Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

PRIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Anastasia Bartoli.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.

Gegia (Francesca Antonaci).

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Seymandi.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sydne Rome.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Solarino.

Valeria Rossi.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA MUSICA NON È FINITA. Una vita da artista. Massimiliano Cellamaro su L'Indipendente il 26 Aprile 2023.

Artista. Che brutta parola! Nell’uso comune ha un’accezione negativa. In Italia è sinonimo di “personaggio che non ha voglia di lavorare”. Ma se un artista vuole emergere e soprattutto vuole vivere della propria Arte, nel nostro paese è costretto a fare i salti mortali. Vuol dire impegnarsi nella propria passione 24/7. Ventiquattro ore al giorno per tutta la settimana. Non esistono orari o feste comandate. In qualsiasi momento l’ispirazione si presenti, un artista sa che non può lasciarsela scappare. Deve passare all’azione immediatamente, prima che l’idea voli verso chi gli dedicherà l’attenzione che merita.

Ma li hai visti come si vestono? Spesso hanno l’aria trasandata, lo sguardo sognante. Sembra che vivano in un altro mondo. In effetti vivono su altre dimensioni. Da quando sono diventato papà è una fatica enorme rimbalzare da uno stato creativo alla massima lucidità e attenzione che la vita familiare richiede. Per fortuna non fumo più le canne! Ma restano comunque universi paralleli ingestibili contemporaneamente. Una Partita I.V.A., le tasse, le bollette, la spesa, niente hanno a che vedere con la fantastica vita di un artista completamente immerso nel suo universo creativo. Anzi, essere preso dai doveri quotidiani e le spese mensili mi inchioda al mondo reale, dove spazio per sognare non ce n’è. Non parlo dell’Amore infinito che provo per la mia famiglia, appartiene al mondo dell’Arte e della bellezza che devi saper coltivare. Parlo della burocrazia implicita al far parte di questa società che per un artista diventa un dedalo di vicoli in cui è facile perdersi.

Un artista per creare ha bisogno di staccare i piedi dal suolo. In un istante puoi venire rapito da un volo che non sai dove ti porta. Molti, addirittura, decidono di non posare più i piedi per terra. Ci vuole una bella dose di sensibilità. Chi è più materiale vive incollato alla realtà, crede solo a ciò che può toccare con mano. Un animo più sensibile preferisce sorvolare su futili questioni quotidiane, non è interessato alle idee che riempiono la vita dei babbani, vuole spingersi verso territori inesplorati. É difficile da spiegare, scavi così a fondo nel tuo animo da prendere il volo e librarti nell’aria, sembra un controsenso, lo so. Quando un’emozione investe un creativo ha a che fare con un animo curioso che non si fermerà alle prime impressioni. La studierà da ogni angolazione. Cercherà frasi, colori, tele, materiali, che raccontano quell’emozione per tradurla sul piano della realtà. Cosicché chi è meno sensibile la possa vedere, toccare, ascoltare. Non riuscirà mai a riportarla esattamente come l’aveva immaginata e questa è l’eterna frustrazione di noi artisti. La musica poi è la più eterea delle Arti, la più elevata. Perfino l’architettura o l’Arte della scultura vengono considerate musica congelata, scolpita nel tempo.

Quello sguardo sognante e un po’ assente, l’aria trasandata, sono segnali che ci stiamo muovendo su altre dimensioni, siamo in cerca di risposte. Intercettiamo nuovi trend, offriamo nuovi punti di vista, analizziamo l’intimo più profondo del genere umano per raccontarlo, sviscerarlo. Questi sono i principali motivi per cui un artista andrebbe valorizzato e supportato nella società moderna così poco attenta al proprio lato interiore.

L’animo profondamente maschile che caratterizza i tempi che stiamo vivendo si rivela nella musica che il mercato propone. É un’epoca in cui l’immagine conta più della musica che produci. Ciò che si vede conta più di ciò che si ascolta o percepisce. Il fine ultimo è poter ammassare più beni materiali possibili, il messaggio non è neanche così velato, anzi spudoratamente sbandierato. Le donne devono tirare fuori i cojones in un mondo che non venera il proprio lato femminile come dovrebbe. L’iperbole della tecnologia è in piena accelerazione e stiamo vivendo tempi di cambiamento tutt’altro che semplici. Soffiano forti venti di cambiamento, nessuno sa dove ci porteranno, ed è fondamentale mantenere un proprio equilibrio.

Con l’avvento dell’era digitale molte professioni sono sparite ed è una tendenza in forte aumento. Grazie al web stiamo scoprendo nuove ed infinite possibilità, nuove figure professionali nascono ogni giorno. Nel giro dei prossimi dieci anni il mondo verrà totalmente stravolto. Siamo entrati nell’era del Web3… già da un po’… e come ogni novità ce la stiamo perdendo. L’Italia risponde sempre barricandosi in vecchie sicurezze, con l’unico risultato di rimanere una piccola fortezza esclusa dall’evoluzione verso cui il resto del pianeta si sta muovendo. Non permettere agli italiani di usufruire di Chat GPT ci ha riportato in un istante indietro di dieci anni rispetto al resto del mondo. La SIAE che taglia fuori la nostra musica dai social per questioni economiche di un accordo non raggiunto, crea un danno incalcolabile ad artisti che dovrebbe tutelare. Siamo un paese che ha difficoltà a rapportarsi con le nuove tecnologie.

Tutta questa incertezza che si respira nel mondo del lavoro per gli artisti non è affatto una novità, siamo abituati ad affidarci alla sincronicità degli eventi. Ma oggi, anche chi ha un posto fisso si è dovuto arrendere all’idea che tutto può cambiare da un momento all’altro e potrebbe essere obbligato a reinventarsi. L’ansia e gli attacchi di panico sono il perfetto sintomo della paura latente creata da questa continua instabilità. Io la vedo come una possibilità di crescita. Il mio consiglio è di cogliere al balzo l’opportunità di coltivare piccoli sogni che spesso teniamo rinchiusi. Se viviamo esclusivamente nella nostra dimensione mentale rischiamo di farci inghiottire da infiniti ragionamenti alla ricerca di una spiegazione razionale. In una società che di razionalità ne dimostra ben poca. Una possibile soluzione potrebbe essere vivere un po’ più da Artista e rispondere alle proprie sensazioni passando immediatamente all’azione.

Ma che volete che ne sappiano gli artisti? Viviamo più di pancia, seguendo il cuore. Resto un inguaribile sognatore. [di Massimiliano Cellamaro, in arte Tormento]

Professor rapper: quando gli alfieri dell'hip-hop salgono in cattedra. Brutti, sporchi e cattivi? Il rap e la trap sono oggi accusati di violenza e di sessismo. Ma c’è molto altro. Come dimostra la voce degli artisti che portano parole e rime a scuola e in carcere. Da Militant A ad Amir Issaa, da Murubutu a Rancore. Emanuele Coen su L'Espresso il 7 dicembre 2023

Parlano forte e chiaro i testi di Gallagher, il trapper romano arrestato con l’accusa di aver picchiato per due anni la compagna, anche quando era incinta. Nella canzone “Drip Walk” dice: «Sto con la tua nasty mi twerka sul ca**o / Mi dice che sono razzista, drogato e coatto/ Le tiro i capelli da dietro e la sbatto». E anche le frasi di “Zitta” del trapper pavese Silent Bob non hanno bisogno di spiegazioni («Comunque, una baldracca puttana infame indegna/carabiniera a cavallo/Vedi di sparire di non farti vedere neanche in foto»). E così via. È questo il volto brutto, sporco e cattivo del rap e della trap, sotto accusa per sessismo e misoginia. Una polemica infuocata: dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e la Giornata contro la violenza sulle donne, in molti hanno puntato il dito proprio contro certi artisti, che hanno replicato a muso duro. «Quanto qualunquismo in classico stile italiano. Come se la donna non fosse mai stata trattata come un oggetto nelle fantasie degli italiani, sin dall’inizio delle televisioni private dagli anni Ottanta a oggi», ha scritto su Instagram il rapper napoletano Luché. 

C’è però un altro hip hop, che non ha nulla a che fare con le rime violente. Rapper che entrano nelle scuole e in carcere, usano le proprie canzoni per diffondere tra studenti e detenuti concetti come inclusione, rispetto, impegno civile. Si trasformano in professori ma non salgono in cattedra perché alle lezioni frontali preferiscono l’interazione con gli studenti, guardarli in faccia, stimolare le loro riflessioni. Scrivono libri, fanno lezione all’università, portano avanti progetti di “edutainment”, quando l’educazione si fonde con l’intrattenimento. Con risvolti inaspettati: la Fondazione Treccani Cultura, ad esempio, già da tempo racconta l’evoluzione della lingua attraverso i testi della nuova generazione di artisti della scena hip hop, rap, trap e indie, per trasmettere il valore di alcune parole chiave del mondo contemporaneo. E ha avviato diversi progetti – legati alla scrittura, alla lettura, al freestyle - in collaborazione con diversi rapper: Murubutu, Myss Keta, Amir Issaa. Inoltre, edulia dal Sapere Treccani ha lanciato online “Superskill – Il potere delle competenze”, nuovo format gratuito educativo che, attraverso esperienze e testimonianze video di eccellenze della cultura, dello spettacolo e dello sport, vuole ispirare e orientare i giovani nell’individuare le competenze e le caratteristiche che ognuno di noi ha in potenziale e coltivarle, per farle diventare chiavi di successo nella vita professionale e personale. Myss Keta ha contribuito con contenuti originali a questo progetto. 

IL RAPPER MURUBUTU 

«Allo specchio imitavo Jay-Z e Nas/Wu Tang dentro il walkman in giro per la città/ Poi ho capito che avevo tanto da dire/ Carta e penna e in tasca appena duemila lire/ Ma mi sentivo il re dentro il mio isolato/ E mi ha aiutato a sentirmi meno isolato», canta Amir Issaa. Cresciuto nel quartiere di Torpignattara, a Roma, figlio di un immigrato egiziano e di una donna italiana, si avvicina all’hip hop all’inizio degli anni Novanta. Con una lunga carriera da rapper alle spalle, oggi a 44 anni è in prima linea sul fronte dell’educazione nelle scuole, all’università, nei penitenziari, mondo che conosce bene perché suo padre ha trascorso diversi anni in cella. Dopo aver scritto il libro “Vivo per questo” (Chiarelettere), Issaa ha cominciato a usare il rap come strumento didattico rileggendo elementi di poetica e facendo scoprire ai ragazzi che le canzoni che ascoltano dal cellulare sono anche il risultato di un esercizio linguistico. Poi ha dato alle stampe il libro “Educazione rap” (add editore, prefazione di Paola Zukar), in cui racconta la propria esperienza e disegna un percorso che mette al centro gli studenti e la parola, le emozioni e la lingua. In queste settimane, inoltre, è impegnato in un tour nelle università degli Stati Uniti. «Per i ragazzi è chiaro che l’aspetto che più mi affascina del rap è la scrittura», dice il rapper su Zoom dal campus dell’Università di San Diego, in California: «Il lavoro sulla scrittura serve a raccontare la realtà, la propria storia e quelle altrui utilizzando le rime, costruendo uno stile. Da anni vado nelle scuole a combattere stereotipi e pregiudizi usando il potere delle parole: identità, seconde generazioni, diritti, George Floyd, periferie, America, femminismo». Eppure oggi molti rapper, ma soprattutto i trapper, siedono sul banco degli imputati, accusati di machismo e sessismo. «Attraverso i testi, a volte, passano messaggi diseducativi, ma non sto qui a fare la morale perché bisogna contestualizzare», prosegue Issaa: «A 18 anni non hai la stessa maturità che a 40. Se oggi riascolto le mie canzoni di allora non avevano dentro di sé molta saggezza. Ora invece sento una forte responsabilità verso le nuove generazioni», conclude il rapper. 

