanza») e, al momento, anche la pubblicazione di un nuovo album di inediti: «Durante il periodo del Covid mi ero disamorato della scrittura, mentre negli ultimi mesi, andando in tour, mi è tornata la voglia di scrivere canzoni e di  sperimentare un po’. Forse uscirà qualcosa prima del Circo Massimo, ma, per adesso, l’attività discografica non è una priorità. L’esigenza di nuova musica deve essere sempre motivata. Io sono cresciuto in un’epoca in cui l’album era centrale, ma oggi mi chiedo se esista un senso, nel 2023, per un mio nuovo album. Sono già molto soddisfatto delle canzoni che ho composto negli ultimi 30 anni». Il viaggio che Max ha intrapreso in moto da Pavia a Roma per presentare Circo Max alla stampa ha un forte significato simbolico: «Ci sono destinazioni che ti conquisti in moto chilometro dopo chilometro: dalla Pianura Padana arrivi a Firenze e sai che ti sei lasciato alle spalle l’Appennino, ma lo scavallamento è ad Arezzo, quando ti dici che sei quasi arrivato, ma è solo una suggestione, anche perché, quando arrivi a Roma Nord, mancano ancora 30 chilometri per il centro». La Città Eterna ha un significato speciale per il cantautore pavese: «Roma l'ho vissuta sulle due ruote, qui è più facile il contatto umano e il gusto per la battuta è una delle colonne portanti della vita sociale. Quando vado con la moto al Gianicolo o allo Zodiaco, nei momenti di scoramento, guardando Roma da sopra è come se mi dicesse "Non sei solo" e "Le cose tendono ad aggiustarsi". A Milano ti senti sulle spalle tutto il peso della responsabilità e ti senti in colpa se magari non rispondi a un messaggio Whatsapp entro cinque minuti. Qui sai che la devi prendere con filosofia e che ci sono aspetti della vita non risolvibili, che devi saper accettare».

Max Pezzali: «Mia moglie mi ha cambiato le prospettive. La mia canzone più autobiografica? Nata in un bar di Pavia». Luca Mastrantonio il 26 Marzo 2023 su Il Corriere della Sera.

Il cantante e il dj Rosario Pellecchia parlano di passioni, di famiglie e del sogno americano alle cui radici c’è Robert Johnson, il bluesman che strinse un patto con il diavolo per imparare a suonare. E loro per cosa venderebbero l’anima? «Per abolire il reggaeton»

Siamo nel sottotetto della Stazione centrale di Milano e la voce che annuncia i treni è attutita dal silenzio prodotto dai piani pieni di libri e lettori sotto di noi. Negli studi tv di Maremosso, rivista delle librerie Feltrinelli, incontriamo Massimo Pezzali detto Max e il dj Rosario Pellecchia detto Ross, che ha da poco pubblicato Ora che ho incontrato te (Feltrinelli). È la storia di Lorenzo, broker in crisi, che sta per farla finita e viene salvato da Zoe, anima blues, che gli propone il colpo del secolo: rubare la chitarra di Robert Johnson, colui che vendendo l’anima al diavolo imparò a suonare e scrivere pezzi blues che hanno fatto la storia della musica. Come Love in Vain, dove i fanali del treno che si porta via la donna amata sono gli occhi del bluesman. Pellecchia e Pezzali, seduti sul divano con le stesse snikers per caso, hanno un sorriso spontaneo, l’aria da ragazzi adulti. Pezzali ha una felpa con una scena di wrestling. Partiamo da lì.

Cosa le piace del wrestling?

Pezzali: «Mi piace che noi italiani fatichiamo a capirlo, il wrestling, perché ci sorprendiamo sempre quando scopriamo che è tutto finto. E gli americani dicono “ehi ragazzi, è dal 2002 che abbiamo dichiarato che è una coreografia!”, ma noi non capiamo perché cerchiamo sempre qualcosa di autobiografico in un libro, in una canzone o persino in uno spettacolo. Noi, se Bruce Springsteen parla di “blue collars” in una canzone, gli chiediamo qual è la sua esperienza in fabbrica... perché fatichiamo ad accettare e capire la differenza tra realtà e finzione, tra esperienza vissuta e musica... tra letteratura e realtà».

Pellecchia, se fosse una hit di Pezzali, il suo romanzo che canzone sarebbe?

Pellecchia: «Direi Una canzone d’amor e, perché fonde l’amore per la musica e l’amore per una persona che ti salva». Pezzali, io pensavo a Nord Sud Ovest Est . “Starò cercando lei o forse me...” »

Pezzali: «Beh sì. Il viaggio è una ricerca di sé stessi. Lorenzo e Zoe si trovano, certo, ma per poi stare assieme ognuno dei due deve ritrovare sé stesso: non puoi costruire una coppia, un 1 + 1, se non hai rimesso in piedi l’uno. Del libro mi ha folgorato la parte di Nashville, perché ci sono stato anche io, quando si racconta la storia di Johnny and June, cioè Johnny Cash e June Carter, la loro storia d’amore e di musica: senza di loro noi non esisteremmo, noi che viviamo di musica, esistiamo perché c’è stato Robert Johnson, Elvis... Ovviamente è un’America immaginaria, come in Nord sud ovest est, dove io ho messo la mia idea di America, i miei sogni, tra i fumetti di Tex Willer e i western di Leone, la prateria, il villaggio, lo sciamano. Sono le ossessioni della mia infanzia... vissute da Pavia!».

Pellecchia: «La differenza tra il vecchio West, com’era nella realtà, e il Far West visto al cinema si chiama Ennio Morricone, perché associamo il western alle sue musiche fantastiche, che però non appartenevano certo all’epoca del West, e poi sono arrivate dall’Italia».

Pezzali le faccio una domanda molto italiana. Qual è la sua canzone più autobiografica?

Pezzali: «Beh, direi Gli anni. Premetto che una canzone è una cosa montata, devi far accadere tutto in tre minuti, altrimenti non te la passano in radio, se è troppo lunga. Come nei reality, c’è una parte scritta dagli autori, altrimenti ti annoi. Comunque negli Anni ci sono dentro tanti ricordi veri, e ricordo anche i momenti in cui l’ho scritta».

Ad esempio?

Pezzali: «Ricordo che ero nel bar che frequentavo a Pavia, il bar Dante, c’era una rotonda e ho parcheggiato la macchina davanti. I bar di provincia servono a tante cose, e una di queste è parcheggiare l’auto o la moto, perché puoi controllarla. Allora, io entro e mi siedo al bancone, guardo oltre la vetrina, il marciapiede, l’ auto. Ricordo benissimo che i fari dell’auto mi sembravano degli occhi, ed erano un po’ tristi e allora poi ho scritto “E vedo i fari delle auto che mi / guardano e sembrano chiedermi chi cerchiamo noi”».

Continuo con l’autobiografia. C’è qualcuno che nella vita vi ha salvato?

Pellecchia: «Mia moglie. Io ero uno scapolone impenitente, poi con lei ho intravisto la possibilità di avere una relazione duratura che mi rendesse felice, e di diventare papà. Zoe assomiglia anche fisicamente a mia moglie, anche se mia moglie fa la consulente ed è stonata. Diciamo, metaforicamente, che Zoe è anche la musica, che mi ha salvato, mi ha fatto realizzare un sogno».

Pezzali: «Anche io direi mia moglie, mi ha cambiato un po’ le prospettive, ma la persona che ora è on top è mio figlio. Non avevo chiaro cosa volesse dire la paternità. Sì, all’inizio mi stava simpatico mio figlio, con il testone, sorrideva, però avevo messo in conto che potesse anche starmi un po’ sulle scatole, non do per scontato che mio figlio debba essermi simpatico. Invece ho scoperto che abbiamo molte cose in comune, aderenze, ora che ha 14 anni siamo quasi coetanei, perché lui cresce e io regredisco. Facciamo le stesse battute, abbiamo un linguaggio tutto nostro».

Ad esempio?

Pezzali: «Lui l’altro giorno ha scoperto la voce di Verdone in Un sacco bello e ripete “E stateve zitti!” o “Soni, entri, fai finta d’esse a portiera”. Parla tutto il giorno così e noi ridiamo, capiamo solo noi».

Sua moglie non ne potrà più...

Pezzali: «Sì, un giorno succederà qualcosa di brutto e i vicini diranno: “Sembrava una famiglia normale”. Scherzo! Ma è bello quando tuo figlio ti sta simpatico».

Ci sono state altre persone con cui ha avuto questa sintonia, complicità?

Pezzali: «Beh, Mauro Repetto, compagno di avventura con gli 883. L’anno scorso, dopo anni, ci siamo ritrovati per suonare a San Siro e durante le prove sono scattate battute che capivamo solo noi».

Citazioni? Parole in codice?

Pezzali: «La frase chiave è “dignità zero”. Cioè ci sono momenti della vita in cui non devi andare troppo per il sottile, non devi porti il problema se è opportuno fare una cosa o no. Dobbiamo difendere la nostra dignità? No. Zero».

Com’è nata, nel passato?

Pezzali: «Ricordo che una volta eravamo in discoteca, per tampinare due tipe. Mauro aveva un giubbotto nuovo, tipo chiodo però scamosciato e, credo, di pessima qualità. Lui era stanco, si addormentò sui divanetti mentre aspettavamo il momento giusto. Lo sveglio: “Mauro, andiamo” e lui si alza e vedo che gli è rimasta sul volto la tintura del giubbotto su cui aveva dormito; non ho fatto in tempo a dirglielo che ci siamo ritrovati davanti alle tipe e lui aveva la faccia dipinta come uno dei Kiss! Era una cosa che poteva ucciderti di vergogna, invece ne facemmo un cavallo di battaglia: “Dignità zero”».

Tornando al romanzo di Pellecchia. Robert Johnson vendette l’anima al diavolo per imparare a suonare. Voi per cosa vendereste l’anima al diavolo?

Pellecchia: «Io l’avrei venduta per fare radio, e ci sono riuscito. Ora la venderei per una giusta causa altruista»

Pezzali: «Io la venderei a mani basse, senza tirare sul prezzo, per poter scrivere come Lennon o McCartney. O Gallagher. Non il rapper, ma Noel, degli Oasis».

Ditemi qualcosa di più diabolico. Un desiderio cattivo da esaudire...

Pezzali: «Ok. Se io fossi il padrone del mondo abolirei il reggaeton».

Pellecchia: «Ci sto. Ma diciamola meglio: tutti i generi musicali hanno pari dignità...».

Pezzali: «...tutti! Tranne il reggaeton».

L'addio di Repetto agli 883 per inseguire un sogno d'amore. Mauro Repetto, all'apice del successo degli 883, molla tutto e vola a New York per conquistare una modella di cui si è innamorato su una rivista. Tommaso Giacomelli il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Un sogno d'amore distrugge gli 883

 Il desiderio in frantumi

 La seconda vita di Repetto

Dopo i chiassosi anni Ottanta, la musica italiana riscopre la canzonetta e il volto fresco di questo genere è quello di un gruppo formato da due ragazzi di belle speranze, che abitano a Pavia: gli 883. Max Pezzali e Mauro Repetto si sono conosciuti tra i banchi di scuola del liceo scientifico Niccolò Copernico, durante il terzo anno. Max è più grande di un anno, è ripetente, mentre Mauro è colui che fa gli onori di casa, offrendo al nuovo arrivato un caloroso benvenuto. Tra i due si instaura una bella amicizia, fondata su un'intesa e una complicità del tutto naturale. La grande passione che li accomuna è quella per la musica e il canto, oltre che per la compisizione di testi per canzoni. Insieme fondano un gruppo "I pop" che si diletta nel fraseggio rap, la nuova corrente del periodo, con altalenanti risultati anche se assaporano il brivido del palcoscenico grazie alla comparsata nel programma tv "1,2,3 Jovanotti", condotta dal funambolico ed emergente Lorenzo Cherubini.

Quella sgangherata coppia colpisce l'attenzione di Claudio Cecchetto, vero demiurgo dello spettacolo italiano, che scommette sulla loro verve e freschezza. Il passaggio al pop puro diventa del tutto naturale ed è così che nascono gli 883, prendendo in prestito un numero che rappresenta una serie di moto Harley-Davidson, grande amore del Pezzali. Nel 1992 e 1993, l'Italia viene travolta alla radio dalla semplicità del linguaggio e dall'armonia delle sinfonie della nuova band leggera, che affronta tematiche adolescenziali con uno slang contemporaneo. Questa ricetta piace e i primi due album "Hanno ucciso l'uomo ragno" e "Nord Sud Ovest Est" traghettano gli 883 alla ribalta nazionale, nell'olimpo della canzone italiana. Tutti li vogliono e tutti li amano. Parlano ai ragazzi entrando nel loro cuore, raccontando vicende verosimili e convincenti per la gioventù di quel periodo. Sul più bello, però, il duo si scioglie, in un modo del tutto improvviso. Sembra un vero colpo di testa quello del "biondino" degli 883.

Un sogno d'amore distrugge gli 883

Repetto per tutti è quello che balla accanto a Max Pezzali, durante i concerti e nei videoclip. Lui, infatti, non canta ma è un abile paroliere che si diletta in scoordinate e folli danze. Pezzali compone musica e testi, ma spesso questi non lo convincono. Repetto, allora, entra in soccorso ed esagera, rincardano la dose. Questo modus operandi fa arrivare gli 883 in cima a tutte le classifiche d'Italia. A un certo punto, però, la macchina si inceppa. Entrambi lavorano al terzo album, in uscita nel 1994, nel quale sono contenuti tutti i successi della band in chiave dance. Sembra l'anticamera per un altro trionfo, per un'altra ondata di gloria, ma Repetto decide di uccidere la gallina dalle uova d'oro, altro che uomo ragno. Lui adora lavorare sui testi delle canzoni commerciali nella cantina del suo amico del cuore, ma la ribalta pubblica lo turba, senza contare che per tutti è ormai il "biondino che balla". Dentro di sé, poi, coltiva un sogno romantico: volare negli States per conoscere il suo sogno d'amore, la modella Brandi Quinones. Mauro sfogliando una rivista glamour la scova tra le pagine e ne rimane folgorato. Un'infatuazione così intensa che decide di prendere un aereo di sola andata per gli Stati Uniti, con tanto di addio agli 883. La coppia si divide. Repetto, tuttavia, non fa tesoro delle sue canzoni: "Molliamo tutto e ce ne andiamo a New York, ma poi ti guardi in faccia e dici dov'è, che vuoi che andiamo con stè facce io e te", così intona il brano "Con un deca". Il biondo danzante plana esattamente nella Grande Mela, a caccia del suo amore da copertina. Le cose, però, non vanno bene.

Il desiderio in frantumi

Pezzali e Cecchetto provano a impedire la fuga di Repetto, ma senza riuscirci. In America inizia la sua nuova pagina, anche se il primo obiettivo è quello di conoscere la donna del suo desiderio. Grazie a un aggancio, riesce a intrufolarsi a una festa in cui la bella Brandi è presente. L'ex 883 la scorge tra la folla e le si avvicina, inizia il suo corteggiamento, ma la modella sembra indifferente alle avances dello spasimante. Il primo tentativo, dunque, non va a buon fine. Il piano B è quello di gettarsi nel cinema, nella veste di produttore. D'altronde, al pari della musica, la settima arte è un altro dei capisaldi di Repetto. Per sfondare in questo campo si mette in affari con un sedicente avvocato, che dovrebbe aprirgli le porte della cinematografia. La sua idea è quella di strutturare una pellicola emozionante e magari scritturare nel cast proprio Brandi. Il primo passo a cui è sottoposto l'italiano è il pagamento di una somma di 20.000 dollari, che lui incautamente versa a questo avvocato. Il risultato? Capitale sparito, sogno in frantumi e ritorno a casa.

La seconda vita di Repetto

Repetto una volta tornato a Pavia si laurea in Lettere, poi, emigra a Parigi. Lavora a Eurodisney, danzando dentro a un costume da cowboy, fino a quando non viene notato da uno dei boss del parco tematico, che lo riconosce avendo fatto un Erasmus a Pavia. Attribuendogli un grande talento, sprecato nel fare l'animatore, lo promuove a produttore di eventi speciali a Disneyland. La sua vita si ferma in riva alla Senna, dove trova moglie e completa la sua famiglia con due figli. Saltuariamente riappare in coppia con Max Pezzali, come in occasione del concerto di San Siro nell'estate del 2022, durante il quale si sono festeggiati i trent'anni degli 883. Scavando tra i grandi cestoni degli Autogrill, si potrebbe incappare in qualcosa di mistico, per i più dimenticato, ovvero sia un album dal titolo "ZuccheroFilatoNero", inciso nel 1995 dal solo Repetto. In quello scrigno passato in sordina esiste una traccia dal nome "Brandi's smile", in cui si raccontano le vicende travagliate e sconclusionate di quel tragico sogno d'amore, che ha messo fine alla magica epopea degli 883 prima maniera.

Barbara Costa per Dagospia il 2 aprile 2023.

Vite al limite!? Porno, al limite! Se pesi più di un quintale, te ne devi vergognare? E ci sono cose che non puoi fare? No, no, e poi no, è la risoluta risposta di questa donna! Si chiama Megan Daw, e da 8 mesi è una star del porno tra le più in ascesa. Lei pesa sui 130 chili (ma ballano) e ne è fiera, è strafelice così, e non ditele di mettersi a dieta!!! Megan ha passato pressoché tutta la sua vita – esattamente dalla terza media in poi – a dieta, e le ha provate tutte per dimagrire e allineare le sue forme ai canoni di bellezza i più uniformi.

 I quali, da circa un secolo, associano il fascino e soprattutto femminile con la magrezza. Senza alternative. Esser magri è tuttora pilastro di accettazione e fortuna femminile, non esserlo ma peggio pesare chili e chili in più, è per le regole sociali il difetto tra i più colpevoli. Contro una tale imposizione si batte Megan Daw, 37 anni, e che, da quasi 10, si mostra sui social non solo per come è, ma indossando micro-pant, top, di volta in volta uno tra i suoi 50 bikini. 10 anni fa Megan Daw ha abbandonato l’intervento di bypass gastrico (e solamente 15 giorni mancavano all’operazione) e ogni altro tentativo di dieta per stare così, farsi vedere così, essere lieta così. E il porno?

Quello professionale è il passo ulteriore fatto da Megan dopo le prove in porn home made, onorandosi in chiave sessuale. Il suo successo è impressionante, ed eccovi a prova alcuni commenti posti sotto le sue clip di sesso scatenato, con lei che cavalca sopra: “Wooooowww!!!”, “Favolosa”, “Incredibilmente calda!”, “Come mi piacerebbe essere al posto di quel dildo…”, “tutto il mio sperma su tutto il corpo di Megan…!”.

 Se il porno mai ha chiuso le porte alle donne grosse, e però fino a pochi anni fa racchiudendole a nicchia in categorie feticistiche, con l’esplosione dei social e dei sex social pay, le donne BBW (Big Beautiful Women) son sullo stesso piano delle skinny. Ciò vuole dir che, nel porno, hanno le stesse possibilità di riuscita, le stesse strade di partenza, delle altre. Megan Daw si propone come milf. Sia lesbo che etero. E cosa vogliono i fan che pagano per vederla?

Le performance le più richieste sono quelle in cui Megan mette all’opera i suoi seni, di taglia esuberante, in spagnole in cui il pene (che sia di carne o sia giocattolo) scompare, inghiottito, per riemergere gonfio e sano e vivace e esplodere in orgasmo. Ma, se c’è una parte del corpo di Megan che la vince sulle sue tettone, sono le sue chiappone. Non c’è scampo: quando Megan le appone in primo piano, avvolgendo l’inquadratura in ogni lato, e le apre, e vi invita a sognarle, di riempirle, di metterci il pene dentro, più volte… non c’è spettatore che non scoppi di "entusiasmo".

La sicurezza che Megan Daw ripone nel suo corpo è frutto di un passato pesante. Fin da piccola è cresciuta con lo stigma sociale di non avere un corpo giusto. E le prese in giro, a scuola, al pari di quelle che riceve oggi, in rete, dove gli improperi i più gentili sono “mucca” e “balena”, l’hanno a lungo rinchiusa in un bozzolo di delusioni e paura. Ne è uscita a 28 anni, quando ha trovato la forza prima di mettersi in bikini in spiaggia, e mai l’aveva fatto prima, poi di lasciare il lavoro in banca “noiosissimo” ma di più di mollare il fidanzato e una storia d’amore a lei insoddisfacente.

Megan Daw non le manda a dire: le persone grasse sono indotte a crescere con la convinzione “di doversi accontentare, nella vita, sia per quanto riguarda i vestiti, sia per aspetti basilari quali la sfera sentimentale. Una persona dal corpo non conforme non ha pari modelli di riferimento, e cresce con l’errata convinzione che non vi siano, per lei, opportunità pari agli altri”.

 La conquista di una indipendenza è sì economica, ma sta nelle scelte che fai. Col suo corpo social, ora pure porno, Megan Daw scavalca la body positive, che, da battaglia social, pecca di velleità e conformismo, pur partendo da motivazioni nobilissime. A chi le rimprovera di promuovere l’obesità e le profetizza che il suo peso la ucciderà, Megan risponde che la sua salute è una questione tra lei e il suo medico, e basta: “Se qualcuno non sta pagando le tue bollette, allora non ha voce in capitolo su ciò che fai della tua vita. Non ti piaccio? Non guardarmi!”. Ma la guardano. Altroché. E il porno non la molla, e Megan Daw non molla il porno. È richiestissima. Prenotatissima per girare. Quanti suoi fan la cercano, spasimano per lei, e non lo ammettono, tranne che alla loro pay-card…?

Megan Gale: «Nuda in Vacanze di Natale? Fui ingannata, rimasi male. Avevo una folla di fan che mi seguiva ovunque». Elvira Serra su Il Corriere della sera il 7 Maggio 2023

La modella, per anni testimonial di una compagnia telefonica: «Non ho più lavorato tanto come ai tempi d’oro». Il Festival di Sanremo: «Mi sono sentita aiutata e protetta da Raffaella Carrà»

I suoi spot erano degni di una Bond Girl: è stata fermata alla frontiera in America Latina, si è arrampicata su un grattacielo a Seattle, ha sfidato Alain Delon al Casinò di Venezia. Quando è arrivata in Italia era il 1999 e non aveva ancora 24 anni. Oggi ne ha 47, vive a Melbourne con il marito Shaun Hampson, ex calciatore, e i loro due figli River e Rosie, 9 e 5 anni.

Megan Gale, com’è la sua vita adesso?

«Normale. La maggior parte del tempo la dedico alla mia famiglia. Lavoro per alcuni brand e ho avviato un’attività di affitti per vacanze, si chiama Dollywood Daylesford».

Cosa che le viene in mente se le dico Italia?

«Ho così tanti ricordi! Sono stati 7 anni intensissimi e mi spiace non averli documentati con foto e video, come avrei fatto oggi grazie ai social».

La prima immagine?

«Una passeggiata (lo dice in italiano, ndr) in Galleria del Duomo a Milano, stravolta dal jetlag. Era una domenica pomeriggio di maggio e mangiai un gelato. Credo sia stata la prima e ultima volta che ho potuto passeggiare tranquilla e indisturbata in centro».

Com’era vivere con le guardie del corpo?

«Beh, non le avevo proprio 24 ore al giorno... All’inizio è stato difficile, perché ero una ragazza di 23 anni molto indipendente. Ma in certi momenti erano necessarie».

Cose folli?

«Era difficile andare in giro tranquilla: c’era sempre qualcuno che mi riconosceva e gridava il mio nome e una piccola folla mi si radunava intorno, 20-30 persone che volevano un autografo, una foto o semplicemente erano eccitati dall’avermi incontrata. Ricordo la coda ai Telegatti, c’è chi cercava di salire sulla mia auto. Per contro, i bambini erano super affettuosi, mi regalavano disegni, mi consideravano una di famiglia».

Grazie a Omnitel/Vodafone, di cui era testimonial, ha girato il mondo.

«Argentina, Brasile, Francia, Spagna, Tailandia, Sudafrica, Stati Uniti, Canada. Pure l’Italia l’ho girata parecchio».

Il suo spot preferito?

«A parte il primo, da cui è partito tutto, forse quello girato a Seattle. Era pieno inverno, faceva freddissimo, c’erano 2-5° di giorno, vento e pioggia. Indossavo un top sportivo, una giacca leggera e calzoncini corti. Mi sono dovuta arrampicare su un fianco dello Space Needle e camminare sul tetto, pendente: avevo un cordino al piede nel caso cadessi. La controfigura ha fatto cose incredibili».

Non aveva paura?

«Gli spot erano abbastanza pericolosi, ma per le scene più rischiose c’era la controfigura. Oggi non avrei lo stesso coraggio, ho due figli che dipendono da me. Ma ai tempi mi divertivo. Ho camminato tra i serpenti in Tailandia, in Sardegna mi sono spinta sull’orlo di una scogliera, sono saltata per aria a Cinecittà...».

Lavorava tantissimo...

«Non ho mai più lavorato così tanto, ma sapevo che non sarebbe durato per sempre».

Pro e contro della fama.

«Il pro è che ti si aprono un sacco di opportunità. Il contro è che perdi la privacy. Per fortuna ho avuto una famiglia, amici e fidanzato comprensivi. Però non potevamo andare a cena o a passeggiare senza che un fotografo ci seguisse».

Megan Gale con Raffaella Carrà al Festival di Sanremo

La consacrazione arrivò con il Festival di Sanremo.

«Sapevo che era un grande onore e questo mi rendeva molto nervosa, perché il mio italiano era pessimo in quel periodo e io dovevo parlare parecchio, non solo sul palco, ma anche con i giornalisti. Devo confessare che mi sono sentita davvero poco intelligente in quei giorni».

Un ricordo di Piero Chiambretti e di Raffaella Carrà?

«Con Piero ho interagito poco, perché stava sempre da un’altra parte: comunque le volte che ci siamo incrociati è stato molto gentile. Quanto a Raffaella, era una star assoluta, una leggenda. La sua bravura mi metteva in soggezione, ma parlava benissimo l’inglese e a ogni riunione si assicurava che avessi capito, fossi a mio agio, andasse tutto bene. Mi ha protetta».

Megan Gale con Michael Schumacher campione del mondo di F1, nel 2002

Ha incontrato grandi personaggi. Quale l’ha colpita?

«Non posso dimenticare quando ho incrociato Ricky Martin nel backstage di Sanremo: fu gentile, dolce, adorabile. Poi, per il fatto che Vodafone sponsorizzava la Ferrari, ho avuto modo di lavorare con Michael Schumacher: un gentiluomo assoluto, professionale, educato e anche divertente. Un paio di volte, invece, ho incontrato Michelle Hunziker, che ricordo per la simpatia e l’energia».

Perché viveva in Svizzera?

«All’inizio ho vissuto a Roma e in Toscana. Ma non riuscivo mai a staccare e a godermi un po’ di privacy, cosa che era possibile in Svizzera, vicinissima a Milano».

Si ricorda cosa disse di lei Nino D’Angelo nel film «Vacanze di Natale»?

«“Comm’ bella Megan Ghella ”. Divenne subito lo slogan del film».

La scena della doccia, però, non le andò giù...

«Sì, mi indispose abbastanza. Avevo detto che non volevo girare scene di nudo e mi assicurarono che non sarebbe successo, e che anzi per sentirmi a mio agio potevo tenere il costume, sotto la doccia, perché tanto mi avrebbero ripreso dalle spalle in su. Invece dopo di me rifecero la scena con una controfigura completamente nuda. Mi sentii ingannata, anche perché lo scoprii alla première. Era la mia prima esperienza ed ero emozionatissima, però stranamente mi chiesero di uscire fuori dalla sala prima di quella scena perché mi aspettavano a cena. Quando poi vidi il film completo capii tutto».

Ha ceduto alla chirurgia estetica?

«No, non credo di averne bisogno. Shaun non è un grande fan di queste pratiche e ai miei figli piaccio naturale: non amano che mi trucchi».

Ha un posto del cuore in Italia?

«Impossibile scegliere. Venezia resta una delle città più uniche al mondo. Mi mancano le strade e le fontane di Roma e le magiche isole Sardegna, Capri, Ischia, le Eolie. Ho un debole per le coste siciliane e pugliesi, con l’acqua così azzurra e trasparente».

E del cibo italiano cosa ha amato di più?

«Pasta alle vongole, risotto allo zafferano, carciofi alla romana e mozzarella di bufala. Poi gelato, tiramisù e cannoli. E la colazione tipica: brioche sempre con un caffè forte! Ho imparato a fare il limoncello. E con mio marito e i bambini prepariamo gli gnocchi».

Dagotraduzione da nytimes.com il 19 aprile 2023.

Mel Brooks è un “ragazzo” sofisticato. Ha collezionato fantastici vini francesi. È stato sposato per 40 anni con l’elegante Anne Bancroft. È stato il compagno di pranzo preferito di Cary Grant, l'uomo più garbato che sia mai esistito. 

Ma nel nuovo spettacolo di Hulu "Storia del mondo, parte II", puoi ancora trovare tutti gli stili comici tipici di Mel Brooks: battute sul pene, battute sul vomito e battute sulle scoregge. «Mi piacciono le battute sulle scoregge -  ha detto al “New York Times” dalla sua casa a Santa Monica, in California - Aggiunge un po' di “je ne sais quoi” alla commedia. Un tocco di raffinatezza per le persone più intelligenti aiuta a portare avanti lo spettacolo».

Dopotutto, la scena del falò nella sua commedia del 1974, “Blazing Saddles”, in cui i mandriani si siedono mangiando fagioli e scorreggiando, ha elevato la flatulenza nella storia del cinema. 

La leggenda della commedia, 96 anni, ha preferito un’intervista su Zoom perché diffidente nei confronti del Covid. Gli estranei adorano abbracciarlo e dire: «Mel, ti amo! - ha detto – Quindi sono un bersaglio».

L'uomo dietro film stravaganti ed esilaranti come "The Producers", "Frankenstein Junior", "Spaceballs", "High Anxiety", "Robin Hood: Men in Tights" e "History of the World, Part I", insieme alla commedia di spionaggio televisiva "Get Smart", non vive più in un'epoca in cui non può avere "assolutamente nessuna restrizione su nessuno e tutti gli argomenti". E ha perso i due amori della sua vita, Bancroft e Carl Reiner. Ma Mel Brooks è ancora una palla di fuoco. 

Mel Brooks prende ancora in giro Hitler. Il nuovo spettacolo ha uno sketch intitolato "Hitler on Ice", con tre commentatori televisivi che infieriscono su un Führer che pattina sul ghiaccio e che cade: «L'ho già detto e lo ripeto: se metti campi di concentramento nei paesi delle persone, è meglio che tu sia impeccabile sul ghiaccio».

Usare la commedia come arma

I genitori di Brooks erano immigrati, sua madre dall'Ucraina e suo padre dalla Germania. Suo padre morì di tubercolosi quando Brooks aveva 2 anni; non c'erano soldi. Quando il ragazzino, nato con il nome Melvin Kaminsky, aveva bisogno di otturazioni ai denti, fu costretto ad andare da un dottore che facesse l’operazione a metà del prezzo.

Ha combattuto nell'esercito degli Stati Uniti contro i nazisti e ha affrontato l'antisemitismo tra alcuni dei suoi commilitoni.

Era un caporale, un ingegnere di combattimento che ha disinnescato mine terrestri e ripulito edifici con trappole esplosive in Francia e Germania. Anche i suoi altri tre fratelli hanno combattuto nella guerra e uno, Lenny, un pilota dell'aeronautica, finì prigioniero in un campo di prigionia nazista per 19 mesi, dove dovette fingere che non fosse ebreo. «Ho cercato di pareggiare i conti con Hitler, facendogli uscire il Topolino che è in lui, prendendolo in giro, ma è difficile».  

Brooks, che a volte è stato vittima di bullismo da bambino, ha imparato a usare la commedia come arma. Quando la sua versione musicale di "The Producers" nel 2001 - con un Hitler che cantava e danzava - tenne un'anteprima a Chicago, «un tizio grosso continuava a fare irruzione nel corridoio e diceva: 'Come osi mettere in scena Hitler, come osi mostrare la svastica? Ho partecipato alla seconda guerra mondiale rischiando la vita e tu fai questo su un palco?' Ho detto: ‘C’ero anch’io, ma non ti ho visto’».

"History of the World, Part I", il film del 1981 su cui la serie Hulu si sta concentrando, è stato una cagnara chiassosa attraverso epoche diverse, dall'età della pietra alla Rivoluzione francese. Era pieno zeppo di giochi di parole, incluso quello in cui Harvey Korman, nei panni del conte de Monet, rimproverava il suo impudente compagno: "Non essere impertinente con me, Béarnaise". Brooks ha aggiunto "Parte I" al titolo per scherzo, ha detto, ma poi «sono stato tormentato da circa un miliardo di chiamate, 'Dov'è la Parte II?' Non ho mai avuto intenzione di fare la Parte II». Ma lui e il suo partner di produzione, Kevin Salter, alla fine hanno ceduto alla richiesta.  

Una volta iniziato, tutti i comici che hanno idolatravano Brooks hanno voluto entrare a far parte del film - da Johnny Knoxville (che interpreta Rasputin a cui viene tagliato il membro) a Sarah Silverman (che è in una scenetta "Ebrei nello spazio") a Jack Black (un subdolo Stalin).

Knoxville ha detto che Brooks è "la leggenda delle leggende". «Prima di Mel, non credo che i film fossero esilaranti - ha detto Barinholtz - Prima di 'Blazing Saddles', le persone normali non andavano al cinema e ridevano così tanto da andare in iperventilazione. Mel, credo, ha davvero inaugurato quell’epoca».

Galileo sui social

Brooks ha aiutato i comici a decidere quali sezioni della storia esplorare nel sequel e a volte si è unito alla stanza degli scrittori su Zoom per soppesare le proposte o offrire battute.

Come la Parte I, in cui Comicus si ferma su un carro al palazzo di Cesare durante l'Impero Romano, ma si scopre essere il Caesar's Palace di Las Vegas, la Parte II ha molti anacronismi divertenti, come Galileo su "TicciTocci" o Harriet Tubman's Underground Railroad trasformandosi nella metropolitana di New York.

Barinholtz ha detto che l'istruzione di Brooks è: «Non diventare troppo incomprensibile. Batti sui successi». Visto come è cambiato il mondo, non si useranno epiteti razziali e sessuali che caratterizzavano i film di Brooks negli anni '60, '70 e '80, ma si rimarrà fedeli agli stessi temi.

Anche Brooks ha detto che, a oggi, non usa più le parole provocatorie che usava così liberamente in passato. Gli ho chiesto dei suoi colleghi comici, come Chris Rock, Bill Maher e Jerry Seinfeld, che temono che la teoria “woke” stia neutralizzando la commedia.

E in quel momento ha guardato Salter, che era seduto accanto a lui: «Ho parlato con Kevin prima di questo. Ha detto: 'Se Maureen, per qualche ragione, tira fuori una commedia “woke” stanne alla larga. Ridendo, ho ammesso: "Sono così scontato". “Sì – rispose -  Assolutamente».

Ha appoggiato Joe Biden nel 2020, ma ha detto che non gli piace fare commedie politiche perché "metà del pubblico si arrabbierà con me". Preferisce battute come questa del nuovo spettacolo sulla Vergine Maria: «Pensa che suo figlio sia Dio. La madre è decisamente ebrea». 

Perché così tanti comici più leggendari sono ebrei? «Be', non credo che li abbiano fatti entrare nelle ferrovie – ha risposto, ridendo -  Se tu fossi un ebreo, non potresti possedere una ferrovia». È sorpreso che l'antisemitismo sia in aumento? «Perché dovresti essere antiebraico dopo quelle storie sui campi di concentramento? Come potresti esserlo?»

La più grande sala di scrittori della storia

Per anni Brooks ha scritto in quelle che venivano considerate le stanze degli scrittori più famose nella storia della TV. Brooks ha lavorato in quelle stanze con Mel Tolkin, il capo sceneggiatore; Carl Reiner; Neil Simon; Larry Gelbart ("la bocca e il cervello più veloci del West", come lo chiamava Brooks, che ha continuato a fare "MASH e" Tootsie "); Lucille Kallen, una delle prime donne a scrivere per la televisione, che ha realizzato gli sketch per "Your Show of Shows"; Aaron Ruben (che in seguito ha prodotto “The Andy Griffith Show”); e un giovanissimo Woody Allen.

Era geloso di Allen? «Lo ero, ma questa è la prima volta che ne parlo. Ho detto: 'Quel topolino. Quel piccolo topo. Come l'ha inventato?'. Da quel momento Woody avrebbe inventato un sacco di cose. Era furbo ed era uno scrittore brillante».

Ha raccontato che Simon, noto come Doc Simon, “aveva una vocina molto leggera, che a volte ci faceva impazzire. Carl Reiner si sedeva accanto a lui e Doc sussurrava le sue battute all'orecchio sinistro di Carl, e Carl si alzava e diceva: "Doc ce l'ha!" Ed era meraviglioso.”

Di Tolkin ha raccontato che era un "intellettuale a tutto campo". E di Sid Caesar in "Storia del mondo, parte I": «Sid era un animale. Aveva sentimenti istintivi riguardo alla commedia, ed erano sempre corretti. Era l'uomo più forte della terra. Era un ragazzo grande, alto, gigante con i muscoli». 

Nel suo libro di memorie del 2021, "Tutto su di me!", Brooks descrive come Caesar gli ha afferrato il colletto e la cintura e lo ha appeso fuori dalla finestra di una stanza d'albergo di Chicago dopo che lo scrittore si era lamentato del fumo di sigaro di Caesar. “Hai abbastanza aria?” chiese Caesar allo sceneggiatore che penzolava.

Quando Brooks è passato al grande schermo, ha pensato che la sua carriera cinematografica fosse finita prima di decollare. Nel 1968, Renata Adler ha recensito "The Producers" per il New York Times e l'ha definito "un miscuglio violento. In parte è scadente, volgare e crudele; il resto è divertente in un modo del tutto inaspettato. Ha detto che era combattuta tra andarsene e ridere”.

«Mi sono detto: ‘Al ‘The New York Times’ non è piaciuto, quindi forse dovrei tornare alla televisione dove gli è piaciuto tutto quello che ho fatto’» ha detto Brooks. A quel punto aveva divorziato e si era risposato con Bancroft. Ricorda che lei gli ha detto: "No, sei nato per fare film e continui a farli". 

Ora, “The Producers”, “Blazing Saddles” e “Frankenstein Junior” sono tutti nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso dei film americani più apprezzati. Non solo ha un EGOT, ma il presidente Barack Obama gli ha conferito la National Medal of Arts nel 2016.

Cary Grant era l'uomo più bello che il signor Brooks abbia mai visto a Hollywood?

«Una volta ero in un ascensore nell'ufficio di William Morris e Tyrone Power è entrato e gli ho detto, 'Oh, sarà difficile per me dire chi è più bello, tu o Cary Grant’».

La vita con Anne Bancroft

Brooks e Bancroft sono una delle più grandi storie d'amore di Hollywood. La gente li considerava una strana coppia e la splendida attrice che ha creato il ritratto indelebile della seduttrice pantera e pre-cougar, la signora Robinson in "The Graduate", anche se aveva solo 35 anni contro i 30 di Dustin Hoffman.

Ma si sono innamorati quasi all'istante dopo essersi incontrati sul set di "The Perry Como Show". Capirono presto che amavano le stesse cose, dal baseball ai film stranieri al cibo cinese. E se Anne amava qualcosa di cui Mel non era a conoscenza, come l'opera, anche lui decise di amarla. «Anne era cattolica, una buona cattolica - ha detto Brooks - Ho vissuto con lei per così tanto tempo che ho iniziato a farmi il segno della croce».  

Era al verde, quindi è stato difficile corteggiare l'attrice più famosa, che aveva già recitato in una serie di film e aveva vinto due Tony per "Two for the Seesaw" e "The Miracle Worker".

«Andavamo in un ristorante e lei mi faceva scivolare sotto il tavolo un paio di banconote da 20 dollari, così sembrava che stessi pagando per il pasto - ha detto - Una volta, quando ho detto al cameriere di tenere il resto, siamo usciti, mi ha colpito con la borsa più forte che poteva. Ha detto: 'Sei pazzo? Finché lo pago io, fai attenzione alle mance'».

Anche dopo che erano sposati da circa 35 anni, sentiva il brivido. Come ha detto al “New York Daily News”: «Mi emoziono quando sento la sua chiave nella porta. Penso: 'Ooh! La festa sta per iniziare!'».

Dopo la sua morte nel 2005, colpita da un cancro all'utero, Brooks non è mai più uscito con una donna. «Una volta che sei sposato con Anne Bancroft, le altre non sembrano essere attraenti. È così semplice». Dopo essere rimasti vedovi, Brooks e Reiner cenavano spesso insieme e guardavano la TV nella hacienda Reiner su Rodeo Drive. Nel suo libro di memorie, Brooks ha definito Reiner, morto nel 2020, non solo il migliore amico che abbia mai avuto, ma "il migliore amico che chiunque abbia mai avuto".

Conferma o nega

Maureen Dowd: Ama le battute schwanzstucker 

Mel Brooks: «In realtà, Gene Wilder ha inventato quella parola mentre stavamo scrivendo insieme "Frankenstein Junior"».

Ti piace ancora fare il tuo ululato di lupo da "Frankenstein Junior"

«Non è l'ululato di un lupo. È un miagolio di gatto. Lo farò per te.  Nessuno fa un miagolio di gatto migliore di me. Potrei farlo per vivere». 

Ti piace creare l'atmosfera quando scrivi

«Quando stavamo scrivendo "Blazing Saddles", in realtà indossavo un berretto da guerra. Solo per far impazzire tutti».

Hai preservato l'udito durante la guerra ficcandoti le sigarette nelle orecchie, ma ti sei ritrovato con le orecchie gialle

«Storia vera. Quando ho girato il mio primo film, "The Producers", l'infermiera dell'assicurazione mi ha guardato e ha detto: "Hai avuto la febbre gialla?"» 

Hai quasi scelto Dustin Hoffman come drammaturgo nazista in "The Producers"

«L'ho scelto. Si è messo l'elmetto con il trucco del piccione e sembrava proprio un bravo nazista. Comunque, non poteva farlo perché aveva un altro lavoro»

Hai alcune ultime dichiarazioni dall'uomo di 2000 anni

«In qualità di Uomo di 2000 anni, direi di essere gentile con tutti intorno a te perché non sai mai dove potranno arrivare. Anche se non ti piacciono, non farglielo sapere perché un giorno potrebbero gestire uno studio. Potrebbero essere Harry Cohn».

La tua stella di Hollywood ha una mano con sei dita 

«È vero. L'ho fatto con uno stampo in gesso solo perché qualcuno dell'Idaho gridasse: “Henry, vieni qui! Guarda questo. Mel Brooks ha sei dita”».

Barbara Costa per Dagospia sabato 16 settembre 2023.

Ti senti cessa? Ti hanno fatto crescere a pane e dio? Assillato tra preghiere e omelie? Proibito di fumare, di bere, pure il caffè? Se vuoi, puoi rifarti, e con gli interessi! Alti! Come sta facendo 'sta f*ga qui. Lei si chiama Melissa Stratton, fa porno da poco, e lo fa per recuperare tutto ciò che le hanno fatto credere fosse peccato. 

Melissa ha 33 anni e te lo giura: “Sto indietro di 20!!!”. Ci credete che questa ragazza prima dei 18 anni non sapeva cosa fosse un orgasmo, né concettualmente né "tecnicamente", e che neppure si si era mai toccata??? Melissa è figlia di due genitori mormoni che l’hanno cresciuta in una comunità chiusa al mondo, “una cultura antiquata, iper-conservatrice”, specie sulle donne, “una comunità religiosa dove tutti fanno la stessa cosa e tutti si guardano l’un l’altro per assicurarsi che la stiano facendo bene”. Melissa vi ha resistito fino alla laurea.

Sul serio lei era digiuna di sesso fino al suo primo ragazzo, che dico ragazzo, fidanzato: fortunato con cui gli approcci sessuali sono stati complicati, graduati e… standard. Melissa non ha mai visto un porno prima di andarsene da quella prigione. Ma da spettatrice porno non ha proceduto per gradi, è andata diretta sui siti ultra fetish! Lei si è abbuffata di tutto, ha fatto indigestione, e nella vita vera ha cominciato a uscire con le donne. E a farsele. 

“La prima volta che ho baciato una donna”, ci rivela Melissa, “mi sono vergognata. Mi sono sentita colpevole. È che è stato difficile liberarsi dei concetti sacri coi quali mi hanno educato. In verità, le ragazze mi piacciono più degli uomini”.

L’esistenza di Melissa è completamente cambiata con il Covid. Posto di lavoro perso, a casa disoccupata. Si è messa in web cam. Ha aperto un profilo su "Chaturbate", all’inizio non mostrava il viso, poi sì, fino a formarsi una clientela di feticisti dello sputo – lei che sputacchia sulla telecamera, il cliente che dall’altra parte del video "viene" felice – e feticisti gioenti a venire venendo da lei insultati. 

Sono uomini che “posso dividere in due gruppi, giovani professionisti e uomini su con l’età ma con carriere abbastanza impegnative. Viaggiano, non hanno molti amici su cui contare, e chiamano me per sfogarsi sessualmente, e anche per parlare. Mi pagano. Ritornano perché sentono empatia”.

Io non trovo in rete foto di Melissa se non recenti, perché lei ci dice che appena rimediati i soldi necessari, si è rifatta: “Ho perso il 10 per cento della clientela in webcam uccidendo il mio aspetto naturale, ma ne ho guadagnata una diversa e migliore!”. Melissa si è rifatta il seno (“non ho idea di che taglia sia, io non porto un reggiseno da che ho le mie tette nuove!”), le labbra, i contorni del viso, non so se ha intenzione di procedere oltre: “Il mio corpo è il mio strumento, com’è adesso mi dà enorme sicurezza. Per fare il mio lavoro, devi avere e mostrare una fiducia in te eccezionale”.

E il porno? Melissa è stata notata dai capi di "Reality Kings" a una fiera del settore. Hanno assoldato, prima di lei, le sue tette: “Ma sono io che ho dato il mio numero a loro”, precisa Melissa, “il porno mi intimoriva, ma facendolo ho compreso che erano timori infondati. Il porno è il posto dove voglio essere”. 

Per il momento Melissa preferisce girare con le donne, sono comunque uscite sue scene etero, e a tre, con un uomo e una donna, e arriveranno dei threesome con lei e due uomini. Per l’anale ci sta pensando.

Melissa Stratton è tra le primissime pornostar a puntare decisa sull’intelligenza artificiale nel porno. È da poco nata Melissa AI, la versione AI della Melissa in carne e ossa, attiva su OnlyFans e Snapchat. Se la Melissa reale non è per chi la desidera sui social sempre disponibile, “Melissa AI lo è, con me sotto forma AI puoi parlare sempre, interagire sempre, soddisfarti sempre”. 

Anche la voce di Melissa AI è identica all’originale. AI ricreata apposta. Al pari di Melissa, la collega in convalescenza Adriana Chechik ha lanciato Adriana AI, e pure miss zinne potenti Violet Myers ha lanciato il suo equivalente zinnico in AI. E con l’AI si possono riportare in vita le pornostar passate a miglior vita. Lo stanno già primordialmente testando con Angelica Bella, ungherese che nei '90 ha trovato porno fortuna in Italia e per breve tempo negli USA, ritiratasi nel 2006, e morta per cause misteriose nel 2021. In rete puoi trovare un Angelica Bella AI che (per ora) non AI porna, ma AI balla vestita, al suo massimo seducente splendore. 

Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” il 3 aprile 2023.

Il fattaccio dello scorso ottobre è una ferita ancora aperta, per Memo Remigi: «Questo libro doveva uscire a dicembre. Ho dovuto aggiungere un capitolo per raccontare la mia versione dei fatti. Colpa di quella porcheria che è successa», dice l'84enne cantautore, presentando Sapessi com'è strano, la sua biografia appena arrivata nei negozi.

 Allude all'episodio di cui egli stesso si è reso protagonista quando durante l'anteprima di una puntata di Oggi è un altro giorno, il programma di Rai1 condotto da Serena Bortone del cui cast l'autore di Io ti darò di più era presenza fissa, le telecamere inquadrarono la mano di Remigi scivolare sul fondoschiena della collega Jessica Morlacchi, più giovane di lui di quarantanove anni, che lo bloccò dandogli uno schiaffetto.

Una brutta e volgare caduta di stile: «Però è stata emessa una sentenza senza un contraddittorio, nei miei confronti. Non mi ha cercato più nessuno», commenta oggi il cantautore. È proprio da quella vicenda che parte il libro intitolato come un verso della sua celebre Innamorati a Milano (Sperling & Kupfer, 224 pp), nelle cui pagine Emidio Remigi, per gli amici Memo, si racconta a tutto tondo per la prima volta, tra ricordi meravigliosi ma anche drammatici, canzoni e pure politica («L'ho amata molto poco», scrive, ricordando quando nel 2013 l'UdC lo candidò alle elezioni regionali 2013 in Lombardia: non fu eletto).

Mischiando la vita privata e una carriera che ha macchiato con quella che oggi lui, nato a Erba, nel comasco, nel 1938 (al lavoro nella redditizia industria di famiglia, la Ritorcitura filati Remigi, preferì la vita da artista, trasferendosi a Milano in cerca di quel successo che avrebbe conquistato nel '65 con la stessa Innamorati a Milano), a distanza di mesi definisce una "pirlata": «Con Jessica era nata una buona amicizia.

Mi spiace veramente se ha considerato quel gesto come un'avance o qualcosa di peggio, perché proprio non lo era. Ma, per favore, non confondiamo la violenza sessuale con una stupida bravata, perché il rischio è perdere di vista i veri nemici di battaglie legittime per i diritti delle donne, che io per primo condivido da sempre».

 (...)

L'amò, la tradì (con Barbara D'Urso) e poi la riconquistò. Della conduttrice Mediaset dice: «Quando arrivò a Milano da Napoli nel 1976 aveva diciannove anni, io il doppio. La incontrai nel locale Vecchio 400, dove affluivano molte spiranti showgirl in attesa degli incontri giusti, ma spesso si incrociavano veri e propri sciacalli travestiti da impresari che millantavano l'accesso garantito al mondo dello spettacolo».

 (...)

 In mezzo i flirt con Valeria Fabrizi, Rosanna Schiaffino e pure con Catherine Spaak: «Ho avuto molte relazioni, ma mai per un'avventura e via». Nel cassetto un nuovo album composto per metà dalle canzoni più popolari della sua carriera e per metà da nuovi brani: «Gli inediti dimostrano soprattutto a me stesso che non ho ancora finito di raccontare storie d'amore».

Memo Remigi: «Jessica Morlacchi? L’ho chiamata, ma non ha risposto. La 19enne Barbara D’Urso mi fece sentire speciale». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2023.

Il cantante si racconta nell’autobiografia «Sapessi com’è strano». «Mia moglie l’ho conosciuta, amata, tradita e riconquistata. Ci siamo sposati due volte»

«Non vorrei che 50 anni di carriera venissero cancellati da un errore». Memo Remigi (vero nome Emidio, «che in greco antico significa semidio, ma non ho ancora capito quale sia la mia metà divina») ha attraversato la storia della musica e della televisione: cantante, compositore, autore di musiche per le più belle voci della canzone italiana, conduttore, perfino campione di golf. In Sapessi com’è strano (Sperling & Kupfer) si racconta tra carriera e vita privata, tra passato e presente, tra ricordi meravigliosi e qualche dramma. La sintesi? «Ho amato la vita e la vita ha amato me».

Partiamo dalla fine. La mano sul fondoschiena a Jessica Morlacchi.

«È stato un gesto senza malizia , scherzoso, ma sicuramente inopportuno. Io e lei abbiamo avuto sempre un rapporto amichevole, di grande confidenza e complicità: dopo il fattaccio l’avevo chiamata, ma non mi ha mai risposto».

Si aspettava di più da Serena Bortone?

«Non ci siamo più sentiti. Nemmeno una chiamata. Mi sarei aspettato, visto il lungo rapporto, un comportamento diverso, speravo in più umanità da parte sua. Anche Costanzo lo aveva detto: Memo ha sbagliato e lo sa. Ma ci sono autori di colpe maggiori, molto maggiori che lavorano serviti e riveriti».

«Innamorati a Milano» è la sua griffe di riconoscimento.

«Racconta il mio amore per Lucia, i nostri incontri a Milano, un posto impossibile per un provinciale come me; racconta la delicatezza del nostro amore dentro il frastuono del traffico e delle opportunità».

Lucia, ovvero sua moglie: vi siete incontrati nel 1961 e sposati 5 anni dopo; il divorzio nel 1983 e le nuove nozze nel 2007... Un film.

«L’ho conosciuta, amata, tradita e riconquistata. A un certo punto mi sono reso conto che le altre non contavano: ho capito che la madre di mio figlio, la compagna della mia vita, quella che mi ha indicato cosa fare da grande quando non lo sapevo era quella giusta».

Intanto Shirley Bassey la aspettava in baby-doll.

«E mia moglie trovò l’indirizzo dell’hotel e si presentò alla porta. Io scappai e il mio amico Giovanni D’Anzi mi suggerì di tornare da Lucia per ricordarle che le avevo dedicato la canzone d’amore più bella ambientata a Milano, naturalmente dopo la sua O mia bela Madunina».

Catherine Spaak?

«Ci frequentammo per un po’ in clandestinità, ma ci beccarono all’uscita di un ristorante romano e la foto finì su una rivista di gossip».

Barbara D’Urso aveva 19 anni, lei il doppio...

«All’epoca ero un uomo con il cuore palpitante ma diviso in due: una parte era per questa giovane donna che mi faceva sentire speciale e irrinunciabile, ma una parte era rimasta da Lucia».

Se una donna le chiedeva di impegnarsi in un matrimonio lei scappava.

«Capisco che magari alcune donne volessero un impegno più stabile, ma io la famiglia ce l’avevo già, Lucia per me è sempre stata un punto di riferimento, una dipendenza affettiva, nonostante avessi anche altre velleità».

Tanto che vi siete risposati...

«Non avevamo detto niente nemmeno a nostro figlio Stefano. Non è niente di impegnativo, lo rassicurava Lucia».

Nel libro scrive che suo padre ogni tanto ricorreva a sberle e olio di ricino...

«Era un uomo giusto ma dal carattere militaresco. Dai 12 anni in su, ogni volta che ci trasferivamo al mare, mio papà tutte le mattine alle sei tirava su la tapparella e mi dava un cucchiaione di olio di ricino e una tazza di caffè amaro, diceva che era salutare. Erano gli integratori di allora...».

Che studente è stato?

«Una bestia, non studiavo mai, non mi andava, ma riuscivo ad essere amato ugualmente dai professori, facevo ridere tutti, organizzavo gli spettacoli, suonavo, coinvolgevo i compagni. Sono sempre stato promosso per simpatia. Tranne l’anno del diploma, bocciato in quinta ragioneria per lancio di calamaio».

Il concerto che non le è venuto bene?

Ride: «Tantissimi... Ogni tanto pensavo: magari cambio mestiere. Ne ricordo uno al freddo in piazza in Veneto, c’erano quattro gatti, all’aperto, in pieno inverno, un freddo della Madonna».

La volta che se l’è vista brutta?

«In Sicilia, quasi all’alba. Ero in macchina, tornavo da un concerto in un night e vedo questo bellissimo aranceto. Mi fermo e con le mie belle scarpe di vernice mi avventuro nel campo: mi hanno sparato due fucilate con i pallettoni a sale. Per fortuna non mi hanno preso, ma che corsa».

La spesa più folle?

«Le macchine. Ogni volta facevo le sorprese a mia moglie ma lei già sapeva. Maserati — anche una Ghibli —, due Ferrari, la Pantera De Tomaso, le Bmw: le ho avute tutte».

Micol Sarfatti per corriere.it/sette/ - Estratti venerdì 22 settembre 2023.

Micaela Ramazzotti, romana, classe 1979, attrice e ora regista premiata al Festival di Venezia per il suo «Felicità» presentato nella sezione Orizzonti Extra (foto di Fabrizio Cestari) . Il film è arrivato ieri nelle sale italiane per 01 Distribution 

(...) 

Felicità è anche il titolo del film del suo esordio alla regia, presentato alla 80ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti Extra e vincitore del premio degli spettatori-Armani Beauty, da ieri nei nostri cinema. La protagonista è Desiré Mazzoni, interpretata da lei, parrucchiera verace e sensibile, che tenta di salvare il tormentato fratello Claudio dai soprusi dei genitori. 

«È un titolo beffardo perché racconta la storia di una famiglia profondamente infelice, in cui ognuno coltiva la sua tristezza. Ma la parola “felicità” suona sempre bene, in qualunque lingua… Happiness, joie, felicidad…C’è una scena in cui questa dissonanza è evidente: quella in cui il padre di Desiré, Max (interpretato da Max Tortora), aspirante showman senza speranze di successo, canta Felicità-ta-ta- in una casa di riposo, agitando fazzoletti bianchi con i degenti mentre, in una clinica, fanno l’elettrochoc a suo figlio Claudio (Matteo Olivetti)». 

(...)

La famiglia è la causa primaria dei nostri dolori? Le colpe dei padri ricadono sui figli, come ci insegna la tragedia greca?

«La famiglia perfetta non esiste. In molti casi se si scoperchia il pentolone dei legami escono mostri. Altro che vaso di Pandora! Meglio richiuderlo! Veniamo al mondo per volere di altri, per caso, per capriccio, per destino. La famiglia giusta per noi non è sempre quella che ci ha messo al mondo. Nel mio film i personaggi sono molto caricati, per raccontarli al meglio ho partecipato a incontri in cliniche psichiatriche. Ho visto figli 50enni non aver ancora superato certe dinamiche con genitori 80enni. I rapporti tossici sono difficili da risolvere a qualunque età. Desiré e Claudio hanno 30-40 anni, sono due vittime, ma continuano a proteggere una madre e un padre carnefici».

La sua famiglia come è?

«Diversa, per fortuna. I miei genitori, Rosalba e Roberto, mi hanno sempre sostenuta. Sono venuti a vedere il film a Venezia, ci tenevo tanto ad averli vicino in quel momento. Per questo non ho nemmeno voluto dargli un’anteprima a Roma. Mio padre alla fine della proiezione si è commosso, mi ha abbracciata. Mi sono sentita protetta. C’era anche mio fratello, è stata una grande festa. Mamma e papà hanno fatto sacrifici per me. Erano due impiegati, chiedevano permessi al lavoro per accompagnarmi ai provini quando ancora ero minorenne e non potevo andarci da sola». 

Il desiderio di diventare attrice è nato presto?

«Mi sembra di aver cercato questa strada sin da quando ero piccola. Mi sono sempre sentita un po’ artista. Ero una sognatrice, mi perdevo tra i miei pensieri, mi fissavo… Da ragazza al liceo artistico avevo un look punk: calze a rete e capelli colorati. Da bambina ero una di quelle che tagliava i capelli alle Barbie, sicuramente ho sulla coscienza qualche Barbie Stramba, come nel film di Greta Gerwig». 

Le è piaciuto Barbie?

«Un capolavoro totale».

Il suo passaggio da attrice a regista come è avvenuto?

«Covavo la storia di Desiré da un po’. Ho chiamato le mie amiche Isabella Cecchi e Alessandra Guidi e ho detto “voglio scrivere un film”. Loro erano entusiaste, solo che una vive in Toscana, una a Pechino ed è professoressa universitaria, io a Roma. Ci siamo messe su Skype, anche per 8 ore di fila.

Ogni tanto qualcuna si scollegava per andare a prendere i figli, fare commissioni. È stato bello. Abbiamo avuto la libertà di lavorare e essere noi stesse, senza giustificarci per essere madri, avere altri impegni o una vita oltre il lavoro. Quando una delle tre si assentava, le altre andavano avanti con la stesura e poi la aggiornavano. Nella nostra chatWhatsapp “Felicità” ci scambiavamo le foto degli attori». 

(...)

La fine del suo matrimonio con Paolo Virzì ha influito nel tono del racconto di Felicità ?

«Avevo questa storia in testa ormai da tempo, ma il periodo di dolore che stavo attraversando mi ha permesso di essere molto illuminata e presente sul set. Nell’arte la sofferenza può aiutare. Felicità ha preso vita in un momento in cui avevo un grande dispiacere, ma ho saputo trasformarlo. Ero creativa». 

È felice?

«Molto. Penso anche che Desiré e Claudio siano felici e liberi da qualche parte. Questo film è per quelli come loro. Per chi è in affanno, chi ha la testa piena di moscerini, ma non ha ancora trovato la forza di curarsi».

Michael Caine compie 90 anni: le 7 interpretazioni da gigante. L’attore londinese vanta oltre sessant’anni di carriera e un palmares invidiabile, a partire dai due premi Oscar. Massimo Balsamo il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Alfie (1966)

 Gli insospettabili (1972)

 Rita Rita Rita (1983)

 Hannah e le sue sorelle (1986)

 Le regole della casa del sidro (1999)

 The Quiet American (2002)

 Youth – La giovinezza (2014)

All’anagrafe Maurice Joseph Micklewhite Jr, sir Michael Caine è una leggenda vivente del cinema. Più di 130 pellicole, più di sessant'anni di carriera, un palmares ricco e prestigioso: un cammino da sogno che gli ha permesso di diventare uno degli interpreti più importanti della sua generazione. Eroe o villain, comune mortale o donnaiolo: il londinese si è fatto amare per la sua grande versatilità, per la sua capacità di indossare maschere diversissime con una naturalezza raggelante.

Approdato a Hollywood dopo il boom del thriller “Ipcress”, Michael Caine si è imposto a livello internazionale navigando tra i generi: dal dramma alla commedia, passando per il thriller e per l'action di spionaggio. Tanti, tantissimi i riconoscimenti collezionati, basti pensare ai due premi Oscar al miglior attore non protagonista raccolti nel 1987 e nel 2000. Ma non solo: nel 1992 è stato insignito del titolo di Commendatore dell'Ordine dell'Impero Britannico dalla regina Elisabetta II come riconoscimento al suo contributo nella storia del cinema, mentre nel 2000 è stato nominato cavaliere. Oggi Michael Caine compie 90 anni, un traguardo da omaggiare con le sue 7 migliori interpretazioni in oltre sei decenni di carriera.

Alfie (1966)

Adattamento cinematografico del romanzo di Bill Naughton, "Alfie" di Lewis Gilbert ha permesso a Michael Caine di compiere il definitivo salto di qualità a un anno di distanza dal successo di "Ipcress". In questa commedia sulla rivoluzione sessuale interpreta un proletario donnaiolo nella swinging London. Magnetico.

Gli insospettabili (1972)

Ultimo film di Joseph L. Mankiewicz, nonchè tra i suoi migliori, "Gli insospettabili" ha confermato le grandi qualità interpretative di Michael Caine, qui affiancato da un'icona del calibro di Laurence Oliver. Tra lotta di classe e finzione, due grandi performance attoriali, entrambe candidate all'Oscar.

Rita Rita Rita (1983)

Trasposizione della pièce teatrale "Educating Rita" di Willy Russell, "Rita Rita Rita" ha permesso a Michael Caine di collezionare il suo primo Golden Globe come migliore attore. Qui interpreta un docente universitario alcolizzato e disilluso dalla vita. Al suo fianco una eccezionale Julie Walters.

Hannah e le sue sorelle (1986)

Michael Caine ha vinto il suo primo Oscar grazie ad "Hannah e le sue sorelle" di Woody Allen e al suo personaggio buffo e impacciato, a tratti patetico. Uno dei migliori film del regista newyorkese, anche grazie alla sceneggiatura brillante e a un cast ben amalgamato.

Le regole della casa del sidro (1999)

Tratto dall'omonimo romanzo di John Irving, "Le regole della casa del sidro" ha regalato a Michael Caine il suo secondo Oscar. Nel film diretto da Lasse Hallstrom interpreta un medico a favore dell'aborto: una performance misurata, di spessore e fatta anche di semplici gesti.

The Quiet American (2002)

Trasposizione del romanzo di Graham Greene, "The Quiet American" ci offre l'ennesima grande interpretazione di Caine, qui nei panni di un reporter di guerra a Saigon, nel 1952, al centro di un triangolo amoroso con una giovane vietnamita (Do Thi Hai Yen) e un americano (Brendan Fraser). Un film legato al cinema degli anni Sessanta, forse un po' troppo sottovalutato.

Youth – La giovinezza (2014)

A proposito di film sottovalutati, l'ultima enorme interpretazione di Michael Caine: "Youth - La giovinezza" di Paolo Sorrentino. Angosce, segreti, debolezze, speranze di due anziani - Caine affiancato da Harvey Keitel - in un'opera complessa e stratificata, che fa delle interpretazioni dei protagonisti la sua forza, della sostanza delle suggestioni la sua incredibile potenza.

Estratto dell’articolo di Valentina Ariete per “la Stampa” il 12 maggio 2023.

Quando pensiamo agli Anni 80, in un angolo della nostra mente prende forma l'immagine di Michael J. Fox a bordo della DeLorean in Ritorno al Futuro. […] Fox è diventato un simbolo, un'icona. Incarna perfettamente quel periodo: a 17 anni voleva avere successo, scalare Hollywood. A 21 anni è diventato una star. Poi è arrivata la malattia. A 61 anni l'attore – che grazie alla Michael J. Fox Foundation ha devoluto 450 milioni di dollari per la ricerca – racconta la sua storia in Still: La storia di Michael J. Fox, documentario diretto da Davis Guggenheim, da oggi su Apple Tv+. Si potrebbe pensare a un film strappalacrime, invece si ride di gusto. Fox ha sempre dei tempi comici perfetti. E teneva a una cosa in particolare: non farsi compatire. […]

In che senso uno scarafaggio?

«Non faccio pena. Sono uno stronzo tosto! Sono come uno scarafaggio: non puoi uccidere uno scarafaggio». 

Ma le difficoltà sono enormi: come le affronta?

«Il Parkinson non mi ha messo in difficoltà. Mi ha devastato. All'inizio l'ho affrontato ignorandolo. Negli ultimi tre anni però mi sono rotto entrambi i femori, la faccia e la mano. Mi hanno sostituito una spalla. Mi sono reso conto che potrei morire. E questo mi spaventa. Ma posso affrontarlo. La mia paura più grande è perdere la curiosità».

Come ci convive?

«È incurabile. […] Me l'hanno diagnosticato a 29 anni. Quando il dottore me l'ha detto la prima volta ho pensato che non stesse succedendo a me. Mi erano capitate soltanto cose belle. E invece era arrivata questa mazzata. Per 10 anni ho nascosto la verità». 

Perché raccontare la sua storia adesso?

«Dico sempre che il Parkinson è un dono che continua a consumarmi. Mi ha insegnato molto. E ha fatto in modo che la comunità del Parkinson entrasse a far parte della mia famiglia. Se non l'avessi non avrei aiutato così tante persone come ho fatto. E voglio continuare».

Oltre che con i fondi, lo fa anche con i libri.

«I pazienti col Parkinson sono spesso stati ignorati, perché in genere sono persone anziane. La verità è che molto probabilmente non l'hanno detto a nessuno fino a quando non è stato inevitabile. Lo so perché l'ho fatto anch'io. Ho capito quindi che avrei potuto unire le persone. Ed è l'unico merito che voglio prendermi: sono contento di aver creato un gruppo. È bello sapere che oggi una persona può scoprire di avere il Parkinson e non nasconderlo, ma dire: ho il Parkinson, come Michael J. Fox».

[…] «Mi chiedono spesso come faccio a essere ottimista. Cerco sempre di trovare qualcosa per cui essere grato. Se ci si riesce la vita diventa migliore. I fan mi hanno regalato la vita che ho. Non rinuncerei alla mia malattia: dico spesso anche che è un dono che continuo ad accettare. Aiutare gli altri ha dato alla mia esistenza un significato completamente diverso. Quando lo dico la gente mi prende per pazzo! […]». […]

Peggiorano le condizioni del divo di Ritorno al Futuro. Michael J. Fox si racconta, dai film di successo alla malattia: “Il Parkinson sta bussando alla porta”, come sta. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Maggio 2023 

“Sta bussando alla porta, sarò franco, sta diventando sempre più difficile, ogni giorno è più difficile, purtroppo è così”. La confessione di Michael J. Fox sulla sua salute in un’intervista a Cbs Sunday Morning è schietta ma anche dolorosa. Oggi, l’attore che ha fatto sognare generazioni con Ritorno al Futuro, ha 61 anni e non nasconde che la malattia che non gli dà tregua da trent’anni, il morbo di Parkinson, gli rende la vita sempre più difficile. E guardarlo oggi nell’intervista con Jane Pauley è un vero colpo al cuore. Oggi l’attore si mostra tremante, con difficoltà nella postura e nelle parole ma combattivo. E soprattutto dà una grandissima lezione di ottimismo e gratitudine nei confronti della vita, nonostante tutto.

Dal 1991 lotta contro il morbo di Parkinson. Aveva solo 29 anni e una brillante carriera davanti stroncata con la tremenda diagnosi di una grave forma di Parkinson. Solo nel 1998 fu resa nota la sua malattia. Nella recente intervista ha raccontato di essersi sottoposto a un intervento alla spina dorsale per rimuovere un tumore benigno che gli creava problemi alla deambulazione e gli ha causato anche due braccia rotte, la frattura a una mano e varie lesioni alla faccia. “Le cadute possono diventare letali con il Parkinson – ha detto – come l’aspirazione del cibo e prendersi la polmonite. Tutte queste sottili cose che ti portano alla… Non si muore di Parkinson, si muore con il Parkinson. Non arriverò a 80 anni”.

Negli anni ha sempre voluto parlare della sua malattia e ha fondato un’associazione che promuove al ricerca contro la malattia che ah fatto grandi passi avanti e ha portato all’identificazione di un marcatore biogenetico che potrebbe portare a una diagnosi precoce e quindi a una cura. Ha anche realizzato un documentario sulla sua vita dal titolo “Still: A Michael J. Fox Movie”, dal 13 maggio su Apple Tv, insieme a sua moglie Tracy Pollan, diretto da Davis Guggenheim. E’ qui che si racconta attraverso interviste e spezzoni di film, da quando era un bambino minuto cresciuto in una base dell’esercito canadese, che è riuscito a raggiungere le vette della celebrità nella Hollywood degli anni 80.

Nel documentario l’attore si racconta senza filtri, affrontando le gioie del successo e il dramma di dover affrontare una malattia inguaribile sin da giovanissimo. Lo ha fatto senza mai perdere l’ottimismo che ancora oggi manifesta: “Finché sono grato posso essere ottimista – ha detto in un’intervista a Entertainment Weekly – E posso essere grato se ci penso, perché non avrei avuto il resto della mia vita se non fosse stato per le tante cose che, Tracy prima di tutte, mi sono successe. E anche se sembra innaturale, ancora oggi, se riesco a trovare una piccola cosa per cui essere grato, posso essere ottimista”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La confessione di Michael J. Fox: "Ho abusato di alcol e droga quando mi hanno diagnosticato il Parkinson". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 26 Gennaio 2023.

Nel documentario 'Still: A Michael J. Fox Movie' presentato al Sundance la star di 'Ritorno al futuro' racconta il momento di grande crisi che ha avuto dopo aver saputo della malattia

Michael J. Fox è un attore straordinario, star anni Ottanta resa indimenticabile dalla saga cult Ritorno al futuro, ma è anche un uomo di grande coraggio e tempra, da più di trent'anni lotta con la diagnosi del Parkinson e ha creato una fondazione per aiutare altre persone affette dalla malattia. Eppure non è stato un percorso semplice nè indolore. Nel documentario Still: A Michael J. Fox Movie, presentato nei giorni scorsi al Sundance festival, l'attore che oggi ha 61 anni si è aperto con grande onestà e ha raccontato i momenti difficili che ha vissuto quando - all'età di 29 anni - ha saputo del morbo che l'aveva colpito.

L'attore nel documentario rivela come subito dopo aver avuto la diagnosi è ricorso ad alcol e droghe "che buttava giù come fossero caramelle di Halloween, per prevenire i primi sintomi della malattia". Sul set - ha raccontato - che teneva sempre in mano degli oggetti di scena per nascondere i suoi tremori. L'attore è schietto nel dire: "Non c'era nessun valore terapeutico in questo, lo facevo per nascondermi a me stesso. Ero diventato un virtuoso nel manipolare l'assunzione di droghe in modo da raggiungere il picco esattamente nel momento e nel luogo giusto". La diagnosi che sembrava senza speranza aveva gettato Fox in uno stato di prostrazione che lo aveva portato verso l'alcol e le droghe. Nel film Fox ha ringraziato sua moglie, l'attrice Tracy Pollan e i suoi quattro figli per averlo aiutato a diventare sobrio, ma i suoi primi anni senza alcol sono stati una sfida enorme. Ora è sobrio da 30 anni.

Maurizio Caverzan per La Verità - Estratti sabato 2 dicembre 2023.

Riciccia un fuorionda di Michele Guardì del 2011. Rispunta ora, dal nulla, e arriva alla redazione delle Iene che lo mandano in onda in loop per stupire i borghesi e dire signora mia, come si comportano certi potentoni della Rai. Un’operazione a freddo. I fuorionda, è noto, sono merce pregiata per colpire, dissacrare, anche sputtanare quando serve. 

Guardì va ad aggiungersi alla lunga lista delle vittime.

«È un personaggio che ha fatto la storia della tv italiana», lo presenta Filippo Roma, nel servizio su Italia 1. Più si eleva il soggetto e più l’esecrazione funziona. Non dovrebbe e non potrebbe, e invece... E via additando e scandalizzandosi di tal comportamento, proprio ora che si parla di «patriarcato, misoginia, omofobia». Una storia già nota e archiviata oltre un decennio fa, trova nuovo propellente nel contesto attuale. Cacio sui maccheroni.

Guardì è un siciliano di lungo corso. Navigato. Inaffondabile. Ha ideato e diretto programmi come Domenica in, Unomattina, Scommettiamo che? e I fatti vostri di cui è tuttora autore e regista. L’audio è registrato a sua insaputa in momenti di concitazione, durante la diretta non si sa se di una o più puntate dei Fatti vostri, da un collaboratore che voleva denunciare, ma poi lasciò perdere. 

Quando Antonello Piroso, dopo essersi cautelato, lo aveva mandato in onda già una decina d’anni fa su La7, qualcuno aveva riconosciuto la voce di Guardì che si sfogava in un concentrato di parolacce e insulti dalla sala regia. Tra i bersagli c’erano Giancarlo Magalli, «cane», e altri collaboratori e comparse: «Levami ‘sto fr… di me…a», «Signorina, sorrida, finga di esistere», e ancora «tr…a», «bag…a». Un florilegio ingiustificabile, s’intende. Espressioni rubate nel climax della realizzazione di un programma, quando si prendono decisioni all’istante, in tempo reale. «Sono cose vecchie, già chiarite», ha replicato senza scomporsi il regista sia alle Iene sia ai siti specializzati che lo hanno interpellato. «Era una serata speciale con dei problemi tecnici, ero un pochino nervoso e in qualcosa ho esagerato. Tutti i destinatari delle mie parole non se la sono presa, ci ho parlato…».

Lo stesso Magalli ha minimizzato: «Conosco Michele e so come scherza con i cameraman. All’epoca del fuorionda fecero un compact disc. Certo, è esecrabile, certe parole non andrebbero dette mai. Michele lavora da 40 anni in Rai, ha fatto anche quattro programmi insieme e tutti di successo.Ha molto guadagnato, molto lavorato ed è anche molto invidiato». 

Dal canto suo, la Rai ha replicato che chiarirà se compariranno novità rispetto a dodici anni fa.

Michele Guardì e il cinico svilimento del servizio pubblico. Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” giovedì 30 novembre 2023.

Il regista e autore Michele Guardì è finito nel mirino delle Iene (Italia 1) che hanno riproposto una serie di fuorionda caratterizzata da una raffica di insulti e turpiloqui, anche molto grevi. Roba vecchia dice lui, roba vecchia sostengono altri, già circolata con voce alterata. Di nuovo c’è solo che Guardì utilizza un signore pagato dalla Rai coma autista personale. 

Non voglio entrare nel merito delle volgarità verbali del regista (le trivialità definiscono chi le pronuncia), né soffermarmi sul suo strapotere: esisterà pure una policy aziendale!

Penso, non da ora, che Guardì sia l’uomo che più di ogni altro ha contribuito allo svilimento del ruolo del servizio pubblico. Negli anni ’90 scrivevo: «Guardì applica, con invidiabile cinismo e consolante ipocrisia, una formula destinata a vincere in ogni campo: dare il peggio. Con lui hanno dato il peggio Alberto Castagna, Fabrizio Frizzi, Giancarlo Magalli... Il peggio non viene presentato come tale (sarebbe un eroismo encomiabile) ma è mascherato con pusillanimità dietro le poetiche della provincia, dello spettacolo comprensibile a tutti, della festa di paese. È mascherato dietro la più squallida invenzione di questi anni: la voce del Comitato».

Non mi sono scoraggiato e, anni dopo, ho insistito: «Guardì è un dominus della Rai, padrone di una larga fetta della tv italiana, ma fa una brutta, bruttissima tv. Sta sempre con chi vince. Non si spiegherebbe altrimenti la sua trasversalità, e il suo essere eternamente presente, nonostante lo spoils system in uso in Viale Mazzini. Lui cade sempre in piedi. E un motivo c’è: la sua astuzia predominante è di tipo linguistico e consiste nell’aver abbassato con cinismo il livello di espressività del servizio pubblico. L’ha involgarito, l’ha ridotto a fiera strapaesana, l’ha annebbiato. Così fa ascolti».

Le molte ore che Guardì firma come autore gli consentono poi di ricevere, beato lui, ingenti guadagni dalla Siae. Quello che veramente importa è che prima di lui la Rai era ancora trainante, propositiva: Guardì ha occupato spazi e li ha trasformati in una corte dei miracoli e dei miracolati. Di questo dovrebbero occuparsi i vertici Rai: che i programmi di Guardì vadano ancora in onda.

(ANSA il 29 novembre 2023.) "Facciamo appello a Barbara Florida, presidente della Commissione di Vigilanza della Rai, di cui conosciamo la sua sensibilità contro le discriminazioni verso donne ed LGBT+, di intervenire affinché la Rai attui azioni disciplinari nei confronti di Guardì che, per quanto appreso, riteniamo non possa ricoprire più un ruolo apicale, anche se ci auguriamo che Guardì si dimetta di sua spontanea volontà".

Lo dichiara Fabrizio Marrazzo Portavoce Partito Gay LGBT+, Solidale, Ambientalista, Liberale. "Quanto riportato dal servizio delle Iene, evidenzia comportamenti di carattere patriarcale e padronali nella Rai, che ricordiamo è pagata anche con i soldi dei contribuenti" sottolinea Marrazzo.

 "ll linguaggio d'odio si basa su una cultura sessista, misogina e omotransfobica che non dovrebbe essere tollerata in nessun luogo. Preoccupa il fatto che venga consentito a chi ricopre ruoli di responsabilità, anche culturale e sociale, forse proprio in ragione di una posizione di potere. Preoccupa per gli effetti prevaricatori e intimidatori sulle persone nell'ambiente di lavoro, per il fatto che questi comportamenti siano stati agiti legittimando una minorazione e sessualizzazione delle donne, ma anche una stigmatizzazione delle persone omosessuali".

Come Gay Help Line, servizio di supporto per vittime di omolesbobitransfobia, e come Arcigay Roma, "riteniamo essenziale un intervento sanzionatorio di questi comportamenti, che affermi il principio del rispetto delle identità sul posto di lavoro, perché il linguaggio d'odio non sia alla base di un escalation che troppo compromette la tutela dalle discriminazione e dalla violenza".(ANSA)

Estratto dell’articolo di Laura Rio per “il Giornale” giovedì 30 novembre 2023.

A questo punto la Rai deve fare chiarezza. […] Il caso di Michele Guardì rischia di lasciare una ferita profonda sulla credibilità della televisione pubblica. E, in effetti, dopo gli audio mostrati dalle Iene in cui il regista dei Fatti vostri si rivolge in maniera volgare e greve con commenti sessisti, misogini e omofobi a collaboratori e presentatori, i vertici Rai hanno disposto subito (l’altro ieri) l’apertura di un audit interno e l’avvio di tutte le procedure aziendali previste.

Quelle trasmesse martedì dal programma di Italia Uno sono registrazioni vecchie, di una quindicina di anni fa, che si trovano anche on-line, ma che rimandate in onda adesso sull’onda dell’indignazione per i tanti casi di molestie alle donne, non possono non suscitare sdegno.

Soprattutto perché dalla mattina alla sera vanno in onda sulla tv di Stato programmi che invitano al rispetto e all’educazione. «Che caz** mastica, la putt***». E ancora: «Due, mi è passata la tr**a dietro per caso?», «Signorina sorrida, finga di esistere», si sente dire. O ancora: «Guarda quella deficiente là». Poi, altri epiteti: «Ma levalo, sto fr... di m...». «Guarda questo pezzo di m**».

I vertici Rai dovranno capire se si tratta di pochi episodi circoscritti - come sostiene Guardì che li derubrica a goliardia - oppure se si tratta di una consuetudine, di un modo continuo di trattare collaboratori e dipendenti che si è protratto negli anni. 

Comunque facile da stabilire visto la quantità di persone che hanno lavorato con lui che da ben 33 anni è autore e regista del programma mattutino di Raidue […]. «Loro hanno montato vecchie cose - replica Guardì - mettendo in fila cose che in 5.600 puntate capita di dire».

[…] Le Iene hanno anche fatto notare la situazione del suo autista contrattualizzato Rai che Guardì adopererebbe per spostamenti personali. Lui precisa che per il collaboratore ci sono due contratti, uno a carico di Guardì medesimo e uno a carico della Rai come collaboratore per alcune rubriche (l’autista che fa l’autore tv?).

Estratto dell’articolo di Michela Tamburrino per lastampa.it mercoledì 29 novembre 2023.

I fuorionda, linfa vitale della tv. Questa volta sono le Iene a recuperare quelli del l’autore e regista Michele Guardì che dalla sala regia insulta in modo brutale ospiti e conduttori de I fatti vostri. Un florilegio senza fine di parolacce incontrollabili […]: «Levami sto fro.. di me... da torno». Oppure «Signorina, sorrida, finga di esistere» e avanti con tutta una serie di perle omofobe, misogigine, sessiste.

[…] Le Iene intervistano un collaboratore che resta anonimo e che rivela che avrebbe voluto denunciare il clima sul posto di lavoro, ma che rinunciò. La Rai temporeggia: «Valuteremo se dovessero esserci novità rispetto a fatti che datano ben 12 anni fa». 

Una novità è l’autista di Guardì, o almeno colui che le Iene mostrano guidare l’auto del regista e che dicono essere un collaboratore del programma, pagato dalla Rai: non avrebbe altri incarichi se non fare l’autista, ma Guardì nega nel servizio delle Iene che si tratti di un collaboratore suo personale pagato dai contribuenti. La Rai chiarirà.

Guardì si dice assolutamente tranquillo: «Io sessista? È una sciocchezza. Qui si cerca di alzare il tiro attaccando personaggi che possono garantire ascolti. In 5.600 puntate si possono dire cose inopportune nella certezza di non essere ascoltati e me ne scuso». 

Negli audio mandati in onda Guardì ne ha anche per Giancarlo Magalli autore e conduttore fino al 2021 de I fatti vostri. Lo chiama «cane malato», «maiale». Ma Magalli risponde sereno al telefono: «Dovrei essere l’unico a sentirmi offeso, ma io conosco Michele e so come scherza con i cameramen. All’epoca del fuorionda fecero un compact disc. Certo è esecrabile, certe parole non andrebbero dette mai. Michele lavora da 40 anni in Rai, ha fatto anche quattro programmi insieme e tutti di successo. Ha molto guadagnato, molto lavorato ed è anche molto invidiato».

Caratteri non facili i vostri? «Io ho sempre detto tutto in faccia e così lui. […] Le Iene ieri ci hanno ripreso mentre per gioco ci chiamavamo “cane”. Ma di solito ci diamo del “porcone”. Ma solo perché ci piace mangiare, sempre in lotta con la dieta. Mi dispiace comunque per insulti che nessuno dovrebbe sentire».

Dadospia mercoledì 29 novembre 2023.Riceviamo e pubblichiamo: 

Quanto ha fatto emergere il programma “Le Iene”, nella trasmissione di martedì scorso, a proposito di un mio collaboratore impropriamente definito autista devo precisare che si tratta di un assistente che lavora con me con regolare contratto dal 2010 anno in cui ho messo in scena il Musical sui Promessi Sposi.

Successivamente, dato il rapporto di fiducia, gli ho chiesto di collaborare con me anche alla realizzazione di rubriche tv, che seguivo io personalmente per il programma “I fatti vostri”. 

Si è reso perciò necessario anche un altro contratto di consulente e non di dipendente proprio per I Fatti Vostri, contratto che gli ha consentito e gli consente di lavorare dentro una redazione Rai. Si tratta dunque di due contratti distinti, uno dei quali a mio totale carico. Le attività che svolge come mio collaboratore privato sono dunque da me e solo da me personalmente retribuite con regolare contratto. 

Quanto alle mie esternazioni fuori onda trasmesse sempre in quel servizio delle Iene come se fossero di attualità preciso che si tratta di fuori onda risalenti al 2009 e cioè a quattordici anni fa. Lo stesso Giancarlo Magalli, intervistato ieri dalle “Iene” mentre entrava in Rai, per partecipare come settimanalmente avviene ai Fatti Vostri, ha risposto che sarebbe ancor più divertente sentire quello che le persone alle quali  mi sarei riferito sono solite dire a me replicando. Inoltre a tutti coloro che si erano sentiti offesi ho già chiesto scusa a suo tempo. Cosa che torno a fare anche adesso.  Michele GuardìEstratto dell’articolo di Giovanni Ruggiero per open.online martedì 28 novembre 2023.

Il regista Rai Michele Guardì è finito nel mirino delle Iene, che hanno annunciato un servizio di Filippo Roma per martedì 28 novembre a proposito di una serie di fuorionda controversi. Nell’audio anticipato da una clip sui social del programma di Italia1 si sente il padre de I fatti vostri urlare una serie di insulti ora nei confronti di Giancarlo Magalli, ora di altre persone inquadrate durante la trasmissione che sta curando.

[…] La clip con i fuorionda anticipata dalle Iene è intitolata «Patriarcato, misoginia e omofobia in Tv?». Si sente chiaramente il regista urlare contro Magalli, per esempio, chiamato «cane malato». C’è poi un passaggio in cui il regista si riferisce a una donna: «Che ca* mastica la pu….». E poi parla di un’altra persona: «Ma levalo sto fr*** di me****». E così va avanti il filmato con una raffica di insulti e turpiloqui. Guardì ci ride sopra: «Sono cose vecchissime. È una cosa pretestuosa, tirata fuori perché non hanno nulla da fare. Ho detto a Filippo Roma: “Lei quando tornerà a casa stasera, dirà: ho stalkerizzato Guardì”». […]

Massimo Galanto per tvblog.it martedì 28 novembre 2023.

“Il servizio de Le Iene su di me? Niente di che! Cose vecchie, non ha rilievo per me. Sono assolutamente tranquillo“. Così Michele Guardì commenta con TvBlog il caso che lo riguarda. La vicenda ve l’abbiamo raccontata oggi pomeriggio in anteprima: l’inviato della trasmissione di Italia 1 Filippo Roma ha chiesto conto a Guardì di alcuni fuorionda in cui lo storico autore Rai, deus ex machina de I Fatti Vostri, si esprime con turpiloquio e parole offensive.

Sono cose vecchissime. È una cosa pretestuosa, tirata fuori perché non hanno nulla da fare. Ho detto a Filippo Roma: ‘Lei quando tornerà a casa stasera, dirà: ho stalkerizzato Guardì”. E allora?

Che deve succedere? Per carità. Mi lascia del tutto indifferente. La Rai non c’entra niente con questo. Se vogliono disturbare il mio rapporto con la Rai, hanno sbagliato obiettivo!

Chi ce l’ha con lei?

Ogni tanto cercano di alzare il tiro cercando personaggi che possano fargli fare ascolto. Io sono tra questi e ne pago il conto. Ma non mi preoccupo. A Roma ho detto: “Invece di inseguirmi per la strada, datemi un passaggio e ne parliamo in macchina”. Sono salito sulla loro auto e ho parlato per un quarto d’ora. Cercano di attaccarmi, ma non c’è nulla da dire.

“Michele Guardì sessista”.

Loro hanno montato vecchie cose, montando in fila cose che in 5600 puntate si possono dire. Ma sono cose vecchie. Dicono che sono sessista? È una sciocchezza, non è basata su nulla di serio. Non mi crea nessun problema con la Rai.

“Guardì omofobo”.

Nelle mie redazioni l’80% è donna. La capa del gruppo è una donna: Giovanna Flora. Se fossi omofobo metterei da parte le donne, starei solo con gli uomini e prenderei a calci le donne. Non sono così. Io con le donne sono non rispettoso… di più! Lo dicono i fatti, non le parole. Io mi giovo della loro capacità e della loro intelligenza, da sempre, non da ora.

Quel fuorionda andò in onda già ad A(hi) Piroso.

Tanto tempo fa dissero che Guardì grida in regia. Era una serata speciale con dei problemi tecnici, ero un pochino nervoso e in qualcosa ho esagerato. Tutti i destinatari delle mie parole non se la sono presa, ci ho parlato… sono cose vecchie.

Dà del cane a Magalli.

Ero al telefono con Giancarlo dieci minuti fa, per parlare con lui della rubrica di domani a I Fatti Vostri. Con Magalli ci abbiamo riso sopra. A qualcuno probabilmente ha dato fastidio che io abbia recuperato il rapporto con lui, cercano di metterci contro… ma niente di che.

Domani si occuperà della questione a I Fatti Vostri e magari si scuserà per le parole usate?

Ma si figuri se darò importanza a questi poverini in una trasmissione storica che va in onda in Rai da 33 anni…

 Michele Guardì: «Baudo mi volle come autore e lanciammo Beppe Grillo. Chiamai Frizzi e Castagna perché li notò mia moglie». Storia di Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera l'11 ottobre 2023.

Michele Guardì, 80 anni compiuti, alle spalle tanti successi televisivi come autore e regista, l’appellativo di «grande vecchio della tv» non dispiace. Purché non si accompagni all’idea della pensione. «Alla pensione preferisco un grande albergo!». Scherza sornione, e accarezza con lo sguardo la collezione delle statuine di San Calogero sparse nella bella casa romana.

Devoto?

«Devotissimo. Ad Agrigento, la prima settimana di luglio, alla statua, portata in processione, la gente tira i panuzzi. Come faceva con il monaco Calogero, durante la peste, quando passava a chiedere cibo per i poveri e i malati».

Suo padre Ignazio commerciava grano nella sua città natale in provincia di Agrigento: Casteltermini.

«Quando si trattava di dividere il raccolto con il mezzadro, fingeva di assentarsi per lasciargli prendere più della metà che gli spettava».

Che padre è stato?

«Silenzioso. Giusto. Parlava con gli occhi».

La verve l’ha presa da sua madre Angelina?

«Ho preso la sua vena artistica: suonava il pianoforte. Riempivamo i pomeriggi domenicali con le canzoni».

Non andava a giocare a pallone con gli amichetti?

«Avevo il pallone più bello ma a Micheluccio è sempre piaciuto “fare teatrini”».

Oratorio?

«Azione Cattolica. Una volta, a 9 anni, dovevo interpretare la morte di San Tarcisio e pretesi un occhio di bue su di me. Siccome non esisteva, me lo inventai con un tubo e una luce dentro. Per sottofondo volli “Fenesta ca lucive”. Quando mi accasciai, in fondo alla sala qualcuno urlò: “Michelù non morire!”. Capii che era il mio mestiere».

Video correlato: Michelle e Orietta, giudici di "Io canto Generation" (Mediaset)

Ma prima si laureò.

«Per forza. Studiavo ma facevo anche cabaret e una trasmissione radiofonica di satira politica, “L’altosparlante”, con mio cugino Enzo Di Pisa».

E come arrivò a Milano?

«Con una Bmw che partiva solo in discesa, mia moglie Rita e una cassa di abiti...».

Si era sposato?

«Un colpo di fulmine. Lei era venuta giù da Genova, dai parenti: la notai subito al cabaret, in prima fila. Poi ci trovammo per caso in treno, scambiammo i numeri...».

...e così...

«Niente. Passò del tempo. Genova finì sotto l’alluvione. La chiamai. Lei era a spalare fango con altri giovani. La raggiunsi. Dopo nove mesi, 51 anni fa, eravamo sposati».

Con che aspettative arrivaste a Milano?

«Con un lavoro. L’attore Tuccio Musumeci aveva presentato me e Enzo a Pippo Baudo, che ci scelse come autori di una trasmissione abbinata alla Lotteria Italia: “Secondo voi”. Era il 1977. Sarò sempre grato a Baudo».

In quel programma c’era un Grillo agli esordi.

«Baudo lo pescò in un cabaret di Genova. Si presentò al provino con quell’accento lì: “Mi chiamo Grillo. Cosa volevate Dustin Hoffman?”».

Nell’80 lei sfonda con Palcoscenico, in coppia con il grande Antonello Falqui.

«Eravamo instancabili. Ogni inquadratura era studiata a tavolino. Ci mettevamo mesi a scrivere un programma di 10 puntate. Per registrare un balletto di 5 minuti si stava in studio un pomeriggio. Inconcepibile oggi».

Con Studio ’80 la tv pubblica apre a attrici bellissime dei B-movie, come Nadia Cassini, al fianco di un giovane Christian De Sica.

«Cassini doveva esserci più che fare qualcosa... De Sica già riempiva la scena».

In Giochiamo al Varietè (1980) colleziona comici entrati nella storia: da Troisi a Jannacci, da Bramieri a Proietti, da Barra a Montesano.

«L’idea era fare una gara tra regioni d’Italia. Il difficile era scrivere i testi per tutti...».

Com’era Jannacci?

«Generoso. Pianse una volta che mi misi al piano cantando una sua canzone. Mi regalò il suo orologio».

Bramieri?

«Umile. Si meravigliava di essere Bramieri».

Pino Caruso?

«Timido. Che per un comico...».

Ma come si scrive per far ridere?

«Io vado a istinto. Sono un grande spettatore: se una battuta fa ridere me, è buona».

Al Paradise, 1983. Per la prima volta un politico, Giulio Andreotti, è ospite di un varietà in tv.

«Gli avevo scritto senza troppe speranze. Invece venne. Fu spiritoso, come sempre. Poi tornò a fare la rassegna stampa a I Fatti Vostri. In studio stava per scivolare e la mia insostituibile coautrice Giovanna Flora lo sorresse: “Lei è una dei pochi che mi ha toccato la gobba” scherzò».

Nel 1986 con altri autori inventa UnoMattina, il primo programma mattutino della Rai, ancora in onda.

«L’idea era dare un buon risveglio agli italiani parlando di vita quotidiana».

«Quando in cielo c’è ancora la luna/ Unomattina arriva sicura/ porta notizie in tempo reale/ con la famiglia le puoi commentare». La prima sigla la scrisse lei. La cronaca nera non dominava ancora la tv.

«In una delle prime puntate mi opposi a che si parlasse di un suicidio».

È il 1988 e lei, a Europa Europa, porta in prima serata un giovane Fabrizio Frizzi.

«L’aveva notato mia moglie,alla tv dei ragazzi: “Guardalo, è bravo”. Lo era davvero».

Sua moglie le segnala spesso i conduttori?

«Sì, è successo con Alberto Castagna: faceva il Tg con quello sguardo bricconcello».

È mai stata gelosa delle donne con cui lavorava?

«Mai. La nostra forza sta nel fatto che quando entro in casa, il lavoro resta fuori. La mia vita è qui, in questo posto che abbiamo pensato insieme».

Mai neppure una lite?

«Due tre volte abbiamo litigato. La prima fu quando le chiesi di cucinarmi due uova. Me le portò che erano crude. Le feci volare in giardino».

E lei?

«“Michele — mi disse —, questa volta te le rifaccio ma la prossima le prendi sulla testa. Sei un maleducato”. Ed era così. Mi ha educato lei».

Però fa grandi sfuriate.

«Ci provo con la dolcezza. Poi però...».

Con Magalli ha litigato.

«È uno che dice in faccia ciò che pensa. Per una battuta darebbe qualsiasi cosa. Ma ora è tornato ai Fatti vostri con una rubrica».

In quella trasmissione, che esordì nel 1990, lei entra come voce fuori campo.

«Mi diede l’idea Frizzi: “È più facile se ci parliamo in diretta” disse».

Confessi: lei fa spettacolo.

«Mi presto a fare la spalla».

Fa mille cose insieme.

«Ho diretto anche tre trasmissioni contemporaneamente. Avevo un cuscino in macchina e mi ci appisolavo. Una volta non feci in tempo ad arrivare in studio e diressi da fuori, con stacchi alla cieca».

Che programmi ha ora?

«Il mio terzo romanzo: “La ciantona”, parola inventata da mamma per descrivere le voci che si sovrappongono. Parla di uno scrittore che lavora a due romanzi e i personaggi gli si mischiano sotto il naso».

Scrivere le piace.

«È il vero Guardì. Sono come mio nonno che la sera ci incantava con la sua fantasia». 

Estratto dell'articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 4 giugno 2023.

Sul tavolo, nel salone che si affaccia sulla terrazza fiorita, c’è una pila di Domenica del Corriere, con le illustrazioni di Walter Molino. «Prenda la copia sotto» dice orgoglioso Michele Guardì, «c’è l’immagine della processione che si tiene al mio paese, Casteltermini». 

[…] Il regista-autore, scrittore, che da 33 anni guida I fatti vostri, piazza televisiva che veleggia al 10% di share, l’inventore di Unomattina che cambiò le abitudini degli italiani nel 1986, il creatore di Europa Europa, il 5 giugno compie 80 anni. «Nessuna festa, ho chiesto a mia moglie la pasta al pesto». È rimasto fedele alla sua convinzione: «Bisogna entrare nelle case con educazione, la gente che ti accoglie va rispettata».

Tutto qui?

«Poi bisogna scegliere le persone giuste. Io devo tanto a mia moglie Rita, nel suo sorriso trovo la mia serenità. Quando rientro lascio i problemi fuori dalla porta. Mi ha sempre dato buoni consigli». 

Anche in televisione?

«Ah sì. Fu lei a segnalarmi Alberto Castagna, che poi chiamai a I fatti vostri. Mi disse: "Guarda che al Tg2 c’è uno con una faccia così simpatica, sorridente". Aveva ragione. Lo stesso vale per Fabrizio Frizzi. Quando Raimondo Vianello e Sandra Mondaini andarono a Mediaset rimasero scoperte sette prime serate, serviva un nuovo varietà. Così immaginai Europa Europa per celebrare la nascita dell’Unione europea. Pensai a facce giovani: Elisabetta Gardini come volto femminile. Mia moglie mi disse che c’era un giovanotto "simpatico, alto: fa la tv dei ragazzi". Era Fabrizio». 

Come capisce chi ha davanti?

«Non sono un grande autore, neanche un grande regista, ma sono un eccellente spettatore. Riconosco il talento nella semplicità e nella maniera di porsi: se chi ho davanti mi parla da persona normale benissimo, se si rappresenta come vorrebbe essere no».

Ha mai sbagliato?

«Solo una volta, con uno che era molto bravo: Mino Damato. Fu un momento difficile ma abbiamo portato avanti il lavoro. Facevamo Domenica in ». 

Ha detto che "I fatti vostri" lo aveva pensato per le sue zie.

«Oggi avrebbero 110 anni. Per me il pubblico sono le famiglie. Un comico può fare una battuta formidabile ma se si appoggia a un difetto fisico, e penso che tra il milione di persone che ci segue c’è una madre con un figlio con quel difetto, non la fa». 

[…] 

La sua carriera come proseguì?

«Facevo un programma alla radio Rai regionale siciliana, L’altosparlante. Pippo Baudo si incuriosì, l’attore Tuccio Musumeci gli parlò di me e di mio cugino Enzo Di Pisa. Ci portò alla Lotteria di Capodanno, il programma era Secondo voi. Devo a Baudo se oggi sono qui, gli sarò grato per sempre». 

Lavora in Rai da una vita: che pensa del ribaltone?

«Ho visto passare venti direttori generali che hanno dato all’azienda quello che chiedeva. Quando si scatenano polemiche me le aspetto: non mi stupisco e non mi rammarico.

Vengo dal paese di Pirandello, è il gioco delle parti. Si cambia».

Ma le modalità?

«Non mi stupisco e non giudico. Ora mi dirà: se qualche volto importante va via pensa la Rai ne soffrirà? Certo mancherà qualcosa, ma è sempre stato così e qualcun altro arriverà». 

La televisione è abitudine?

«È una forma di abitudine ma devi dare un prodotto gradito, se no lo spettatore cambia canale». 

Ha avuto tanti conduttori: chi ricorda in modo particolare?

«Tutti hanno contribuito al successo dei programmi». 

E Giancarlo Magalli?

«Abbiamo rapporti normalmente cordiali». 

Non si è dispiaciuto per le liti con Adriana Volpe?

«Certo che mi sono dispiaciuto ma più di tanto non ho potuto fare». 

A "I fatti vostri", ora condotto da Salvo Sottile con Anna Falchi, le donne sono di contorno. Perché non c’è stata una conduttrice?

«A quell’ora c’è il pubblico femminile e credo che un conduttore abbia un impatto diverso, almeno per il mio programma». 

Antonella Clerici ha dalla sua il pubblico femminile su Rai 1.

«È vero, Antonella è gradita alle donne, cosa molto bella». 

Nel periodo più buio per lui chiamò Amadeus a "Mattino in famiglia". Immaginava il successo?

«Lavorando con lui non ha mai avuto dubbi, era bravo. Io ho riaperto il cancello dello stadio ma in campo ha giocato lui. Mi aspettavo che avrebbe conquistato Sanremo. Le persone portano in tv anche la propria serenità esistenziale, lui è appagato nel privato. Conta».

Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” Il 6 marzo 2023.

(...)

Michele Guardì.

Capelli bianchi curati, giacca e cravatta vissuti come necessità, un lontano ricordo da avvocato (“ero bravino”), il sogno della televisione, l’incontro con Baudo (“gli devo tutto”) e il consolidato ruolo di talent scout: da lui sono passati Alberto Castagna, Tiberio Timperi, Fabrizio Frizzi, Massimo Giletti e altri. 

Ad esempio?

C’era Funari che portava avanti uno stile di televisione urlata e aggressiva e per me era un errore; io sono un ottimista, uno pacifico e pure superficiale. Anzi, la superficialità mi ha permesso di vivere sereno, perché non approfondisco gli aspetti negativi che mi capitano, comprese le cattiverie.

Strategia vincente.

Mi godo la serenità di tornare a casa, cenare con mia moglie e ridere insieme.

Guardate la tv?

Giusto il telegiornale, Porta a Porta e qualche film.

 Sanremo?

Quello sì. Amadeus è uno dei suoi pupilli: gli ha salvato la carriera, così racconta.

È stato generoso ad ammetterlo in un mondo dove non si è grati a nessuno; quando lavoravamo insieme non mi ha mai creato un problema.

 Ora c’è Salvo Sottile.

È entrato in punta di piedi e ce la sta facendo: è l’uomo del domani.

Incoronato.

Quando alla fine della puntata vado da Giovanna Flora, capo autrice, ogni giorno le dico “che bello che è stato”; negli ultimi tempi non mi capitava più.

Come mai?

Con Magalli c’erano delle incomprensioni.

 Tra Magalli e la Volpe da quale parte stava?

Nessuno dei due: non amo vedere i figli litigare; (ci ripensa) devo ammettere che Magalli inizialmente ha esagerato, poi lei ha drammatizzato un po’ più del necessario.

 (...)

Si sente sottovalutato?

Sempre stato sopravvalutato, sono abile a vendermi.

Attaccato dai critici.

Da uno in particolare; è una persona invidiosa, per la quale ho comprensione al limite della pietà.

Si riferisce ad Aldo Grasso del Corriere?

Ho portato i Promessi sposi a San Siro, con ventimila presenti in piedi a urlare il mio nome. Questo critico ha definito il testo “cretino”.

 Quindi?

Quando troverà ventimila persone, in piedi, a urlare il suo nome per un articolo allora parleremo da pari a pari.

 I nemici cosa le imputano?

Non ho né nemici né avversari, solo persone che mi davano del provinciale.

E...

Scientificamente amo la provincia; (ci ripensa) un altro critico che parlava male di me è stato Beniamino Placido su Repubblica. Mi dava dell’ignorante.

 Ha fatto svenire Giletti.

Insistevo su certi punti e lui niente. Io ancora. E lui niente. A un certo punto è svenuto ma secondo me l’ha fatto apposta; (pausa) però è uno bravo.

 A svenire?

Sviene bene ma è comunque bravo.

 Ai tempi di Domenica In si narra di liti con Mino D’Amato.

Ci scontravamo perché era un accentratore e lo disturbava tutto quello che non partiva da lui; poi allora alla co-conduzione c’era Eliabetta Gardini e lui la viveva con fastidio, voleva stare da solo. Non eravate amici. No, però la celebre camminata sui carboni ardenti è stata un’idea mia: negli Stati Uniti avevo visto una scuola dove riuscivano a pungersi senza sentire il dolore; (silenzio) alla fine lo spettacolo dei carboni non mi è piaciuto, lui la fece apparire come un qualcosa di simile alla magia tanto da venir definito “Mino Damianto” da Grillo.

 Altro pupillo: Tiberio Timperi.

Bravissimo, è quasi un parente, ma con lui ho qualcosa da ridire rispetto al colore dei pantaloni e di certe camicie.

Chiede a Fox l’oroscopo?

No. Proprio mai.Cerco di restare convinto di me stesso. Lo ascolto e basta.

Perché non ha mai curato Sanremo?

Una volta un direttore mi chiama nel suo studio per offrirmelo. Entro ed esordisce: “Ho il nome delle presentatrici”. A quel punto apro la borsa, fingo di aver lasciato il progetto a casa e me ne vado.

Perché?

Mi disturbava l’idea che avessero già deciso le presentatrici: chissà cosa mi sarebbe capitato andando avanti.

 Quante telefonate arrivano per chiedere di partecipare alla trasmissione?

Oggi quasi niente, una volta ricevetti una telefonata da un ministro per piazzare una ragazza accanto a Frizzi.

 (…)

Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per la Stampa il 21 giugno 2023.

Non perdere mai l'abitudine di guardarsi intorno e di considerare quello che accade ogni giorno, sotto i nostri occhi, mentre siamo impegnati a fare altro. Per tutta la vita, iniziata nel '46 a Ascoli Satriano, Michele Placido si è impegnato a smentire il suo cognome, perché tranquillo non è mai stato, nelle scelte di vita e nelle dichiarazioni a viso aperto: «Si paga sempre il prezzo della libertà di pensiero, io però sono convinto che si debba andare avanti in nome di ciò in cui si crede, confrontandosi con gli altri, anche se hanno una visione diversa».

Ai successi di quest'anno, dopo il David Giovani, si aggiunge il Nastro Speciale dei Giornalisti Cinematografici Italiani che premia il suo ultimo film L'ombra di Caravaggio e la prova da protagonista in Orlando di Daniele Vicari. Mentre si prepara a fare l'ospite d'onore al Bardolino film festival, ripercorre una carriera iniziata all'alba degli Anni 70, nei film dei grandi del cinema italiano, da Luigi Comencini a Mario Monicelli, e poi esplosa in tv grazie al successo della Piovra, la madre di tutte le serie sulla mafia, dove nei panni del Commissario Cattani, riuscì a mobilitare, nella puntata in cui sarebbe morto, oltre 17 milioni di telespettatori.

Una grande soddisfazione, anche se lei ha sempre detto che c'era stato un rovescio della medaglia. È vero?

«Sì, La Piovra è stato un successo clamoroso, internazionale, ma io, proprio a causa di quella fiction, sono stato a lungo snobbato da una certa critica. Ci sono registi che nascono consacrati e poi vanno avanti in ogni caso, anche se al botteghino soffrono». 

(…)

Alla recitazione lei ha sempre unito la passione per il sociale. Perché?

«Un artista deve sempre informarsi, sapere, leggere su quello che accade, il sociale mette alla prova la sensibilità di noi artisti. Il cinema e il teatro possono dare una grossa mano alla riflessione sui temi più importanti. Per esempio so che Matteo Garrone ha appena girato un film bellissimo, riguardante proprio le problematiche politico- sociali che mettono in crisi l'Europa. 

Anche nell'ultimo, gravissimo, episodio dei cento bambini morti nel naufragio pesa la negligenza europea. Non c'è condivisione, l'Italia è stata lasciata sola, il problema non è italiano, ma europeo. Oggi ho letto che Macron e Meloni finalmente hanno firmato un accordo per accelerare i tempi delle soluzioni, finora succedeva che Francia e Germania continuavano solo a respingere i migranti, il punto è che tutti devono farsi carico della questione». 

(...) 

Qual è stato l'incontro più importante della sua vita professionale?

«Quello con Marco Bellocchio, che mi volle in Marcia trionfale quando ero poco più che un ragazzino. Mi ha fatto capire l'importanza etica e morale del cinema. Marco è il mio grande maestro e lo è tuttora, sono onorato della sua stima». 

Ha rimpianti?

«Vengo da un piccolo paese del Sud, eravamo otto figli, mio padre è stato un geometra disoccupato. Quando sono entrato all'Accademia mio padre provò un enorme orgoglio, andò in piazza urlando "mio figlio è entrato nella stessa scuola della figlia di Vittorio Gassmann, di Nino Manfredi, di Carmelo Bene". Lo guardarono tutti, dicevano "l'ingegnere è diventato pazzo". Purtroppo è morto giovane, a 50 anni, e non mi ha mai visto né sul palcoscenico, né sullo schermo, questo è il mio rimpianto».

Nel discorso di ringraziamento ai David lei ha ironizzato dicendo "Placido ha il Parkinson". Perché l'ha pronunciata?

«Sa come siamo noi artisti? Eravamo arrivati alla fine di una premiazione lunga, ero scivolato sul fondo della poltrona, riflettevo… sul palcoscenico ho scherzato. Ci sono cascati in tanti, il giorno dopo mi hanno chiamato amici, colleghi, chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa. Gli ho detto di non preoccuparsi, non ho bisogno di niente, solo di me stesso».

Michele Riondino: «Il mio film sull'inferno dell'Ilva è scomodo. Anche per una certa sinistra». L'attore e attivista esordisce alla regia con "Palazzina LAF", film sugli ottanta operai mobbizzati dall'acciaieria e confinati in un edificio “manicomio”. «Mio padre è un ex operaio Ilva e seguo la vertenza da quando ho 15 anni. Ma per molti non avrei dovuto fare questa pellicola». Claudia Catalli su L'Espresso il 21 novembre 2023

La cultura operaia gli appartiene, l’ha sempre respirata in casa e ha deciso di farci un film. Si intitola “Palazzina LAF” il primo film da regista dell’attore tarantino Michele Riondino, racconto-denuncia di quel confino in fabbrica nel complesso industriale dell’Ilva di Taranto che fu riconosciuto come il primo caso di mobbing d’Italia. Era il posto in cui 79 lavoratori altamente qualificati – ma considerati scomodi - nel 1997 furono demansionati e costretti a passare intere giornate senza fare nulla, in quello che in tribunale fu definito “una specie di manicomio”. Dal 30 novembre al cinema, lo vede calarsi nei panni del protagonista Caterino, un operaio ingenuo trasformato in spia dal dirigente aziendale (Elio Germano) al fine di individuare i lavoratori di cui liberarsi. 

Questo film nasce da una vita spesa a protestare per le ingiustizie perpetrate a Taranto, dall’età di?

«Avevo 15 anni quando facevamo i primi scioperi e cortei (oggi ne ha 44, ndr). Dal 2012 partecipo in modo più continuativo come attivista e in tutti questi anni mi sono occupato della materia di vertenza dedicata a Taranto e all’acciaieria attraverso una serie di iniziative. Ho partecipato a diversi progetti legati alla protesta, tra concerti, interviste, dibattiti e documentari, ma non avevo ancora usato il mio linguaggio. Nel frattempo ho potuto raccogliere il materiale per raccontare una storia che avesse a che fare con la genesi del problema. Cioè quando a Taranto si è iniziato a considerare il profitto come unica legge, per mascherare poi l’abuso nei confronti dei lavoratori». 

Lei è un operaio mancato?

«Se non fossi partito a 18 anni sarei entrato in fabbrica a sostituire mio padre nel reparto in cui lavorava». 

Invece è partito, è diventato attore e adesso regista, pronto a battersi per gli operai e raccontarne la violenza del tempo “sospeso” nei così detti reparti lager.

«Prima che si sapesse cosa fossero, gli operai come mio padre, mio zio e gli amici di famiglia me ne parlavano come di un paradiso. Non avevano gli strumenti per capire il disagio di vivere un tempo sospeso come quello della Palazzina LAF, dove era vietato fare qualsiasi cosa che non fosse aspettare. I vigilantes sequestravano libri, giornali, carte da gioco, palle, tutto era proibito. Una tortura a tutti gli effetti, eppure è il tempo sospeso che la classe operaia vive ancora oggi: ci sono oltre quattromila lavoratori dell’Acciaieria in cassa integrazione, è una sorta di nuova Palazzina LAF, costretti anche loro a non poter fare nulla».

Suo padre ha visto il film? Come ha reagito?

«Non l’ha voluto vedere fino alla proiezione in sala alla Festa del Cinema di Roma, dove il film è stato presentato in anteprima. È rimasto molto colpito. Durante le riprese era sempre attento a farmi notare come fare un film su questo tema fosse rischioso per me e si accertava che raccontassi le cose in maniera giusta». 

Che cosa c’era dietro a quel timore?

«Qualcosa che mi succede da anni ormai: c’è chi dice che io non possa parlare di Taranto. Certi lavoratori e sindacati mi consigliano di non occuparmi di un tema che per loro non conosco, mi ripetono: “Continua a fare cinema, non politica”. Ho deciso di realizzare questo film perché è il mio modo di fare politica nel mio linguaggio. Ora cosa possono dirmi, di non fare neanche cinema?». 

Quanto le costa esporsi politicamente come attore?

«Non è facile, io non faccio attivismo per il gusto di farlo, o perché sia chissà quale fervente ambientalista, cosa che sono soprattutto per lasciare un mondo migliore a mia figlia. Sono figlio di operai e rivendico la cultura degli operai. Sono soddisfatto del mio percorso lavorativo, dico parecchi “No” e posso farlo. Certo se ai tempi di Gian Maria Volonté ci si accapigliava per le sceneggiature facendo a gara per firmare la più scomoda, oggi manca un tipo di cinema critico, scomodo. La politica stessa non è più scomoda, a sinistra c’è una sorta di pudore, imbarazzo e morbidezza che a destra non c’è. E il cinema è il riflesso della società che viviamo». 

Se ci fosse una “Palazzina LAF” nel cinema ci si ritroverebbe dentro?

«Preferisco non pensarci, di sicuro sarei con Elio Germano anche lì, quindi in buona compagnia». 

Ha voluto Germano in questo suo primo film, nei panni di un cinico dirigente. Com’è andata?

«Elio è stato il primo a leggere la sceneggiatura, insieme al regista Daniele Vicari. Sono due persone a cui tengo, che ne capiscono più di me e di cui avevo bisogno di sentire l’opinione. Appena letta la sceneggiatura è stato Elio a rendersi disponibile, convincendomi a interpretare Caterino». 

Che cosa ha Caterino in comune con il suo Vincenzo Florio della serie “I Leoni di Sicilia”?

«Una forte ambizione, sono due uomini del Sud che provano a farcela, anche a scapito degli altri. Io sono meno ambizioso: ambisco solo a continuare a fare il mio lavoro, per il resto le sfide sono sempre con me stesso, non con gli altri». 

Dopo sette anni di ricerche e lavoro il suo film sta per approdare in sala: è più forte l’emozione o la paura?

«Il timore è che possa essere facilmente boicottato: in tutti questi anni, quando ho avuto modo di raccontare la mia versione dei fatti, ho sempre incontrato ostracismo. Ho trovato muri e orecchie sorde anche nelle trasmissioni che tendono ad affrontare temi che mi sono vicini, a me, che sono di sinistra fin troppo. È un fatto: chi come me racconta Taranto in un determinato modo non viene ascoltato, le nostre verità sono scomode anche per una certa sinistra». 

Il cinema italiano in compenso sta tornando politico, penso alla commedia “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi che sta sbancando al botteghino.

«Sono molto felice per Paola. Abbiamo girato i nostri film nello stesso periodo, ci sono coincidenze che mi fanno sorridere: entrambi sono film sul sociale, non vogliono essere drammatici a tutti i costi perché la realtà che raccontano è già drammatica e contengono immagini di repertorio. Si sentiva la mancanza di un cinema politico popolare: magari si tornasse a dire la propria e non aver paura di esporsi in Italia. Sarebbe bello che anche il mio film fosse visto, così da poterne firmare un altro ancora più scomodo».

Michelle Hunziker: «Nonna e single: sono felice così. Tomaso Trussardi? Rancore e rabbia sono tempo perso». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023.

La conduttrice torna su Canale 5 con il suo one woman show «Michelle Impossible & Friends». «Volevo fare l’interprete, sono cresciuta parlando quattro lingue ma il diploma qui non valeva»

«Il varietà vecchio stile è sempre stato il mio sogno; faccio parte di quella generazione che è cresciuta con il varietà vero — stimolata da show come Mille luci — e metterlo in scena in modalità 2.0 è una grande sfida. Il varietà non è solo canto e ballo, ma anche emozioni, risate, comicità, divertimento». Arriva per tre mercoledì in prima serata su Canale 5 Michelle Impossible & Friends, la seconda edizione del one woman show di Michelle Hunziker . Ospiti come fosse Sanremo: Eros Ramazzotti, Loredana Bertè, Max Pezzali, Alessandro Siani, Bisio, Favino, Il Volo, Articolo 31, Belén, Pio e Amedeo, Chiambretti...

Il varietà al giorno d’oggi è tv di resistenza...

«Siamo in tanti a combattere perché la tv generalista possa sopravvivere in un mondo che offre tante alternative. La soluzione e l’ambizione si trovano nel riuscire a creare un appuntamento, un evento, come può essere il Festival di Sanremo o una grande partita di calcio; generare attenzione e attesa intorno a qualcosa che “va visto”. I social possono anche aiutare in questo senso, con i contenuti virali, con i meme: non vanno visti solo come un mezzo che sottrae pubblico alla tv».

Ci saranno anche il suo ex marito Eros Ramazzotti e sua figlia Aurora. La accuseranno di Parentopoli...

«Ma quale Parentopoli! Celebreremo Eros e sarà anche molto emozionante sentirlo parlare di nonnitudine e di tutto quello che comporta. Sarà un momento estremamente gioioso e divertente».

Sua figlia Aurora la sta per rendere nonna a soli 46 anni. Il sostantivo «nonna» come lo vive?

«Non mi fa impressione, anzi ho rotto tanto le scatole a mia figlia in questo senso. È stranissimo se penso al bambino che sta per arrivare, ho solo 19 anni in più di Auri, sto vivendo la sua gravidanza con un’intensità incredibile, come una quarta maternità, io ho ancora due bambine piccole da crescere (avute da Tomaso Trussardi, ndr), avrò una casa piena di bambini... Sono fiera di poter essere una nonna così giovane perché posso far casino con mio nipote: lo porterò a sciare, a fare sport, ho ancora tanta energia ».

Molti invidiano anche il suo rapporto con Eros. Come si fa a andare d’accordo con un ex?

«Il più grande investimento che uno possa fare nella propria vita è riconoscere che il rapporto genitoriale è un grande regalo e che bisogna investire in quello. Ci vuole tempo ma spero che sia così anche con Tomaso: riuscire a volersi bene e capire che bisogna salvare le cose belle è il mio obiettivo. Per me è naturale».

In molte ex coppie però prevalgono il rancore e la rabbia...

«È tempo sprecato, inutile. Nessuno è perfetto, noi per primi. Le cose accadono: come fai a non amare quel pezzo, a non salvarlo? È chiaro che all’inizio c’è il dolore, ma con il tempo se ne va. Io non conosco proprio quei sentimenti, sono sempre molto sincera durante i rapporti, dico sempre quello che penso. Forse questo aiuta a buttare fuori tutto».

Il suo attuale stato emotivo?

«Sono single e contenta così, sono in un momento in cui mi basto, sentimentalmente va bene così».

Anche la carriera va bene: mai ricevuto colpi bassi?

«Chi non ha ricevuto colpi bassi, torti, porte in faccia? Ma io ho la memoria selettiva verso le cose belle e tolgo dalla mente tutto quello che è stato negativo. Sono comunque esperienze che ti forgiano e ti danno la possibilità di capire quale direzione prendere. I colpi bassi fanno bene, impari a rimanere all’erta».

La sua memoria selettiva le ha fatto dimenticare anche le critiche?

«No, il fil rouge della mia esistenza nel mondo dello spettacolo si riassume in due frasi: Quanta gioia inutile. Cosa avrà mai da ridere? Ne ho sentite di tutti i colori sulla iena ridens: ma io sono fatta così, bisogna rispettare la propria natura. Dietro un sorriso ci può essere timidezza, inadeguatezza, paura o il modo di sfuggire a una situazione imbarazzante. È sempre stato il mio modo di andare oltre alle cose, anche nei momenti più difficili mi ha aiutato».

I suoi genitori cosa prevedevano per lei?

«Sono cresciuta in un Paese come la Svizzera dove l’intrattenimento non è in cima alla lista dei desideri. Io volevo fare l’interprete, sono cresciuta parlando quattro lingue, per me è normale. Solo che il mio diploma qui non valeva e ho dovuto ri-iscrivermi al liceo. Avevo 17 anni e i miei compagni 14. È stato un trauma e ho dovuto percorrere altre traiettorie».

Estratto dell’articolo di Stefania Ulivi per corriere.it il 12 marzo 2023.

Non è mai troppo tardi. Se c’è qualcuno che incarna alla perfezione la massima del maestro Manzi è Michelle Yeoh, arrivata dopo 40 anni di carriera a raccogliere critiche, elogi e premi che, orgogliosa sessantenne (compiuti nell’agosto scorso) è a un passo dalla vittoria del suo primo Oscar grazie al ruolo di Evelyn Wang nel caso cinematografico dell’anno, Everything Everywhere All at Once dei registi Daniel Scheinert e Daniel Kawn, pronti a fare cappotto anche agli Academy Awards il 12 marzo dove sono in lizza in undici categorie (tra cui miglior film e miglior regia), dopo aver guadagnato già 254 (fonte Wikipedia) riconoscimenti in questa stagione dei premi. 

[…] «Un ruolo così folle era impossibile da rifiutare. I miei 40 anni di carriera sono stati quasi la prova migliore per questo ruolo. Le madri sono le vere supereroine – ha spiegato in una delle innumerevoli interviste, ormai più ricercata tra le star di Hollywood —. Portano il peso del mondo sulle spalle ogni giorno. Tante donne lo fanno. Vanno avanti senza sosta, ma nessuno dà loro il mantello del supereroe».

 […]  È la prima attrice asiatica a ottenere una candidatura alla statuetta, se la gioca con la favoritissima Cate Blanchett (con già due statuette in tasca) di Tár, Michelle Wiliams mamma di Spielberg in The Fabelsman, la Marilyn di Ana de Armas (Blonde) e Andrea Riseborough (A Leslie). Yeoh è certa che sia il suo turno: […] 

Le prove dell’eventuale discorso di accettazione Yeoh le ha già fatte per i premi già conquistati, come lo Screen Actors Guild Award, dove ha parlato in nome della comunità asiatica: «Non è solo per me, ma per ogni ragazzina che mi somiglia. Grazie per avermi invitato al tavolo, ne abbiamo bisogno, vogliamo essere visti, essere ascoltati».

Veramente, non sognava di fare l’attrice ma la ballerina. Nata a Ipoh in Malesia nell’agosto 1962, in una famiglia cinese, Michelle Yeoh Choo Khe, ha iniziato a studiare danza a 4 anni, e quando si sono trasferiti in Gran Bretagna è riuscita a entrare alla Royal Academy di Londra. Una caduta interrompe quel sogno e riparte dal via, ventenne, vincitrice del concorso d Miss Malesya. La prima apparizione sullo schermo è al fianco di Jackie Chan […]che diventerà uno dei suoi partner nei film di arti marziali di Hong Kong che l’hanno resa famosa con il nome d’arte Michelle Kahn[…] Dopo un brutto incidente sul set di Magnificent Warriors decide di ritirarsi. Sposa l’imprenditore di Hong Kong Dickson Poon. Lo stop dura quanto il matrimonio, tre anni e mezzo.

All’orizzonte l’aspetta 007. È accanto a Pierce Brosnan ne Il domani non muore mai […]Tra i suoi estimatori Ang Lee che la volle per La tigre e il dragone e ora fa il tifo per lei. […]Si è data una spiegazione del successo, inaspettato e straordinario, del film dei Daniels. «Credo che abbia toccato il pubblico proprio perché è caotica. La vita è un caos. Imprevedibile». 

 Prevedibile, invece, l’interesse cresciuto intorno a lei. Molta carne al fuoco: titoli come The School for Good and Evil per Netflix, la serie American Born Chinese per Disney +, il prossimo Transformer e il nuovo adattamento da Agatha Christie di Kenneth Branagh, A Haunting in Venice. […]

Stracciata Cate Blanchett, avversaria super favorita con Tar. Chi è Michelle Yeoh, la prima attrice asiatica a vincere un Oscar: “Lo dedico a mia madre e a tutte le mamme del mondo, le vere super eroine”. Redazione su Il Riformista il 13 Marzo 2023

Non è di certo una sconosciuta, almeno non ai cinefili, ma per molti la sua vittoria agli Oscar è stata una sorpresa. Michelle Yeoh è stata infatti ex Miss Malesia e Bond girl, ha partecipato al franchise di Star Trek e ai cinecomic Marvel, eppure il suo più grande riconoscimento personale come attrice è arrivato oggi, quando ha compiuto 60 anni, con la vittoria come attrice protagonista del Premio Oscar per Everything everywhere all at once, pellicola che si è aggiudicata ben sette statuette.

Michelle Yeoh è la prima donna asiatica (malese con origini cinesi) a vincere l’Oscar nella categoria Miglior attrice protagonista, ed anche una delle pochissime a riuscirci alla prima candidatura per entrare nella storia della settima arte. Prima di lei solo Merle Oberon nel 1935, che però si è sempre fatta passare per caucasica, e la storia della sua vittoria rimane ancora oggetto di dibattito.

Baciando la statuetta degli Academy Awards tra le lacrime Yeoh ha dedicato il premio ai bambini e alle bambine di tutto il mondo perché non smettano di sognare in grande, e poi ha ringraziato le mamme di tutto il mondo, le vere eroine a cui ispirarsi.

Il Times già l’hanno scorso l’ha inserita nella top 100 delle persone più influenti al mondo ma la consacrazione definitiva è arrivata come protagonista della commedia surreale Everything Everywhere at all once, con il ruolo che l’ha vista negli ultimi giorni come favorita dei bookmakers nonostante l’agguerrita competizione di Cate Blanchett che con Tar ha vinto la Coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia.

Yeoh nei giorni passati ha condiviso e poi cancellato un articolo di Vogue che nel titolo si chiedeva se sarebbe stata o meno la prima attrice non bianca a vincere dopo 20 anni (la terza di colore, dopo Halle Berry e Viola Davis). Un post che violerebbe le regole per cui i candidati non possono menzionare i concorrenti. Una controversia conclusasi comunque con un nulla di fatto.

Prima di vincere il Golden Globes e il Sag 2023, l’allora ventenne Yeoh ha vinto il titolo di Miss Malesia. Archiviato il percorso da ballerina dopo un incidente, subito dopo ha messo il suo corpo al servizio delle arti marziali anche davanti alla macchina da presa quando ha interpretato la Bond girl in 007 Il domani non muore mai. Poi i ruoli nelle pellicole come La tigre e il dragone e Memorie di una Geisha. Nel suo curriculum anche lavori nei franchise di Star Trek e nei Marvel Cinematic Universe. Infine anche commedie come l’esilarante Crazy & Rich. Una vera performer che ha sperimentato vari generi, reinventandosi e adattandosi ai cambiamenti.

Estratto da motorbox.com il 13 marzo 2023.

Nella notte italiana, o meglio sarebbe dire stamattina presto, è andata in scena la 75° serata di gala per la consegna degli Academy Awards, per gli amici degli ''Oscar'' del cinema. I nottambuli più attenti si saranno accorti che in prima fila, in mezzo al cast del film Everything, everywhere, all at once, vero trionfatore della notte degli Oscar, era seduto un volto familiare a tutti i tifosi italiani della Ferrari e, più in generale, agli appassionati di sport motoristici, quello di Jean Todt, ex navigatore dei rally e direttore di Peugeot tra gli anni '60 e i '90, numero uno della Scuderia Ferrari tra il 1993 e il 2009, gli anni d'oro di Michael Schumacher, e presidente della FIA per ben 12 anni, dal 2009 al 2021.

C'è chi ha pensato che dopo aver mietuto successi nel mondo del motorsport, sollevando trofei e ricoprendo cariche prestigiose, si sia dato al cinema, magari al ruolo di produttore, ma la verità è molto pià semplice: Jean Todt è il compagno di Michelle Yeoh, l'attrice malese di origini cinesi che ha vinto l'Oscar (la prima asiatica a riuscirci) come migliore attrice protagonista proprio per il film in questione, vero mattatore della serata.

 (…)


 

Mika: «Il mio pianoforte ed io, quelle prime lezioni a Parigi, la fuga (insieme) a Londra. Solo lui sa alcune cose di me». Mika su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2023

«Era l’unico con cui potevo aprirmi in completa sincerità, per dar sfogo alle mie paure, piangere in privato, ma senza sentirmi solo. Con lui ho scritto più della metà delle mie canzoni»

Il pianoforte, a casa mia, c’è sempre stato. Dapprima marrone, un piano verticale noleggiato in un negozio del 13° arrondissement. Avevo cinque anni e vivevamo a Parigi. Su insistenza di mia madre, le mie sorelle e io abbiamo tutti preso lezioni di pianoforte. Fu allora che due signore entrarono nella nostra vita, due sorelle sulla sessantina, approdate in Francia dall’Est Europa a pochi anni l’una dell’altra. Una portava i capelli in una crocchia tirata e lucida; l’altra li lasciava sciolti, lunghi e selvaggi. Bevevano il caffè e ogni loro gesto sembrava sincronizzato, in una specie di contrappunto orchestrato di cenni, sguardi e accenti. Una cominciava una frase esattamente una battuta prima che l’altra avesse finito di parlare: parole e segni esistevano soltanto all’unisono. Se avessero voluto fare altrimenti, sarebbero parse incoerenti e forse un po’ folli: era l’insieme a tenerle in equilibrio.

Una sincronia, la loro, che veniva esaltata da un insolito metodo di insegnamento. La sorella dello chignon si sedeva alla mia destra e si occupava esclusivamente della mia mano destra, mentre quella dalla chioma selvaggia si sedeva a sinistra e pensava a quel lato. Ognuna si rivolgeva alla mano di cui si era incaricata, e talvolta la mano parlava per loro, la sinistra alla destra, arrivando a chiederle di fare questo o quello.

Pare surreale, lo ammetto, ma era l’unica versione di una lezione di pianoforte che avessi conosciuto, e non ci trovavo niente da ridere. Anzi, era magica. Le sorelle erano le marionettiste in uno spettacolo con quattro protagonisti: la mia mano sinistra, la destra, il pianoforte, io.

Quando lasciammo Parigi, in gran fretta, avevo sette anni. Problemi finanziari non avevano lasciato ai miei genitori altra scelta se non abbandonare il Paese e cercare fortuna altrove. Quasi tutte le nostre suppellettili vennero vendute, ma due mesi prima della partenza il negozio del pianoforte era fallito, aveva abbassato le saracinesche ed era stato messo all’asta. Fu così che lo strumento restò in nostro possesso, una delle poche cose che ci accompagnarono nel trasferimento a Londra, assieme a pentole e stoviglie, tavoli e sedie. Alle nostre spalle Parigi e le due maestre.

Quando finalmente il pianoforte arrivò a Londra aveva un’aria stranita, come un amico in visita da un altro mondo. Fu sistemato in un locale interrato, davanti alla finestra, e lo dipingemmo di bianco, come tutti gli arredi - pochi -che ci avevano seguito da Parigi. Per «cominciare una nuova vita», diceva mia madre.

E davvero ricominciò lì, la mia nuova vita, seduto al pianoforte ora bianco, nell’interrato dove mi rintanavo a suonare, lontano dal resto della famiglia. Lo spettacolo musicale delle marionette, che aveva deliziato le mie lezioni francesi, svanì all’istante e senza le due maestre io cominciai a fare la conoscenza diretta dello strumento che mi stava davanti. Non era più un’opera per quattro attori, ma semplicemente una conversazione a due, il piano ed io, e come in tutte le conversazioni normali, il piano suonava e io rispondevo , cantando.

I nostri dialoghi suonati e cantati riprendevano ogni giorno, per ore e ore, e proseguirono nelle settimane, mesi e anni successivi. Era, quello, l’unico luogo dove potevo aprirmi in completa sincerità, per dar sfogo alle mie paure, piangere in privato, ma senza sentirmi solo. Dove potevo esprimere i miei desideri, quasi come accarezzare una lanterna magica e veder apparire il genio. Dove potevo parlare di soldi, di sesso, di amori immaginari. A tu per tu con il mio pianoforte si è sempre dipanata una conversazione intensa. Col tempo, gli argomenti si sono fatti più complessi e le risposte del pianoforte più articolate, ma voce e piano hanno conservato il loro equilibrio, uno al servizio dell’altra, abbracciati nella melodia.

Restavo accanto alla finestra dell’interrato: se guardavo fuori, in su, vedevo le gambe e i piedi della gente che camminava lungo il marciapiede. Gli altri erano là, fuori, il pianoforte ed io ero eravamo nel nostro mondo. Quella sensazione di calore che ti pervade quando riesci, dal nulla, a costruirti il tuo mondo, non la abbandoni più una volta che l’hai sperimentata. Non è un’emozione normale, io la chiamo super emozione, capace di trasformarti in eroe o mostro, in una fragile foglia tremante o un dio raggiante seduzione. Non avrei mai rinunciato al mio pianoforte, sapevo che questi scambi musicali avrebbero salvato la mia vita.

Il pianoforte ha qualcosa di straordinariamente versatile, una qualità ineguagliata da altri strumenti. Quando premi un tasto, ne emerge una nota perfetta. Premi con più forza, o delicatamente, con un tocco breve o tenuto, e la nota sarà sempre precisa e intonata. È lo strumento per tutti, dal pub londinese ai jazz club fumosi, fino alle filarmoniche più prestigiose. Attorno al pianoforte si costruiscono universi o si raccolgono gli affetti famigliari, ma non ce n’è uno che assomigli a un altro, per voce o personalità.

Il mio vecchio pianoforte è ancora a casa, a Wetherby Place. La vernice bianca si è scheggiata, ha messo a nudo il vecchio marrone. È ancora lì, stesso posto, accanto alla finestra, in attesa del prossimo incontro. Con lui ho scritto più della metà delle mie canzoni, eppure le sue possibilità sono illimitate, come infiniti sono gli argomenti. So che può sembrare assurdo, ma sento che era destino incontrarci a Parigi, e poi che io fossi lì, con lui, accanto alla finestra di Londra, lo sguardo rivolto al mondo fuori, con la gente che va su e giù.

Ci sono dialoghi che lasciano la stanza e finiscono negli AirPod e nei telefoni di quelle stesse persone che passano davanti alla mia finestra, mentre altre conversazioni restano strettamente private. Canzoni e parole, belle, struggenti, che rimarranno per sempre racchiuse tra quelle mura e non saranno mai ascoltate da nessuno. Ecco il segreto che alimenta le nostre conversazioni quando sono a tu per tu con il mio pianoforte: ci sono cose che resteranno custodite nel mistero.

Mika compie 40 anni, il giullare del pop diventa grande. Carlo Antini, Parole e musica come ascisse e ordinate, su Il Tempo il 18 agosto 2023

Cosmopolita, poliglotta, pop, esuberante, imprevedibile, caleidoscopico Mika. Ci ha abituato a vivere e fare musica sull’orlo della creatività più spinta. Autore e interprete che ha messo in musica un’infanzia travagliata e illusioni da trasformare in note e colori. «Grace Kelly», «Good guys», «Boum Boum Boum», «Jesus to a child», «Relax, take it easy», «Love today», «We are golden», «Kick ass (we are young)», «Stardust» e «Blame it on the girls». Sono solo alcuni singoli di successo che lo hanno proiettato in vetta alle classifiche. Con l’impegno e la testardaggine che l’hanno portato a imporsi sui produttori discografici in difesa di una visione del pop che non doveva scendere a compromessi con cliché rassicuranti o mode fugaci. La sua biografia nasconde storie sull’orlo del precipizio, l’infanzia dorata a Beirut, la fuga a Parigi dopo lo scoppio della guerra civile nel Paese mediorientale, suo padre tenuto in ostaggio per 7 mesi in Kuwait dopo l’invasione di Saddam Hussein, i creditori alla porta, una seconda fuga a Londra e l’auto in cui dormiva con la mamma davanti ai club dove si sarebbe esibito il giorno dopo.

Michael Holbrook Penniman Jr. (questo il suo vero nome) è un cittadino del mondo. È nato a Beirut il 18 agosto 1983, esattamente 40 anni fa, ma ha passato la prima infanzia in Francia, trasferendosi poi in Gran Bretagna. Ha vissuto anche negli Stati Uniti e parla fluentemente inglese, francese e italiano. Ha studiato perfino cinese per 9 anni e parla anche spagnolo, arabo e dialetto libanese. Terzo di 5 fratelli, è nato da madre libanese maronita e padre statunitense. Quasi subito la sua famiglia si trasferì a Parigi. In seguito al trattenimento del padre nell’ambasciata Usa in Kuwait, a 9 anni andò a vivere a Londra dove ha frequentato il Lycée Français Charles de Gaulle, la Westminster School e, per 3 anni, il Royal College of Music. Proprio a questo periodo risalgono i problemi sui banchi di scuola provocati da una forma di dislessia che tuttora gli impedisce di leggere gli spartiti musicali e l’orario dell’orologio. Ben presto, però, e grazie soprattutto all’appoggio della madre, la musica prese il sopravvento. Il boom è arrivato nel 2007 con «Grace Kelly» poi gli album, i premi, gli anni da giudice a «X Factor», i successi televisivi da «Stasera casa Mika» all’ultimo «The Piano» nel Regno Unito con Lang Lang. Un capitolo importante della sua vita artistica è occupato proprio dagli impegni in tv: nel 2013 è stata annunciata la sua partecipazione come giudice della settima edizione di «X Factor», divenendo così il primo giudice internazionale di un talent show italiano. Nel frattempo ha anche siglato un contratto per il ruolo di giudice nella terza edizione della versione francese di «The Voice» dove ha preso il posto di Louis Bertignac. Poi la conferma per l’ottava edizione di «X Factor» e la quarta edizione della versione d’oltralpe di «The Voice». Ed è proprio sul piccolo schermo che Mika ha saputo mostrare al pubblico le sue qualità di intrattenitore e affabulatore d’altri tempi. Nel 2015 ancora «X Factor» e, l’anno successivo, per la terza volta nel cast di «The Voice: la plus belle voix 2016». Fino a oggi, con un giro di concerti appena concluso in Italia e il traguardo dei 40 anni da festeggiare su un’isola greca. Vivendo il suo giorno particolare come un trampolino di lancio. Per reinventarsi ancora.

Estratto dell'articolo di Stefano Giani per “il Giornale” domenica 10 settembre 2023.

Guardando da vicino ci si accorge che, in fondo, la bellezza non è tutto. Anzi. È solo una parte del tutto. Un concetto vago, oltre che soggettivo. [...] Perché bella può essere una sensazione. Una persona. 

Un modo di pensare. O di essere. E la Pina lo è, nel suo assistere il maritino Ugo ragionier Fantozzi, il più pavido, sfortunato e paradossale italiano medio(cre). Guardandola da vicino ci si accorge che Milena Vukotic [...] è tutto questo. 

Donna elegante. Pura. Raffinata. Nel fare come nel dire. Intelligente. Misurata. Con una voglia di vivere e di attraversare nuove sfide da far invidia ai più giovani. Non si è mai capito se Milena Vukotic sia la Pina o se la Pina sia Milena Vukotic, di certo è un'attrice che un tempo era definita una caratterista e nel suo repertorio ha sempre collezionato ruoli sottotono. La moglie sfortunata. La zitella. La collegiale. L'infermiera. L'istruttrice di danza. La rigattiera. La consorte tradita di un altro indimenticabile fallito, come il conte Mascetti di Amici miei. 

In altre parole, Ugo Tognazzi. Eppure. Nella sua filmografia brillano, come stelle, firme della storia del cinema italiano e straniero. Perché Cinecittà non è Hollywood e non è bello quel che è bello. Alla faccia di tutti, nel ventesimo secolo di Milena Vukotic, spunta perfino un servizio di fotografie per Playboy.

E allora, cos' è per lei la bellezza...

«Non saprei... È tutto così relativo». 

Però viviamo in un mondo in cui sembra che sia valorizzata solo quella.

«Ammesso che lo sia. Bellezza». 

Proviamo a definirla.

«Qualcosa che dà un'emozione ma non c'è uno schema. Esistono belle donne e begli uomini ma poi...» 

[...]

E anche chi non era propriamente un sex symbol si ritrova su Playboy.

«Ecco lo sapevo. Il punto focale». 

Tasto proibito?

«In realtà fu tutto molto semplice». 

Racconti.

«Conoscevo abbastanza bene Angelo Frontoni, fotografo di attrici molto avvenenti. Al contrario, io avevo sempre recitato personaggi dimessi o caratterizzati in negativo. Così un giorno mi disse: Non è giusto. Ci stai a fare qualche foto con me... Vorrei esaltare quello che c'è di positivo in te». 

Cosa gli ha risposto?

«Ho accettato ma a un patto». 

Quale?

«Ho chiesto che tutto avesse un senso e non fosse fine a se stesso». 

Accontentata...

«Direi di sì. Mi fece posare davanti a pannelli di Paul Klee e mi scattò una serie di foto con veli sul seno». 

Fin qui però Playboy non c'entra.

«Succede che un giorno Frontoni richiama e mi dice: Senti, le ho fatte vedere a Playboy. Tu mi permetti...mi lasci fare... Stessa risposta. Volevo che fossero accompagnate da qualcosa che desse loro un senso compiuto». 

E l'articolo a corredo lo scrisse una penna d'eccezione.

«Erano gli anni Settanta e, siccome avevo lavorato con Alessandro Blasetti, chiesi che si rivolgessero a lui per sapere se la sentiva di scrivere qualcosa sulla bellezza o la bruttezza della donna. E lui accettò». 

Al buio?

«Macché, alla luce del sole. Gli mostrarono le mie immagini da brutta e zitella, poi quelle di Frontoni. Il mensile pubblicò tutto, l'articolo di Blasetti e i miei scatti patinati e ordinari. La verità è che per loro era una curiosità. Non essendo io una femme fatale e, all'epoca, nemmeno molto famosa, usciva un ritratto un po' diverso dai soliti». 

Ne è valsa la pena?

«Guardi, le sembrerà strano ma non ho preso una lira. In compenso, mi sono tirata addosso gli insulti e i rimproveri di tutti. Io, però, non ho posato nuda per Playboy. Eppure». 

Mi racconti qualcosa di bello.

«Qualche giorno fa ho assistito alla prima assoluta di Dante, l'ultima fatica di Pupi Avati. C'era il presidente Mattarella e tutto il governo. È un film stupendo. Ecco, corrisponde alla bellezza. Tutti i personaggi mostrano enorme forza, spirituale e di carattere, ma - singolarmente - nessuno affascina». 

Lei è nel cast?

«Ho fatto una piccolissima cosa ma sono felice di averla regalata a Pupi Avati».

[...] Luis Buñuel che lei ben conosce.

«Aveva bisogno di un'attrice che parlasse francese ma fosse italiana e la mia agente gli propose alcune mie fotografie. Arrivai a Parigi con l'impegno di un film e ne girai tre. Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà, Quell'oscuro oggetto del desiderio».

Si è trovata bene...

«Accidenti, come si fa a non trovarsi bene con questi personaggi. Sono particolari, ma, proprio per questo, unici. È stato un uomo capace di fare quello che sentiva ed è riuscito a imporsi nella storia dell'arte. Straordinario». 

Oggi che cosa le rimane?

«Ho avuto il privilegio di avvicinarlo e avere con lui un dialogo. Non era distante, nonostante la sua... distanza da noi esseri umani». 

Come lo chiamava?

«Per noi era don Luis. Una notte me lo sognai pure. Nel sonno mi disse che siamo tutti uomini liberi. Qualche giorno dopo, portandogli la sua biografia da autografare, glielo raccontai».

E lui...

«Io le ho detto così? Dovevo essere completamente ubriaco disse. E la dedica diventò Siamo tutti uomini cosiddetti liberi».

Da Buñuel arrivò con un'ambasciata, vero...

«Me la affidò Fellini. Dovevo portargli i suoi saluti e, detto così, sembra insignificante. Ma era bella la motivazione». 

Che cosa le disse?

«È il regista che stimo maggiormente perché è capace di trasformare i sogni in realtà». 

E, di sogni, Fellini se ne intende.

«Ha cambiato la mia vita, non solo artisticamente parlando».

In che senso...

«Stavo studiando tra Parigi e Londra e, nel frattempo, lavoravo con la compagnia internazionale della danza quando mi è capitato di vedere La strada. Sono uscita con l'animo capovolto e la gioia suggestiva di essere entrata in quel mondo di favola. Da allora una convinzione si radicò in me. Volevo lavorare con lui».

E arrivò Giulietta degli spiriti.

«In realtà iniziai con una piccolissima partecipazione ne Le tentazioni del dottor Antonio, un episodio di Boccaccio '70. Era un film a episodi del 1962». 

Come riuscì ad avvicinarlo, non conoscendolo di persona?

«Sempre la solita storia dell'amica dell'amica dell'amica. Però funzionò.

Mia mamma viveva a Roma e, tra conoscenze varie, riuscì a farmi avere una lettera di presentazione da un manager della Lux film». 

Che cosa c'era scritto?

«Francamente, non saprei. Non gliel'ho mai data. E non l'ho mai nemmeno aperta».

E a che cosa è servita, allora...

«Ho avuto un appuntamento in via della Croce, nel suo ufficio ed è venuto spontaneo raccontarsi».

Come mai se la è tenuta nella borsetta?

«Non ce n'è stato bisogno. Era un uomo unico, talmente gentiluomo.

Mi ha fatto fare una serie di foto e mi ha scelta». 

L'hanno definito traditore, bugiardo, genio, maestro. Tre parole per descriverlo?

«Artista. Poeta. Giocoso».

Siete rimasti amici...

«Con la Masina ci siamo date appuntamento sul set di Ginger e Fred in un suo giorno di riposo. Non vedevo l'ora di respirare di nuovo la magia che solo Fellini sapeva creare». 

E con lui?

«Ricordo una sera a casa mia. Una cena per sei con Federico e Giulietta, Maura e Paolo Villaggio».

Un altro compagno di vita e arte...

«Eravamo amici al di là di Fantozzi».

Già, marito e moglie...

«Un giorno che sono andata a casa sua, è venuta ad aprirmi la colf e, rivolta a Maura, mi ha annunciata tutta trafelata. Signora - ha detto - è arrivata la moglie di suo marito. Naturalmente, siamo scoppiati a ridere».

Un pezzo di vita.

«Abbiamo girato una decina di film insieme. È stato un bellissimo incontro ma, sul set, c'era il tassativo e didattico diktat di Paolo. Ricordiamoci che siamo soltanto maschere E io, quella maschera, non l'avevo mai indossata». 

Che cosa le diceva?

«Ci insegnò a essere cartoni animati, senza velleità di bellezza, imparando a ridere di noi stessi osservando da vicino le persone qualunque».

Un altro marito eccellente. Lino Banfi.

«Ci siamo sposati, artisticamente parlando, così Nonna Enrica che ero io e nonno Libero che era lui sono entrati nelle case italiane per una ventina d'anni». 

E ora il medico, più che in famiglia, va in pensione...

«La Rai si rifiuta di far riprendere la serie. È una scelta aziendale che fatico a condividere. Io e Lino abbiamo insistito perché siamo sicuri. Sarebbe ancora un successo. Misteri del piccolo schermo». 

Recentemente è mancato Jean Louis Trintignant con cui ha lavorato ne La terrazza di Ettore Scola.

«Una volta andai in Francia per regalargli un libro su Fellini, autografato da Federico. Apprezzò molto. Lo ricordo per i suoi scherzi. Prendeva in giro soprattutto i registi che conoscevano la sua passione per la velocità e le auto». 

Che cosa faceva?

«Un giorno si fece attendere sul set e telefonò dicendo che aveva fatto un incidente e non poteva continuare le riprese del film. Scese il gelo. Improvviso. Poi la sua risata ha restituito serenità».

Insomma, una vita lavorando...

«Finché rimane la capacità di giocare con queste maschere e con noi stessi vuol dire che la ciambella è venuta con il fatidico buco. In fin dei conti ogni volta che si fa qualcosa ci si rinnova e ci si rimette in gioco».

E a 84 anni ha ballato sotto le stelle in televisione...

«Il lavoro è la nostra linfa. Io e Simone siamo arrivati terzi. Non male».

Lei però è una ballerina professionista.

«Ho vinto il primo premio in conservatorio e sono entrata all'Opera di Parigi, ci sono rimasta un anno e sono passata nella compagnia di Roland Petit, un grande innovatore».

Come mai ha lasciato l'Opera?

«Non ero soddisfatta perché non facevo granché e, con una punta di incoscienza, me ne sono andata».

E poi?

«Sono stata accolta nella compagnia internazionale del marchese de Cuevas, che faceva il mecenate per conto della moglie, una Rockefeller. La mia carriera è stata un puzzle. E alla fine sono approdata in teatro». 

Come mai?

«Ho iniziato seguendo corsi molto interessanti. Mio padre aveva scritto commedie e aveva aderito alla corrente futurista, pur essendo un diplomatico».

Ha girato il mondo. Conoscerà molte lingue, allora.

«Con papà parlavo in serbo, con la mamma in italiano. Tra fratelli usavamo l'inglese perché avevamo studiato a Londra. Il francese l'ho imparato a Parigi. E a Vienna, dove sono stata per due anni, ho portato a casa pure il tedesco».

È stata bravissima.

«No, mi creda. Solo fortuna».

Milena Vukotic: «Ho recitato nei film di Buñuel e Fellini, ma per tutti sono ancora Pina Fantozzi». Fabrizio Dividi su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Con la sua discreta e surreale eleganza, Milena Vukotic ha saputo impreziosire ogni suo singolo ruolo. «Mai fidarsi delle apparenze — commenta con un sorriso —. Noi attori ci permettiamo il lusso di cambiare faccia e maschere per passare da un personaggio all’altro. È proprio questo che mi affascina del mio lavoro». L’occasione per incontrare un’attrice speciale è la presentazione di A spasso con Daisy, in scena sabato e domenica al Teatro Gioiello di Torino. Scritto da Alfred Uhry con l’adattamento di Mario Scaletta e la regia di Guglielmo Ferro, lo spettacolo già Premio Pulitzer e Oscar riporterà in città una storia sempre attuale. 

Come lo tratterete? 

«Rispetto al film, abbastanza fedelmente. D’altra parte la prima versione del soggetto fu scritta per il teatro. Il testo è sostenuto da un pensiero forte, ma sempre marcato da un senso dell’umorismo tipicamente ebraico. Daisy cerca di respingere l’autista che entrerà nella sua vita, ma solo perché non vuole perdere la sua individualità. In fondo è una “femminista ante litteram”, impegnata fino all’ultimo a difendersi dai pregiudizi senza rinunciare alla propria autonomia». 

Sa che il Gioiello è stato uno dei gloriosi cinema di quartiere di Torino?

«Non lo sapevo. Bene, sono ancora più orgogliosa di tornarvi per la centesima replica dello spettacolo. Purtroppo le sale sono sempre meno frequentate e ciò è desolante, perché l’immagine dello schermo è insostituibile. Sebbene recitare in teatro sia sempre più coinvolgente, io sono innamorata del cinema, da attrice e da spettatrice». 

La sua preziosa filmografia sicuramente lo dimostra. Cominciamo da Luis Buñuel? 

«Lui cercava un’italiana per la coproduzione de Il fascino discreto della borghesia. Dopo aver visto Venga a prendere il caffè da noi di Lattuada, ritenne che fossi adatta alle sue esigenze. Ne seguirono altri due film e un meraviglioso rapporto di amicizia». 

Un aneddoto? 

«Durante le riprese a Parigi, avevo acquistato una sua biografia, ma non trovavo mai il coraggio di chiedergli un autografo. Mi ero talmente fissata che una notte lo sognai mentre mi scriveva una dedica: “Siamo tutti uomini liberi”. Così, il mattino dopo mi feci coraggio e gli raccontai il sogno. Don Luis — così lo chiamavo — si fece una risata e mi rispose: “Ieri sera devi proprio aver bevuto un po’ troppo”». 

Di Tarkovskij e Fellini invece cosa ricorda? 

«Con il primo girai una brevissima sequenza in Nostalghia, preceduta da una lunga riflessione su Dostoevskij. Con Federico, con cui lavorai in Tre passi nel delirio e Giulietta degli spiriti, c’era un rapporto di reciproca stima e amicizia». 

E Paolo Villaggio? 

«Siamo stati amici anche fuori dal set e gli devo moltissimo. Da decenni per strada mi capita di essere chiamata Pina e la cosa, oggi ancor meno di un tempo, non mi dispiace. Di film ne ho fatti tanti, ma le persone che mi sorridono e mi regalano gesti di affetto mi rendono ancora felice». 

Le capita anche a Torino? 

«Certo. Qui sono di casa, perché ho lavorato in numerose trasmissioni in tv e in radio, soprattutto negli anni in cui il Centro di Produzione Rai era tra i più attivi d’Italia». 

Per esempio? 

«Ricordo con molto orgoglio Amico libro del 1963, realizzata per la tv dei ragazzi con letture e ospiti di rilievo in cui iniziavo correndo per le scale della Mole prima di arrivare allo studio di via Verdi. Mi dirigeva Massimo Scaglione con il quale ho poi lavorato molte altre volte, almeno fino agli anni Ottanta. Nel 1971 girai anche il Versificatore tratto dai Racconti fantastici di Primo Levi». 