IL RAPPER MILITANT A DEGLI ASSALTI FRONTALI 

Chi non si è mai tirato indietro è Militant A, nome d’arte di Luca Mascini, che si è conquistato un posto di rispetto nella scena dell’hip hop politico, impegnato, voce e frontman dello storico gruppo Assalti Frontali. Da anni il musicista, che è anche scrittore e “arteducatore” come ama definirsi, porta nelle scuole le sue rime e in queste settimane attraversa l’Italia con il suo libro “Cambiare il mondo con il rap” (Momo Edizioni). Nel 2016, alla vigilia del referendum, il rapper scrisse insieme a sessanta bambine e bambini il “Rap della Costituzione”, mentre due anni fa registrò la canzone “Ng New Generation” con i bambini del Piccolo Coro dell’Antoniano per il festival Zecchino d’oro. Mondi lontani anni luce, ma solo in apparenza. 

Nei giorni scorsi Militant A ha affrontato con gli studenti il tema del femminicidio di Giulia Cecchettin. «Sono tutti molto coinvolti, anche se per loro resta una cosa lontana. Sanno che quando una ragazza si fidanza deve cambiare modo di vestire, ad esempio non indossare i leggins. Oggi i ragazzi apprendono molto dalla scuola, dalla famiglia, dalla musica. Il rap dunque deve fare la propria parte, ma in questa fase vedo in giro scarsa responsabilità», dice il rapper, che aggiunge: «È un dolore: spesso si dice che nel rap devi usare parole come “body”, “troia”, sennò non è autentico. Non sono d’accordo: bisogna usare un linguaggio diverso, assumersi le proprie responsabilità. Però una cosa è certa: è la società con la sua violenza a essere responsabile, quando vediamo certi ruoli riprodotti nella pubblicità, in tv, nei meccanismi del potere, i testi del rap rispecchiano la violenza della società. Mi sforzo nei laboratori a trasmettere valori di gentilezza, cura, comunità, far riflettere i ragazzi sul fatto che i problemi personali possono essere risolti insieme agli altri». 

IL RAPPER AMIR ISSAA 

Sconfinano in altri campi i rapper che vestono i panni del professore, tratteggiano percorsi inattesi. Rancore, ad esempio, 34 anni, tra i rapper più acclamati della sua generazione con i suoi racconti della realtà e di un mondo straordinario, di fantasia, dopo l’uscita dell’album “Xenoverso” e la duplice partecipazione al Festival di Sanremo (la prima nel 2019 al fianco di Daniele Silvestri in gara con la canzone “Argentovivo”, premio per il miglior testo), ha partecipato come giurato e performer alla prima edizione del Premio Strega sezione poesia. Il suo vero nome è Tarek Iurcich, padre di origine istriana e madre egiziana, ed è uno dei protagonisti del progetto scuola Abc, promosso dalla Regione Lazio con Roma Capitale. Un ciclo di incontri nei teatri con gli studenti, per parlare delle emozioni e dei sentimenti attraverso i luoghi. «Ci sono luoghi dentro di noi che già hanno la loro musica, emozioni che già fanno rima, devono solo essere scoperte», dice Rancore rivolto alla platea del Teatro Argentina, a Roma: le ragazze e i ragazzi lo applaudono fragorosamente, conoscono a memoria le sue canzoni, lo riempiono di domande. «Spero che i nostri incontri possano fornire ai ragazzi strumenti per esprimersi all’interno della creatività: la poesia, il teatro, la musica», dice il rapper in una sala del teatro. Non è scontato che un rapper salga in cattedra, metaforicamente o meno, per insegnare ai ragazzi a utilizzare la lingua italiana sotto forma di rime. Per tanti anni il rap ha scontato un certo snobismo da parte del mondo della cultura, come se non avesse dignità letteraria. Poi Kendrick Lamar nel 2017 ha vinto il Pulitzer per la musica, qualche anno fa, la prima volta per un rapper, e le cose hanno cominciato a cambiare. «Il rap è un mezzo che può essere sfruttato in mille modi, per rompere certi schemi», aggiunge Rancore. Che però rifiuta l’etichetta di professore-rapper. «A me la parola educatore non piace. Ovviamente rispetto tutti coloro che educano perché costruiscono il futuro, ma non mi si addice. Chi insegna ha studiato molto, molto più di me. Io vengo dall’intrattenimento, intendo restare in questo settore, magari indirizzandolo verso la costruzione di qualcosa, non solo dello svago», conclude. 

Scuola e rap si mescolano, intrecciano le loro strade secondo traiettorie impreviste. C’è anche chi non rifiuta affatto l’etichetta di rapper professore, anzi sale in cattedra tutti i giorni. Alessio Mariani, in arte Murubutu, è docente di Storia e Filosofia in un liceo di Reggio Emilia, la sua città, ma anche rapper affermato. Attraversa l’Italia con il talk “Scelgo le mie parole con cura”, con cui indaga tutti i possibili rapporti tra rap e letteratura. Nelle sue rime tiene insieme Dante Alighieri e Italo Calvino, i filosofi greci e James Joyce. «Gestisco bene la mia doppia vita, in cattedra e sul palco faccio la stessa cosa: veicolo in maniera accattivante contenuti culturali», sintetizza Murubutu: «La musica mi aiuta a scuola, è un linguaggio che condivido con gli studenti. Il professore aiuta il rapper a trovare ogni giorno materiale utile per le canzoni, il rapper aiuta il professore a tenerlo in mezzo ai giovani». A dimostrarlo ci sono i suoi primi sette album, completamente dedicati allo storytelling tra cui “Infernvm” col rapper Claver Gold, incentrato sulla prima delle tre cantiche del Sommo poeta. E ora ha appena pubblicato il singolo “L’avventura di due sposi”, ispirato al racconto contenuto ne “Gli amori difficili” di Italo Calvino, in occasione del centenario della nascita dello scrittore. Murubutu vive in mezzo ai giovani, che adorano la trap. Cosa pensa della deriva linguistica, del sessismo, del machismo? «Seguo la trap con molto interesse dal punto di vista antropologico», conclude il professore-rapper: «Rivela un disagio, un segnale d’allarme di cui tener conto. Non si può liquidare come fenomeno solo di moda».

Estratto dell'articolo di open.online.it venerdì 8 dicembre 2023.

Una nota della polizia penitenziaria allegata a un’indagine dei pubblici ministeri Francesco De Tommasi e Gianluca Prisco accusa due rapper. Che si sarebbero messi «al servizio» di un boss, ovvero Nazzareno Calajò detto Nazza. I cantanti sono Marracash, alias Fabio Bartolo Rizzo, e Guè Pequeno, ovvero Cosimo Fini. Nessuno dei due è indagato.

E, scrive oggi Il Fatto, nessuno dei due ha voluto commentare le accuse. Eppure il 10 luglio scorso durante un concerto all’Ippodromo di San Siro a Milano Guè ha salutato pubblicamente il boss: «Nazza libero! Free Nazza! Una mano su!». Mentre il 21 settembre scorso sul palco del Forum di Assago Marra saluta proprio Nazzareno Calaiò. E anche Kalash, alias Alessandro Calaiò, figlio del boss. 

I ringraziamenti

«Ci tengo a ringraziare la gente del mio quartiere venuta a queste serate. Mattia (Mattia Di Bella, altro cantante, in arte Young Rame), Kalash (Alessandro Calaiò), Momo e soprattutto il grande zio Nazza. Un abbraccio!», dice Marracash. E Luca Calajò, presente al concerto, manda tutto alla zia e alla moglie di Nazza: «Fai un video, lo zio che ringrazia Marracash, l’ha salutato davanti a tutti, fai fare un video allo zio». Nazzareno Calajò a luglio era in carcere con l’accusa di traffico di droga. A settembre si trovava agli arresti domiciliari.

E la polizia penitenziaria scrive: «È noto che la famiglia Calajò domini il quartiere Barona e il suo predominio lo ha ottenuto anche grazie al consenso di parte della popolazione residente, alimentato mediante numerose comparse dei principali esponenti della famiglia criminale nei videoclip di famosi cantanti rapper come Guè Pequeno, Marracash e Young Rame [...]».

La procura

La procura di Milano spiega invece che la fama e il successo dei rapper servono al tornaconto del boss. Anche per professare la sua innocenza. Mentre proprio Nazza intercettato spiega: «Altro che non servono a un cazzo i cantanti, i cantanti servono!». Gli dedicano anche le canzoni: «Adesso m’hanno fatto una canzone per me Marra, Guè e lui (Young Rame). Compongono le canzoni per me! Hai capito?! Guè pure mi ha fatto una canzone Il tipo». Il testo: «Anche se l’hai capito, tu non fare mai il nome del tipo (…) Finché comanda è meglio che godere (…) Il tipo ha più di un soldato».

Le magliette e i soldi

Non finisce qui. La procura scrive che la solidarietà dei rapper si vede anche dalla produzione di magliette con la scritta “Nazza libero” e “Verità per Nazza”. Vengono indossate dai due nei videomessaggi sui social. Anche se all’inizio Marracash fa un po’ di resistenza. A quel punto Nazza gli dà del «traditore» e dell’«infame». E allora Marracash la indossa. Dulcis in fundo, come emerge da un’intercettazione, c’è un rapper che gira alla banda il 10% degli incassi. Serviranno ad affrontare le spese di detenzione.

Paolo Crepet, rissa con Frankie Hi-Nrg: "Roba da drogati!", il 4 Dicembre 2023 su Libero Quotidiano.

Si infiamma la puntata di In altre parole, il programma del sabato sera condotto da Massimo Gramellini su Rai 3. Nella puntata del 2 dicembre, al centro c'è l'omicidio di Giulia Cecchettin, l'indagine sul profilo dell'assassino, Filippo Turetta, e sul mondo in cui crescono i giovani d'oggi.

Ospite in collegamento lo psichiatra Paolo Crepet, mentre tra gli ospiti in studio ecco anche il celebre rapper Frankie Hi-Nrg. Ad un certo punto della puntata, il discorso verte sulla musica trap, evoluzione più "violenta" del rap, un fenomeno di massa tra gli adolescenti.

E sulla musica trap, Crepet usa torni terminali: "Chi ascolta la trap diventa un drogato!", spara ad alzo zero. E ancora: "Vuol dire droga, mettere il trap vicino al romanzo noir è una cosa faticosa, quando ho letto il romanzo A sangue freddo non sono diventato un assassino". Ma Frankie Hi-Nrg eccepisce: "Questa è una sua dedizione, nessuno che ascolta diventa la trap diventa un assassino, sono deduzioni un po’ tranchant", conclude.

Dario Salvatori per Dagospia giovedì 30 novembre 2023.

Ma era proprio sicuro Alessandro Grando, sindaco di Ladispoli, di sganciare 325 mila euro (di cui 200 mila per Emis Killa e Guè) per la notte di Capodanno? La sua risposta è stata imbarazzante: “In questo modo si evita di far fuggire i giovani dalla nostra cittadina.”. Però. Sono migliaia i giovani e non giovani che tutti i santi giorni fanno i pendolari da Ladispoli a Roma e viceversa. 

Forse aveva fatto i conti con i gusti musicali dei più giovani attraverso una ricerca di mercato. Chissà. Il femminicidio non ha nulla a che vedere e non si fermerà certo facendo bisboccia l’ultimo dell’anno. No, piuttosto bisogna capire perché i nostri rappers cercano di emulare i grandi del rap, al 95% americani, neri, con una situazione territoriale molto diversa dalla nostra. 

Come si può rincorrere un genere che lo scorso luglio festeggiava i cinquant’anni? Non esiste un comparto musicale durato così tanto: non c’è riuscito il free jazz (che pure poteva contare su fior di  musicisti, da Cecil Taylor a Ornette Coleman); non c’è riuscita da dodecafonia, che fece impazzire gli accademici; non ci riuscirono i futuristi, che possedevano gli “intonarumore”.

Un genere musicale innovativo  diventa quasi sempre derivativo e difatti i rappers nostrani sono diventati padri di famiglia, hanno appeso al chiodo il cappellino, sono diventati rigorosamente mainstream e molti fra loro frequentano con piacere la tv. Rispetto al Capodanno sfumato Emis Killa è convinto  che “Nel rap esiste una cosa chiamata storytelling. Io interpreto, invento, racconto fatti che accadono.” Bravo. 

Peccato che lo storytelling esiste da centoquarantanni nel cinema, nella musica, sia in quella popolare ancor di più nel pop. Negli anni Cinquanta c’era Ciccio Busacca con i suoi “quadri”, poco più tardi Matteo Salvatore, ognuno con i problemi della propria regione. Oggi c’è  Ascanio Celestini.

Lo storytelling era fra noi anche negli anni Venti del Novecento. “Balocchi e profumi”(1929), dramma sentimentale, con una conclusione evidente, quella del tardivo pentimento della madre sconsiderata: “Per la tua piccolina/non compri mai balocchi/mamma, tu compri soltanto/i profumi per te.”. Una canzone che non ha risparmiato nessuno, da Gennaro Pasquariello  ad Anna Fougez, fino a Mina e a Renato Zero che la cita “Profumi, balocchi e maritozzi”.  E che cosa è “Il ragazzo della via Gluck”(1966) di Adriano Celentano in versione verista: “Passano gli anni/ma otto son lunghi/però quel ragazzo ne ha fatta di strada/torna e non trova gli amici che aveva.” E che dire di “My way”(1969) di Frank Sinatra, che canta “l’autunno della mia vita”, con un testo tradotto in inglese proprio per lui da Paul Anka (l’interprete di “Diana”): “Morsi più di quello che potevo mangiare”. Già lo immaginiamo. 

E se i rappers italiani hanno poco a che vedere con i colleghi americani (si fa per dire), che sono sono cresciuti nel Bronx o a Watts, periferia di Los Angeles, loro arrivano dalla middle-class, stretti nella loro cameretta. La verità è che stiamo allevando i cantanti e musicisti senza talento di tutti i tempi, consegnando a costoro denaro e popolarità, autorevolezza e una vecchiaia serena costruita  a base di clic.

Non hanno voluto studiare musica, non amano la gavetta, si nascondono fra maschere, tatuaggi, nudità inespressive. Sono i saltafila della musica. Quei tre o quattro che hanno studiato musica lo dicono a mezza bocca. Prendiamo Lazza (Jacopo Lazzarini), il milanese ventinovenne che lo scorso  è arrivato secondo al Festival di Sanremo. Dice di aver frequentato il conservatorio. Perché frequentato? Il conservatorio non si “frequenta”, non è il bar sotto casa o solo perché è a quattro passi. Lazza si è iscritto al Liceo Musicale di Milano che “propone un rapporto di collaborazione educativo con il conservatorio Giuseppe Verdi”.

Morale: lui non si diplomato né al liceo né al conservatorio. Peccato che nel resto dell’Europa ci si “laurea” in piano o in qualsiasi altro strumento, da noi ci si “diploma”. Interessante. E poi perché tutti si fermano all’ottavo anno? Di Morgan lo sappiamo. Abbandonò perché il padre si era suicidato e dunque era lui a dover portare i soldi in casa, lavorando in un piano-bar. A quindici anni?  E che razza di posto era? Gli versavano dei contributi? Probabilmente esiste la malia dell’ottavo anno. Anche per Lazza. Un autentico club. 

Sono stato molto amico di Armando Trovajoli, il grande pianista di jazz, compositore e forse sarebbe stato un grande concertista. E in qualche modo lo è stato. Mi dava dei consigli che avevano l’oro in bocca: “Guarda, se vuoi capire se un pianista è uscito dal conservatorio, guarda se  utilizza la cadenza plagale, ovvero la sottodominante tonica. E’ più morbida, delicata, meno risolutiva. Di solito viene impiegata a metà brano per creare una variazione timbrica alla cadenza iniziale”. Ad averne.

Estratto dell'articolo di Paolo Giordano per ilgiornale.it giovedì 30 novembre 2023.

[…] Il combinato disposto di fatti di cronaca (l'arresto di alcuni trapper, la spaventosa quantità di femminicidi) e della pubblicazione o della riscoperta sempre più frequente di testi violentemente misogini porta molti a chiedere un intervento, magari una censura. Come se quei testi fossero una causa e non uno specchio nel quale si riflettono gravi disagi che investigatori o psicologi sanno spiegare molto bene e che nella musica trovano al massimo una valvola di sfogo e non un detonatore.

[…] In una società liberale, chiunque ha il diritto di scrivere oscenità e l'eventuale dovere di risponderne giudizialmente, così come chiunque può criticare le oscenità, cosa che, nel caso di tanti testi, specialmente quelli misogini o ciecamente maschilisti, vale la pena fare. Ma poi basta. Come ha detto Caterina Caselli su questo Giornale, la censura non è la via giusta. Dopotutto, quando si è provato a intervenire in questa direzione, il risultato è stato addirittura controproducente.

L'ultimo esempio clamoroso è quello del Pmrc, ossia il Parents Music Resource Center voluto negli Stati Uniti di metà anni Ottanta da Tipper Gore, moglie del futuro vicepresidente Al Gore. Nel 1985 lei aveva regalato a sua figlia undicenne il disco Purple Rain di Prince, salvo poi scoprire un riferimento all'autoerotismo nel brano Darling Nikki. Patatrac. […]

Grazie all'accordo con i discografici della Riia, fu addirittura imposta l'applicazione sui dischi dell'adesivo «Explicit content» in modo da avvisare dei contenuti. Risultato? I crimini non diminuirono, l'adesivo divenne così «cool» che tanti artisti lo volevano in copertina per aumentare le vendite e il rap iniziò massicciamente ad avere testi fuorilegge diventando «gangsta» con brani come Cop killer, assassino di poliziotto, dei Body Count di Ice T. E come andò a finire?

Il gigantesco Frank Zappa (che già aveva protestato con Reagan) partecipò all'audizione pubblica in Senato accompagnato da John Denver e Dee Snider dei Twisted Sister e fu visionario come sempre. Se va avanti così, disse, finirà che «il Pmrc imporrà che i membri omosessuali di un gruppo non cantino e non vengano citati sulla copertina di un disco». E poi liquidò tutto con una delle sue battute fulminanti: «È come se si curasse la forfora tagliando la testa». Oggi ci siamo di nuovo, si invocano le ghigliottine senza capire che l'importante non è tagliare teste ma curare finalmente la forfora. 

Estratto da open.online giovedì 30 novembre 2023.

Rebecca Staffelli, figlia dell’inviato del programma Mediaset Striscia la notizia, è stata sentita in aula di tribunale dai giudici di Monza in merito alla denuncia di diffamazione e atti persecutori contro il trapper Mr. Rizzus. In un brano pubblicato su YouTube invitava i «delinquenti» della Gang 20900 – di cui farebbe parte il rapper monzese – a  «sc****e la figlia di Staffelli». Sui social, ricostruisce il Corriere della Sera, aveva minacciato anche un altro inviato di Striscia, Vittorio Brumotti, ed era stato condannato per rapina e aggressione a 2 anni e 4 mesi. 

Il tribunale di Milano, questa estate, aveva disposto la sorveglianza speciale nei suoi confronti, per le minacce e l’incitamento alla violenza nei suoi testi e sui social, e per non aver cambiato «attitudine e stile di vita» nonostante l’intervento della magistratura. [...] 

Estratto del testo di "Inseguimento" - Mr Rizzus

Siamo in giro dalle tre di notte, tre pattuglie dietro fanno inseguimento

No, non cago mai più 'ste mignotte, ogni sbaglio fatto è tipo insegnamento

Il mio amico stende altre due botte perché dice che così rimane sveglio

Tu mi parli ma chi se ne fotte, pensi sono un babbo ma sono il più sveglio

Ogni volta che sto in giro mi ricordo che sono io il re della Brianza (ehi)

Fatti un tiro di ’sta roba, questa troia dice che vuole una nuova sciarpa (ehi)

20900 stupida puttana, fumo il tuo stipendio in una settimana

Provoco un incendio dentro la tua casa, lei mo' sta venendo e poi si è innamorata 

Estratto del testo di "Faccende" - Mr Rizzus

"La mia ex è una puttana mi ha mollato ora a Monza non ci gira

Sono già stato indagato esco due secondi e mi fan la perquisa

Fra sogno un colpo di stato mentre fumo weeda fatto in prima fila

Sì sono stato arrestato scopo sta cavalla siamo in ketamina"

Gino Castaldo per "la Repubblica" -Estratti mercoledì 29 novembre 2023.

Ci manca solo la caccia alla streghe del rap, come se la causa di ogni male fosse una manciata di canzoni che sono poco garbate nei confronti delle donne, per non dire di peggio. Queste canzoni — ce ne sono di tremende — non sono la causa ma casomai parte del problema, soprattutto quando rispecchiano quel vecchio drammatico sentire di arroganza e prevaricazione maschile. Da lì a considerarle un incoraggiamento al femminicidio ce ne corre. 

Queste associazioni meccaniche sono indimostrabili e pericolosissime perché giustificano percorsi tutt’altro che scontati ed emanano un pessimo odore di censura. Un cantante ha il diritto di pubblicare un brano maschilista e prendersene la responsabilità, così come ognuno di noi ha il diritto di sostenere che quello è un brano maschilista.