Come ha visto cambiare la città? 

«Un tempo era più silenziosa, quasi fantasmatica. Poi, dopo la rivoluzione olimpica, l’ho vista diventare più vivace. Insomma, da nebbiosa a vitale: posso dire di averla vista cambiare in meglio».

Gaia Piccardi per il Corriere della Sera il 15 maggio 2023. 

(...)

Massimiliano Pani, 60 anni, figlio dell’amore — e del peccato — tra un grande attore sposato (Corrado Pani) e una grandissima cantante (Mina), nato nel ’63 quando il divorzio non c’era, compositore, arrangiatore, produttore. 

(...) 

Come è fatta una bella canzone?

«Non va spiegata: devono capirla tutti, dal filosofo all’operaio, uomini e donne, grandi e piccoli. Deve far leva su sentimenti universali, trasversali, globali. Deve avere forte la musica, poi arriva il testo. I brani che hanno migliore il testo della melodia sono più poesie che canzoni. Poi c’è chi ha saputo coniugare tutto magistralmente. Battisti, Fossati…». 

Una canzone che avrebbe voluto scrivere?

«Penso a Jobim, che è riuscito a scrivere musica raffinatissima arrivata anche alle massaie, connubio tra un altissimo livello musicale e la capacità di toccare la gente comune. Perché una canzone pop, o popolare, può essere alta. Fossati è stato un eccellente scrittore di musica e parole, ad esempio. E poi Giorgio Calabrese, paroliere genovese, un gigante. Ho scritto una ventina di canzoni con lui: quando incontri un fuoriclasse, lo riconosci». 

Essendo stato generato da due fuoriclasse, Corrado Pani e Mina, parla con cognizione di causa.

«Mia madre e mio padre sono stati Roger Federer. Cioè hanno fatto sembrare semplici le cose difficilissime. Ma alla base c’è un lavoro enorme, uno studio ininterrotto. Gianni Ferrio, il musicista dietro Studio Uno e Teatro 10, è un altro Federer: il più grande arrangiatore italiano, con competenze e cultura musicale di livello mondiale, bravissimo a mantenere la linea drammaturgica di un brano. Scrivere un pezzo strano è facile; farlo alto e bello, è tutta un’altra storia». 

In una vita di incontri straordinari, qual è stato il più straordinario fin qui?

«Mamma».

Troppo facile.

«In assoluto la personalità più affascinante in cui mi sia mai imbattuto. Papà diceva: ho lavorato con tutti i grandissimi ma di fuoriclasse ne ho conosciuti solo due, Carmelo Bene e Mina». 

Scusi ma non ha mai avvertito un senso di inadeguatezza al cospetto di questi giganti?

«Detesto i figli d’arte: sono spesso dei piagnoni lamentosi. Per questo motivo ho scelto subito di non fare né l’attore né il cantante: era talmente lampante che non avrei mai avuto la personalità di papà e il genio di mamma, che ho rinunciato subito al confronto. Una battaglia persa. Ho capito immediatamente che non ero di quella pasta lì, impossibile superarli nel loro lavoro, quindi non ci ho mai sofferto. Però lo stimolo a migliorarmi l’ho sempre avuto». 

Il talento di Mina, al di là della voce, qual è?

«Saper vedere le cose in anticipo. Mentre parliamo, Mina è prima con Blanco nelle radio e l’album è in vetta negli store digitali. Eppure non ha social e sono 45 anni che non fa concerti e non dà interviste. È agli antipodi delle leggi della comunicazione mainstream. Abbiamo fatto un’indagine di mercato: il suo pubblico va dai 20 ai 35 anni, persone che non l’hanno mai vista dal vivo. Pagano le scelte fatte con coraggio, libertà e coerenza: la gente la segue per questo».

Scelte necessarie per la sua visione, certo, ma anche per il suo benessere psicofisico?

«Sì. Siamo venuti a Lugano perché voleva mandare noi figli alla scuola pubblica: a Roma o Milano non sarebbe stato possibile. La polemica sulle tasse è assurda. Negli Anni 70 le tasse in Italia non le pagava nessuno. Mina è andata in Svizzera per poterle pagare, perché aveva bisogno di sentirsi una persona normale. Chi dice il contrario non ha capito nulla di mia madre». 

Quando ha intuito che era ora di ritirarsi?

«Quando ha capito che la tv di qualità eccelsa che faceva stava cambiando. Impossibile mantenere quel livello qualitativo. La Emi le rescinde il contratto? E allora Mina fonda con il padre Giacomo (Mino) una sua etichetta di famiglia, la Pdu, e si concentra solo ed esclusivamente sul produrre dischi come e quando vuole lei. E comincia il lavoro di distruzione della sua immagine. 

Vent’anni prima di Madonna e trenta prima di Lady Gaga, si traveste: diventa scimmia, culturista, donna barbuta, papera. Ribalta le leggi dell’industria e va avanti imperterrita per la sua strada, con tutti i rischi che una scelta così controcorrente comporta. Prima che per la voce, Mina ha vinto per la sua intelligenza». 

(...) Il 23 agosto 1978, all’ultimo concerto di Mina alla Bussoladomani, lei c’era?

«Avevo 15 anni, è stato l’unico concerto di mia madre che ho visto dal vivo». 

Cosa ricorda con più vividezza?

«L’impatto della sua personalità sul pubblico: finiva una canzone e la platea esplodeva, faceva un gesto e la gente ammutoliva, stregata dalla sua dimensione emotiva. Si erano tutti, dal primo all’ultimo, consegnati a lei, officiante di un rito collettivo. Impressionante».

Una forma di potere e una possibile fonte di assuefazione. Serviva un’anima evoluta per rinunciare a tutto ciò.

MINA ANNI SESSANTA

«Sicuramente serviva un’anima libera. Lady Gaga, che trasuda talento da ogni poro, ha visto le cover di mamma ed è impazzita. Liza Minnelli sostiene che Mina sia la più grande cantante del mondo. Mamma ha fatto le sue scelte in coscienza e follia, senza cedere alle lusinghe dell’ego, dell’ambiente e del pensare comune. Non ama i vestiti né i gioielli, non è un’accumulatrice di oggetti: a Lugano vive nello stesso appartamento dal ’77. La verità è che Mina non è una cantante, è un’intellettuale. Ha rinunciato a tutto, anche a una montagna di soldi, con una serenità che tutt’oggi le invidio».

Estratto dell'articolo di Paolo Giordano per ilgiornale.it il 21 aprile 2023. 

In effetti c'è qualcosa di favoloso in quel ghiribizzo vocale alla fine di Un briciolo di allegria, un superbo regalo di talento che Mina concede a se stessa e a tutti noi nel duetto con Blanco che spunta alla fine del suo miliardesimo disco di inediti. Si intitola Ti amo come un pazzo, esce oggi e il figlio Massimiliano Pani, elegante e rispettoso come sempre, lo ha definito un feuilleton ispirato a fotoromanzi del Dopoguerra […]

«Si è accorta di aver fatto un disco di canzoni volutamente morbide con storie di uomini e di donne». […] Ormai Mina gioca un campionato a parte, sganciato da ogni canone estetico, musicale o comunicativo di quest'epoca appiattita sugli slogan. Ha 83 anni (appena compiuti) ed è una delle poche icone transgenerazionali che ancora resistano. Piace ai suoi coetanei, ai loro figli, ai loro nipoti e adesso anche ai pronipoti, nonostante non faccia un concerto da 45 anni e un programma tv da 47. Chiunque altro, si sa, sarebbe già sparito, impolverato, inabissato nei ricordi.

Invece ogni anno vengono spediti a Mina cinque o seimila brani inediti con l'obiettivo di finire in un suo disco e «siamo indietro di tre anni nell'ascoltarli», sospira Pani […] 

[…] Mina «non è una cantautrice, è una interprete, mestiere oggi in disuso». Quindi si può permettere di interpretare, quasi madrelingua napoletana, la lettera a Dio di Enzo Avitabile (Don Salvatò) oppure la ridondante, felliniana Zum pa pa scritta da Alessandro Baldinotti e la personalissima versione di Tutto quello che un uomo di Sergio Cammariere[…]

Persino Ferzan Ozpetek, per il quale Mina «è diventata una delle persone più importanti della mia vita», prende le sue canzoni per «costruirci» un pezzo di film intorno. Lo ha già fatto con Buttare l'amore, affidato alla sigla della serie Le fate ignoranti di Disney+. […] 

In poche parole il canzoniere di Mina è un serbatoio di cultura popolare e, non a caso, lei è stata indicata anni fa come possibile direttore artistico di Sanremo: «Ma quando ha detto che avrebbe scelto le canzoni da sola sono spariti subito tutti». Capirai. «Nell'epoca dell'immagine lei ha destrutturato la propria molto prima di Madonna o Lady Gaga. Quando annunciò alla Emi che non avrebbe più fatto concerti e tv, le stracciarono il contratto». In ogni caso, tranquilli, anche se ha 83 anni Mina non si ritira: «Farà dischi finché avrà voglia di farlo, per lei è un bisogno intellettuale». Dopotutto, Mina si nasce e si resta fino alla fine.

Dario Salvatori per Dagospia il 25 marzo 2023.

Mina fa 83! Ormai fotografi e giornalisti hanno rinunciato  ad appostarsi per immortalare anche con uno scatto la grande cantante. Anche certi giornalisti hanno rinunciato ad intervistare in continuazione Massimiliano Pani, sperando  che prima o poi possano essere introdotti al cospetto della mamma.

Chissà se Mina si è ricordata di fare gli auguri alla grandissima Caterina Valente, che il 14 gennaio ha compiuto 92 anni. Speriamo che lo abbia fatto, e di cuore, innanzitutto perché è stata la sua maestra, il suo modello e la sua cantante di riferimento; ma prima ancora perché abita anch’essa a Lugano, ad un tiro di schioppo.

 Titolare del record assoluto di dischi venduti, 150 milioni di copie, Mina continua a lavorare alacremente. Insegue duetti, l’ultimo con Blanco (speriamo che non lo riceva in giardino), alle prese con “Un briciolo di allegria”, contenuto sia nell’album del cantante, sia in quello di Mina “Ti amo come un pazzo”.

Del resto con chi potrebbe duettare? Con cantanti della sua generazione? Al Bano, Johnny Dorelli, Peppino Di Capri, tutti sopra gli ottanta. Stesso discorso con gli autori che continuano a spedire canzoni  all’ormai arcinoto indirizzo di Lugano. Si stima che arrivino oltre 4 mila inediti l’anno, molti di più  di quelli che vengono spediti ad una major.

 Anche il regista turco Ferzan Ozpetek non ha resistito ad inserire nel suo nuovo film “Nuovo olimpo”, un brano della sua cantante preferita, “Vorrei che fosse amore” (un classico del 1968 firmato da Antonio Amurri e Bruno Canfora). Un brano del genere sollecita un interrogativo: chiediamoci da quanto tempo non cantiamo una canzone di Mina, da “Se telefonando” a “Un anno d’amore”, da non “Credere” a “Grande grande grande”?

Anche Ivano Fossati, ritiratosi da anni, non resistette alla convocazione  della cantante  (“A Mina non si può dire di no”) e nell’album “Mina-Fossati” del 2019 non c’erano certo capolavori da cantare negli anni.

 Ma Mina è anche la cantante che custodisce segreti. Nel 1960 Giorgio Calabrese e Tony De Vita scrissero una canzone per lei, “Piano”, un’ambientazione musicale molto vicina a “Il cielo in una stanza” (il maestro De Vita era l’autore del nobile arrangiamento dell’una e dell’altra) e Calabrese autore dei testi di dozzine di canzoni per Mina, oltre che suo grande amico.

 Ma “Piano” non funzionò. Forse perché la piccola casa discografica con cui incideva, la Italdisc, sfornava 45 giri a rotta di collo o forse perché non ci fu una adeguata programmazione radiofonica. La canzone rimbalzò in America nel 1964 con il titolo “Softly as I leave you”, con il testo inglese di Hal Shapler. Il brano venne proposto a Frank Sinatra, il quale, istintivamente, la volle registrare. Buona la prima, come suo solito.

Arrivò al n.27 della hit parade americana, ed in seguito la incisero altri interpreti. Sinatra si incuriosì di questa cantante italiana e la volle invitare a cantare con lui a Las Vegas, per un ingaggio al “Sand”. Mina rifiutò. Perché aveva un figlio di 3 anni? Perché aveva paura dell’aereo? Chissà. Rimarrà un suo segreto. 

L’altro segreto ancor più insospettabile. Federico Fellini amava Mina e cercò più volte di coinvolgerla nei suoi progetti. Mina aveva alle spalle una ventina di film, tra musicarelli, originali televisivi, apparizioni speciali. Fellini cercò di scritturarla seriamente, prima per il suo  “Satyricon”, in seguito per film “Il viaggio di F. Mastorna, detto Fernet”, film mai girato, che rimase la sua dannazione.

 Nelle settimanali visite del maestro alla sua chiromante, si sentì dire che quel film non avrebbe mai visto la luce e che le cantanti meglio lasciarle stare. Brrrrr…

Estratto dell'articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 17 aprile 2023.

Turbò i sogni degli italiani in body, le gambe chilometriche, provocando Fred Bongusto che cantava Quando mi dici così, sigla finale diSpeciale per noi,varietà di Antonello Falqui con Panelli, Ave Ninchi, Aldo Fabrizi e Bice Valori. Minnie Minoprio ebbe così successo che persino il grande Alighiero Noschese fece la sua imitazione. 

Svampita per contratto, Virginia Anne Minoprio, diede una scossa alla tv bigotta dalla fine degli anni 60. «Non ero sexy» racconta divertita «Don Lurio si inventò quella Minnie provocante, mi diceva le mosse. Ero negata, non mi sentivo così. Sono mora, decisero che dovevo essere bionda. Sono diventata bionda per sempre». Ha lasciato lo spettacolo nel 1992, è tornata di recente protagonista, a 80 anni — da metterci la firma — aThe voice senior. 

(...) 

Poi è stato Walter Chiari a portarla in Italia?

«Mi vide a Londra e mi fece entrare nella compagnia con Lelio Luttazzi, grande musicista, vero signore. Mi scrisse due canzoni. Anno 1959, otto mesi in compagnia, bella scuola». 

Nel suo libro “Minnie sette spiriti” racconta che Chiari le mollò uno schiaffo.

«Ero una ragazzina, lui il capocomico, avrà avuto 35, 36 anni, non so. Non poteva permettere a una novellina come me di rispondergli male e sì, mi diede una schiaffetto, Mi rimise al mio posto. Era un grande artista, ho imparato tanto. Io stessa, nelle mie compagnie, ho avuto ballerine di 15, 17 anni, non era facile». 

Mai subito molestie?

«Da giovane signora una volta mi è successo, credo che sia capitato a tante donne, perché gli uomini ci provano. Ho avuto la prontezza di spirito di ridicolizzare l’avance». 

In tv arrivò come cantante sexy e soubrette svampita. Chi ideò questa immagine?

«Don Lurio. Ha capito dopo, quando mi avevano già ingaggiato, che non ero provocante. Ero alta e magra, mi dava suggerimenti di ogni tipo: “Muoviti così”. Ma io dentro sono un clown, ero talmente esagerata che non riuscivo a essere provocante». 

Però nella Rai bacchettona fece scandalo con quel body frangiato.

«Uh sì, scandaloso. Ma è stato bello perché ho avuto gli applausi delle donne. Vedendo quella scenetta con Bongusto hanno capito che potevano mettersi in gioco e fare la prima mossa, invece di aspettare. È stato quasi liberatorio». 

E come andava con Bongusto?

«Lì per lì si divertiva. Dopo, quando gli impresari lo chiamavano per una

serata, e volevano lui ma con me, forse un po’ lo infastidiva». 

Ma lei voleva fare la cantante, l’attrice o la showgirl?

«A 80 anni non ho ancora le idee chiare. Volevo fare tutto, mettermi in gioco. Amo far ridere le persone, la cosa che mi è piaciuta di più è stata fare la Monaca di Monza nella parodia dei Promessi sposi di Falqui».

Come andò l’incontro con Fellini?

«Troppo magra per lui. Mi volle incontrare per Amarcord pensava a me per il ruolo di Gradisca. Mi disse “Mangia, mi raccomando”. Un po’ come Hansel e Gretel, con la strega che controlla le dita dei bambini se erano ingrassate. Fellini fu molto carino, ma non ingrassavo». 

Ha posato nuda, si è mai pentita?

«Spogliarsi negli anni 80 era normale: in spiaggia in topless, le foto osé facevano parte dell’iter. Oggi siamo tornati a essere un po’ bacchettoni ma allora anche Iva Zanicchi posò per Playboy. Anni 80: luccichii e nudo, doveva essere tutto sexy, pensi alle commedie. Mai avuto tabù, ma sono abbastanza prude ». 

Inventarono la rivalità con la Carrà, doveva essere l’anti Raffa?

«I giornali dovevano scrivere qualcosa, chi poteva minacciare la popolarità di Raffaella? Tutto inventato, non c’è mai stata storia. Abbiamo fatto insieme Ciao Rudy con Marcello Mastroianni». 

Avrebbe potuto fare di più, o all’epoca la Rai la mise da parte?

«La Rai mi mise da parte, forse non sapevano cosa fare di me: ero un po’ tutto, un po’ niente. Non mi offrivano cose importanti. A un certo punto ho formato una mia compagnia di musical: giravo l’Italia». 

(...)

Com’è stata l’esperienza a “The voice senior”?

«Dura ma gratificante perché è stato un modo per farsi conoscere di più. E la compagnia era bellissima. È un programma positivo, che incoraggia chi ha una certa età». 

Da anni si è dedicata al jazz, cantare è la cosa che le piace di più?

«Nel mio locale a Roma, il Cotton club, organizzo eventi, ora sto facendo il Minnie social club,un appuntamento il giovedì sera, dove invito sia i colleghi di The voice che gli altri musicisti». 

Fa sempre i mercatini?

«Sono la mia valvola, sono una collezionista seriale. Faccio i mercatini e metto in vendita le cose».

Che nonna è?

«Nonnissima, i mie nipoti hanno 19 e 21 anni, li prendo e li bacio. Sono la nonna dei baci».

Carlo Mezzano: età, lavoro e figli del marito di Minnie Minoprio. Tag24 7 Febbraio 2023. Il Quotidiano Online dell'Ateneo Niccolò Cusano di Roma

Carlo Mezzano età. Carlo Mezzano è nato a Manduria (TA) nel 1949, è un musicista e imprenditore, marito della cantante Minnie Minoprio. Leggi tutto

Carlo Mezzano età, moglie, figli

Carlo Mezzano ha dunque 73 anni. Nel 1984 ha sposato Minnie Minoprio, dopo che quest’ultima aveva divorziato dal suo precedente marito Giorgio Ammannitti, dal quale ha avuto il figlio Giuliano. Carlo e Minnie invece non hanno avuto figli.

Lavoro

Oltre alla carriera in ambito musicale, tuttavia, è risaputo che Mezzano sia anche un imprenditore di grande successo. Nel 1987 apre insieme alla sua dolce metà il Cotton Club, locale che si è incastonato nella scena della musica vintage della Capitale e acquisendo negli anni uno status iconico. Successivamente, sempre insieme alla moglie, ha ampliato la propria attività con l’apertura del Birdland Hotel, un Bed & Breakfast situato a Castelnuovo di Porto, a pochi passi da Roma.

L’addio della Minoprio al mondo dello spettacolo

Minnie Minoprio ha lasciato il mondo dello spettacolo nel 1992:

Ero stufa, stanca. Poi, chiaramente, quando le scritture cominciano a venir meno, uno deve andare a bussare alle porte delle varie agenzie. Io ero dall’età di 15 anni che lavoravo e non mi sentivo di dover andare a portare il curriculum a dirigenti e a far capire che ero in grado di sostenere un ruolo in uno spettacolo. Questo mi seccava . Io, poi, sono abbastanza orgogliosa e non volevo sottostare a tutto questo e quindi ho abbandonato tutto”.

Minnie Minoprio: età, vero nome, origini, marito, figli e biografia della cantante. Tag24 7 Febbraio 2023. Il Quotidiano Online dell'Ateneo Niccolò Cusano di Roma

Minnie Minoprio età. La showgirl è nata a Londra nel 1942. Cantante jazz anglo italiana, Minnie Minoprio è stata anche un’attrice. In Italia è nota soprattutto per aver impersonato la figura della valletta, sensuale e un po’ svampita.

Minnie Minoprio è nata a Londra nel 1942 e la sua età è di 80 anni. È stata una delle soubrette più famose negli anni ’80. Cantante jazz anglo italiana, Minnie Minoprio è stata anche un’attrice e una showgirl. In Italia è nota soprattutto per aver impersonato la figura della valletta, sensuale e un po’ svampita che era in voga in quegli anni.

Minnie Minoprio: età, vero nome e origini

All’anagrafe il suo vero nome è Virginia Annie Minoprio ed è originaria di Ware, in Inghilterra.

Marito e figli

Per quanto riguarda la sua vita sentimentale e privata, la showgirl ha conosciuto negli anni ’60 l’architetto romano Giorgio Ammaniti, con cui decise di sposarsi: da queste nozze è nato il suo unico figlio, Giuliano. Quel matrimonio non ha avuto però grande fortuna: nel 1973, infatti, la coppia decise di divorziare.

Dopo la fine del matrimonio con Ammanniti, comunque, Minnie Minoprio si è innamorata di un altro uomo, il musicista Carlo Mezzano.

Biografia

La carriera di Minnie Minoprio inizia quando era ancora giovanissima. A soli 15 anni, esordì sulle scene teatrali londinesi in Cinderella, di Rodgers e Hammerstein. Nel 1959 fu notata da Walter Chiari e Lelio Luttazzi, che la vollero nella rivista italiana “Io e la Margherita”, dove è uno dei volti di punta. Da lì riuscirà a ottenere incarichi sempre più importanti, tra questi il ruolo di Bonita in “Ciao Rudy”, dove ha la possibilità di recitare al fianco di una stella del calibro di Marcello Mastroianni, diretta da Garinei e Giovannini.

Nel suo destino c’era però il jazz, un genere che lei ha amato particolarmente e che le ha permesso di esibirsi con alcuni tra i migliori musicisti degli anni ’60.

Gli anni ’70 saranno certamente il momento della sua maggiore popolarità. In questo periodo ha modo di interpretare una gattina svampita, una delle sue interpretazioni più celebri, in una sigla Tv.

Ma non mancano i lavori in teatro: tra questi possiamo citare “Forse sarà la musica del mare” con Lando Buzzanca, “L’angelo azzurro” con Enrico Beruschi, “La presidentessa” con Aldo Giuffrè, “My Fair Minnie” con Oreste Lionello.

Sono diverse comunque le canzoni di Minnie Minoprio che vengono ricordate ancora oggi a distanza di anni. Tra queste possiamo citare “Quando mi dici così“, interpretata da Fred Bongusto, che arrivò a provocare un’interrogazione parlamentare perché ritenuta troppo sexy.

Oggi l’ex showgirl si occupa di gestire in prima persona un Bed and Breakfast alle porte di Roma, in una villa a Capena e gestisce anche un negozio di antiquariato dove vende vestiti vintage che ha indossato quando era giovane e alti oggetti particolari accumulati negli anni.

Cosa fa oggi Minnie Minoprio? Quanti anni ha, dove è nata e cosa cantava? Tag24 7 Febbraio 2023. Il Quotidiano Online dell'Ateneo Niccolò Cusano di Roma

Cosa fa oggi Minnie Minoprio? Terminata la carriera di cantante e attrice, Minnie Minoprio attualmente si occupa di gestire in prima persona un Bed and Breakfast situato a Castelnuovo di Porto, a pochi passi da Roma.

Cosa fa oggi Minnie Minoprio? Terminata la carriera di cantante e attrice, Minnie Minoprio attualmente si occupa di gestire in prima persona un Bed and Breakfast situato a Castelnuovo di Porto, a pochi passi da Roma.

Cosa fa oggi Minnie Minoprio?

Minnie Minoprio ha lasciato il mondo dello spettacolo nel 1992:

Ero stufa, stanca. Poi, chiaramente, quando le scritture cominciano a venir meno, uno deve andare a bussare alle porte delle varie agenzie. Io ero dall’età di 15 anni che lavoravo e non mi sentivo di dover andare a portare il curriculum a dirigenti e a far capire che ero in grado di sostenere un ruolo in uno spettacolo. Questo mi seccava. Io, poi, sono abbastanza orgogliosa e non volevo sottostare a tutto questo e quindi ho abbandonato tutto”.

Quanti anni ha e dove è nata?

Minnie Minoprio, pseudonimo di Virginia Anne Minoprio, è nata a Ware (Regno Unito) il 4 luglio 1942 e ha dunque 80 anni.

Cosa cantava?

Minnie inizia nel 1966 un sodalizio con jazzisti romani molto attivi in quegli anni e per 4 anni ha modo di cantare in cabaret, e concerti con i migliori musicisti del settore (Roman New Orleans Jazz Band, Basso e Valdambrini Quartet, Big Band di Angelo Pocho Gatti, Carlo Loffredo, New Dixieland Sound di Marcello Rosa, etc.)

Minnie Minoprio: età, vero nome, origini, marito, figli e biografia della cantante. GIUSEPPA GIORDANO Tag24 7 Febbraio 2023. Il Quotidiano Online dell'Ateneo Niccolò Cusano di Roma

Appare al Teatro Quirino di Roma in “Buongiorno blues, come va?” di Maurizio Costanzo, ed è protagonista di concerti all’Accademia Filarmonica romana, alla radio ed in televisione in innumerevoli occasioni, talvolta con lo pseudonimo di “Magnolia Lee”. È considerata la prima e la più autentica interprete del jazz blues tradizionale in Italia, ma la sua versatilità le permette di partecipare a spettacoli di musica leggera, operetta e disco-music.

Album

1969 – New! Dixieland Sound (Contape)

1973 – Forse Sarà La Musica Del Mare (Fonit Cetra, LPX-30)

1974 – Ti voglio dare… poco per volta (Spark, SRLP261)

1983 – Minnie (Hollywood Records, HO 82702)

1987 – Anni ’40… le canzoni più belle (CGD, 20569)

1993 – Good Friends (Rossodisera Records)

2003 – Jazz (Hollywood Records)

2005 – My twilight songs (Hollywood Records)

2007 – S(w)inging the blues – Minnie Moprio quartet & guests (Hollywood Records)

2007 – Jason Marsalis & Minnie Minoprio (Hollywood Records)

2009 – Why stop now!

Minnie Minoprio, chi è: biografia, nome vero, origini, carriera, marito e figli. Tutte le curiosità su l'artista 80enne Minnie Minoprio, dalla carriera fino alla vita privata. Da ilgiornaleditalia.it il 20 Febbraio 2023

Minnie Minoprio è una cantante jazz molto famosa sia in Italia che all'estero: scopriamo meglio chi è, qual è la sua biografia, il nome vero, le origini, la carriera e infine le curiosità sulla vita privata, il marito e i figli. L'artista ha un trascorso da showgirl e attrice ed è stata anche autrice di programmi radiofonici per la Rai, canzoni e romanzi. 

Minnie Minoprio: nome vero, origini, biografia, età

Minnie Minoprio è il nome d'arte di Virginia Anne Minoprio, che è appunto il suo nome vero. La cantante è nata a Ware, cittadina della contea dell'Hertfordshire in Inghilterra, il 4 luglio 1942. Ha origini italo-inglesi. La donna, che oggi ha 80 anni, ha esordito nel 1957, quando era ancora una ragazza, nel mondo dello spettacolo britannico. 

Minnie Minoprio: carriera

All'età di 15 anni inizia la carriera di Minnie Minoprio, quando da giovane esordisce sulle scene teatrali londinesi nello spettacolo Cinderella, di Rodgers e Hammerstein. Poco dopo viene notata da Walter Chiari e Lelio Luttazzi. Inizia a lavorare nella rivista Io e la margherita. Nel 1962 conosce il costruttore romano Giorgio Ammanniti, con cui si sposa. Stanno insieme fino al 1973. Dal loro amore nasce il figlio Giuliano.

Inizia poi a muovere i primi passi nel mondo del jazz in Italia. Appare inoltre sul piccolo schermo in programmi come Noi maggiorenni e Noi canzonieri. Nel 1968 pubblica il suo primo 45 giri in italiano. Il titolo è "Hélène/Cosa c'è di male se..." e in molti ancora oggi se lo ricordano.

Negli anni '70 raggiunge il vero successo, grazie alla rivista televisiva "Speciale per noi", dove canta la sigla "Quando mi dici così". Lavora anche al fianco di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello nel famosissimo varietà "Sai che ti dico?". Nel 1985 tutti notano il suo talento quando partecipa alla parodia dei Promessi sposi realizzata dal Quartetto Cetra nel ruolo della Monaca di Monza.

A teatro la vediamo in diverse commedie, come:

Forse sarà la musica del mare

L'angelo azzurro

La presidentessa 

My fair Minnie 

Fonda il gruppo musicale "Minnie Minoprio Jazz Quartet". I suoi compagni sono Luca Ruggero Jacovella, Valerio Serangeli, Bruno Lagattolla. Il quartetto si esibisce in tutta l'Italia. Dalla fine degli anni '80 si dedica a tempo pieno al mondo del jazz. A Roma crea, insieme al nuovo marito, il Cotton Club, un locale di musica vintage alla moda.

Nel 2023 la vediamo nuovamente in tv come concorrente della terza edizione di The Voice Senior, nel gruppo di Clementino. L'artista si fa notare per la sua voce anche in questo programma, condotto da Antonella Clerici e in onda su Rai 1.

Minnie Minoprio, vita privata: moglie e figli

Per quanto riguarda la vita privata di Minnie Minoprio, sappiamo che dopo la separazione del primo marito, convola a nozze nuovamente con il musicista Carlo Mezzano. L'artista italo-inglese ha inoltre un figlio, di nome Giuliano, nato dal suo primo matrimonio.

Minnie Minoprio: “Denunciata per aver lasciato il mio ex marito” “Carlo Mezzano…” Pubblicazione: 20.02.2023 da Giulia Lia Mastrominuta su ilsussidiario.net.

 Minnie Minoprio racconta la sua avventura a The Voice Senior e rivela alcuni dettagli del suo amore con Carlo Mezzano, il suo secondo marito

 Minnie Minoprio

Minnie Minoprio: “Sono cresciuta in collegio”

Minnie Minoprio, artista diventata famosa a partire dagli anni ’60, è tornata a fare musica e tv con The Voice Senior, dove ha scelto come coach Clementino: “Mi voglio divertire e lui è divertente. È un uomo che ha una grande cultura musicale, fa il clown ma ha vissuto per tutta la vita con la musica. È un po’ come me. Semifinale? Ormai mi sono buttata in questa cosa e vada come vada. È bello conoscere nuove persone. Ho fatto amicizia con tutti. C’è stato un religioso che mi ha colpito particolarmente, è Don Bruno” ha raccontato a Oggi è un altro giorno.

La cantante è nata in Inghilterra e lì ha cominciato la sua carriera per poi arrivare in Italia a 17 anni: “Ho lavorato tre anni a Londra in alcuni musical, prima di venire in Italia. Io sono sempre stata in collegio da bambina, non ero con i miei genitori. Gli inglesi i bambini li mettono in collegio verso i sette anni, vediamo i genitori durante le vacanze. Oppure c’è una visita dei genitori ogni tre settimane. Mio figlio lavora a Milano e ha anche un figlio di 21 anni, spero che vengano a vedermi a The Voice Senior“.

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L’amore di Minnie Minoprio e Carlo Mezzano

A Oggi è un altro giorno, Minnie Minoprio ha raccontato ancora: “Lavorai con la Carrà, lei prese il posto di un’altra attrice che lasciò la compagnia e io presi il suo posto. L’anno dopo, la stessa cosa mia la fece Loredana Bertè. A The Voice non ne abbiamo parlato perché non ci fanno parlare con i giudici. Siamo tanti cantanti, vengono da tutte le parti d’Italia. Quello che succede è quello che mi capita, non farò carte false per farmi votare”. Eppure, inizialmente la sua ambizione era un’altra: “Da bambina volevo fare la comica. Quando c’erano le recite e i saggi di fine anno, avevo sempre il ruolo di un animale. Mi piaceva molto questa cosa”.

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Non solo musica: Minnie Minoprio ha avuto anche una vita privata particolarmente ricca. Dopo aver lasciato il primo marito Giorgio Ammaniti, è stata denunciata. L’artista ha raccontato: “Quando ho lasciato il mio primo marito sono stata denunciata per abbandono del tetto coniugale. Ho fatto 11 anni e mezzo con lui, avevamo un bellissimo figlio, ma basta”. Da quel momento, la cantante ha cominciato una relazione con Carlo Mezzano. Il produttore, in studio, ha rivelato: “Noi ci incontravamo di nascosto a Roma. Con Minnie non si poteva andare in giro perché era conosciuto. Un giorno sono arrivato a Roma e lei mi disse ‘Andiamo che ho una sorpresa per te’. Andiamo in un residence e mi dice ‘Ho lasciato casa’. Lei mi disse ‘Fai la tua vita, questa è una mia scelta’”. Minnie, infatti, ha spiegato: “Eravamo innamorati ma ognuno deve scegliere la propria vita. Ci siamo conosciuti a Manduria. Fingevamo che lui fosse il mio autista“. Tra i due c’è un amore che dura da cinquant’anni. Mezzano ha rivelato: “Prima ero geloso ma sapevo che lei era di proprietà del pubblico. Ero tranquillo perché pensavo che si fosse ritirata e invece… Sono ancora geloso. Io sono contento per lei ma sono geloso”.

L'interesse per l'artista di origini inglesi innamorata di Manduria. La Rai offre nuovi spazi all’artista Minnie Minoprio, con lei il marito Mezzano. La Redazione de La Voce di Manduria sabato il 18 febbraio 2023

Una poltrona per la showgirl Minnie Minoprio e un’altra per il marito manduriano, anche lui musicista, Carlo Mezzano. Sono due i posti che la conduttrice di Rai Uno, Serena Bortone del seguitissimo programma “Oggi è un altro giorno”, ha voluto riservare ad entrambi nello speciale dedicato alla vita e alla carriera di Minnie. Nella puntata di lunedì 20 febbraio ci sarà anche l’inseparabile marito Carlo, un tempo musicista molto noto e apprezzato negli ambienti artistici della Puglia e, soprattutto, di Manduria.

The Voice Senior”, “Storie italiane” e, ora, “Oggi è un altro giorno”: la cantante Minnie sta riconquistando la televisione italiana. Sempre bellissima, la cantante jazzista a ottant’anni è una forza della natura. E furono gli anni Ottanta anche quelli in cui Carlo decise di portare la sua dolce metà nella città messapica. Il loro trasferimento all’epoca arricchì artisticamente la città perchè entrambi crearono una compagnia di musicisti salentini che portò spettacoli in tutta Italia. E della città messapica, dunque, si parlerà senz’altro nel salotto Rai della conduttrice Beltrone, di questo pezzo di terra e di amore, così importante per la coppia che ora vive a Roma. Tutti sintonizzati alle 14.05 su Rai Uno, per seguire la straordinaria avventura di questa musicista, anche lei un po' manduriana. Marzia Baldari

Miranda Martino: «I miei 90 anni, tra successi, scandali e violenze». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 18 ottobre 2023.

La cantante e attrice il 26 ottobre compie 90 anni e ricorda la sua lunga carriera e racconta anche la sua vita privata, segnata da due gravi violenze

«Mio padre Riccardo, un tipo austero, ci chiamava col campanello. Chiuso nel suo studio, una grande stanza con un arredo molto importante e cupo, suonava e diceva: venga la prima, cioè la primogenita, mia sorella Adriana; venga la seconda, cioè io; venga la terza, la più piccola, Marcella».

Miranda Martino il 26 ottobre compirà i suoi primi 90 anni e racconta divertita quel papà autoritario, professore di diritto e commercialista e che, dice, somigliava a Papa Pacelli. «Sì, lo ricordo con grande affetto - conferma la cantante attrice - ero la sua preferita».

Perché?

«Ero la più remissiva delle tre e avrebbe desiderato che sua moglie, nostra madre Tecla, fosse docile e malleabile come me. Invece mamma, una pianista talentuosa, donna bruna, bella, occhi neri fiammeggianti, ostentava un cipiglio arcigno, ribelle».

Docile e remissiva, però poi ha intrapreso una carriera piuttosto trasgressiva nel mondo dello spettacolo...

«In verità, una volta, mi sono ribellata a mio padre anche io. Volevo andare a ballare e lui mi negava il consenso, allora sono corsa a una finestra della casa e mi sono buttata di sotto».

Addirittura?

«Sì! Però... rimasi a penzoloni, aggrappata al davanzale e venni ritirata su».

E suo padre si convinse a darle il consenso?

«Assolutamente no. Allora mi chiusi nella mia camera e passai tutta la sera a piangere».

La passione per la musica, ereditata dalla mamma?

«La sua vera erede fu Adriana, che divenne una cantante lirica importante, la preferita di Herbert von Karajan... ed è stata proprio lei a spingermi a cantare: io mi esibivo solo nel coro degli alpini, ma evidentemente avevo una bella voce. Mia madre invece era molto preoccupata per la mia salute, ossessionata dalla mia magrezza a tal punto che parlava da sola e, levando gli occhi al cielo, esclamava: “Quanto è secca ‘sta piccerella”. Poi, però, quando cominciai a esibirmi come soubrette, di frase lapidaria ne disse un’altra, e cioè che ero caduta in un gorgo di torbide passioni...».

Da un estremo all’altro, insomma...

«Esattamente com’è stato il mio percorso artistico, iniziato a vent’anni con il concorso per voci nuove a Sanremo per approdare molto tempo dopo al teatro impegnato, al Piccolo di Milano, al Teatro della Maddalena con Dacia Maraini. Così come la mia vita privata, segnata da due violenze».

Ce le racconti.

«La prima volta ero giovanissima e venni violentata da un ragazzo, appena conosciuto su un tram: si era dimostrato gentile, offrendomi di accompagnarmi a casa ma, quando siamo arrivati nel mio palazzo, mi ha letteralmente trascinato all’ultimo piano e buttato a terra... La seconda è stata ugualmente dolorosa, forse anche di più... in altro senso: ero già un’artista affermata, lavoravo in vari programmi alla Rai, e avevo una relazione con un collega, un compositore altrettanto noto, di cui non voglio rivelare il nome, per il quale avevo perso la testa. Era sposato e, in uno dei nostri incontri clandestini, mi fa bere molto whisky: parecchio intontita dall’alcol, sdraiata sul letto nuda, tenevo gli occhi chiusi, ma sentivo degli strani clic... Quattro anni dopo, ho scoperto che aveva scattato delle foto e che, addirittura, le aveva fatte vedere, forse per vantarsi, ad altri colleghi, altrettanto famosi».

Non si è vendicata?

«Quando mi si ripropose davanti, mi limitai a dirgli: non ti è bastato quello che mi hai fatto?».

Perché, poi, ha deciso di posare nuda per Playmen?

«Fu una provocazione! Era come dire: volete vedermi nuda? Ebbene, stavolta decido io! E non mi feci pagare! Tuttavia, non era un nudo totale, ma immagini artistiche, mi sono in qualche modo tolta una soddisfazione».

Tante le soddisfazioni lavorative. Una delle tante, quando nel 1967 venne scelta come unica cantante italiana all’incoronazione dello Scià di Persia...

«Certo, cantai, ma fui l’unica a non inginocchiarmi di fronte a Mohammad Reza Pahlavi».

Per quale motivo?

«Mentre percorrevamo le strade di Teheran, per raggiungere il palazzo sfarzoso dell’imperatore, vedevo tanta gente buttata per strada a chiedere l’elemosina: il lusso sfrenato contrastava con la povertà più terribile...».

Una vita movimentata, la sua, anche sul versante sentimentale...

«Sposai il giornalista Ivan Davoli pur non essendone innamorata: dopo lo scandalo delle foto, accettai la sua proposta di matrimonio per sentirmi chiamare “signora”, ne avevo passate troppe e lui, devo dire, mi ha difeso in più di un’occasione. Un amore importante è stato con Gino Lavagetto, da cui ho avuto il nostro bellissimo figlio Fiodor».

La scelta di questo nome dostoevskiano?

«Proprio per la mia ammirazione nei confronti del grande autore russo: quando lessi “L’idiota” ero impazzita, entusiasta dall’opera».

È stata una buona madre?

«Credo di no. Lavoravo troppo ed ero spesso assente, ma adesso con Fiodor abbiamo recuperato il rapporto e ho un meraviglioso nipote, un ragazzo di 19 anni che vuole fare l’attore!».

E a proposito di ragazzi, ha avuto una relazione con Claudio Rossini, molto più giovane di lei...

«Non mi sono fatta mancare niente - sorride Miranda - Un giovane attore, ci conoscemmo per amici comuni, era fidanzato ma si innamorò di me follemente».

Tra un amore e l’altro, qualche rimpianto?

«Non aver avuto una vera sfera privata... e il tempo passa».

Nonostante il tempo che passa, ancora un sogno da realizzare?

«Oltre a saper cantare, ho sempre ballato molto bene: potrei esibirmi a “Ballando con le stelle”, perché no?».

Mita Medici: «Califano per riconquistarmi andò persino da mia madre. L’amore con Rubini? Mi lasciò per una norvegese». Storia di Emilia Costantini su Corriere della Sera martedì 5 settembre 2023.

«Sì! — sorride Mita Medici, sdraiata davanti al mare, sulle dune di Sabaudia a prendere il sole — Avrò avuto, credo, 2 o 3 anni e volevo avere un pubblico che mi ascoltasse. Ovviamente non avevo una proprietà di linguaggio, avevo imparato parole che non riuscivo a pronunciare nel modo giusto, le storpiavo, però mi frullavano in mente delle storie, magari rabberciate dalle favole o dai discorsi degli adulti che ascoltavo, e le rendevo mie. Più che recitare, emettevo dei suoni, dei fonemi, senza nemmeno capire quello che stavo dicendo, ma lo facevo con enfasi e i miei spettatori si divertivano. Non me lo posso ricordare, ero troppo piccola, me lo ha raccontato mia madre in seguito, però mi riconosco in questa voglia di comunicare, forse il primo approccio con quella che sarebbe stata la mia vita lavorativa».

Una vita lavorativa che inizia con il cambio di nome: da Patrizia Vistarini a Mita Medici. Perché? «Non fu una mia scelta e, i primi tempi che mi chiamavano col nome d’arte, non mi giravo nemmeno, non capivo che stavano chiamando me. Avevo 16 anni quando venni scritturata per il mio primo film, Estate, accanto a Enrico Maria Salerno e fu il grande Piero Gherardi, che firmava le scenografie, a suggerirmi il cambio nome. Ero stata scelta per aver vinto, l’anno prima, il concorso Miss Teenager Italiana al Piper Club e la pellicola era scandita da brani di musica beat. Piero era sicuro che sarei diventata un mito e allora esclamò: devi chiamarti Mita! Lo guardai sconcertata e replicai: ma che stai a di’? Alla fine, mi convinse».

E il cognome Medici? «Sul set mi divertivo a parlare in toscano: ho ascendenze familiari toscane, pur essendo una romana de Roma... E pensare che, essendo minorenne, non potei andare a vedere il film che era vietato! Io impersonavo una ragazza che seduceva il compagno della propria madre».

Un esordio molto movimentato, a cominciare dalla celebre discoteca romana... «Facevo parte di un gruppetto di ragazzine agguerrite e, per entrare, facevamo finta di essere più grandi: all’epoca si diventava maggiorenni a 21 anni! Superammo i controlli all’ingresso, fingendo di essere le nipoti dei fondatori del locale, Crocetta e Bornigia. Una volta la guardia di turno mi chiese il documento e, quando lesse la mia vera età, mi fece cenno di seguirlo in Questura».

Avvertirono i genitori? «Macché! Il tizio, vedendomi impietrita, si mise a ridere, era uno scherzo, per farmi spaventare».

Passato lo spavento, lei poi diventa addirittura la Ragazza del Piper... «Quando divenni Miss Teenager, fui mandata a Los Angeles per rappresentare la categoria per l’Italia, e una sera ne combinai una delle mie. Eravamo tante ragazze di varie nazionalità, riunite in un hotel a Hollywood e guardate a vista. Avevo voglia di conoscere la città, eludo la sorveglianza e comincio a vagare finché sento una musica: in un grande spiazzo si stava esibendo una band, dove spiccava un ragazzo con la sua voce forte. Anni dopo scoprii che era Jim Morrison, il frontman dei Doors!».

Come fece a rientrare in hotel? Sempre di nascosto? «Mentre, estasiata ascoltavo il concerto, mi sento agguantare alle spalle: una guardia dell’hotel mi aveva beccato e mi riportò indietro».

Insomma, Mita la ribelle? «Certamente una contestatrice... ho vissuto la giovinezza negli anni della grande contestazione e dell’emancipazione. Eppure non ne avevo bisogno, avevo una famiglia tutt’altro che convenzionale».

. «Talmente anti convenzionali, che si sono separati quando le separazioni erano rare, non c’era il divorzio: una famiglia che mi ha insegnato la libertà. Ho partecipato alle manifestazioni per la legge sull’aborto e ho iniziato presto a prendere la pillola perché volevo gestire la mia vita, scegliere di diventare madre oppure no. Nel mio piccolo, credo di essere stata un esempio per quelle più giovani di me».

Grazie al suo spirito libero ha conquistato Califano? «Fu Gianni Minà a presentarci. Non sapevo chi fosse il Califfo: io 19 anni, lui 12 più di me, tra noi fu un colpo di fulmine. Andammo a vivere insieme, in una palazzina a Roma dove abitavano Renzo Arbore, Shel Shapiro, Bracardi... un’allegra combriccola che condivideva la passione per la musica. Poi accadde che...».

Vi siete lasciati. «Per una sua stupida bugia. Mi disse che doveva partire per lavoro e invece una sera lo trovo nel ristorante che, oltretutto, frequentavamo insieme, con una ragazza. Un vero cretino: lui resta di sasso, io gli auguro buon appetito e sparisco».

Il Califfo non fece nulla per riconquistarla? «Andò persino da mia madre, scongiurandola di aiutarlo a convincermi, ma aveva tradito la mia fiducia».

Con ? «Un altro amore finito per il suo tradimento: stavolta con Loredana Berté che gli avevo presentato io...».

E con? «Era più piccolo di me, secco secco... Nacque una relazione mentre facevamo uno spettacolo di Andrea Camilleri: una sera, dietro le quinte, mi mise il suo palmo della mano in testa. Lo guardai, pensando: che tipo strano! Abbiamo convissuto, poi mi lasciò per tornare da Tina, una ragazza norvegese con cui aveva avuto una storia».

Poco fortunata in amore? «Ho avuto storie bellissime, ho ricevuto più di una proposta di matrimonio, ma mi faceva paura l’idea e sono una single incallita. La mia vita è un viaggio».

La Elena euripidea, che sta interpretando in teatro, ha qualche attinenza con Mita? « È una capitana tragica, una donna che avrebbe preferito morire, invece di essere causa di una guerra. Non è stata compresa, come spesso capita a noi donne».

In passato ha interpretato un testo intitolato «Naufraghi». Si sente una naufraga? «Sì, ma credo che tutti abbiano avuto momenti in cui si sono sentiti sperduti nel mare: o vieni salvato o ti salvi da solo. La vita va vissuta, sempre, comunque».

Mita Medici, il Piper e la swinging Roma "Tenco veniva a vedermi, Califano un grande amore. E con Al Pacino...". Silvia Fumarola su La Repubblica il 20 aprile 2023 

L'ex 'ragazza del Piper' racconta gli anni della Roma che guardava alla swinging London. Gli amici, Renato Zero a Carlo Verdone, il cinema, il teatro, la tv dei varietà e quel senso di libertà mai abbandonato: "Mi sento ancora una figlia dei fiori. I figli? Non sono venuti quando dovevano. E non ci ho mai tenuto a essere iscritta nell’albo degli sposati"

È rimasta una ragazza: Mita Medici apre la porta di casa, a due passi da San Pietro. La gran chioma trattenuta da una pinza, sottile, pantaloni della tuta, il maglione blu con la scritta ricamata: “Mi metti ansia”. Parliamone. Ride: “Mi divertiva. Con qualcuno serve, è un avvertimento”. Salotto pieno di ricordi, locandine, libri, foto; la gatta Micia, acciambellata su una sedia, vigila. All’anagrafe Patrizia Vistarini, 72 anni formidabili, figlia dell’attore Franco Silva (vero nome Francesco Vistarini) e di Anna Maria Perini, ex indossatrice, entrambi bellissimi. L’ex ragazza del Piper, la star di Canzonissima con Pippo Baudo, che ha attraversato con grazia teatro cinema tv senza mai scegliere, fidanzata con Franco Califano e Adriano Panatta, corteggiata da Robert De Niro, racconta la sua vita quasi stupendosi di quello che ha vissuto. E che non ha vissuto. “Io le chiamo ‘sliding doors’, capitano nella vita di tutti”.

 (fotogramma)Nella sua, però, sono parecchie. Cominciamo dagli inizi?

Pentirsi è stupido, però ogni tanto mi dico: eri proprio scema. Ma prima pensavamo a vivere, a conoscere, a giocare, oggi si deve vendere tutto. All’epoca c’era il gusto di imparare e di scoprire. Poi capisco, i miei erano persone anticonvenzionali. Vinsi il concorso Miss Teenager e partii per Los Angeles, senza mia madre, per rappresentare l’Italia. Mi accompagnò una giornalista che non conoscevo”.

Che esperienza fu?

Bellissima, ma un po’ come stare in collegio. Molti anni dopo, nel 1978, ci sono tornata. Ho vissuto in America per due anni e mezzo. L’estate avevo fatto Il mercante di Venezia, al cinema era l’anno delle commedie sexy. Ho frequentato l’Actor’s studio sia a Los Angeles che a New York”.

Partiamo da Roma, Via Tagliamento: il Piper era il suo regno?

Dopo la scuola, era il luogo dove incontrarsi, ballare e ascoltare la musica, che è importante, precede i cambiamenti o li accompagna. Trionfavano Claudio Villa e la Cinquetti, con tutto il rispetto, al Piper suonavano i gruppi, scoprivamo la swinging London, l’inglese l’ho imparato lì. Con mia sorella, Carla Vistarini, autrice televisiva, abbiamo due anni di differenza, ci hanno insegnato da bambine a essere indipendenti, con la consapevolezza di avere un valore: l’insegnamento più importante. Però mia madre ci seguiva a distanza, discreta. Chiamava Giancarlo Bornigia il fondatore del Piper: ‘Le ragazze sono arrivate?’. Ce lo ha detto venti anni dopo”.

Insieme a Renato Zero (fotogramma)Chi vedeva?

Loredana Bertè, Renato Zero, Patty Pravo, Gianni Boncompagni, Renzo Arbore, Carlo Verdone. Che persona stupenda, ho partecipato a Vita da Carlo 2. Il Piper era un mondo. Ci rendiamo conto che oggi alle feste comanda il disc jockey? Non mi piace chi comanda”.

Era libera da ragazza e lo è oggi?

Non sono esibizionista ma vivo le emozioni: non quelle che posso far scaturire negli altri, le mie. Mi piace parlare e ascoltare, che è la cosa più importante. Mi nutro di quello che mi sta intorno, è sempre stato così. Al Piper ci appartavamo sulle scalette, qualcuno veniva per pomiciare, ovvio”.

Era corteggiatissima, è vero che Luigi Tenco frequentava il Piper per vederla?

Così mi hanno detto. Dopo, però. ‘Sai che gli piacevi e veniva per te?’. Un artista meraviglioso, sensibile, molto più grande di me, chi poteva immaginarlo. Io andavo al Piper per stare con gli amici e ballavo come una pazza. Non ascoltavamo la musica per stordirci ma per stare insieme, confrontarci sul Vietnam, facevamo la manifestazioni, adesso le piazze sono state abbandonate”.

Gli uomini che ruolo hanno avuto nella sua vita?

Franco Califano è stato il primo amore importante consapevole, una persona molto profonda, negli ultimi tempi preso in contropiede dalla vita. Siamo andati a convivere. Come poeta e autore, i miei lo rispettavano. Con Franco siamo rimasti amici senza frequentarci, ma ogni volta che ci vedevamo era una festa. È finita, ero giovane. Mi ha voluto bene, sempre e per sempre, lo so”.

E Adriano Panatta?

Era dolce, gentile, bello. Siamo andati insieme per la prima volta a Stromboli, stavamo con un gruppo di amici a Panarea, ci dissero che era obbligatorio fare un giro a Stromboli. Partimmo in tre, giro dell’isola: bella, deserta, selvaggia. Poi ci fermiamo a mangiare da Stefano al canneto. Arriva l’aliscafo per ripartire, Adriano e l’altro si erano addormentati sotto una barca. C’era tutto il paese che ci guardava. Negli anni sono sempre tornata a Stromboli”.

È stato un grande amore?

Con Adriano eravamo coetanei, abbiamo anche cercato casa. Quando facevo Ciao Rudy – in compagnia c’era Loredana Bertè, abbiamo fatto tutta la tournée viaggiando in 500 – avevo conosciuto un’altra persona, il rapporto già scricchiolava. Adriano veniva a Milano a trovarmi, mi mandava le rose. Gli ho voluto bene. Una sera, stavamo in albergo, ero radioamatrice, stavo armeggiando e l’ho beccato con Loredana che facevano Cip e Ciop. Doveva essere così”.

Nel 1967 

Che importanza ha avuto l’amore nella sua vita?

È stato importante, come un integratore, si diventa anche più carine quando si innamora. Ma il matrimonio no. Mi sembra una coercizione, non ci ho mai tenuto a essere iscritta nell’albo degli sposati”.

Nel 1973 approda a Canzonissima, le piaceva il varietà?

Facevo Ciao Rudy a teatro, frequentavo il figlio di Eduardo, Luca De Filippo. La Rai cercava ‘la donna di Canzonissima’ e feci il provino. Cantavo e ballavo. Avevo interpretato lo sceneggiato Coralba di Daniele D’Anza, un successo. Con Pippo Baudo eravamo diversissimi, siamo rimasti noi stessi: lui Pippo, io Mita. Certe cose non mi gratificavano, ero lì per il pubblico dei giovani”.

Nel 1978 dopo aver fatto teatro, parte per Los Angeles. Cosa sognava?

Amavo il cinema. Grazie a Gianni Minà avevo conosciuto tante persone. A New York avevo incontrato Francesca De Sapio, in quel periodo si andava ai party. Una sera arrivano Al Pacino e De Niro. Sussurro: ‘Quello sembra Al Pacino’, mi danno una gomitata: è Al Pacino. Chiacchiero con De Niro, mi chiede il numero, riparto per Los Angeles. Ero fidanzata. Lui telefona. Gli dico: ‘Vado all’Actor’s studio, se vuoi ci vediamo là’. La mattina dopo arriva, ho guadagnato parecchi punti a scuola. In quel periodo faceva Toro scatenato. Un saluto, tutto qui. Poi ho fatto su e giù con l’America per anni. Ho tradotto, adattato, anche portato qualche testo. Con Sergio Rubini, a cui sono stata legata, abbiamo fatto tante cose”.

Con Franco Nero (fotogramma)Rimpianti?

Scientificamente delle cavolate le ho fatte”.

Come si definirebbe?

Una volta Alberto Sordi, mi spiegò: ‘Da quando ho cominciato, ho voluto rappresentare l’italiano medio e ho rifiutato tante cose’. È stato coerente. Dentro, sono precaria. Vede queste cose ammonticchiate? Mi dico: poi finirò di riordinare la casa. Il definitivo mi spaventa”.

Non ha avuto figli, ci pensa mai?

Non sono venuti al momento giusto e dopo non ho mai sentito l’esigenza di diventare madre. Oggi ogni tanto però ci penso: mi sarei divertita”.

Chi frequenta?

Un gruppo di amiche, più giovani di me di dieci anni. Con Carlo Verdone e Renato Zero, diciamo sempre che dobbiamo vederci prima che arrivino le cataratte”.

Senza cadere nella nostalgia, pensa che prima fosse meglio?

Le persone erano migliori, non so se ci sia un modo di recuperare la gioia di vivere. Non volevi essere quella che sapeva tutto. Ci piaceva scoprire. Oggi in giro non vedo grande curiosità, la molla di tutto. E l’immiserimento si vede”.

Che progetti ha?

Ho fatto un podcast Appassionatamente Mita, sulla chiusura delle lettere di personaggi importanti, Napoleone piuttosto che Bukowski, che scriveva ma lavorava alle poste. Il suo editore gli scrisse: ti do un tot al mese, ma devi scrivere. E poi andrò in scena con Elena o la passione amorosa di Salvo Bitonti”.

È mai stata veramente ambiziosa?

Dipende da cosa significhi ambizione. Per me era importante rimanere fedele a me stessa, capire il mio valore. Sicuramente sono un’extraterrestre, inadeguata a questa realtà. Per certi aspetti sono ancora una figlia dei fiori, senza ingenuità. Sono cresciuta pensando a un mondo migliore e sogno ancora di costruirlo”.

Chi deve ringraziare?

Sicuramente i miei genitori. E sono grata alla vita, alle persone che hanno creduto in me, a chi mi fa attraversare la strada. Sono grata al destino anche per le sliding doors, che sono state tante. Mi porto tutto dentro, io so chi sono… Anche se tante volte mi chiedo: chi sono? Più facile essere una donna catalogabile”.

Monica Bellucci: «L’amore con Tim Burton? Un’anima bellissima. Ecco cosa non manca mai in casa mia». Elvira Serra su Il Corriere della Sera venerdì 17 novembre 2023.

Intervista a Monica Bellucci, 59 anni «In casa a Parigi ho una foto di Sophia Loren. Io una diva? In casa porto certe ciabattine...Mia figlia Deva si diverte a recitare, ci commuove. Léonie ha solo 13 anni e una sensibilità artistica»

Monica Bellucci, top model e attrice: sulle piattaforme tv con «Mafia Mamma», a fine mese sarà al cinema con «Diabolik - Chi sei?». Ha da poco presentato il documentario sulla sua interpretazione in teatro di Maria Callas (foto Driu e Tiago)

Monica Bellucci ha la voce argentina mentre si scusa e chiede di posticipare l’intervista: è arrivata da poche ore a Città di Castello e c’è una tribù di cugine e parenti che le vuole far festa; solo a pranzo saranno una trentina. Ci risentiamo nel tardo pomeriggio, è più pacata, sempre felice di questa improvvisata che l’ha riportata alle origini, nella città dov’è nata, nel Paese che considera «casa», assieme ormai alla Francia. È fresca della partecipazione alla Festa del Cinema di Roma, dove ha presentato Diabolik - Chi sei?, dei Manetti Bros, e Maria Callas: lettere e memorie, il documentario sul tour teatrale durato tre anni nel quale ha interpretato la Divina. Su quel tappeto rosso hanno colpito tutti le immagini di felicità piena e di tenerezza con le quali lei e il compagno Tim Burton hanno presentato il loro amore agli occhi del pubblico: se l’attrice italiana è apparsa nella sua piena fioritura, il regista statunitense non ha trattenuto una gioia cristallina.

Monica, glielo chiedo subito così ci togliamo il pensiero. Cosa ci può dire di questo amore?

«È sempre difficile parlare di un incontro privato. Posso dire solo che per me è un incontro umano speciale: Tim è un’anima bellissima e sono molto felice».

A 40 anni è diventata madre, a 50 Bond Girl. A 60 cosa vuole fare? Magari sposarsi di nuovo?

«Manca ancora un anno! L’importante per me è continuare a stare bene e fare cose che mi piacciono e mi stimolano. Ha dimenticato, per esempio, che a 45 anni sono diventata madre per la seconda volta e a 55 anni ho fatto teatro per la prima volta, con Maria Callas».

Estremizzando il discorso di Pierfrancesco Favino a Venezia, lei, non greca, non avrebbe dovuto interpretare quel ruolo.

«Posso dire che anche Napoleone, adesso, è stato interpretato da un attore non francese (Joaquin Phoenix; ndr): il cinema non ha parametri. Però è un pensiero più che legittimo talvolta vedere un ruolo italiano importante e dispiacersi se non lo ha interpretato un italiano. Anch’io per Maria Callas in principio ho pensato che forse sarebbe stato meglio se l’avesse interpretata un’attrice greca. Una delle prime rappresentazioni l’abbiamo fatta proprio nell’antico Odeon di Erode Attico ad Atene, perché era importante per noi avere il benestare del mondo greco prima di partire con la tournée internazionale».

A Roma abbiamo potuto vedere in anteprima il film che chiude la trilogia dei Manetti Bros su Diabolik. Cosa le è piaciuto della sua Altea?

«Di lei mi piace che è libera, intraprendente, coraggiosa, sensuale, femminile. Vale anche per Eva Kant. In nome dell’amore che le lega ai loro uomini si uniscono questa unica volta. Mi riconosco nel ruolo per il fatto che queste donne sono prototipi delle donne di oggi, pioniere di quello che siamo diventate noi piano piano nel tempo».

Forse somigliano alle sorelle Giussani, che le hanno create.

«Sicuramente sono un po’ come loro: libere e indipendenti, artiste e imprenditrici. Uscivano da tutti i parametri dell’epoca, che volevano ancora le donne relegate in casa».

Lei interpreta il ruolo con ironia. La stessa che stiamo vedendo in queste settimane su Amazon con Mafia Mamma, la commedia di Catherine Hardwicke nella quale recita con Toni Collette. Ne avevamo parlato subito dopo la fine delle riprese, prima che cominciasse lo sciopero degli attori e degli sceneggiatori di Hollywood.

«Lavorare con Toni è stata una bellissima esperienza, lei ama l’Italia e si è trovata benissimo qui da noi. Il nostro ruolo è molto ironico, è stato divertente ritrovarsi in questo mondo che forse conosciamo bene: chi di noi non ha visto i film di Coppola o Scorsese sulla mafia? Ma qui il risvolto è completamente femminile, leggero, brillante».

Ormai le capita sempre più spesso di lavorare con registe donne. Qual è la differenza con gli uomini?

«Essere una regista a Hollywood non è sempre facile e Catherine Hardwicke ha dimostrato di essere molto forte in un mondo complicato, raccontando tanti universi diversi. Ho appena finto di girare anche il nuovo film di Marjane Satrapi, pure con lei un’esperienza molto bella. Ecco, le donne certe volte riescono a raggiungere argomenti molto intimi che solo loro possono raccontare. Un esempio clamoroso è Il piacere è tutto mio».

Con Emma Thompson e la regia di Sophie Hyde.

«Sì, è un film molto sottile, intimo, racconta un mondo che solo le donne possono toccare. Emma Thompson è stata molto sensibile e forte a fare un film così. Testimonia l’atteggiamento di tante donne che accettano i cambiamenti del tempo, cambiamenti peraltro molto naturali. Ecco, l’ho trovato un film controcorrente, anche per il modo di raccontare la femminilità con pudore da un lato e con estrema libertà dall’altro. È un modo nuovo».

E lei che rapporto ha con il tempo che passa?

«Io sono come tutti. Mi dico che fare la guerra con qualcosa che è troppo più potente di noi è inutile. Ognuno ha il suo modo di far fronte al tempo che passa, ma già quando dici che il tempo sta passando sei fortunata. Io mi sveglio e sto bene e le mie figlie stanno bene e penso che questa sia la cosa più importante».

«MIA FIGLIA DEVA SI DIVERTE A RECITARE E MI COMMUOVE. LÉONIE HA SOLO 13 ANNI E UNA SENSIBILITÀ MOLTO ARTISTICA. VEDREMO...»

Che effetto le ha fatto vedere sua figlia Deva nel La Bella estate ?

«L’interpretazione di Deva mi ha colpito molto e mi ha emozionata. Ho trovato il film delicato, sensibile, profondo, elegante, e per lei una esperienza importante. Laura (la regista Luchetti, ndr) l’ha accompagnata con estrema vigilanza e protezione, e guardandolo questa cosa si sente. Mi fa felice sapere che Deva è felice. Anche Il Gattopardo per lei è un’esperienza bellissima. E sta continuando a lavorare pure nel mondo della moda: si sente libera di muoversi senza per forza precludersi una strada».

È mai andata a trovarla sul set?

«Sono andata per La bella estate, non proprio sul set. Mentre per Il Gattopardo l’ho solo vista a Roma. Penso sia giusto che faccia le sue esperienze libera, senza sentirsi un peso sulle spalle. Sa già che la barra per lei è più alta perché è figlia di»

Léonie continua a essere più portata per la scrittura?

«Ma Léonie ha solo 13 anni, è giovanissima! Le piacciono tante cose, ha una sensibilità molto artistica, ma è ancora piccola».

Lei ha più di una casa, in diversi Paesi. Che cosa non manca mai in ognuna?

«In casa mia non mancano mai la pasta, il parmigiano, l’olio, le mozzarelle, prosciutto crudo e cotto, le cose che posso utilizzare per preparare la cena in un secondo quando rientro tardi».

«È SEMPRE MOLTO DIFFICILE POTER FARE UNA DESCRIZIONE DI SÉ STESSI... IO HO PASSIONE PER QUELLO CHE FACCIO, MA PIÙ DIVENTI ADULTA E PIÙ ACQUISTI DISTANZA DALLE COSE. MI PIACE IL MIO LAVORO E HO VOGLIA DI VIVERE LA MIA VITA: QUESTA SONO IO»

Nella sua cucina a Parigi c’è la foto di Sophia Loren. L’ha mai incontrata?

«Per caso due volte, di sfuggita. Ma non ho bisogno di parlarle, è talmente meravigliosa, è già nel mio immaginario».

Lei è la sua erede naturale: è l’italiana più famosa nel mondo.

«È sempre molto difficile poter fare una descrizione di sé stessi, oggi c’è un modo di vivere l’immagine che è diversa dal passato. Io ho passione per quello che faccio, ma più diventi adulta e più acquisti distanza dalle cose. Mi piace il mio lavoro e ho voglia di vivere la mia vita: questa sono io».

Internet Movie Database le attribuisce una ottantina di film. Ripensa mai al passato e ai rimproveri di Laudadio al suo debutto al cinema, con La riffa ?

«Davvero sono così tanti? Non li ho mai contati. Se mi guardo indietro vedo un percorso. Mi rendo conto di aver avuto tanta fortuna: anzitutto quella di iniziare. Io venivo dal mondo della moda e sono sbarcata nel mondo del cinema senza avere una preparazione. Guardo questo con meraviglia. Ho avuto l’opportunità di lavorare con persone che mi hanno fatto crescere, con registi diversi, anche il teatro è stato un’esperienza incredibile, con la tournée per Maria Callas che è durata tre anni. Lo spettacolo era partito dal teatro Marigny a Parigi e poi si è trasformato in una tournée in tre lingue, per diventare infine il film che abbiamo visto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma».

«DA GIOVANE MI EMOZIONAI LAVORANDO CON GENE HACKMAN E MORGAN FREEMAN. ORA SONO CURIOSA DI CONOSCERE RENZO PIANO»

C’è un ruolo che le sarebbe piaciuto interpretare?

«No, però ho sognato di diventare attrice guardando le nostre grandissime Anna Magnani e Giulietta Masina, Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Poi ho scoperto le attrici francesi e americane, ma la mia voglia di cinema è venuta con quei film bel lissimi che conosciamo tutti».

Qual è l’ultimo film italiano che ha visto?

«Io capitano di Matteo Garrone, un film stupendo, un colpo al cuore».

Lei sembra perfetta. Ma anche in casa sta con i tacchi?

«Ma no, ho delle belle ciabattine. E alla mattina accompagno mia figlia a scuola con gli stivalini bassi».

Somatizza, quando è nervosa o in ansia, come noi comuni mortali?

«Sono una comune mortale! Quando ho fatto teatro era un grande piacere, ma anche una grande sofferenza: è spettacolo vivo, c’è questa verità dove l’attore diventa trasparente, si sente l’emozione che passa da lui al pubblico. C’è questa relazione così sottile e così sincera con gli spettatori, che non li puoi tradire. È un’esperienza molto bella, ma anche dolorosa, perché sei senza pelle».

Le viene mai il mal di pancia prima di un debutto? Ride.

«Certo che mi viene, infatti anche adesso quando mi fanno nuove proposte per il teatro dico di no, prima devo metabolizzare».

Le succede pure per i film?

«Sì, i primi giorni c’è una specie di sensazione molto forte e poi piano piano entri nel gruppo e si crea una bella simbiosi con tutti: al cinema sei molto più protetta che a teatro».

Si è mai emozionata a lavorare con attori che lei considerava «grandi»?

«È successo quando ero molto giovane, per esempio in Under Suspicion, con Gene Hackman e Morgan Freeman, che per me erano due mostri sacri».

L’ultimo libro che ha letto?

«Sto leggendo ora La dama di creta di Christiana Moreau».

A quale premio è più affezionata?

«Al mio David di Donatello».

Avrei detto alla Légion d’honneur.

«Ma no, quella è più simbolica. Il David è per il mio lavoro!».

Un uomo che l’ha emozionata incontrare, al di fuori del cinema?

«Ne incontrerò presto uno che mi incuriosisce molto: Renzo Piano».

Non la deluderà. Può starne certa.

Morgan fuori da X Factor come nel 2014. Angelo Vitolo su L'Identità il 21 Novembre 2023

Morgan è fuori da X Factor. Un copione già visto, dopo il suo addio al programma nel 2014, quando affermò che mai ci sarebbe ritornato. Sky Italia e Fremantle Italia hanno infatti deciso “di comune accordo, di interrompere il rapporto di collaborazione con Morgan e la sua presenza a ‘X Factor’ come giudice.

Una valutazione – si legge nella nota di Sky e Fremantle – fatta a seguito di ripetuti comportamenti incompatibili e inappropriati, tenuti anche nei confronti della produzione e durante le esibizioni dei concorrenti, e delle numerose dichiarazioni susseguitesi anche in questi giorni. È imprescindibile che i concorrenti e il loro percorso restino al centro del programma. La musica e il talento sono sempre stati e devono continuare a essere il motore fondamentale di X Factor, ed è prioritario che tutto si svolga in un ambiente di lavoro professionale e che il confronto, per quanto acceso, si esprima sempre nel rispetto reciproco. La decisione è presa in considerazione dei valori di cui Sky, Fremantle e X Factor sono portatori, nel rispetto tutte le persone coinvolte e del pubblico, e avrà effetto immediato”: già da giovedì la sua sedia sarà vuota o nel frattempo assegnata ad un altro giudice.

“Non hanno il peso della cultura”, la sua replica affidata a LaPresse. E poi: “E’ stato emanato l’editto satellitare”. Le prime parole di un batti e ribatti che continuerà per molto ancora, come nello stile del personaggio.

Estratto dell'articolo di Francesca D'Amato per editorialedomani.it venerdì 8 dicembre 2023.

È stato Morgan a sollevare dubbi sulle dinamiche dietro le quinte del talent show X Factor. Dopo essere stato allontanato ufficialmente dal programma aveva sganciato una bomba contro Fedez, attaccando il frontman degli Stunt Pilots, Zo Vivaldi. A seguito delle rivelazioni di Morgan sulle presunte collaborazioni con i cantanti e gli interessi comuni tra i giudici, il Codacons – che con Fedez si è incrociato spesso in tribunale, ma questa è un’altra storia – ha lanciato una raccolta firme per chiudere il programma. 

[...] Seguendo il filo di Morgan attraverso Spotify e Youtube emerge che la maggior parte dei concorrenti di X Factor ha collaborato con alcune sotto-etichette discografiche di Warner Music Italy.

La major dal 2023 è il nuovo partner discografico di X Factor Italia, dopo aver sostituto la Sony con cui la collaborazione andava avanti dal 2008.

«Fedez, Dargen, Michielin sono una combriccola di produzione discografica sostenuta dalla Warner», aveva affermato Morgan. L’artista aveva detto che i colleghi godevano di favoritismi per quanto riguardava scenografie, vestiti e coreografie. Nei curriculum della maggior parte dei concorrenti di X Factor c’è un fil rouge che li lega ed è Ada Music Italy, società indipendente del Gruppo Warner Music Italy.

Per verificarlo basta cercare i singoli e i video degli artisti su Spotify e Youtube. L’album degli Astromare “AM &ROLL” è stato prodotto dalla M&M-D&G music e distribuito da Ada music Italy. [...]

Idem sul curriculum dei Sickteens, che nel 2022 hanno lanciato “Dove ci siamo lasciati” e l’anno dopo “Tutto al contrario”, entrambi prodotti da Orangle records e distribuiti da Ada music Italy. Matteo Alieno dal 2020 al 2022 ha collaborato con l’Honiro e nel 2023 ha lanciato l’album “Lucio Dalla”, prodotto dalla Maciste dischi e distribuito sempre da Ada Music Italy.

Lo stesso vale per l’artista Il solito Dandy, che dal 2017 al 2023 è stato sotto l’etichetta discografica Neverending Mina e distribuito da Ada music Italy.

I suoi singoli tra cui “Turismo sentimentale”, “Pozzanghere”, “Thailandia” e “Boh”, sono stati invece prodotti per Neverending Mina e distribuiti da Artist first. L’Artist First è la stessa etichetta di Dardust, celebratissimo autore e produttore che vanta moltissime collaborazioni tra cui anche con Fedez e di Francesca Michielin.

L’inedito de Il Solito Dandy “Solo tu” è stato scritto da Leo Pari, artista anche lui distribuito da Ada music Italy.

Andrea Settembre, l'altro artista del team D’Amico, nel 2018 era uscito vincitore al Festival Show. A distribuire il cd Summer Hit era ancora la Warner Music. Infine l’inedito “Inverno” della cantante Angelica è stato scritto da Tananai, Antonacci e Davide Simonetta. Lo stesso professionista che cura anche l’art direction di Fedez e Annalisa e che ha scritto anche “Bellissima”. 

«Se vediamo cosa è successo in questa edizione» aveva commentato infatti Morgan «nella prima puntata, uno dei ragazzi cantava stranamente una canzone di Annalisa, che ci siamo trovati poi come ospite, e adesso vediamo che Angelica, una delle potenziali vincitrici, canterà un inedito scritto dagli stessi autori che guarda caso compaiono anche nei dischi di Fedez, Michielin e Dargen».

Lorenzo Sarti in arte Zo Vivaldi è il frontman degli Stunt Pilots insieme a Moonet e Farina, in squadra con Dargen D’Amico. Morgan aveva rivelato che in passato Zo Vivaldi aveva lavorato con Fedez. L’artista aveva firmato per lui dei brani per l’album Paranoia Airlines, ma anche per Trap Lovers della Dark Polo Gang e per altri artisti della scuola di Amici di Maria De Filippi. 

Ai microfoni del podcast “Una media chiara” gli speaker chiedono a Zo Vivaldi cosa ne pensa dei talent show e lui afferma: «Ho etichetta e connessioni, non credo di aver bisogno dei talent in questo momento». [...] Al cantante le connessioni non mancano: i brani di Zo Vivaldi tra cui “Voilà”, “Ok ko” e “Spero di star male” sono distribuiti da Ada Music Italy e prodotti dalla Amongus Management di Davide Malvi.

Il produttore di Amongus, che su Instagram possiamo trovare con il nickname di «unbertoprimo», è anche uno dei produttori della Warner Chappell Music, società del gruppo Warner Music. In effetti se si va a vedere nella sezione “songwriters” del sito Warner Chappell tra i nomi presenti c’è anche quello di Zo Vivaldi. 

[...] Non solo, sempre nel podcast “Una media chiara”, Zo Vivaldi afferma che Fedez aveva firmato anche il sotto management dell’album della Dark Polo Gang, lo stesso a cui Sarti stava lavorando. [...]

Si tratta di normali scambi, collaborazioni, incroci che fanno parte integrante del mondo della musica. O come accusa Morgan l’incidenza di artisti dello stesso “giro” nello stesso talent è anomala? 

[…]

Colpevole di essere Morgan. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 22 novembre 2023.

Quelli che avevano ingaggiato Morgan perché facesse Morgan hanno mandato via Morgan perché si era permesso di fare Morgan. Il meccanismo, spiega Aldo Grasso, si è ormai allargato dai talk show ai talent come X Factor, dove i giudici hanno progressivamente oscurato i concorrenti, e funziona grosso modo così: si invita un portatore di caos dall’ego ipertrofico lasciandogli credere che è ricercato solo per la sua competenza, ma in realtà con l’obiettivo di farne una maschera della commedia dell’arte televisiva.

Se il joker recita la parte assegnatagli in modo prevedibile (pensate al professor Orsini e alla ripetitività ossessiva delle sue argomentazioni e dei suoi tic verbali), conserverà il posto finché non sarà venuto a noia e sostituito da qualche altra maschera meno usurata. Se invece il joker si imbizzarrisce, scarta, esce dai ranghi e morde la mano del padrone che lo ha creato, allora verrà espulso dal sistema come un corpo estraneo.

Morgan è un esemplare abbastanza unico. A differenza di Sgarbi, non è un animale a sangue freddo, capace di gridare «capra-capra-capra» per ore e poi di mettersi a parlare di Leonardo e Raffaello come se niente fosse. Morgan, infatti, non è un uomo di potere ma un artista, e come tale si porta addosso un carico esorbitante di fragilità autodistruttiva che lo rende, almeno ai miei occhi, un personaggio tragico di cui parlar male quando se lo merita, ma a cui voler bene persino quando non se lo merita.