A guardarsi bene in giro di canzoni discutibili ce ne sono da ogni parte, perfino nella tradizione più classica, vedi Tom Jones che cantava Delilah, né più né meno un femminicidio confessato. I crimini, quelli veri, sono un’altra cosa. Se andassimo ad analizzare i gusti musicali dei mostri che maltrattano le donne, che le ritengono oggetti di loro possesso, forse scopriremmo associazioni tutt’altro che prevedibili. 

Charles Manson, leader della setta che ha compiuto la strage di Bel Air, era un accanito fan dei Beatles, i suoi seguaci scrissero Helter skelter sul muro col sangue delle vittime. Quando i Velvet Undeground incisero il pezzo di Lou Reed intitolato Heroin in molti lo accusarono di istigare all’uso di droga e lui si difese dicendo che ciò che raccontava era l’inferno della tossicomania, altro che un incitamento. Il confine è molto labile, a volte inesistente, e questo vale per serie tv, film e videogame dove la violenza è un’apoteosi devastante; eppure nessuno si sogna di bandirli perché diseducativi o inneggianti alla barbarie. 

(…)

(ANSA mercoledì 15 novembre 2023) - Sono stati condannati rispettivamente a 6 anni e 4 mesi e 5 anni e 2 mesi i trapper Mohamed Lamine Saida, detto Simba La Rue, e Zaccaria Mouhib, ossia Baby Gang, nel processo milanese con rito abbreviato con al centro la sparatoria, avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 luglio 2022 in via di Tocqueville, vicino a corso Como, zona della movida milanese, in cui rimasero feriti due senegalesi. Lo ha deciso la settima penale di Milano che ha condannato anche altri sei giovani della loro "crew" a pene fino a 5 anni e 8 mesi.

I giudici (Tremolada-Pucci-Gallina) hanno confermato, con pene più alte rispetto a quelle chieste dalla Procura, l'impianto accusatorio dell'inchiesta coordinata dal pm Francesca Crupi e condotta da polizia e carabinieri. Riconosciute tutte le imputazioni contestate: dalla rapina, "il fatto più grave" per i giudici, fino alla rissa, alle lesioni gravi e al porto della pistola, riqualificato come detenzione di arma clandestina. 

Sono stati condannati anche Faye Ndiaga, a 5 anni e 8 mesi, colui che materialmente gambizzò i due, Eliado Tuci, 4 anni e 6 mesi, Pape Loum, a 4 anni e 5 mesi, Mounir Chakib, detto "Malippa", il manager dei trapper, a 3 anni e 8 mesi. E ancora 4 anni e 2 mesi per Alassane Faye e Andrea Rusta. Per Simba, che per l'accusa avrebbe portato quella sera la pistola, mai trovata, la Procura aveva chiesto 5 anni e 8 mesi e per Baby Gang 4 anni e 8 mesi. La condanna per quest'ultimo, a 5 anni e 2 mesi, comprende in continuazione un patteggiamento definitivo per un'altra pistola che gli fu trovata quando venne arrestato assieme agli altri nell'ottobre 2022, su ordinanza del gip Guido Salvini. Nessuno di loro è ancora in carcere.

Baby Gang, 22 anni, è stato già condannato a 4 anni e 10 mesi per una rapina in primo grado, mentre Simba, 21 anni, a 4 anni nell'altro procedimento parallelo su una "faida" tra gruppi di trapper. Il pm nel processo sulla sparatoria aveva messo in luce l'intento di "sopraffazione" del gruppo: non hanno rubato (un borsello ai due senegalesi) perché "hanno bisogno di soldi, come testimoniano i loro contratti e i loro cachet". L'ultima "resipiscenza" degli imputati, tra cui le parole, nel senso di un cambio di vita, pronunciate da Baby Gang in udienza, secondo il pm, "vale poco".

Gli imputati, difesi dai legali Niccolò Vecchioni e Jacapo Cappetta, hanno risarcito i feriti, ma per la Procura "si è trattato di qualche centinaio di euro, niente in confronto dei loro cachet". I giudici hanno comunque concesso le attenuanti generiche per tutti gli imputati, presenti in aula e che se ne sono andati senza parlare.

Estratto dell'articolo di Monica Serra per “la Stampa” venerdì 27 ottobre 2023. 

Jaguar e pallottole. Nelle finzioni dei video delle hit come nella realtà, senza capire mai davvero dove finiscano le prime e inizi la seconda. Una linea sottile varcata spesso, come documentano fascicoli di inchiesta e condanne inflitte negli ultimi anni a componenti più o meno noti delle bande di rapper e trapper rivali che dominano la scena milanese. […] 

Questa volta in carcere è finito il rapper ventiquattrenne Shiva, al secolo Andrea Arrigoni, per aver tentato di ammazzare a colpi di pistola due ragazzi della gang rivale proprio del cortile della sua etichetta discografica, Milano Ovest, in via Cusago a Settimo Milanese. La faida in atto tra i due gruppi è nota ormai a tutti, agli investigatori della Squadra mobile così come nell'ambiente musicale: da una parte Shiva e i suoi amici, dall'altra Rondo da Sosa (non indagato in questo fascicolo) e i trapper della SevenZoo di Milano, che gravitano nel quartiere di San Siro.

L'ultima battaglia di un «dissing» lanciato in primavera sui social, con insulti e accuse incrociate, e proseguito con un paio di risse – di cui una con inseguimento in via della Moscova, pieno centro di Milano – si è consumata l'11 luglio. Le due vittime, con un terzo giovane che col cellulare registrava tutto […] , poco dopo le 20 hanno varcato il cancello del cortile della casa discografica, come ricostruito dai poliziotti diretti da Marco Calì attraverso le telecamere di sorveglianza.

Nelle immagini nitide si vede Shiva con gli amici correre prima all'interno della sede, poi uscire con un'arma in pugno. Una pistola calibro 9x21 che non sarà mai ritrovata dagli investigatori e che – tra le altre cose – fa dire alla gip Stefania Donadeo che Shiva potrebbe rifarlo, potrebbe sparare ancora[…] alla vista dei due aggressori, il rapper «non si è limitato a sparare una sola volta per impaurirli ma più volte, puntando i corpi e colpendoli mentre erano in fuga», è scritto nel provvedimento. Un proiettile dopo l'altro è stato esploso «ad altezza uomo». […]

«È un agguato di una gang con passamontagna e bastone», ha detto al 112 il passante che per primo quella sera ha lanciato l'allarme. Poi ha chiesto aiuto una delle due vittime, il 25enne Alessandro R., ferito di striscio a una gamba, soccorso a un centinaio di metri dalla casa discografica. Poco e niente ha voluto dire agli agenti della Volante intervenuti, perché la prima regola in questa lotta tra bande è l'«omertà» assoluta, come sottolinea anche la gip. 

Che rimarca la «pericolosità sociale» di Shiva, sostenendo che l'unico rimedio per fermarlo è il carcere. […] Perché quello dell'11 luglio non è stato un episodio isolato. Solo il 30 agosto, a San Benedetto del Tronto per un concerto, armato di coltello avrebbe preso parte a una nuova rissa: «Non passare qua sotto… – diceva intercettato al suo addetto alla sicurezza – ci siamo scannati con uno che voleva farci brutto!».

Estratto dell'articolo di Enrico Spaccini per fanpage.it lunedì 30 ottobre 2023.

Alessandro Maria Rossi e Walter Pugliesi sono stati iscritti sul registro degli indagati per l'ipotesi di reato di violazione di domicilio. I due lottatori di Mma, il primo 25enne di Vimercate e il secondo 30enne di Lodi, la sera dell'11 luglio avrebbero tentato il pestaggio di Shiva nel cortile dell'etichetta discografica del rapper Milano Ovest di via Cusago a Settimo Milanese. Agguato poi terminato con il rapper 24enne che li ha fatti fuggire sparandogli contro. 

Come si è visto dalle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza, i due erano entrati poco dopo l'arrivo di Shiva, al secolo Andrea Arrigoni, inseguendolo fin dentro i locali della struttura. Poi, però, il rapper 24enne ha impugnato una pistola calibro 9×21 facendoli scappare e sparandogli addosso.

Per quegli avvenimenti Shiva è stato arrestato e portato in carcere a San Vittore con l'accusa di duplice tentato omicidio e porto abusivo di armi. Rossi e Pugliesi, invece, sono stati iscritti nel registro degli indagati […] 

Shiva ha raccontato che quel giorno ha sparato per difendersi da un'aggressione: "In due si sono avvicinati e mi hanno colpito spaccandomi la mandibola". Secondo l'accusa, però, il rapper avrebbe sparato con una pistola detenuta illegalmente, e non ancora ritrovata, "ad altezza d'uomo".

Estratto dell’articolo di Giulio De Santis per roma.corriere.it lunedì 30 ottobre 2023.

«Da mesi non stiamo più insieme, sono distrutta da quello che ho dovuto sopportare. Non voglio più avere nulla a che fare con lui». Alice (nome di fantasia), 29 anni, racconta così il calvario che ha vissuto. Si sfoga ma evita di nominare l’ex compagno Gabriele Magi, il trapper noto come Gallagher arrestato sabato scorso con l’accusa di averla maltrattata nei due anni in cui sono stati insieme. 

Una rimozione, quella del nome, che le 12 pagine di ordinanza di custodia cautelare spiegano attraverso gli episodi di vessazioni subite da Alice, figlia dell’ex proprietario di una nota discoteca cittadina, cuore pulsante della notti romane tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo. 

Violenze quando Alice era incinta

Ecco alcune delle tappe più amare del calvario di Alice: una costola rotta dopo un pestaggio, i calci sul viso, la spinta contro un termosifone quando lei è incinta del loro bambino. «Adesso devo pensare ai miei figli (il primo avuto da una precedente relazione, ndr), la loro serenità viene prima di ogni altra cosa», dice la ragazza, choccata dalle violenze subite. [...]

«Alterazione legata alle droghe»

Nel capo d’imputazione contro il trapper sono riassunte le tappe del calvario di Alice: il 12 luglio del 2022 Magi rientra a casa, era «strafatto, sembrava indemoniato», racconta un amico di Alice, andato a trovare la compagna di Gallagher. Che, come li vede, inveisce. Inizia a picchiarli entrambi. «Era strafatto, mi ha colpito con un calcio alla schiena così forte che mi ha fatto cadere per terra - dice lei agli inquirenti –. Avvertivo dolore perché un pezzo di costola mi si era staccato». 

Il ricordo dell’amico di Alice è ancora più grave: «Lei era in terra dolorante e Gabriele diceva di non averle fatto nulla ma, nel frattempo, le dava calci sul corpo mentre lei era distesa sul pavimento». Semplice, almeno secondo il ragazzo, spiegare perché Magi fosse così violento: «Era evidente che il suo stato di alterazione fosse collegato all’uso di droghe». 

[…]

La minaccia di usare la pistola

Gallagher reagisce tempestando la compagna di messaggi, e soprattutto arriva a minacciare l’amico, intimando di comunicargli l’indirizzo di casa altrimenti lui sarebbe andato a cercarli con la pistola. Tante volte tra il 2021 e il 2023, come raccontato nell’ordinanza, Alice ha preferito evitare una denuncia. È l’aprile di due anni fa quando Gallagher, in uno scatto d’ira, perde ancora il controllo. Ricorda Alice gli inquirenti: «Si dimostrò aggressivo, colpì molti oggetti in casa». Lei, forse intuendo quale evoluzione avrebbe potuto avere il rapporto, ha troncato la relazione. 

Poi però si è accorta di aspettare un figlio. Ha pensato di abortire, perché Gallagher faceva uso di cocaina e di psicofarmaci, come è spiegato nell’ordinanza. È stata la madre del trapper a convincerla a tenere il figlio. Alice non parla dei guai con il padre, contrario alla relazione. Lo ammette agli inquirenti lo stesso imprenditore, dicendo che «la figlia non gli ha detto niente dei litigi».

L’ultima lite lo scorso 8 settembre: in ospedale scrivono di «percosse agli arti superiori» di Alice. Scatta la denuncia, poi l’arresto. E il trapper? L’avvocato Gian Maria Nicotera dice: «Il mio assistito è sorpreso e addolorato da quanto successo».

(Adnkronos il 13 ottobre 2023) - Mohamed Lamine Saida, il trapper 21enne famoso come Simba La Rue, è stato condannato a 4 anni per rapina e lesioni nel processo con rito abbreviato sulla cosiddetta 'faida tra trapper', che aveva portato il 9 giugno 2022 anche al sequestro e al pestaggio del rapper 'rivale', Baby Touché, che però non ha mai formalizzato querela rendendo impossibile il processo per sequestro di persona. 

Il gup di Milano Rossana Mongiardo ha ratificato un patteggiamento e ha condannato gli altri imputati. Il giudice ha anche condannato Mevljudin Hetem a 3 anni e 8 mesi, mentre la 21enne Sara Ben Salha - ritenuta dagli inquirenti l''esca in carne e ossa' per il pestaggio al centro del fascicolo nelle mani della pm di Milano Francesca Crupi - è stata condannata a 3 anni 5 mesi e 10 giorni per il "concorso anomalo" nella rapina con lesioni subita da due ragazzi in via Settala, quale ipotizzata vendetta per un accoltellamento subito dal gruppo.

Al centro del processo c'è la vicenda che risale al marzo del 2022, quando due giovani, considerati vicini al gruppo del rapper Baby Touché vengono aggrediti in via Settala, in zona Porta Venezia a Milano: azioni, secondo la procura, commesse dal gruppo "per sfregio e punizione" con il fine di "mortificare"  la vittima,  un giovane che faceva parte della banda rivale. 

Il gup, che ha riconosciuto le attenuanti per gli imputati, ha ratificato il patteggiamento per Alan Cristopher Momo (3 anni, 4 mesi e 20 giorni) e ha condannato due imputati a 8 mesi (Pape Ousmane Loum e il manager Chakib Mounir detto Malippa), 10 mesi la condanna invece per Ndiaga Faye. Le motivazioni

saranno rese note tra 30 giorni.

Gli imputati, tutti difesi dall'avvocato Niccolò Vecchioni, hanno lasciato l'aula al settimo piano del Palazzo di giustizia senza rilasciare dichiarazioni, Simba La Rue si è limitato a una storia su Instagram per mostrare i giornalisti presenti. Il 21enne è anche a processo davanti alla settima penale, con l'altro noto trapper Baby Gang e altri giovani imputati, per una sparatoria avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 luglio 2022 in via di Tocqueville, zona della movida milanese, in cui rimasero feriti due senegalesi.

Estratto dell'articolo di Alice Michielon per alfemminile.it sabato 7 ottobre 2023.

Nel[…]L’hip hop, […]le donne sono una parte consistente della […] cultura, di cui si festeggia quest’anno il suo 50esimo anniversario. […] nel bene e nel male […] infatti, le donne hanno rivestito importanti ruoli all’interno della cultura hip hop sia per il modo in cui gli uomini parlavano di (e trattavano le) donne nei loro testi e fuori dallo spartito, sia per l’aspetto pionieristico di molta musica hip hop made by women.

Inoltre, l’impennata di musica hip hop attualmente creata dalle donne dimostra come il genere sia passato dall’essere uno strumento di misoginia a uno di autodeterminazione. Il tutto, anche attraverso la sessualizzazione del sé, che dalle mani d’altri passa nelle nostre (non senza, ovviamente, le solite critiche). La sessualizzazione e oggettificazione del corpo femminile ha infatti percorso, all’interno del genere musicale, una complessa giravolta che, in gran parte, segue quella compiuta dal resto della società.

[…]

 […]

Vista la considerazione data alle donne nei video e nei testi hip hop più popolari di quegli anni, secondo Michelle Wallace, firma dell’articolo del 1990 Women Rap Back, è naturale notare come molte donne abbiano deciso di utilizzare il genere stesso per elaborare critiche e sviluppare forme musicali di resistenza femminista, parlare di sesso come di atto politico, ribellarsi contro la violenza di genere, fare spazio all’innovazione della body positivity.

Parliamo di Let’s Talk About Sex di Salt-N-Pepa, dei video musicali di Missy Elliot e dei testi sessualmente espliciti di Lil’ Kim e Foxy Brown, per esempio. Istanze politiche che sono sfociate in vere e proprie insurrezioni e, purtroppo, in casi di cronaca reale. Come quando la rapper e giornalista Dee Barnes, vittima di violenza da parte de famoso rapper Dr. Dre; come Faith Evans, che spesso ha raccontato le “turbolenze” del proprio matrimonio con the Notorious B.I.G. […]

Difatti, secondo l’esperta di femminismo e cultura africane, Msia Kibona Clark, le donne del mondo hip hop degli anni Ottanta e dei primi Novanta erano “sostanzialmente invisibili”, con l’arduo compito di navigare all’interno di un sistema intriso di sessismo e molestie sessuali di ogni tipo[…]

La direttrice del Center for Black Visual Culture alla New York University spiega che nei libri di storia, le donne del rap appaiono come le eccezioni alla regola, coloro che andavano contro quelli (gli uomini) che stavano effettivamente creando la cultura hip hop. Niente di più falso: “L’hip hop non può raccontare la propria storia da subcultura a monopolizzatore della scena senza riconoscere il proprio rapporto con il genere”, nonostante la sua evidente componente misogina.

[…] però, ciò non ha mai limitato le artiste a sfondare con il rap o a innamorarsi di questo linguaggio musicale. Ne è prova l’esplosione di rapper donne negli Stati Uniti, a fronte di tutti gli ostacoli che ancora nella nostra generazione queste artiste devono affrontare. Parliamo di Missy Elliot, la prima donna nel rap a essere compresa nella Rock & Roll Hall of Fame; di Cardi B, la prima rapper a vincere il premio come Best Rap Album ai Grammy, con il suo album di esordio nel 2019.

Ma anche di Megan Thee Stallion, seconda detentrice del genere hip hop, dopo Lauryn Hill, del premio Best New Artist. E pure Nicky Minaj, […] Ma nella rappresentazione dei corpi femminili e delle donne, sia da parte degli artisti uomini che non, che cosa è cambiato da allora a oggi?

La ricercatrice Christin Smith spiega che il trattamento sessualizzante è stato preso in mano dalle vittime di esso, per poterne fare un proprio strumento di gioco. Nonostante le rapper parlassero di sex positivity già agli albori dell’hip hop, è solo a partire da artiste come Lil’ Kim e Foxy Brown che il dialogo sulla sessualità si fa più aperto e personale, catturando controversie e ipocrisia.

Le loro canzoni, infatti, erano spesso considerate “troppo sexy” (non quando però, a parlare di loro nello stesso modo, erano i colleghi maschi). Il problema, come spesso accade, risiedeva non nella sessualizzazione, ma nel fatto che queste donne la facessero propria. L’evoluzione dell’hip hop (anche) in questo senso trova il proprio picco intorno ai 2000 – 2010, con l’arrivo di Nicky Minaj e lo sviluppo della tecnologia che ha concesso all’iper democratico hip hop di diventare ancora più alla portata di tutti. […]

Il filo rosso rimane il medesimo: l’empowerment femminile. Ma se prima avveniva in contrapposizione alla sessualizzazione da parte di altri, ora la frittata è stata rigirata e le rapper raccontano la propria libertà sessuale ed economica attraverso i testi e i video delle loro canzoni. […] non la prima, ma la rapper che lo ha fatto in maniera più efficace e che ha aperto le porte alle future colleghe, è stata di nuovo Lil’ Kim con il debutto da solista Hard Core.

Questo “manifesto femminista” esprime il desiderio dell’artista di ottenere lo stesso potere, gli stessi vizi e lussi e il medesimo ruolo di leader dei suoi simili uomini.[…] . Il tema si è rivelato particolarmente caldo all’uscita del singolo WAP (Wet Ass Pussy) nel 2020, firmato Cardi B e Megan Thee Stallion. Un dibattito che raramente è stato aperto di fronte ai testi iper sessualizzanti dei loro colleghi uomini.

A 50 anni dalla nascita del genere hip hop, a fronte di tutte le sue trasformazioni e davanti all’evidente popolarità di artiste donne nel genere (che, ricordiamolo, sono sempre esistite), non ci resta quindi che una sola, grande speranza: che la corsa non si arresti e che, anzi, possa scardinare sempre di più gli stereotipi del rap e dimostrare come le donne nella musica, e non solo, possano raccontare e rappresentarsi nelle loro più numerose sfumature, autodeterminandosi senza limiti di sorta, né differenze.

Mezzo secolo di hip hop. La lingua del Bronx ora è l'esperanto della musica. Quella sera dell'11 agosto 1973, una delle strade più pericolose del mondo diventa la culla di un genere musicale che cambierà il mondo, come solo il rock'n'roll era riuscito a fare. Paolo Giordano il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.