Morgan: «I fuori onda di X Factor? Un bluff per fare ascolti. Era solo una lite con Ambra». Storia di Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023. 

Di nuovo Morgan. E di nuovo Striscia. Lo strano palleggio di accuse e responsabilità che sta dietro la cacciata del cantautore da X Factor, passa ancora una volta dal tg di Antonio Ricci.

Ieri, dopo la prima puntata del talent di Sky con un giudice in meno, Valerio Staffelli è tornato da lui. «Avevano minacciato di mandare i miei fuori onda — ha detto Morgan —, ma non esistono».
 

Secondo lui sarebbe tutta una strategia, anzi, «un bluff. Così che la gente guardasse. E infatti ha fatto un sacco di ascolti». Vero: quello di giovedì è stato il miglior risultato della stagione: 689 mila spettatori e una share del 3,4%.

Effetto Morgan, lui ne è convinto. «Hanno fatto un’audience micidiale. Questo è uno stratagemma dei signori della televisione». Stratagemma o no, di fatto le immagini inedite che avrebbero dovuto aprire la puntata non ci sono state. Significa che non è successo niente? Fedez aveva parlato di episodi «gravissimi», tanto da rendere il licenziamento di Morgan inevitabile. «Io non ricordo di aver fatto cose gravissime». Quindi ha ribadito l’ipotesi della «cricca», riferendosi a Fedez, Dargen, Ambra e Michielin.

«Mi pativano», ha aggiunto, suggerendo ancora una volta l’idea di essere stato svantaggiato: «Se mi avessero lasciato fare cose con scenografie normali, come loro, avrei vinto. Invece hanno dovuto zavorrarmi».

Un fatto che avrebbe alimentato «dello scontento. E mi sono innervosito. Poi hanno sbattuto fuori tutti i miei artisti. Ma è meglio essere stato estromesso. Non mi piaceva come andavano le cose, mi hanno fatto un favore».

Un ennesimo giro di giostra, che farebbe sembrare le accuse di Fedez prive di fondamento. «Spero la smetta di dire queste cavolate perché non sono vere e se ha delle prove le porti».

Ma le prove, in questo processo senza giudici ma con tanti lustrini, per Fedez sono proprio i fuori onda. «Ci sarà il registrato di quando ho mandato a cag.. Ambra». Immagini in cui la giudice gli avrebbe detto: «Tu mi tratti così perché sono donna. Al che le ho risposto: ma vai a fare in c... questo è il dialogo».

Quindi, ha chiesto: «Dice che l’ho minacciata, vero? Ho solo detto che lei e Michielin avevano fatto una cosa str.. quando sono andate in discoteca a prendermi in giro (avevano cantato assieme Bellissima di Annalisa, da lui stroncata in tv, ndr.). Ho detto che avevano fatto una cosa da str.. È una minaccia?». Si vedrà al prossimo giro.

Morgan fuori da X Factor: «Fedez terribile e violento, urlava "o io, o lui". Bugo? Non ho letto il suo post». Maria Volpe su Il Corriere della Sera martedì 21 novembre 2023.

Morgan parla dopo essere stato escluso da X Factor: «Io come Biagi e Santoro? Oggi censura di parole, impensabile ai oro tempi. È tutto organizzato, non potevo nemmeno scegliere le canzoni per i ragazzi: li ho smascherati»

Un fiume in piena Morgan. Neanche tanto furibondo. Più che altro deluso dalla tv, dall’ambiente discografico, dai colleghi, specie da Fedez. Com’era prevedibile Morgan è stato «licenziato» da Sky e Fremantle che «hanno deciso, di comune accordo, di interrompere il rapporto di collaborazione con Morgan e la sua presenza a “X Factor”». Una nota per spiegare che si è trattato di «una valutazione fatta a seguito di ripetuti comportamenti incompatibili e inappropriati (le liti dei giorni scorsi con Fedez, Dargen, Ambra e Michielin, ndr), tenuti anche nei confronti della produzione e durante le esibizioni dei concorrenti».

A caldo Morgan ha parlato di «editto satellitare», riferendosi all’«editto bulgaro di Berlusconi (che cacciò Biagi, Santoro e Luttazzi, ndr), solo perché ho scompigliato gli interessi di una lobby allucinante». Da una parte dunque Sky, i tre giudici del talent ormai ex amici, la conduttrice Michielin che mal sopportavano le uscite (e le offese) di Morgan; dall’altro lui, artista eccentrico, di altissima competenza, che dice con chiarezza: «“X Factor” mi ha supplicato di partecipare. E mi ha chiesto di fare Morgan. Poi quando faccio Morgan, mi caccia». È arrabbiato perché «ho appreso dai social del comunicato, non mi hanno detto nulla. Da giorni parlavano del possibile licenziamento ».

Ma dalla produzione fanno sapere che i legali dell’emittente hanno dato formale comunicazione agli avvocati di Morgan via Pec e che lo stesso artista è stato chiamato dalla produzione per avvisarlo. Morgan dice che ciò che lo ha ferito di più è l’aspetto umano della vicenda. «Loro mi conoscono, hanno distrutto i miei progetti di vita per farmi partecipare a “X Factor”, sanno che ho tre figlie a carico, lo sfratto , il sovra indebitamento. Mi hanno coinvolto e poi mi hanno trattato senza rispetto». Morgan sottolinea anche come Sky gli abbia promesso «protezione mediatica e libero arbitrio nelle scelte dei brani. Ma nulla di questo è stato mantenuto». Una diatriba che ha trovato grande spazio nei social: pro Morgan, contro Morgan, pro Sky, contro Sky. E tra i tanti post anche quello di Bugo che se la ride..Moragn replica: «Non ho visto il post di Bugo. Pensare che volevo anche invitarlo a “X Factor”.. Io non porto rancore».

Difficile comprendere come si sia arrivati a questo punto, da entrambe le parti. Prima tanto amore, poi accanimento. Morgan in diretta si era anche lamentato per non aver potuto «scegliere i brani dei suoi artisti» e ha accusato Dargen di essersi venduto allo showbiz. «La verità — sottolinea l’ex coach — è che io ho minato gli equilibri del loro sistema economico, ho smascherato la loro illegittimità, e loro compatti hanno chiesto la mia testa. Tutto è cominciato già dalla prima puntata quando ho detto che era brutto il brano di Annalisa con il testo di Simonetta. Il quale lavora con D’Amico e Michielin. Sono tutti dello stesso giro».

Vero è che Morgan ha spesso superato il limite. In diretta ha dato del depresso a Fedez. Poi si è scusato. E ora rivela: «Quel che ho detto a Fedez è stato ironico e autoironico, ma lui dietro le quinte, a fine puntata, è stato violento nei miei confronti, ha detto cose terribili. Ero nel camerino con mia figlia di 3 anni, lui urlava, bestemmiava dicendo: “O lui, o io, dovete cacciarlo”. Mia figlia mi diceva “Papà perché hai paura?”». E aggiunge: «Io ho sempre pensato che Fedez fosse un ragazzo intelligente, gli sono stato vicino durante la malattia. E la vita è quello che conta di più».

L’artista ora pensa al suo nuovo singolo in uscita e alla fine sorridendo conclude: «Tutto ciò mi fa accelerare i tempi del mio ritorno in Rai». E a chi gli chiede se intende fare causa dice: «Ci sarebbero gli estremi per andare davanti a un giudice del lavoro, perché non si licenzia così una persona, ma chi c’ha voglia». Pensa al passato di «X Factor» quando rideva con Mara Maionchi e nessuno si offendeva. Adesso ha solo voglia di buttarsi questa esperienza alle spalle, esperienza nella quale non si è mai sentito «accolto. Erano tutti contro uno». Ma anche Sky vuole buttarsela alle spalle. Troppe le tensioni delle scorse settimane. E pensa alla diretta di domani. Ci sono ancora tre puntate e Morgan non verrà sostituito.

Caos X Factor, Fedez: «Morgan violento con le lavoratrici di Sky». Morgan: «Fedez è malato e ha paura di morire». di Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2023.

Raggiunto da «Striscia la notizia», il rapper ha raccontato la sua versione: «Ci hanno fatto passare come la P2 ma c’è altro». Ma Sky: «Non ci sono immagini tenute nascoste»

Tocca a Fedez. La settimana più lunga di X Factor — quella delle urla e delle liti in diretta, ma, soprattutto, quella dell’allontanamento di Morgan —, si chiude con le dichiarazioni, pesantissime, del rapper a Striscia la Notizia. «Morgan — ha detto Fedez a Valerio Staffelli, che gli ha consegnato un Tapiro d’oro — non è stato mandato via per il “vaffa” ad Ambra, la depressione, il litigio con Dargen o la battuta su Ivan Graziani. Sky è stata costretta a cacciarlo per dei comportamenti gravissimi che ha tenuto nei confronti di altre persone fuori dalla diretta, ma ripresi dalle telecamere».

Il caso mediatico diventa così una battaglia, in cui si lascia intendere che, rispetto a quello che si è visto in onda, ci sia ben altro. Morgan (che fino a un certo momento della serata di ieri pareva non aver perso il buon umore visto che, nella chat creata con molti giornalisti per il lancio del suo nuovo disco, ha scritto: «Hanno affidato gli Astromare ad Ambra? Così qualcuno le insegna il do maggiore») nei giorni scorsi aveva accusato Fedez di essere tra i principali responsabili del suo allontanamento, riferendo i dettagli di una sua violenta sfuriata. Ma il rapper non ci sta. «Le affermazioni sono talmente gravi che ho già chiamato Marco: se non smentirà, l’unico modo per far emergere la verità è un’aula di giustizia. Io non ho sfiorato Morgan con un dito e non ho nemmeno tirato pugni al suo camerino. La verità è il contrario».

Non solo. Fedez ha contestato l’idea secondo cui lui sarebbe il vertice di una «potente cricca capace di decidere ogni cosa a X Factor». Per smentirla, ha raccontato: «Mi è stato detto che Morgan sarebbe stato uno dei giudici ad aprile. Io non lo volevo a quel tavolo. Per una serie di motivi, che vanno dai carichi pendenti che ha, molto gravi, dal comportamento poco professionale che ha dimostrato negli anni».

E poi, la bomba: «E anche per gli atteggiamenti aggressivi e violenti che ha avuto nelle passate edizioni nei confronti di alcune lavoratrici di Sky. Lui è stato mandato via quando avevo 23 anni per questo». Un’accusa pesante, lanciata per spiegare che «io nelle decisioni di Sky non conto niente». Quindi ha rievocato le affermazioni omofobe di Morgan della scorsa estate, che avevano messo a rischio il suo ritorno al talent. «Ma Sky ha preso la decisione e ci ha fatto passare un po’ come se fossimo conniventi. Ma nessuno ci aveva chiesto se fossimo d’accordo...».

Il dito puntato da Fedez contro Sky diventa qualcosa di più quando parla dell’ «epurazione. Anche qui, Sky non ha condiviso con noi il comunicato... però il badile ci è venuto in faccia». Tradotto: «Ad oggi sembra che il Licio Gelli Fedez e la P2 Dargen, Ambra e Michielin hanno deciso di mandarlo via».

Quindi, l’affondo: «Morgan non è stato mandato via per le cose viste in video. Morgan è stato mandato via per cose che sono state dette off diretta ma non off camera, molto, molto gravi e violente, che riguardano non me». Un’altra storia, che Fedez (che domenica tornerà in Rai, a Domenica In, con una intervista registrata) suggerisce di farsi raccontare «andando dai vertici di Sky. Sky ha registrato altre cose rispetto a quelle che dice lui. Sky sapeva che Morgan era così e che sarebbe finita così: non voleva cacciarlo, è stata costretta perché sono successe cose gravissime».

Ma Sky in serata ha fatto sapere che non ci sono immagini tenute nascoste. Nella puntata di questa sera andrà in onda, tuttavia, una clip con materiali inediti riferiti alla scorsa settimana.

Poco dopo, però, Morgan si è scagliato contro Fedez, sempre nella chat con i giornalisti: «Sei un ragazzo di 33 anni a cui importa solo dei soldi, perché non hai altri interessi. Sono io che ti dovrei denunciare». E ancora: «Fedez è un ragazzo, dice cose da ragazzo. Ha paura di morire perché ha una grave malattia che lo attanaglia, è sull’orlo dell’abisso per una condizione di umore che gli ha tolto la vitalità. Comprendo le sue debolezze... a loro stavo sui c... perché li facevo sentire ignoranti, ma giuro che non era mia intenzione. Ho sempre abbassato il livello dei miei interventi perché fossero il più possibile comprensibili anche da loro».

Il licenziamento, le bestemmie di Fedez, la causa: la vendetta di Morgan contro X Factor. Dopo l'annuncio di Sky e Fremantle sul licenziamento da X Factor, Morgan ha tenuto una conferenza stampa per dire la sua sull'intera vicenda. Novella Toloni il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Perché Morgan era tornato a X Factor

 Morgan durissimo su Fedez

 Le accuse agli altri giudici

 "L'ho saputo dai social"

 Morgan farà causa a Sky e Fremantle?

L'estromissione da X Factor ha lasciato l'amaro in bocca a Morgan, che poco fa ha ricevuto anche il tapiro d'Oro di Striscia la notizia per quanto accaduto nelle ultime ore. Dopo giorni di indiscrezioni, Sky e Fremantle hanno ufficializzato la fine della collaborazione tra il giudice e il talent "a seguito di ripetuti comportamenti incompatibili e inappropriati" tenuti da Morgan nel programma. Ma l'artista non è rimasto in silenzio e, dopo avere pubblicato un post Instagram sibillino, ha convocato una conferenza stampa in streaming per dire la sua, rispondere alle domande dei giornalisti e togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

"Se mi sento trattato come Biagi e Santoro? No, mi sento come un uomo che vive in una realtà alla deriva, che assiste con i suoi occhi ad uno spaventoso naufragio umanistico. Dove la censura delle parole, dove la mancanza di valori morali e culturali sono arrivate a un livello impensabile all'epoca degli editti di Biagi e Santoro", ha detto in avvio di conferenza Morgan.

Perché Morgan era tornato a X Factor

Morgan ha voluto mettere le cose in chiaro circa il suo ritorno a X Factor dopo anni di lontananza. Secondo quanto riferito dall'artista sono stati gli autori del programma a contattarlo per offrirgli il ruolo di giudice, che già aveva ricoperto con successo in altre edizioni, e lui - dopo ripetute lusinghe - ha ceduto. "Non avevo la minima intenzione di fare X Factor, lavoravo in Rai, stavo ultimando l'album di inediti e loro sono venuti a cercarmi con insistenza assordante", ha detto Morgan, parlando del perché ha accettato: "Avevo chiesto: protezione mediatica. Libero arbitrio nelle scelte dei brani. La possibilità di fare un evento estivo di musica in televisione prodotto da loro in collaborazione con Rai. Nulla hanno mantenuto".

Morgan durissimo su Fedez

È soprattutto contro Fedez che Morgan ha puntato il dito. Secondo l'ex giudice di X Factor dietro alla sua cacciata ci sarebbe Federico Lucia. "Mi ha detto cose gravi, bestemmiava, è stato violento e l'ha fatto davanti a mia figlia di tre anni. Una roba agghiacciante", ha dichiarato il cantante, riportando le frasi che il rapper avrebbe pronunciato dietro le quinte dopo l'ultima incandescente puntata: "Diceva: 'O lui o io, deve andarsene fuori dai co***oni' e anche minacce tipo 'Ti tolgo i pochi spiccioli che hai, demente'. Sky dovrebbe fornire i video, dato che c'erano le telecamere accese". E prima di chiudere il discorso su Fedez, Morgan ha punzecchiato il rapper: "Io non prendo soldi per inquadrare i figli".

Le accuse agli altri giudici

Sui motivi del suo "licenziamento" Morgan ha le idee chiare. A farlo finire fuori dal banco dei giudici non sarebbero stati i comportamenti tenuti in trasmissione, ma ben altro. "Non so chi ha chiesto la mia testa ma si può pensare che l'abbiano chiesta tutti. Loro sono una combriccola di produzione discografica sostenuta dalla Warner", ha tuonato il cantautore, facendo nomi e cognomi: "Dargen D'Amico, Michielin, Fedez, la Warner, i manager, sono un tutt'uno, gli interessi sono reciproci, sono una squadra di lavoro che ha occupato X Factor, e io lì dentro non solo ero scomodo, ho spesso smascherato i loro interessi". E sarebbero proprio gli interessi economici, sostiene Morgan, quelli che hanno portato Sky e Fremantle a estrometterlo da X Factor.

"L'ho saputo dai social"

Nella lunga conferenza stampa, Morgan ha dichiarato di avere appreso del suo licenziamento "tramite i social con il loro comunicato, che hanno diramato prima di dirlo a me personalmente". Il cantautore ha ammesso di non essere stato totalmente all'oscuro della possibile "cacciata" dal programma, ma di essere amareggiato dai modi: "Hanno infranto un codice deontologico che al di là del contratto dovrebbe esserci in qualsiasi struttura di comunicazione". Su questo punto, però, Freemantle ha voluto chiarire. "Prima della diffusione del comunicato stampa, Morgan è stato avvisato del licenziamento sia telefonicamente che tramite una pec indirizzata a lui, al suo avvocato e al suo manager", ha precisato il portavoce della società attraverso l'AdnKronos. Ma Morgan ha voluto ribadire che comunque "nessuno si è fatto vivo dopo il licenziamento".

Morgan farà causa a Sky e Fremantle?

Su una cosa Marco Castoldi è sicuro: non procederà legalmente contro la rete privata e la società di produzione del talent: "Ci sarebbero gli estremi per fare una causa di diritto del lavoro e farli rispondere davanti a un giudice, perché si tratta di aver licenziato indiscriminatamente una figura per la sua competenza, una competenza totalmente adempiuta". Ma Morgan ha detto di non avere né la voglia né il tempo di procedere con una causa: "Ho altro da fare, devo scrivere un libro sulla nona di Beethoven. Tanto questi rimarranno così tutta la vita". L'unica consolazione di Morgan oggi è l'affetto di una buona parte del pubblico: "Dopo l'esclusione da X Factor i miei fan sono aumentati di 302mila unità".

Morgan, tra insulti e litigi breve storia televisiva di un piccolo Sgarbi. La saga di X Factor, l’odio per il pubblico, le sfuriate, il broncio, le scuse e le porte sbattute. Per il geniale musicista un ego troppo grande per uno schermo troppo piccolo. Beatrice Dondi su L'Espresso il 4 Settembre 2023 

Mi si nota di più se faccio casino subito o se assecondo il mio talento rimanendo nei ranghi? Questa domanda deve essersela posta spesso Marco Castoldi in arte Morgan ma senza riguardo alcuno per la risposta. E tra Baudelaire e Battiato, spesso studia da piccolo Sgarbi  («Il padre che non ho mai avuto», lo ha definito dopo la bella seratina al MAXXI colorata di sessismo), che tenta di farcela, ma a fatica, e appena deraglia dal seminato che gli appartiene a buon diritto, si aggroviglia in esternazioni da fiatone spruzzate di insulti per poi tornare ai blocchi di partenza dopo le scuse, pronto per un nuovo attacco casuale. Lo sfogo orrendamente omofobo di Selinunte, avvenuto a una manciata di giorni dall’inizio di “X Factor” che lo aspettava seduto in giuria al fianco di Fedez è solo l’ultima linea che unisce i puntini di una carriera televisiva sotto il segno dell’omerica Penelope, che di giorno tesseva e di notte scuciva, per poi ricominciare.  

Morgan contro Facchinetti («Populista demagogo retorico vuoto»), contro i giornalisti («Detrattori della carta stampata») e contro Scanzi (che è una bella gara non c’è che dire). Morgan contro Lucarelli («Per lei la danza è come il monolite per la scimmia») Morgan contro la televisione tutta, «Non la guardo perché non ho il televisore» e contro Amadeus «Lui non se ne intende di musica». Sino all’avvincente saga “Morgan contro il talent di Sky”, costellata da addi plateali, ritorni improvvisi, cancellazioni («"Stramorgan" al momento non è il palinsesto», dicono da viale Mazzini), «massa pecora che applaude a caso» (che fa tanto «Capra capra») e via dicendo. Praticamente una carriera luminosa inframezzata dalle baruffe all’insegna della sua superiorità incompresa.  

Dopo aver definito i talent “La tomba della creatività” entra nello show di Maria De Filippi, ma dopo solo quattro puntate attacca produzione e ragazzi. Bandito dall’Ariston per le sue dichiarazioni sul crack, regala poi l’esperienza più allucinogena che il Festival ricordi grazie al duello con Bugo e visto che la tv è troppo bassa per lui si sfoga nel salotto che fu di Barbara D’Urso.  

In un andirivieni continuo come l’acqua del mare che sgonfia i castelli di sabbia, il musicista ha costruito il suo personaggio televisivo di unico portatore sano di cultura, per poi raderlo al suolo, alzandosi dalla sedia col mento all’insù. E soprattutto senza nascondere mai il suo disprezzo verso il pubblico ignorante, incapace di comprendere l’altezza smisurata del suo sapere. Certo, poi quello stesso pubblico la tv si ostina a guardarla, ma si sa, lo schermo è piccolo e l’ego del maestro ci sta stretto.

Estratto dell’articolo di Camillo Langone per Il Foglio martedì 29 agosto 2023. 

Preghiera a Morgan lo Scusaiolo.

8...) Se non sei Sid Vicious, e non sei Sid Vicious, lascia perdere. Il bassista dei Sex Pistols a Selinunte avrebbe tirato il basso addosso al disturbatore e non si sarebbe scusato mai. Mentre tu nemmeno un bottone della giacca gli hai tirato... E così oggi sei l’ennesimo scusaiolo, uno ridotto a inginocchiarsi sui ceci e a ripetere cento volte “Non sono omofobo! Non sono omofobo!”. 

Ed è uno spettacolo triste che non vorrei vedere, siccome non sono un maramaldo, non un Andrea Scanzi, non un pinguino tattico nucleare. Siccome so, come ha scritto il filosofo Harvey Mansfield, che “l’uomo virile non è flessibile” e che ogni genuflessione richiesta a un uomo evoca la castrazione dell’intero genere maschile. Morgan, ti prego, lascia perdere. In cambio ti prometto che terrò il tuo “Siete dei bifolchi!” tra i ricordi più cari.

Dagospia mercoledì 30 agosto 2023. Da canale YouTube di Red Ronnie.  

Non toccate MORGAN !!! Gli Artisti sono rari e vanno difesi. Poi non è omofobo.

Come nel 1967, quando Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones vennero arrestati per droga, gli WHO decisero di pubblicare dischi con cover dei Rolling Stones finché non sarebbero stati liberati, così anche io pubblicherò video in difesa di Morgan fino a quando questi attacchi vigliacchi nei suoi confronti non finiranno. 

Lui è un ARTISTA e vederlo insultare per un’offesa che ha fatto perché arrabbiato in quanto dei deficienti lo contestavano è assurdo. Soprattutto se sono quelli che si definiscono artisti a farlo. Sentire poi che sponsor di X Factor ne chiedono la sua cacciata è qualcosa che grida vendetta. Fortunatamente c’è chi, come Vittorio Sgarbi, lo stesso Pino Strabioli e Grazia Di Michele (nell’intervista che ho pubblicato) lo stanno difendendo.

Estratto dell’articolo di Pino Corrias per “il Fatto Quotidiano” mercoledì 30 agosto 2023.

Morgan è il fantasma stupefacente. Morgan è il domatore di pulci che sul palco, col fiocco di Rimbaud al collo, promette l’estasi di suonare Bach con una mano sola, e poi precipita stonando su un rauco “Sei un frocio di merda!” espettorato in Fa diesis, sulle guance lisce del pubblico di Selinunte che non vedeva l’ora di godersi lo scandaletto estivo. […] 

[…] si chiama Marco Castoldi. Un ragazzetto di 51 anni con il ciuffo alla violetta alpina e la erre di blesa liquerizia. Sveglio. Simpatico quando vuole. Matto specialmente quando non può. Uno di quei predestinati nel Rollerball dello Spettacolo che fanno punteggio solo quando inciampano, si rompono il naso, si piangono addosso.

Una dozzina di anni fa ebbe la buona idea di dichiarare che usava “il crack e la cocaina” come antidepressivi. Che è come dire mi butto dal balcone per pettinarmi alla Elvis. Smentì l’intervista che però era registrata. Poi disse sono stato frainteso. Ma siccome eravamo alla vigilia di Sanremo, i titolari dell’unica morale che conta, quella radiotelevisiva, invece di smaltirlo con l’aperitivo e un briciolo di compassione, lo hanno triturato in nome dei sacri valori. E lui: “Mi hanno cancellato, ucciso, crocifisso!”. 

Dieci anni dopo, tracollo ancora più spettacolare. Allestito direttamente sul palco di Sanremo, insultando in diretta tv il partner del suo duetto, un tale Bugo, con coda di sputi e morsi nel retropalco, la squalifica, le reciproche querele, gli strascichi trash davanti alle palpebre ventose di Barbara D’Urso e Mara Venier, il nuovo Golgota dove si è fatto trascinare con chiodi e corona di spine.

[…]  Da ateo credente si è paragonato a Gesù: “Lo hanno messo in croce perché era famoso, era molto carismatico, lo collego a me”. E poi: “Tutti e due abbiamo il padre falegname”. Dettaglio che farebbe piangere dal ridere, se non fosse che la storia del padre di Marco, morto suicida, una mattina del 1981, tagliandosi per il lungo le vene di entrambe le braccia e poi sdraiandosi a dormire nel proprio sangue, è la tragedia vera della vita del figlio, appena quindicenne.

Quella che gli spalanca il vuoto per sempre. Destinandolo, da allora, a riempirlo con l’unico pieno disponibile: il proprio narcisismo. Che a forza di gonfiarsi lo tiene a galla e insieme lo soffoca: “Sono il più bravo di tutti”. “Sono la musica”. “Sono lo spettacolo”. “Sono la star”. “Sono l’istrione”. […] 

[…] “Sono nato in una famiglia che direi banale”. Mamma maestra elementare, con baby pensione a 38 anni e la passione del pianoforte. Babbo pieno di debiti e di cattivo umore. Una sorella che se la caverà da sola. Il figlioletto che cresce a dismisura nei propri racconti. “Sono nato dentro la musica”. “Facevo spettacoli già a quattro anni”. “Ho composto canzoni e sinfonie”. 

“Quando mio padre è morto ho mantenuto la famiglia suonando nei piano bar”. “A 16 anni guadagnavo un milione di lire a settimana”. “Suonavo tutte le notti, intorno a me ballavano, limonavano, erano felici”.

[…] È tra i rari studenti che dopo quattro anni di Liceo classico, si diploma geometra. E che dopo otto anni di Conservatorio, abbandona. Passa da Beethoven al sintetizzatore. Registra musica dentro la cameretta. Fonda gruppi musicali nei weekend e li scioglie il lunedì mattina. Fa il giovane mattatore nei locali di Monza e provincia. A inizi anni 90 si inventa i Bluvertigo che sono la sua personale ciambella con il buco. 

Fa una serie di album notevoli, la “trilogia chimica” che apre con Acidi e basi, finisce con Zero, i critici applaudono parlando di “Pop italiano rivisitato con le sonorità della British Invasion” che vuol dire David Bowie, Duran Duran, Genesis, ma con un orecchio anche ai Rem e a Madonna. Vince una Targa Tenco per l’album Canzoni nell’appartamento. 

[…] Incrocia David Byrne dei Talking Heads, poi Vasco Rossi, Ivano Fossati, il mitologico Franco Battiato. Registra videoclip cinematografici, conduce programmi musicali. Inizia lì a confondere le armonie della musica con le bollicine del successo, la fatica insonorizzata della ricerca musicale in studio, con le veloci vacanze sulle superfici della celebrità.

Tra il mare aperto e gli scogli, sceglie Asia Argento, l’attrice. Un paio di anni di storia tormentosa, dieci di carte bollate per la figlia contesa, per la casa, le botte, per gli alimenti. Fino “allo sfratto con resistenza a pubblico ufficiale” e ai mobili sul marciapiede. 

Per campare diventa giudice di X Factor. Si veste come gli Scapigliati negli sceneggiati tv. Mette un po’ di ombretto per fare il trasgressivo. Dice: “Sono anarchico libertario”. E di sicuro vuole anche “la pace nel mondo” come tutte le aspiranti miss qualcosa. Ma sa aggrapparsi alle tende del melò: “Muoio e rinasco in continuazione. La sofferenza mi fa vedere lontano”. […]

Tra i danni in circolazione, sceglie Sgarbi che di lui si è incapricciato come fosse una delle sue anziane contesse. Vittorio lo convoca. Lo monta. Lo candida sindaco a Milano, lista Rinascimento. Poi a Sulmona. Poi a Verona. Un Cantagiro di tormenti. Compreso quello di portarselo al ministero della Cultura come consulente musicale. Bocciato senza mai neanche essere ricevuto dal ministro, il grande Gennaro Sangiuliano, quello che prima vota i libri e poi li legge. 

Navigando per rotte sbagliate, ha battuto il record di tre fidanzate, tre figlie. Ora si gioca la carta dell’esistenzialismo problematico: “Se mi chiedi come sto, potrei scrivere due libri”. È l’eterno incompreso: “Ce l’hanno tutti con me”. Specialmente uno. Quello che sbraitando in Fa diesis, si sogna usignolo.

Massimo Gramellini per il Corriere della Sera - Estratti martedì 29 agosto 2023.

Morgan mi sta simpatico perché nei suoi periodici scoppi d’ego vedo affiorare l’Ombra, la parte oscura di noi stessi che ci sforziamo di rimuovere e che invece lui fa regolarmente esplodere ogni volta che non ottiene dagli altri il riconoscimento della propria presunta grandezza. 

Da solista Morgan ha scritto una sola canzone memorabile, «Altrove», e ha una voce poco aggraziata: è decisamente più bravo a suonare e a divulgare. Eppure, si sente un genio incompreso e un grande artista, come tanti in quest’epoca sprovvista di geni e di artisti. Ma chi sono io per negargli il diritto di proclamarsi un fenomeno?

 (...) 

L’unica critica che ho l’ardire di fargli è l’incoerenza tra l’autocertificata genialità dell’artista e il linguaggio con cui esprime i suoi stati d’animo. Da un genio mi aspetto parolacce d’autore, allusioni perfide, insulti pregnanti. In questo senso l’epiteto «bifolchi» non mi è dispiaciuto: un po’ arcaico, però di spessore. Ma per dare del «fr. di m…» a un disturbatore, e gridare a un altro «levati dal c…» non è necessario essere artisti. Basta frequentare un qualunque stadio o ingorgo automobilistico, al limite un talk show, dove però nessun bifolco pretende di passare per genio. O sì?

Estratto dell'articolo di Luca Beatrice per Libero Quotidiano lunedì 28 agosto 2023

La carriera di Morgan, se vogliamo parlare di musica, si ferma al 1997, quando con il suo gruppo Bluvertigo pubblicò Metallo non metallo, uno dei migliori dischi rock degli anni '90, un decennio d'oro per il panorama italiano. Anzi, a essere sinceri, vale mezzo LP, quello che un tempo si sarebbe chiamato il lato a dell'album che comprendeva le due hit Il mio mal di testa e Fuori dal tempo. 

Dopo non è successo più nulla di rilevante, dimostrarsi soliste così così incentrate soprattutto sulle cover di Gaber e De André, eppure la fama e la popolarità del personaggio -sacrificando il musicista- è cresciuta nel tempo, prima grazie alla storia tormentata e alterata con Asia Argento, poi con continue apparizioni televisive, X Factor in testa: Morgan funziona, dice quello che pensa, sul piccolo schermo va bene, insegue la polemica e nonostante non sia più un ragazzino ha sempre quell'aria da alternativo-maudit che al pubblico italiano piace.

Ci hanno provato a confezionare un prodotto, il cantante trasgressivo con punte di esistenzialismo e mal di vivere che però non disegna il confronto con un'audience popolare e dai sicuramente gusti meno raffinati. 

Non si capisce quanto lo faccia apposta, e dunque sia un atteggiamento studiato, o quanto gli venga proprio naturale di sbroccare, in ogni caso Morgan difetta di educazione e l'episodio ultimo a Selinunte si inserisce in un elenco davvero nutrito.

(...)

Lui si sente il miglior musicista d'Italia, forse del mondo, un erede di Mozart, il quinto Beatles, o almeno qualcuno glielo ha fatto credere nonostante una produzione non poi così significativa cui obbietterebbe che i geni non hanno bisogno di scrivere e pubblicare dischi ogni anno. La scelta di giustificarlo non spetta a noi, anche se bisogna ammettere che pochi personaggi hanno ricevuto così tante attenuanti quanto Morgan, però resta il fastidio verso la mancanza di rispetto e di educazione, non per moralismo ma perché a una certa età si dovrebbe smettere di giocare a fare l'outsider e vestire panni più saggi. 

Se Morgan sa davvero di musica, la insegni senza riempire le sue performance di insulti e turpiloquio. In alternativa, se proprio non riesce a smettere di fare il Morgan, non sia ipocrita, non se la faccia sotto dalla paura, non chieda scusa e continua a recitare la solita parte, almeno è se stesso, più credibile di chi si pente, si cosparge il capo di cenere, rettifica, spiega. Sarebbe molto meglio stare zitto per non fare la figura del fesso.

Estratto dell’articolo di today.it il 13 maggio 2023.

Anna Lou Castoldi non è la classica "figlia di". 21 anni, con l'arte nel dna - papà Morgan da sempre le parla di cultura, mamma Asia Argento le fa incontrare artisti di grande spessore - non si appoggia sulla loro notorietà per seguire la propria strada. 

Dipinge, scrive, recita […], suona e lavora come rider. "Consegno le pizze, ma ho lavorato come cameriera, ho fatto persino il manovale, ho dipinto case e i traslochi. Un po' di tutto" racconta a Fanpage, e spiega: "Vivo con la mia ragazza e ci manteniamo da sole in un piccolo borgo. Sto facendo molti lavori in questo periodo, anche perché con l'arte non riesco ancora a camparci. Quindi cerco di darmi da fare".

Un'indipendenza arrivata presto e incentivata da sua madre, Asia Argento: "Ormai ho 21 anni e non posso chiedere i soldi ai genitori - sostiene - A parte che mia madre me l'ha detto subito. Quando ho guadagnato i primi soldi con la serie Baby, a 18-19 anni, mi ha chiarito che me la dovevo cavare da sola. Mi sto arrangiando e sto imparando tantissime cose. È vero che è stressante, ma è parte della vita". 

Fidanzata da tempo, vive a Roma con la compagna e ha progetti seri che probabilmente vorrà realizzare in un altro Paese: "Sono molto felice con […] Dora, non abbiamo bisogno di sposarci in chiesa, però per l'adozione e il costruire una famiglia è piuttosto complicato nel nostro Paese. Noi abitiamo insieme, abbiamo tanti progetti ed è una storia seria, ma l'Italia sembra spingere i giovani, le minoranze e i 'diversi' ad andare altrove". […] 

Morgan non piace a nessuno eppure lo infilano ovunque. Morgan ormai fa tutto (male): cantante, giudice, conduttore, intellettuale (prima di sinistra poi di destra), autore. Eppure non vende dischi, fa flop in tv e non si capisce chi lo spinga così forzatamente. Stefano Bini su Notizie.it il 12 Aprile 2023

Lo sforzo da parte di Morgan di fare televisione si è definitamente arenato con il maxi flop del programma di lunedì scorso in seconda serata su Rai2 Stramorgan: 3,4% di share e poco più di 300mila telespettatori. Non vende dischi perché non è più un cantante credibile, oltre ad essere stonato come una campana ed avere una voce rotta e roca, a XFactor ha funzionato poco, come giudice di Amici è stato praticamente cacciato a metà programma, vuole passare da intenditore di musica e da filosofo ma si capisce solo lui.

Morgan funziona ormai all’interno di una televisione esagitata e trash, dai siparietti al Festival di Sanremo con il cantante Bugo a Name the Tunes su Tv8; sulla scia di queste dimenticabili interpretazioni, se un giorno Canale5 decidesse di produrre di nuovo Live – Non è la D’urso lui ci starebbe a pennello, tra urli, strepiti, scenate, voci che si accavallano e discorsi senza senso. Con tutto il rispetto per Barbara D’urso, sia chiaro. Stramorgan doveva essere un inno alla musica, ai ricordi, la presenza del bravo Pino Strabioli (non certo da Rai2) era garanzia, eppure il programma si è rivelato confuso come il conduttore e senza un filo logico; Morgan non è un animale da palcoscenico, alla sua età non lo sarà mai, proprio perché visto come un personaggio trash e non “alto”. L’ex cantante dei Bluvertigo ce la mette tutta per sdoganarsi, facendosi avvalorare da Vittorio Sgarbi o da altri intellettuali di centrodestra a loro volta considerati “sopra le righe”, ma il passato non mente, le dichiarazioni fuori luogo lo stesso, le situazioni ridicole in cui si è cacciato in questi anni idem.

Le giravolte politiche e le scene trash degli ultimi anni sono state poco apprezzate, soprattutto dai telespettatori ma anche da quei pochi fans rimasti, che ormai non sanno più come dirgli che la televisione non fa per lui. Stefano Coletta, direttore del day time e seconda serata delle reti Rai, probabilmente si è fatto mal consigliare dal dirigente o politico (siamo pur sempre in Rai) di turno; ad avallare un programma così brutto, ci vuole un bel coraggio. A questo punto, speriamo che il buon Morgan capisca che il ruolo di showman non gli si addice, quello di conduttore e giudice idem, e quindi si rassegni al fatto che come ospite in programmi urlati, trash e affini è perfetto, perché in fin dei conti rispecchia la sua personalità; c’è gente che in lui vede della genialità, e Morgan stesso si vanta di questo, ma un marchio resta per sempre e il sigillo è quello di un uomo sfrattato da casa sotto le telecamere di Pomeriggio5, che in passato ha avuto problemi di droga per sua stessa ammissione ed ne è favorevole al commercio, che ha abbandonato i figli accusato dalla sua ex compagna davanti alle telecamere di Domenica Live, creato siparietti agghiaccianti al festival canoro più importante d’Italia, strepita e urla spesso senza motivo agitando lo spauracchio di una brutta tv di cui lui è ormai consapevolissimo protagonista.

Da Domenica Live a programmi di spessore è un attimo, peccato per Morgan che manchino oltre che spessore pure contenuti. Voto 3 (facciamo 3,4).

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 15 aprile 2023

Recensire Morgan, genio autocertificato, dandy maculato trash, è sempre un rischio. Come molti, non ama le critiche e spesso si abbandona all’insolenza strabordante [..]. Però, questo è un mestiere sporco e qualcuno… Incoraggiato dalle stesse parole di Marco Castoldi («Io sono per i diritti di tutti») provo a riflettere sulle quattro puntate di «StraMorgan», il programma in cui l’artista ha «rivisitato» Domenico Modugno, Umberto Bindi, Franco Battiato e Lucio Battisti.

Intanto il primo giudizio viene dalla rete, Rai2: se per condurre un programma ti affiancano Pino Strabioli significa che non si fidano molto; se un programma viene collocato verso la mezzanotte significa che la dirigenza non ci crede molto.

 Non c’è dubbio che Morgan abbia capacità affabulatorie (nel parlare, assomiglia sempre di più a Carlo Freccero), che i suoi «percorsi» interpretativi siano interessanti anche se funzionano solo verbalmente (messi per iscritto perdono di senso), che ormai si viva più come personaggio «maledetto» (con annesse e ammesse debolezze e lagne) che come musicista. [...]

Date per buone le qualità pedagogiche e pigmalioniche di Morgan, resta un problema non da poco per un cantante: la voce e le sue canzoni. Colpa mia, ma non ricordo una sola canzone di Morgan (quella su Battiato mi è parsa molto modesta). Quanto alla voce, non so perché ma preferisco sentire Modugno, Bindi, Battiato e Battisti.

Estratto dell'articolo di "Gente" il 3 aprile 2023.

«Io che ho recensito 20 mila canzoni vi dico che Mina e Battisti sono i migliori. E che i rapper sono solo dei venditori di fumo. Morgan? Un compositore di corte. Arisa e Emma, due povere ragazze della provincia del sud».

 Il critico musicale Dario Salvatori pubblica la decima edizione del suo dizionario della canzone (si chiama Il Salvatori 2023) e su Gente, in edicola da venerdì 31 marzo, si toglie molti sassolini dalle scarpe. Chi salva della musica italiana? «I migliori restano Battisti e Mina. Negli ultimi 30 anni poi Laura Pausini, Eros Ramazzotti e Andrea Bocelli hanno fatto bene, esportando il loro progetto nel mondo.

 I Maneskin devono provare chi sono […] I rapper invece sono solo dei venditori di fumo, non hanno talento e fanno carriera sul niente. I peggiori sono i “grandi padri” dai toni paternalistici. Sono stati solo più fortunati: Marracash è un siciliano che è andato a Milano e ha fatto successo prima degli altri. Fabri Fibra anche. L’unico che si salva è Jovanotti».

E Lazza, che ha studiato al conservatorio? «Perché tutti quelli che si iscrivono al conservatorio poi non lo finiscono? […] l conservatorio non si frequenta. Ci si diploma! Anche Morgan si dà tante arie, e poi non ha manco finito gli esami».

A Gente Dario Salvatori racconta anche della ruggine che c’è tra lui e il cantante dei Bluvertigo: «Bullizzava Emma e Arisa, due povere ragazze venute dal sud, una nata in un paesino in provincia di Potenza con 500 abitanti, perché non conoscevano Stockhausen. Agli ufficiali giudiziari che gli portavano via la casa diceva la stessa cosa. Io andavo in vacanza con Stockhausen, perché non bullizza me?  Mi ha preso in giro per il mio look ispirato a Elvis. Sempre meglio che vestirsi da Antonio Salieri come fa lui: ora che aspira a diventare compositore di corte, è Salieri al cento per cento».

Dario Salvatori per Dagospia l’8 marzo 2023.

Come storico della musica Morgan mi sembra poco attendibile. Lui, lo smemorato di Collegno su qualsiasi cosa, che si lancia in date, autori, aneddoti. Scappa da ridere. E’ ovvio che dopo il successo planetario di “Nel blu dipinto di blu” del 1958 (che gli americani battezzarono subito in “Volare”) la popolarità di Modugno era alle stelle. I Grammy Awards vennero istituiti nel 1958 e il cantante pugliese ne vinse due, proprio con la sua canzone più nota, “Miglior Singolo” e “Canzone  dell’ Anno”. Elvis Presley, partito proprio quell’anno per il servizio militare, non vinse nulla. L’anno dopo Modugno vinse il Festival di Sanremo per la seconda volta con “Piove” (che gli americani chiamarono subito “Ciao ciao bambina”).

L’anno dopo ci fu una diatriba famigliare fra Mimmo e sua moglie Franca Gandolfi. Lei avrebbe preferito che lui cantasse a Sanremo “Io”, un brano che aveva già nel cassetto, una canzone struggente, con un ritornello squassante. Lo pregò fino alla fine. Lui preferì portare in gara “Libero”, che si rivelò una scelta sbagliata. Intanto, in seconda esecuzione sarebbe toccato a Teddy Reno, molto lontano dall’emotività della canzone. Sbagliati anche i maestri: a Modugno toccò in sorte Cinico Angelini, al cantante triestino il maestro Marcello De Martino. Sarebbe stato meglio il contrario.

 Nella serata finale l’esecuzione di “Libero”, a causa del sorteggio, toccò a Modugno nella prima parte della serata e Teddy Reno quella finale, più vicina al responso delle votazioni. Al momento della prima uscita Modugno non si trovava. Cantò Teddy Reno. Modugno si presentò dietro le quinte alle 23 e si giustificò dichiarando che aveva assunto una forte dose di sonnifero e di non essersi svegliato in  tempo.

Comunque “Libero” arrivò seconda, dietro a “Romantica”, cantata da Renato Rascel e Tony Dallara. Con “Io” avrebbe sicuramente vinto il suo terzo Festival di Sanremo consecutivo. “Io” rimane una delle migliori canzoni di Modugno. Intanto nel mondo l’avevano incisa nomi brillantissimi, in francese Josèphine Baker (“Moi”), in tedesco Kurt Stelly (“Frag mich bitte frag  mich”), in italiano Fred Buscaglione, che la incise nel 1959.

 Non è nemmeno vero che nel 1962 Elvis chiese a Modugno una canzone. Fu lo staff del cantante di Memphis a suggerire “Io”, che divenne “Ask me”, pubblicata solo nel 1964, che raggiunse la posizione n.12 in classifica in Usa. Morgan non è un buon ricordatore di  ciò che sentire dire in giro. Un consiglio. Perché non la smette di bullizzare cantanti come Emma e Arisa? Perché non sono nate in Brianza? Perchè  non conoscono Karlheinz Stockhausen?

 Lo fece anche agli ufficiali giudiziari che stavano eseguendo lo sfratto a casa sua. Alla fine degli anni Settanta ero fidanzato con una ragazza tedesca, amica della moglie del Maestro, ogni anno ci venivano a trovare, lui lasciava la moglie e non si vedeva più. Frequentava Luigi Nono, Paul Ketoff, Silvano Bussotti, Gianni Sassi.

Mi era già capitato di vederlo suonare dal vivo, oppure in studio, ma quell’anno fu costretto a rimanere da noi a Trastevere. Cinque giorni. Gli avevano rubato soldi, passaporto, biglietti, carnet di assegni  e soprattutto due cassette contenenti registrazioni di quei giorni, “Warum I”, “Warum II”. Mai ritrovate. Gli aneddoti, caro Morgan, sono come le esperienze, ognuno  ha le sue. I manualetti non contano nulla. E poi non tutti i pirati hanno l’anello al naso.

Morgan per mowmag.com l’8 marzo 2023.

Allora, carissimo storico degli aneddoti Dario Salvatori, quel che forse tu non capisci è la trasformazione della storia in fiaba. Per interessare i bambini bisogna saper raccontare le favole, e le favole non sono la realtà. Le favole hanno una morale e per arrivare a comprenderla bisogna guadagnare l’attenzione, appassionare. Io non sono interessato alla datazione del pomeriggio in cui Cappuccetto rosso incontra il lupo nel bosco, ma a far capire il meccanismo al bambino.

Essere artisti non è essere impiegati dell’anagrafe, infatti la differenza tra me e te è che io dopo aver incuriosito il pubblico suono e canto l’oggetto del mio racconto e da quel momento la gente si appassiona alla musica, non solo a Domenico Modugno. Tu stai a vedere le date? Eh, infatti non mi risulta che dopo il tuo racconto ultra preciso tu sappia emozionare interpretando ciò di cui parli.

Insegnare è difficile e molto impegnativo, innanzitutto bisogna saper trasferire una passione. Questo Paese ha bisogno di evolvere, ha troppe difficoltà di comprensione, e non è un fatto di informazioni, quelle ci sono ovunque, quel che manca è l’inventiva, le idee, il coraggio di dire, e il contatto con la creatività.

Esattamente come te, la maggior parte delle persone crede che vestirsi e farsi i capelli alla Elvis sia sufficiente per essere qualcosa, io invece sono più interessato a imparare da Elvis o chicchessia a suonare e cantare e scrivere e fare musica. La tua è una specie di invidia, ma può essere curata con delle lezioni di musica, non è mai troppo tardi: mia madre ha 78 anni, va a lezione di piano e suona benissimo, se hai bisogno ti giro il numero del suo maestro.

Dario Salvatori per Dagospia il 9 marzo 2023.

Caro il mio pirata da diporto, non è semplice prendere lezioni da te. Sull’aspetto tricologico ci batti tutti. Altro che capelli alla Elvis. L’eterno priapismo dei tuoi capelli non ti ha reso più intonato. Visto che nessuno era in grado di cantare una tua canzone, in nessuna tonalità, hai pensato bene di ammazzare le canzoni di Umberto Bindi, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Giorno Gaber, se le avessi lasciate come erano non avresti fatto un soldo di danno.

Da anni non hai più voce, non sei diventato Tom Waits o Leonard Cohen, purtroppo nemmeno Franco Califano. Ti sei fatto cacciare per due volte a Sanremo, nel 2016 e del 2020 (vedi che le date servono?).

 Ammetti però che vestirsi da Elvis è più allegro che vestirsi da Salieri. Forse è per questo che fai il filo ai politici. Aspiri al ruolo di “compositore di corte”. Auguri.

Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “La Stampa” il 22 gennaio 2023.

[…] Mi scusi Morgan ma questa famosa chat "Rinascimento e dissoluzione" è finita malissimo. In dissoluzione tra le polemiche, appunto.

«[…] Oggi polemica significa rissa, invece è una parola nobile, polemos, confronto. Il mio discutere è per difendere valori e libertà lese, ma trovo negli altri, benpensanti e giudicanti, rigidità e ostilità. Io sono come il leone con le iene. Io lotto contro il branco come quello della chat di Sgarbi».

 Le ha dato del topo.

«Mille persone in una chat sono la fotografia della nostra società. Su mille persone solo 7 o 8, tra cui io, hanno il coraggio di dire la propria opinione, senza sporcarsi le mani. E in quella chat c'erano politici, giornalisti, intellettuali».

 Ma su cosa sono stati zitti?

«Ho sollevato la questione del restauro dei nastri di Tenco. Non hanno reagito e il fatto che non abbiano il coraggio delle proprie opinioni è un problema  […]. Allora ho scritto che avrei diffuso un comunicato stampa firmato da tutti e chi non era d'accordo lo dicesse. Ma si sono ribellati contro di me e a quel punto li ho buttati fuori […]. Sgarbi […] si è arrabbiato».

 E le ha dato del topo. Eppure eravate in grande sintonia.

«È stato molto offensivo, lo ho sempre stimato ma non ho bisogno di lui per esistere. Io sono un essere umano, il topo è un simbolo, vive nella fogna, porta le malattie. Gli ho detto che è una persona senza cuore e irriconoscente perché mi sono speso per farlo diventare sottosegretario, tanto che mi ha scritto in un messaggio "la tua vittoria è la mia vittoria". Temo si tratti di un problema di anaffettività e di narcisismo patologico, Ora non lo sto considerando e lui mi chiama tutti i giorni, ma non mi fido perché lui accoltella gli amici».

Ma ci teneva così tanto a fare il consulente del ministero, proprio lei che è anarchico?

«Io lavoro come un vero consulente anche senza incarico. Do i consigli e l'ispirazione, molte cose che hanno fatto in questi mesi sono frutto del mio impegno. Se comprano casa Verdi è perché io ci lavoro da tempo. Anna Maria Bernini lo sa benissimo e probabilmente un incarico mi arriverà da lei».

[…][ [Sangiuliano] Mi stima e non c'entra niente con la storia delle chat. Ogni tanto ci sentiamo e facciamo il punto della situazione. Mi usa come veicolo per comunicare determinate cose».

 Lei è un appassionato di Dante, anche per lei il sommo poeta è di destra?

«Probabilmente democristiano, un moralista, uno che giudica molto».

  Giorgia Meloni siete ancora amici?

«E una persona molto in gamba e molto sana. Mi fido di questa donna perché ha la testa sulle spalle come nessun'altra […]».

Ma da quando è diventato di destra?

«Io non sono di sinistra o di destra, ma se la destra è quella di questa chat, mi fa una cattiva impressione […]».

 […] Tra poco inizia Sanremo, è ancora in lite con Amadeus?

«A me dovrebbe chiedere: Amadeus ti odia? Ti teme? Fate a lui questa domanda».

Genio autocertificato. La mitomania d’artista di Morgan e la chat che non lo difende dal mobbing culturale. Guia Soncini su L’Inkiesta il 18 Gennaio 2023.

Il duello con Sgarbi in un gruppo WhatsApp e la megalomania di recitare il primo canto della Divina Commedia bendato, neanche fosse “La corrida”

Ho, sul telefono, una chat in cui una delle partecipanti è perlopiù silente. Non gliene importa niente di nessuno dei temi di conversazione, solo interviene ogni tanto per dire sto lavorando al tal progetto, la mia azienda sta per uscire con la tal campagna pubblicitaria. Nessuna se ne duole: siamo amiche, sappiamo che ha poco tempo per le chiacchiere, se voglio il suo parere su qualcosa la chiamo.

La chat di Morgan (già cantante) e Sgarbi (sottosegretario), che fino a quattro giorni fa si chiamava Rinascimento e Dissoluzione, aveva lo stesso problema di equivoco tra conversazione e vetrina. Iscritti sono un migliaio di disperati (tra cui io stessa), raccattati da Sgarbi non so bene con che criteri, dei quali novecento e passa silenti (dopo aver disattivato il salvataggio dei file, altrimenti tra audio e video e foto dovevi buttare il telefono il terzo giorno).

Alcune decine passavano invece lì le giornate: a mandarsi gif, dire puttanate assortite, fare insomma quel che si fa nelle chat. Poi ogni tanto arrivava Morgan e postava un video di Morgan, una poesia di Morgan, un progetto rivoluzionario di Morgan. E – pareva uno scherzo – i non silenti s’affrettavano a dirgli bravo, genio, solo tu nell’universo. E non erano suoi amici pazienti che se vogliono dirgli qualcosa gli telefonano: era gente che conosce quella valuta del presente che è la fama, ed era quindi grata d’avere un tizio famoso sul proprio telefono, a prescindere dalle ragioni della fama e dal fatto che egli fosse interessato solo a sé stesso.

Tuttavia questo reparto psichiatrico interamente concentrato sul rassicurare Morgan Castoldi, genio autocertificato, non era sufficiente. Spesso Morgan scapricciava, batteva i piedini, accusava la chat di non volergli abbastanza bene. Le figure più interessanti erano quelle di coloro che in questi casi lo difendevano, ancelle non si sa se davvero devote o solo consapevoli che se quello non si calmava poi era peggio. Una, giuro, la settimana scorsa ha scritto «questo per me non è un gioco». Una chat con mille sconosciuti va in effetti presa sul serio.

A un certo punto, poiché ogni tanto qualcuno osava continuare una conversazione in corso invece di affrettarsi a dirgli «genio maestro unico al mondo», Morgan ha fatto quello che per altri sarebbe un esperimento situazionista e per lui temo fosse una necessità psichica. Ha aperto una seconda chat, su cui ha riversato tutti gli iscritti di Rinascimento e Dissoluzione e di non so quale altra chat in cui passa le giornate invece di lavorare. Questa nuova chat, Popolo Culturale, l’ha impostata in modo che solo chi ne era amministratore potesse scriverci. Una chat in cui mille iscritti (il popolo?) stanno a guardare Morgan (il culturale?) che monologa (ammetto che è il mio ideale di litigio di coppia, uno in cui possa parlare solo io).

Poiché gli esseri umani nell’epoca della partecipazione compulsiva non accettano di non intervenire, molti hanno abbandonato questa überchat, causando in Morgan ripetute crisi isteriche. È stato con un certo sdegno che egli ha fotografato la notifica «Adriano Celentano ha abbandonato», e lì è stato difficile non temere il peggio per i suoi apparentemente non saldissimi nervi.

O meglio: lì hanno iniziato a temere il peggio anche gli osservatori disattenti. Io lo temevo da mesi. Da quando, a metà novembre, Morgan aveva condiviso con la chat un questionario prodromico al riconoscimento legale dello status di artista; quattro pagine di fronte alle quali Claudio Borghi (sì, in quella chat c’è anche gente con un qualche ruolo tra la classe dirigente di questo derelitto paese) aveva chiesto di spiegargli meglio: se doveva scrivere una proposta di legge, doveva capire.

Il questionario, tagliato sulle vicende legali di Morgan, per il quale il mondo è lanugine attorno al suo ombelico, sarebbe dovuto essere quello con cui un artista certificava d’essere tale. Acquisendo a quel punto diritti sulla propria immagine (se ti fotografo devo pagarti), ma soprattutto sulla propria casa, che il questionario richiede di catalogare così: «Tra queste sei tipologie di case d’artista quale è più corretta per definire la tua? Casa-museo. Atelier. Factory. Tempio. Appartamento. Comune». Non si sa se sia previsto un immediato tso per chi mette la crocetta su «tempio».

La factory, o tempio, o persino banale appartamento non potrà mai essere oggetto di sequestro – com’è accaduto alla casa di Morgan – perché riconosciuto dalla legge come il luogo in cui l’artista crea le sue opere: sequestrandolo, s’impoverisce la società. (Il questionario non specifica quanti decenni tu possa stare senza produrre un disco, un romanzo, un film, prima di perdere il diritto al tempio: chissà se Borghi ha quantificato i tempi di decantazione dell’arte).

Altri autobiografismi comparivano alla voce «Come giudichi la tua situazione attuale rispetto alla tua carriera», ove moltissime erano le recriminazioni previste: «Sono deluso e insoddisfatto, incompreso»; «Voglio mollare e cambiare vita»; «Ammettiamolo, sono sottovalutato».

Interessante anche la voce sul management dell’artista, e le possibilità «Sono certo di essere truffato», «Sono gestito da parenti quindi non vengo messo al corrente», «Sono gestito da parenti quindi devo far finta che vada tutto bene», «Subisco mobbing».

«Mobbing» è una parola ricorsiva nel lessico di Morgan, che la ripete con l’ossessività dei bambini che hanno imparato un nuovo lemma. A ogni articolo che anche blandamente lo irrideva, egli partiva con tirate sul mobbing che subisce da decenni e insomma la chat ha il dovere di difenderlo; persino quando l’articolo era benevolo come quello che scrisse, a proposito d’un suo eventuale ruolo di consulenza al ministero, Massimo Gramellini. (Il quale si è preso per giorni dell’analfabeta da Morgan che, facendo rivoltare Serianni nella tomba, sosteneva che «sé stesso» non andasse accentato. Lezioni di italiano da musicisti che scrivono «acrostico» intendendo «acronimo»: cosa potrà mai andar storto).

Tutto questo prologo per arrivare al bisticcio tra i due amministratori della chat – quello con un ego abbastanza solido da non avere bisogno delle rassicurazioni di mille sconosciuti, e quello no – che secondo le cronache è partito da Luigi Tenco.

Ed è vero che Tenco c’entra, nel senso che, prima del bisticcio sul solito «non mi avete difeso», la settimana scorsa Morgan incide un vocale di quindici minuti (no iperbole, proprio quindici) in cui dice che Tenco era il più grande, e lo sapevano tutti, e non l’hanno rispettato, e l’hanno fatto cantare a mezzanotte. I modi in cui i sopravvissuti cercano di razionalizzare le ragioni d’un suicida sono sempre ridicoli, ma «si è ammazzato perché l’hanno fatto cantare tardi» è un involontario sketch dei Monty Python.

In questo vocale ogni sillaba ha come sottotesto «Tenco sono io», e se pure non si è raffinati coglitori di sottotesto a un certo punto arrivano le parole magiche: gli facevano mobbing. È la trama d’un Fassbinder interpretato da Renato Pozzetto: da «io sono il migliore» a «mi autocertifico erede di quel migliore che s’è ammazzato e ora voglio vedervi a negarmi qualcosa senza temere le conseguenze». Poi è andata come avete letto sui giornali, Morgan cancella dalla chat molti amici di Sgarbi, Sgarbi s’innervosisce e cancella lui, le ancelle fremono e invitano alla pacificazione, Morgan scrive nella chat monologhista che è peggio dell’Iran, Sgarbi rinomina la chat Sgarbistan.

Infine, domenica, Morgan viene riammesso. Dopo che Sgarbi aveva reso pubblici vari messaggi ricevuti da cuordileoni che, una volta caduto il capriccioso dal cuore del padre putativo, si erano affrettati a dirgli che l’avevano sempre considerato un poveretto e sono lieti l’abbia rinnegato.

E a quel punto, perché l’atmosfera da nido del cuculo non venga meno, arriva un video di Morgan. È in pigiama e con gli occhiali da sole, si rivolge ai «detrattori» che hanno osato dire che ha una «cultura arraffazzonata»: quando saprete fare quello che faccio io, dice, potrete parlarmi. E quello che fa lui è suonare la Patetica di Beethoven al pianoforte, «a memoria», rimarca, come uno scolaretto che cerchi buoni voti alla terza lezione di solfeggio.

La confusione tra un gesto meccanico come l’eseguire una partitura su uno strumento e l’essere un intellettuale sarebbe già abbastanza imbarazzante, ma il genio del purissimo presente rilancia. Si benda gli occhi e dice che lui può fare anche di più: può, sempre a memoria, recitare la Divina Commedia. Bendato. Ma cos’è, La corrida?

Lui la sa a memoria, rimarca, e il video – bendato, in pigiama, esta selva selvaggia e aspra e forte – se l’è girato da solo e quindi nessuno può dirgli – forse nessuno gli direbbe comunque, dato il piglio dialettico della più parte degli iscritti alla chat – che il primo canto della Divina Commedia a memoria lo sanno anche le commesse di Sephora: persino loro hanno fatto le scuole dell’obbligo, e le cose in versi di quegli anni sono rimaste nella corteccia cerebrale di tutti, un po’ perché eravamo piccini un po’ perché le rime aiutano.

Persino io, che non sono sufficientemente colta da consigliare ombretti da Sephora, cito con una certa disinvoltura addirittura il quinto, che d’altra parte veniva utilizzato persino in una canzone di Venditti, che non mi risulta venga ritenuto da nessuno un intellettuale. Al massimo un istruito. Uno che sa accentare «sé stesso».

Sgarbi-Morgan: rissa in chat. Il musicista: "Se non fosse per me non saresti neanche sottosegretario". Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 15 Gennaio 2023.

Feroce scambio di accuse fra i due. Al centro il progetto dell'ex Bluvertigo per Luigi Tenco, criticato però dalla famiglia del cantautore. Il precedente della mancata nomina dell'artista al ministero della Cultura

"Non hai cuore", "Mi basta la testa". Sono le frasi più 'gentilì della lite furibonda e burrascosa, a colpi di insulti e improperi, fra i due (ex?) amici Vittorio Sgarbi, sottosegretario al ministero della Cultura, e Marco Castoldi in arte Morgan. Ad ospitare lo scambio di colpi verbali è la chat Rinascimento Dissoluzione, creata da Sgarbi e di cui anche Morgan è amministratore; chat che vede(va) iscritti politici, giornalisti e peronalità varie. Ma tutto sembra finito in una serata di rissa virtuale, con Morgan che avrebbe cancellato - senza consultare Sgarbi - diversi nomi, 'colpevoli' di non prendere a cuore il suo impegno per un progetto sulla figura di Luigi Tenco. Il tutto svelato da Mow, con tanto di screenshot inviadi da una fonte, dice il sito, "che preferisce l'anonimato".

Il precedente

L'episodio, probabilmente, è stata l'ultima goccia, dopo la mancata nomina di Morgan come consigliere speciale per la Musica al ministero della Cultura, incarico affidato dal ministro Sangiuliano al direttore d'orchestra (e fan di Meloni) Beatrice Venezi. Un ruolo per il quale Sgarbi aveva indicato Morgan, prima in un'intervista a Repubblica e poi parlandone a tu per tu con lo stesso titolare del dicastero. Il cantante ci era rimasto male. "Ho pianto per la sconfitta", "provo un'umiliazione", aveva scritto in un sms spedito a Venezi. Smaltita la delusione, l'ex giudice di X Factor si era però detto disponibile a collaborare. Salterà fuori qualcosa per lui, aveva assicurato Sgarbi: "Magari un programma su Rai 1". Ma le cose hanno preso una piega inaspettata.

La lite furibonda

La rissa esplode nella serata di ieri, dopo la pubblicazione sulla chat da parte di Sgarbi, delle critiche al progetto da parte della famiglia del cantautore, che avrebbe inviato una nota privata proprio al sottosegretario, scatenando Morgan che si è sentito «diffamato» e «non difeso».

Il temperamento non certo paludato dei due è così sfociato in uno scambio di accuse e controaccuse, postate da Morgan con uno screenshot su un'altra chat da lui creata, 'Mistero della Cultura'. "Non ti ho neanche pensato. Tu sei un topo" ha scritto Sgarbi a Morgan. "Ti manca il cuore", è stata la replica. "Mi basta la testa" la controreplica e il testa a testa prosegue.

La delusione di Morgan

Morgan: "Mi dispiace, pensavo fossi una persona degna. È una delusione immensa". E ancora: "I vili fanno così. Ridono degli altri quando li invidiano". Sgarbi: "La mia non è una delusione perché non mi sono illuso". Morgan: "La mia intelligenza è la cosa migliore che hai incontrato negli ultimi venti anni". Sgarbi: "Non mi piace chi, dotato per mia generosità del potere di agire, cancella istericamente e caccia i miei ospiti da casa mia, per suo capriccio. Le azioni devono essere guidate dalla ragione, magari avendo ragione".

L'acceso scambio di messaggi

"Io ho chiesto a voi solidarietà e appoggio. Sgarbi mi ha accoltellato e umiliato, nonostante io lo abbia sempre appoggiato con lealtà, si è permesso di fare questo a me, perché? Perché ho espresso indignazione?", denuncia Morgan. E ancora: "Quanto tempo ho sprecato per Sgarbi, quante notti, quante parole, quanti sogni. Se non fosse stato per me non sarebbe sottosegretario. Così fanno i cattivi. Sfruttano e poi accoltellano". E ha aggiunto: "Gli ho detto che è stato sleale e mi ha risposto che io sono un topo che con i suoi amici mi deride e che non si è mai illuso che io fossi meritevole. Non è un'amicizia, è una mia illusione, ma lui non mi è amico. Mi ha sempre solo usato", ha scritto Morgan che ha anche pubblicato sulle sue store Instagram uno screenshot.

Maria Francesca Troisi Maria Francesca Troisi per mowmag.it il 14 gennaio 2023.

Volano gli stracci tra Morgan e Sgarbi nelle chat Rinascimento Dissoluzione e in un altro gruppo privato. Una rottura fortissima, che coinvolge il ministero della Cultura (in una delle chat era presente anche il ministro Sangiuliano), che appare insanabile e di cui siamo in grado di farvi conoscere i dettagli. Tutto sembra nascere dal mancato sostegno da parte del critico d'arte sul caso Tenco e sfociato in uno scambio di messaggi in cui i due si sono mandati reciprocamente a quel paese a suon di insulti (“Non hai un cuore”. “Sei un topo”. “Tu uno stronzo, mi hai solo usato”. “È merito mio se sei sottosegretario”). 

Ma forse c’è anche la mancata nomina di Morgan a un ruolo a lungo promesso legato al ministero. È la fine di un'amicizia, ma anche di un sodalizio che prometteva grandi progetti a livello culturale? C'eravamo tanto amati. Ma ora è bufera intorno al Ministero della Cultura, o perlomeno nella sua succursale via Whatsapp. I protagonisti? Ancora loro: il cantautore Morgan e il sottosegretario e critico d'arte Vittorio Sgarbi. 

 Tra gli (ex?) amicissimi legati da un'intesa sfociata nella celeberrima chat Rinascimento Dissoluzione, covo di politici, giornalisti, “geni arruolati” e similari sembra tutto finito. Kaput nell'arco di una serata di ordinaria follia. Se pensate che Shakira con Piqué abbia picchiato duro, non avete ancora visto niente. Messaggi che noi di MOW siamo in grado di svelare di un accesissimo scambio di accuse e recriminazioni tra i due, che ci ha inviato una fonte che preferisce l'anonimato e presente in ambedue i gruppi menzionati.

Che succede? La rottura si consuma sulla questione Luigi Tenco, una battaglia che Marco Castoldi, in arte Morgan, porta avanti da giorni per dare maggiore risalto al patrimonio artistico del cantautore genovese. Battaglia per la quale ha cercato aiuto nel fidato amico e sottosegretario alla Cultura, oltre che in altri partecipanti delle chat, ma non trovando quasi nessuno ad ascoltarlo, ed essendo amministratore, ha iniziato a buttare fuori tutti coloro che non partecipavano alla discussione. 

 Peccato che molti fossero amici e collaboratori del critico d'arte. Apriti cielo! Prima Sgarbi ha estromesso lo stesso cantautore dal gruppo e nel mentre lo stesso si è sfogato in un'altra chat che riunisce diversi artisti e personaggi (compreso Sgarbi) e che si chiama Ministero della Cultura. 

Infine, come se non bastasse, proprio lì Morgan ha condiviso lo screenshot del dialogo privato tra i due, dove Sgarbi gli ha risposto per le rime. E nello sconcerto generale, tra chi dava ragione all'uno e chi all'altro, sono volate parole grosse che difficilmente potrebbero portare a una riappacificazione. Così è, se vi pare, al momento. Di seguito lo scambio di messaggi. 

 Morgan esordisce in Rinascimento Dissoluzione: “Io ho chiesto a voi solidarietà e appoggio, perché stimo a priori chi non conosco. Chi mi ha pugnalato invece da me è sempre stato difeso, lo ha fatto perché, sostiene, io ho sporcato in casa sua, eliminando suoi amici, e aggiunge che sono uno stupido perché vado a cercare supporto da una massa di disperati, che invece lui conosce personalmente”. 

Poi affonda: “Non vi fotte proprio un cazzo. Vivete come cento anni fa, convinti di essere moderni, ma siete nel Medioevo, ancora non vi siete accorti dell’invenzione del biciclo. Indignazione solenne per il vuoto culturale che state rappresentando. Sordi. Ciechi. Muti. Morti. Vuoti. Speriamo che l’intelligenza artificiale si sbrighi a produrre androidi, saranno sicuramente più passionali di voi”. 

 E prosegue: “Basta cazzoni. Sgarbi mi ha accoltellato e umiliato, nonostante io lo abbia sempre appoggiato con lealtà, si è permesso di fare questo a me, perché? Perché ho espresso indignazione? Che cosa greve. Ma come si fa a dire “meno emozionale”? Com'era, troppo emozionato? Molto semplice. Non ce la fate. Così come non ce la farà l’Italia. È evidente. Non c’è speranza alcuna. Nessuna. Continueranno così. Ignari di tutto. Per secoli. Io soffro anche per la loro sciagura, quella di non essere intelligenti”.

Una delusione totale che Morgan ha spiegato con parole durissime verso il critico d'arte: “Quanto tempo ho sprecato per Sgarbi, quante notti, quante parole, quanti sogni. Se non fosse stato per me non sarebbe sottosegretario. Così fanno i cattivi. Sfruttano e poi accoltellano. Io perdo tempo, serenità, speranza, lavoro, contatti, allegria, progetti, stima... Parecchie cose perdo. Basta. È uno stronzo, un mostro. Alcuni di voi hanno gli screenshot della discussione tra me e Sgarbi. Giudicate voi, io stacco e me ne fotto, chiudo tutto, siete (quasi) tutti delle merde umane. Affanculo miserabili”. 

Fino alla resa dei conti finale: “Vado a bere del vomito di cane in lattina per provare una sensazione più gradevole delle parole di Sgarbi. Una persona che dice cose così cattive mi fa paura. Gli ho detto che è stato sleale e mi ha risposto che io sono un topo che con i suoi amici mi deride e che non si è mai illuso che io fossi meritevole.  Non è un’amicizia, è una mia illusione, ma lui non mi è amico. Mi ha sempre solo usato”. 

Per concludere con la condivisione della discussione privata (di seguito lo screenshot) dove effettivamente Sgarbi gli risponde: “Io non ti ho neanche pensato. Sei un topo” (forse l'evoluzione di capra, nda). Morgan contrattacca: “Ti manca il cuore”. E il critico ribatte: “Mi basta la testa” e finisce così, per ora, una collaborazione tra le più discusse degli ultimi tempi: “È una delusione immensa” dice Morgan sconsolato e non trova nessuna pietà da parte di Sgarbi: “La mia non è una delusione perché non mi sono illuso”.

Un litigio tra due artisti che, come “le brutte intenzioni, la maleducazione”, farà parecchio parlare.

Morgan compie 50 anni: gli esordi, il legame con Battiato, gli amori tormentati, 10 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022

Il cantautore, che festeggerà il suo compleanno questa sera con un concerto-evento al Teatro Parioli di Roma, è nato il 23 dicembre 1972

Il concerto per i 50 anni

Ha scelto il palcoscenico del Teatro Parioli a Roma per festeggiare il suo compleanno nel modo in cui ha vissuto tutta la sua vita, ovvero in musica. Parliamo di Morgan che questa sera alle 22.00, insieme agli artisti che nel corso del tempo hanno collaborato con lui, sarà il protagonista di una serata speciale in cui ripercorrerà 30 anni di carriera. Nato a Milano il 23 dicembre 1972 e cresciuto a Monza, polistrumentista, ha sempre spaziato tra diversi generi musicali - dal pop elettronico alla canzone d'autore -, e si è occupato di colonne sonore, libri, ha condotto programmi di approfondimento ed è stato giudice di talent show. Ma ci sono molte altre curiosità su di lui.

Le origini del nome d’arte

Marco Castoldi ha scelto il suo nome d’arte prendendo spunto dal corsaro gallese Henry Morgan perché, spiegava a Famiglia Cristiana nel 2009, «il nome di un pirata è scaramantico, apotropaico: rifuggire dal male assumendone il peso, identificandomi in esso».

La perdita del padre

«Mio padre, il giorno prima di uccidersi, mi aveva salutato dalla finestra, cosa che non aveva mai fatto. Io mi sono girato e ho detto "Ma perché?"». Inizia così il racconto che nel 2016 Morgan ha fatto a Maurizio Costanzo a L’intervista. L’11 ottobre 1988 suo padre si tolse la vita: «Aveva dei debiti, non tanti, ma li aveva, e io all’epoca avevo 16 anni. Lui mi ha dato un barattolino, dove si riponevano le pellicole fotografiche, ci ha messo centomila lire e me lo ha messo in mano. Poi ha salutato me e mia sorella, e si è ucciso quella mattina». Negli anni il cantautore è tornato altre volte sull’argomento: «L’ho perdonato - ha detto nel 2021 a Ballando -, ma non quando avevo 15 anni. Ho dovuto attraversare il lutto, per un padre che era buono. Era affettuoso, era quasi un “mammo” per me. C’è stata la musica, che mio padre amava. Ma ha lasciato me e mia sorella in una tristezza che non meritavamo. Eravamo bellissimi».

Markooper

All’inizio del suo percorso musicale Morgan si faceva chiamare Markooper. Con quel moniker nel 1987 ha inciso due lavori, «Prototype» e «Dandy bird & Mr Contradiction». L’anno successivo ha iniziato a suonare con Andrea Fumagalli (Andy). I Bluvertigo (prima formazione: Morgan, Andy, Marco Pancaldi e Stefano Panceri, poi sostituito da Sergio Carnevale) nasceranno nel 1991: è del 1993 il primo demo autoprodotto («Note del poeta fingitore»).

A Sanremo

Insieme ai Bluvertigo Morgan ha partecipato a Sanremo Giovani nel 1994 con «Iodio» (arrivati al terzo posto, non sono riusciti a qualificarsi per il Festival di Sanremo 1995), a Sanremo 2001 con «L'assenzio (The Power of Nothing)» (ultimo posto) e a Sanremo 2016 con «Semplicemente» (18º posto). Morgan, come solista, avrebbe dovuto partecipare al Festival di Sanremo 2010 ma a 13 giorni dall’inizio della kermesse - per via di una controversa intervista rilasciata al mensile Max - fu escluso dalla competizione. Sempre parlando del Festival della Canzone Italiana nel 2019 Morgan ha duettato con Achille Lauro nella serata dei duetti mentre l’anno successivo ha partecipato alla gara con Bugo (durante la quarta serata, in seguito ad alcuni screzi avvenuti tra i due artisti dietro le quinte, Morgan cambiò a sorpresa il testo della canzone e Bugo abbandonò il palco in diretta).

Il legame con Battiato

«Ha saputo parlare a enormi folle comunicando qualcosa di nobilissimo. Però lui è stato anche un artista di successo. È riuscito a rispondere a una domanda: come si emerge facendo cose belle? Perché a emergere facendo brutta musica son capaci tutti. Battiato non si è mai seduto, non si è mai accontentato. Nell’Italia di oggi non avrebbe mai potuto affermarsi». Così diceva Morgan al Corriere a proposito di Franco Battiato. Morgan è stato profondamente legato al cantautore catanese, che incontrò per la prima volta al Concertone del Primo Maggio a Roma nel 1995. Per omaggiarlo e ricordarlo ad agosto 2022 ha pubblicato il brano «Battiato (mi spezza il cuore)»: «Volevo condividere questo tributo con tutti coloro che hanno amato e amano l’arte di quel grandissimo essere umano che ci è capitata la fortuna di avere contemporaneo. Io poi lo sono ancora più per essere stato suo amico intimo e aver lavorato con lui».

Giudice da record

Come giudice di X Factor in sette edizioni ha portato alla vittoria i suoi artisti ben cinque volte: è stato talent scout di Aram Quartet, Matteo Becucci, Marco Mengoni, Chiara Galiazzo e Michele Bravi.

È mancino

Morgan è mancino e sa suonare sia il basso sia la chitarra al contrario (senza invertire la posizione delle corde).

Amori tormentati

La vita privata di Morgan è finita spesso sotto i riflettori: dal 2000 al 2007 ha avuto una relazione intensa e tormentata con Asia Argento, da cui nel 2001 ha avuto Anna Lou. Nel 2012 ha avuto una seconda figlia, Lara, nata dalla breve relazione con Jessica Mazzoli, concorrente di X Factor 5. Nel 2020 è nata la sua terza figlia Maria Eco dalla relazione con Alessandra Cataldo.

Morgan e la politica

Intervistato nel 2020 a Un giorno da pecora su Rai Radio 1 Morgan dichiarò di aver accettato la proposta di Vittorio Sgarbi di candidarsi con la lista Rinascimento a sindaco della città di Milano, candidatura poi smentita dopo pochi giorni a Zapping, sempre su Rai Radio 1 («Sgarbi ha lanciato questa provocazione, questa idea. Io ho risposto con un attestato di stima nei suoi confronti perché mi piace molto, da sempre, il progetto politico che porta avanti da anni. E c'è una sintonia di intenti per quanto riguarda la questione della cultura. Sgarbi ha fatto questa uscita alla quale io ho risposto “perché no?”. Da qui a essere candidato c'è differenza. Perché non ho alcun appoggio che possa sostenere una candidatura»). A proposito di Vittorio Sgarbi: di recente il critico d’arte, sottosegretario al ministero della Cultura, ha fortemente appoggiato il cantautore per l’incarico di consigliere per la musica (poi affidato dal ministro Sangiuliano a Beatrice Venezi).

Marinella Venegoni per “la Stampa” il 23 Dicembre 2022.

Oggi Morgan compie 50 anni. Una vita spericolata, un personaggio degno di altri tempi, con i suoi tumulti, la cultura, gli amori, le mattane, l'intelligenza fuori dal comune, ora pure soggetto politico con la decisione di collaborare con il governo Meloni. Festeggerà stasera al Parioli con un concerto al quale ha invitato sul palco Mauro Pagani, Sergio Cammeriere e Federico Zampaglione. In platea Asia Argento con la loro figlia Anna Lou. Con Morgan, a ogni domanda ti arriva un fiume in piena. 

Come definirebbe i suoi primi 50 anni?

«Molto interessanti, più di quel che avevo previsto. Sono il prodotto di quel che avrei potuto essere, uno spirito autocritico e elevato. La mia vita è stata una figata, più complicata che spericolata, non sono mai caduto, nel senso che ho avuto ragione io, ho fatto quel che volevo. Posso dire di aver collezionato traguardi, primati nel mondo a X-Factor più di Simon Cowell, guardi sul web vedrà che non mento». 

La tv dà sempre una mano. Ci ritornerà, si immagina.

«La televisiun la g' ha na forsa de leun, cantava Jannacci. Farò divulgazione musicale sul servizio pubblico, sto occupandomi del ministero della Cultura e ci deve essere una collocazione nel discorso televisivo. Sono logiche culturali difficili per il mercato, contenuti pesanti da gestire. Ci sono i rotocalchi e c'è Dostoevskij. 

La politica culturale è sovranità e non sovranismo, autorità vuol dire essere autorevoli e noi siamo i primi che non ci crediamo, siamo esterofili, proni. Dobbiamo valorizzare il nostro patrimonio popolare e diventare ricchi. Pensi che al Conservatorio non è possibile occuparsi di musica popolare, con tutti i magnifici cantautori che abbiamo avuto». 

Ha fiducia nel ministro della Cultura Sangiuliano?

«Ha una grande responsabilità che sta affrontando da persona culturale, moderata e cauta, seria ed equilibrata. Lo sto consigliando. Non scavalcherà per ragioni meschine i suoi dettami culturali e non sarà facile piegarlo all'indifferenza». 

Sarà contenta la presidente Meloni delle sue parole.

«Sono ammirato da come si sta comportando. È una persona umile e impegnata, ha deciso di guidare politicamente la compagine e lo sta facendo». 

E il resto della compagnia?

«È quel che passa il convento. Ci vuole un po' di ottimismo, c'è un'energia che va ricostruita, dopo tutti i guai e distanziamenti della pandemia, che hanno reso gli italiani spaventati».

Non s' immagina che lei sia di destra, Morgan. Sta per parlare male di Draghi?

«Io sono anarchico e libertario, la cultura è essere liberali, saper dire dell'importanza di Gramsci ma anche di quella di Nietzsche. Se stai da una parte o dall'altra devi ignorare la controparte, io sono critico ma non ignoro, non sono aristocratico. Quelli di destra pensano a un mondo classista, di privilegiati. Io mi sento un proletario della musica, uno che si sporca le mani. 

In quanto a Conte e Draghi, viviamo questo disturbo post traumatico come in un Dopoguerra, lo choc ci ha presi tutti con distanziamento e ribaltamento dei valori umani. Pasolini nel Dopoguerra tentava di trasformare la comunicazione in rinascita. È quello che vorrei fare io. Son state prese misure ma non contromisure, sono stati incapaci di affrontare la gravità psicologica, hanno bloccato le relazioni umane ignorando tutte le conseguenze». 

Ma hanno salvato vite.

«Se fai questo, se chiudi scuole e teatri e musica, un terzo del Pil italiano, devi elaborare altro. Avrei lavorato sulle modalità di soluzioni alternative, se c'è un trauma e non fai niente per dare conforto alla persona traumatizzata sul piano culturale e psicologico, è gravissimo. Invece si è parlato come sempre solo di economia». 

Sul piano musicale cosa dobbiamo aspettarci ora da Morgan?

«Ho scritto un disco con Pasquale Panella, che uscirà con Egea Music prima del Festival, tanto per disturbare un po'. Panella ha scritto 60 poesie per commentare le mie, di poesie, in un libro che è andato in vetta alle classifiche. L'ho trovato geniale e gliele ho musicate. Non ci siamo mai visti, lui è chiuso in una torre d'avorio, con la sua cultura un po' elitaria e impenetrabile. Cantando, le sue parole volano». 

Circa 20 anni fa all'Heineken Festival vidi per la prima volta lei e Asia Argento abbracciati, commentai ecco Syd&Nancy, ridemmo.

«Noi non siamo stati distruttivi come loro, abbiamo fatto una figlia meravigliosa che oggi ha 21 anni, e tante cose belle. Come il film di Asia, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, con la mia più bella musica come colonna sonora. A quel tempo eravamo al Festival di Bellaria di Enrico Ghezzi che ci ha fatti conoscere. Abbiamo preso una macchina e abbiamo girato l'Italia e poi il mondo. A Mosca abbiamo imparato a memoria la Divina Commedia, poi l'abbiamo recitata in piazza a Firenze.

Abbiamo vissuto insieme la nostra grande creatività. Poi c'è stata la sofferenza: volevo costruire una famiglia e mi son trovato da solo in un appartamento con dentro solo un pianoforte, e lì ho scritto l'album L'appartamento. Non sono cambiato, sono sempre quel ragazzo lì. È stata una grande sofferenza che mi ha portato fin qui. Ma la gente sa bene che non sono quel cattivo descritto da certa stampa, oggi sono consapevole di questo. Sono un fantasioso, uno che ha le idee ecco perché sono qui: la vita è bella, meravigliosa. Oggi è tutto un combattimento, ed è ora di tirare fuori il coraggio».

Myss Keta: «La mia faccia? La conoscono solo mia madre e l’ostetrica». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2023

La rapper: «Quando collaboro con altri artisti mi presento già mascherata. La città? È rimasta sushi e coca, canto quello che vedo. Elodie mi ha insegnato a fare la amatriciana» 

«Strisce, righe e moda / Vodka, keta e soda... Bamba, soldi e sesso / La strada del successo». Sono passati 10 anni da «Milano, sushi & coca», il brano che l’ha lanciata: la capitale morale è (anche) la capitale immorale di cui si parla sottovoce?

«È un testo satirico e brutale, una fotografia masticata di una Milano che da una parte è conturbante e dall’altra ti turba profondamente. In questo testo ho cercato di restituire tutti questi angoli diversi, la seduzione ma anche la repulsione che ti dà vedere certi movimenti, certe situazioni notturne. La Milano di sushi & coca magari è cambiata nella forma, ma molte cose sono ancora quelle lì. È una fotografia ancora affidabile. Ho visto cose che voi umani non potete immaginare...». Mascherata come una supereroina, occhiali da sole in qualunque situazione meteorologica, perennemente bionda, la biografia di Myss Keta attiene al suo personaggio, quindi nessuna concessione a fatti veri, impossibile sapere da lei qualcosa sulla sua adolescenza, su come è cresciuta, quale sia il suo background. Nessuna ma anche centomila perché «non avendo volto, c’è un po’ di Myss Keta in ognuno di noi». Sedicente musa di Dalí e Andy Warhol, origini tedesche non verificate, «milanese con Venezia nel cuore», età indefinita (né pochi né troppi). Qua e là forse è animata da qualche apparente contraddizione, ma è nella complessità del reale non poter contenere in una costruzione razionale e armoniosa tutto quello che si dice.

Il passato è in prescrizione, nessuna concessione sulle sue origini?

«Lascio la mia biografia avvolta nel mistero, il personaggio di Myss fa capire alcune cose del passato, ma affido a chi mi segue la curiosità di unire i puntini».

Venerdì esce il nuovo singolo, «Profumo», un brano che fluttua tra atmosfere chic e seduzione, lontano dalla «Milano, sushi & coca» che raccontava come ormai la droga fosse stata derubricata a sballo ricreativo, pubblicamente stigmatizzato ma socialmente accettato.

«La mia narrazione parte dal reale, ma abbraccia anche finzione e sogno. Gli spunti per le mie canzoni vengono da cose che ho visto in prima persona o che mi sono state raccontate. La droga nel mio immaginario è un elemento presente: prendo, rimastico e sputo fuori le cose che vedo».

Cosa vede di notte?

«In realtà le cose più assurde non le vedi di notte ma alla luce del sole».

Svicola?

«La verità è che di notte siamo più umani, la notte è un posto più confortevole, riusciamo a lasciarci andare, abbandoniamo le maschere... il giorno invece sa essere disumanizzante».

La droga però diventa anche un rifugio, una gabbia, in cui la dipendenza non ci rende liberi.

«Certo. La notte ha il potere di renderti libero dai canoni che devi seguire tutti i giorni, ma se finisci in altre gabbie, costrizioni o mondi che ti chiudono dentro di sé, hai perso il senso della libertà della notte, ti sei andato a rinchiudere in un’altra scatola».

Anche la sua maschera non rischia di diventare una gabbia? Lei dice che serve per andare oltre l’immagine del corpo, ma alla fine anche la maschera diventa il suo connotato distintivo...

«Il rischio di mostrare un proprio lato “intimo” è quello che accomuna tutti gli esseri umani. La maschera di Myss rispetto ad altri artisti è esplicitata, visivamente e fisicamente. È la maschera che ogni artista porta con sé sul palco. Ma dietro la maschera c’è un cervello che si muove, un artista che si evolve, un progetto che cambia. Non vedo il rischio di rimanere incastrata».

Non è mai un limite?

«Spesso i limiti ti fanno aggirare certe cose, ti danno più spinta. I limiti di Myss sono lo sprone per andare oltre, il limite di non mostrare il viso ad esempio mi spinge ad avere una comunicazione non verbale più chiara».

Chi la vede senza maschera?

«Senza maschera mi conoscono solo mia madre e l’ostetrica».

Anche questa frase sembra uscire dalla sua biografia romanzata...

«Myss è questo. Quando lavoro, quando collaboro con altri artisti mi presento mascherata. Sarebbe come chiedere a Batman o Superman di andare al lavoro senza costume».

Si sente una supereroina?

«Con umiltà mi sento una supereroina milanese».

Quante maschere ha?

«La collezione supera le svariate centinaia».

È un’icona Lgbtq+, cosa pensa del governo Meloni?

«Con un governo come quello in carica non bisogna dare per scontato nessuno dei diritti che abbiamo acquisito finora. Purtroppo ci sono leggi che possono cambiare, lo abbiamo visto in altri Paesi: stavamo dando per scontato il diritto all’aborto, invece si può tornare indietro anche su questi temi».

Si dice, Meloni è un successo per le donne, un taglio rispetto al passato dominato dagli uomini...

«Avrei preferito un altro tipo di governo, un altro tipo di presidente del Consiglio. Non la vedo come una vittoria delle donne, perché non è una vittoria che tutela le donne».

Elly Schlein invece le piace?

«Mi piace, non l’ho ancora incontrata, ma la inviterò al mio concerto».

Il mondo del rap è spesso maschile e utilizza codici maschilisti. Spesso le donne sono viste come oggetti: un’immagine oscena, ma — nelle nostre eterne contraddizioni — è lecito chiedersi anche se la musica deve essere pedagogica.

«La musica è prima di tutto un’espressione artistica che deve essere slegata da velleità pedagogiche. Il rap nasce con canoni e stilemi che partono da un mondo street di un’altra epoca, in cui si faceva leva su un atteggiamento gangsta, machista e maschilista, non propriamente inclusivo. Il rap parte da lì, ma oggi siamo nel 2023. Quindi è giusto sia considerare da dove parte, sia tenere presente dove siamo ora: giudico fuori tempo massimo certi atteggiamenti espressi in maniera prepotente. È più facile ricorrere a un certo tipo di mondo che è già stato esplorato, la sfida è cercare di andare a trovare altri argomenti, un terreno inesplorato più difficile».

Ha duettato con diversi artisti. Mahmood?

«Prendo sempre qualcosa dalle persone con cui collaboro. Lui era straimpegnato per Sanremo, ma mi ha fatto capire che quando vuoi davvero qualcosa riesci a trovare il tempo per farlo».

Elodie?

«Lei è istintiva, spontanea, mi ha spinto a dare voce a questo lato. E poi durante la nostra fuga a Celebrity Hunted mi ha insegnato una amatriciana da paura...».

Mr Rain: «Il testo di Supereroi? Anche io ho avuto un periodo buio, per due anni non ho parlato più con nessuno. Mi ha aiutato la mia ragazza». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023

Il cantante: «Per due anni non ho parlato più con nessuno, sono guarito grazie alla mia ragazza e ai miei genitori». Pane e rose: «Ho fatto il porta pizze e il giardiniere. La mia famiglia ha un panificio, lo fondò il bisnonno»

«Scrivo anche quando c’è il sole...». La leggenda di Mr. Rain — una delle sorprese dell’ultimo Festival di Sanremo dove da sconosciuto al pubblico nazionalpopolare è arrivato al terzo posto con «Supereroi» e ora è al secondo posto della classifica ufficiale e al quinto fra i più trasmessi dalle radio — traballa.

Ma come, dice che si chiama Mr. Rain perché scrive solo quando piove...

«Diciamo che le cose scritte con il bel tempo non mi piacciono. Non ne ho mai pubblicata una. Spero di migliorare e soprattutto di capire il perché. Sono un maniaco del controllo e non saperlo mi fa impazzire. Comunque il disco è in ritardo proprio a causa della siccità...».

Tiene d’occhio il meteo?

«Non sono fan delle previsioni meteo, guardo fuori dalla finestra e vedo se piove».

I supereroi quelli veri, le piacciono?

«Amo i film Marvel, più che dei fumetti, sin da quando ero bambino. C’è una mia foto vestito da Spider-Man per Carnevale: avevo 8 anni».

Mr. Rain è un nome da cattivo dei fumetti, da villain, altro che supereroe...

«Forse per quel mister... ma io sono buono».

In effetti nei suoi testi non gira tanta droga, non c’è ostentazione di soldi e marchi, non si respira l’odore della strada. Ha senso un rapper buono?

«È tutta la vita che mi dicono che non sono un rapper e infatti ho fatto pochissime collaborazioni, ma non mi interessa. Mi sento un outsider. Racconto quello che vivo e voglio essere sincero. Quel mondo non mi appartiene, non mi rappresenta. La musica è un mezzo per portare messaggi positivi. Evito di dare il cattivo esempio».

Potrebbe?

«Sono stato fan di Eminem: lui parlava di droghe e psicofarmaci e anche se sono stato un ragazzo normale, basic, qualche incontro con le droghe l’ho avuto anch’io proprio perché emulavo il mio rapper preferito. Quando sei molto giovane sei fragile, sei vulnerabile e ti fai condizionare dalla persona che hai come riferimento. Per questo cerco di dare messaggi positivi».

Più che del buono però le hanno dato del furbo per aver portato un coro di bambini all’Ariston. Una mossa acchiappa voti?

«Nel 50-60 per cento delle mie canzoni c’è un coro, che sia di adulti o di voci bianche. Penso dia un senso di unione. Uso cori veri, in “Fiori di Chernobyl” a un certo punto riconosco anche una voce che stona. Credo però che “Supereroi” sia arrivata per altro. Lo capisco dalla gente che mi ferma, mi parla e mi lascia qualcosa. Sapere che verranno a cantarla in tour, magari per aiutarsi a superare un periodo duro come quello che canto nel brano, è la cosa più bella che mi potesse accadere».

Il brano parla della necessità di chiedere aiuto per uscire da un periodo buio. Ne ha avuto uno anche lei?

«Tutto è cominciato prima del Covid. Ho passato due anni in cui facevo fatica a dormire, non scrivevo, non parlavo con nessuno... mi ero chiuso in una bolla creata da me stesso. Ho iniziato un percorso di terapia per capire cosa non funzionasse in me. Ho avuto il supporto della mia famiglia, del mio team ma soprattutto della mia ragazza che vive con me da 6 anni. Adesso riesco a spiegare quello che provo e solo così non mi sento solo e non ho vergogna dei miei dubbi e delle mie paure».

Quali erano?

«Insicurezze, paura di perdere qualcosa o qualcuno, non mi andavano alcuni miei atteggiamenti, difetti estetici come gli occhi che non mi piacciono. Mi sono immaginato cose, mi sono creato barriere e solo parlando con alcune persone sono riuscito a vedere tutto da una prospettiva diversa».

Si ricorda di quando ha scritto «Supereroi»?

«Era maggio, ero negli studi della mia casa discografica, la Warner. Il ritornello è venuto subito e ci ho messo un po’ di giorni per completare il resto. L’ho fatta avere subito ad Amadeus e sono rimasto in attesa 4-5 mesi... Volevo quel palco, era un sogno. Per me Sanremo è il simbolo della musica italiana e volevo farne parte prima o poi».

Ci aveva già provato?

«Tre volte, ma non mi avevano preso. Ci sono rimasto male ad ogni “no”, ma meglio così. Ero ancora troppo chiuso e timido».

Mattia Balardi, il suo vero nome, guardava Sanremo?

«In famiglia sì. Poi dopo un periodo di stacco in cui ascoltavo solo musica internazionale ho ripreso a seguirlo. Mi ricordo 10 anni fa Mengoni con “L’essenziale”, un super pezzo».

Le sue passioni musicali?

«Come dicevo, ero fan di Eminem. I capelli biondi vengono da lì. Mi sono fatto anche dei tatuaggi per lui. Uno con la sua faccia, ma è così brutto che sembra suo cugino di terzo grado. E come lui aveva la D e il 12 (la sua crew ndr) io mi sono fatto M e 19, iniziale del nome e data di nascita».

Quando ha iniziato a scrivere canzoni?

«A 16 anni ho caricato il mio primo mixtape su YouTube. Ho capito che solo scrivendo potevo spiegare quello che sentivo dentro. La musica mi ha aiutato ad alleggerire il carico emotivo».

Rapper anomalo non solo nel linguaggio pulito: c’è molta musica suonata nei suoi dischi più che basi elettroniche...

«Non avevo soldi per iscrivermi a un corso di produzione per crearmi le strumentali da solo e allora ho iniziato a seguire tutorial di pianoforte, chitarra e Logic, un software. Il mio mood era quello di Macklemore, un modo pop di fare rap e con strumenti veri. Poi ho iniziato anche a farmi i video da solo. Per me immagini e canzone sono un pacchetto unico. A volte addirittura parto dall’idea del video. Mi piacerebbe provare a fare qualcosa al cinema, magari dirigere un corto».

Ama il cinema?

«Mi è sempre piaciuto. Fra i film preferiti Interstellar, Into the Wild e Donnie Darko che ho visto 5 volte, la prima su suggerimento di mia mamma, prima di capirlo».

Prima che la musica diventasse una professione?

«Ho vissuto fra Desenzano dove sono nato nel 1991 e Brescia, dove ho fatto le superiori. Ho fatto il portapizze, il giardiniere, aiutato papà che fa il fornaio, aggiustavo pc mettendo in pratica il diploma di perito informatico, foto e video ai matrimoni... Con i guadagni compravo strumenti e tecnologia».

Sa fare il pane?

«L’odore di pane per me è casa. Lo so fare, ma non lo preparo mai. Lo prendo da papà che lo fa per il negozio di famiglia a Carpenedolo: fondato da mio bisnonno, oggi ci lavora una delle mie sorelle. Una vita durissima, pesante, fatta di sacrifici enormi».

Mr. Rain, il volto garbato del rap d'autore. Sarà in gara con il brano "Supereroe": "Lo è chiunque sappia chiedere aiuto". Paolo Giordano il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

Tanto per presentarlo, è un artista multiplatino con all'attivo oltre 700 milioni di streaming, 13 dischi di platino e 5 oro. Mr. Rain, insomma, che si è messo in evidenza negli scorsi anni grazie a brani come Fiori di Chernobyl e Meteoriti mettendo in evidenza una vena compositiva delicata e controtendenza. Niente parolacce, in Mr. Rain, né autocelebrazioni egocentriche. Una piccola gemma del rap d'autore. E adesso arriva per la prima volta al Festival di Sanremo con la caratteristica tipica di tanti concorrenti di questi anni, ossia straconosciuto da un pubblico «targettizzato» ma sostanzialmente misterioso per tutti gli altri. Mattia Balardi ha trentun anni, viene da Desenzano del Garda e il suo volto conferma le origini svedesi della mamma. Arriva all'Ariston con un brano che è in netta controtendenza con il machismo di tanto rap o il piagnucolare di tanto pop.

In poche parole, Supereroi è la fotografia di questo artista che scrive canzoni «solo quando piove» e che ti chiede scusa se durante l'intervista ha usato troppe parole. «Avevo già provato ad andare a Sanremo, ma questo è il pezzo giusto al momento giusto» spiega durante una conferenza stampa che ha i toni amichevoli e confidenziali tipici anche del suo manager Francesco Facchinetti. «Ho sempre sognato il palco dell'Ariston», conferma Mr Rain che poi aggiunge: «Sono orgoglioso di arrivarci con un pezzo sulla difficoltà di chiedere aiuto». Già qui si capisce l'unicità di un ragazzo che arriva al Festival per la prima volta e canta di quanto sia stato difficile affrontare la depressione e quanto sia stato importante imparare a chiedere aiuto. Spesso non lo si fa. Per educazione. Per temperamento. Per condizionamenti ambientali. Ma sembra che la capacità di (ri)mettersi in contatto con gli altri sia una delle linee guida di questa generazione. «Questo brano parla di imparare a chiedere aiuto nei momenti difficili, io ho passato un momento molto cupo, mi ero chiuso in casa, in una bolla, e da lì ho iniziato un percorso di crescita personale e ho imparato a chiedere aiuto. Sono tornato finalmente a vivere e chi chiede aiuto è un supereroe: per me è molto importante portare questo messaggio all Festival perché sono tanti i giovani che hanno lo stesso problema che ho avuto io». In Supereroi si sente la presenza di due grandi e giovani autori, ossia Federica Abbate e Lorenzo Vizzini, che hanno la penna giusta per Mr. Rain e sono anche in controtendenza rispetto alla volgarità arrembante che si sente altrove. Non a caso, se a Mattia Balardi detto Mr. Rain si chiede chi sia il suo supereroe, risponde senza esitazioni: «Mia madre Francy, suona pianoforte e chitarra come me e forse ho preso da lei. Ultimamente sto provando anche il violino ma invece di prendere lezioni guardo i tutorial, quindi il percorso è lungo e difficile». Sul palco dell'Ariston l'orchestra sarà un detonatore della forza empatica di questo brano. E, se saprà essere a proprio agio, Mr. Rain farà sentire tutti a casa (sul palco nella serata dei duetti dovrebbe essere con Fasma).

Nada compie 70 anni: la vittoria a Sanremo nel 1971, l’amore con Gerry Manzoli, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera venerdì 17 novembre 2023.

La cantautrice, nata a Gabbro il 17 novembre 1953, ha debuttato giovanissima al Festival, spinta da sua madre

La bambina che «non voleva cantare»

«Faccio le cose che sento, che voglio fare. Ho scoperto che il mio nome significa “suono” in sanscrito. Ero predestinata, ho accettato questo mio destino e ho cercato di farlo diventare mio e non lasciarlo in mano agli altri». Nata a Gabbro, frazione di Rosignano Marittimo in provincia di Livorno il 17 novembre 1953, Nada Malanima (in arte solo Nada) ha iniziato a cantare quasi per caso. Fu sua madre, che soffriva di depressione, ad incoraggiarla: «Mia mamma nei momenti di lucidità si appassionò alla mia voce - raccontava la cantautrice nel 2021 al Corriere -, l’interesse da parte sua nei miei confronti si accendeva solo quando cantavo. Cantavo per lei, non per me. Eppure non mollava, insisteva, ne aveva fatto una sua ragione di vita finché qualcuno mi ascoltò e da lì partì tutto».

Il debutto a 15 anni

A soli quindici anni Nada fa il suo debutto al Festival di Sanremo 1969 con «Ma che freddo fa», in abbinamento con i Rokes. A quei tempi viene soprannominata «il pulcino di Gabbro» per la sua giovanissima età. In seguito Nada parteciperà a Sanremo anche nel 1970 in coppia con Ron con «Pa', diglielo a ma'», nel 1972 con «Re di denari», nel 1987 con «Bolero», nel 1999 con «Guardami negli occhi» e nel 2007 con «Luna in piena». Vince nel 1971 in coppia con Nicola Di Bari con «Il cuore è uno zingaro».

Il pop e «Amore disperato»

«Amore disperato», pubblicato nel 1983 e scritto da Varo Venturi e Gerry Manzoli, è diventato un classico del repertorio di Nada. Simbolo della sua parentesi pop negli anni Ottanta è stato più volte reinterpretato: nel 1999 ad esempio è stato coverizzato dai Super B.

Attrice

Nel corso della sua carriera Nada ha anche lavorato in teatro con Dario Fo e Marco Messeri e nel 1973 ha recitato nello sceneggiato televisivo Rai «Puccini». Un anno dopo era nel cast de «L'acqua cheta» e nel 1977 ha girato «Il diario di Anna Frank» diretto da Giulio Bosetti. Nel 1994 è tornata al cinema nel film di Francesca Archibugi «Con gli occhi chiusi».

Scrittrice

Dopo «Le mie madri», il suo primo libro pubblicato nel 2003, Nada ha scritto i romanzi «Il mio cuore umano» (2008, che ha ispirato la fiction Rai del 2021 «La bambina che non voleva cantare»), «La grande casa» (2012), «Leonida» (2016), «Come la neve di un giorno. Una visione» (2023) e l’autobiografia «Materiale domestico. Un'autobiografia 2019-1969» (2019).

La sua canzone in The Young Pope

In una scena di «The Young Pope» Paolo Sorrentino omaggia Nada: giunta in visita dal pontefice (interpretato da Jude Law) la premier della Groenlandia gli porta in regalo la canzone «Senza un perché», contenuta nel disco del 2004 «Tutto l'amore che mi manca». «Sapevo che aveva chiesto questa mia canzone del 2004, non sapevo che l’avrebbe usata in quel modo - ha detto Nada nel 2016 al Corriere -. Dopo, l’ho chiamato, mi ha detto che gli piaceva molto il testo. Non so dire perché, ma non è importante. È solo bello che sia andata così».

Il marito (ex dei Camaleonti)

Dal 1973 Nada è sposata con il bassista Gerry Manzoli, ex componente dei Camaleonti. «Gerry si è dedicato totalmente a me - ha detto nel 2016 al Corriere -. Io sono pigra, se non ci fosse stato lui a spingermi e spingermi, avrei fatto molto meno di quello che ho fatto». La coppia ha avuto una figlia: Carlotta.

Nada: «Non mi sono mai sentita né giovane né bella. Io in realtà non mi sento». Le canzoni che l'hanno resa famosa, ma anche i romanzi che ha scritto negli ultimi vent'anni. L'ultimo, “Come la neve un giorno. Una visione”, oscilla tra realtà e fantasia. La cantautrice, ospite del Marzamemi Book Fest, racconta sé stessa: «Navigo tra le onde con Virginia Woolf». Emanuele Coen su L'Espresso il 06 ottobre 2023

La letteratura, la scrittura, le parole sulla carta. «Adoro i classici: ho sempre letto grandi romanzi russi, in particolare Dostoevskij. Più di recente Virginia Woolf, che amo tantissimo, soprattutto il romanzo “Le onde”. E poi le lettere meravigliose di Emily Dickinson», afferma Nada Malanima al telefono dalla sua casa in Maremma. I libri popolano l’altra metà del suo mondo da quando la cantautrice esordì con “Le mie madri”, una ventina d’anni fa, a metà tra prosa e poesia, al centro la sua storia di artista e di donna. L'incontro con Piero Ciampi, il desiderio di restare indipendente, il difficile rapporto con la madre, la passione. Ora la cantautrice torna con un romanzo che flirta con le favole, “Come la neve un giorno. Una visione” (I libri di Atlantide), che presenterà al Marzamemi Book Fest. Per i suoi libri alcuni critici hanno scomodato, scovando parallelismi, Elena Ferrante, Lalla Romano, Vladimir Nabokov. Il nuovo romanzo ha come protagonista Elba, che guarda la vita da un luogo lontano, Villa Incanto, dove il tempo non esiste. 

Nada, come descriverebbe Villa Incanto?

«È un luogo immaginario, dove Elba è in contatto con persone che vivono in un altro tempo. Una dimensione magica, in cui si mandano segnali verso cose lontane ma anche vicine a lei». 

I suoi romanzi sono stati ben accolti dalla critica, per una cantautrice non è scontato.

«Infatti non me lo sarei mai aspettato. Quando ho cominciato a scrivere ero consapevole che ci fosse un po’ di pregiudizio, come è naturale quando uno fa un altro mestiere. Ma ero anche convinta che, se nei miei libri ci fosse stato qualcosa di buono, sarebbe venuto fuori. E così è stato. Oggi non ci voglio neanche pensare, mi sembra troppo! (ride)». 

Che relazione esiste tra musica e scrittura?

«C’è una distanza, rappresentata dalla libertà. Quando scrivi una canzone devi rispettare la musica e il tempo. All’inizio scrivevo canzoni che duravano quaranta minuti, ci ho messo parecchio tempo a trovare la sintesi. Nella scrittura invece hai la libertà, sei sola con la parola. Ma è anche vero che sono sempre io, c’è un collegamento tra i temi ma in una forma diversa». 

Quando scrive le capita di ascoltare musica?

«No, non ascolto musica, ma leggo. Leggo altri autori per far viaggiare la mente, prendere qualcosa, da una parola nasce un’idea che mi porta altrove. Mi stimola molto». 

Oltre alla scrittura, anche la musica ha un aspetto spirituale importante. Una delle canzoni del suo ultimo album si intitola “Nada Yoga”. Lei pratica yoga?

«No, non pratico lo yoga, anche se faccio i miei esercizi di rilassamento e meditazione per connettermi con me stessa e la natura, che amo molto. Tuttavia “Nada yoga” non è riferito a me. È una disciplina dello yoga che consiste nella ricerca del suono interiore. Quando ho scritto questa canzone, molto meditativa, ho pensato che fosse il titolo giusto. Ma è una coincidenza con il mio nome». 

A proposito del tempo Leonida, protagonista del suo omonimo romanzo di qualche anno fa, afferma di non essersi mai sentita giovane, per cui non può sentirsi vecchia. Come vive Nada l’incedere dell’età?

«Mi sento proprio così. Non mi sono mai sentita né giovane né bella, io in realtà non mi sento. È una sensazione particolare: non do peso all’età, al tempo che passa, al cambiamento fisico. Sento sempre questa bella leggerezza. E anche nell’ultimo libro, che tratta un argomento un po’ scuro, misterioso, prevale la positività, la speranza». 

Le è capitato di lavorare con artisti più giovani, Motta o Zen Circus. Da cosa nascono queste collaborazioni?

«Non sono stata io a cercarli, le cose che faccio chiamano le nuove generazioni. Non vedo la musica in questo modo, come un progetto a tavolino. Sono una che si dondola in disparte, l’ho anche scritto in una canzone. Loro mi hanno cercato perché hanno sentito la mia musica. Col tempo siamo diventati amici». 

Alcune sue canzoni sottolineano scene clou di film o serie tv. Come nel caso di “Ti stringerò” per “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti o “Senza un perché” per la serie tv “The young Pope” di Paolo Sorrentino. Che effetto le fa?

«La cosa che mi ha sempre colpito è che le mie canzoni sono state usate in film molto particolari. Addirittura “Ma che freddo fa” è stata usata in un film horror che si intitola “Raw” sul cannibalismo: mentre uno tira fuori un braccio dal frigorifero e lo mangia, si sente la canzone. E poi il caso di Paolo Sorrentino: “Senza un perché” non girava bene. A lui invece è piaciuta tantissimo, era convinto che sarebbe stato un successo. E lo è diventato grazie a lui, che l’ha valorizzata molto in “The young Pope”. Quando credi che una cosa sia giusta, prima o poi viene fuori. Ci sono voluti quattordici anni ma alla fine avevo ragione».

Estratto dell’articolo di Emilia Costantini per il Corriere della Sera il 22 marzo 2023.

Perché lei è stata soprannominata «furibonda» e «gramigna»?

«Da adolescente ero arrabbiata, mi sembrava tutto ingiusto ciò che era capitato: mia madre è morta quando ero una bambina e, dopo la sua morte, mio padre non c’era mai. Il soprannome “gramigna” mi fu affibbiato da una zia, diceva che crescevo come una selvaggia».

 Selvaggia e un po’ antipatica?

«Posso esserlo molto: di fronte a un’ingiustizia da parte di persone prepotenti, non sono una che subisce. Reagisco ai soprusi, anche a quelli subiti da persone a me vicine.

Una mia amica veniva picchiata dal marito, ma non diceva niente, subiva zitta e buona.

Un giorno sono andata a casa sua molto risoluta e ho aggredito quel maledetto: mi sono beccata uno schiaffo da lui, ma sono riuscita a portare via la mia amica».

 Oltre ai soprannomi, lei ha un nome che è lo pseudonimo di Nicoletta?

«Assolutamente no! Mia madre, da ragazza, studiava inglese da una suora australiana, cui era molto affezionata, e che si chiamava Nancy. Quando poi si è sposata e nacqui io, andò a trovare la suora che si complimentò e le suggerì con affetto di chiamarmi proprio Nancy.

 Ma quando con mio padre andarono all’anagrafe per registrarmi, l’ufficiale addetto non aveva capito come si scriveva il mio nome e lo scrisse Nenzi, come si pronunciava. I miei genitori gli fecero notare l’errore e lui rispose scocciato: “A ‘sta regazzina je dovete trova’ un nome facile da scrivere e da pronuncia’!”. E venne fuori Nicoletta, ma il mio primo nome è Nancy».

 Mamma scomparsa troppo presto, papà assente.

«Io non riuscivo a capire la sua malattia. Rimasi sorpresa un giorno a scuola, dove tutti mi trattavano molto bene, tutti gentilissimi, poi scoprii che mamma era morta quel giorno. Prima della sua scomparsa eravamo una famigliona, poi il vuoto assoluto, non c’era più nessuno a darmi una carezza. Ho vissuto la sua morte come se fosse avvenuta per colpa mia, non l’ho accettata, un blocco totale».

 Con chi è cresciuta?

«Con mia nonna paterna, molto maschilista, tutte le sue attenzioni erano rivolte a mio fratello. Era autoritaria e non sopportava i miei lunghi capelli biondi: erano impegnativi, ma tanto belli, e me li tagliò».

Un sergente di ferro?

«Basti dire che a 18 anni sono arrivata all’autolesionismo: provocarmi tagli, graffi, strapparmi i capelli... un modo per provare dolore fisico e placare la sofferenza interiore. Negli anni ho tentato di sbloccarmi con l’ipnosi e dopo vari tentativi sono riuscita un po’ a superare almeno l’angoscia. Solo grazie alla nascita di mio figlio Francesco ho accettato l’idea di avere un futuro: prima di lui, potevo morire in qualunque momento, mi andava bene così... poi, con il suo magnifico arrivo nella mia vita, ho deciso di andare avanti».

 L’arrivo di un bel figlio, avuto da Luca Manfredi, e anche un bel lavoro. In questo periodo è in tournée, insieme a Chiara Noschese, con lo spettacolo «Manola» di Margaret Mazzantini...

«Sì un bel lavoro che, dopo il Covid, ho avvertito come una missione. Mi sono detta: abbiamo tutti bisogno di alleggerirci, le persone hanno necessità di sollevare lo spirito. Con questa commedia ci siamo riuscite. È una maratona impudica, divertente e commovente, che svela l’intimità femminile, nelle varie problematiche».

 Problematiche alle quali lei si dedica con la Onlus WeWorld.

«Da parecchio tempo mi occupo dei problemi delle donne che subiscono violenza di genere. Diamo loro il coraggio di denunciare, troviamo per loro possibilità lavorative e rifugi sicuri».

 Le donne subiscono anche discriminazioni nel lavoro per l’età.

«Verissimo e, in particolare, nel mio lavoro. Intorno ai 45 anni sei troppo giovane per fare la vecchia e, in seguito, sei troppo vecchia per fare la giovane. Una discriminazione che i colleghi non subiscono».

 E lei è mamma con due matrimoni alle spalle, una lunga convivenza e una storia d’amore burrascosa...

«Con Massimo Ghini ci siamo sposati per allegria, e siamo amici. Il secondo matrimonio, con Luca, è stato importante e lui sarà sempre presente nella mia vita. Con Roy De Vita è rimasta un’idea di famiglia. Ivano Fossati era eccessivamente geloso: una volta mi allenta uno spintone e gli ho mollato un calcio molto forte. Io, nelle discussioni, cerco di essere ragionevole, ma se mi parte la brocca... Fa parte del mio carattere romano».

 Ma è vero che, oltre alla romanità, ha origini ucraine?

«Pare che io abbia un trisavolo ucraino e che avrei addirittura il titolo di contessa di Budzak... ma che è? Boh!».

 È vero che una volta affrontò addirittura le tigri?

«Un’avventura incredibile, successa in un circo 30 anni fa, che accettai per beneficenza. Mi sono divertita parecchio, anche per il rituale. All’inizio dovevo farmi accettare dalla tigre femmina più vecchia del gruppo, altrimenti non sarei potuta entrare in gabbia. L’animale mi girò intorno, puntandomi con grande attenzione, poi andò via... mi aveva accettato. Sono bestie pericolose, maestose, ma sono prigioniere e bisogna rispettarle».

«Caro Diario» compie 40 anni, il film in cui Moretti per la prima volta ha rappresentato solo e unicamente sé stesso. Storia di Filippo Mazzarella su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2023.

Il 12 novembre 1993 usciva nelle sale italiane Caro diario di Nanni Moretti, settimo lungometraggio del regista, all’epoca «splendido» quarantenne (come rimarca una delle battute più celebri del film, tanto che l’uso dell’aggettivo prima della dichiarazione d’età è entrato addirittura nel linguaggio comune), che apriva una nuova fase nella sua carriera di Autore. Un’opera divisa in tre «capitoli» di vita vissuta: nel primo, In Vespa, Nanni gira in scooter in pieno agosto per le strade di una Roma svuotata, abbandonandosi a notazioni sul cinema, sull’urbanistica capitolina, sulla natura degli abitanti delle zone periferiche che attraversa. Per osservare più da vicino gli edifici che lo attraggono, finge coi loro inquilini di effettuare sopralluoghi per un improbabile film da farsi (la storia di un pasticcere trotzkista nell’Italia degli anni Cinquanta raccontata in chiave di musical), arringa senza motivo un ricco (Giulio Base) fermo al semaforo sulla sua Mercedes (“Anche in una società più decente mi ritroverò sempre con una minoranza”), attraversa la Garbatella, esplicita la sua passione/desiderio per il ballo definitivamente esplosa con la visione di Flashdance (incontrando poi, in una parentesi di surrealtà casuale, proprio la protagonista Jennifer Beals di cui ovviamente elogia le scarpe “comode”), si spinge verso Spinaceto per capire il motivo per cui se ne è sempre parlato in termini spregiativi, visita Casal Palocco (che “odora di videocassette”) ipotizzando un film “fatto solo di case”.

Va poi al cinema Fiamma dove proiettano «Henry – Pioggia di sangue/Henry: Portrait of a Serial Killer», 1986, di John McNaughton e, disgustato dalla visione, raggiunge un critico cinematografico (Carlo Mazzacurati) colpevole di averlo esaltato alla stregua di un capolavoro per vessarlo nella sua stanza da letto rileggendogli alcuni passaggi delle sue più iperboliche recensioni. E il suo itinerario si conclude sul litorale di Ostia, nel luogo in cui trovò la morte Pier Paolo Pasolini. In Isole, desideroso di trovare la quiete per lavorare al suo nuovo film, Nanni parte per le Eolie dove a Lipari lo attende il “filosofo” Gerardo (Renato Carpentieri), lì autoesiliatosi una decina d’anni prima. Dopo aver danzato in un bar in cui alla tv danno Anna (1951) di Alberto Lattuada sulle note della canzone di Armando Trovajoli El Negro Zumbón, infastidito dall’insolita confusione dell’isola, si sposta con l’amico a Salina e con lui fa visita a due amici (Raffaella Lebboroni e Marco Paolini) che hanno un esigente bambino piccolo. Scopre così, dopo aver incontrato un’altra coppia (Lorenzo Alessandri e Claudia Della Seta) con un figlio in età scolare, che l’isola è popolata solo da famiglie con figli unici a cui i genitori sono grottescamente e totalmente asserviti. Mentre Gerardo, che aveva esordito citando Enzensberger e le sue teorie sul medium zero (“La televisione è il nulla”), si scopre stranamente attratto dai programmi della tv più deteriore, i due raggiungono Stromboli, dove un sindaco (Antonio Neiwiller) con complessi d’inferiorità culturale vorrebbe commissionare a Ennio Morricone una colonna sonora per l’isola e ingaggiare il direttore della fotografia Vittorio Storaro per “illuminarla”.

E Nanni, alle pendici del vulcano, viene qui costretto da Gerardo a chiedere informazioni a dei turisti americani sugli snodi narrativi più recenti e inediti della soap opera Beautiful. I due si spostano quindi a Panarea, da cui fuggono immediatamente, inorriditi dall’accoglienza di una giovane signora-bene che li informa di una imminente “festa del cattivo gusto” e approdano nella aspra Alicudi, dove ad accoglierli c’è stavolta un intellettuale-eremita (Moni Ovadia) che una volta rivelata ai due l’assoluta mancanza di elettricità in loco provoca in Gerardo (ormai così accecato dalla dipendenza catodica dall’aver abbozzato una lettera indignata per il papa reo di aver scomunicato le telenovelas) una disperata fuga verso il ritorno alla “civiltà”. Nell’ultimo, Medici, Nanni ripercorre il suo reale calvario di paziente prima della diagnosi di un linfoma di Hodgkin: vittima di strani pruriti notturni, sudorazione eccessiva e dimagrimento, si ritrova dapprima a rivolgersi invano a una lunga teoria di dottori da cui ottiene solamente montagne di ricette per farmaci sempre diversi e prodotti dermatologici, quindi a un allergologo che gli diagnostica intolleranze a praticamente qualunque cibo, poi alla medicina alternativa orientale tra sessioni di agopuntura e sedute con bizzarre apparecchiature (l”ago del fiore di prugna elettrico”), mentre un medico-psicologo tenta di colpevolizzarlo sostenendo una natura psicosomatica dei suoi malanni. Finché, dopo una radiografia e una TAC, non gli diagnosticano un inesistente cancro al polmone che porterà però alla scoperta della vera malattia e alla terapia necessaria per sconfiggerla. Tempo dopo, consultando una banale “garzantina” medica, scoprirà che i sintomi del linfoma sono quelli che sin dall’inizio aveva riferito in anamnesi a tutti gli specialisti interpellati e ne concluderà che «I medici sanno parlare ma non sanno ascoltare», congedandosi dal pubblico, a cui sta parlando dal tavolino di un bar letteralmente invaso da tutti i medicinali inutili sin lì accumulati, col brindisi sferzante di un semplice bicchiere d’acqua a stomaco vuoto.

Abbandonato definitivamente l’alter ego di Michele Apicella (già messo da parte per il don Giulio di La messa è finita, 1985, ma poi recuperato per il film successivo, Palombella rossa, 1989), Moretti costruisce con Caro diario uno spiazzante journal intime in prima persona, rappresentando per la prima volta solo e unicamente sé stesso, in un trittico di “capitoli” caratterizzati dall’utilizzo della macchina da presa con la funzione di caméra-stylo (cinepresa-penna) teorizzata in illo tempore da Alexandre Astruc e piegato alla sua peculiare e già ampiamente canonizzata maniera di intercettare con il cinema il presente e le sue contraddizioni. Diviso in tre segmenti tra loro esteticamente differenti e narrativamente autonomi, ma uniti dalla costruzione finale di una riflessione-unicum esistenziale [«l’anima, la mente, il corpo», P. Mereghetti], il film dice innanzitutto, sul piano del puro cinema, della volontà morettiana di spingere in un oltre assolutamente sui generis la natura stessa delle immagini con una libertà narrativa e visiva che i suoi lavori precedenti avevano solo in parte intercettato o lasciato intuire. Ed è ritmato da un avvicendamento di incontri, spostamenti, contemplazioni, reiterazioni, riflessioni ripartite tra voce over e contestualità all’azione (spezzando la verosimiglianza già volutamente labile della narrazione), in cui l’usuale natura autobiografica è solo il punto di partenza dichiarato, ribadito e al contempo quasi sconfessato della volontà di superare i confini del suo stesso concetto di messa in scena.

È un film che si lascia volentieri invadere dalla musica, originale e non (I’m Your Man di Leonard Cohen, Batonga di Angélique Kidjo, Didi di Cheb Khaled, oltre alla straordinaria colonna sonora originale di Nicola Piovani e il Köln Concert di Keith Jarrett) come poi accadrà sempre nel suo cinema successivo: e un concentrato di momenti anche comici istantaneamente di culto per i morettiani osservanti. Ma è anche uno struggente film sulla solitudine e il dolore: una solitudine generata da diversi piani di insofferenza (sociale, politica, estetica, psicologica) di cui la malattia è solo un fenomeno «evidente»; e un dolore che, in linea con quello sempre raccontato, da Ecce bombo a Sogni d’oro, da Bianca a La messa è finita a Palombella rossa passando attraverso una cognizione di alterità ai confini del narcisismo, assume qui per la prima volta le connotazioni sotterranee di un malessere più diffuso ed endemico, meno “personale” e più “universale”. Moretti opera di distacco, anche quando racconta la sua odissea più privata: lo rivelano momenti straordinari (che gli valsero giustamente il premio alla migliore regia al Festival di Cannes 1994) come, nel primo episodio, il camera-car finale (l’unico in campo lungo) che si chiude sul monumento trascurato e semiabbandonato a PPP o alla potenza materica della natura nel capitolo centrale («Guardate come inquadra e ferma i paesaggi delle Eolie e la loro luce. Come sa impiegare i campi lunghi e lunghissimi. Chi, se non l’Antonioni di L’avventura – ma è solo un esempio – ha avuto un occhio così, a dimostrazione che la fotografia non è soltanto tecnica di riproduzione della natura, ma visione e interpretazione del mondo?” M. Morandini»). Ed è ammantato ancor oggi da una consapevolezza che lo rende a posteriori uno degli strumenti più preziosi per comprendere appieno il suo ultimo (finale?) capolavoro, Il sol dell’avvenire, che davvero in troppi questa primavera hanno preso per il verso sbagliato.

L’Ungheria e i tormenti del Pci tra politica e privato. Il Sol dell’Avvenire, il film di Nanni Moretti ci dice che “la storia si può fare anche con i se”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

Sarà la nostra punta di diamante alla prossima edizione del Festival di Cannes insieme a Marco Bellocchio e Alice Rohrwacher. Nanni Moretti festeggia con Il Sol dell’Avvenire il suo ritorno sulla Croisette in concorso (dopo Tre Piani nell’edizione 2021), a 45 anni da Ecce bombo. Prima del Festival a maggio, gli italiani lo vedranno dal 20 aprile in sala, luogo che Nanni Moretti da sempre, in tutte le sue vesti, regista, produttore, distributore, esercente, preserva e difende.

Presenta il film alla stampa infatti proprio nel suo Nuovo Sacher, tempio del cinema d’essai, come non lo si chiama da tempo e dimora di famiglia morettiana e i suoi valori cinefili. «Le piattaforme vanno bene per le serie, i film si devono fare per il cinema», rimarca da subito il regista che ne Il Sol Dell’Avvenire torna protagonista e interpreta un regista alle prese con un nuovo film sul Partito Comunista Italiano nel 1956 e con l’incontro comico-grottesco con Netflix.

Moretti è Giovanni, un uomo che da 40 anni vive in sodalizio artistico e di vita con la moglie Paola (Margherita Buy), produttrice di tutti i suoi film. Mentre lei vede di nascosto un analista, produce il primo film da sola e progetta di trovare il coraggio di lasciarlo, lui non si accontenta di ciò che sta girando ma immagina già altri due film, uno tratto da Il Nuotatore di Cheever e un altro, su due che si innamorano e costruiscono un’esistenza insieme sulle note di “tante e tante canzoni italiane”.

I protagonisti del film principale che porta con sé i riferimenti agli ideali di sinistra che “tanto ci sono piaciuti”, ricorda Moretti nei titoli di coda, sono Silvio Orlando e Barbora Bobulova, che conservano i loro nomi e molto del loro spirito con il primo che, data l’esperienza con Nanni, ha dal regista “licenza di improvvisare”. «Quando leggo le sceneggiature, leggo soprattutto il mio personaggio – spiega Orlando. Erano 17 anni che non lavoravo con Nanni. Il Sol dell’Avvenire è la chiusura di un cerchio per la storia personale che ho con Nanni iniziata con Palombella Rossa ed è un film che mi ha scosso nel profondo. Quando l’ho visto per la prima volta, ho avuto un crollo psicofisico. Avevo un’intervista subito dopo e ho dovuto rimandare, sono scappato via. Non è un film qualsiasi per me, al di là della mia partecipazione».

Oltre che per Orlando, quinta volta sotto la direzione di Moretti anche per Margherita Buy, di seguito nel suo caso, dopo Tre Piani, Mia Madre, Habemus Papam e Il caimano: «Sono stata contenta di aver partecipato a questo film complesso. Ero curiosa di vedere come sarebbero state rese tutte le altre storie che si intrecciano. Io e Nanni sul grande schermo siamo stati prima sposati, poi fratelli, ora separati ,quindi, il prossimo che facciamo? Come siamo rimasti alla fine di questo film?», chiede a Moretti. «Ci siamo lasciati bene!», risponde il regista che poi non manca di elogiare la collega: «Mi sono dimenticato di dire che ieri Margherita ha finito di girare il suo primo film da regista!!».

Come ha ricordato Moretti più volte nel corso della presentazione del Sol dell’Avvenire, chi ha più di 50 anni si sentirà molto vicino ai temi del film, alle sue ambientazioni, a quello sguardo agli ideali di un tempo e alle riflessioni del regista sulla cultura politica e anche popolare dell’epoca. Si guarderà anche con nostalgia alla stagione in cui giornali come l’Unità rappresentavano la voce di un pensiero e appartenere a un partito, tesserarsi, significava mostrarne costantemente e con orgoglio, i valori e fondamenti, come in una religione. Il personaggio di Silvio Orlando, giornalista e capo della sezione PCI del Quarticciolo di Roma, è in questo senso, insieme a Barbora Bobulova, compagna di partito, protagonista fondamentale del suo film.

La più commossa di aver fatto parte del mondo morettiano è proprio Bobulova: «Mi sono sentita veramente molto accolta e accudita in questa famiglia morettiana. Ero quasi convinta di essere questo personaggio e quando Nanni mi ha detto di avermi scelto, sono scoppiata a piangere come adesso». Contestualmente al racconto del PCI nel 1956 nel film dentro al film, attraverso il circo ungherese ospitato a Roma dal partito, c’è lo sguardo alla Rivoluzione d’Ungheria, contro l’allora amata Russia socialista. Quanto la guerra in Ucraina, scoppiata nel corso della lavorazione del film ha influenzato la sceneggiatura? «L’abbiamo chiusa prima – risponde Nanni – ma nella scena con Mathieu Amalric che si vede anche nel trailer, quando io gli dico che Piazza Mazzini sembra Budapest, c’era una frase che diceva ‘vedo già avanzare i carri armati su Viale Carso’. Quella l’ho tolta che mi faceva impressione».

Ad un certo punto Moretti sottolinea: «Silvio Orlando dice una cosa molto bella su di me: per capire come sta Nanni bisogna vedere i suoi film». Attraverso Il Sol dell’Avvenire, dunque, Nanni ci dice come sta, partendo da una frase del suo Giovanni: «A proposito del ‘tutto è diverso’ che dice il mio personaggio, io ho sempre reagito andando contro quella che era l’onda. A metà degli anni 80 c’erano pochi film italiani radicati sul territorio, c’era la tendenza a fare film fintamente internazionali. Io ho reagito a questi film che per piacere a tutti poi non piacevano a nessuno, facendo una mia casa di produzione. Qualche anno dopo, i cinema chiudevano, c’era il trionfo delle videocassette e io ho aperto questa sala, nel novembre ‘91. Più di 15 anni fa, poi, quando gli esordienti non se li filava nessuno, ho incominciato a fare il Festival Bimbi belli sulle opere prime. Anche ora, in un momento di difficoltà delle sale, ho fatto finta di niente e ho continuato a pensare, scrivere e girare un film per gli spettatori in un cinema».

Commentando lo spirito con cui si avvicina al Festival di Cannes, Nanni Moretti riflette sul cinema italiano: “Il film in Francia è molto atteso. Oltre a Cannes, uscirà a fine giugno perché lì l’uscita estiva non è tabù come in Italia. Al di là dei film italiani che saranno a Cannes, sposto il discorso a quelli che escono in italia.  I film d’autore un tempo venivano preparati bene, coccolati, uscivano al momento giusto con l’attenzione dovuta. Ormai invece ci sono tantissimi film che vengono gettati allo sbaraglio, il pubblico non capisce cosa sta uscendo, che film sia. Mancano belle trasmissioni sul cinema in TV. A volte il pubblico dà delle sorprese, vedi il successo avuto da Le otto montagne”.

Senza svelare troppo del film, nelle ultime inquadrature del Sol dell’Avvenire, Nanni Moretti guarda in macchina e saluta. A chi gli chiede se è un addio, entusiasta nega: «Diciamo che con quel saluto, chiudo questa primissima fase della mia carriera a cui seguirà una seconda fase che durerà un’altra cinquantina d’anni e forse anche una terza». Chiara Nicoletti

Estratto dell’articolo di Fabrizio Accatino per “La Stampa” – 19 agosto 2023

[…] Girotondi. Breve e lontana (era il 2002) la stagione in cui la politica la si contestava in piazza tenendosi per mano. Senza derive populiste, anzi, ribadendo: «Noi continueremo a delegare ai partiti». 

Tra i girotondini della prima ora ci fu proprio Nanni, che attaccò a sorpresa l'Ulivo di Rutelli: «Con questa dirigenza non vinceremo mai». E così andò. Horror. Considera la violenza al cinema l'ultimo rifugio delle canaglie. Ne Il sol dell'avvenire blocca la lavorazione di un film truculento, in Caro Diario esce dalla sala catatonico dopo aver visto Henry pioggia di sangue.  Ricorda chi ne aveva scritto bene, gli piomba in casa e lo tortura leggendogli la sua recensione entusiasta. […]

Estratto della lettera di Francesco Rutelli, pubblicata da “La Stampa” mercoledì 23 agosto 2023.  

Caro Direttore,

anche in agosto, apprezzo e leggo quotidianamente La Stampa. Sono quindi incappato in due riferimenti che mi riguardano, e che sono sbagliati. La mia correzione cumulativa permetterà di spiegare i fatti senza sottrarre molto spazio. Il 19 agosto, in un articolo di Fabrizio Accatino sul compleanno di Nanni Moretti si fa riferimento all'invettiva che il magnifico regista dedicò alla classe dirigente del centrosinistra nel 2002. 

"Tra i girotondini della prima ora - scrive l'autore - ci fu proprio Nanni, che attaccò a sorpresa l'Ulivo di Rutelli. 'Con questa dirigenza non vinceremo mai'. E così andò". Ora: non debbo dire qui una parola su Moretti regista, intellettuale (e anche, a suo modo, 'politico'); riferisco solo che, incontrandolo a Cannes, gli ho detto che ho amato il suo ultimo "Il sol dell'avvenire" ancor più vedendolo per la seconda volta. Il punto è che quella sua invettiva profetica non si avverò affatto.

Anzi: l'Ulivo di quegli anni (di cui ero stato nominato Coordinatore, e che portavamo avanti con una larga classe dirigente, da Fassino a centinaia di parlamentari e amministratori) vinse praticamente sempre. Basta fare la fatica di vedere il sito del Ministero dell'Interno: dalle elezioni suppletive, alle amministrative, alle regionali - fino alle politiche del 2006, con la guida di Prodi -, si trattò di risultati che comprendo possano essere dimenticati (parliamo di vent'anni fa), ma non possono essere capovolti. Per capirci: la nostra alleanza dell'Ulivo vinse in quegli anni le elezioni regionali non solo in Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Puglia (dove oggi governa il centrosinistra), ma anche in Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Trentino, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Basilicata, Calabria e Sardegna (dove oggi governa il centrodestra). 

Il 21 agosto, in un ampio articolo sulla parabola di Rudy Giuliani, Gabriele Romagnoli scrive che tra quanti negli anni '90 "venivano per studiarlo o ricavarne una foto ricordo, lo fece Rutelli da Roma". Si tratta di una sintesi irricevibile. Come Sindaco, oltre allo storico gemellaggio di Roma con Parigi e alla super-collaborazione con l'innovativa Barcellona, ho realizzato Accordi di Cooperazione con New York, Pechino, Tokyo (e Mosca, e Kiev). 

La missione del 1998 a New York fu densa di appuntamenti operativi tra diversi settori delle Amministrazioni, altro che foto-ricordo (persino un incontro alla Trump Tower con un rampante developer, che ho raccontato nel mio libro "Tutte le strade partono da Roma": Donald Trump). Scrive invece Romagnoli che io incontrai Giuliani "pubblicamente in una boutique Fendi". 

Anche qui, basta digitare su un motore di ricerca per scoprire che in quella occasione - ben più festosa, rispetto alle tante riunioni di lavoro - si promuoveva con Carla Fendi un marchio di valore mondiale basato a Roma 

(...)

Uscendo dalle precisazioni, caro Direttore, vorrei aggiungere una mia nota. Tra i motivi che rendono irrevocabile la mia decisione (di dieci anni fa) di lasciare le posizioni politico-istituzionali ci sono i riflessi profondi che non svaniscono in quella che in passato è stata la mia parte politica: se il Sindaco (ex-magistrato) Giuliani ha conosciuto una deriva drammatica, non possono scomparire i suoi meriti di avere abbattuto l'orrore del crimine nelle strade della sua città e schiantato le mafie che controllavano il Porto di New York. 

Ovvero: esiste tuttora in una parte rilevante della sinistra l'idea che reclamare "città sicure" sia un regalo alle destre. E' invece un dovere, e un orizzonte giusto per tutti, e per la convivenza civile. Idem quanto alla difesa di una imprecisata "identità di sinistra" rispetto alle posizioni riformatrici, accusate di essere 'moderate': tanto vale, secondo molti, che vincano le destre. Se dunque non serviranno a molto le mie precisazioni, riferite ad epoche lontane, mi basta ripristinare due punti di verità rispetto a narrative consuetudinarie. 

Francesco Rutelli

Il cinema solo in sala e il dialogo con lo spettatore. I 70 anni di Nanni Moretti, il più grande regista italiano vivente: restaci a lungo in mezzo allo schermo. Luciano Nobili su Il riformista il 19 Agosto 2023

La Vespa c’è ancora.

Certo non è più la mitica vespa blu, autentico simbolo del regista, protagonista assoluta del primo folgorante episodio di quel “Caro Diario” che fece innamorare i francesi e anche me.

La stessa in sella alla quale, in “Aprile” dopo il dialogo agrodolce con Renato De Maria sulla durata della vita, guarda e riguarda quel metro troppo corto che la rappresenta, mentre scivola tra le strade di Roma.

Lei è andata in pensione – a causa delle norme antinquinamento – a vantaggio di una nuova e più moderna bianca che continua a essere inseparabile compagna di viaggio tra Monteverde e Trastevere, Nanni Moretti no. Per nostra fortuna.

Ed è davvero – parafrasando una delle infinite citazioni cult che il suo cinema ci ha regalato – uno splendido settantenne. Che ci ha appena regalato un capolavoro allegro e malinconico, smagliante di libertà e creatività come “Il sol dell’avvenire”: uno smisurato atto d’amore verso la settima arte.

Perché la prima cosa che va detta di Nanni Moretti, il più grande regista italiano vivente, è che la sua intera opera, ma ancora di più la sua intera esistenza, è stata dedicata all’amore per il cinema. Da quando da giovane “rottamatore” sfidava a duello Monicelli in quel meraviglioso Match di Alberto Arbasino (cos’è stata, un tempo, la tv in questo Paese) o si scagliava ironicamente contro il cinema di Sordi e Manfredi fino ad oggi che si gode le standing ovation a Cannes, dopo tanti premi e riconoscimenti. Il cinema quello vero, non quello delle serie e delle piattaforme, quello che si vive in una sala buia, sul grande schermo, insieme ad altri. Per Moretti il cinema è in sala, o non è.

Un’esperienza individuale e collettiva insieme, che esige tempo e attenzione.

Quanti capolavori ci saremmo persi, sul divano, distratti da uno smartphone o tentati da un telecomando?

Ha sempre avuto e ha tuttora una curiosità da autentico, vorace cinephile.

E questa è, a mio parere, una delle grandi doti misconosciute di Moretti: la capacità di diventare autore importantissimo, ma conservando sempre lo sguardo e il gusto di uno spettatore. Per lui il cinema è prima di tutto quello che si guarda, ancora prima di quello che si fa. Anche per questo, c’è un’intesa speciale con il suo pubblico, una complicitá rara, dovuta al fatto che i suoi film prevedono sempre l’interlocuzione con l’altro, il dialogo con chi guarda, la voglia di rivolgersi a qualcuno. Ad una platea di cui Moretti si sente parte. I suoi film, infatti, li ami davvero solo se riesci a entrare nella testa di Michele Apicella, se scatta un’identificazione con il suo universo ideale, con il suo rigore morale. Se il suo sguardo sul mondo si sposa con il tuo.

E insieme alla sua vespa, c’è ancora la capacità di indignarsi e la voglia di combattere, che si tratti di criticare duramente il governo per la violenza con cui ha cacciato i vertici del Centro Sperimentale di Cinematografia (a proposito, ha ragione Michele Placido: Moretti sarebbe perfetto alla guida) o di dedicare il cuore del suo ultimo film all’abuso, puramente stilistico e compiaciuto, della violenza nel cinema (come dimenticare l’intemerata contro “Henry pioggia di sangue” in Caro Diario?).

C’è ancora la capacità profetica, divinatoria quasi, di anticipare le cose.

Dalla impressionante coincidenza della condanna a Silvio Berlusconi fino all’assalto che sembrava tanto quello a Capitol Hill ne “Il Caimano” alle dimissioni del Papa in “Habemus Papam”, che hanno incredibilmente anticipato quelle di Benedetto XVI.

E ammetto che, dopo la coincidenza dell’uscita de “Il sol dell’avvenire” che ha sullo sfondo l’invasione russa di Praga con l’aggressione putiniana all’Ucraina e col dibattito sull’abbattimento dell’orsa JJ4 sulla quale, nel film, viene chiesta un’opinione a Moretti, di essere tra quelli che lo hanno implorato di inserire la vittoria delle scudetto della Roma in una prossima opera.

Ma Nanni, che continuerà sempre a trovarsi “a mio agio e d’accordo con una minoranza delle persone”, è soprattutto un uomo libero.

Libero di criticare destra e sinistra, libero di riscrivere la storia del Pci rispetto ai fatti di Praga (“La Storia non si fa con i se. E chi l’ha detto? Io la Storia la voglio fare con i se!”), libero di distruggere ironicamente “Titane” di Julia Decournau con un meraviglioso post in cui si mostrava invecchiatissimo dopo la visione del suo film e di ritrovarsela due anni dopo presidente di giura a Cannes, quando è nuovamente in concorso.

Libero di prendersi in giro, di giocare con i suoi tic e le sue fisime – tra sabot, canzoni e gelati – con autoironia e malinconia, passando dall’urlare con rabbia “le parole sono importanti” al cantare con spensieratezza “sono solo parole” di Noemi, in uno dei momenti più belli dell’ultimo film.

Libero di raccontarsi con assoluta, totale sincerità al suo pubblico, persino nella malattia, affrontata con grande coraggio in Caro Diario e nel corto “Autobiografia dell’uomo mascherato”.

Libero di appassionarsi alla politica e di battersi per le sue idee, ma senza mai passare lo steccato. Dopo la stagione dei girotondi, che condusse con vera passione civile e qualche errore (dopo lo schiaffo di piazza Navona “Con questi dirigenti non vinceremo mai” venne, dal 2002 al 2006, una delle fasi più vincenti del centrosinistra italiano), rifiutó ogni impegno diretto o candidatura e tornò ad occuparsi di cinema.

Se penso ad un regalo che potremmo fargli per il suo compleanno, forse il più giusto è proprio quello di provare a raccontarlo e di godere dei suoi film, al di lá dei cliché che si è in parte autoassegnato e che lo circondano da sempre, sottrarre i suoi film alla pur ampia schiera di morettiani che lo adorano. Perché capolavori come “Bianca” o “La messa è finita” meritano platee sterminate. Perché le sconfitte che raccontano, nella ricerca di una felicità forse impossibile, di un assoluto difficile da raggiungere, riguardano ogni essere umano. Perché la preoccupazione su quello che sta diventando la societá italiana che innervava “Caro Diario” e “Aprile” è quella di ogni cittadino che abbia a cuore il proprio Paese. Perché il protagonista del “Caimano” erano i sogni spezzati di Silvio Orlando e il dramma della separazione, molto più che Berlusconi. Perché l’inadeguatezza dolente che imprigionava il protagonista di “Habemus Papam” è la nostra, prima che quella di un Papa. E quel balcone vuoto racconta il nostro tempo molto meglio dei trattati sulla crisi della democrazia.

Quante volte ci hanno raccontato un Moretti antipatico, chiuso, scostante, irraggiungibile? Ebbene, non è cosi. Grazie alla filiera “autarchica” che è riuscito a costruirsi negli anni con la Sacher, che gli consente un controllo totale sulle sue opere, dalla produzione alla distribuzione, Nanni può prendersi anche la libertà di fare qualcosa di concreto per gli altri.

Nessun cineasta è mai stato così generoso con i colleghi più giovani. È ormai lunghissimo, e in continuo aggiornamento, l’elenco di autori del che gli devono molto, che hanno cominciato con lui o che da lui hanno ricevuto sostegno decisivo all’inizio delle loro carriere: da Mimmo Calopresti a Daniele Luchetti, dall’indimenticabile Carlo Mazzacurati ad Andrea Molaioli o Susanna Nicchiarelli.

E a moltissimi altri ha offerto la sua platea e il suo cinema – il Nuovo Sacher, indispensabile presidio di cultura a Trastevere, aperto, gestito direttamente e tenuto in vita a costo di sacrifici economici – grazie a “Bimbi Belli”, il piccolo festival dedicato alle opere prime che organizza d’estate, giunto alla sua sedicesima edizione. Ogni anno, anche a costo di ritardare la lavorazione dei propri film, Moretti seleziona una dozzina di esordienti meritevoli ai quali offre una rassegna e un palcoscenico importante. Un pubblico di appassionati e addetti ai lavori e l’onore (e l’onere) di un confronto pubblico con lui, nel dibattito post proiezione. Ed è questo uno dei tratti che andrebbe ricordato maggiormente dell’autore di “Ecce Bombo” e “Palombella rossa“: la generosità di offrire un’opportunità a tanti giovani potenziali talenti, di dare a chi prova a incamminarsi in una carriera così difficile quello che lui, negli anni Settanta, non ha ricevuto dai maestri di allora. E non è una novità. Perché prima di “Bimbi Belli” c’era il “Sacher Festival”. Perché è sempre Moretti ad aver dato forza e sostanza alla monumentale operazione dei Diari di Pieve Santo Stefano.

Non è un vezzo autoreferenziale, la voglia di fare il mecenate di una corte plaudente. Niente affatto. La sua è autentica curiosità, voglia di scoprire il nuovo, di dare una chance al futuro.

E dopo essere stato autore, sceneggiatore, attore, produttore, distributore, esercente, per i suoi 70 anni Nanni si regala un nuovo inizio: il debutto da regista teatrale.

Porterà in scena, infatti, questo autunno, due racconti della sua scrittrice preferita Natalia Ginzburg: Dialogo e Fragole e Panna. “Diari d’amore” debutterà il 9 ottobre al Carignano di Torino e poi sarà in tournée a Bologna, Modena, al Piccolo di Milano, a Lugano, Napoli e fino a Roma all’Argentina a maggio 2024.

Una nuova avventura artistica, ancora.

La vita va avanti, per lui e per noi, come nella parata sui Fori Imperiali che chiude “il sol dell’Avvenire”, con Nanni che ci guarda e ci saluta. Il tempo un po’ guarisce, un po’ libera, un po’ consola, un po’ semplicemente trascorre. E porta con se insieme ad un pugno di film straordinari, la forza di uno sguardo – un po’ meno intransigente magari, ma non rassegnato (“Nella vita due o tre principi bisogna pur averli” ), l’ironia intelligente e la tensione morale (mai moralista) di un amico complice ed esigente. Insieme, speriamo, alla voglia di raccontarci ancora qualcosa di lui. E quindi, inevitabilmente, di noi.

Da parte mia, solo un augurio: quello di contraddire, fino in fondo, il malevolo e celebre appello che gli rivolse parecchi anni fa Dino Risi. Restaci il più a lungo possibile, Nanni, in mezzo a quello schermo. E nelle nostre vite. Luciano Nobili

Da Palombella rossa a Habemus Papam: Nanni Moretti fa 70 anni. Ironico, sarcastico, punto di riferimento della sinistra: il regista di Brunico continua a raccontare (e criticare) la società italiana senza scendere a compromessi. Massimo Balsamo il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Palombella rossa (1989)

 Caro diario (1993)

 La stanza del figlio (2001)

 Habemus Papam (2011)

 Il sol dell’avvenire (2023)

O lo ami o lo odi, non esistono mezze misure quando si parla di Nanni Moretti. Il regista di Brunico festeggia oggi 70 anni, una ricorrenza che ci permette di ripercorrere la sua filmografia con i 5 migliori film realizzati. Tra alti e bassi – basti pensare al terribile “Tre piani” del 2021 – il cinema nannimorettiano si colloca all’incrocio tra la tradizione neorealista e quella della commedia all’italiana e c’è uno step in più. Il suo cinema è inscindibile dalla sua presenza d’attore e dalla sua maschera. 

C’è una straordinaria vicinanza tra l’uomo e il personaggio, con realtà e finzione che si mescolano senza sosta. Una maschera per leggere il presente, tra smarrimenti e fratture, tra certezze e preoccupazioni. Ma c’è anche molto altro. La sua linea politica fieramente di sinistra – come dimenticare i girotondi – e ancora la sua ineguagliabile capacità di polarizzare e sfruttare l’interesse dei media. Quasi cinquant'anni di cinema attraversati con passione e con qualche giro a vuoto, ma sempre nel segno della coerenza.

Palombella rossa (1989)

Sesto film di Nanni Moretti, “Palombella rossa” racconta la crisi di identità della sinistra italiana durante la fine dei due blocchi attraverso la perdita di memoria del protagonista Michele Apicella, funzionario del PCI. L’azione si svolge nel corso di una partita di pallanuoto e Michele/Nanni prova a recuperare la memoria tra il riaffiorare di ricordi e una realtà nella quale non si riconosce.

Caro diario (1993)

Vincitore del premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 1994, “Caro diario” rappresenta la consacrazione internazionale di Nanni Moretti. In questo film diviso in tre episodi (In vespa, Isole, Medici), Moretti racconta se stesso come in un diario. E si tratta del suo primo lungometraggio senza “maschera”: il protagonista non è più Michele Apicella, ma Nanni Moretti. Menzione necessaria per la sublime colonna sonora, tra "Batonga" di Angélique Kidjo e "Didi" di Khaled

La stanza del figlio (2001)

Premiato con la Palma d’oro al 54° Festival di Cannes, “La stanza del figlio” è forse il film di Nanni Moretti che più di discosta dal suo cinema. Il regista di Brunico realizza un intenso dramma familiare, dimostrando di poter raccontare con sagacia una storia struggente (la morte di un figlio, ndr). Un film maturo, a tratti classico, degno del miglior Kieslowski.

Habemus Papam (2011)

“Habemus Papam” è una delle commedie più irresistibili della filmografia di Nanni Moretti. Il film accende i riflettori sulle dinamiche e i retroscena delle elezioni di un pontefice in un conclave. Viene eletto un Papa quasi per caso - interpretato dallo straordinario Michel Piccoli – che ha intenzione di abdicare al suo ruolo. Qui nei panni di uno psicanalista, Moretti sfodera alcune trovate geniali, a partire dal torneo di pallavolo tra cardinali.

Il sol dell’avvenire (2023)

Ultimo film – per il momento – del regista di Brunico, “Il sol d’avvenire” rappresenta il miglior Nanni Moretti dopo il tonfo di “Tre piani”. Utilizzando l’espediente del film nel film – come in “Aprile” o “Sogni d’oro” – riflette su politica, amore, cinema, canzoni, stile e piattaforme digitali. Non è un film testamentario ma è un film che riflette sul cinema morettiano, senza remore di mettersi a nudo tra tic, passioni e idiosincrasie. 

La grande età. I settant’anni di Nanni Moretti, e la visione adulta del mondo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 Agosto 2023.

Il repertorio di citazioni, la capacità di scrivere capolavori sia da giovani sia da vecchi e altre divagazioni sul compleanno del regista che è meglio che non si sposti mai dai suoi film

«Quanti anni è che vuoi vivere? Settanta? Settantacinque?». Chissà se Nanni Moretti cita mai Nanni Moretti. Chissà se Nanni Moretti guarda mai la realtà, e il modo stolido in cui la osserviamo noialtri malati di presentismo, e pensa: sì, ma questa cosa è già successa, e io ve l’avevo già raccontata, allora non state attenti.

In “Aprile” c’è lo smarrimento dopo il naufragio d’una nave di migranti bianchi al largo di Brindisi, il naufragio vero del 1997: come tutti i film di Moretti, “Aprile” è un film sul fare il cinema, ed è il film in cui Moretti vuole fare un documentario sull’Italia, sulle elezioni del 1994 e poi quelle del 1996, ma poi si distrae.

Si distrae perché gli nasce un figlio, e come tutti i film di Moretti “Aprile” è un film su una crisi di coppia, su una disgraziata il cui marito si sente protagonista del parto come sarebbe nei decenni successivi accaduto a tutti i padri dell’occidente smanioso e satollo.

Non c’è un Moretti in cui non ci sia già tutto prima che quel tutto sia visibile anche ai più scarsi notisti di costume: i genitori ostaggio dei figli erano trent’anni fa in “Caro diario” (sembravano iperbole, erano preconizzazione); in “Aprile” c’è persino l’indicazione di registrare dalla tv, come esempio dell’Italia da documentarizzare, “Harem”, «non l’immondizia pura, eh, quella non mi interessa, conosci i miei gusti: quelle trasmissioni che vorrebbero essere, e poi invece».

È passato un secolo, eppure il kitsch dei programmi che si sentono sofisticati è un concetto che nessuno spettatore ha ancora compreso, convinti come siamo che il problema sia la festa in omaggio al cattivo gusto alla quale Helmut Berger viene direttamente in mutande. Non stiamo attenti, o forse ci impegniamo ma non ci arriviamo.

L’estate del 1997 Nanni Moretti compie 44 anni, e Renato De Maria gli regala un metro, è una scena che conoscete di sicuro, gli chiede quanti anni voglia vivere e toglie i centimetri che sono già passati e lascia quelli che gli restano.

Fa ridere che gli chieda se l’obiettivo sia settanta, che sono quelli che compie domenica prossima, venticinque anni dopo l’uscita di “Aprile” e nel primo anno in cui mi rendo conto che tra Madonna – che ne ha compiuti sessantacinque questa settimana – e Nanni ci sono solo cinque anni, e che da piccola le età dei grandi proprio non le capisci: per la me diciassettenne che andava a vedere “Palombella Rossa”, quel tizio che urlava a Lara nel televisore di voltarsi perché c’era Zivago era un anziano maestro; per la me quattordicenne che la guardava nel video di “Papa don’t preach”, Madonna era poco più che una mia coetanea.

Sospetto che, se è il primo anno in cui noto il loro essere della stessa generazione (qualunque cosa questa parola significhi), è perché pochi mesi fa Moretti ha fatto quel film che dice fortissimo «Sono vecchio, sono allegro, non rompetemi i coglioni», mentre ogni sforzo e filtro della Ciccone dicono fortissimo «Sono una ragazza, credeteci sennò ci resto male». È sempre il momento di fare una commedia, diceva Nanni nel ruolo di Nanni nel “Caimano”, e capirlo è già metà dell’opera.