Quella sera Cindy pensava che a casa sua nel West Bronx ci sarebbe stata solo la festa per il ritorno a scuola. Invece fu una rivoluzione, quella sera dell'11 agosto 1973. Aveva chiesto a suo fratello Clive Campbell detto Dj Kool Herc (fumava pacchetti di Kool ed era grosso come Hercules) di «mettere i dischi» e lui si presentò con due giradischi e un mixer inventando lo «scratching». Era presto, tipo le nove di sera perché tutti avevano sedici o diciassette anni, ma se oggi ovunque a tutte le ore si ascolta l'hip hop, beh, bisogna ringraziare proprio quella festicciola con Coca e patatine al 1520 della lunghissima Sedwick Avenue. Una delle strade più pericolose del mondo diventa la culla di un genere musicale che cambierà il mondo. Come soltanto il rock'n'roll era riuscito a fare, l'hip hop (termine che sembra deridere l'incedere dei militari nelle marce) ha influenzato non soltanto la musica ma pure la società oltre che, naturalmente il costume, ha litigato con la politica e ora la condiziona, ha seminato morti, è penetrato nelle generazioni vestendo suoni sempre distinti ma mai diversi. Dalle feste casalinghe ai block party nel Bronx o a Harlem, fino alla «new school», al «gansta rap», all'«alternative» e alla trap, l'hip hop si è espanso al punto che oggi nessun genere musicale è immune a un codice così fluido da adattarsi e rinnovarsi con il tempo. Un processo lento, lentissimo che è nato quando i Led Zeppelin riempivano gli stadi e i «coliseum» americani e per il resto dell'Occidente la black music era al massimo quella di James Brown e del blues e del soul firmati Motown o Stax Records, non certo quella piena di rabbia, di slang inediti o incomprensibili, di voglia bruciante di sognare diverso. La forza dell'hip hop è che non è soltanto musica, ma è una sottocultura allargata ai graffiti, alla break dance, al beatboxing e al linguaggio, sì al linguaggio, perché la lingua dell'hip hop ormai è l'esperanto più diffuso ovunque tra gli under 50. A proposito: generalmente hip hop e rap si usano come sinonimi ma non lo sono. Il rapping è per forza hip hop. Ma l'hip hop può incorporare altri elementi della cultura del movimento, come Djing, turntablism, scratching eccetera. Oggi che compie mezzo secolo, nel monte Rushmore dell'hip hop sono scolpiti i volti di Dj Kool Herc, di Grandmaster Flash, di Afrikaa Bambaataa e dei The Sugarhill Gang che nel 1979 furono i primi a registrare un brano hip hop, Rapper's delight. In Rapper's delight ci sono le coordinate che ancora adesso, rivedute e (s)correttissime, sono la guida del genere, ossia l'utilizzo di sezioni strumentali di brani preesistenti (in questo caso di Good Times degli Chic) e il cosiddetto «rapping», che è un modo di comunicare sincopato che deriva dal «toasting» giamaicano e che necessariamente mescola il contenuto, il «flow», cioè il ritmo, e la consegna, cioè la cadenza. Cresciuto sottobraccio alla tecnologia (da quando campionamenti e drum machine sono arrivati alla portata di tutti) l'hip hop è stato innanzitutto la negazione dei capisaldi della musica fino ad allora, ossia il virtuosismo vocale o strumentale e la presenza di musicisti. L'hip hop si può creare ovunque, anche da soli, anche senza strumenti. Perciò si può mescolare a tutto. E non a caso tra il 1983 e il 1986, la seconda ondata di rap assorbe il rock e, grazie soprattutto a Run Dmc, LL Cool J (che oggi è Sam Hanna in Ncis Los Angeles), Public Enemy e Beastie Boys (epocale la Walk this way con gli Aerosmith), arriva a bussare alle classifiche mondiali, a prendere nomination ai Grammy, a finire sulla copertina di Rolling Stone. A fine anni '80 il genere prima chiuso nel ghetto era salito sul tetto del mondo e da allora non ne è più sceso. Ha macinato lo sleaze metal dei Guns N'Roses, il grunge dei Nirvana, l'alternative rock fino a diventare il protagonista totale. L'hip hop è un impero miliardario. E lo è diventato anche creando misteri e leggende, offrendo in sacrificio Tupac Shakur («sparato» a Las Vegas l'8 settembre 1996, morì pochi giorni dopo) e The Notorius B.I.G. («sparato» a Los Angeles con una 9 millimetri il 9 marzo del '97) e lanciato artisti che fatturano come multinazionali. Secondo Forbes il rapper più ricco di tutti è Kanye West con 6,6 miliardi di dollari, il secondo è Jay-Z con 1,3 miliardi, il terzo è Sean Combs detto Diddy con 900 milioni e via dicendo. A produrre reddito non sono soltanto dischi o concerti, ma il gigantesco indotto di merchandising, prodotti brandizzati, linee di moda, addirittura cantine che producono vini (Snoop Dogg) o champagne (l'Armand de Brignac di Jay Z). Di certo sono incassi cento o mille volte superiori a quelli dei primi Mc, dei master of cerimonies che davano il ritmo ai block party di fine '70. E questi fatturati sono anche un paradigma di quanto sostanzialmente il rap abbia raggiunto l'obiettivo iniziale, quello della rottura dell'isolamento, dell'uscita (fisica e politica) dal ghetto. Una scintilla decisiva che però oggi è sempre più spesso parodistica, specialmente in Italia dove i «ghetti» sono molto meno definiti che quelli degli anni '80 negli States. Ma senza dubbio il «codice hip hop», anche nella fase «gangsta» con brani come Cop killer (assassino di poliziotti) di Ice T che fece arrabbiare tutti, George Bush compreso, ha aiutato a superare diffidenze razziali che avrebbero impiegato molto più tempo ad assorbirsi. È la forza della musica, una forza che spesso la politica dimentica. E senza dubbio la forza del rap è che, a differenza del rock, è un magma in continua evoluzione, quindi è sempre nuovo, nonostante tutto. Se dalla fine degli anni Novanta è il genere musicale più venduto al mondo (con qualche lieve flessione) è anche vero che i rapper di fine '90 sono lontani anni luce rispetto ai nuovi. Prendete Eminem, il primo «bianco» di strepitoso successo, il primo a «riunificare» da protagonista il popolo rap. Il suo Marhall Mathers Lp del 2000 era una bomba di inaudita violenza (anche verbale) e lui resta un generale a tre stelle del rap. Ma se si mettono a confronto quelle canzoni con quelle del nuovo disco Utopia di Travis Scott, pupillo di Kanye West e nuovo eroe della trap (c'è ancora polemica sul suo concerto al Circo Massimo di Roma del 7 agosto), sembrano di un'era geologica fa. Eppure hanno tutte il marchio hip hop. Insomma, senza rap il mondo sarebbe, penserebbe, voterebbe, si vestirebbe diverso. E probabilmente parlerebbe anche diverso perché, a parte eccezioni come Kendrick Lamar che ha vinto il Premio Pulitzer per la musica, la (multi)lingua del rap si è imposta nel dizionario globale. Aprendo a nuovi, decisivi argomenti. Ma abbassandone il livello e rimanendo stranamente al di fuori della tagliola politicamente corretta che anestetizza la comunicazione. Dopotutto, la musica popolare è spesso «disobbedienza» e, come diceva Sartre, «chi è giovane vuole ricevere ordini per poter poi disobbedire». Jim Morrison o Bob Dylan o Nick Cave disobbedivano facendo poesia. Adesso si preferisce la poetica della volgarità e chiunque decida alla fine che cosa preferisce.

Estratto dell'articolo di Alberto Piccinini per editorialedomani.it venerdì 11 agosto 2023. 

L’11 agosto 1973, cinquant’anni fa esatti, in un locale al pianterreno di un condominio del Bronx nasceva l’hip-hop. Il dj Kool Herc […]17 anni, fratello di Cindy Campbell che aveva organizzato una festa per il ritorno a scuola, acceso l’impianto (suo padre faceva di mestiere il tecnico del suono) svela ai ballerini il frutto di lunghe prove in cameretta: suona due copie dello stesso disco su due giradischi sincronizzati, in modo da allungare per molti minuti la parte ritmica di alcune canzoni, che lui chiama “break”. Taglia e cuce James Brown, Eddie Kendricks, Aretha Franklin. […]

Sono gli anni in cui il comune di New York è sull’orlo del fallimento, la città un misto affascinante di immondizia e luci, crimine e grattacieli, la raccontano Shaft, Il braccio violento della legge, e perché no Gola Profonda appena uscito. […]

Kool Herc fiuta l’aria e evita accuratamente di suonare la discomusic di Philadelphia, in grande ascesa allora: più sofisticata, con sezioni di archi, cassa in quattro ben scandita e coretti sexy. Questo lo mette una spanna di gradimento sopra gli altri dj. Sui break gli improvvisati ballerini – molti dei quali appartengono alla gang dei Black Spades che controlla il quartiere – si sfidano alla maniera di West Side Story, trasformano i gesti di combattimento nelle coreografie e spaccate che hanno visto fare a James Brown in televisione mentre cantava Got to get your feet, una delle sue hit recenti. La loro si chiamerà breakdance, appunto.

Dal party di Kool Herc nel sottoscala di casa sua alle feste nei parchi del quartiere. Rubando la corrente, secondo una leggenda diffusa ai tempi nostri dell’hip-hop delle posse e dei centri sociali. Di sicuro, senza l’appoggio delle gang feste al Bronx non se ne potevano fare: misto di autoorganizzazione e illegalità, eredità delle Black Panther e ombra delle grandi organizzazioni criminali. Era stato soprattutto Afrika Bambaata, una delle prime star internazionali negli anni Ottanta e leader della Zulu Nation, a diffondere la leggenda[…]

È stato il primo a contare le “quattro discipline” dell’hip-hop: Kool Herc inventa il djing e Grand Master Flash lo perfeziona, il suo amico Coke La Rock da il via all’Mcing, cioè il rap vero e proprio. Della breakdance e del suo legame simbolico con i combattimenti tra gang abbiamo detto. Viene del Bronx Phase II, uno dei primi graffitisti di New York, ma lo stesso Kool Herc faceva parte dei Vandals, tra i primi a lasciare le proprie tag in città. 

La storia è fiabesca. I B-boy di tutto il mondo se la raccontavano così, rendendo omaggio ai fondatori, agli innovatori e pure ai martiri. In parte è una storia inventata. […]

Eppure, festeggiare l’anniversario di una festa da ragazzini è così affascinante nella sua semplicità proprio per l’enormità di quel che ne è seguito nei 50 anni successivi: l’hip-hop da almeno due o tre decenni è la lingua franca del pop planetario, cantato in ogni lingua e stile, nella forma della trap con o senza auto-tune. Né bisogna dimenticare che dopo l’estate 1973 del party di Kool Herc passano almeno sei-sette anni perché la discografia si accorga davvero del fenomeno. 

Soltanto per la piccola Sugarhill Records di Sylvia Robinson escono nel 1979 il primo singolo rap Rapper’s Delight della Sugarhill Gang, e nel 1982 The Message di Grand Master Flash. […] 

[…]

Sembra un’impresa impossibile riuscire a tirare una linea dritta tra una serata di 50 anni fa in questo condomino del Bronx e il grumo di estetica, politica, spettacolo che l’hip-hop si è tirato dietro da allora. Ha fatto esplodere contraddizioni di ogni tipo, dalla questione dell’autorialità nell’era digitale all’autorappresentazione dell’identità afroamericana. E le “quattro discipline”? Alla figura del dj si è sostituita quella del produttore, il pc ha preso il posto di piatti e campionatori, ma l’estetica del taglia e cuci in fondo è rimasta al suo posto. Si misura in epoche il tempo passato tra le rime di The Message, tutte in battere senza pause, e i testi cubofuturisti di un qualsiasi trapper di oggi con la voce resa marziana dall’autotune. 

[…] Della breakdance resta la forma spettacolare del ballo negli show e nei video. L’eterna lotta tra quelli che taggano la metropolitana o graffitano la Galleria Vittorio Emanuele di Milano e quelli che il giorno dopo ripuliscono tutto non finisce mai, come giocare a guardie e ladri.

L’hip-hop oggi è un forza economica che fa muovere lo streaming, persino i marchi dell’alta moda, è un fucina di personaggi e storie che contano sull’affetto di almeno due-tre generazioni (e di conseguenza pure dell’odio dei vecchi verso gli ultimi arrivati).

Fenomeno (anche) sconveniente, irriducibile, coatto, rumoroso, profondamente impolitico come tutti i grandi fenomeni della cultura popolare. Afroamericano, come il blues o il jazz. Eppure impossibile da tenere ai margini: globale e dialettale. Stile maschio, Travis Scott al Circo Massimo, gladiatori. All’entrata del condominio del Bronx, a suo tempo il sindaco della città ha autorizzato ad appendere il cartello verde “Hip-hop Boulevard” sotto quello che prima segnava la “Sedgwick Avenue” al numero 1520. E noi ci facciamo la foto. Hip-hop don’t stop.

Estratto dell'articolo di Grazia Sambruna per mowmag.com il 31 luglio 2023.

[…] Samuele Bersani, a social unificati, ha voluto infatti condividere un pensiero di suo conio riguardo a "uno di questi semidei contemporanei della rima cantata". Il giudizio (universale) non è tenerissimo: "si stacca l'autotune per qualche secondo sul palco ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera...". Con chi ce l'ha? […] abbiamo più di un ragionevole sospetto sull'identità dell'illustre sciagurato. Se fosse Sfera Ebbasta?

[…] Tre giorni orsono, però, è divenuto sciaguramente virale un video di Sfera Ebbasta in grande difficoltà sul palco di uno dei suoi live. In assenza di autotune, ha belato come uno che nella vita più che il cantante può fare, forse, il pastorotto che richiama le proprie pecore. Sempre ammesso che oggi ci sia una differenza concreta tra i due mestieri. Vi agevoliamo il reperto, ascoltate responsabilmente: 

Sui social, riguardo a questo video, c'è chi spiega tale débâcle adducendo responsabilità "all'autotune impostato male". Tra i commenti al post di Bersani, infatti, arrivano anche i fan di Sfera invitandolo a una maggiore "onestà intellettuale": il loro "Icaro" non sarebbe stonato, solo vittima di un infausto problema tecnico. Aggiungiamo tale particolare per completezza d'informazione. E anche perché fa piuttosto ridere già così.

Sempre tra i commenti, interviene anche lo stesso Bersani che esprime il proprio dissenso nei confronti del termine "dissing" relativamente a quanto da lui postato. Non ce ne voglia se l'abbiamo usato comunque È oramai l'estate dei "dissing" e, inoltre, il cantautore ha messo in evidenza un problema che flagella noi tutti, almeno dalla nascita della trap nel nostro Bel Paese. […] 

Estratto dell'articolo di ilmessaggero.it il 31 luglio 2023.

Samuele Bersani contro i trapper. E, in particolare, contro Sfera Ebbasta.  […] «Mi hanno girato un video dove uno di questi semidei contemporanei della rima "cantata" si stacca l'autotune per qualche secondo sul palco. Ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera». 

Il riferimento non può che essere a Sfera Ebbasta: da alcuni giorni, infatti, sui social gira un video del trapper che si ritrova a dover cantare senza autotune per un problema tecnico, stonando in maniera piuttosto evidente.

Un filmato diventato virale e che ha dato vita a un acceso dibattito nel quale Bersani è entrato a gamba tesa. 

La risposta

Pur non venendo menzionato esplicitamente, Sfera Ebbasta deve essersi sentito chiamato in causa, così ha lasciato su Twitter un commento che sa tanto di risposta al cantante romagnolo: «Quando il cu*o brucia - ha scritto il trapper - spesso la bocca sparla, cit della settimana».

Finita qui? Neanche per sogno. Bersani ha pubblicato un altro post in cui scrive: «Non basterebbe invece tutto l'autotune del mondo per correggere la mancanza d'ironia che c'è in giro ultimamente. Neanche settandolo nella giusta tonalità». Insomma, anche per questa settimana il "dissing" è servito.

Estratto dell'articolo di Massimo Balsamo per “il Giornale” l'1 agosto 2023.

Non si placa il dibattito su trapper e autotune. Il nuovo capitolo dello scontro ha coinvolto uno dei cantautori più amati d’Italia, Samuele Bersani. «Mi hanno girato un video dove a uno di questi semidei contemporanei della rima “cantata” si stacca l’autotune per qualche secondo sul palco, ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera», il suo j’accuse senza fare nomi e cognomi. Ma in molti hanno letto un riferimento a Sfera Ebbasta […] 

Chi non ha bisogno di aiutini è Al Bano Carrisi, che a 80 anni continua a fare emozionare tutti con la sua potenza vocale. L’artista di Cellino San Marco non ha dubbi: «La “compu-music” è la fine della musica».

Al Bano, che idea si è fatto della polemica su trapper e autotune?

«Pensandoci bene, c’è sempre una polemica sul nuovo. È così da sempre e sarà così per sempre. È così dai tempi di Wagner e di Verdi o più recentemente dai tempi dei grandi cantanti come Claudio Villa, quando c’erano quelli che criticavano gli urlatori. E poi hanno criticato gli artisti venuti dopo e le nuove forme di musica. C’è sempre una critica, ma bisogna anche capire che la musica non è nient’altro che lo specchio del tempo che viviamo. E dobbiamo saperlo accettare in un modo o nell’altro». 

Se c’è un blackout al suo concerto, lei continua a cantare senza grossi problemi. I trapper invece no: per loro è una tragedia, non possono fare più niente.

«Io sono un cantante di voce. Loro sono cantanti di computer. C’è una grossa differenza, la dimensione è diversa».

E cosa ne pensa di quella dimensione?

«Io penso che la musica purtroppo sia finita. Oggi infatti c’è la “compu-music”, ovvero la musica dei computer […] C’è anche da dire che molti critici dei cosiddetti cantanti urlatori li criticavano per aver ucciso la musica. Ma in realtà sono arrivati e sono passati. Ma c’è anche un ricordo mio personale, di quando incisi Nel sole. Alcune persone mi puntavano il dito contro: “Tu con questo tipo di musica non farai niente”. Poi quella canzone ha venduto 1 milione e 600 mila copie». 

La moda dell’autotune è sbarcata anche al Festival di Sanremo: ormai fa notizia se un artista non lo utilizza.

«Il tempo è quello e non si cambia: vince la moda del periodo. Quanto dureranno non lo sanno neanche loro. Ormai basta un computer... La vera musica è a riposo, ma c’è una tradizione antica che rimane viva». 

Negli ultimi giorni è diventato virale un video in cui lei si arrampica ad un traliccio durante un concerto, altro che trapper...

Estratto da corriere.it il 2 agosto 2023. 

Si allarga il dissing, ormai diventato un vero e proprio dibattito social, fra Samuele Bersani e Sfera Ebbasta: la discussione riguarda l’uso dell’autotune, senza cui - ha sostenuto Bersani - i trapper sono irrimediabilmente stonati. […] 

L’ultimo a dire la sua è ora il rapper Frankie Hi-Nrg Mc, intervenuto sotto a un tweet del giornalista musicale Paolo Giordano (che si schierava con Bersani): «Se è la forma a rendere bravo l’artista allora siamo fottuti», ha scritto Frankie, […] «In questo caso c’è il rant di chi vuole vedere la forma come sostanza. Rispetto e stimo Samuele da sempre, ma non sono per niente d’accordo. E te lo dice uno che “rappa perché non è capace di cantare” (vecchio adagio degli anni ‘90, promosso da persone intonate)», […]

E aggiunge ancora: «Attaccare sull’uso di un dispositivo (che è in voga da oltre vent’anni) depotenzia il critico. Se si vuole dire che qualcuno ha testi risibili lo si dica, altrimenti anche chi usa il leggio sul palco (come me) è un povero minus habens».

Secondo Frankie, non ha senso intestardirsi sul modo di espressione: «Fontana tagliava le tele. Burri squagliava plastiche con un cannello. Picasso metteva due occhi dallo stesso lato della faccia. Vado avanti? Criticare la forma è pericoloso», ha detto. […]«Sbeffeggiare qualcuno per il solo fatto che utilizza un dispositivo tecnico in voga dalla fine del secolo scorso fa apparire il critico un novello Elkann, rancoroso e fuori dal tempo. Se il tema è la pochezza autorale, si inferisca su quello».

 [...] Estratto dell'articolo di Giovanna Maria Fagnani per il "Corriere Della Sera" il 2 agosto 2023. 

[...] Sfottò, stilettate. Ma anche allusioni colte [...] e risposte bon ton [...]. È un’estate in cui arriva la consacrazione, anche sulla scena musicale italiana, del dissing : slang che indica canzoni in cui un autore insulta o denigra un collega. Solo a luglio, di queste faide musicali se ne sono viste tre, in forma ibrida: canzoni, oppure solo post sui social. [...]

l’ultimo scontro, fra Samuele Bersani e Sfera Ebbasta. A dare la miccia un post del cantautore che, senza fare nomi, sbeffeggiava i trapper. «Mi hanno girato un video dove a uno di questi semidei contemporanei della rima “cantata” si stacca l’autotune per qualche secondo sul palco, ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera...». Non c’è voluto molto ai fan per capire che ce l’aveva proprio con Sfera che, durante un concerto a Francavilla al Mare, stona sulle note di«Bang bang».

Il trapper allora usa lo stesso metodo: niente nomi, ma una «citazione della settimana» in cui dà dell’invidioso al collega, con termini coloriti. E Bersani rilancia: «Non basterebbe tutto l’autotune del mondo per correggere la mancanza d’ironia che c’è in giro ultimamente. Neanche settandolo nella giusta tonalità». [...] 

La fiammata trai due i si è accesa mentre si stava spegnendo il fuoco di paglia tra J-Ax e Paolo Meneguzzi. Quest’ultimo, in un’intervista, aveva chiamato «marchette» tormentoni come «Disco Paradise» di J-Ax, Fedez e Annalisa. Dopo le prime schermaglie sui social, lo scontro è diventato musica: il rapper ha pubblicando la hit «L’invidia del Peneguzzi», [...] Il cantautore per un attimo ha fatto il prezioso («non mi svenderò per un passaggio in radio»), per poi pubblicare un testo recitato sulle note di un de profundis.

Titolo? Il «funerale di Pappon Paradise». In altri video i toni si rilassano, ma J-Ax chiarisce: «Per me sta cosa che il pop che deve elevarsi, sperimentare, parlare di ideali è una str..., rivendico il diritto di scrivere anche per puro divertimento». [...] prima di J-Ax e Meneguzzi avevano litigato Salmo e Luché. Quest’ultimo con il brano «Estate dimmerda 2» (riferimento al pezzo di Salmo del 2017) accusava l’altro di aver riempito San Siro con 10 mila biglietti regalati.

Salmo replicava che Luchè è l’unica cosa di Napoli che «fa schifo». Cosa resterà di questi dissing ? Meneguzzi in un video si augura che «siano chiacchiere per un futuro musicale migliore. A me spaventa molto che in Italia, i vertici discografici, le radio, non ascoltino più’ la musica, che guardino i follower, che ti dicano non è importante che canti bene, l’importante è che sia trap. Questo è non amare gli artisti». E magari ci sarà anche per una riflessione sui numeri degli ascolti: riflettono la qualità? Sui social il tema è caldo.

Estratto dell'articolo di Alice Castagneri per "La Stampa" giovedì 3 agosto 2023.