A cinquantasette anni Aaron Sorkin disse che “Codice d’onore”, che aveva scritto a ventotto, gli faceva l’effetto d’una foto di classe. Il che naturalmente è vezzoso: “Codice d’onore” è un film per scrivere il quale più o meno qualunque sceneggiatore vivente darebbe un organo sano, non ha le spalline imbottite e i capelli assurdi che abbiamo tutti nelle foto di classe. Quelli bravi hanno una visione adulta del mondo anche in quel picco dell’infantilismo che sta tra i venticinque e i trentacinque: che siano “Quarto potere” o “Ferie d’agosto”, non sembrano mai film giovanili.

Però Sorkin disse anche un’altra cosa, cioè che gli sceneggiatori (per estensione: i registi) non sono come gli atleti ma come i direttori d’orchestra: migliorano invecchiando. Che è la ragione per cui penso ai settant’anni di Nanni Moretti e non mi vengono in mente i filtri di Madonna Ciccone, ma il fatto che Mike Nichols a settantatré fece “Closer” (che, come tutti i film di Mike Nichols, è un film sulla crisi di due coppie).

James Cameron racconta che il regalo che si fece per i propri quarant’anni fu andare a trovare Stanley Kubrick, che non aveva mai incontrato. E quello lo mise a sedere nella saletta di proiezione, mise su la sua copia di “True Lies”, e gli chiese di spiegargli la realizzazione di ogni effetto speciale. Dice Cameron che allora decise di voler essere quella roba lì: il tizio che a ottant’anni ha ancora la curiosità di capire i film (in realtà Kubrick ne aveva sessantasei, ma per il quarantenne Cameron la senilità era evidentemente un Grande Indifferenziato).

All’inizio del “Caimano”, che solo la patria degli invasati poteva scambiare per un film su Berlusconi (chissà se pensano che “Via col vento” sia un film sulla guerra civile), Giuliano Montaldo, che interpreta un regista che dovrebbe fare un film, dice a Silvio Orlando, che interpreta il produttore che dovrebbe produrlo, che lo molla in favore di Aurelio De Laurentiis.

Gli dice che l’ha conosciuto a una cena a casa di Dino Risi, e Orlando sospira: Dino Risi non mi invita più. “Il caimano” è del 2006, due anni dopo “I miei mostri”, il memoir di Risi che conteneva la battuta più fuori fuoco e più citata di questo secolo, quella che invitava Nanni Moretti a spostarsi e a lasciarci guardare il film (un po’ come se Toni Morrison avesse chiesto a Carrère di togliersi di mezzo dai suoi libri).

Da quando ho rivisto quel film in cui la crisi di coppia ha la stessa canzone di “Closer”, quella stucchevole e irresistibile lagna che implacabile diagnostica che «no love, no glory», mi chiedo se Dino Risi che non invita più il protagonista del “Caimano” alle sue cene fosse una risposta a quella battuta. Non ricordo se me lo fossi chiesto già allora, allora che Nanni aveva pochi anni e mi sembrava averne cento.

Forse no, perché se c’è una cosa che scopri rivedendo i film di Moretti è che le cose che ti ricordi non sono le migliori (come facevo ad aver dimenticato il cinematografaro che chiede alla Jasmine Trinca del “Caimano” come le venga in mente di poter avere novecento comparse, «Novecento cestini?», come).

Di “Aprile” tutti ricordano il pasticciere trotzkista e «D’Alema di’ una cosa» e le copertine dell’Espresso (il peso dei giornali, in “Aprile”, lo fa sembrare un film in costume persino più del continuo stupirsi della leggerezza del Sirio, l’apparecchio telefonico della Sip, o delle lettere con francobollo mai spedite al Pci o alla Rete 3); mentre vorrei leggere un trattato su «Ma che città è questa, non si può fare niente senza l’aglio».

Di “Palombella rossa” ci ricordiamo tutti il ceffone per «trend negativo», e infatti qualunque conversazione su Moretti è punteggiata da sguardi di terrore, ma sempre meno: si invecchia, ci si ammorbidisce, e l’altro giorno una sua amica mi ha detto «Nanni ha inventato l’autofiction», e poi non ha aggiunto di corsa e senza punteggiatura e senza respiri «Ti prego non scriverlo mi toglie il saluto» come avrebbe fatto qualche anno fa.

Quando non esisteva quella parola orrenda, quelle di noi con un repertorio decente di citazioni quel che faceva Moretti lo ammiravano pensando «che confuso problema è adoprare la propria esperienza», ma tutto sommato eravamo davvero troppo giovani per capire, e troppo affezionate ai nostri tic. I riassunti feroci dei film visti al cinema in “Aprile” la me cinquantenne li vorrebbe come rubrica fissa di critica culturale; la me venticinquenne pensava «Come ti permetti, “Strange Days” è un capolavoro». Per fortuna che Nanni è sempre stato anziano, invece di metterci una vita a crescere come noialtri cretinetti.

A De Maria, il Moretti quarantaquattrenne risponde che vuol vivere ottant’anni. Poi ci ripensa. «Ma no, ottanta, che stupido, che senso ha ottanta, volevo dire novantacinque». Lo dice come fosse più o meno la stessa cosa, essendo un quarantaquattrenne per cui quegli anni lontanissimi sono un Grande Indifferenziato inimmaginabile, ma adesso che siamo ai settanta fanno tutta la differenza del mondo. Ma quali ottanta. Venticinque di queste domeniche, Nanni.

Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per “il Fatto quotidiano” il 12 maggio 2023.

Il sol dell’avvenire è un film irrisolto ma forse non potrebbe essere diversamente, e questo ci ricorda qualcosa; qualcosa su cui il popolo della sinistra farebbe bene a riflettere. All’autarchico Nanni Moretti è costato promuoverlo, si è turato il naso ed è andato in tv (si vedeva che respirava a fatica), ma il film se la sta cavando negli incassi grazie a un pubblico di fan sartoriale: non sono loro a identificarsi in Nanni, è Nanni a dirgli chi sono. Moretti è un ritrattista, e questa volta, insieme all’ennesimo autoritratto, ha fatto il ritratto della sinistra italiana.

(...) 

Il dramma della sinistra è l’incapacità di togliersi dallo schermo per farci vedere il film, qualunque film che non sia lo scrutarsi allo specchio. Nel Sol dell’avvenire tutti interpretano se stessi: Nanni, Margherita Buy (che sta al suo cinema come Capezzone sta a Quarta Repubblica), Silvio Orlando (che sta al suo cinema come Mauro Corona sta a Cartabianca), eccetera.

E c’è un calco, chissà quanto inconscio, che conferma l’epidemia di fellinite scoppiata tra i nostri autori. Sorrentino ha rifatto La dolce vita? E io rifaccio Otto e 1/2. Così abbiamo il cinema nel cinema, il regista nel regista, la crisi nella crisi… Otto e 1/2 finisce con il celebre girotondo dove Fellini fa tenere per mano tutti, ma proprio tutti. Nel finale del Sol dell’avvenire non c’è il girotondo (Moretti ha già dato), ma c’è un esclusivo corteo a inviti lungo dei Fori Imperiali. Vincitori al cinema, minoritari nella storia: ma sempre nel cuore della Ztl.

La storia sarebbe potuta andare diversamente. Moretti e la sinistra che meritavamo, Il sol dell’avvenire è l’enciclopedia del morettismo. Mario Lavia su Il Riformista il 12 Maggio 2023 

In uno dei finali più belli della recente storia del cinema italiano, Nanni Moretti saluta con discrezione guardando in macchina. Come fosse un commiato. A voler dire: ecco, vi ho detto tutto quello che avevo da dire. I morettiani ovviamente interpretano il gesto in modo opposto, come se Nanni avesse voluto dire: la vita continua, alla prossima. Non essendo nella testa dell’autore de Il sol dell’avvenire, resta il fatto che quel saluto finale suggella nel modo più festoso e diremmo addirittura maestoso il senso di un’opera che è una vera enciclopedia del morettismo, come un grande baule di quelli di una volta dentro i quali si trova tanta roba mescolata eppure ciascuna con una sua propria fisionomia.

Chi va a vedere questo film deve appunto giudicare se questa mescolanza narrativamente funziona (e forse per questo serve più di una visione, come per certi romanzi: Philip Roth o Flaubert, per fare due nomi lontanissimi tra loro, andrebbero sempre letti almeno due volte), e se riesce agevole separare la realtà dalla fantasia districandosi da meandri che sono nella testa di Nanni e planano sulla platea: capire insomma dove si vuole andare a parare. Perché al di là delle apparenze dense di morettismi che ritroviamo con la stessa familiarità di quando torniamo a casa da una lunga vacanza, Il sol dell’avvenire non è un film facile. Ovviamente si può leggere in vari modi, su vari livelli.

E però se si dovesse dare un consiglio a chi non l’ha ancora visto bisognerebbe invogliare a percepire l’insieme del film, sforzandosi di cogliere – ripetiamo il termine – la mescolanza dei vari “affluenti” dell’opera. Che sono: la vicenda di un regista chiamato Giovanni (Moretti) che deve fare un film; questo film è sul 1956, cioè sull’intervento sovietico in Ungheria e i dilemmi che esso causò nel Partito comunista italiano; la crisi coniugale tra Giovanni e la moglie (Margherita Buy); il film che la Buy sta producendo e la relativa critica morettiana al cinema di oggi; la piccola storia dei figli del protagonista.

Dietro questi diversi affluenti ci sono poi molti altri torrenti che vi sboccano, altri topoi ben noti a chi conosce a memoria Ecce bombo o Caro diario, il monopattino dove c’era la Vespa, il quartiere di Roma Nord, i tanti riferimenti cinematografici («Cassavetes era anche un bell’uomo»), la “critica delle scarpe”, il disprezzo per le brutture dei film contemporanei, l’uso delle canzoni italiane, il circo ungherese “Budavari”, lo stesso nome del pallanuotista di Palombella rossa. Ma questo inevitabile senso di déjà vu se può infastidire il non morettiano, dá invece coerenza ad un discorso che dura ormai da quasi mezzo secolo, in fondo Michele Apicella è invecchiato, come tutti noi.

È tanta roba. Troppa roba? Troppo “morettismo”? Troppa ideologia? È probabile che chi detesta Moretti qui si sia sentito male, ma anche a tanti non ostili non è piaciuto. C’è chi ha lamentato un sovraesposizione di Nanni (critica un po’ bizzarra per uno come lui) e una certa lentezza – questo è vero – nell’avvio del film. Che piano piano però cresce in tutti i suoi rivoli fino al clamoroso finale fellinian-morettiano: e che Fellini e Moretti potessero in qualche modo scambiarsi un’occhiata è uno di quei misteriosi enigmi che avvengono solo sotto il cielo del cinema. Giacché questo è per Nanni – è stato già osservato da molti – ciò che Otto e mezzo fu per Fellini. Alla ricerca di un senso. Per quest’ultimo ovviamente più indirizzata verso il suo intricatissimo “io”, per il regista romano più proiettata verso la storia politica, il cinema, e più intimisticamente l’amore.

Come nella sarabanda di Otto e mezzo, anche qui alla fine tutto viene improvvisamente a comporsi quasi con un colpo di scena: infila la testa nel cappio, il protagonista Giovanni, ma la toglie subito, vuol dire che c’è una speranza. Il sol dell’avvenire non è quello promesso dai profeti del socialismo ma è un sole umano. Si rilevano certe incongruenze sui fatti d’Ungheria o su un Trotsky “libertario” che non è mai esistito: ma non essendo un film storico si tratta di rilievi che hanno un senso relativo. Ma già che ci siamo: a chi interessa oggi il 1956 dell’invasione sovietica di Budapest? «Che ci frega della politica, questo è un film d’amore», dice Barbora Bobulova – in quel momento parla l’attrice, non il personaggio – a Giovanni/Moretti. Già. Stalin, Lenin, Togliatti, il segretario della sezione del Pci del Quarticciolo (Silvio Orlando) e la compagna Bobulova che esprime un dissenso sentimentale più che politico: certo, si può dire che in controluce ci sia l’Ucraina come una nuova e più terribile Ungheria, e probabilmente qui c’è una botta a quei “pacifisti” che della Resistenza ucraina si lavano le mani. Ma non solo.

Moretti torna per l’ennesima volta a mettere le mani nel Problema Politico di un Paese che non è normale anche e forse soprattutto perché non ha avuto una sinistra normale, e non tanto perché ci fossero i dirigenti cattivi ma perché politicamente “cattiva” era la base: qui Moretti non ci arriva, come se al fondo ci fosse in lui una scoria rousseauiana per la quale il popolo è sano, è la Storia che lo ha corrotto. Ecco perché i fatti di Budapest non furono condannati dai dirigenti comunisti, «avevamo pura di perderci il Partito», disse una volta Alfredo Reichlin, un Partito che non era pronto a distinguere invasore e invaso, anzi aveva ragione l’invasore. Protestarono gli intellettuali, non i militanti, tra i dirigenti giusto Antonio Giolitti.

Staccare l’immagine di Stalin dal muro lasciando quella di Lenin è un omaggio alla propria gioventù, la cosa non ha evidentemente senso storico e morale, ma il regista sogna la storia fatta con i “se”, e i sogni aiutano a vivere. Tutto sarebbe andato in un altro modo, siamo diventati anziani e l’abbiamo capito. È già qualcosa. Questo della rievocazione del 1956 è in fondo un ultimo capitolo del particolarissimo rovello che accompagna Moretti da Ecce bombo a Palombella rossa a Aprile, i film diciamo così più politici e che s’intreccia con la vita reale del regista, la famosa invettiva di Piazza Navona («Con questi dirigenti non vinceremo mai») e la successiva (mal riposta) suggestione dei Girotondi, un rovello che gira attorno alla questione generazionale della sconfitta, tema “romantico” proprio in senso leopardiano, che non porta però alla disperazione intellettuale ma all’ansia di “cercare ancora” anche se non si più bene cosa, forse una normalità difficile a farsi, nella Storia come nella vita. E qui c’è un Moretti intimista che in qualche modo riannoda e districa i fili di una meditazione che va da La messa è finita a Bianca, da La stanza del figlio a Mia madre fino al meno riuscito Tre piani, e anche in questo caso con l’esito sorprendente di immaginare l’esistenza umana in un letto più tranquillo: il sol dell’avvenire in fondo è tutto qui, e non è davvero poco. Mario Lavia

Pietro Moretti: «Facevo pessimi video. Così ho capito che è la pittura la mia dimensione». Francesca Pini su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.

Figlio del regista Nanni Moretti, il giovane artista, che ha studiato pittura a Londra, sorprende con i suoi dipinti. Già entrati in un museo italiano, il Castello di Rivoli e nella collezione della Fondazione Iannaccone. 

Non è il primo né sarà l’ultimo figlio d’arte, e non c’è “peccato originale”. Solo che lui ha debuttato sulla scena a pochi mesi, sulla spalla del padre Nanni Moretti, nel film Aprile (1998). Guardava dritto in macchina, proprio come fa oggi con occhi acuti che ti soppesano e l’orecchio come un radar. «Il tono della voce è per me qualcosa di molto importante e attraverso cui mi sembra, spesso, di capire se posso o meno diventare amico con qualcuno», afferma. Un’intelligenza viva e multiforme, un’indole di scrittore unita a quella del pittore. Questo è Pietro Moretti, che si è preso la libertà di essere artista, perché non è una costruzione, ma una vocazione.

Nanni Moretti con il figlio Pietro nel film «Aprile», del 1998

Per sei anni ha studiato pittura a Londra, che cosa pensava di trovare di diverso o di meglio formandosi all’estero?

Qual è stata la spinta? «Ho studiato a Roma al liceo artistico Ripetta. Sentivo però l’esigenza di mettermi alla prova per un periodo e allora la scelta è caduta su Londra perché, come molti della mia generazione, rappresentava, prima della Brexit, una meta ideale per la vivacità della scena artistica e musicale, e una metropoli stimolante dove anche da giovani ci si può realizzare, essere valorizzati — non infantilizzati come mi pare capiti spesso in Italia — e imparare dalla grande ricchezza multiculturale della città. Una volta arrivato lì ho capito che l’immagine fittizia che mi ero creato era abbastanza distante dalla realtà ultra-capitalistica della città, eppure essa rimane per me un luogo importante in cui ho incontrato persone straordinarie, di culture molto diverse e ciascuna con la propria storia, e in cui sono cresciuto come persona emotivamente, intellettualmente, politicamente, frequentando per un periodo un gruppo extra-parlamentare di sinistra. Sono stato aiutato dai miei genitori durante gli studi e poi, come molti coetanei, per mantenermi ho fatto il cameriere, il barista, il lavapiatti, il pescivendolo, il traduttore, e infine l’insegnante di sostegno. Se Roma è una persona depressa sonnolenta e rintanata a letto, di cui intravedi la bellezza e le tante potenzialità, ma che purtroppo è affidata a un pessimo psichiatra che continua a somministrarle medicinali sbagliati, Londra ora mi appare più come una persona sempre drogata di anfetamine che continui a incontrare alle feste, che vorresti conoscere, ma che ti sfugge costantemente».

Il pittore Pietro Moretti (27 anni, nella foto di Luca Meneghel) all’inaugurazione della sua mostra personale alla galleria Doris Ghetta a Milano. Alle sue spalle il dipinto «Tra i tuoi vuoti»

È alla sua seconda personale, alla galleria Doris Ghetta. Farsi valere per il talento, per sé stessi, e non per quel suo cognome. Una doppia fatica.....

«Chi vuol vedere i miei lavori capirà, chi vuol vedere altro continuerà a vedere altro».

Il dipinto «Mani di gomma», opera di Moretti

Lei è convintamente figurativo, almeno in questa fase…

«Gli artisti ai quali guardo e m’ispiro sono coloro che si interrogano o si sono interrogati sulla società in cui vivono e a cui appartengono, su quel che hanno intorno, e sulla loro vita e posizione in tutto ciò. Per nominarne qualcuno: Max Beckmann, Fausto Pirandello, R.B. Kitaj, Dana Schutz, Michael Armitage. Penso che il rinnovato interesse per la figurazione in pittura nasca anche da un desiderio di saper descrivere, sapere immaginare e riconoscere quel che si ha intorno e districarsi in una società così fagocitante di immagini. Tuttavia io non mi considero del tutto ‘figurativo’, piuttosto mi interessa riflettere sulla porosità tra stati fisici e psicologici, su come tradurre una sensazione psicologica fisicamente, interrogandomi su come la ‘realtà’ sia composta da diversi strati non sempre visibili. Lo studio delle fiabe, in questo, mi sembra insegni tantissimo».

Nello studio di Pietro Moretti, sul fondo la tela «La storia del cactus»

Un suo dipinto racconta una scena all’interno di un ospedale psichiatrico, che lei ha visitato essendovi ricoverata una persona a lei cara… Com’è nato?

«Dal cactus che poi domina la scena. Tornando in quell’ospedale più volte mi sembrava curioso come quella pianta fosse abbandonata a sé stessa appena fuori dal reparto psichiatrico, in netto contrasto con gli ambienti asettici dell’ospedale: un lembo cresceva ritto verso l’alto e l’altro si storceva verso il basso. E poi anche noi siamo un po’ storti. A poco a poco ha iniziato a diventare per me una sorta di metafora della malattia mentale, della precarietà della mente; una crescita incontrollabile che il sapere medico-scientifico non riesce a gestire fino in fondo, a conoscere del tutto».

Trova interessante in una persona la complessità della coscienza alterata?

«Sì, anche se quello non è centrale nel dipinto. M’interessa molto che cosa affiora attraverso il corpo e sul corpo, interrogandomi anche fino a che punto si può essere in controllo del proprio corpo, così della propria mente».

Timore di perdere il controllo?

«Forse sì, ma cerco di non darvi troppo peso. Penso, semmai, che nella nostra società vi sia una certa alienazione dal corpo dovuta alla relazione con le immagini del nostro quotidiano, con stereotipi culturali nocivi, che spinge il corpo a essere sempre performante e produttivo. Il cactus cresce in condizioni climatiche anche molto dure, e modella la sua forma alla ricerca del sole, e laddove non lo trova si contorce su sé stesso per trovarlo, spingendosi fino a deformarsi. In questo senso mi sembra tocchi — metaforicamente — qualcosa di come il desiderio, in assenza di intimità e in situazioni di solitudine, possa diventare anch’esso molto storto».

Pietro Moretti al lavoro nel suo studio a Roma, al Post-ex, un laboratorio ricavato da un ex garage, spazio condiviso con altri quattordici artisti (foto courtesy Moretti)

Ci sono nei suoi dipinti elementi ricorrenti come le mani e i mozziconi di sigarette…e questi ultimi sono per te una misura del tempo…

«Negli ospedali, come vedi in quel dipinto, i mozziconi delle sigarette lasciate un po’ ovunque all’esterno diventano quasi gli indicatori di un tempo diverso nel quale si vive in tali istituzioni, un tempo di attesa e di sospensione. Le mani e anche i piedi sono per me portatori della relazione tra l’interno e l’esterno, dell’interiorità più intima di una persona, poiché hanno a che fare con il tatto, con l’essere radicati nel mondo».

In mostra c’è questa tela sull’amicizia maschile, molto articolata nella sua dinamica di uno scambio, anche fisico, tra persone. E poi lei trova sia molto importante anche l’amore romantico.

«Nella tela Tra i tuoi vuoti pensavo sia alla tenerezza, al prendersi cura dell’altro in un’amicizia maschile, sia a come l’amicizia possa avvicinarsi e combaciare con una relazione d’amore. Se l’amore è spesso inteso come “amore romantico”, ossia una costruzione sociale e patriarcale solo riferita a una coppia monogama — quasi sempre etero — in cui realizzarsi attraverso l’altro/a, è dunque idealizzante. Penso invece che l’amore sia una questione molto più complessa. Mi piace molto la definizione che propone la scrittrice bell hooks: non siamo obbligati ad amare. Decidiamo di amare… quando capiamo l’amore come il voler nutrire la propria crescita spirituale come quella dell’altra persona.’ In ogni caso penso che l’amore sia l’opposto della vergogna – anche se i due sono inevitabilmente legati. Se provare vergogna è sentirsi inadeguati, esposti malvolentieri, sentire un muro di vetro smerigliato crescere tra sé stessi e un altro/altri, l’amore è accettazione, essere visti, riconosciuti e poter vedere un’altra persona».

Legge molto?

«Sì, fumetti, fiabe, letteratura, saggistica. Quando studiavo a Londra, alla Slade, scrivevo storie brevi da cui poi facevo video che erano pessimi. Ciò che più mi piaceva era fare gli storyboard ad acquerello per i possibili video, così ho capito che la pittura era per me molto più coinvolgente, era la mia dimensione».

Alle spalle di Moretti «La terra sotto i tuoi piedi», ispirato a un racconto di Buzzati

La terra sotto i tuoi piedi, titolo di un dipinto, deriva da una sua lettura di una novella di Buzzati.

«Quando ho incontrato questo racconto mi ha colpito sia l’immagine di una persona che precipita guardando dentro a tutte le altre vite che potrebbe avere, ma a cui non può appartenere, sia la resistenza del testo a un’interpretazione univoca: parabola sociale, metafora esistenziale, sogno, incubo o crudo realismo. Dal canto mio ho cercato di reinterpretare questo racconto per riflettere sul desiderio di appartenere e, in aggiunta, pensavo a come il desiderio, soprattutto quando si è soli, isolati, o legati a valori culturali tossici, possa essere animato da impulsi nocivi, ossessivi, qualcosa che invece di favorire la propria vitalità può rivelarsi distruttivo. La donna che precipita, che io mi immagino come una cameriera di un catering, è così presa dal desiderio di afferrare il bicchiere di prosecco che le sta porgendo la donna sul balcone che quasi non si accorge della sua caduta, annodata com’è su se stessa. Entrambe desiderano un contatto ma rimangono sole».

Dipingere dilata il tempo?

«Mi piace molto lavorare sia ad acquerello sia a olio. Il primo è molto più immediato come tecnica, una sessione è sufficiente, e per me questo ha quasi a che fare con l’improvvisazione, con il pensare attraverso il fare, abbandonandosi un po’ all’imprevedibilità dell’acqua. Mentre la pittura a olio è un processo molto più lento, stratificato, per me pieno di errori e ripensamenti, che procede per dubbi e tentativi, per: ‘e se ora facessi questo cosa succederebbe?’ Ciò mi affascina perché alla fine un quadro è un addensamento di tempo, una sorta di mappa visiva di tutto il processo compiuto, dei momenti in cui non sapevo davvero dove andare a parare e dei momenti in cui le cose uscivano da sé. In questo senso sì è una dilatazione o al contrario una concentrazione del tempo, di più momenti, segni e movimenti. Ma quando dipingo sì si dilata anche il tempo, entro in uno stato di quasi dissociazione dal tempo dell’orologio per cui alla fine magari sono stato a lavorare per 4 ore perdendo la cognizione del tempo – quando va bene, quando va male ne ho fin troppa. Come regola, se ho usato più di 10 pennelli in una giornata non è una giornata buona.»

Che cosa dà felicità oltre al dipingere?

«Non dipingo per “essere felice”, credo che fare pittura sia per me un modo per confrontarmi con questioni che mi toccano, è un modo di dare un senso al mio tempo. Cos’altro mi piace fare? Camminare voyeuristicamente per strade che non conosco, fare lunghissime conversazioni con amici o sconosciuti che poi magari non finiscono da nessuna parte, farmi spiegare cose che non conosco o capirle da persone che le capiscono, andare a concerti, rave, festival di musica elettronica e jazz (quando ho visto suonare il batterista Yussef Dayes ho pensato che, in un’altra vita, avrei desiderato suonarla anch’io), vedere bei film, leggere libri o fumetti, fumare sigarette, osservare i gatti che guardano uccelli fuori dalla finestra, stare al sole, andare per mercati dell’usato in cerca di vestiti e oggetti curiosi».

Dov’è il suo atelier?

«Dopo Londra, dove mi sembrava di aver finito un percorso e anche le mie energie, sono tornato a Roma: avevo saputo da amici che c’era un gran fermento, e sono stato molto fortunato di trovare uno studio presso Post-ex, un laboratorio ricavato da un ex garage. Lì siamo quattordici artisti, tutti di diverse età e con lavori e ricerche molto differenti, e oltre a condividere lo spazio tra un po’ speriamo si potrà anche esporre. Stare lì mi fa sentir bene, perché in questo luogo c’è la possibilità di confrontarsi con gli altri artisti, farsi domande sul perché del nostro lavoro, sentire pareri e anche per questa mostra mi sono confrontato molto con alcuni pittori che lavorano lì: Luca Grimaldi, Cristiano Carotti e Flavio Orlando mi hanno supportato e soprattutto sopportato molto negli ultimi mesi ».

È rassicurante stare con gli altri e avere verifiche del suo lavoro?

«So che altri preferiscono stare da soli, nel mio caso apprezzo l’interazione, magari altri ti fanno notare cose alle quali tu non hai badato, e ci rifletti sopra».

Quindi non è un solitario....ma essere figlio unico è un vantaggio o uno svantaggio? Oppure poi si trovano dei fratelli tra gli amici?

«Beh quando lavoro preferisco stare da solo, sì…però Londra in questo mi ha insegnato che, alla fine, la famiglia la si trova nelle persone che hai accanto, con cui si condivide un’intimità, e non è mai un qualcosa di dato o di stabile poiché i rapporti, come tutto, bisogna coltivarli.»

Per lei niente cinema (come suo padre Nanni regista) e niente musica (come suo nonno, il compositore Luigi Nono). Com’è cresciuta in lei la scelta della pittura?

«Disegnavo fin da quando ero molto piccolo, ma durante l’adolescenza ho avuto problemi fisici che mi hanno spinto a passare ancora più tempo in solitudine a disegnare e poi a dipingere. In quel periodo scoprivo Goya, Rembrandt, El Greco, Tiziano, Bacon. Senza esserne consapevole mi affascinava come un quadro potesse essere così complesso e denso di interpretazioni nonostante sia solo della materia su una superfice. Mi piace anche come il processo sia più solitario e fisico rispetto ad altre arti e vi sia un aspetto molto manuale e immediato — fatto essenziale per chi è impaziente come me — da veri nerd in cui la differenza di intensità tra un blu phthalo e un blu di cobalto fa tutto. Nonostante ami il cinema e anche la musica, con la pittura mi sento a casa»

Nessuna esitazione quando affronta la tela?

«Beh inizio “sporcandola”, a preparare il fondo, e queste fasi sono anche molto rapide per commettere quegli errori che poi servono veramente a iniziare l’opera, ponendosi le domande sulla tela…e non solo in testa. Nello scarto tra come si vorrebbe dipingere e quel che poi esce su tela vi è per me la propria ricerca personale. E a questo penso ogni volta che inizio un quadro e mi sento terribilmente insoddisfatto di quel che sta uscendo.».

Ma dopo tante ore in studio, una birretta con gli amici?

«’A voja»

I suoi amici sono ancora quelli del liceo? E quale è la qualità fondamentale in una persona perché le diventi amico/a?

«Ho ancora alcuni amici del liceo ma anche tanti nuovi e sicuramente sono affascinato da chi è un/a bravo/a conversatore, il che non implica che parli tanto quanto che vi sia una sincerità e consapevolezza in quel che dice». 

Nanni Moretti, il Pci di Cosenza e la repressione sovietica in Ungheria. DAVIDE SCAGLIONE su Il Quotidiano del Sud l'8 Maggio 2023

L’ultimo film di Nanni Moretti, “Il sol dell’avvenire” ha riacceso i riflettori sulla repressione della rivolta ungherese da parte dell’Unione Sovietica nel 1956, uno degli avvenimenti più importanti della Guerra Fredda. Si trattò di una sollevazione armata di carattere antisovietico nell’Ungheria socialista con il consequenziale intervento militare dell’Urss e che in poche settimane registrò complessivamente oltre tremila vittime.

Per molti comunisti i fatti di Budapest rappresentarono una sorta di spartiacque ma in pochi, anzi pochissimi, ebbero all’epoca la forza e il coraggio di condannare, o quanto meno mettere in discussione, il brutale atto repressivo dell’Urss. D’altro canto la rigida e manichea contrapposizione tra il blocco orientale e il Patto atlantico degli anni Cinquanta offriva pochi margini di manovra in tal senso. Le scelte di campo erano obbligatoriamente nette e quasi preconfezionate.

Da una parte l’Unione sovietica e dall’altra gli Stati Uniti d’America, il mondo gravitava attorno a questo dualismo che consentiva poche “digressioni”. La guerra era finita da poco più di un decennio ma soffiavano nuovi venti bellici destinati a dividere ideologicamente (e non solo) l’Europa. In Italia le prese di posizione all’interno del Pci contro l’invasione dell’Ungheria (che per i comunisti filosovietici era in realtà una lotta per neutralizzare i controrivoluzionari magiari) furono ben poche e per lo più affidate a intellettuali che condussero battaglie simboliche e isolate. I tempi non erano maturi per contestare a viso aperto la linea di Mosca. Differente fu invece la scelta di gran parte dei socialisti che si schierarono senza esitazione dalla parte degli insorti ungheresi prendendo le distanze irreversibilmente dai sovietici e dai compagni di via delle Botteghe Oscure.

NANNI MORETTI, LA REPRESSIONE IN UNGHERIA E IL PCI DI COSENZA

Un fulgido esempio dell’allineamento sostanzialmente incondizionato del Partito comunista italiano alla politica estera dell’Urss si ebbe a Cosenza. L’appoggio, ideale si intende, ai carri armati sovietici a Budapest non deve meravigliare perché, come detto, fu il sentimento dominante nel partito guidato da Palmiro Togliatti. Di questo supporto vi è una traccia tangibile nel congresso della Federazione provinciale del Pci svoltosi dal 30 novembre all’8 dicembre del 1956. Il segretario provinciale Gino Picciotto, più volte eletto deputato ed esponente di spicco della gauche cosentina e calabrese, nella sua relazione non lasciò spazio ai tentennamenti.

«Noi abbiamo approvato l’operato dell’Unione sovietica, ricordando a noi stessi e agli altri, che le sue armate in ogni tempo hanno rappresentato la pace e la libertà, hanno significato la sconfitta del fascismo in Europa, hanno significato a Stalingrado resurrezione di tutti i popoli alla vita, alla libertà e agli ideali di indipendenza, significano ora, se abbiamo presenti le proposte dell’Urss, non minaccia di guerra, ma garanzia di pace per tutti i popoli», affermò Picciotto. «Soprattutto abbiamo approvato l’operato dell’Urss, perché non scordiamo né scorderemo mai che oggi esiste una realtà socialista, frutto delle grandi lotte del proletariato internazionale, a tutto questo ha dato contributo grande e decisivo l’Unione sovietica, il Partito comunista dell’Unione sovietica», si legge ancora nella relazione del segretario provinciale.

I COMUNISTI DI COSENZA, COME NEL RESTO D’ITALIA, SCELSERO L’UNIONE SOVIETICA

«Sappiamo soprattutto e ne siamo fermamente convinti che ogni gesto o attacco intesi ad isolare l’Unione Sovietica significano incoraggiamento alla guerra, mentre essa è alla testa di un vasto movimento di popoli che nell’ambito della pace vogliono riscattare la loro libertà, la loro indipendenza e sovranità», concluse Picciotto nel passaggio relativo ai fatti d’Ungheria. Concetti che non necessitano di interpretazioni politiche.

I comunisti, a Cosenza e provincia e così come in tutt’Italia, scelsero l’Urss nell’autunno del 1956. Cosa sarebbe successo se il Pci avesse condannato l’invasione in Ungheria? La storia con i “se” affascina ma lascia il tempo che trova. Nel film Moretti offre tuttavia un suggestivo finale da coup de theatre che, oltre a cambiare la vita del protagonista, rivoluziona anche il corso della sinistra italiana anticipando di un ventennio lo strappo del Pci con Mosca e realizzando proprio in Italia l’utopia comunista.

Il sol dell’avvenire: uno, nessuno, centomila Nanni Moretti. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore  su Il Riformista il 4 Maggio 2023

Molto si è detto e scritto sull’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, ma una cosa è oggettiva: si tratta di un grande successo culturale (tutti ne parlano, chi bene, chi male) e di un forte successo cinematografico, specie se si considera il piano nazionale e soprattutto tenendo conto che è un film d’autore. Come ha dichiarato pochi giorni fa Domenico Dinoia, presidente della Federazione italiana cinema d’essai, “Incassare quasi 3 milioni di euro di questi tempi, con circa 500 copie, per un film d’autore non è certo impresa da poco, senza contare che il film di Moretti potrà beneficiare a breve della presentazione al Festival di Cannes, dove ci auguriamo sarà tra i titoli più apprezzati”.

Partendo da questo dato oggettivo, vediamo cosa si possa dire che non è stato già detto in recensioni precedenti. E’ senza dubbio un film originale che riesce a interpretare la metacinematografia (quando il cinema rappresenta il cinema, sulla scia di quello che, a teatro, fu la grande invenzione di Pirandello, e che al cinema è stato fatto in modo magistrale in 8½, di Fellini) in un modo interessante e non banale. Ho onestamente perso il conto di quanti film nel film siano racchiusi in questa pellicola. Tre, forse quattro, ma il meccanismo che interessa è quello delle scatole cinesi, quindi è sempre possibile scovare una nuova, minuscola scatola quando si pensava d’esser arrivati alla fine.

In questo senso, Il sol dell’avvenire è a tratti un film didattico-pedagogico, quasi che Moretti abbia voluto regalare uno spezzone non piccolo di questo suo lavoro a insegnare al suo pubblico l’abc del linguaggio filmico, del significato semiologico di una scena, della sua fotografia, della regia. Di quanto l’estetica sia anche etica, seguendo l’insegnamento di Walter Benjamin. L’ovvio riferimento è al momento in cui l’attore protagonista, il regista Giovanni – l’alter ego di Nanni, che lascia il suo consueto pseudonimo di Michele Apicella per chiamarlo proprio col suo stesso nome di battesimo – interviene (fregandosene del “si gira!”) sul set di un suo “collega” conoscente per interrompere il ciak e spiegare, al troppo giovane ed esuberante regista, cosa significhi inquadrare una scena di violenza in un certo modo, e come si possa usare la violenza in una pellicola per condannarla o, al contrario, per esaltarla. Ma potremmo discettare dell’importanza della colonna sonora, di quanto non sia vero che “sono solo parole”, come canta a squarciagola l’intera troupe nella prima parte, concetto che rimanda a quell’urlo “Le parole sono importanti!” di Palombella Rossa, sottolineato dal regista Giovanni che chiama lo “stop!” quando la sua attrice si azzarda a improvvisare dal copione “se cambi una parola, cambia tutto”, ammonisce Giovanni sornione e trasmettendo lampi di disprezzo.

E’ quindi uno dei film più morettiani degli ultimi tempi, quasi un ritorno a certe atmosfere da Io sono un autarchico o Ecce bombo, magari con una spruzzata del docu-film La Cosa, che abbiamo visto in diciotto, ma meritava. Direi anche una puntina dell’Ettore Scola minore di Mario, Maria, Mario girato in quella che, all’epoca, era la mia sezione dei Giovani Progressisti di Piazza Verbano in Roma.

La firma del regista romano torna qui a essere nitida: un’introspezione al limite della psicopatologia, un monologo interiore che si nutre di stream of consciousness, che riprende e interpreta, forse con meno ironia ma maggiore sarcasmo romanesco il Woody Allen delle origini, di cui prende in prestito anche la figura di uno psicoterapeuta macchiettistico, al modo di Allen ma assai meno mordace del Ricky Gervais di After Life, ennesimo capolavoro in salsa Little Britain, che mi auguro Moretti conosca e apprezzi, nonostante il peccato originale della produzione da parte di quella multinazionale “presente in 190 paesi”.

***SPOILER*** Molti dunque i filoni narrativi: dalla centralità dell’amore in tutte le sue salse, alla soddisfazione di sé. Dal senso di una scena, alla funzione culturale del cinema e all’inverecondo ambiente dei produttori cinematografici. Dal racconto distopico politico sul PCI che avrebbe potuto/dovuto essere ma non fu in quel tragico 1956 dei carroarmati sovietici che spappolavano – col plauso del peggior Togliatti – sotto i loro cingolati i corpi e i sogni di libertà dei “compagni” ungheresi, al confronto fra generazioni. Dal coraggio di cambiare, anche il finale di un film, al coraggio di ridere, anche di sé.

Ma al di là del discorso politico-utopistico (i protagonisti del metafilm, Silvio Orlando e Barbora Bobulova, nei panni di Ennio e Vera, sono una coppia di fatto all’interno di una sezione del PCI del quartiere di Roma del Quarticciolo, che invita il circo ungherese Budavari nel quartiere proprio pochi giorni prima dell’invasione di Budapest, con Vera che aderisce subito alla protesta ungherese ed Ennio che attende che “il partito prenda posizione”), si può dire che Il sol dell’avvenire sia soprattutto un film d’amore, e non solo verso Roma e il quartiere Prati-Mazzini.

Lo dico guardando alla coppia etero protagonista, che sta insieme da “quarant’anni” al modo mortificante descritto dalla più emblematica delle battute di questa pellicola, messa in bocca a una sempre credibile Marghrita Buy nel ruolo di Paola, la moglie di Giovanni, e di se stessa: “noi non stiamo insieme perché hai bisogno di me, stiamo insieme perché io ti servo”. C’è poi un trascurabile cameo di una giovane coppia gay all’interno della sezione comunista, con tanto di ramanzina da parte del segretario riguardo al dover apparire, in quanto comunisti, come inappuntabili all’esterno. Viene da pensare all’espulsione di Pasolini dal PCI nel 1949 proprio in quanto omosessuale e pederasta. L’elemento commedia è invece affidato all’amore gerontofilo di Emma, la figlia di Giovanni e Paola, che s’innamora di un dignitario dell’ambasciata di Polonia, peccato che vada per gli 85 anni.

Certo, l’utopia politica entra nel Sol dell’avvenire da porte e finestre, peccato che il film sia una monade sprovvista di porte e finestre dove, tuttavia, tutto è politica, a cominciare dal privato. Ecco quindi un campo di papaveri rossi di citazioni politiche, delle quali ricorderemo qui solo il faccione dell’amato Trotzky che campeggia nella scena finale, insieme a tantissimi potenziali “pasticceri” che marciano all’omba del Colosseo nella scena finale. Molte poi, anche le citazioni esplicite e implicite dei grandi maestri, da Fellini a Kieslowski, con tanto di spezzoni di grandi classici proiettati in modo didascalico ed etichettati come miti con tanto di cornici in radica e riti propiziatori.

La carrellata finale dove appaiono molti degli attori della filmografia morettiana potrebbe far dire ai critici più sprovveduti che questo è il suo film-testamento, il suo addio al cinema d’oggi fatto pensando al pubblico e a soddisfare i parametri della Sempre-Sia-Odiata-Netflix. Non credo proprio, invece, che sarà il suo ultimo film, ma è cristallina la dichiarazione di disagio e di distopia che Moretti vive in queste “magnifiche sorti e progressive” del cinema italiano, del Paese, della politica della Sinistra e dei rapporti fra le persone, così ben inquadrate dalla scritta sarcastica che precede il rullo dei credits: “Grazie all’abbandono della linea filosovietica da parte del PCI, in Italia si è realizzata l’utopia comunista tanto cara a Marx ed Engels”.

Giampiero Mughini per Dagospia l'1 maggio 2023.

Caro Dago, che bello l’aver visto il film di Nanni Moretti in una sala cinematografica dove non c’era un solo posto a sedere vuoto e dove il pubblico trepidava assieme ai personaggi di Nanni, alle loro parole, alle loro fobie, ai loro silenzi, ai loro tormenti. Meraviglioso quando il cinema torna ad avere tutte le suggestioni del cinema di un tempo, esattamente com’era all’epoca della “Dolce vita” di Federico Fellini di cui Nanni utilizza alcune scene. Sfido qualcuno a dire di un film italiano dei giorni nostri che abbia il tocco di questo ultimo film di Moretti, le sue vibrazioni più profonde, la sua autoironia talmente spietata.

Quanto al “se” da cui il film muove, ossia che “se” il Pci del 1956  avesse scelto di dire che i carri armati sovietici che avevano fatto irruzione in Ungheria erano una schifezza, che era una schifezza il comunismo reale instaurato in Unione Sovietica nel 1917 a forza di massacri, in questo caso ne sarebbero stati felici gli uomini e le donne che in Italia avevano puntato tutto sulla loro adesione anima e corpo al Pci, quello è solo il pretesto del racconto. Abbiamo smesso da tempo di credere che la politica dei partiti e l’ideologia che li sorregge siano la cosa più importante di tutte. Certo sia io che Nanni apparteniamo a due successive generazioni che ci avevano creduto a questa boiata, le penultime ad averci creduto.

Ad aver creduto che la felicità del vivere, dello stare assieme uomini e donne, padri e figli, eterosessuali e non, riposasse per intero o quasi su quello che avevano scritto Marx e Engels due secoli fa. Ma nemmeno per idea, narra e costruisce scena dopo scena Moretti nel suo film. Fosse così facile, fosse così banale. Il fatto è che la vita e il destino di ciascuno di noi - e di ciascuno dei rapporti che contano nella nostra vita - è complesso quanto e più di quello che accadde in Ungheria nel 1956, è appeso a un filo o meglio a mille fili, è talvolta irrisolvibile o comunque non risolvibile a furia di ragionamenti lineari.

Si consuma, punto e basta, come nel film di Moretti si consuma dopo quarant’anni trascorsi assieme il rapporto tra lui e la protagonista femminile (una mirabile Margherita Buy). Una tale caduta è volgare a volerla spiegare con poche e recise parole, e difatti il Moretti/regista nel film si oppone con forza a scene dove la spiegazione di quel che accade nella vita è affidato a poche e recise parole di uno dei personaggi in campo. Che dobbiamo fare, che dobbiamo dire?, gli dice il personaggio del suo film interpretato da Silvio Orlando, il regista comunista che non sa che pesci pigliare a proposito dei fatti d’Ungheria.

E Nanni resta in silenzio. Perché le parole lui non le ha, come non ne ha nessuno di noi quando muore un rapporto importante, quando se ne va un amico di quelli che hanno contato. Come parole non ne ho io, a segnalare la ormai lontana rottura del rapporto di amicizia tra me e Nanni. Altro che fare un titolo sui fatti d’Ungheria all’opposto di quelli che fece l’Unità pur diretta da Pietro Ingrao. Al confronto, quello è un gioco da bambini.

 Estratto dell'articolo di Fulvio Abbate per mowmag.com il 30 aprile 2023.

Il nuovo film di Nanni Moretti ha fatto discutere ancor prima dell’uscita. Ma noi andiamo oltre e, dopo averlo visto, vi spoileriamo che il regista sembra sostenere che la storia si può fare anche con i “Se”. Per esempio che, se nelle tragiche giornate del 1956 quando i sovietici assassinarono nel sangue la rivolta ungherese di Imre Nagy, Palmiro Togliatti si fosse schierato con gli insorti… 

Non a caso appare l’immagine di Trotsky, cioè della purezza ritrovata, ma dimenticando le passioni meno nobili dell’ideologo della “rivoluzione permanente”. E in generale è un peccato che non abbia immaginato nel corteo del socialismo trionfante un cameo di Christian De Sica, oltre a quello di Chiara Valerio, per spezzare anche le catene dell’amichettismo...

“Il sol dell’avvenire”, quest’ultimo “atteso” film di Nanni Moretti, si conclude con un corteo festante di bandiere rosse. Immaginifiche, luminose. Un magnificat degno dell’entrata di Cristo a Bruxelles raffigurata altrove dal pittore visionario James Ensor. O magari rivisitata da un Fellini, assunto come segretario di cellula comunista romana. Così lungo i Fori Imperiali. il Colosseo laggiù, sfondo. Un corteo che avanza oniricamente verso il compimento della Storia, il Comunismo. 

(...)

Su un elefante troneggiano invece Silvio Orlando e Barbora Bobulova, protagonisti, intenti a baciarsi. Coniugi, amanti, felici. Ma soprattutto nella scena avanza un ritratto di Trotsky, l’antagonista di Stalin, il “profeta disarmato”, il teorico della “rivoluzione permanente”, simulacro iconico di chi, nell’agosto del 1940, troverà la morte sotto un colpo di piccozza scagliato sul cranio da un sicario di Mosca. Nel suo esilio di Coyoacán, sobborghi di Città del Messico. Assassinato, paradossi della storia, da Ramón Mercader, cugino di Maria Mercader, l’amata mamma del nostro Christian De Sica.

Necessaria prosaica digressione: da anni vive in rete un meme dedicato proprio al divo dei cinepanettoni a commento di un bizzarro destino: “Mio padre ha inventato il neorealismo, mio zio ha ucciso Trotsky, io faccio ridere con le scuregge”. Bene, se adesso volessimo in breve raccontare l’“eresia” del trotskismo con la sua Quarta Internazionale, che si opponeva alla Terza denunciando la burocratizzazione del sistema sovietico, in nome invece della rivoluzione mondiale, niente di meglio delle battute del primo incontro tra Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in “Mimì metallurgico ferito nell’onore”. 

Quando l’operaio meridionale politicamente grezzo si accosta alla ragazza torinese, lei, Mariangela, si dichiara proprio trotskista, donandoci l’unica possibile immaginifica definizione del movimento: “Sinistra della sinistra”. Anche Nanni Moretti, si narra, da ragazzo pare essere stato rapito dalle stesse sirene, insieme a Paolo Flores d’Arcais e altri ancora.

Perfino Achille Occhetto, da segretario della Federazione giovanile del Pci, sul giornale “Nuova generazione”, volle pubblicare una foto di Trotsky, in anni in cui sul personaggio pesava ancora il sospetto, lo stigma stalinista che fosse un “agente dei nazisti”. In verità, il personaggio della foto non era esattamente Trotsky, bensì Sverdlov, forse chi mise in pagina l’immagine pensò che baffi e pizzetto dell’uno valessero anche per l’altro. 

Tuttavia l’idea che con Trotsky l’intero sistema comunista sarebbe stato ben altra ammirevole cosa, si infrange già nel 1921, come gli anarchici più di altri sanno bene, quando proprio il fondatore dell’Armata Rossa, giunse a reprimere la rivolta dei marinai della base di Kronstadt, sul Baltico, che in nome dell’assemblearismo libertario si erano ribellati al potere centralista dei soviet di Mosca. Moretti, nel film, diversamente da ciò che asserisce Gramsci, dice che la storia si può fare anche con i “Se”.

“Se”, appunto, Togliatti, benché compromesso con lo stalinismo in quanto vicesegretario del Komintern, implicato addirittura nella decimazione degli anarchici, e soprattutto proprio dei trotskisti del POUM nella Spagna della guerra civile del 1936, lì presente come emissario con il nome di “Alfredo”, se appunto, vent’anni dopo, nel 1956, si fosse schierato con gli insorti ungheresi contro i sovietici, rompendo così con i successori di Stalin, i domani avrebbero finalmente cantato… “Les lendemains qui chantent…”, pronunciano infatti i versi della più celebre canzone della Comune di Parigi. 

Dunque, Trotsky ovvero della purezza rivoluzionaria ritrovata. Il personaggio, sia detto per inciso, custodiva anche passioni letterarie, assunse la difesa, con acume da critico, del poeta Esenin, accusato di essere un “controrivoluzionario” spiegando che quest’ultimo apparteneva all’anima profonda contadina russa, diversamente dalla concitazione epica di un Majakovskij. E sempre lui, Trotsky, ormai laggiù in esilio in Messico, accogliendo lo scrittore André Breton, sarà tra i firmatari del Manifesto del surrealismo. Moretti ne “Il sol dell’avvenire” non si concede all’invettiva volgare, liberatoria, bandito è ogni turpiloquio, in nome forse del moralismo perbenista e sessuofobico proprio dei probiviri di sezione comunista… 

Se invece avesse letto le memorie di Jean van Heijenoort, segretario di Trotsky nella casa fortificata di Città del Messico, saprebbe, non stupisca, che l’uomo, il rivoluzionario, fra molto altro, era fissato con le donne. Proprio “nun se dorme su la fregna”, direbbero liberando un sorriso nei baretti del Quarticciolo, luogo evocato nel film. “In esilio con Trockij”, Feltrinelli, 1980, il testo citato; per chi non volesse credere alle nostre parole.

È noto che l’uomo scopasse Frida Kahlo, con immenso disdoro familiare. Esiste perfino una foto di gruppo, presente anche Diego Rivera, dove il volto di Frida appare violato da una punta di matita, segno della rabbia di Natalia Sedova, compagna di vita e madre dei suoi figli. Racconta ancora il suo segretario che, nonostante il timore di attentati, Trotsky, bugiardo, ottenebrato dalla brama di sesso, giunse perfino a pretendere delle “prove di fuga”, che insomma una scala dovesse essere posta sul muro di cinta posteriore della casa per ogni occorrenza. In verità, l’attrezzo gli occorreva per raggiungere nottetempo una signora vicina con la quale a sua volta fornicare.

Probabilmente gli spettatori feticisti di Moretti, magari i medesimi che vanno in estasi per gli edificanti ditalini letterari della scrittrice Chiara Valerio, presente nel film con un cameo, che spiega altrove risibilmente il valore della “tenerezza” citando non meno impropriamente Che Guevara, che per nulla tenero si pose con i dissidenti cubani, non fanno caso alla verità del racconto storico e politico, piuttosto piangono sulla promessa mai pienamente dal regista mantenuta di realizzare un musical sulla storia di “un pasticcere proprio trotskista nell’Italia conformista e stalinista degli anni cinquanta”. 

(...) Peccato davvero che Nanni Moretti non abbia immaginato nel corteo del socialismo infine trionfato anche un cameo proprio di Christian De Sica, da affiancare a tutti gli altri volti rassicuranti, così spezzando, oltre a quelle del dominio capitalistico borghese, anche le catene dell’amichettismo.

 Carlo Freccero per Dagospia il 29 aprile 2023.

Se la televisione rappresenta l’inconscio a cielo aperto del presente e cioè lo Spirito del tempo qui ed ora, il film “Il sole dell'avvenire” di Moretti vuole dirci che il cinema non è così dipendente dalla realtà. O forse, semplicemente non lo è per Moretti. 

Nel suo primo film Moretti si definisce un autarchico. Nel film di oggi si rivela non solo un autarchico, ma anche un nostalgico e, da buon autarchico ripete incessantemente il suo vissuto. Moretti è passato alla storia per la sua frase “D’Alema di qualcosa di sinistra” nel momento in cui la sinistra sprofondava nella sua crisi più profonda, forse irreversibile. 

Nel contesto attuale la sinistra sembra non avere futuro e quindi il regista va a cercare nel passato l’episodio che poteva cambiare il corso degli eventi, rendendola degna di un futuro che oggi sarebbe il nostro presente. E lo trova nella invasione sovietica dell'Ungheria del '56. Come in “Ritorno al futuro”, vorrebbe manipolare gli eventi passati per riavere indietro il sogno della sinistra: un partito Comunista vittorioso e popolare. Ma forse non si rende conto che già allora tutto questo non è successo per un caso, ma perché la Rivoluzione Sovietica era già saldamente in mano a forze reazionarie che, dietro la facciata del comunismo, perseguivano il loro profitto. Vista oggi, con i nostri occhi e non con gli occhi ispirati di Moretti, la storia poteva solo andare così. 

Cominciamo a chiarire che quello che vi ho presentato non è il soggetto del film preparato per Cannes. È invece il soggetto del film nel film che, ripetendo schemi della Nouvelle Vague, Moretti mette in scena, a distanza da secoli da quella poetica: il Cinema nel Cinema,  Moretti secondo Moretti. 

Moretti si ribella alle produzioni industriali della fiction di oggi. Non si interessa alla sceneggiatura ed all’intreccio. Gli sfugge del tutto che anche il racconto, “il viaggio dell’eroe”,  l'arco narrativo abbia il suo fascino. Le serie americane sono un prodotto di sceneggiatura, la loro matrice è il racconto.

Moretti vuole fare un cinema d’autore . La sua matrice è un certo cinema europeo prima della televisione, che viveva di citazioni, di topoi letterari, di marchi e simboli dell’autore stesso. Una specie di automanierismo che conferisce al prodotto riconoscibilità e valore come le bottiglie stilizzate di Morandi, i colli lunghi di Modigliani, le rotondità di Botero. Il prototipo ispiratore de “Il sol dell'Avvenire” secondo la Critica è “8 ½” di Fellini.  Anche in “8 1/2” c’è un regista in crisi che rappresenta l’alter ego di Fellini come il regista Giovanni rappresenta l'alter ego di Nanni. Moretti mette da sempre in scena solo Moretti,  la sua idiosincrasia per le scarpe modaiole, la devozione alla Sacher, alla Nutella e ai dolci in generale. Qui però non abbiamo più il suo alter ego  cinematografico che si cimenta con la pallavolo, piuttosto che con l ‘insegnamento o con i voti religiosi.

Qui abbiamo il regista che supera i suoi tic biografici per riassumerli nella sua visione di cinema: cinema dell’autore che Moretti predilige: Nanni Moretti. La sfida di Moretti alla fiction contemporanea  è tutta riassunta  nel dialogo tra il protagonista è gli inviati di Netflix che dovrebbero finanziarlo. Si tratta di  due visioni inconciliabili, anche se poi Moretti si astiene dal fare a pezzi l’ideologia ‘ woke ‘di Netflix con la stessa ironia con cui isola e deride le scarpe inappropriate.  Nella sua filmografia,  tradotta in storie sempre diverse, Moretti ha portato avanti imperterrito lo svolgimento della sua biografia. In CARO DIARIO ci ha messo al corrente della sua malattia, ma la successiva guarigione ispirava ottimismo. Qui mette a nudo una malattia dell’anima che ricorda ed anticipa la morte. 

Tutto il film sembra muoversi in direzione di un finale tragico. La morte della sinistra ha travolto un’intera generazione che ci ha creduto, ma che vive oggi il dramma di non avere più riferimenti ideali ed identitari se non la nuda biografia di chi ha perso tutto. Potremmo aggiungere con Gaber “La mia generazione ha perso”. 

Ma quando tutto è perduto, quando il nostro regista è stato abbandonato dalla moglie ed ha preso coscienza della anaffettività che ha caratterizzato la sua vita, quando il protagonista del suo film sta per suicidarsi, scatta l'illuminazione. “Domani è un altro giorno” dice Rossella O’Hara in “Via col vento”. Il cinema è un'altra cosa dice Moretti. Il cinema è più importante della vita stessa, più vero della realtà. La vita può essere vissuta solo attraverso l’emozione cinematografica. 

Giovanni immagina un nuovo film d’amore in cui i protagonisti vivano quella storia  che è mancata a lui. La loro felicità diventa la sua felicità. Ma, soprattutto, trova il finale per il suo primo film, anacronisticamente tragico. Proprio perché non ama le ferree leggi dell’intreccio, quando la storia ha perso la sua direzione,  vira verso il musical e la sua riscrittura favolistica della realtà. Il Cinema può risolvere qualsiasi dramma perché non ha debiti col reale. 

L’eterna domanda di Moretti “dì qualcosa di sinistra”, si traduce addirittura in un'utopia realizzata. Nella storia alternativa riscritta da Moretti sul dramma ungherese, si realizza il miracolo della conversione dei burocrati del partito. Il Partito Comunista italiano accoglie le istanze della base e diventa un Partito degno di proiettarsi nel futuro e di avere un grande seguito.  E tutti vissero felici e contenti.

Tutto bene? Non proprio. Nel momento in cui sembra affidarsi all'immaginario cinematografico, per risolvere la prosaicità del reale, il film non riesce a decollare. Assomiglia più ad un diario che ad un'utopia. Manca dell'incantesimo che certe immagini intrisecamente belle possono trasmettere scatenando il sogno.

Estratto dell'articolo di Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 26 aprile 2023.

La sinistra è superiore dal punto di vista antropologico, morale e culturale. Ma solo per finta, al cinema. Fa sorridere la manipolazione della storia a uso auto-consolatorio in due film girati da altrettanti esponenti del vasto mondo post comunista. 

Il primo è Quando di Walter Veltroni, regista per caso, uomo d'apparato per scelta, segretario immaginifico del Partito democratico, il leader del «ma anche», capace di dichiarare di essersi iscritto al Partito comunista senza essere comunista (complimenti). 

Il secondo è il Sol dell'avvenire di Nanni Moretti, un uomo chiamato girotondo, tendenza radical chic, movimentista, anti-berlusconiano doc, quello che disse, davanti ai capi del Partito democratico: «Con questi dirigenti non vinceremo mai», Quando è una favoletta semplice semplice, verrebbe da dire per sempliciotti, anche perché ricorda, e non poco, il ben più famoso e riuscito Goodbye, Lenin!, film del 2003 di Wolfgang Becker. Al funerale di Enrico Berlinguer, un'asta cade in testa a un malcapitato che si sveglia trent'anni dopo. Sorpresa! Il Partito comunista non c'è più.

Quanta nostalgia, però. Ora, come è possibile avere nostalgia di un Partito agli ordini di Stalin, anti-democratico, dalla parte dell'Armata Rossa in occasione della rivolta di Budapest, statalista nel senso peggiore del termine, consociativista, sovvenzionato da Mosca? Facile (per Veltroni). Rimuovere tutto quello che successo davvero e lasciare sentimentalismo stucchevole e un rimpianto fuori luogo. Il pubblico, facile previsione, non ha gradito particolarmente. L'incasso aggira poco oltre i 546mila euro. Un flop, se non fosse che Veltroni ha fatto tonfi anche più pesanti.

Nanni Moretti fa meglio in tutti i sensi, non che ci voglia molto. Il box office del primo fine settimana dice 947mila euro, un buon risultato, in linea con i precedenti incassi del regista. Il sol dell'avvenire, a un certo punto, decide di riscrivere la storia. Siamo nel 1956. Gli ungheresi chiedono maggiore libertà, un socialismo dal volto umano. Scendono in piazza per manifestare fino a quando Mosca decide che può bastare e spedisce l'Armata rossa a soffocare la rivoluzione nel sangue. 

Nel film, i militanti del Partito comunista italiano si danno appuntamento sotto le finestre di Togliatti e spingono il «Migliore» a dissociarsi dall'Unione sovietica. Grazie a questa svolta libertaria, diventa possibile la gioiosa sfilata finale sotto le bandiere rosse. Peccato. Le cose sono andate del tutto diversamente. Il Partito comunista italiano si schierò fedelmente con i sovietici. Un futuro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, scrisse in difesa dell'intervento sovietico, bollò gli insorti come controrivoluzionari e arrivò addirittura a dire che i carri dell'Armata rossa si erano messi in marcia per salvare la pace nel Mondo.

Chiese scusa con decenni di ritardo Questi tentativi di rileggere il passato, censurandolo o sognandone uno alternativo sono la migliore testimonianza (indiretta) che i post comunisti hanno davvero poco da essere nostalgici. La superiorità antropologica è solo immaginaria. 

(...)

Stefano Cappellini per repubblica.it - estratto il 23 aprile 2023.  

Quanti anni sono che Nanni Moretti non azzecca un film? Per qualcuno non tantissimi, Habemus papam ha un buon numero di estimatori (molti però, quando sentono dir bene di quel film, schiumano bava verde come Nanni in Io sono un autarchico quando gli annunciavano che la buonanima di Lina Wertmuller aveva ricevuto una cattedra di cinema in una università americana).

Altri hanno amato La stanza del figlio, che comunque zitto zitto si portò a casa una Palma d’oro a Cannes nel 2001 grazie alla giuria presieduta da Liv Ullman che lo preferì a No Man’s Land di Denis Tanovic, Mulholland Drive di David Lynch, L’uomo che non c’era dei fratelli Coen e Shrek, proprio lui, l’orco verde a cartone animato. Io sono tra quelli – non siamo pochi nemmeno noi – che amano Moretti ma rispondono: non succede da Caro diario. Era il 1994.

Resta che se hai avuto un talento enorme, epocale, come Moretti, il passato è pur sempre un salvagente. Carlo Verdone, per esempio, che ha cominciato a fare cinema quasi in contemporanea con Moretti, ha smesso pure lui di fare buoni film più o meno a metà degli anni Novanta, dopo averne messi in fila sei o sette che resteranno per sempre nell’olimpo, e a un certo punto deve aver pensato: sai che c’è? Rifaccio i miei personaggi degli esordi. 

E ha girato una versione anni 2000 di Un sacco bello e  Bianco rosso e verdone, e cioè Grande grosso e verdone, film veramente brutto, che però ha richiamato in sala tutti i fan, me compreso, e messo una toppetta alla crisi di ispirazione e di anagrafe (i cinefili sanno che c'è un altro punto di contatto tra Verdone e Moretti: a dare a Moretti la notizia su Wertmuller era Fabio Traversa, il Fabris di Compagni di scuola). 

È difficile non vedere la stessa operazione nel Sol dell’avvenire, che è un bignami del cinema di Nanni, e non starò a rifarvi il catalogo di tic, citazioni e autocitazioni perché ne hanno scritto già tutti i critici e i morettiani li riconoscono senza bisogno di aiuti. Perché non funzionano più? Perché non fanno ridere? Perché non torneranno più le merendine dei pomeriggi di maggio?

Mah, si potrebbero dire tante cose. La prima è che i nostalgici, tra i quali milito, sanno che non bisogna mai tornare nei luoghi dove si è stati molto felici. Il ricordo ti può sbudellare dal dolore e, un istante dopo, il confronto deprimerti a lungo. Prendete il monologo sulle scarpe in Bianca che, scusate la banalità, resta il capolavoro di Moretti.

Dice Nanni al commissario al quale sta per confessare i suoi delitti: “Ha presente quelle scarpe basse, senza lacci, le espadrillas... anni fa c’erano alcune ragazze che le portavano scalcagnate dietro, quasi a pantofola, e la cosa mi dava un senso di sporcizia, sfacciataggine, ma insieme quanto mi eccitava...”. Nanni l'ha rifatto, il monologo sulle scarpe, "il calcagno non lo voglio vedere", ed è triste morire senza figli, ma è triste pure non eccitarsi più per lo scalcagno.

La brillantezza di Moretti era anche il suo essere controtempo, soprattutto rispetto alla sinistra. Nei suoi primi film c'era la presa in giro della sinistra extraparlamentare, dei suoi rituali, delle sue mode, scarpe comprese, anche della sua fuffa. Della generazione del ’77 Moretti faceva parte ma se ne stava lì alla finestra, non in disparte, piuttosto a satireggiare sé stesso e gli altri (più gli altri). Moretti era uno che difendeva “la gente normale presa in giro perché fa una vita non eccitante... i miei studenti mi dicono: io piuttosto che lavorare in banca mi ammazzo. Ma cos’è questo odio per la gente che lavora, per il cartellino?”.

Moretti era l’anti indiano metropolitano, l'anti Toni Negri, comunista uguale a voi ma diverso, siamo uguali ma diversi. Una delle scene di Ecce bombo che mi ha sempre più divertito è quella in cui Nanni va sul set di un film erotico di serie Z, assiste a una scena di copula, poi chiede al regista: “Che film state girando? Il capezzolo d’Oriente?”. E quello: “No, I metalmeccanici hanno pochi fucili”. In quegli anni anche la P38 era exploitation e a Nanni questa cosa non andava giù, come le coppie aperte, le teorie del non lavoro, gli slogan orrendi nei cortei. 

A lui piaceva il cartellino, la società ordinata, le coppie monogamiche e infatti non si capacitava che la ragazza sul prato del festival “Riprendiamoci la città” non sapesse dirgli che lavoro faceva e come comprava le sigarette, anzi che non capisse proprio la domanda. Il problema è che per essere controtempo bisogna che ti sia dato in sorte un tempo e oggi il tempo di Nanni non c’è più (ci sono generazioni che hanno la sfortuna o la colpa di non averne mai avuto uno, del resto).

Oggi il suo controtempo è un esercizio di stile - a parte l'invettiva contro Netflix, con i suoi prodotti in serie come i tondini di ferro nelle industrie del bresciano. Il resto è repertorio. America', facce Tarzan. Nanni, facce Apicella. Nemmeno la politica aiuta più. Il Pci è morto e sepolto, l'Ungheria del 1956 serve al massimo a ricordare che a sinistra è una vita che qualcuno fa confusione tra aggressore aggredito, il Caimano è fuori gioco, la segretaria del Partito democratico è Elly Schlein, e se l’avessero detto al Nanni dei girotondi, quello che “mi dispiace, ma noi con questi dirigenti non vinceremo mai” (per la cronaca, restano quelli gli unici che hanno vinto), avrebbe pensato a una trovata surreale di sceneggiatura, tipo la foto di Zoff appesa alle pareti della scuola di Bianca, e invece.

Il passato lo si può richiamare come in una seduta spiritica, ma bisogna fare un atto di fede. Oppure si può scegliere di perdersi in un non tempo come quello del Sol dell'avvenire, un manifesto di inattualità dove il narcisismo non è più godibile e diventa inutile, stucchevole e - si può dire? - brutto. Ma quanto ci piaceva, e quanto aveva da dire quel narcisismo in quel tempo, il suo tempo. Ci manca.

Ne avvertiamo l'assenza come le risposte di Moretti a un'intervista di Fazio. Fosse ancora vivo il grande Dino Risi, uno che lo sapeva eccome se aveva fatto un buon film oppure no, gliela faremmo dire al contrario, quella storica e maligna battuta su Moretti, per interpretare la nostra nostalgia invertendo i fattori: caro film, spostati e facci vedere Nanni.

Marco Giusti per Dagospia il 21 aprile 2023.

Che tristezza, cari compagni. E, spesso, che imbarazzo, nel vedere il bel set su un film sulla crisi del PCI del 1956, ambientato tra una sede del Pci del Quarticciolo e il circo Budavari, un film che mi sarebbe piaciuto vedere, massacrato dalle continue canzoncine della voglia di musical morettiano (ancora Battiato…), che sono invece continue vie di fughe dalla realtà, anche dalla realtà del cinema, e dalle lezioncine sulla violenza post-tarantiniano dei giovani registi (stupidi) con testimonial eccellenti come Renzo Piano al telefono con un effetto da sketch di Fiorello, Corrado Augias che spiega “L’amor sacro e l’amor profano” di Tiziano come fosse uno Sgarbi usa-e-getta, e Chiara Valerio, magari per far contente le tre fedeli amiche sceneggiatrici, i momenti più terribili di tutto il film.

Il mio imbarazzo è un po’ quello, mischiato a un vecchio affetto, di Margherita Buy, la moglie-produttrice che non sa come dirglielo a Nanni che lo vuole lasciare dopo 40 anni e ha bisogno dello psicanalista Teco Celio per farlo. 

Curiosamente Teco Celio psicanalista è identico allo psicanalista Stephen Henderson di “Beau ha paura” di Ari Aster, altro film, ben più moderno e violento, sull’affrontare la vita e la storia lontani dalla dipendenza materna (anche per Nanni un nodo mai risolto).

No. “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti non è un capolavoro. E mi dispiace. Non fa né piangere né ridere. Mentre fanno ridere e piangere quasi tutte le critiche esaltanti che ho letto (non abbiamo più una critica, ridatemi i tromboni di prima oggi defunti che ho sempre odiato, please, almeno scrivevano meglio). Eppure, mentre il cinema italiano che conta era andato a vedere la mostra di Vezzoli+Prada, ero andato a vedere il film preparatissimo, leggendomi tutto, anche le esaltazioni più assurde e seguendo i vecchi rituali. 

Quartiere Mazzini, come nella scena dei monopattini con Mathieu Amalric, qui usato come figurina da coproduzione, senza senso. Pranzo all’una alla Nuova Fiorentina col mio amico Ciro per celebrare il girare attorno a Piazza Mazzini di Nanni. Poi spostamento alla sala 1 dell’Eden di Piazza Cola di Rienzo a vedere il film alle 14, 45. Insieme a una trentina di morettiani e morettiane fedelissime, tutti vecchi e vecchie come noi ma anche più vecchi.

Mancavano solo le bandiere rosse in sala. Mentre già si piangeva nella hall coi manifesti originali della Dolce vita. Ottimo. 

Ma dopo quindici minuti ha cominciato a ronzarmi la malsana idea che stavo vedendo solo una versione più acculturata e (purtroppo) post-comunista del cinema di Pupi Avati. Con un protagonista che, facendo un film ogni cinque anni, invecchia molto di più degli altri attori della stessa età. 

E questo, ahimé, sullo schermo si vede. E l’unica idea di messa in scena è quella di interrompere ogni cinque minuti l’azione e inserirei una canzone da cantare in macchina o in una scena importante. Lo hai fatto sempre, no? Perché vuoi rifarlo ancora e ancora e ancora? Non basta aggiungerci una canzone di Noemi per fare un film moderno. No. Ma forse non voleva fare un film moderno. 

Mi ha fatto ridere la scena con la figlia, Valentina Romani, brava, che invita i genitori Moretti e Buy a casa del fidanzato, Jerzy Stuhr, che alla domanda di Nanni, “Quando arriva suo figlio?”, risponde “Io non ho figli”. Ecco in quel camera-look, un procedimento che nel cinema comico americano è parte fondante dello slow-burn (citato da Moretti nel film), ho ritrovato il Moretti che preferisco.

Magari anche nel personaggio martoriato di Margherita Buy, bravissima, la moglie che se ne vuole andare dopo 40 anni. Ma è l’unico personaggio che abbia un vero sviluppo nel film, gli altri rimangono tutti nello sfondo, anche il fedelissimo Silvio Orlando, o Barbora Bobulova, che ha un paio di grandi momenti e osa mettersi i sabot, con la feroce reazione da vecchio repertorio morettiano. 

A Cannes funzionerà. Basta poco. E speriamo che Nanni non abbia visto il Toni Servillo regista sessantenne in ciavatte di “Il ritorno di Casanova”, immagine che distrugge qualsiasi credibilità del personaggio.

Ma la vera mazzata al film è la lunga, eccessiva, sequenza di Nanni che spiega al giovane regista col ciuffo perché le scene di violenza fanno male al cinema, dove si incarta in una serie di spiegazioni fumose coi testimonial importanti. 

Possibile che le tre sceneggiatrici, le tre parche che dovrebbero aiutare Nanni non gli abbiano detto nulla? Le scene brutte vanno eliminate perché sono brutte. Non puoi citarmi Kieslowski e poi farmi quel montaggio con l'insert di Renzo Piano preso come fosse un collegamento di Otto e mezzo della Gruber.  

Tutta quella inutile, lunga sequenza, inoltre rovina la credibilità di quello che viene dopo. Non me lo meritavo io spettatore e non se lo meritava Moretti. Come non mi meritavo la citazione del finale della Dolce vita che a qualche genio della critica ha ricordato Ettore Scola. Ma se ti ricorda Scola e non ti ricorda Fellini, allora siamo arrivati a qualcosa di derivativo che non ci può piacere. Aiuto.

Nella seconda parte il film alterna altre citazioni un po' inutili a sequenze, in parte riuscite in parte no, di repertori morettiani, come ai vecchi tempi, a lezioncine di morale sui tempi d'oggi. Cosa posso dire? Può far ridere la visione familiare di “Lola” di Jacques Demy dove moglie e figlia scappano, ma i due personaggi gay che si baciano nella redazione dell’Unità sotto gli occhi severi di Silvio Orlando mi imbarazza sia per come è stata pensata sia per come è girata. E lì si capisce che l’ombra di pupiavatismo è più che solida.

La scena del cappio con la citazione di Italo Calvino sulla morte di Cesare Pavese è disturbante, perché è violenta più del colpo di pallottola in testa alla Tarantino. Ma soprattutto mi pare che nella seconda parte il film tenda a slabbrarsi a accusa della costruzione di dialogo+canzone dove non si riesce a sviluppare molto. E le trame, coi i film nel film, addirittura l’idea de “Il nuotatore” di John Cheever (ma lo ha già fatto Frank Perry con una mano di Sydney Pollack benissimo quel film!) con Nanni nuotatore, la piccola storia d’amore coi due ragazzi, non portano a molto. 

A meno che, e questo è pensabile, che Nanni non tenda a macchiare ogni trama e ogni personaggio del suo carattere, dalla figlia musicista alla moglie. Ma alla fine, purtroppo, da spettatore affezionato, sono completamente d’accordo con i finti dirigenti di Netflix. Manca totalmente il whatafuck. Anzi, arriva nel finale con i dirigenti del PCI che si staccano dalla difesa dell’URSS. E non porta a molto.

A parte il finalone alla Bob Fosse (quindi testamentario) con le bandiere rosse più veltroniane che bertolucciane e i tanti suoi attori che salutano, da Gigio Morra a Renato Carpentieri, dal grande Fabio Traversa a Alba Rohrwacher (e Laura Morante?). Perché il film non è, come forse mi sarebbe piaciuto, un cosa sarebbe capitato al nostro paese se il PCI non avesse tradito i suoi iscritti nel 1956. No. Magari lo fosse. E’ cosa fa Nanni prima di arrivare al 90° minuto del film in attesa di cambiare il corso della storia e il finale del film nel film. Nanni, nella scena più vera e sentita, gioca a pallone sul set del Quarticciolo. Palleggia. Da solo. Neanche male. Ecco. Forse andava fatto quello di film. 95 minuti di palleggi. Negli anni ’70 lo avremmo accettato.

Nanni Moretti non è più in minoranza. È tutti noi. TERESA MARCHESI su Il Domani il 18 aprile 2023

Il sol dell’avvenire, ultimo film di Nanni Moretti, esce in Italia il 20 aprile e sarà in concorso al prossimo festival di Cannes.

Il film parla di una storia ricostruita sui “se”. E se Il Pci nel 1956 avesse scelto di rompere con l’Unione sovietica che aveva invaso l’Ungheria?

Moretti sa bene che il cinema, più delle cronache di palazzo, più dei libri, è stata la vera molla di formazione politica della nostra generazione. Politica intesa come estetica=etica, come visione del mondo.

Diceva Nanni Moretti in Caro diario che anche in una società più decente si sarebbe sempre trovato a suo agio e d’accordo sempre con una minoranza. Mi duole dirgli che ha sbagliato pronostico.

Temo che in questo suo Il sol dell’avvenire, che esce in sala il 20 aprile e poi corre a Cannes in gara per una Palma d’oro che potrebbe essere la numero due dopo quella per La stanza del figlio (meglio però tacere, per scaramanzia), ci riconosceremo tutti, maggioranza di una minoranza se proprio vogliamo, ma tutti avvinghiati al nuovo slogan che il suo regista Giovanni, nella finzione del film, ci propone: «La storia non si fa con i “se”. Chi l’ha detto? Io invece la voglio fare proprio con i “se”».

Rifare la storia con i “se” vuol dire speranza. Vuol dire non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il privato non è mai stato così politico quanto lo è oggi. E se fai cinema da 47 anni può succederti, se non tradisci te stesso, di intercettare il sentimento trasversale di molti, se non di tutti.

Secondo Silvio Orlando, tornato protagonista con Moretti dopo 17 anni ma titolare di ben cinque titoli suoi (tanti quanti quelli di Margherita Buy) puoi capire di che umore è Nanni guardando i film che fa. L’umore percepito stavolta è sul bello stabile. Fa venir voglia di cantare in coro stonato tante belle canzoni che ci rimettono al mondo, che sono passato e presente: Sono solo parole (Noemi), Lontano, lontano (Luigi Tenco), La canzone dell’amore perduto (Fabrizio De André), Think (Aretha Franklin in specie nei Blues brothers, con le pianelle rosa), Voglio vederti danzare (Franco Battiato). «Il cinema fa ragionare e sognare – ha detto Moretti in un’intervista recente – Tanto vale fare bei sogni».  

LA RINASCITA DOPO TRE PIANI

«Centonovanta paesi...Centonovanta paesi...Centonovanta paesi...». Chi era al festival di Cannes nel 2021 ricorda benissimo il tormentone comico anti Netflix che Nanni Moretti ha intonato per tutti i microfoni ufficiali e non ufficiali nell’anno del suo passaggio meno trionfale al festival che lo ha adottato fin dal 1978 col suo secondo film, Ecce Bombo.

Tre piani non fu accolto bene, anche dai critici d’oltralpe più affezionati, ma Cannes è il solo festival che si rifiuta ostinatamente di mettere in concorso le produzioni delle piattaforme, e per Moretti era un fiore all’occhiello aver tenuto in naftalina il suo film, resistendo alle sirene della circolazione in streaming «in centonovanta paesi», per attendere che la fine della pandemia consentisse al suo festival di elezione di riaprire le porte.

Le mie amiche Valia Santella e Federica Pontremoli, che firmano come co-sceneggiatrici anche il nuovo film (con la new entry Francesca Marciano) mi assicurano che la battuta era già scritta. Nel Sol dell’avvenire la ripetono fino alla nausea tre rampanti dirigenti di Netflix, ansiosi di glorificare i superpoteri dell’azienda quanto di precisare le leggi inflessibili del logaritmo: in quale esatto minuto scatta il turning point? E perché manca il momento what a fuck?

Insomma, al festival Moretti semplicemente provava le battute. Se volesse essere una variante di Boris il film di Moretti potrebbe concedere spazio a questo esilarante siparietto: le amiche co-sceneggiatrici mi assicurano che ci sono ciak sufficienti per un secondo film, il grosso è stato tagliato. Ma i temi che si affollano sono troppi, e mescolati, esattamente come nelle nostre vite di tutti i giorni. 

UN FILM MORETTIANO

Il sol dell’avvenire è un film morettiano all’ennesima potenza, anche se lui detesta quest’aggettivo, cumulato alle sue innumerevoli idiosincrasie, tipo per i sabot e le pantofole (unica eccezione le pianelle rosa di Aretha Franklyn, come già detto).

Il suo Giovanni regista, a cui finalmente non cambia il nome di battesimo evitando l’Apicella di sua madre (cosa molto normalizzante e significativa, ma io adoro sua madre, era la mia insegnante di riferimento al liceo Visconti), sta girando un film sui comunisti italiani del 1956, anno dei carri armati sovietici in Ungheria.

È uno spartiacque, e prima dell’evento Silvio Orlando, redattore dell’Unità e segretario della sezione Antonio Gramsci del Quarticciolo, ha invitato un circo ungherese a Roma. È complicato spiegare ai giovani collaboratori del film che all’epoca il Pci aveva due milioni di iscritti, che non erano russi immigrati.

C’è un immenso uso del cinema bello che fa sorridere e piangere insieme. Il rito propiziatorio che il regista usa in apertura di un nuovo film da girare è la visione domestica di Lola, con Anouk Aimée. Il produttore francese del film è Mathieu Amalric, cosa che sarà di notevole supporto per il successo francese.

È lui a dire che il film «è una metafora del cinema oggi, sospeso lassù come il trapezio del circo». Altro cinema di riferimento: Krzysztof Kieślowski, i Taviani di San Michele aveva un gallo («politico ma anche poetico»), il Fellini della Dolce vita. Nella vita due o tre principi ci vogliono: è il mantra di Moretti, è anche il nostro.

Per esempio Margherita Buy, nel film sua consorte e produttrice abituale, sta lavorando con un nuovo regista di genere, superviolento come oggi è costume. E Moretti, da esterno, interrompe il ciak finale e interpella per consulenza Renzo Piano, Corrado Augias, perfino Martin Scorsese (che ha la segreteria) sull’etica-estetica del cinema.

Al Giovane Regista, che sta girando un unhappy end con un buco in testa alla vittima, spiega: «La scena che stai girando fa male al cinema». Sceneggiatori, attori, registi, secondo lui, sono da anni vittime di un incantesimo: «Una mattina vi sveglierete e comincerete a piangere, perché vi renderete conto di quello che avete combinato». È urgenza pedagogica forse, mentalità da boomer, ma è della nostra testa che sta parlando.

Quando si uccide, nel cinema di Kieślowski, «le scene di allontanano dalla violenza, non ti viene voglia di imitarle». Bacchetta a raffica, Moretti, ma non da isolato: bacchettiamo di cuore con lui. Nella sua sceneggiatura originale per il film pensa di far impiccare Silvio Orlando, travolto dalla contraddizione tra l’orrore per i fatti di Ungheria e la linea togliattiana di fedeltà all’Unione sovietica. Ci ripensa con le parole di Italo Calvino nel cuore: «Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere».

E cambia in corsa la sceneggiatura: sotto la sede storica delle Botteghe oscure, oggi sostituite da un supermercato. La rivolta di base impone al Pci una svolta anticipata: «Unione sovietica, addio!» Questo significa salvare anzitempo Marx, Engels e l’utopia di un altro mondo possibile. L’altra Storia possibile, con il ritratto di Trotsky al posto di quello di Stalin, in una parata finale ai Fori imperiali (spoiler, attenzione!) che è la summa di tutto il suo cinema, presente, passato e forse futuro. 

L’ALTRA VERSIONE DI VELTRONI

Moretti sa bene che il cinema, più delle cronache di palazzo, più dei libri, è stata la vera molla di formazione politica della nostra generazione. Politica intesa come estetica=etica, come visione del mondo. La tentazione di confrontare Il sol dell’avvenire con Quando, l’ultimo parto cinematografico di Walter Veltroni, è diabolicamente irresistibile.

Un mio spiritoso amico, Tobia Cimini, ha scritto che Veltroni adatta il sé stesso romanziere al sé stesso regista per far luce sul sé stesso politico. Il bilancio di Veltroni è fallimentare. «Era sbagliata l’ideologia, non le persone», come proclama il buon Neri Marcorè. Il sillogismo è implicito: il Veltroni regista benedice il Veltroni politico. Le idées reçues, detta alla Flaubert, di Veltroni sono infinite: da Goodbye Lenin del 2003, allo sketch di Avanzi del 1993 con Antonello Fassari, a Meno dodici di Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno (Mondadori 2016) con fiction Rai di grande successo, Doc-Nelle tue mani. Ma i film di Veltroni a Cannes non li invitano. 

TERESA MARCHESI. Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.

Davide Turrini per il Fatto Quotidiano.it il 18 aprile 2023.  

Aridategli Lev Trotsky. Nanni Moretti continua ad inseguire la sua personale ossessione drammaturgica di una imperitura, traumatica, reiterata separazione sentimentale. Nel senso che vorrebbe fare un film sulla crisi di coppia (che però non guarderebbe nessuno e che infatti non prepara mai per intero). 

Eccolo allora, con arguzia spinta, ancora una volta deviare, mescolare, disorganizzare il suo nuovo film, Il sol dell’avvenire, sul versante politico nel tipico pastiche tragicomico morettiano. Quello delle “immagini brutte”, piatte, banali, condite da quello humor autobiografico per fan affezionati.

Sarà una forma di protezione per il proprio pubblico, ma i film di Moretti da vent’anni a questa parte si fatica a “guardarli”. Perché a forza di levigare l’aspetto estetico, a renderne gli ipotetici eccessi il meno gratuiti possibile (sul pippone che fa ad un regista di un film d’azione torniamo a breve), in scena rimane solo la terroristica convenzionalità di camicie, maglioncini e i primi piani di Nanni (tanti, davvero). 

Ne Il sol dell’avvenire, insomma, lo strazio della separazione dalla moglie (Margherita Buy) che travolge il protagonista, il regista Giovanni (Moretti), rimane carsicamente sottotraccia (vedi quel che accade al protagonista de Il Caimano), mentre sembra come continuamente divaricarsi e fondersi il film (nel film) che Giovanni gira nel 1956 in una sezione periferica del PCI a Roma dove arriva il circo ungherese Budovari, mentre a Budapest irrompono i carri armati sovietici a reprimere col sangue i moti di ribellione al sistema sovietico.

Così se Ennio (Silvio Orlando), il segretario della sezione, rimane trinariciuto e fedele alla linea del partito, Vera (Barbora Bobulova), sua moglie, che fa la sarta, va in ebollizione per i ribelli ungheresi. La ricucitura improbabile tra Ennio e Vera scorre in parallelo alla ri-composizione sentimentale impossibile tra Giovanni e sua moglie, peraltro produttrice storica dei suoi film ma che qui affianca la produzione claudicante del film del marito con la produzione di un action movie di alto rilievo commerciale che Giovanni detesta.

Se c’è un elemento peculiare prettamente formale ne Il sol dell’avvenire è proprio questa compenetrazione di dimensioni spaziali/temporali (il set nel set con le stanze contigue che vengono attraversate e le riprese in oggettiva dall’alto) per una narrazione puntellata dal solito ossigeno vitale di brani musicali italiani (Battiato, Tenco, ecc…) dove sciogliersi in un ballo corale e da quelli che oramai sono veri e propri sketch comici idiosincratici (vedi la gag sui sabot) dell’autore demiurgo slegati dalla narrazione principale. 

Un esempio è ciò che accade sul set del film d’azione dove il regista Giovanni blocca fisicamente con prepotenza l’ultimo ciak di pura violenza e sbucano i veri Renzo Piano, Corrado Augias e Chiara Valerio in chiave di comico disimpegno ma chiaramente lì a farci la moralina perfino su Apocalypse Now, nel caso non avessimo capito l’uso della violenza nel film di Coppola. 

Dall’altro lato c’è un dato politico da piccolo mondo antico, substrato nostalgico pietrificato, che nel suo anelito libertario di 67 anni fa (“la storia si fa con i se”, dice Giovanni, quindi nel suo film la base operaia comunista si ribella al partito) spinge ad un richiamo ufficiale per l’interesse ipotetico sul vetusto tema provato da casalinghe, braccianti e pastori di morettiana memoria.

Se si pensa che l’autore di Caro diario riesuma il trotskismo nel 2023 non più per il famigerato musical con il pasticciere (amici, non era una battuta, chiaro?) ma per usarlo come spuntata arma politica di cambiamento (dopo il ’56 ci sono stati il ’68 e il ’77 poi tutta la controffensiva liberista degli anni ’80, delle terze vie dei ’90, ma fa nulla) e anche come velato spunto liberatorio socio-individuale, si comprende quanto Il sol dell’avvenire abbia politicamente fiato cortissimo in debito di lacrimoni per la marcia trionfale ai Fori Imperiali con tutti i personaggi di questo film e dell’intera filmografia morettiana (tra gli altri Sastri, Carpentieri, Trinca, e pure l’ex moglie Silvia Nono) a reggere bandiere rosse e immagini di Lev Trotsky (sic), liberati psicologicamente e finalmente dal giogo dello stalinismo.

Infine, se si può scrivere, Buy, Orlando, Bobulova per nostra fortuna infondono una minima vitalità al film, perché come sempre la cristallizzazione della presenza morettiana al centro della scena diventa spasmodico esercizio di culto rivolto allo spettatore/fan fin quasi ad un annullamento di una vera e propria funzione registica dietro la macchina da presa.

Sull’impercettibile sottotrama buttata lì per star dentro al progressismo attuale con la coppia gay osteggiata dai cattivi comunisti e l’ultima inquadratura feticista con Giovanni/Moretti nel corteo che fa ciao ciao con la manina verso la macchina da presa cali per sempre un dignitoso silenzio.

Estratto dell'articolo di Michela Tamburrino per “la Stampa” il 17 aprile 2023.

Essere Nanni Moretti. Tutto inizia con Ecce Bombo, poi Sogni d'oro, La messa è finita, Palombella Rossa, Caro Diario, Aprile, La stanza del figlio, Habemus Papam e tanto altro. Nanni Moretti arriva a Che tempo che fa, il rotocalco di Rai3 condotto da Fabio Fazio, accolto come fosse il grande vecchio del cinema. Invece ha i modi di un ragazzo tranquillo e paziente. Presenta Il sol dell'avvenire che concorrerà per la Palma d'oro all'imminente Festival di Cannes.

Film molto morettiano?

«Mi sta bene, basta non si dica che è un testamento». Storia di un regista che sta preparando un film ambientato negli anni Cinquanta che parla di temi cari all'autore, della politica, di allora, del cinema, dei rapporti di coppia, di psicoterapia, una sorta di circo romantico. Il regista e il protagonista è Moretti che torna a due anni dal suo ultimo Tre piani. 

Dice Moretti a Fabio Fazio che lo incalza con «Sei diventato il tuo alter ego?».

E Moretti: «Ora sono più in ascolto. Il film ha avuto una lunga genesi. Anni fa ho cercato di scrivere un film ambientato nel 1956 e non è venuto. Poi ho girato Tre Piani dunque ho ripreso l'idea che però è solo una parte del film. Mi è piaciuto raccontare la storia di un regista che vuole girare quel film ambientato in quell'anno, l'anno dell'invasione sovietica dell'Ungheria. Giovanni non è un regista in crisi, anzi ne sta girando tre di film, tre film in uno e uno si avvicina al musical con canzoni italiane». 

(...)

Dice Fazio: «"Dì qualcosa di sinistra", oramai sembra appartenere a svariate ere fa». Moretti non concorda: «Perché? Molti elettori lo avrebbero detto negli ultimi anni. Forse non ora». Moretti regalando un dolore ai suoi seguaci, ha abbandonato la Vespa storica per un monopattino contemporaneo. «Non è proprio così, l'ho usato per il film. La Vespa di tanti film ora è in pensione al Museo del Cinema di Torino. Però ne ho un'altra».

Sguardo ironico e, nel suo film, un tributo su tutti, a Federico Fellini, al suo amore per il circo e alla Dolce Vita. Perché Moretti frequentava i set del Maestro: «Ogni tanto ci andavo, i suoi set erano un gran casino che lui alimentava». Domanda marzulliana di Fazio, «Il cinema ci aiuta a dire delle verità?». E Moretti: «Il cinema ci aiuta a ragionare sulla realtà e a sognare e se i sogni si realizzano, meglio sognare cose belle». Per finire, una impensata apertura: «Potrei fare serie tv il problema è che io mi prendo molto tempo per girare, invece quelle galoppano». Chissà, ora debutterà in teatro, altro tabù abbattuto e magari il prossimo passo lo vedremo in televisione.

Estratto dell'articolo di Alberto Anile per “la Repubblica” il 17 aprile 2023.

Il nuovo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, esce fra pochi giorni, il 20. Il primo, pochi lo sanno, è del 1973, cinquant’anni fa esatti, realizzato a diciannove anni. Moretti comincia a pensare al cinema appena finito il liceo Classico e archiviato un brevissimo tentativo teatrale. Vende la collezione di francobolli, compra una cinepresina super8 (costo: 100 mila lire), raduna amici e parenti e comincia a riprendere una manifestazione di metalmeccanici, alla quale in colonna sonora mette come contrappunto le chiacchiere di Mike Bongiorno a Rischiatutto e una radiocronaca di Sandro Ciotti. Moretti è subito anche attore, nel ruolo di un giovane di sinistra in crisi politica, cogitabondo a farsi beffe degli slogan di partito: «A me, delle future generazioni, che me ne frega?». Poi, a un militante più ortodosso di lui: «Ma siamo seri, ma che ci frega a noi dei desideri delle masse?», e si becca uno schiaffone.

Questo primo filmetto viene chiamato La sconfitta, titolo piuttosto sorprendente per un esordiente di belle speranze. 

Il secondo corto, Pâté de bourgeois, viene girato praticamente insieme, stavolta ironizzando sul cinema underground e sull’universo borghese: chiuso in bagno, seduto sul water, monta e rimonta una cinepresa sul treppiede ricevendo le visite di personaggi improbabili (un saccopelista, una donna che cerca un libro per un bambino di otto anni, un giocatore di baseball). E quando Fabio Traversa gli chiede cosa ci faccia in bagno, lui risponde sardonico: «È un simbolo!».

La realizzazione è casereccia ma Moretti è già riconoscibilissimo e in anticipo su se stesso: ecco l’amarezza frizzante di Ecce bombo, lo sguardo documentaristico di Caro diario, la perplessità autocritica di Palombella rossa. I due corti (26 minuti l’uno) vengono presentati nel giugno 1973, in una libreria del quartiere romano di San Lorenzo. Moretti li mostra in tutte le occasioni che trova; se li porta dietro anche a Venezia, sperando in un dibattito al quale partecipano in pochissimi. L’anno dopo gira ancora un altro film, stavolta di 52 minuti, parodia in costume dei Promessi sposi, realizzata fra le mura di casa e il lago di Bracciano.

(...)

Ungheria 1956: così il Pci restò dalla parte dell'Urss. Corrado Augias su La Repubblica il 23 Aprile 2023.

1956: Alcuni studenti scrivono per terra messaggi di solidarietà ai ribelli in Ungheria dopo la repressione dei carri armati sovietici  

Nell'ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, si immagina “la svolta”. Ma nella realtà il partito scelse di restare unito

L'ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, ha avuto qualche giudizio severo: eccesso di autocitazioni non sempre freschissime, compiacimenti, una cinefilia un po’ logora, morettismi. Giudizi raffinati, a volte anche troppo per chi al cinema va, come me, con innocenza cioè solo per guardare il film, e poco più. Il sol dell’avvenire l’ho visto quindi in un modo diverso da quello di chi durante la proiezione analizzava criticamente inquadrature e montaggio.

Dagospia l'11 luglio 2023. Da I Lunatici – Radio 2

Natasha Stefanenko è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'1.15 e le 2.30 circa. 

L'attrice, conduttrice televisiva ed ex modella russa naturalizzata italiana ha raccontato: "Notti indimenticabili della mia vita? Tante, mi piace chiacchierare con mio marito di notte, sentire i racconti di mia figlia che torna tardi, mi piace sentirla la notte, ha un suo silenzio meraviglioso, di pace, di tranquillità, ti accompagna nei pensieri. Non sono una mamma apprensiva, sono più amica e complice, mio marito è più preoccupato, in qualche modo vuole proteggere la sua bambina, papà è sempre papà, è più geloso, possessivo, anche se è esagerato, nostra figlia ha ventidue anni, ormai è grande". 

La Stefanenko racconta: "Sono nata e cresciuta in una città segreta, S.45. Controllata giorno e notte da guardie armate. Con pochi varchi per accedere. Eravamo vicino alla Siberia, la città era nascosta in mezzo ai boschi fittissimi, vicino a un lago artificiale. In questa città si produceva uranio arricchito per le centrali nucleari. Gli stranieri non potevano entrare, ma anche i non residenti dovevano avere dei permessi molto complicati da ottenere. Solo noi avevamo un pass che ci permetteva di entrare e uscire. 

La città era carina dentro,  ci abitavamo in 120.000, era tutto predisposto per una vita serena, solo che lavoravano con l'uranio e facevano delle cose che erano super segrete. Ancora oggi questa città è chiusa e io non posso entrarci. L'ultima volta ci sono stata 34 anni fa. Mi piacerebbe tornare, ci sono sicuramente ancora persone che conosco. In quella città ero considerata dalla società molto brutta. I ragazzini facevano le feste e non mi invitavano. Ero alta, magra, diversa dalle altre ragazze. Mi bullizzavano praticamente. Un po' mi dispiaceva, non c'era nessuna attenzione nei miei confronti, forse alte e bionde con il mio aspetto ce n'erano tante. Da noi era più apprezzata la bellezza mediterranea".

Nuotatrice, ingegnere metallurgico, a un certo punto diventa modella: "Per sbaglio ho conosciuto un ragazzo aspettando in fila per entrare in un fast food di Mosca che mi ha parlato di un concorso di bellezza. Stavo facendo la tesi, non mi interessava quel mondo, anzi avevo tantissimi pregiudizi sulle modelle che esibivano il loro corpo. Non era il mio scopo e non mi interessava. 

Poi mi sono capitate delle cose, ho fatto quel concorso di bellezza per alleggerire la testa. In famiglia è stato difficile accettare di lasciarmi andare in Italia, erano impauriti, ma non me l'hanno fatto pesare. Io ora ho un cuore russo e un cuore italiano. La mia famiglia è ancora in Russia. La guerra? Io e la mia famiglia siamo per la pace, loro soffrono moltissimo, non vedono l'ora che finisca tutto. Questo conflitto non ha senso, per noi sovietici poi è una guerra in famiglia. Sicuramente i miei antenati sono ucraini".

Sull'arrivo in Italia: "Sono arrivata nel 1993. C'erano pregiudizi pesanti nei miei confronti. Quando dicevo che ero una modella russa, gli uomini davanti facevano sorrisini. Cercavo di essere seria, fredda, non sorridere, non concedevo possibilità di avvicinarmi. Cercavo di mantenere le distanze. Sembravo una che se la tira ma non era così, era necessità, per mettermi nella posizione giusta. All'inizio non è stato facilissimo. Poi mi sono sempre sentita accettata e oggi sono felicissima di aver scelto questo Paese, di cui sono innamorata follemente".

E' uscito da qualche tempo il suo romanzo, "Ritorno nella città senza nome", edito da Mondadori: "E' un libro che non è nato ieri, l'ho scritto perché mi sembrava interessante far conoscere uno spaccato del mio Paese e della mia vita. Non è un'autobiografia, l'avrei trovata autocelebrativa,  ma un romanzo. Sono contenta perché in tanti mi dicono che è arrivato quello che volevo trasmettere. Volevo raccontare di una Russia all'inizio degli anni '90, in cui si perdevano equilibri e certezze ma si conquistavano anche tante libertà. Volevo raccontare come abbiamo vissuto quel cambiamento. Volevamo tanto la libertà ma eravamo completamente incapaci di capire cosa significasse davvero. C'era tanto smarrimento".

Estratto dell'articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 19 Giugno 2023. 

Natasha Stefanenko, ovvero bellezza, pensiero e tanti ricordi. Quelli che non ti immagini e affondano le radici nel bel pieno dell’epopea sovietica, anni nei quali l’attrice, conduttrice e ex modella russa, nata nel 1969, è cresciuta a Sverdlovsk-45, una città segreta, vicino a Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg) sui monti Urali, dove fu sindaco per molti anni Boris Eltsin che poi fu il primo presidente della Federazione Russa dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Al centro del suo primo romanzo Ritorno nella città senza nome (Mondadori), gancio grazie al quale nasce questa intervista, Stefanenko racconta del biennio 1991-1992, quelli della caduta dell’Urss. 

E ha scelto come genere per il suo esordio letterario il thriller dal profilo fortemente autobiografico. Il libro sarà al centro di uno degli eventi clou, la sera del 24 giugno prossimo, al “Passaggi Festival” in programma a Fano dal 21 al 25 giugno. 

È impossibile non rivolgere un pensiero alla scomparsa di Silvio Berlusconi che lei, immagino, abbia conosciuto nella sua carriera a Mediaset?

«Ho iniziato la mia carriera televisiva proprio con lui nel lontano 1993. Ricordo la prima volta che venne negli studi Mediaset. Non sapevo esattamente chi fosse, ma capii dal grande carisma che emanava e dal rispetto sincero che riceveva da parte di tutti, che doveva essere una grande persona, anche al di là della sua importanza. Mi spiegarono quando uscì che era il capo. Rimasi piacevolmente stupita. Con lui se ne va un uomo che è stato una colonna importante della storia d’Italia, molto conosciuto e apprezzato anche nel mio paese nativo». 

Natasha, passati i 50 anni diventa scrittrice. Come mai questa decisione?

«È una decisione che non ho preso proprio ieri. Sono più di dieci anni che scrivo ricordi della mia vita. Ho ritenuto possa essere interessante far conoscere uno spaccato di vita mio e del mio Paese e questo perché quando sono arrivata e mi trovavo a raccontare le mie origini, si mostravano tutti molto incuriositi. Sarà stato anche un po’ per la storia della città segreta. Tutti mi dicevano è una storia da libro. Così ho iniziato a scrivere, ma la pulce me l’hanno mesa le persone attorno a me. 

(...) 

Ha già pensato all’idea di scrivere una sceneggiatura tratta dal suo romanzo?

«Beh, potrebbe diventare anche una serie tv. Perché no? Ma non vorrei essere così presuntuosa. Vorrei capire prima se questa storia, all’85% autobiografica, interessi davvero anche al mio popolo italiano. Lo dico perché vivo qui da trent’anni ormai. E con la mentalità occidentale, mi rendo conto, che il posto dove sono cresciuta possa risultare davvero particolare. Ambientato in una città senza nome, con solo un numero. Circondata da mura e filo spinato in cui solo i residenti, con un documento da esibire ai varchi, potevano entrare e uscire. Per me era la normalità. Quasi mi sentivo libera, forse privilegiata di vivere in una città in cui non poteva succedere niente di brutto».

Poi è arrivata la libertà vera e la sua scelta di venire in Italia. Come è maturato tutto?

«L’apertura verso l’occidente è stata d’impatto. Qualcosa che ha stravolto le nostre abitudini e quelle che ci avevano sempre descritto come verità. Anche noi dovemmo riabituarci a vivere diversamente. A capire che essere liberi comporta dei rischi. Fino ad allora il governo decideva tutto per te. Io avevo studiato ingegneria metallurgica, tanto che quando arrivai in Italia i comici Gino e Michele mi chiamavano “il primo ingegnere non calvo” per sottolineare la stranezza.

In Urss studiavi, ti davano un lavoro. Sono andata via con la scusa di fare la modella, ma il mio vero interesse era solo vedere com’era il mondo fuori. È stato mio marito (Luca Sabbioni, ex modello anche lui, ndr) a spiegarmi che fare la modella era un lavoro. All’inizio ero io stessa ad avere pregiudizi. In Russia lo facevano pochissime persone. Non c’era nemmeno un giornale di moda. E le modelle erano considerate poco serie. Quando sono arrivata in Italia poi mi sono ricreduta». 

Quando ha iniziato a pensare al cinema e alla tv?

«Mai. Da piccolina non avevo mai pensato di mettermi al centro dell’attenzione o esibirmi. Ero la bambina più timida del mondo. Non era un mio sogno. Nella città segreta avevo fatto nuoto, come mia sorella. Lì dove vivevamo era nato Alexander Popov che ha rischiato e fatto carriera nel nuoto. Quello era il mio vero sogno. Nuotavo due volte al giorno. Alle sei del mattino ero già in piscina, poi andavo a scuola e poi ancora nuoto. Furono i miei genitori a farmi capire che sarebbe stato più giusto studiare...». 

Però poi in Italia di tv ne ha fatta...

«Anche il mio arrivo in Italia l’ho vissuto un po’ come un film. Ero impaurita. Non sapevo parlare. Avevo solo l’agenzia che mi ha prestato i soldi che poi ho ridato indietro con il mio primo lavoro. Fin quando Beppe Recchia, il regista di Drive In, mi notò in un ristorante e mi propose di fare la primadonna ne La Grande Sfida di Gerry Scotti. A chi mi chiedeva cosa facessi io ripetevo, con accento russo, che ero primadonna. Così la gente pensava pure che me la tiravo». 

E ha lavorato a fianco a molti big. Chi ricorda con maggiore affetto?

«Fabrizio Frizzi. È stato un grande. Fu lui che mi riportò in tv dopo l’esperienza da modella. Vide la pubblicità dello scaldabagni Riello, rimasta nella memoria di tutti. Che io nemmeno volevo fare... Quello spot esplose. Ci fu un periodo in cui tutti imitavano il mio gesto con la mano, così Frizzi mi invitò a fare la giuria di Miss Italia e poi mi fece fare un provino per un programma che si chiamava Per tutta la vita». 

Un pensiero pensiero sul conflitto in corso tra Russia e Ucraina ce l’ha?

«Tutte le persone pensanti vogliono la pace. In questo momento stanno morendo giovani russi e ucraini. Qualcosa che crea choc e dolore. Io sono per la pace e contro tutte le guerre. Anche quelle delle quali non parla nessuno». 

(...)

(ANSA l'8 maggio 2023) Natasha Stefanenko ospite oggi di Francesca Fialdini nello studio di 'Da noi… a ruota libera' su Rai1, si è raccontata in una lunga intervista, dove ha parlato della famiglia, della sua carriera, della sua infanzia in Russia: "Io sono nata nel pieno regime sovietico, ai tempi di Brest-Litovsk, una città segreta, infatti la città in cui abitavo non aveva un nome, perché per motivi militari, quasi per mezzo secolo, non esisteva sulla carta geografica. La città era circonda completamente da mura, dal filo spinato, dagli allarmi.

Controllata costantemente dalle guardie. C'erano pochissimi varchi per entrare. Anche i cittadini sovietici, per entrare, dovevano procurarsi i documenti che erano quasi impossibili da ottenere. Noi cittadini potevamo entrare e uscire perché avevamo un pass. A tutti gli altri era proibito'.

E ancora, la bellissima modella si sofferma sul suo passato di durissima repressione a scuola per l'ideologia sovietica anti-religiosa e fa una dolce dedica ad una persona a lei molto cara: "Mia nonna Lidia mi ha insegnato che Dio esiste. Mi sono battezzata a 40 anni grazie a lei. Con tanta pazienza mi ha insegnato, inoltre, l'arte della pazienza, perché lei diceva sempre: 'Nessuno sa quanto hai messo, tutti vedono il risultato''.

Natasha Stefanenko: «Mio marito Luca Sabbioni scommise di portarmi a letto in 48 ore. Le vacanze? Con Bertolino». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 29 maggio 2023.

La conduttrice russa si racconta a tutto tondo: «Sono nata in una città che non esiste»

«A Mosca i negozi erano tutti vuoti, la crisi era bestiale. Quando ho visto il primo supermercato a Milano mi veniva da piangere per l’emozione, tutti gli scaffali pieni, tutti quei colori. Da noi se arrivava lo zucchero ne prendevi 10 pacchi per sicurezza perché magari il giorno dopo non lo trovavi. All’inizio mi veniva naturale tirare su 10 vasetti di yogurt. Poi pensavo: vergognati, mettili a posto». Non solo perché viene dalla Russia, Natasha Stefanenko ha tutte le stimmate e la biografia da spia. È nata e cresciuta in un posto che non esiste, S-45, città che non era segnata nemmeno sulle mappe, a 250 chilometri da Ekaterinburg, sperduta tra i monti Urali, unica nozione di geografia per noi Occidentali che chiamiamo Siberia tutta quella enorme landa di terra che è fuori Mosca.

Cosa è S-45?

«Una città segreta che non esisteva sulla mappa geografica. Con la testa di oggi è una cosa inquietante a pensarci: era circondata da mura e filo spinato, allarmi ovunque, pattugliata da militari armati, ogni 100 metri c’era un cane lupo legato a un filo d’acciaio che correva a destra e sinistra. Si produceva uranio arricchito per le testate nucleari e mio padre lavorava lì. Città così ce n’erano una quarantina in tutta l’Urss, erano state volute da Stalin dopo la Seconda guerra mondiale. Città fantasma e segrete. S-45 fu costruita nel 1947, grazie ai detenuti dei gulag, che poi non potevano certo tornare a raccontarlo...».

Con gli occhi di lei bambina come vedeva la città in cui è cresciuta?

«Da ragazzina non vedevo questa inquietudine: la città era immersa in un bosco fittissimo, con la neve per 9 mesi all’anno, bianca, fiabesca, il lago lì vicino dove andavamo a pescare. La piscina era la mia seconda casa, c’era lo stadio dove praticare tanti sport: pattinaggio sul ghiaccio, sci di fondo, la slitta che adoravo, andavamo a vedere l’hockey. Io ero proprio felice. È stata un’infanzia e un’adolescenza di amore e divertimento totale, non mi è mancato niente, studiavo, mi divertivo. Mio papà sdrammatizzava con la sua ironia e autoironia, mia madre invece l’opposto, forse per questo stanno ancora insieme».

L’esposizione all’uranio non è esattamente salutare. Con gli occhi di oggi però non le fa paura pensare a essere cresciuta lì?

«Forse per questo sono così alta... A parte gli scherzi, all’epoca non c’era la conoscenza e la coscienza di niente. L’uranio non si vede e non si sente. Dicevano che tutto era a norma, controllato, ma non so; mi fa pensare il fatto che le donne andassero in pensione a 45 anni e gli uomini a 50, non credo perché il governo fosse così liberale... Mio papà oggi soffre di una malattia neurologica e sono convinta che sia dovuta all’esposizione all’uranio. Per me non mi preoccupo, non eravamo direttamente esposti, loro invece lavoravano in stabilimenti chiusi, nascosti sotto colline artificiali».

Eravate fantasmi.

«Sul passaporto c’era scritto che stavamo a Ekaterinburg, che è a 250 chilometri da noi, avevamo un pass, mi sentivo libera e privilegiata, era un posto molto fornito, potevi comprare qualunque cibo e costava tutto poco. Con 3 rubli mettevi in tavola la cena per un esercito, c’era un sacco di caviale e alla fine non ne potevo più. E poi era tutto gratis: luce, acqua calda, casa e ospedale gratis, le tasse non esistevano. Lo chiamavano il piccolo paradiso».

Si capiva già che avrebbe fatto la modella?

«Per niente. Mi chiamavano antennona, prolunga, giraffona, mi facevano sentire brutta e in effetti fino ai 17 anni sono stata proprio bruttarella, non solo per l’altezza. Ero praticamente albina, secca secca, la gambe due stecchini, molto complessata, non sopportavo lo specchio. Ero una bambina insicura, mi vergognavo di me stessa, non capivo come qualcuno avrebbe potuto volermi bene. Mi dicevo: va beh, fa niente, affronterò il mondo con l’intelligenza e lo studio».

Infatti si è laureata come ingegnere metallurgico.

«Non c’era un maschio, manco uno, che mi guardava, ero invisibile, trasparente. Quindi ho scelto di proposito una facoltà che frequentavano i maschi, solo il 10% erano donne. Pensavo: qualcuno mi vorrà bene, mi sceglierà».

Quando è cambiata?

«Quando sono andata a Mosca a fare l’università. È stato uno choc vedere dei maschi che mi guardavano. Che stress! Non ero abituata, non sapevo cosa fare, non riuscivo a gestire le emozioni; se mi guardavano in metropolitana pensavo di essermi dimenticata qualche pezzo di abbigliamento...».

La prima svolta è grazie alla vittoria nel concorso «The Look of the Year»...

«A Mosca era arrivato il primo McDonald’s, c’erano file chilometriche. Che poi a pensarci: gente che aspettava giorno e notte per mangiare una schifezza... Un giorno ci andai anche io, tre ore di coda e dietro di me un truccatore gay — una cosa incredibile da noi — che si proponeva di truccarmi e farmi andare al concorso. Per me era una proposta sminuente. Se mi dicevano che potevo fare la modella era come se mi avessero detto che potevo fare la prostituta, pensavamo che le ragazze che vendevano il corpo anche solo per una pubblicità erano sceme. Ma la fila era lunga, lui era simpatico e ha avuto tre ore per convincermi ad andare al concorso il giorno dopo. Così mi sono fregata da sola, ma è stato un trampolino».

L’altra svolta è l’arrivo a Milano. Cosa la colpì oltre al supermercato?

«L’Upim: andavo lì e uscivo matta. Mi perdevo nei negozi, rimanevo scioccata più per i colori che per la merce di cui erano pieni».

Quindi arriva l’incontro con il regista Beppe Recchia.

«Un’altra storia pazzesca. Ero in un ristorante con un amico italiano e si avvicina Beppe che non era proprio Alain Delon con tutto il rispetto: lui ha una certa età e mi fa capire che vorrebbe lavorare con me, ma pensavo ci volesse provare. A quell’epoca le modelle russe erano solo prostitute, quindi tutti pensavano fossi disponibile. Io mi comportavo di conseguenza. Ero rigidissima, di ghiaccio, tutti credevano che me la tirassi, gli uomini li fulminavo con lo sguardo».

Alla fine capisce però che è un vero provino per Mediaset, «La grande sfida», condotto da Gerry Scotti e Ramona Dell’Abate...

«A me non interessava, io volevo fare la modella, girare il mondo e poi tornare a fare il mio mestiere. Mi offrirono una cifra che non ricordo e io chiesi il doppio per farmi dire di no. Ma invece accettarono. Facevo la valletta muta, dovevo solo dire “da”, sì in russo. Io mi sentivo a disagio, volevo morire, per fortuna mia mamma e mio papà non mi vedevano. Gerry Scotti è stato meraviglioso, sempre super rispettoso, eccezionale, ma quando è finita mi sono detta: mai più».

La popolarità come arriva?

«Ho fatto spot per abiti, per profumi, per rossetti, per il Martini, ma la popolarità mi è arrivata grazie a uno scaldabagno. Il claim delle caldaie Riello era: non geli, non scotti più mano. Lì hanno iniziato a riconoscermi per strada».

Poi la chiamò Frizzi a «Per tutta la vita...?».

«Ma io non volevo fare il provino».

Lei finisce sempre per fare cose che all’inizio non vuole fare.

«All’epoca viaggiavo come una matta: Miami, Sudafrica, Venezuela, Maldive, giravo il mondo. Quando sento una modella che dice che il suo è un lavoro duro le darei una testata. Sei privilegiata, vedi posti pazzeschi».

Perché alla fine accettò?

«Mi convinse mio marito: hai 26 anni, come modella sei ormai vecchia, vai. Frizzi è stato una persona molto importante per me, una persona meravigliosa, perbene».

Tra i suoi partner professionali c’è stato anche Bertolino.

«Enrico è un fratello, è buffo, facciamo le vacanze insieme; grazie a lui, a sua moglie e alla sua associazione ho conosciuto il Brasile. È uno che ti tira sempre su di morale».

Ha frequentato il mondo della moda e della tv, quanta droga ha visto?

«Zero. Giuro. Mai visto niente e mai provata, già non sono calma di mio, se prendessi la coca diventerei un cavallo pazzo».

È sposata da quasi 30 anni con Luca Sabbioni, un passato da modello, oggi imprenditore nel settore delle calzature. Eppure non iniziò benissimo.

«Fece una scommessa. Mi avrebbe portato a letto nel giro di 48 ore. Anche lui aveva il pregiudizio: russa ma seria non era possibile. Perse la scommessa ma fu bravo a confessarmelo prima che poi tra noi succedesse davvero qualcosa. Mi rivelò che aveva scommesso una pizza, ma poi quando mi aveva visto in costume aveva aggiunto lo spumante. Orgogliosa come sono, se avesse vinto la scommessa e l’avessi scoperto, l’avrei salutato».

Entrambi modelli, entrambi laureati.

«In effetti una rarità. Luca mi ha colpito perché nelle pause delle sfilate lo vedevo con il Codice Civile in mano. In fondo anche io avevo il pregiudizio sui modelli».

Adesso per Mondadori ha scritto un romanzo, «Ritorno nella città senza nome».

«Scrivere un’autobiografia mi sembrava non solo noioso, ma anche fin troppo autocelebrativo. Così ho rielaborato la mia storia, raccontando anche la Russia all’inizio dei 90, anni intensi e con tante contraddizioni: volevamo la libertà ma non sapevamo cosa era; avevamo la sensazione che stesse per finire il mondo; ma forse stava per iniziarne uno nuovo; eravamo sospesi. Ora siamo aperti e poi? Che ne sarà di noi?».

Nel romanzo suo padre sparisce, è successo davvero?

«Non rivelo cosa è vero e cosa è fiction. Ma in questo libro l’85% di quello che c’è scritto è verità. Però non potevo raccontare tutto, se no diventava come Guerra e pace. Non per il contenuto eh...».

Estratto dell’articolo di Simona Marchetti per corriere.it sabato 23 settembre 2023.

Per cercare di superare il trauma infantile dell’abbandono del padre e, soprattutto, la morte violenta del suo amico Gianni Versace - assassinato davanti alla sua casa di Miami nel 1997 - Naomi Campbell si è rifugiata nella cocaina, diventandone dipendente al punto da collassare durante un servizio fotografico. «[...]Mi stavo uccidendo ed è stato molto doloroso», ha confessato la leggendaria top model nella docu-serie Apple TV+ «The Super Models», [...] 

«Immagino che quando ho iniziato a fare uso di cocaina, la cosa che stavo cercando di nascondere fosse il dolore - ha continuato la modella, ora madre di due figli - . La dipendenza è una tale cavolata…. Lo è davvero. Pensi: “quella ferita guarirà”, ma non è così. Può causare una tale paura e una grande ansia e mi sono davvero arrabbiata. Gianni era molto attento ai miei sentimenti, mi spingeva a uscire e ad andare avanti, quando non pensavo di avere dentro di me la forza per farlo, quindi quando è morto, il mio dolore è diventato molto forte».

Per cinque anni la droga è stata la sua schiavitù, fino al giorno in cui è crollata davanti a tutti nel 1999. È stata quella la scossa di cui aveva bisogno per decidersi a entrare in rehab e darsi una ripulita. [...]

Fulvia Caprara per la Stampa mercoledì 4 ottobre 2023.

Stavolta si cimenta con il fantasy, dirigendo una commedia lieve e perbene, Volevo un figlio maschio, in cui gioca con i generi mettendo in scena la vicenda di un padre (Enrico Brignano) circondato da figlie femmine, ma desideroso di un erede con cui condividere passioni maschili come il calcio e le macchine sportive. 

La verità, però, è che il cuore di Neri Parenti, regista dell'infinita saga cinematografica delle «vacanze», batte ancora per quell'epoca libera e sboccata, spensierata e caciarona, disinvolta e molto, ma molto, politicamente scorretta: «Ho girato 54 film, posso dire che, con l'ottica di oggi, almeno 53 non avrei potuti farli». 

L'ultima creatura (il 5 nelle sale con Medusa) è soprattutto il segno di un'imprescindibile necessità di adeguamento: «I film di un tempo non si possono fare più. Il fantasy comico era un mio sogno, lo spunto di partenza viene da me stesso, ho tutti figli maschi, mentre mia moglie avrebbe voluto femmine».

Quali sono i film che ha fatto e adesso non potrebbe rifare?

«Per esempio tutto Fantozzi. Villaggio aveva una moglie brutta e una figlia che sembrava una scimmia. Tutte cose che oggi non potrebbero nemmeno essere immaginate. Ormai siamo alla follia».

Perché?

«In questo film ho dovuto togliere la parola "ciccione" e sostituirla con "corpulento", per non incorrere in accuse di "body shaming". Sono cambiamenti imposti soprattutto dallo streaming, negli anni i film hanno avuto tanti padroni, prima erano i produttori, poi i distributori, poi gli esercenti, ora sono i proprietari delle piattaforme che impediscono l'uso di certi termini e poi, magari, su quella stessa rete, passa l'immagine di un bambino gettato nell'olio bollente. Posso capire certe necessità, le piattaforme si rivolgono a un mercato globale e sono costrette a fare un prodotto che vada bene per tutti. Il problema è che, con loro, non si può nemmeno discutere». 

In che senso?

«Non c'è scambio, si comunica con mail in cui vengono date direttive e cui viene raccomandato di non rispondere. Era meglio litigare con Aurelio De Laurentiis, almeno si poteva provare a dimostrare di aver ragione, c'era un confronto, adesso manca proprio l'interlocutore. Direi che di Aurelio ho nostalgia, era stimolante, anche quando non andavamo d'accordo». 

Perché oggi non è più pensabile un altro Vacanze a… ?

«A parte le scelte produttive, c'è il fatto che gli interpreti di quei film, che ne erano anche i capisaldi, oggi sono invecchiati. Da puttanieri… si sono trasformati in nonni e quindi certe storie non si possono più raccontare. Si è tentato un ricambio, che, però, ha dato risultati fallimentari. E poi nel periodo del loro massimo splendore i social non esistevano e questo ha mutato tutto». 

Come mai?

«I social hanno modificato la tipologia di spettatore cinematografico, a vedere i cinepanettoni venivano soprattutto i ragazzi, erano loro gli artefici dei grandi incassi. Adesso i ragazzi comunicano in altro modo e al cinema non vanno più». 

Se dovesse girare oggi un film vacanziero, che farebbe?

«I cinepanettoni erano ancorati a un certo clima euforico, oggi racconterei la storia di una vacanza, magari di quelle fai da te, in cui tutto va male, la casa affittata non esiste, l'aereo non parte. Il titolo potrebbe essere "vacanze da schifo"». 

Girare un film comico è diventata un'impresa.

«E' il genere che ho sempre praticato e quindi mi dispiace, ma è così. I film comici non si fanno, guardi Zalone, non li gira più nemmeno lui. Pesa anche la sparizione del dialetto, dovuta sempre a quel legame con le piattaforme, non è più immaginabile una storia in cui ci siano contrapposizioni tra napoletani, milanesi, romani, tutti con le proprie caratteristiche e il proprio modo di parlare».

(...)

L'accusa più reiterata era che, nei cinepanettoni, ci fossero troppe parolacce. Vero?

«Un po' sì, una volta Beppe Severgnini, andò a vedere un cinepanettone e contò le parolacce. Erano tantissime, aveva ragione. Un po' le scrivevamo noi nelle sceneggiature, un po' le aggiungevano gli attori, e poi dipendeva dai personaggi. Negli Anni 90 Christian De Sica faceva spesso l'imbroglione "parolacciaro", adesso fa il nonno, non potrebbe certo rivolgersi ai nipotini usando il turpiloquio».

La politica è da sempre oggetto di satira. Che cosa la fa più ridere dei politici di oggi?

«I politici fanno ridere, devo dire la verità. In Volevo un figlio maschio succede che, per magia, il protagonista si ritrovi padre di tre figli maschi. Ecco, se devo immaginare un incantesimo, penso a cosa potrebbe accadere se, da un giorno all'altro, la Schlein si trovasse al posto della Meloni». Quale sarebbe il primo cambiamento? «Sparirebbe Pino Insegno, tornerebbe Flavio Insinna». 

Qual è il suo titolo preferito nella saga delle vacanze?

«Di sicuro Vacanze sul Nilo . Un po' perché sono appassionato di Egitto, un po' perché l'avventura è sempre stato il mio genere preferito e lì c'era, anche se non avevo Harrison Ford. C'era Boldi...ma ringiovanirlo costava troppo, meglio fargli fare la plastica facciale».

 

Neri Parenti: «Avevo vent’anni e guidavo la Bianchina come Fantozzi. Sul set Filini moriva di paura». Storia di Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 2 gennaio 2023.

«Suonai al campanello. Un cameriere spalancò un cancelletto cigolante e due cagnacci neri mi corsero incontro abbaiando e digrignando i denti. Ero stato scelto per co-dirigere Fantozzi contro tutti, dopo l’addio di Luciano Salce, perché avevo 29 anni, dunque figura poco ingombrante, ma in compenso già rotto a qualunque catastrofe. Mi era stato assicurato che Villaggio era entusiasta di lavorare con me. Venni condotto in salotto. La moglie Maura passò a salutarmi ma poi sparì, lasciandomi solo. Dopo un bel pezzo, si aprì un ascensore e apparve Paolo, in sandali e caffettano. “Scusi, lei chi è?”. Mi presentai. “Ah, quindi sarebbe lei, Neri Parenti? Credevo fosse un altro”. “Se vuole me ne vado”. “Già che c’è, resti”».

Accoglienza festosa. Non prometteva bene, invece avete girato insieme una ventina di film, tra cui 7 della saga di Fantozzi. E condiviso scherzi terribili sul set. Come al povero Filini/Gigi Reder.

«Paolo era cattivissimo, eppure lo amavano tutti. Se scopriva un tuo punto debole eri finito. Gigi era fifone — aveva paura pure delle mosche — e superstiziosissimo. Se nel copione c’era una scena, che so, di loro due che scendevano da una scala, ci inventavamo che Paolo, dietro di lui, dovesse tenere in mano una lancia o una piccozza. “Eh, ma sei poi scivola mi ammazza”, gemeva lui, preoccupato. Una volta lo mandammo a prendere a casa da un carro funebre, sostenendo che in garage era rimasto solo quello. O gli facemmo trovare nel camerino un prete con paramenti e olio per l’estrema unzione».

Massimo Boldi, incauto, gli chiese consiglio prima del debutto al Derby.

«Aveva il terrore di impappinarsi. Paolo gli suggerì di masticare ghiaccio tritato con succo di limone prima di uscire in scena. “Vedrai, ti scioglie la lingua”. Invece gliela bloccò».

Durante le riprese di «Scuola di ladri», fu ancora Boldi, la vittima, più Lino Banfi.

«Villaggio si era appassionato al sushi: invece del cestino, si faceva portare il pranzo da un ristorante giapponese. Massimo e Lino, incuriositi, vollero provarlo. “Certo, domani lo ordino pure per voi”. Ci trovammo nella sua roulotte. Davanti a quei graziosi bocconcini serviti su minuscoli vassoietti pieghettati, come pasticcini, i due poveretti se li infilarono in bocca con tutta la carta. Stavo per fermarli, Paolo mi prese per un braccio sussurrando: “Zitto! Vuoi rovinare uno dei momenti più belli della mia vita?”. E rivolto a loro: “Vi piace, cari?”. “Insomma...”».

Quella volta che scappò in mongolfiera...

«Giravamo in Kenya. A nostra insaputa Paolo aveva prenotato un giro panoramico. Le riprese però tardavano. “Vado un attimo in bagno”, ci disse. Non tornava più. A un tratto lo vidi passare in cielo sopra la mia testa. Salutava con la mano. “Non preoccuparti, recupero lunedì”».

A rallegrarvi — suo malgrado — provvedeva il produttore esecutivo Bruno Altissimi, come racconta nel libro «Due palle di Natale».

«Si lanciava in francesismi improbabili, parlava a orecchio. Proponendo per la scenografia “le sedie tonnate” (Thonet), raccontando di aver viaggiato “sul Boiler 747” (Boeing). Un giorno mi diede appuntamento “a piazza Pioxi”. La cercai invano, chiesi lumi a un vigile, ai passanti. Mi soccorse un prete: “Forse intendeva piazza Pio XI”. Lui e Claudio Saraceni li avevamo soprannominati “Rubbà e Accattonà”, perché i soldi li metteva Cecchi Gori. Quando lo scoprirono, si offesero. Per farci perdonare millantammo di presentargli un socio arabo, tale Arraffat».

Suo padre Giuseppe era Rettore dell’università di Firenze, realizzò il primo censimento in Cina e creò il servizio opinioni della Rai.

«Un padre “domenicale”, non lo vedevamo mai. E quando era a casa ci trascinava per forza al maneggio di Cercina, noi quattro disgraziati recalcitranti, era un grande cavallerizzo. Mi tornò utile quando, da aiuto di Pasquale Festa Campanile, sul set de Il soldato di venturacon Bud Spencer, in Tunisia, dovevo dare direttive agli attori che giravano una scena a cavallo. La radio non funzionava, li raggiungevo al galoppo».

Quando partì per Roma, nel 1970, papà le requisì l’auto.

«Una Bianchina, la stessa di Fantozzi. Mi voleva professore universitario, io invece volevo fare lo sceneggiatore. Nel 1968 vinsi un concorso per apprendista giornalista, mi mandarono alla Rai. E da lì fui spedito sul set di Addio fratello crudele , primo film coprodotto dalla tv pubblica, con mansioni imprecisate».

E apprese le tre regole fondamentali.

«Me le declamò il direttore di produzione Giorgio Adriani: “Primo: cavi elettrici. Secondo, stai sempre trenta metri dietro la macchina da presa. Terzo: nun rompe er...”».

Con Charlotte Rampling però ebbe il suo momento di gloria.

«Era infuriata con la produzione perché non c’era acqua calda e aveva trovato un topo nella roulotte. “Ma che volequesta, ma chi la capisce?”, si interrogavano quelli. Di madre inglese, intervenni nella discussione. Adriani si illuminò: «Parli stragnero? Allora più da qua, stammi vicino tutti i minuti della vita tua”. Poi mi portò con lui a girare L’uomo della Manchacon Peter O’ Toole e Sophia Loren. E mi innamorai del cinema».

Fu l’aiuto di Steno, il papà dei Vanzina.

«Quando c’era qualcosa che non andava sul set, d’accordo con me, fingeva di arrabbiarsi e faceva una piazzata. “Me ne vado, basta!”. E spariva. Terrorizzati, tutti mi supplicavano di andarlo a cercare. E io partivo col motorino. “Ci provo, non so se lo trovo però, eh”. Lo raggiungevo in un bar. “Puoi tornare, sono preoccupati al punto giusto”. In Sudafrica, mentre giravamo Piedone l’Africano, ripeté la scenata, minacciando di ripartire per l’Italia. E mi costrinse, nottetempo, a scassinare i cassetti degli uffici della produzione per recuperare biglietti e passaporti».

Il suo primo film da regista — John Travolto… da un insolito destino — nel 1979, non fu un grande successo.

«Era proprio una schifezza. Nello stesso giorno uscì anche il primo film di Carlo Vanzina, Figlio delle Stelle, con Alan Sorrenti. Li proiettavano in due cinema attigui in piazza Giulio Cesare. Io e Carlo, seduti su una panchina, controllavamo l’affluenza. Non venne nessuno, né per me né per lui. A parte una comitiva di coreani che credevano di vedere davvero un film con Travolta. L’attore principiante, un cuoco, gli somigliava tantissimo. Alla fine il produttore Lombardo lo vendette in tutto il mondo, pure in Gabon».

Set movimentati, quelli dei Cinepanettoni.

«Ormai purtroppo un genere finito, per mancanza di attori, di soggetti e di soldi. Per il primo, Vacanze di Natale ’95, girammo ad Aspen, in Colorado. Non c’era neve, perciò salimmo a 4 mila metri. Solo che, non essendo degli sherpa, si restava senza fiato dopo tre passi. Per Natale a Miami beccammo l’uragano Katrina. Chiusi in albergo con i sacchetti di sabbia alle finestre, vedemmo volare automobili, lampioni, alberi».

Natale a New York invece, nel 2001, fu cambiato in corsa.

«Avevamo già girato mezzo film, ultime scene proprio a Fiumicino, prima di imbarcarci. Era l’11 settembre. Attentato alle Torri Gemelle. Non partimmo più. Aurelio de Laurentiis non si voleva arrendere. “Tra qualche giorno sarà tutto a posto, ve lo garantisco”. Gli attori insorsero. “Che ne sai? Hai parlato con Bin Laden?”. “Non ancora. Renata, mi cerchi il signor Bin Laden!”, ordinò lui alla segretaria, che non batté ciglio. “Certo, dottore, casomai lascio un messaggio”. Ripiegammo su Amsterdam e il titolo diventò Merry Christmas».

Per (1999) scritturò Maradona.

«È stata dura. Accettò ma alle sue condizioni: non girare a Napoli, farlo in pochi giorni, poter interrompere appena era stanco. Affittammo un appartamento a Roma. Fino all’ultimo non sapevamo nemmeno se si sarebbe presentato. Arrivò di notte, scusandosi con tutti. Ci fece disperare. Alla fine mi regalò la sua maglia dell’Argentina con la dedica “Al mio regista preferito”».

Natale sul Nilo (2002) incassò 28 milioni.

«Non riuscimmo a girarlo sul Nilo perché è come un’autostrada e non si può restare fermi, devono passare le altre navi. Così ci spostammo sulla riva del lago Nasser. Tramonto spettacolare davanti al tempio di Abu Simbel. E la voce di Enzo Salvi che discuteva animatamente con un tale di Ostia incaricato di comprare le cozze: “Mi raccomando, no quelle de profondità eh”».

Il mitico duo Boldi-De Sica.

«Con Christian nel 1975 avevamo girato insieme Conviene far bene l’amore, il suo primo film e anche il mio da aiuto regista di Pasquale Festa Campanile. “Tu che sei pratico, spiegami qui come funziona”, mi chiese. “Con me caschi male, non lo so nemmeno io”. Massimo era un po’ geloso di Christian perché, in quanto romano, era convinto che avesse più voce in capitolo, non era così. Per sicurezza contavamo le parole della sceneggiatura in modo che fossero uguali».

A un certo punto la coppia scoppiò.

«Non hanno mai litigato, anche perché fuori dal set non si frequentavano, però andavano d’accordo. Si separarono per un mero problema contabile. Boldi discusse con de Laurentiis per il rinnovo del contratto e, scontento, se ne andò alla Medusa. Aurelio si impuntò e nel 2006 fece Natale a New York solo con Christian, mettendogli accanto Massimo Ghini, Claudio Bisio, Sabrina Ferilli, Fabio De Luigi. E al botteghino vinse lui, incasso quadruplo».

In 52 film, quanti attori cani ha incrociato?

«Nessuno, li scelgo sempre io, se non sono bravi non li prendo. Il problema semmai c’è con quelli non professionisti, come Emilio Fede e Vittorio Sgarbi. Beh, loro un po’ cani erano».

Starlette raccomandate?

«Se non erano proprio eccelse, bastava scrivere una sceneggiatura semplice, battute facili, mica dovevano fare la Loren ne La Ciociara».

Barbara Costa per Dagospia domenica 22 ottobre 2023.

Ma le pornoattrici sono p*ttane? O è la p*ttana che recita? “Ecco perché pagano per f*ttermi”, ci rivela Nicole Doshi, pornostar da nemmeno due anni e già tra le superstar del settore. Nicole ha ogni carta in regola per parlare e di porno e di p*ttane perché lei p*ttana lo è stata, e fino al 2021. 

Nicole non se ne vergogna anzi se ne vanta, lei è stata m*gnotta di fila e una p*ttana di lusso, senza lo straccio di un m*gnaccia, e m*gnotta di fila sapete che si intende? Si intende prostituzione però di base, pagata poco da clienti non selezionati, ad esempio quelli che si presentano in un centro massaggi cinese e per pochi spicci vogliono l’happy end.

Nicole Doshi, vi ho già parlato di lei, è una cinese emigrata negli Stati Uniti per frequentare l’università. Posto in cui poco e nulla ha resistito, per andarsene a New York. Qui ha lavorato presso Starbucks un giorno, un giorno solo, perché ne è stata licenziata. Causa: imbranataggine a fare tutto! Nicole mica se l’è presa, non si è persa d’animo, e ha risposto a un annuncio di lavoro di un giornale cinese.

Mansione: massaggi a donne…

in età. Un posto con clienti antipatiche e boss peggio, pertanto un dì Nicole si è messa per strada, a New York, a distribuire volantini sui quali reclamizzava le sue specialità massaggianti. 

La vedete nelle foto quant’è f*ga, no? Gli uomini hanno risposto a frotte! Nicole, tipa sveglia, ha capito subito che era "massaggiando" gli uomini che poteva farci i suoi soldi! Peccato le sia venuta l’idea di portarseli nel centro massaggi per signore in cui regolarmente lavorava, per "farseli" a pagamento tra una cliente e l’altra. 

Il suo capo ci ha messo un niente a scoprirla e a cacciarla. Sicché, che ha fatto Nicole? Mentendo ai genitori in Cina inventandogli che campava “facendo l’agente immobiliare”, si è aperta un profilo OnlyFans pubblicizzandosi di professione m*gnotta, scegliendosi acquirenti raffinati, per elevarsi dal m*gnottaggio popolare all’escortaggio nobiliare. Già, ci sono clienti e clienti, e i più abbienti stanno in giacca e cravatta, e a New York in tanti stanno a Wall Street.

I nuovi danarosi clienti di Nicole sono brokers, sono nella finanza, è tutta gente con un conto in banca da paura, e a casa moglie e figli regolari. Perché un uomo di tal genere va con una escort, te lo spiega Nicole: “Sono uomini dalla vita stressante, e dal lavoro snervante, e che dalla moglie non trovano più "riconoscimento" sessuale. 

A me questi clienti dicevano un po’ tutti la stessa cosa: mia moglie è una brava madre, ma per il resto è insopportabile, a letto è la solita solfa, e non me lo succhia più”. O forse non ha mai succhiato o ingoiato con la sapienza di Nicole, che ha legato a sé clienti devoti alle sue abilità con la bocca.

Clienti che “spesso mi portavano i loro amici, quasi sempre loro colleghi, annoiati anche loro dagli stessi problemi coniugali”. Amici e colleghi che Nicole soddisfaceva in incontri tête à tête senonché plurimi, “in orge ma massimo tre uomini per volta”, mini orge che esigevano “p*mpini a ripetizione”. 

Altra qualità per cui i benestanti clienti sposati di Nicole la ricercavano era “la sottomissione: più di uno impazziva se recitavo ciò che lui voleva: di farmi trovare in una stanza nuda, e bendata e con le mani legate, e in doggy-style. Lui entrava nella stanza e mi prendeva da dietro senza smancerie”. 

Nicole ha smesso con l’escort nel 2021, puntando a Los Angeles e al porno. Non rinnega nulla del suo passato, non ce n’è motivo, a lei fare l’escort è assai piaciuto, e poi, come potrebbe? A navigar oculati, nel web, qualche traccia (foto) di una certa "Nicole asian escort in New York", con la sua faccia, e corpo, si trova ancora. Più di una sua avventura con suoi ex clienti sono ora in "Nicole Doshi: Unleashed", porno a episodi basato su esperienze sessuali – d’escortaggio – veritiere.

Tranne la doppia penetrazione, anale e vaginale, che la ex escort Nicole dai suoi clienti non si faceva fare. Neppure il suo foursome lesbico è preso dalla realtà: Nicole, da escort, non ha mai avuto clienti femmine. Purtroppo, dice lei.

Niccolò Fabi: «Portai la morte di Olivia sul palco. Sanremo? Vivo lontano da social e tv». Caterina Ruggi d'Aragona su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Il cantautore romano: «I miei capelli diventati bianchi? Sono sicuramente più sereno di 25 anni fa». La presentazione del suo nuovo progetto discografico per i 25 anni di carriera

«Cantare è stata l’ultima cosa che mi ha interessato», confida il cantautore romano Niccolò Fabi, ospite giovedì 19 gennaio a La Feltrinelli Red di Firenze (ore 18) per presentare (così come in altre 10 librerie italiane) il progetto discografico Meno per meno con cui festeggia 25 anni di carriera. Proprio così, è passato un quarto di secolo dal suo debutto sanremese con Capelli, che vinse il premio della critica per le Nuove Proposte. Quasi metà della vita di Fabi, che di anni ne ha 54, si è svolta in un equilibrio tra parole e musica, tra una ricerca lessicale che trae forza dal ricco bagaglio culturale (e la laurea in Filologia romanza) e una continua sperimentazione sonora che tende verso la libertà espressiva. Senza paura di affondare nelle pieghe più dolorose dell’esistenza. Ma senza neppure perdere occasione per festeggiare. È infatti un omaggio ai primi 25 anni condivisi – anima e voce – con il pubblico il disco uscito a dicembre con l’etichetta Bmg (tre anni dopo Tradizione e tradimenti) che contiene 4 inediti e 6 brani orchestrati assieme al maestro Enrico Melozzi e la sua Orchestra Notturna Clandestina per il concerto celebrativo all’Arena di Verona. 

Come ha vissuto l’Arena di Verona? 

«Non ricordo quasi niente di quella sera. Non sono adatto a vivere e metabolizzare eventi così rapidi e deflagranti. Preferisco le tournée, che richiedono movimenti, tappe e andamenti in cui hai il tempo di cambiare e migliorare. All’Arena c’era un silenzio religioso che più della grandezza dello spazio mi ha fatto sentire quella dell’affetto della mia “famiglia allargata”, con la quale ho sentito un’alta compenetrazione nell’ora e 15’ di assolo». 

Preferisce le librerie? 

«Non è questione di spazi, quanto della rapidità che non mi ha permesso di fermare i ricordi. In libreria avrò la possibilità di interagire con la gente in uno scambio diretto e informale. Io non amo i rapporti mediati, perciò sui social sono attivo solo per dare appuntamenti; vado poco in radio, ancor meno in televisione». 

Guarderà Sanremo?

«No. In casa non ho neppure la tv. Se partecipa un collega che conosco, a cui voglio bene, lo seguo indirettamente, attraverso quello che viene pubblicato. Ma non mi interessa la ritualità collettiva del programmone, di cui cambiano i presentatori, gli stacchetti, ma non il principio. Io tra l’altro mi immedesimo nei cantanti che si alternano sul palco, mi sento coinvolto: non riuscirei a partecipare al gioco dei voti e delle palette. Non parliamo dei talent». 

A proposito di sottrazioni, nel titolo del suo ultimo disco ci sono due Meno… 

«Ribadisco provocatoriamente la sottrazione, che preferisco nettamente all’addizione. Da notare, poi, che il risultato della moltiplicazione di due negatività è positivo, così come la mia musica, andando a toccare tasti dolenti, può creare effetti positivi, non solo su me stesso. Io scrivo quando nel mio mare c’è qualche increspatura: è un gioco masochistico, con aspetti terapeutici. L’aspetto migliore è l’effetto che ha sul pubblico».

 Nel 2010, per il compleanno di sua figlia Olimpia morta ad appena 22 mesi per una meningite, organizzò il megaconcerto di 12 ore “Parole di Lulù” (nome che ha dato anche alla fondazione che promuove progetti per l’infanzia). Dove trovò la forza di portare sul palco un lutto così grande da non avere neppure un nome? 

«L’ho fatto senza volerlo, mettendo al centro piuttosto che la narrazione, la rappresentazione di un uomo nelle sue varie sfumature, nei momenti più complessi e in quelli più esaltanti della sua esistenza, rendendoli ordinari: non banali, ma inseriti nel corso naturale della sua storia». 

Scattò un’empatia forte con il pubblico… 

«Non è stato certo il motivo per cui hanno iniziato ad amare le mie canzoni. Però da quando ho un pubblico che mi ascolta e mi segue la mia musica ha un valore diverso. Non so se continuerei a scrivere se non avessi qualcuno con cui interagire. Sicuramente scrivere canzoni perderebbe senso». 

Tra le nuove generazioni, quali sono i cantanti che le piacciono? 

«In questo periodo c’è una produzione molto ampia di musica italiana: questa è una cosa positiva. Se passi davanti a una scuola trovi forse il 99% di ragazzi che ascoltano in cuffia brani italiani, mentre alla mia epoca sentivano musica internazionale. Però i cantanti di ultima generazione sono legati alla rappresentazione del quotidiano che non mi ha mai intrigato. Piuttosto che un racconto di quello che succede per strada, con il linguaggio dei social network, preferisco una scrittura evocativa, come quella di Andrea Laszlo De Simone o di Emma Nolde, toscana». 

Ad aprile partirà la tournée teatrale “Meno per meno”: una via di mezzo tra l’evento all’Arena e gli incontri a tu per tu in libreria? 

«L’idea del tour è rendere itinerante il concerto di Verona, articolato in due momenti distinti: l’assolo con chitarra di un’ora e un quarto e l’altra ora con l’Orchestra Notturna Clandestina. Mi è piaciuto il meccanismo integralista che dal minimo passa all’estremamente grande e ho deciso di ripeterlo con la libertà di una tournée che mi consente di cambiare le cose strada facendo». 

Per la tappa del 15 maggio al Verdi di Firenze tornerà in Toscana, regione con cui ha un legame affettivo. 

«Mia madre apparteneva a una famiglia aristocratica decadente senese. Sono legato alla Toscana da ricordi elitari: le vacanze in campagna, vissute per lo più in solitudine, o a giocare con i figli dei contadini: avrei preferito andare al mare, in posti pieni di coetanei, ma quelle estati hanno influito sulla costruzione della mia personalità e mi hanno lasciato un forte senso di appartenenza della campagna toscana, in cui torno sempre volentieri». 

La sua musica è elitaria? 

«Sì: lo dico senza orgoglio né vergogna. È inevitabile che la famiglia, gli studi, le esperienze di vita e le persone che incontri influiscano sul nostro vocabolario. Io non posso essere popolare: questo è un dato tecnico». 

I suoi famosi capelli sono diventati grigi… 

«Bianchi, in verità. Ma che conta? Sono sicuramente più sereno di 25 anni fa».

Certi amori non finiscono. Il party, le nozze, i guai giudiziari: la storia d’amore tra Fabrizio Corona e Nina Moric. La storia d'amore tra Nina Moric e Fabrizio Corona – durata otto anni – è iniziata nel 1999 con l’incontro a un party e è finita nel 2007 con un burrascoso divorzio. Novella Toloni il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il colpo di fulmine a Los Angeles

 Gli anni della televisione

 Il "re" dei paparazzi e le nozze

 L'aborto poi l'arrivo di Carlos Maria

 Gli impegni e la crisi

 L'annuncio della separazione

 I fotoricatti e il carcere

 La scarcerazione e il ritorno di fiamma

 Il divorzio e la lunga battaglia legale

Prima di Belen Rodriguez Fabrizio Corona ha vissuto un altro grande amore, quello con Nina Moric. La modella croata e Corona hanno avuto una relazione fatta di alti e bassi. La grande passione esplosa negli anni d’oro delle feste in Costa Smeralda, le copertine, le serate e le paparazzate. Poi l’addio e la lunga battaglia giudiziaria a segnare la fine di un amore durato otto anni.

Il colpo di fulmine a Los Angeles

È il 1999 Nina Moric è all’apice del successo. Oltre a essere una delle modelle più richieste in passerella, la croata diventa un sex symbol mondiale grazie al video "Livin’ la vida loca", dove Nina è protagonista al fianco di Ricky Martin. Corona è già nella squadra di Lele Mora e partecipa a un party esclusivo organizzato da Roberto Cavalli a Porto Cervo. Alla festa c’è anche Nina, già incontrata un paio di anni prima a Los Angeles, e tra i due ci sono sguardi di fuoco per tutta la sera. Nina, però, è con il fidanzato e Corona deve attendere ancora il suo momento. Due settimane dopo l’evento, Fabrizio incontra la Moric per caso in un bar e senza pensarci due volte invita la modella fuori a cena. "Da quella sera non ci siamo più lasciati", rivelerà poi Corona.

Gli anni della televisione

È il 2000. La storia tra Nina Moric e Fabrizio Corona procede spedita. Il loro amore è solido e passionale e nei locali milanesi la coppia non passa inosservata. Nina passa dalle passerelle al piccolo schermo prima come valletta al fianco di Giorgio Panariello in "Torno Sabato" e Luca Barbareschi ne "Il grande bluff". Poi diventa co-conduttrice di "Convenscion" e "Uno di noi" sui canali Rai. Fabrizio Corona invece è uno dei volti di Inter Channel, dove lavora come conduttore per alcuni mesi. Ma Corona sogna in grande e si stacca dall'ala protettiva di Lele Mora per spiccare il volo.

Il "re" dei paparazzi e le nozze

Il 2001 è un anno cruciale nella storia di Fabrizio e Nina. Durante una cena romantica, Corona sorprende la Moric con un vistoso anello di fidanzamento e le chiede di sposarlo. Le nozze si celebrano pochi mesi nella Chiesa di San Marco a due passi dal quartiere Brera. Testimone dello sposo è Lele Mora. Nello stesso anno Fabrizio fonda la sua agenzia fotografica, la Corona's, e diventa il "re" dei paparazzi tra scoop e servizi fotografici di cronaca rosa rivenduti a quotidiani e settimanali.

L'aborto poi l'arrivo di Carlos Maria

Nina e Fabrizio non perdono tempo, il desiderio di allargare la famiglia è forte e la modella croata rimane incinta di due gemelli, ma a causa di un aborto spontaneo finisce in ospedale. Nonostante la dolorosa perdita a inizio 2002 la Moric rimane nuovamente incinta. La sua attività di modella, però, non si ferma e a luglio - un mese prima del parto - sfila a Roma per Gattinoni. Sulla passerella Nina sfoggia il pancione in un abito disegnato apposta per lei da Guillermo Mariotto e finisce su tutte le copertine delle riviste. Poco dopo, l'8 agosto, viene alla luce Carlos Maria.

Gli impegni e la crisi

È il 2004. Il lavoro assorbe Fabrizio Corona, che è sempre più al centro dei gossip e della cronaca rosa grazie alla sua agenzia. Nina si occupa di Carlos Maria e posa senza veli per il calendario della rivista "For Men" oltre a condurre due trasmissioni "Shake" e "Bravo Grazie". Le voci su una presunta crisi, però, si fanno insistenti. La modella e il "re" dei paparazzi si fanno vedere spesso insieme e non mancano di presenziare a eventi e feste, ma c'è chi è pronto a giurare che il rapporto sia al capolinea e la coppia non smentisce le indiscrezioni.

L'annuncio della separazione

Giugno 2005. Il settimanale Oggi dedica la cover story a Nina Moric che annuncia di volersi separare da Corona. "Fabrizio non sa amare" lo accusa la moglie in una lunga intervista esclusiva, dove parla dei motivi della rottura. Il narcisismo di Corona e il lavoro prima di tutto hanno minato il matrimonio e Nina non sembra voler tornare sui suoi passi. Pochi mesi dopo però, a inizio 2006, la coppia viene paparazzata all'estero, a Miami Beach, insieme con il piccolo Carlos a godersi il caldo sole della Florida. La separazione sembra essere scongiurata, ma Corona finisce nel mirino della giustizia.

I fotoricatti e il carcere

Maggio 2006, Corona è al centro dell'inchiesta sui fotoricatti ai vip del pm di Potenza Henry John Woodcock insieme a Lele Mora. Le accuse vanno dall'estorsione allo sfruttamento della prostituzione. Francesco Totti, Gilardino e altri calciatori famosi accusano Corona di averli ricattati con foto e servizi compromettenti. Un anno dopo, il 13 marzo 2007, Fabrizio venne arrestato con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'estorsione. Nina e Carlos rimangono da soli, ma per la Moric è l'occasione per porre fine a un matrimonio finito molto tempo prima. Lei stessa finisce al centro dell'inchiesta-scandalo Vallettopoli con l'accusa di riciclaggio, poi decaduta. Nina Moric finisce addirittura in ospedale, per una sospetta overdose, ma la modella parla di un malore causato dallo stress.

La scarcerazione e il ritorno di fiamma

Dopo oltre due mesi di carcere, a maggio 2007 Corona ottiene gli arresti domiciliari e si riavvicina all'ex moglie Nina Moric. A metà giugno, al settimanale "Di Tutto", Fabrizio racconta che dal carcere ha continuato a scrivere lettere d'amore a Nina e al momento della sua scarcerazione lei era lì ad aspettarlo. "Dividiamo i conti, ma subito dopo torniamo insieme e ci risposiamo. La separazione è fissata per il 21 giugno, ma nessuno si muove da questa casa", assicura Corona ma l'idillio dura poco e i due si dicono addio.

Il divorzio e la lunga battaglia legale

Fabrizio vive la sua vita fuori e dentro al carcere e dal 2009 ha cominciato una relazione con Belen Rodriguez. Quando nel 2012 riesce a ottenere l'affidamento in prova ai servizi sociali, però, al suo fianco c'è l'ex moglie, con la quale è tornato in buoni rapporti. Il divorzio definitivo tra Nina e Fabrizio arriva nel 2013 e da quel momento inizia un'aspra battaglia a colpi di accuse, recriminazioni e minacce, che si trascinano fino ai giorni nostri. Oggi Fabrizio Corona è tornato in libertà per avere scontato la sua pena ed è fidanzato con la giovane modella Sara Barbieri, mentre Nina è single, reduce da gravi problemi di salute.

Nina Moric, il figlio Carlos Maria e Fabrizio: storia a puntate di casa Corona. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023

Dai guai giudiziari di Fabrizio Corona alle liti di famiglia via social, passando per i quadri di Nina Moric. Ora è pace tra la showgirl-artista e il figlio, che studia Lettere e fa l’influencer sotto la gestione del padre

A raccontare Casa Corona da capo e per intero, ci vorrebbe non un articolo di giornale, ma una serie tv tipo i Sopranos. L’ultima è che madre e figlio, Nina Moric e Carlos Maria Corona hanno trascorso un pomeriggio insieme, il primo dopo tre anni, hanno assicurato. E pazienza se, nell’autunno 2021, il ragazzo raccontava che stava col padre di giorno e dormiva dalla madre di notte. Era durata poco, non è che proprio non si vedessero da tre anni, ma fa niente. Conta che, ora, madre e figlio fossero a favor di fotografi chiamati a Bergamo a immortalare l’esordio da artista della showgirl. Tema delle opere: i sette peccati capitali.

Rispetto ai Sopranos, più modestamente, i Coronas sono una serie a puntate trasmessa sui social e però perfino più estrema. Intanto, perché Tony Soprano è sì un boss della mafia ma è latitante e libero di far guai, mentre Fabrizio Corona certo non è un boss, però dal 2011 fa molto la spola fra il carcere e i domiciliari riuscendo a combinar guai in tutti e due i casi e pure evadendo dai domiciliari.

Poi, perché Carmela, la moglie di Tony, è come Nina, estranea agli affari del marito, però non è stata ripudiata dal figlio né è mai stata accusata di avergli rubato dieci euro dal portafogli. Infine, lì il figlio Anthony è un ingenuo adolescente, qui, il ventenne Carlos Maria è ora uno studente di Lettere e Filosofia, ora un influencer sotto l’attenta gestione del padre. Nei Sopranos, è solo Tony ad andare dallo psicanalista, mentre Fabrizio vanta uno psicologo e due psichiatri, una diagnosi di disturbo bipolare e borderline di tipo narcisistico associati a una depressione maggiore, ha accusato la moglie di «essere malata», e in più i due congiuntamente si disperano per una psicosi transitoria/acuta che affligge o avrebbe afflitto Carlos.

Alla fine, naturalmente, i Coronas sono più estremi dei Sopranos perché non sono inventati, ma sono veri, per quanto ex marito ed ex moglie siano soliti smentire uno la versione dell’altro. Tipo: 29 aprile 2022, la madre cerca il figlio, lui le dice di raggiungerlo a casa del padre. Versione di Fabrizio Corona: «La signora Moric è entrata col volto coperto, ha citofonato, ha rubato la spesa, ha rubato 10 euro dal portafoglio di Carlos, ha preso la Postepay, ha scaricato 25 euro e si è recata nella stanza dove sapeva vi erano i soldi della società: 50 mila euro in contanti. Li ha presi e se li è portati via, chiamando un taxi. Ha rubato in casa del suo ex marito davanti agli occhi del figlio». Al che, parte la spedizione per recuperare il maltolto, con accusa di evasione incorporata. Sempre lui: «Io non sono evaso, io avevo un permesso per uscire. Io, Carlos e la mia fidanzata siamo andati da Nina per umanità, per evitare una denuncia per furto con testimone oculare il figlio. Ma lei ha cominciato a urlare come una pazza e ha chiamato la polizia. La polizia è arrivata e non hanno trovato i soldi». Il giorno dopo, Moric fa un’intervista al Corriere e giura che è tutto falso. Di più: «Se vogliamo dirla tutta, i soldi li deve lui a me: sto parlando di una cifra a sei zeri». Così, lei annuncia che denuncerà lui per calunnia, lui annuncia che denuncerà lei per furto aggravato.

Passano tre giorni e sui social appare Carlos per confermare la versione del padre e dire che la madre ha preferito 50mila euro cash all’affetto del figlio. Che poi, questa storia dei contanti porta male ai Coronas: Fabrizio sembra non aver imparato niente né dalla volta che fu fermato in autostrada mentre lanciava dal finestrino banconote false, né da quella in cui la Guardia di Finanza gli trovò un milione e 700mila euro nel controsoffitto. Detto questo, l’altro giorno, madre e figlio si sono visti. C’è stato il riavvicinamento. Chi sa fino a quale altro colpo di scena.

I Coronas tengono banco sulla cronaca rosa da quando si sposano nel 2001. Lei è la modella croata del video Livin’ la Vida Loca di Ricky Martin, lui è un agente di fotografi per servizi patinati e non ancora di paparazzi. Al matrimonio a Milano, ci sono un centinaio di vip, e tuttavia la lista nozze fatta di un’unica, enorme, motocicletta, non raggiunge il plafond prefissato. Alla cronaca giudiziaria si passa nel 2007, quando lui fai i primi 77 giorni di custodia cautelare per la cosiddetta «Vallettopoli» perseguita dal Pm Henry John Woodcock e lei chiede la separazione. Carlos ha cinque anni, crescerà in prevalenza con la nonna paterna. Nel 2020, quando diventa maggiorenne, sceglie di vivere col padre, che è ai domiciliari. E questo è uno spin off della saga, fatto di appelli strappacuore della mamma via social, genere «Carlos non mi risponde più al telefono», e di accuse dei follower di spettacolarizzare i problemi di un ragazzo, di dibattiti a distanza alla Domenica Live di Barbara D’Urso, con Corona che accusa «Nina è malata», lei che dopo risponde «non vivrò nel tuo mondo disfunzionale».

Mentre vanno sprecate le paparazzate a tre che dimostrerebbero presunte riappacificazioni, viene poi la notte in cui lei fa un nuovo appello social: «Carlos soffre di psicosi transitoria/acuta. Deve essere curato. Chiedo la carcerazione del padre, perché Carlos deve essere salvato». Il figlio controbatterà su Instagram che il padre è il suo esempio. La madre: «Sapete cosa vi dico? Ma, alla fine, io cosa posso fare se il figlio è uguale al padre? Scusatemi. Ma vaffa…». C’è pure il momento in cui Fabrizio Corona ha un sussulto di sincerità e confessa che suo figlio, all’inizio, era «un progetto editoriale».

Al Corriere, dice: «La differenza fra me e gli altri che lavorano nel mio ambiente è che io ho il coraggio di ammetterlo. Era un progetto editoriale nel 2002, oggi nel 2020, non è più così. A quei tempi, non esistevano i social, però c’era la copertina, la sfilata col pancione, l’esclusiva del parto…». Alla fine, la vera notizia è che i tre non sono più su Instagram, o almeno, Nina ha ripulito il suo profilo, lasciando solo innocue foto posate, mentre Instagram ha bannato Corona e tutti i nuovi account che successivamente ha aperto, oltre che quello di Carlos dopo che lo ha usato il padre. Chi sa che dove non riescono giustizia, psicologi o servizi sociali, metta il the end la censura dei social.

Estratto dell’articolo di Rosanna Scardi per bergamo.corriere.it il 10 febbraio 2023

«Dipingere è bello, io creo, faccio l’amore con l’arte, metto la mia anima a nudo». Parole di Nina Moric che è passata dalle passerelle alle tavolozze. E, domani, dalla 16.30 alle 19.30, sarà nella Galleria Mazzoleni, in largo Belotti, sotto i portici del Sentierone a Bergamo, per presentare la sua mostra, «I sette vizi capitali».

 In esposizione, fino al 28 febbraio, sette opere realizzate con tecnica mista su tavola, in esclusiva per la galleria bergamasca, dalla modella e artista dalle origini croate. Che parla anche dell’ex marito, Fabrizio Corona, e del r apporto, non facile, con il figlio Carlos .

Nina, come è iniziata la carriera di pittrice?

«Lo sono sempre stata. Ci sono nata, ma non avevo mai messo a fuoco questa parte di me. Mio papà è un matematico, mia mamma un’economista. Io ho conseguito la maturità classica, poi mi sono iscritta a Giurisprudenza. Per me tutto è arte, anche i numeri. A 16 anni ho iniziato la carriera di modella e ho trascurato la mia vocazione. Ma non ero mai soddisfatta, né realizzata fino in fondo. Ero sempre in lotta, mi sentivo delusa, ce l’avevo con me stessa. Finché, qualche anno fa, mi sono trovata davanti a una tela (senza saper dipingere) e mi si sono aperte vie sconosciute».

 Come sono nate le opere che rappresentano i sette vizi capitali?

«Per caso. Non sapevo neppure cosa fosse la resina, ho preso due boccette senza guanti né mascherina e ho creato il primo piatto: lussuria, che è diventata una sacra trinità. In quel periodo ero immersa nella sofferenza, fisicamente sola. Grazie all’arte ho iniziato a lasciar andar via il passato, è stata una crescita personale. Mario Mazzoleni era venuto a trovarmi per vedere le mie opere e abbiamo progettato insieme l’allestimento completo dedicato ai sette vizi capitali».

 Ira, accidia, invidia, avarizia, superbia, ingordigia, lussuria: quale di questi peccati ha commesso?

«Tutti. Parlo non da sopravvissuta, ma come chi ha conosciuto e abbracciato dolore e solitudine. So come ci si sente quando si è in fondo. E oggi sono fiera di essere come sono».

 Nell’essersi sentita sola, allude alla lontananza da suo figlio Carlos?

«Mio figlio sta bene. Per me conta che sia felice. Non c’è nulla di più importante e che faccia stare serena una mamma».

 (…)

 Che desiderio ha oggi?

«Vorrei innamorarmi. Non mi è mai successo».

 Non è stata innamorata neanche di Fabrizio Corona?

«Assolutamente no, né di lui, né di tutti gli altri. Stiamo nelle relazioni perché ci autoconvinciamo di esserci innamorati. Le storie vissute non mi sono mancate. Ero lì con loro per una fuga e creavo scompensi. Magari non troverò mai l’amore. Però, ho trovato l’amore per me stessa che non ha prezzo».

Nina Zilli: «Io "licenziata" perché incinta dopo lo spoiler di Fiorello. Mai nuda sul web: sarebbe una vita faticosa». Anna Gandolfi su Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2023.

La cantautrice, 43 anni, è mamma da giugno: «Stavo trattando la partecipazione a un evento privato, quando è uscita la notizia della gravidanza mi hanno detto: cerchiamo altri, grazie». Con il rapper Danti vive all'Arco della Pace

«Abbiamo saputo che è incinta. Faremmo a meno di lei, grazie».

Hanno detto proprio così?

«C’è stato uno scambio di email il cui senso era: chiaramente la signora non ce la farà a tener fede all’impegno e noi cerchiamo qualcun altro. Ma avevano fatto tutto loro. Io ero basita. Stavo lì e pensavo: iniziamo bene».

Una riga tirata sull’ingaggio data la notizia della gravidanza. «Ci raccontiamo un sacco di cose: siamo avanti, è tutto cambiato». E invece le dimissioni in bianco (sui generis ma tant’è) le vedi anche se ti chiami Nina Zilli e sei una cantante da milioni di copie. Lei lo definisce «il mio primo reality check sulla maternità». Che poi sarebbe «la mazzata».

Ci dia qualche dettaglio.

«Gennaio 2023, aspettavo Anna Blue (che sarebbe nata a Milano il 2 giugno, ndr). Su Viva Rai 2 Fiorello e Fabrizio Biggio si lasciano scappare che sono incinta. Non lo sapeva quasi nessuno e sono rimasta male perché avrei voluto dare io la notizia, per fortuna almeno ai miei l’avevo annunciato. Vabbé, è passata. Non mi aspettavo è quello che è successo dopo».

Il «dopo» è la cancellazione di un contratto che arriva a Nina Zilli — pseudonimo di Maria Chiara Fraschetta, classe 1980, piacentina di nascita e milanesissima d’adozione — tra capo e collo.

Chi le scriveva?

«Nei giorni dello “spoiler” di Fiorello e Biggio stavo trattando la partecipazione a un evento privato. Gli organizzatori hanno contattato il mio staff spiegando di avere sentito la notizia, domandavano quando era previsto il termine della gravidanza. Con serietà, gli è stato comunicato. Ci stavano solo girando un po’ intorno perché è arrivato subito il: no, grazie. Ero incinta e questo evidentemente mi rendeva inaffidabile ai loro occhi. Se deve partorire non sarà pronta, cambiamo cavallo. Che gentilezza, che premura: si riposi. Hanno ritirato la proposta senza nemmeno sentire se davvero temessi di non farcela».

La sua reazione?

«Meno male che a fare da filtro c’era il management. Ero al quarto mese e mi toglievano il lavoro perché ero incinta come fosse la cosa più naturale del mondo. Non corre l’anno 2023? L’evento cancellato era fissato quasi un mese dopo il parto, io a due settimane dalla nascita di Blue - con il consenso medico, non sono incosciente - ero su un palco di Rimini. Pronta o non pronta, signori, avrei dovuto dirlo io: o no?».

Avrà perso un contratto, eppure si è abbondantemente rifatta. Per la cronaca: con il pancione ha anche girato un video del suo ultimo successo («Innamorata») e ha appena inaugurato la sua prima mostra. Assieme ai colleghi-amici Alvin e Raptuz ha lavorato per una esplosione in technicolor alla Cittadella degli Archivi. «La musica si è impossessata di me subito, del disegno mi era restato il pallino. Porto pezzi un po’ onirici e volevo assolutamente che la mia “prima” fosse qui, nella Milano che mi ha dato tanto».

E infatti la mostra si intitola «Miracolo a Milano».

«È il luogo dei sogni realizzati, che però ti devi portare a casa lavorando sodo: qui mi sono laureata, ho inciso il primo disco, è nata la mia meravigliosa bambina Anna Blue».

A questo punto vale la pena di annotare che sono le 15 e, quando arriva la telefonata del Corriere, a casa della cantante si sta per andare a tavola. «Fare quadrare tutto è un’impresa, sono andata un po’ lunga col pranzo. Eccomi, lascio l’insalata: tanto non si raffredda». In sottofondo, una cane che abbaia e i gridolini della bimba. 

Che mamma è Nina Zilli?

«Di corsa, di corsa, di corsa. Come tutte. Fortunata perché con il mio lavoro posso programmare e quindi essere molto presente. In ogni caso promotrice dei nonni patrimonio dell’umanità».

Tate?

«Sì, una. Corro in sala prove tra una poppata e l’altra. Si pensa a un cantante e lo si immagina seguito da chissà che codazzo di aiuti. La mia realtà è molto più basica: sono libera professionista e non posso fermarmi. A due settimane dal parto, con via libera del medico, ero su un palco a Rimini mentre Dani (il suo compagno, il rapper-produttore Daniele Lazzarin, in arte Danti) era con Blue a darle il biberon: ci alterniamo in tutto. A un mese e un giorno dal parto ero in pista. In barba a quelli che: “Non ce la farà, arrivederci”».

Non ci si aspetta che una cosa del genere capiti a una cantante ultra-affermata.

«Anche nel mio settore c’è strada da fare. I compensi delle artiste sono inferiori del 30% rispetto ai maschi, eppure io faccio un lavoro da maschi: spesso nel gruppo sono l’unica donna. Un percussionista (andava pure fuori tempo) mi guardava con sufficienza: è carina, canta, non vorrà mica anche suonare. Ho sentito di tutto».

Ma ha fatto molta strada.

«Se agli inizi non avessi incontrato Sara Potente, grande discografica tra tanti discografici, forse le cose sarebbero andate diversamente».

Ce li racconti, quegli anni.

«Studiavo a Milano, Scienze della comunicazione alla Iulm. Dividevo la casa con Ortensia Compans, che lavorava nella musica ma mai, mai le avevo fatto sentire miei pezzi: non volevo mescolare amicizia e lavoro. Allora avevo una band - Chiara e gli scuri - a Gossolengo, nel Piacentino, dove sono nata. Un giorno Ortensia entra in casa e mi trova con un demo: cosa è? Tu sei pazza a non proporlo in giro».

Ci ha pensato lei?

«Esclama: ho io la ragazza giusta. Ha portato il disco a Sara che oggi è un nome importante in Sony ma allora era appena entrata in Universal: aveva un ufficio piccolo piccolo. Ci credevamo solo noi: io, Ortensia e Sara (che poi, per dire, ha prodotto Mahmood). Con il budget più basso della storia — 15 mila euro, era il 2009 — è saltato fuori un Ep, Nina Zilli. Ai musicisti pagavo il pranzo chiedendo prestiti a papà e dicendogli: poi te li ridò».

Lì l’abbiamo conosciuta tutti con «50mila».

«È diventato disco di platino. Sì, i soldi a papà li ho ridati».

È vero che il chitarrista della sua prima band aveva liquidato il pezzo come «schifezza»?

«Ha usato termini più espliciti. Suonavamo in Val Trebbia, l’avevo arrangiato al pianoforte e c’era un giro un po’ noioso per la chitarra. Lui è sbottato e io pure: la band finisce qui. Il giorno dopo sono andata a incidere in un’altra sala, in un’altra vallata, con altri musicisti».

E lui si sarà mangiato le mani.

«Siamo tutt’ora amici, io e mr Pizza».

Mr Pizza?

«Il suo soprannome. Non dico come si chiama, si lamenta perché lo prendono ancora in giro per quella mossa».

Lo psichiatra Paolo Crepet ha detto che se le cantanti si spogliano per promuovere un disco sono alla frutta, «manca solo l’endoscopia». Commenti?

«Il nudo fine a sé stesso non porta a niente».

Tempo fa lei stessa ha esortato le colleghe  «a uscire la musica bella» e non altro...

«E hanno detto che ce l’avevo con Elodie. Una bufala».

Vi siete sentite?

«No, ma frequentiamo gli stessi giri e lei sa che non parlavo di lei. Io commentavo una tendenza più ampia. Nel medioevo digitale in cui stiamo si fa di tutto per conquistare un clic: se non hai talento, dopo l’ora di clic selvaggio sei disperso. Proprio in quei giorni, a fine 2022, una concorrente di X Factor si era piazzata nuda in metropolitana a Milano per promuovere un pezzo. Ci ricordiamo questo, non il resto...».

Anche lei è stata esplicita nel video «Sola».

«Raccontavo un momento di solitudine positiva, al di là dei generi. Per il regista il concetto si incarnava nell’autoerotismo, io l’ho seguito. Comunque non si vede niente, solo spezzoni di pelle. Ed era funzionale a esprimere il concetto del brano».

Le parole di Crepet sono state riferite a scatti come quelli di Arisa in cerca di marito, o di Victoria dei Måneskin.

«Il nudo di Victoria si inserisce nel filone del rock, è glam, Iggy Pop sta sempre nudo e nessuno si stupisce. Per il resto, e lo dico senza riferimenti specifici, c’è chi si spoglia sui social solo per fare parlare di sé: sono in tanti, è una libera scelta. Io non la farei perché mi pare una vita molto faticosa».

A proposito di social. Esperienze con gli hater?

«Una volta per un like a un commento di una giornalista che diceva che Mengoni avrebbe dovuto dedicarsi ai cantautori italiani, e che io avevo inteso come positivo mentre nella realtà era una critica, i troll mi hanno riempita di insulti su Twitter dopo un micro errore a un concerto. Sono rosiconi, non mi preoccupano: io ho incontrato i bulli veri, in carne e ossa».

A che età?

«Elementari, medie. Ero una nerd di Gossolengo, avevo “il baffo”, l’apparecchio per i denti. Mi seguivano, mi insultavano, mi hanno ricoperta di fango in senso letterale, mica metaforico. Che scuola di resistenza».

Poi si è trasferita a Milano.

«Da Piacenza arrivavo qui con il treno già da adolescente: andavo al mercatino di Sinigaglia, il buco al naso l’ho fatto in via Torino e mamma è impazzita. Mi sono trasferita stabilmente nei primi anni 2000, studiavo ma era un piano B. Il piano A lo conoscevo sin da piccola, a 5 anni guardavo il Festival di Sanremo e ripetevo: voglio andare lì».

Le sue case da universitaria?

«Con Ortensia in una traversa di viale Monza, prima tra Porta Ticinese e la Barona: oggi è un bel posto ma allora insomma...».

Milano è cambiata?

«Esteticamente ci sono molti miglioramenti. Certo, anche problemi».

I prezzi, ad esempio.

«Tra i ragazzi in tenda che chiedono affitti più abbordabili avrei potuto esserci anche io. Milano è cara perché è la città delle opportunità, tanta domanda e poca offerta incidono sul mercato. Credo nei corsi e ricorsi come Giambattista Vico: l’aria cambierà».

Sperando che nel frattempo i cervelli e i giovani non se ne siano andati tutti.

«Vero. Conosco molti musicisti che hanno scelto di spostarsi nell’hinterland».

Lei dove abita ora?

«All'Arco della Pace, sono nata nel verde e ho bisogno del parco».

Tema sicurezza.

«Negli anni Settanta a Milano esplodevano le bombe, riparametriamo un po’ tutto. Temo piuttosto la tendenza ad amplificare l’insicurezza: può causare situazioni brutte».

Sui social ha condannato la violenza commentando la vicenda della trans picchiata dagli agenti della polizia locale.

«Anche quel fatto, forse, è figlio del clima che si crea».

Riprenderebbe un borseggiatore con il telefonino?

«No. Piuttosto, per come sono, tenterei di salvare la borsa del malcapitato mettendomi a urlare a squarciagola come una pazza».

Nina Zilli è incinta: ma lo "spoiler" sulla gravidanza fa arrabbiare la cantante. Valentina Dardari l’11 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La cantante avrebbe voluto scegliere quando dare l’annuncio della sua gravidanza, invece la lieta notizia è stata data in anteprima durante la diretta Instagram di Fiorello

Nina Zilli, la nota cantante, è incinta e arrabbiata. Già, perché avrebbe voluto decidere lei stessa, com’è giusto che sia, quando dare l’annuncio della sua gravidanza. Invece, la lieta novella è stata data in anteprima durante una diretta su Instagram da Fiorello e Fabrizio Biggio. La coppia del programma “Viva Rai2” ha lanciato lo scoop lasciandosi sfuggire il ‘segreto’ riguardante la Zilli e il suo compagno Danti. La cantante ha poi confermato la notizia sui social, sfogandosi e togliendosi un sassolino dalla scarpa.

Lo sfogo su Instagram

Sul suo profilo Instagram, la 42enne ha scritto, commentando un video sarcastico condiviso con il compagno: "Questo è uno dei motivi per cui annunciare una gravidanza dovrebbe essere una scelta personale! Come ci si permette di dire una cosa simile al posto dei diretti interessati? Lascio a voi i commenti qui sotto, potete ringraziare Biggio insieme a noi". Nel video in questione, la coppia se la prende con Biggio per ciò che ha detto, con tanto di immagini del momento in cui il comico aveva dato la notizia. "Avrei voluto dirlo a voi, la mia famiglia virtuale, alla mia famiglia lavorativa (non lo sapeva ancora nessuno) e anche a quei cari amici che non avevo ancora visto, in un altro modo. Con la gioia di stupirvi, con la gioia di chi finalmente si toglie un piccolo segreto dal cuore e gioisce fortissimo per averlo condiviso con chi ama di più", ha poi continuato la cantante piacentina.

Il messaggio ai paparazzi

Ma la critica non si è fermata qui: "Poi un giorno parleremo seriamente della leggerezza e della mancanza di rispetto generica, nei confronti di noi donne, in salute, in malattia, in ricchezza o in povertà, in gravidanza o in solitaria". Tanto per chiudere in bellezza, la Zilli ha pensato bene di rivolgersi anche ai paparazzi che continuano a pedinarla per riuscire a fotografare per primi il pancino: "Messaggino per i paparazzi (sempre gentili con me, va detto) che ho sotto casa e che mi seguono anche al supermercato alla ricerca della pancia: aspettate ancora un po’! Giù dai palchi mi vesto troppo over size perché si possa vedere qualcosa". Nel video postato si vede anche un fotografo che la aspetta davanti al supermercato cercando di non farsi accorgere. Maria Chiara Fraschetta e Daniele Lazzarin, questi i nomi all’anagrafe di Zilli e Danti, si frequentano dalla fine del 2019 e solo l’anno dopo la loro relazione era stata resa pubblica. I due artisti formano una coppia molto discreta e hanno sempre cercato di proteggere il loro amore.

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 25 dicembre 2022.

[...] Nino D'Angelo [...]  

Nella Divina commedia dove si colloca?

«Non mi vedo in un inferno, non sono cattivo. Il paradiso mi piacerebbe. Un poeta - anche uno che non sa parlare, come me - che scrive d'amore va verso il paradiso». 

[...]

Dolore e gioia più grandi?

«Il dolore, la morte di mamma: era tutto, ho avuto tre anni di depressione. La gioia è la nascita dei figli e quella dei nipoti. Amo la famiglia, la difendo con i denti, sono sposato da 43 anni con la stessa donna. La felicità sulla terra sono i tuoi figli realizzati». 

E l'inferno sulla terra?

«Troppi poveri e pochi ricchi con tutti i soldi. Per i poveri non si fa nulla. Li si abbandona in fuga dalle guerre. Contano solo quando devono votare, si va nelle periferie per accaparrarsi i voti di chi non ha diritto alla scuola. La cultura è come l'aria e a loro fanno mancare l'aria. Io sono uno di loro, ma ho avuto persone da cui ho imparato». 

La povertà e difficile da vivere.

«Può essere poetica ma è difficile. Ero più contento della bici che mi comprava papà che ora che mi posso comprare la Ferrari. La povertà insegna che per essere felici basta poco. Sono stato fortunato: avevo passione, talento, mi chiamavano alle feste, il disco che ha venduto tanto prodotto con una colletta. Facevo le sceneggiate, Merola mi definì il suo erede ma era inarrivabile: m' inventai il pop napoletano, Nu jeans e 'na maglietta ».

I film con cui è cresciuto?

«Da ragazzino Franco e Ciccio, poi quelli con Gloria Guida, Edwige Fenech. Fellini, Scola, Leone: C'era una volta in America è struggente, Nuovo cinema Paradiso poesia pura. Sono partito dai musicarelli cuciti sulle mie canzoni, mi hanno dato popolarità. Il cinema non fu amore a prima vista, il set è duro. Ricordo il primo giorno di lavoro con Regina Bianchi: ero stanco, facevo dieci matrimoni al giorno, non sapevo la parte. Che fatica all'alba, il caschetto perfetto, due ore di trucco. Ma la licenza d'attore è arrivata con Il cuore altrove di Pupi Avati, mi ha insegnato tanto». 

E "Tano da morire".

«Vinsi David e Nastro cancellando il pregiudizio degli anni Ottanta.Il David me lo diede Sordi con una carezza, "bravo"». 

Alla Festa Pennac porta "Ho visto Maradona", lei gli ha dedicato un brano, "Il campione".

«Che dolore la sua morte. Ha fatto errori grandi che ha pagato con la vita. Veniva da una famiglia povera, ci siamo riconosciuti. Mi volle conoscere perché in città aveva visto i manifesti "A Napoli tre cose stano belle, Nino d'Angelo, Maradona e le sfogliatelle". A fine mese esce il video di Campione girato da mio figlio Tony».

Lei ha recitato in due suoi film.

«Ero più padre che attore, mi preoccupavo per lui. In La notte cercava un tassista: il patto era non lavorare insieme e gli presentavo tassisti. Mia moglie mi disse "non hai capito: vuole a te"». 

Con quale regista vorrebbe lavorare?

«Mi sarebbe piaciuto Pasolini, mi rivedo nei suoi ragazzi di vita. E Sorrentino, Garrone, Tornatore».

A se stesso ragazzino cosa direbbe?

«Credi nei sogni e vai a scuola. Un diritto che non ho avuto, a 13 anni aiutavo papà. Lo studio serve a non andare dietro al branco». 

Per essere "il poeta che non sa parlare" se la cava bene.

«Eh, ma quanti congiuntivi sbaglio?».

Gaspare: «Zuzzurro? Ho ancora il suo numero sul cellulare. All’Isola dei Famosi solo per pagare le bollette». Maria Volpe il 26 Settembre 2023 su Il Corriere della Sera.

Il comico Nino Formicola, in scena a Milano con lo spettacolo «La cena dei cretini», racconta i suoi 70 anni compiuti a giugno, i suoi 50 anni di carriera e i 10 anni senza il suo partner storico, Andrea Brambilla 

«Ho ancora il suo numero nel mio cellulare». Eppure sono passati 10 anni. Il 24 ottobre 2013 moriva Andrea Brambilla (in arte Zuzzurro), un dolore ancora vivo per il suo partner artistico Nino Formicola (in arte Gaspare).

Un ricordo impresso nella sua memoria?

«Avremmo dovuto andare in scena con lo spettacolo “Non c’è più il futuro di una volta”. Era ottobre e io andavo tutti i giorni all’Istituto dei Tumori a trovare Andrea. In giro per strada vedevo i manifesti con noi due, che pubblicizzavano il nostro cabaret. Era un dolore immenso. Ricordo anche che la sera prima che lui morisse, mentre mangiava il polpettone che gli avevo portato io, facevamo progetti su cosa fare l’anno seguente. Lì ho capito che lui sapeva che si stava avvicinando la fine, ma voleva lottare fino all’ultimo. Io e lui non abbiamo mai parlato della malattia, mai. come se non ci fosse».

Zuzzurro e Gaspare avrebbero festeggiato, di lì a poco, i loro 40 anni insieme, e 40 anni di condivisione artistica e umana, sono un mondo. È così Nino?

«Anche dopo la sua morte, ogni volta che mi veniva in mente qualche progetto di lavoro, pensavo immediatamente “Devo dirlo ad Andrea”. Noi siamo stati l’unica coppia che funzionava anche con i nomi scambiati: Zuzzurro e Gaspare oppure Gaspare e Zuzzurro. Nessuno penserebbe mai di dire Onlio e Stanlio».

Un lutto personale e artistico

«Sì, un dramma. Io, poi, ho sempre lavorato in gruppo, non sono Sandokan, ma Yanez. E mi sono trovato a 60 anni a cominciare una vita da solista. Non sapevo da che parte girarmi».

Chi l’ha aiutata a uscirne?

«Antonio Ricci è stato il primo a chiamarmi. E poi mi è stato tanto vicino Alessandro Benvenuti. Certo che se Andrea avesse visto che la sua morte era la seconda notizia del telegiornale avrebbe commentato: “Ma sono matti...”».

L’ultimo spettacolo insieme?

«”Tutto Shakespeare in 90 minuti”. L’ultima replica l’ho registrata, non so perché. Non l’ho mai voluta rivedere. Nessuna tv si è mai mostrata interessata, peccato. È uno show ancora attuale e c’è tutta la nostra comicità. Chissà magari la metterò su qualche piattaforma per farla vedere a tutti».

Insieme avevate realizzato «La cena dei cretini» di Francis Veber. Lei poi lo ha riproposto con Max Pisu.

«Sì, ancora adesso siamo in scena al Teatro Leonardo di Milano fino al 22 ottobre. Questa edizione è dedicata a lui».

Nello spettacolo «Non c’è più il futuro di una volta», la canzone finale diceva che voi non avreste mai partecipato a un reality show. Poi invece lei è andato all’«Isola dei famosi».

«Vero. Fu proposta anni prima a me e Andrea ma rifiutammo. Poi quando sono rimasto solo ho accettato. Perchè? Perchè sembrava che io fossi morto senza Andrea. A un certo punto dovevo dire al mondo: Signori io sono ancora qui. Sono solo, non sono Bonolis o Gerry Scotti, devo pagare le bollette. Certo mi sono chiesto anche io: dopo che ho preso in giro i reality, come faccio ad andarci?»

E che risposta si è dato?

«Ero imbarazzato ad accettare dopo tutto quello che avevo detto, ma alla fine è stato giusto così. Andare all’Isola come se fossi stato sul divano, a commentare da casa come fossi un telespettatore. Forse a casa la pensavano come me e per questo ho vinto».

Il 2023 un anno ricco di anniversari per lei: 50 anni di carriera

«Nel ‘73 ho cominciato a fare cabaret, con i miei amici, persone che poi hanno fatto il medico, l’ingegnere. E ci divertivamo molto. Poi ho conosciuto Andrea e nel ‘78 a “Non stop” c’è stato il vero debutto di Zuzzurro e Gaspare».

Avete esplorato teatro, televisione, emozioni. E tanti incontri. Come quello con Teddy Reno e Rita Pavone.

«Facevamo teatro con loro. Una sera venne Walter Chiari a vederci e finito lo spettacolo disse a me e Andrea: “Questa sera avete preso una sedia e vi siete seduti nella comicità”. Siamo svenuti di gioia».

E anche Dario Fo e Franca Rame

Loro vennero a teatro a vederci in “Andy e Norman” di Neil Simon, un nostro successo teatrale. A vederli in platea, ci prese il panico. Poi vennero in camerino e ci dissero: “Spiegateci i vostri meccanismi di comicità”».

In tv tutto iniziò ad Antenna 3

«Ci chiamarono a fare gli autori di Boldi e Teocoli e nacque una grande amicizia soprattutto con Teo: fumantino, ma una persona stupenda. Quando Berlusconi prese Boldi e Teocoli, fu proprio Teo a dire a Berlusconi di prendere anche noi due. Lavorammo come autori per “Drive in” fino a che Berlusconi ci offrì un contratto di esclusiva. Ricci ci fece fare gag sul palco sempre a “Drive in”, una grande chance per noi».

Il 12 giugno ha compiuto 70 anni.

«È il giorno in cui è morto Berlusconi, quindi non mi ha filato nessuno. Non ho fatto grandi feste ma sono soddisfatto. Io volevo fare questo mestiere e l’ho fatto, a un buon livello. Ci avrei messo la firma ad arrivare così a 70 anni. E onestamente non me ne rendo conto. Mi comporto come quando ne avevo 35. Dico ai miei amici: se esagero, abbattetemi».

Però una calmata se l’è data da quando nel 2009 è entrata nella sua vita Alessandra, prima fidanzata e poi moglie dal 2018.

«È vero. Sono sempre stato single ed ero un po’ in birichino. Ma con l’arrivo di Alessandra tutto è cambiato. Lei mi ha aiutato a tenere i piedi per terra e ad aprire gli occhi. Sono proprio cambiato: vado a letto presto e mi sveglio presto»

"Per divertirsi è necessario sovvertire logica e regole". Gli scherzi al bar, la discoteca, l'esordio con Arbore: "Il mio è un umorismo surreale, sempre imprevedibile". Eleonora Barbieri il 29 Novembre 2023 su Il Giornale.

«Forse tutto è nato al bar. Il fatto è che non avevo un lavoro, non che lo cercassi, eh... Ma si stava al bar ad aspettare chissà che cosa e, oziando, scattava lo scherzo insieme agli amici, la goliardia. Quando ho capito che quel fare gli spiritosi poteva essere studiato, e usato per fare teatro, allora ho cercato di farlo in maniera seria». Nino Frassica, messinese affezionatissimo alla sua città (dove è nato, come Antonino, l'11 dicembre del 1950), è un protagonista dello spettacolo italiano (protagonista con signorilità, come i veri grandi): dagli esordi con Renzo Arbore nei leggendari Quelli della notte e Indietro tutta! all'amatissimo Don Matteo (dove è il Maresciallo Nino, «un buono»), passando per decine di film (al momento ne ha in ballo due: uno con Greg e Massimo Ghini e uno con Pieraccioni) e programmi. Come Che tempo che fa, dove presenta il suo «Novella Bella» e dove, spesso, a finire tra gli incredibili libri più venduti è il suo romanzo, Paola. Una storia vera (Mondadori), così vera che è totalmente surreale...

Nino Frassica, dopo il bar che cosa è successo?

«Gestivo una discoteca con degli amici a Galati Marina, il locale Golden Gate, e intrattenevo al microfono. Ero un animatore dilettante, però facevo ridere. Era estate, alla fine degli anni '60. Poi, da studente, organizzavo spettacoli, scrivevo, recitavo. Calcavo il palco, insomma. Poi c'è stato il periodo delle compagnie locali e dialettali, e delle radio private, con programmini, testi... Inventavo. E anche la moda del cabaret, che è più snello, perché non c'è solo prosa».

E Arbore?

«Non c'erano i social o altri modi per farsi notare: l'unica possibilità era fare uno spettacolo a Roma e mostrare di avere un senso dell'humor moderno e surreale, proprio come quello di Arbore. Ma come? Io mi sentivo già arboriano, quindi lo cercai».

Lo trovò.

«Avevo scoperto dove abitava, quindi risalii al numero di telefono e iniziai a lasciargli dei piccoli messaggi sulla segreteria, per farlo ridere. Alla fine mi chiamò per conoscerci. Lì è nata la nostra collaborazione, e sono passato da dilettante a professionista».

Com'era lavorare insieme?

«Era l'ambiente giusto per me: a Quelli della notte eravamo un gruppo di comici e non pensavamo agli ascolti o a fare qualcosa che tutti apprezzassero o capissero. Facevamo un umorismo d'élite, quasi, però il risultato era un successo, sia di critica, sia di pubblico. La grandezza di Arbore è proprio questa».

Che cosa le ha insegnato?

«Il distacco, un certo modo di stare davanti alla telecamera, il non pensare a un copione già scritto bensì a crearlo, a viverlo. È stata la mia prima scuola: essere autore e non solo attore, inventare».

Per riuscirci che cosa serve?

«O uno sa improvvisare, e ha un repertorio... Significa inventare in diretta, sul momento, qualcosa che fa ridere».

Che tipo di comicità è la sua?

«Non quella classica, basata sul doppio senso o la critica di costume, quella che parla della suocera, dei telefonini, o degli insuccessi con le donne... La comicità surreale va oltre: è imprevedibile».

Scardina la lingua?

«Sono un vandalo. Rovino le frasi fatte, i luoghi comuni, quello che tutti pensano, e vado per un'altra strada».

Come le viene?

«Col tempo, c'è del mestiere. Non ci sono imitazioni, è più l'atteggiamento: quello di uno che rovina».

Che cosa?

«La logica e il modo normale di dire le cose. Per esempio, a Novella Bella sono il direttore del giornale, e anche il vice, e mi sono nominato da solo. È per non stare al gioco, alle regole. Come quando cambio le rubriche: l'oroscopo, il quiz, la poesia, il gossip... sono tutti ruoli diversi, restando lo stesso. Una cosa alla Frassica: questo voglio fare».

Perché?

«Perché voglio far solo ridere, e divertirmi pure io».

Con chi si è trovato meglio?

«Con Arbore. E poi con Fazio, Chiambretti, Conti: mi impegno e lego bene con tutti. Da Fazio mi diverto, posso osare come con Arbore: non c'è il problema di questa battuta non la capiscono. Mi sento libero, mi butto».

Senza limiti?

«I limiti ci sono, certo. Quelli del buonsenso».

Chi le piace?

«Dei classici, quelli fondamentali per me sono stati Cochi e Renato, e i quattro di Alto gradimento: amavo quel genere e, in parte, lo faccio. Per la recitazione, Totò, Peppino e i comici napoletani, per il modo di porsi e essere attori. E, come spettatore, amo Verdone e la commedia all'italiana, Sordi e Abatantuono».

Lavora tanto?

«Sì. Mi diverto...»

Fra i programmi che ha fatto, qual è il suo preferito?

«Indietro tutta. Perché era un varietà dove, per un'ora, senza niente di scritto, gestivo la puntata con Arbore. Era il mio posto: i colori, i rumori, l'allegria... Come il tavolo di Fazio: un mondo particolare. Lui mi fa da spalla, che è una figura importantissima: mi viene appresso e scherza con me».

Che cosa vorrebbe fare?

«Una cosa a cui penso da anni è una sit com scritta e diretta da me, dove si improvvisa, con persone che sanno improvvisare, che non è recitare. Non per forza conosciute: persone che sappiano gestire la comicità».

Far ridere si impara o è una dote?

«È una dote naturale, ma c'è chi la trascura, e chi la coltiva. Mio fratello è più spiritoso di me a cena, ma finisce là. Invece, se una cosa fa ridere, io voglio capire perché, per riproporla: la studio, la teatralizzo, ne ricreo il contesto, la situazione, i tempi... Questo è anche il segreto della bravura di Verdone, per esempio».

Come funziona?

«Usiamo la stessa macchina fotografica: io fotografo tipi, cose, situazioni, parole o movimenti strani, e poi li riporto».

Fra le sue, la battuta preferita?

«Quando dico: Come ti chiami? Giovanni. Ah, mi dispiace. Non è una battuta: è uno spostare la logica, uno stravolgere il linguaggio. E, se ridono anche gli altri, vuol dire che qualcosa ho rovinato».

Non è solo uno strafalcione.

«No, è una strana logica: rovino, rovino... La storpiatura non l'ho inventata io: ci sono il teatro siciliano, Totò, Peppino, il cabaret. Io la uso perché la maschera del tipo scombinato confonde una cosa con l'altra».

È vero che il suo romanzo, Paola, diventerà un film?

«Sì, sì. Si gira l'8, non si sa quando. La protagonista non c'è però: lo vuole fare Matteo Garrone, e ha tolto completamente Paola».

Però si fa?

«Eh he, sì. L'ha fatto già».

Mi fa un oroscopo?

«Amore bene. Lavoro bene. Salute grazie. Ciao».

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per corriere.it sabato 18 novembre 2023.

In attesa di ritrovare Hiro, il loro gatto Sacro di Birmania sparito nel nulla a Spoleto il 26 settembre scorso, Nino Frassica e sua moglie Barbara, dieci giorni fa […] hanno adottato una gattina tigrata e trovatella che hanno ribattezzato Hori, non a caso l’anagramma di Hiro, per provare a lenire un po’ la nostalgia. 

Quando Hiro scomparve, il 26 settembre, successe una tragedia. Frassica, sua moglie e la figlia di lei, Valentina, si rivolsero ai carabinieri di Spoleto esortandoli ad andare a guardare nella casa vicina, in via Leoncilli, sicuri che fosse entrato lì passando da una finestrella sul tetto.

Così quando i militari bussarono ai vicini, la signora Nadia, al primo piano, all’inizio non voleva aprire: «Ma voi siete i carabinieri veri o quelli di Don Matteo?». […] anche Raoul Bova (Don Massimo) e Maurizio Lastrico (che nella fiction è il pm Marco Nardi) si misero subito a cercare Hiro dalle parti del Duomo. E sul momento […] tutti gli spoletini prestarono aiuto cercando di far felice l’attore messinese, famoso in città anche per talune bizzarrie, come quando in pieno febbraio, anni fa, svegliò il portiere di notte dell’albergo per chiedere una fetta d’anguria con cui nutrire il suo coniglio bianco. […] 

Ma Frassica, sparito Hiro, era davvero disperato tanto che in un post su Instagram (ha 290 mila follower) annunciò una ricompensa di 5 mila euro per chi l’avesse riportato a casa. […] Spoleto all’improvviso si popolò di gruppi di cercatori di gatti bianchi, comitive arrivarono da fuori munite di croccantini, si alzarono in volo dei droni, l’educatore cinofilo Giovanni Buttà, ammiratore di Frassica, partì dalla Liguria col suo cane molecolare Bull, però la bestiola purtroppo non riusciva a fiutare nulla […]

Solo che i rapporti con gli spoletini poi si son guastati e ieri l’avvocato Fabrizio Gentili ha preparato una denuncia-querela contro l’attore […] I reati ipotizzati sono istigazione a delinquere, diffamazione e stalking, dopo che Frassica in un altro post a metà ottobre raddoppiò la ricompensa (10 mila euro), indicando però anche un indirizzo preciso. E cioè la casa di due poveri pensionati in piazza Campello (ignari di tutto) che da allora però […] vivono barricati e sconvolti dalle minacce ricevute dai fan.

Il pm di Spoleto, Alessandro Tana, ha già indagato per stalking e diffamazione la moglie di Frassica Barbara Exignotis e la figlia di lei Valentina per aver perseguitato all’inizio un’altra persona, Emanuela Conti, con insulti e perfino sassate, secondo la denuncia presentata dalla donna. Convinte che Hiro fosse a casa sua, in via Leoncilli: «Vollero guardare pure dentro il congelatore — ricorda la signora — E pensate che io sono allergica al pelo di gatto, mi fa starnutire...». […]

Barbara Exignotis, la moglie di Frassica: «Prendo Xanax e Prozac per superare la scomparsa del nostro gatto». Renato Franco su Il Corriere della Sera venerdì 17 novembre 2023.

L’ex attrice hard (che voleva candidarsi con An), ora denunciata dai vicini di casa per stalking, si sposò con Frassica vestita (come lui) di nero: raccontava che grazie ai film a luci rosse guadagnava 1 milione di lire a settimana

Vestita di nero lei, vestita di nero lui: il matrimonio tra Barbara Exignotis e Nino Frassica sembrava un’idea della famiglia Addams, un funeral-style per esorcizzare un legame che non sempre è eterno perché di sicuramente eterno c’è solo la morte.

Era il 2018, ma già da 10 anni erano una coppia con 25 anni di differenza, lei del 1975, lui del 1950. Ma di certo non sono tipi convenzionali. Entrambi attori, comico dell’assurdo lui, star dell’hard lei perché i suoi inizi erano stati a luce rosse: recitava con il nome d’arte di Blondie in film dove il ruolo dei costumisti non era previsto.

Origini greche (così si scriveva negli anni 90) che vent’anni dopo si sono trasformate in ascendenze ungheresi, Barbara Exignotis — ora denunciata dai vicini di casa per stalking — è registrata all’anagrafe di Cernusco sul Naviglio (Milano) e in un’intervista ad Alessandra Arachi su 7 nel 1997 si raccontava così: «Sono sempre stata un’esibizionista. Quando ho finito la scuola ho fatto un corso di grafica pubblicitaria, ma non ho trovato lavoro. Poi ho fatto un corso di parrucchiere e il lavoro l’ho trovato subito ma non era il massimo. Invece con questo lavoro guadagno molto meglio, anche 1 milione a settimana ormai».

Aveva deciso di candidarsi alle elezioni amministrative di Milano nelle liste di Alleanza Nazionale («io di politica non ci capisco niente ma mi trovo d’accordo con tutte le idee che An ha sul sesso»). Ma An aveva idee diverse sulla politica e non se ne fece niente. Andò meglio con la televisione, quando le venne l’illuminazione di mettere in piedi Stramisex (trasmesso su una rete locale lombarda), una copia di Stranamore ma in versione porno: «Andavo in giro per la Brianza a raccogliere video-annunci erotici con un camper che sembrava quello di Alberto Castagna».

Delle luci rosse a un certo punto si stufa e passa alle luci più sobrie del teatro. Ed è qui che conosce Nino Frassica. Molti spettacoli insieme, zero interviste, la ricerca — sembra voluta — di un cono d’ombra. Fino alle ultime vicende (il gatto scomparso) che la riportano alla ribalta e i social che diventano un’arma a doppio taglio perché è un attimo fare una diretta Instagram e poi pentirsene: due settimane fa si è dovuta scusare per «le frasi indicibili» («invece di tanti ebrei non potevano deportare lei?») rivolte alla vicina (rea di aver cacciato il suo gatto).

Un momento di lucidità abbagliata con un’attenuante, perché — la sua giustificazione — per superare questo momento difficile anche la ricetta è stata hard: «Prendo Xanax e Prozac e bevo birra». Un rimedio fai da te non sempre efficace.

Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per “la Stampa” il 5 Luglio 2023.  

(...) Nino Frassica è più riservato di quanto sembra, forse anche perché la sua ricetta di risata sicura si basa sulla negazione di tutto, anzi, sulla distruzione: «Sono un vandalo della comicità, rovino le frasi fatte, i detti ripetuti, i ragionamenti normali. Non ci sto ad accettare la logica così com'è». 

(...) 

Le piace di più la tv?

«Mi piace molto il tavolo di Fabio Fazio, che inizia tardi, senza il problema di doversi rivolgere a un pubblico generalista. Grazie a Fabio l'atmosfera è alta, intelligente, lì arrivo e oso, senza pormi problemi». 

Dalla prossima stagione il programma non sarà più in Rai, come ha vissuto tutta la vicenda, è stato un trauma?

«Direi che trauma è una parola grossa. Avevo iniziato a sospettare già da un bel po' che qualcosa stesse succedendo, non arrivavano chiamate né conferme, così Fazio, giustamente, ha deciso di non restare a spasso, di conservare la sua libertà, facendo le stesse cose, ma in un altro posto. E sarà così anche per me». 

Qual è stato il più importante incontro professionale?

«Renzo Arbore è il mio padre artistico, devo tutto a lui. Anche se, in fondo, a sceglierlo sono stato io».

In che senso?

«Quando si lavora nello spettacolo è sempre così, si sceglie. Non a caso sono andato a bussare alla sua porta, avrei potuto farlo con Pippo Baudo o con Antonello Falqui, ma ho sentito che dovevo rivolgermi a lui. E lui, a sua volta, ha capito subito, voleva qualcuno che sapesse improvvisare. Sono cresciuto a pane e Alto e gradimento, guardando sempre verso la comicità di Cochi e Renato, con un sottofondo di Totò». 

Come nascono le sue gag?

«Mi vengono in mente delle cose, le invento, se mi sembra che possano funzionare me le segno su un foglietto, oppure sul telefonino, poi vado a casa e le scrivo sul computer». Tempi duri per la satira?

«Per il mio genere di satira no, il mio umorismo non ha la politica come punto di riferimento. La satira politica la fa bene Crozza, è un genere che richiede uno studio particolare, bisogna essere sempre informati. Facendo il vandalo mi sento più libero, distruggo e basta».

Nessuna preparazione?

«Seguo sempre i tg, leggo i giornali, soprattutto i titoli di prima pagina, e poi vado agli spettacoli. C'è una battuta bellissima di Walter Valdi, cabarettista e cantautore, in cui mi ritrovo molto : "Leggo sempre i giornali, se è morto qualcuno che conosco vado ai funerali, altrimenti vado al cinema"».

Le piacerebbe avere un film-consacrazione come è accaduto a Ficarra e Picone con «La stranezza»?

«Certo, sono qui, aspetto».

Nino Frassica: «Sono snob, voglio essere diverso dagli altri comici. La mia protesta contro i luoghi comuni». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023.

Il comico tra i protagonisti di «Lol»: «Non è vero che Terence Hill mi ha salvato la vita; ogni tanto quando mi intervistano mi stancano le solite domande e allora invento»

Una comicità universale che gioca sulla distruzione del pensiero: la logica prevede una direzione, ma lui va da un’altra parte. «Categorie di pittori: pittori vivi, pittori morti, pittori che non stanno proprio bene». «Per rispondere vi do 5 secondi di tempo, a partire da oggi». Nino Frassica, alieno in Terra, sbarcato dal Pianeta Surreale («io vengo da lì»), è tra i protagonisti di Lol, lo show di Prime Video giunto alla terza edizione («mi sembrava di stare in un manicomio senza infermieri»).

Lei si è autoeliminato, ha riso due volte alle sue stesse battute...

«Quando la dico grossa non mi fermo, mi diverto. Lo faccio sempre, è una deformazione, continuo a scherzare e poi me la rido. Anche quando faccio il varierà succede; solo al cinema non lo posso fare».

Il format di «Lol» è contro natura per lei...

«Ci vuole una forza bestiale, ridere è umano, non farlo è disumano. Adesso a Lol ho capito mille cose».

Cosa ha capito?

«Pensavo fosse un modo di dire che se ridi vieni eliminato. Se me lo dicevano ero ancora là».

A volte sembrava annoiato...

«È difficile farmi ridere per sei ore, mi distraevo».

Pagano bene però.

«Mi sono fatto dare solo i soldi della benzina».

La logica prevede una direzione, ma lei ne sceglie un’altra: come fa?

«È un gioco che mi viene spontaneo da sempre: scherzare e rovinare la logica è una forma di protesta contro i luoghi comuni. Io non ci sto: quando tutti vanno in una direzione io vado nell’altra. Il successo più facile all’inizio è arrivato con le storpiature: si dice in un modo e io lo dico in un altro, ma non mi sono limitato solo a quello. Ho iniziato a demolire tutto».

È allergico ai luoghi comuni.

«Tanti parlano per stereotipi, per frasi fatte. Io anche per snobismo — per non essere come gli altri, per non dire una cosa scontata — cambio, limo, ribalto, ci scherzo sopra».

Lei è ovunque, come evita l’effetto saturazione negli spettatori?

«Bisogna essere originali e non cadere in battute scontate. Non mi piace appartenere alla comicità che fanno tutti, quella prevedibile; io cerco roba nuova, cerco di spiazzare. Sono stato mille volte ospite di Carlo Conti e non ho mai fatto una battuta sulla sua abbronzatura. Con Bisio tanti scherzano sul fatto che è calvo. Io non dico quello che immagino altri potranno dire».

La scuola del surreale come l’ha trovata?

«È stato naturale, mi sono sempre piaciuti Ionesco, Campanile, Marenco; ho seguito quella strada».

La scuola vera le piaceva poco, è stato bocciato perché andava al cinema...

«Nelle città piccole il miglior sistema per non farsi beccare dal padre, da uno zio, da un parente, era chiudersi in un cinema. Per nasconderci andavamo a vedere due film di seguito al cinema, mi piaceva così tanto che lo preferivo alla scuola, non perché non ero preparato, ma perché volevo vedere film in continuazione. All’epoca non era come oggi, tra tv e piattaforme ci sono film a tutte le ore: se fossi uno studente oggi probabilmente andrei a scuola».

Lei parla poco della sua vita privata, non ha avuto figli, è stata una scelta o un caso?

«Sono cose che succedono, c’è chi ne ha 14, chi 0».

Pensa mai alla pensione?

«Io sono già in pensione».

Sì, però lavora più oggi che in passato...

«Mi annoio a non lavorare, ho tante proposte, mi spiace dire di no a cose che mi piacciono».

Lei spiazza sempre tutti, chi l’ha spiazzata?

«La prima volta che ho visto Sordi alla consegna dei David sono rimasto senza parole. L’ho incrociato nel corridoio e ho pensato: vado là e gli dico quanto mi piace, gli faccio i complimenti. Mi sono avvicinato, gli ho sorriso, lui mi ha dato un buffetto in faccia e io non gli ho detto niente. Ricordo un’emozione rara, un sentimento che di solito non provo. Mi sono intimidito».

È vero che Terence Hill le ha salvato la vita sul set di «Don Matteo»?

«Non è vero, ogni tanto quando mi intervistano mi stancano le solite domande e allora invento».

Oggi cosa inventa?

«Finché lei non mi stanca...».

Nel dubbio, meglio finirla qua.

Anticipazione da “Oggi” l’8 marzo 2023.

«A casa mia il mondo dello spettacolo sembrava lontanissimo, irraggiungibile. Però ci tenevo che mia mamma capisse che avevo avuto successo. Provai a dirle che avevo dei soldi da parte, ma non fece una piega. La convinsi solo quando stava già male, e in maniera insolita. Le feci arrivare un camion di panettoni Maina, di cui ero testimonial. Li distribuì a tutto il paese, e la vidi finalmente felice, orgogliosa di condividere la mia fortuna».

Lo racconta Nino Frassica in un’intervista al settimanale OGGI in edicola da domani. Il comico, partito tanti anni fa da Galati Marina, in provincia di Messina, e passato attraverso tanti ruoli di successo, a cominciare da frate Antonino da Scasazza di Quelli della notte, approda alla terza edizione di LOL, l’ultima frontiera della comicità, in onda su Prime Video dal 9 marzo.

 Frassica nell’intervista a OGGI parla anche delle sue disavventure con i social: «Sono stato massacrato dai no vax. Il web permette a tutti di intervenire su ogni tema, e questo non è un bene. Purtroppo ci sono anche quelli troppo deficienti per esprimere le loro opinioni. Bisognerebbe fare a tutti un esamino:  tu sei normale, puoi scrivere su Facebook. Tu invece sei cretino, niente social».

Sui paradossi dei social riflette su OGGI anche Frank Matano, veterano di LOL, che affianca Fedez nella conduzione. «In Rete gli stessi che sventolano le bandiere del body positive e della tolleranza cercano di apparire bellissimi, intelligentissimi». Come evitare di urtare la sensibilità comune con una battuta in un mondo che cambia velocemente? «Ci si affida alla prima legge dei comici americani, che funziona sempre: non tirare mai pugni verso il basso, tirali verso l’alto».

Da ilnapolista.it il 7 gennaio 2023.

Su La Repubblica un’intervista a Nino Frassica. A 71 anni, domani debutterà al teatro Ambra Jovinelli di Roma con Alessandro Haber, Rocco Papaleo e Giovanni Veronesi nello spettacolo “Maledetti amici miei… Il ritorno”, ispirato al programma di Rai 2 del 2019.

 «Amo scherzare, il cosiddetto cazzeggio: non prendere le cose troppo sul serio è un antidoto». A Frassica viene chiesto cosa volesse fare da ragazzo. Risponde: «Sapevo quello che non volevo fare: i lavori pesanti. Da ragazzino coglievo i pomodori, piccole cose. Nascendo in provincia, spesso si diventa rinunciatari: “Figurati se mi chiamano, in Rai ci sono Mina, Walter Chiari, che se ne fanno di me”. È cambiato tutto, c’è YouTube, è molto più facile farsi conoscere. Sono sicuro che ci sono talenti, miei coetanei, che non ci hanno mai provato».

Invece lei non si è perso d’animo.

«No, ma le racconto una cosa. Quando ho fatto Quelli della notte vivevo a Galati Marina, in provincia di Messina, i miei vicini erano pescatori. Annunciai: “Vado in televisione”. Quando mi hanno visto, il commento fu: “Guarda, c’è il figlio del tuo compare Alberto (mio padre)”. E la risposta: “No, non può essere lui”. Per la nostra mentalità era uno che mi somigliava, era impossibile che fossi finito dentro il televisore».

Perché Frassica e Arbore non inventano un nuovo show?

«Renzo è abbastanza volubile, quando pensavamo a qualcosa dopo Indietro tutta, l’indomani non rideva come il giorno prima. Mettevamo tutto in discussione, diventando pignolissimi, alla ricerca del vero nuovo. Cambiare totalmente è raro, lui ha cambiato davvero, sempre: pensi ad Alto gradimento e a Quelli della notte».

 Le pesa l’età? Frassica risponde:

Cerco di fregarmene. I miei coetanei si deprimono perché non vogliono accettare gli anni che passano. La verità è che si soffre, invecchiare è un’arte. Anche i grandissimi da vecchi hanno sbagliato. Alberto Sordi era un gigante ma gli ultimi film non erano così belli. Bisogna stare attenti alla smania di fare. Il calciatore anziano sa che le gambe non sono più quelle di una volta, l’artista no. Io voglio capire fino a quando posso giocare».

 Rimpianti?

«No. Le cose brutte che ho fatto erano dettate dal bisogno, mi servivano i soldi».

I suoi genitori hanno potuto vedere il suo successo? Frassica:«Mia madre qualcosa, era fiera. Non stava già bene, capì quando ho fatto il testimonial per Maina. Chiesi di portare al mio paese un camion con una montagna di panettoni. Li distribuì a tutti, era felice. Quando le spiegai: “Mamma, in banca ho dei soldi”, non le fece lo stesso effetto. Quei dolci erano una cosa concreta».

Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 29 Dicembre 2022.

È a casa, ingabbiato dal Covid. «Poca voce e un po' di febbre».

Dove altri avrebbero approfittato per fare gli ammalati, Nino Frassica rimpiange di non essere a teatro. E nel mentre scrive nuovi articoli per «Novella Bella». «Il virus non mi ha bloccato». Il rimpianto maggiore è essersi perso Maledetti amici miei. Il ritorno, spettacolo con Alessandro Haber, Rocco Papaleo, Giovanni Veronesi, che è in scena all'Ambra Jovinelli. 

«Tre repliche, poi a Natale mi sono scoperto positivo». Il format è ispirato all'omonimo programma tv. «In scena siamo noi stessi, amici di vecchia data che non smettono di essere dei ragazzi, malgrado l'età.

Con molta autoironia chiacchieriamo a ruota libera di noi e del nostro mondo». A sostituire Frassica, ora c'è Beppe Fiorello. «Mi salta anche il Capodanno in tv con Amadeus...».

Guarirà giusto in tempo (spera) per qualche data in Sicilia e tornare a «Che tempo che fa» il 15 con le nuove cose che sta scrivendo per la pseudorivista di pettegolezzi che è rubrica fissa al tavolone di Fazio. «Novella Bella» ha avuto un tale successo da avere generato un libro.

«Tutti quelli che ho scritto sono ispirati a ciò che faccio in tv». 

Non l'ultimo, uscito da poche settimane: Paola. Una storia vera (Mondadori Electa) è un romanzo. «Ne è protagonista una donna - la cui foto di copertina tanto mi assomiglia, ma solo per caso - e le persone della sua vita. La vera novità non è tanto nella struttura, quanto nel fatto che per la prima volta non riprendo situazioni o cose della tv. Lo stile però è sempre il mio.

Non mi pongo il problema di quale messaggio trasmetterò alla nazione. I mio obiettivo è solo strappare la risata».

Malgrado l'assenza di riferimenti al Nino Frassica attore, nel libro si possono trovare citazioni e omaggi. Su tutti quello a Totò e Peppino e la... malafemmina: «Noio volevam savuar...». «Totò è il faro di tutti i comici - spiega -. Tutti ne siamo innamorati. Non sarei il comico che sono se non lo avessi studiato fin da ragazzo». Ne ha ricevuto come un imprinting secondo solo a quello della famiglia. «Tutti hanno questo dono in casa: spiccato senso dell'umorismo e visione ironica delle cose. Mio padre, gli zii, mio fratello. L'unica differenza è che, mentre per loro era un optional e si sono accontentati di quel palcoscenico che è il bar del paese, io da lì sono partito per andare a studiare le radici della comicità lontano da casa».

La svolta nella sua vita, si sa, arrivò con Renzo Arbore che gli diede una prima particina in FF.SS.. Tutta la banda di quel film si sarebbe ritrovata a Quelli della notte: Frassica, quasi una new entry, avrebbe sfondato con frate Antonino da Scasazza dal «cuore toro» e dal linguaggio improbabile e infarcito di strafalcioni. 

Altro incontro fondamentale per Frassica è stato quello con Don Matteo, di cui è una delle colonne. La quattordicesima stagione verrà registrata a maggio: è la prima senza Terence Hill. «Il pubblico ha assorbito bene il terremoto del cambio con Bova. Io un po' meno: dopo tanti anni Terence Hill è diventato qualcosa di più di un semplice compagno di lavoro. Ne sentirò la mancanza». Amici più recenti sono il Mago Forest, Valerio Lundini e Maccio Capatonda. «Parliamo la stessa lingua, proveniamo dallo stesso pianeta».

Oltre a 260 episodi di Don Matteo, l'attore siciliano ha un curriculum di centinaia di titoli. L'alto e il basso non lo hanno mai fermato: ha fatto Baaria di Tornatore e dimenticabili cinepanettoni, film a episodi, serie e miniserie. 

«Se mi pento di quello che ho fatto? Di parecchi, a distanza di tempo. Ma ciascuno al momento aveva un suo perché. In genere economico. Più un film era brutto e più mi facevo pagare. Per un film che so bello bello, sono disposto a lavorare gratis: sono le soddisfazioni che ti ripagheranno. Tra le categorie del cinema: il brutto con tanti soldi, si può fare; il brutto con pochi, no di sicuro. I miei colleghi che negano questo paradigma, o mentono o si mangiano le mani. E poi, anche se li faccio, che male c'è? Anche i film brutti hanno i loro estimatori. La mia carriera ne potrebbe essere danneggiata? E chi non fa errori?» .

Un'ultima riflessione la dedica al tempo che passa (è nato l'11 dicembre 1950). «Già quando ho compiuto i 70, ho detto che non me li sentivo, e molto mi seccava che me li ricordassero. Ora, due anni dopo, non mi riesce proprio di capirli 'sti anni che passano. Mi sento rimasto a 35 e 4 mesi, quelli che avevo ai tempi di Quelli della notte. Una stagione inarrivabile. Arbore ha rivoluzionato radio e tv e aperto la strada a tanti, creando un genere. Molti si sono mossi nella sua scia: Mai dire gol è figlia dell'Altra domenica, la Gialappa, Bisio e Teocoli di Arbore, Benigni e Marenco».

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 20 dicembre 2022.

Deve essere bello affrontare la vita armati di comicità surreale: Nino Frassica lo sa. «Amo scherzare, il cosiddetto cazzeggio: non prendere le cose troppo sul serio è un antidoto». Ironico, inventore di un lessico tutto suo, di battute veloci («Sono alto un metro e 73 a stomaco vuoto»), a 71 anni è il protagonista dell'anno. Il pubblico lo ha sempre seguito, da Quelli della notte a Indietro tutta, poi il ruolo del maresciallo Cecchini in Don Matteo e Che tempo che fa con Fabio Fazio, in cui si presenta come direttore di Novella bella. 

Domani debutta al teatro Ambra Jovinelli di Roma con Alessandro Haber, Rocco Papaleo e Giovanni Veronesi nello spettacolo Maledetti amici miei Il ritorno, ispirato al programma di Rai 2 del 2019. 

Anche sul palco è un happening?

«Ci raccontiamo a ruota libera. Mi piace per questo, ogni sera sarà diverso. Vado spesso a casa di Giovanni, sono stato suo ospite in radio. È un creativo, un altro che ama giocare, abbiamo lo stesso modo di vedere le cose. Con Papaleo e Haber siamo affiatati, mi sono buttato. In televisione non si fa più niente di nuovo. Qui potrò improvvisare, come insegna Arbore». 

Arbore ha creduto subito in lei?

«Sì. Lasciavo messaggi nella sua segreteria telefonica senza chiedere niente, non volevo sembrare uno stalker. Lo facevo solo ridere. Mi volle conoscere lui».

Come nasce l'umorismo surreale?

«Mi viene naturale, è un modo di vedere la vita. Quello di Don Matteo e quello di Fazio sono due pubblici diversi, questo mi piace. Nella serie faccio la commedia, c'è una storia da rispettare. Da Fabio posso inventare». 

La sigla di "Novella bella" è cult, la cantano tutti.

«È una cosa inedita, curiosa, l'ha fatta pure Adriano Celentano» . 

Si dice che i comici siano malinconici: lei lo è?

«È un luogo comune. Certo c'è molta differenza tra la scena e la vita, nel privato non si può avere sempre la voglia di divertire. Se uno è sempre alla ricerca della risata, tanto normale non è. Mi allarmano quelli che fanno battute a raffica e non si censurano un po'». 

Perché?

«Perché c'è un limite, esiste l'autocritica . Me ne accorgo su di me, quando penso a una battuta ma la risparmio al pubblico: "È troppo facile, non la dico". Mi autocensuro».

Christian De Sica ha detto che il politicamente corretto ha ucciso tutto. Che cosa ne pensa?

«Che ha ragione. Se la correttezza vuol dire mettere un limite, quindi censurare, non va bene. Noi comici dobbiamo essere liberi di dire quello che vogliamo, senza offendere».

Checco Zalone la fa ridere?

«Moltissimo. Lui è libero». 

L'attore comico più bravo?

«In assoluto Carlo Verdone; prendi un pezzo qualsiasi di un suo film e dici: "Che bravo". Come attore drammatico, Pierfrancesco Favino». 

Da ragazzo cosa voleva fare?

«Sapevo quello che non volevo fare: i lavori pesanti. Da ragazzino coglievo i pomodori, piccole cose. Nascendo in provincia, spesso si diventa rinunciatari: "Figurati se mi chiamano, in Rai ci sono Mina, Walter Chiari, che se ne fanno di me". È cambiato tutto, c'è YouTube, è molto più facile farsi conoscere. Sono sicuro che ci sono talenti, miei coetanei, che non ci hanno mai provato».

Invece lei non si è perso d'animo.

«No, ma le racconto una cosa. Quando ho fatto Quelli della notte vivevo a Galati Marina, in provincia di Messina, i miei vicini erano pescatori. Annunciai: "Vado in televisione". Quando mi hanno visto, il commento fu: "Guarda, c'è il figlio del tuo compare Alberto (mio padre)". E la risposta: "No, non può essere lui". Per la nostra mentalità era uno che mi somigliava, era impossibile che fossi finito dentro il televisore». 

Perché con Arbore non inventate un nuovo show?

«Renzo è abbastanza volubile, quando pensavamo a qualcosa dopo Indietro tutta, l'indomani non rideva come il giorno prima. Mettevamo tutto in discussione, diventando pignolissimi, alla ricerca del vero nuovo. Cambiare totalmente è raro, lui ha cambiato davvero, sempre: pensi ad Alto gradimento e a Quelli della notte ».

 Le pesa l'età?

«Cerco di fregarmene. I miei coetanei si deprimono perché non vogliono accettare gli anni che passano. La verità è che si soffre, invecchiare è un'arte. Anche i grandissimi da vecchi hanno sbagliato. Alberto Sordi era un gigante ma gli ultimi film non erano così belli. Bisogna stare attenti alla smania di fare. Il calciatore anziano sa che le gambe non sono più quelle di una volta, l'artista no. Io voglio capire fino a quando posso giocare». 

Sogna un ruolo drammatico con un grande regista?

«Vorrei girare un bellissimo film, non sogno necessariamente un ruolo drammatico. Il mio forte posso darlo nel comico». 

Rimpianti?

«No. Le cose brutte che ho fatto erano dettate dal bisogno, mi servivano i soldi». 

Perché sulla copertina del suo ultimo, stravagante libro, "Paola, una storia vera" (Mondadori), si è vestito da donna?

«Ho cercato la foto di una donna. Con un'applicazione puoi vedere la tua faccia da giovane, la protagonista del romanzo è del 1955. Somiglio a mia madre e a mia sorella e si vede che sono io. Mi è sembrata perfetta».

I suoi genitori hanno potuto vedere il suo successo?

«Mia madre qualcosa, era fiera. Non stava già bene, capì quando ho fatto il testimonial per Maina. Chiesi di portare al mio paese un camion con una montagna di panettoni. Li distribuì a tutti, era felice. Quando le spiegai: "Mamma, in banca ho dei soldi", non le fece lo stesso effetto. Quei dolci erano una cosa concreta».

Noomi Rapace: «Amo i western, ma non sarò mai la bella da salvare». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.

L’attrice svedese una spietata schiavista nella serie tv «Django», ispirata al film di Sergio Corbucci e diretta da Francesca Comencini. In arrivo su Sky dal 17 febbraio

L’attrice e produttrice Noomi Rapace, 43 anni, svedese di Hudiskvall, un figlio (Lev), è arrivata al successo nel 2009 con «Uomini che odiano le donne» tratto dal libro omonimo di Stieg Larsson (foto Ap/A.Medichini)

Non è stata una convivenza facile quella di Noomi Rapace con lady Elizabeth Thurman, potente signora delle piantagioni di Elmdale della serie tv Django, una schiavista in missione per conto del suo Dio con l’obiettivo di distruggere la città libera di New Babylon, fondata proprio da uno schiavo liberato, John Ellis (Nicholas Pinnock). «È un’estremista. Sono stata felice che abbiano pensato a me per quel ruolo ma avevo bisogno di capire da dove arrivasse il suo estremismo per poter dipingere il ritratto di qualcuno spinto al limite della sua oscurità da un dolore, un cuore spezzato, un amore non compreso. Ho fatto un’indagine profonda, nuotando nel suo sistema sanguigno. La sognavo spesso, sogni un po’ pazzi ma anche molto visivi e realistici. Mi svegliavo, li registravo nel cuore della notte. E mandavo messaggi vocali a Francesca (Comencini, direttrice artistica del progetto, oltre che regista dei primi quattro episodi; ndr ), suggerendo di metterli nel copione. È stata una bella collaborazione, anche con gli sceneggiatori Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli. Tutti e tre hanno una qualità che amo: sono privi di ego, aperti allo scambio».

Va sempre così nel profondo per i suoi ruoli?

«Sono ossessionata dalla possibilità di comprendere gli esseri umani, mi affascina scoprire le motivazioni dietro i comportamenti delle persone. Per capire la brutalità, l’estremismo, devi fare il percorso inverso fino alle radici della rottura che lo ha provocato. Sono quasi una scienziata nell’analisi del personaggio: destrutturo, cerco il codice di accesso. Spero che anche il pubblico possa provare empatia per la sua brutalità e il suo livore. Nessuno è solo male, anche il più brutale e violento villain è stato un bambino. Il mio compito da attrice è tracciare il codice».

Un approccio ai ruoli che non sarebbe dispiaciuto a Lisbeth Salander, la hacker della saga Millennium ideata da Stieg Larsson. Anche Django è un titolo iconico: la serie, che sarà su Sky dal 17 febbraio, è tratta molto liberamente dal film, ormai un classico, di Sergio Corbucci. Nei panni che furono di Franco Nero, c’è Matthias Schoenaerts.

Quanto sente l’aspettativa del pubblico?

«In casi così, trovare l’equilibrio tra fedeltà e tradimento è arduo. Per farlo tuo devi distruggerlo e, dunque, non rispettarlo. Ma non puoi farlo se non lo rispetti. È un enigma, meraviglioso. Il mio unico metodo è sempre cercare di farlo mio. Anche quando siamo agli antipodi. Pure Lisbeth era difficile, lontana da me, cupa, piena di odio. Il momento in cui ho decrittato il codice è stato tutto facile. Come se avessi una mia propria Bibbia come guida».

A proposito di codici, quelli del western sono piuttosto rigidi.

«Amo il western, anche nelle sue declinazioni, come i vostri spaghetti western. Per me è paragonabile alla tragedia greca. Un genere senza tempo, basato sulla rivalità tra i buoni e i cattivi con un elemento di romanticismo. È una dinamica facile da capire, come quella delle favole. Ma tradizionalmente il personaggio forte è quello maschile e accanto, se c’è una donna, è la bella ragazza che lui salva. Sono felice viva un revival, ho sempre voluto girarne uno, ma ho detto no a quelli che mi sono stati proposti perché sarei stata la bella di turno».

Qui ha il ruolo dell’antagonista capace di perfidie spaventose.

«È un personaggio moderno il mio. Francesca, Leo e Maddalena sono andati nel profondo, oltre le regole del genere».

Una vera tosta la sua Elizabeth. Ma la donna forte non rischia di essere un nuovo cliché?

«In questo caso no. Ma sono d’accordo, si rischiano nuovi cliché. Quando mi dicono: bello, fai una con le palle, mi cascano le braccia. Io voglio solo essere un essere umano completo che, coincidenza, ha la vagina. Cosa cambia? È tempo di permettere alle donne di mostrare sullo schermo tutta la tavolozza di colori da sempre consentita agli uomini. Come lady Elizabeth con tutte le sue complessità. È una donna in un mondo dominato dagli uomini, ha ereditato la piantagione di famiglia, sente il peso delle aspettative. Prima di tutto essere forte. È una madre single, deve educare suo figlio, pensa di doverlo preparare a vivere in un mondo brutale che lei vuole ripulire. Ha una sua morale e una sua etica e si comporta di conseguenza».

Se guardiamo alla sua carriera, l’impressione è che non sia mai una passeggiata. Sbaglio?

«No, è così. Mi carico i personaggi sulle spalle, e a volte è duro. Quando ho fatto la Maria di Lamb (dell’esordiente Valdimar Jóhannsson, premiato a Cannes, nella sezione Un certain regard; ndr) avevo la sensazione di essere seduta su una macchina con lei alla guida e io sul sedile del passeggero. Sapevo che mi avrebbe scorrazzato ma poi riportata a casa e che dovevo fidarmi, sperando che fosse gentile con me. Amo la mia forma di arte. Ci sono pochi nemici che possono distrarti: ego, vanità, fama. All’inizio della carriera, nel 2007, con Daisy Diamonds, un film molto dark e difficile da fare, ho deciso che dovevo lasciare che fosse il regista a guidarmi, non la mia vanità».

Sempre convinta delle scelte che fa?

«Ora sono più consapevoli. Quando è iniziato il mio percorso internazionale è stata dura, ero appena uscita da un divorzio. Avevo vissuto tutta la mia vita adulta con lo stesso uomo, era il mio universo, quando ci siamo lasciati ho dovuto ricostruirmi davanti al mondo. Molte scelte le ho fatte sull’onda: correvo, correvo, l’istinto era quello di sopravvivere. Non mi ascoltavo. Circa tre o quattro anni fa ho preso coscienza che non mi serve correre, sono qui ora. E faccio cose in cui credo».

Ha mantenuto il cognome Rapace che sceglieste lei e il suo primo marito, l’attore Ola Norrel. Sono uccelli predatori.

«Animali bellissimi, li amo molto. Regali, eleganti, molto leali. Le aquile sono monogame, vivono in una coppia tutta la vita fino alla morte, tra i pochi animali monogami, Continua a piacermi l’idea...».

È nata in Svezia, di origini spagnole da parte di padre, è cresciuta in Islanda, abita a Londra. Dove si sente a casa?

«Non sono così attaccata ai luoghi ma alle persone. Il mio fidanzato, mio figlio, i miei amici, quelle sono le mie fondamenta, possono essere dappertutto. Credo di aver imparato abbastanza presto ad adattarmi, a trovarmi a casa in posti diversi. Ora vivo tra Londra e il Portogallo. Quando ero più giovane pensavo di non aver bisogno di nessuno, di poter bastare a me stessa. Ora è esattamente il contrario, so di avere bisogno degli altri. La vita, per fortuna, ti cambia».

Lei è anche produttrice ma non regista come molti suoi colleghi e colleghe, perché?

«In realtà ho iniziato a pensarci. Mi è stato chiesto diverse volte ma non c’era il progetto giusto. Vedremo. Sono un’attrice che ama gli attori, mi piace perdermi nelle performance dei miei colleghi, le mie migliori arrivano quando la cinepresa inquadra qualcun altro. Per ora mi interessa creare le condizioni migliori per far lavorare gli altri da produttrice».

Si dice che crei playlist ad hoc per i suoi personaggi, è vero?

«Sì».

Com’è quella di Elizabeth?

«Una raccolta di pezzi di canzoni degli schiavi. Lei è cresciuta in una piantagione, avrà sentito gli schiavi cantarle. E anche delle christian songs del profondo Sud americano. Oltre a musica classica come quella di Beethoven».

La musica conta molto per lei?

«Molto. Sono una grande fan di Bruce Springsteen. Il mio sogno è riuscire ad andare a un suo concerto un giorno. Non ci sono mai riuscita, spero quest’anno sia finalmente la volta buona».

Altri sogni nel cassetto?

«Non ho come alcuni colleghi dei ruoli che rincorro. Piuttosto, sogno collaborazioni. Per esempio, mi piacerebbe lavorare con Paolo Sorrentino, con Luca Guadagnino. E registe come Nathalie Alvares Mesen, o l’israeliana Hagar Ben-Asher. O anche Ali Abbasi, l’autore di Holy Spider ».

Alla Festa di Roma, dove Django è stato presentato in anteprima, le hanno dato il Premio Progressive alla Carriera (Progressive Lifetime Achievement Award).

«Una denominazione bellissima, spero di meritarlo sempre».

Elizabeth non sopporta che esista una realtà multiculturale e attenta ai diritti di tutti, come New Babylon. Anche nella sua Svezia, come in Italia, c’è un governo di destra: cosa ne pensa?

«Sono preoccupata, non lo nascondo. Vedo i diritti sotto attacco, basta pensare cosa è successo alle leggi anti aborto negli Stati Uniti. Come possiamo accettare di tornare indietro? Guardo al coraggio delle donne in Iran, stanno guidando il loro Paese in una rivoluzione chiedendo libertà, rischiando la vita. Mi domando cosa possiamo fare: forse usare l’arte, prendere posizione e non diventare cinici».

Si è schierata da tempo a fianco del movimento Me Too. Come vede la situazione?

«Le cose stanno cambiando, anche se lentamente. Mi batto da sempre contro la sessualizzazione delle attrici. E non solo sullo schermo ma anche nell’industria. Non ho mai voluto essere un bell’oggetto. Per questo amo la mia Elizabeth».