[…] Samuele Bersani, […] ha puntato il dito contro Sfera Ebbasta, colpevole - senza autotune - di aver stonato. Lo strumento divide da sempre. C'è chi lo ama e chi lo odia, chi lo demonizza e chi ne abusa. Certo, corregge tutti i difetti di intonazione, ma pensare che sia l'unico motivo per cui viene usato è riduttivo. […] 

In principio c'erano il vocoder e il talk box, poi arrivò l'autotune, […] Creato dall'ingegnere elettronico – ed ex musicista - Andy Hildebrand, è stato sviluppato dalla Antares Audio Technologies nel 1997, e con il tempo è diventato – come dice Gemitaiz – «una cosa prettamente hip hop». In realtà la prima canzone che sperimenta questo effetto rivoluzionario risale al 1998 e con il rap non c'entra nulla: è stata infatti Cher nella sua Believe a raggiungere un successo mondiale con quel ritornello robotico […]

Poco dopo la rivoluzione sbarca nell'hip hop. T-Pain, tra i primi ad innamorarsi dei giochi di distorsione della voce, per parecchio si domanda se con l'autotune non «ha mandato a puttane la musica». Quando – stufo delle polemiche - decide di cantare senza, la gente si stupisce: «Pensavano davvero che il mio successo fosse basato su un software, bisogna scrivere le canzoni, trovare un buon ritmo, e tutti si concentrano su un plugin». Nel 2008 Kanye West non si fa problemi a sperimentarlo in 808s & Heartbrek. Da lì in poi lo provano praticamente tutti. Future, Lil Wayne, Drake, Travis Scott, […]

In Italia da Sfera Ebbasta in avanti, nella maggior parte delle canzoni se ne sente traccia. Basta ascoltare alcune hit di Ghali, Lazza, Capo Plaza, Anna, Achille Lauro. Il pericolo, però, non è passare da un effetto all'altro, ma omologarsi. Allora i brani suonano tutti uguali, così come le voci, ripetitive e senza anima. L'autotune, in molti casi, è uno strumento artistico vero e proprio […] Ciò che conta, anche quando si ricorre alla tecnologia, è la personalità. E alla fine se non sei originale, se non sei innovativo, se non hai talento, non sarai mai un artista, con o senza autotune. 

[…] In un'intervista di qualche tempo fa, in seguito a una litigata con niente di meno che Laura Pausini, anche Blanco si è speso in difesa di questo strumento: «Usiamo l'autotune come sfumatura, come un colore più moderno. Penso che nella trap, dove si usa molto, a volte gli artisti hanno più cose da dire rispetto a chi non lo usa. Magari le cose che canto io con l'autotune possono trasmettere più emozioni di alcuni colleghi che non lo usano».

A difenderlo non sono solo quelli della nuova generazione, ma anche quelli della vecchia guardia. Frankie hi-nrg, dopo il polverone degli ultimi giorni, sottolinea che «se è la forma a rendere bravo un artista allora siamo fottuti». Criticare la forma, in effetti, è rischioso. «Fontana tagliava le tele. Burri squagliava plastiche con un cannello. Picasso metteva due occhi dallo stesso lato della faccia. Se si vuole dire che qualcuno ha testi risibili lo si dica, altrimenti anche chi usa il leggio sul palco (come me) è un povero minus habens», dice il rapper di Quelli che benpensano. […]

 Se guardiamo al mondo della discografia, invece, l'hanno testato tutti, anche Paul McCartney. Quando uscì Get Enough, infatti, il baronetto del rock disse: «Se lo avessimo avuto ai tempi dei Beatles, lo avremmo usato tantissimo. Credo che se John Lennon non avesse avuto l'opportunità ci si sarebbe fissato. Non tanto per il fatto di aggiustare la voce, quanto di giocarci». […]

Estratto dell'articolo di Paola Italiano per “La Stampa” il 27 Novembre 2023 

«Io mi ritengo fortunato perché ho la musica. Posso anche essere triste, ma comunque mi senta ho sempre una musica da ascoltare, è la cosa che più mi ha riempito la vita. Anche perché è stata un veicolo per entrare in altri mondi: Bowie dipingeva e mi ha fatto interessare all'arte, Peter Gabriel era appassionato di tecnologia e lo sono diventato anch'io, se segui Battiato finisce che ti interessi di esoterismo. Mi ha portato in angoli insospettabili».

Carlo Massarini ha visto il primo concerto nel 1968, era Jimi Hendrix, e vedrà il prossimo l'8 dicembre, sarà Calcutta. La distanza temporale tra i due eventi e i due artisti è abissale solo se non si tiene conto che nella vita di Massarini tutta la musica è legata insieme da un collante fondamentale: è musica. E lui la ascolta ancora oggi con la curiosità di un ragazzo. 

Vivo dal Vivo è un diario di 120 concerti tra il 2010 e il 2023, con la generosissima prefazione di sua Maestà Vasco Rossi. […] Ed eccoli, 13 anni di concerti messi in fila, da Elvis Costello agli U2, da Peter Gabriel a Jovanotti, da Gotan Project ai Kraftwerk, dai beach Boys a Bombino, da Giulio Casale a Jackson Browne, da Anna Calvi a Travis Scott.

«Musica senza confini» scrive Massarini, ed è davvero un manifesto perché […] è […] raro trovare uno che dopo aver attraversato come lui oltre mezzo secolo di canzoni sia ancora alla ricerca di qualcosa di nuovo, aperto ad accogliere nuova bellezza-. […] «La musica mi piace tutta – scrive nell'introduzione – sono affascinato dai suoni che non conosco». […] 

È la passione senza pregiudizi. «Io trovo che sia importante raccontare il passato non per nostalgia, ma anche per capire quello che sta succedendo. L'esempio perfetto sono i Maneskin: c'è chi dice che non sono rock e chi li acclama come la più grande band del mondo. Non è vera nessuna delle due, ma se conosci il passato, sai quanto è difficile fare quello che hanno fatto loro».

Anche perché, sostiene Massarini, esiste in realtà un ponte tra gli Anni 60 e oggi: «Ci sono molte similitudini tra allora e oggi. Ad esempio il fatto che oggi vadano molto i singoli, più degli album, L'altra cosa molto importante è che allora come adesso ci sono due generazioni in cui la i genitori e figli non ascoltano più la stessa musica. Io non ascoltavo la musica di mio padre, mio padre non ascoltava la mia. Questa frattura si era un po' ricomposta, ora sta tornando». Vero, ma solo se non ti chiami Carlo Massarini, che i consigli musicali li accetta con entusiasmo anche dal figliuolo

Testo di Vasco Rossi – Estratto dalla prefazione del libro di Carlo Massarini “Vivo dal Vivo”

I Rolling Stones sono il mio faro. Quando ho visto Mick Jagger la prima volta, avevo tredici o quattordici anni, sono rimasto folgorato dalla loro capacità di provocare. Li ho sempre visti come punto di riferimento, da loro ho imparato che dal vivo devi dare uno spettacolo «totale», completo per contenuti, una band solida, potenza del suono, luci e scenografia che facciano sognare. È così che poi i fan tornano a casa sconvolti dalle emozioni, felici e sognanti e con qualche speranza in più. Il compito dell’artista è questo, in fondo: prenderli per mano, farli volare e far loro credere che niente è impossibile. 

Strano ma vero, nel ’90 quando esplosi con il clamoroso sold out a San Siro, Madonna faticava a vendere biglietti e anche i Rolling Stones, quell’anno. Il loro manager, allora, chiese al mio se potevamo fare qualcosa insieme. Ma come e che cosa insieme? Proprio loro, i miei idoli che aprivano il mio concerto? Non ce li vedevo. Avrei dovuto aprire io il loro concerto? Con tutto il rispetto eravamo in Italia, a casa mia e onestamente la star del sold out ero io, per una volta. Per la prima volta. Il mio rifiuto fece scalpore.

Un duetto insieme? Penso che un duetto debba avere un senso artistico ben preciso, non può essere improvvisato, a effetto o commerciale. A dirla tutta, lo avrei incontrato volentieri Mick Jagger, dietro le quinte, però. 

Nel 1990, insomma, si capovolge un trend per la musica dal vivo, gli stranieri non avevano più il monopolio degli stadi, dovevano fare i conti con noi italiani.

Oggi è normale affittare uno stadio, ma una volta non era così... Nel secolo scorso partivamo dalle balere, poi discoteche, per arrivare al massimo ai palasport o a piccole arene all’aperto. Ho visto palchi che voi umani non potete immaginare, a volte non c’era proprio niente, uno spazio vuoto tutto da organizzare. Tutto ha fatto brodo, comunque, sono esperienze che mi hanno consentito di essere quello che sono oggi, le rifarei tutte.

Dario Salvatori per Dagospia lunedì 20 novembre 2023

Lunga vita al Maestrone! Dopo  aver sfornato l’album “Canzoni da intorto”, che si è rivelato il disco fisico più venduto lo scorso anno (51 mila copie) Francesco Guccini, nonostante gli acciacchi, ha avuto la forza di mettere sul mercato “Canzoni da osteria”, un piccolo gioiello.

 Dall’alto del suo scranno cantautorale si è divertito ad impartire lezioni di folk al pubblico e ai suoi colleghi più giovani. Ma ecco la stoccata-smemoranda rilasciata a “Il Giornale” tre giorni fa: “Le canzoni del primo dopoguerra erano ignobili, con testi assurdi e illogici, come La casetta in Canadà.” 

Chiariamo. “La casetta in Canadà”(accento per la rima) non ha nulla a che vedere con il repertorio del primo dopoguerra (1915-’18). Anzi, arrivò molti anni dopo, esattamente quarant’anni. Di più. Arrivò quarta al Festival di Sanremo del 1957. Stiamo parlando di una delle canzoni più famose,  più cantate e riconoscibili della primissima fase di Sanremo, nonché una delle più rappresentative di tutto ciò che identificava la canzone italiana prima che arrivasse l’ormai imminente ciclone-Modugno.

In verità la canzone possedeva il merito di proporre una risposta all’imperante melodia strappalacrime  della maggior parte della produzione di allora. Anche la faziosità del testo nascondeva tra le pieghe frammenti tragicomici, che sono poi quelli che hanno permesso al brano di varcare otto decadi e arrivare fino a noi addirittura come un classico del repertorio per bambini, ma anche filastrocca per spot commerciali. 

A Sanremo venne interpretata da Gloria Christian insieme a il Poker di Voci e da Carla Boni, insieme al Duo Fasano e al barese Gino Latilla. Fu proprio quest’ultimo ad ottenere i maggiori consensi sfoggiando un vistoso cappello alla Davy Crockett (1786-1836). Latilla avrebbe voluto indossare anche i pantaloni sfrangiati del trapper di frontiera, cacciatore e massone, ma gli organizzatori non lo permisero. Si dovette accontentare del cappello di procione. 

“La casetta in Canadà” narra di un tale Martin che possiede una piccola casa in Canadà che gli viene disfatta da un piromane, il terribile Pinco Panco. Martin continuò a costruire altre case, in Canadà, beninteso, che puntualmente venivano incendiate da Pinco Panco, adorato dai bambini degli anni Cinquanta. Il riformismo post Sanremo era già in agguato.

Emilio Jona nel libro “Le canzoni della cattiva coscienza”(Bompiani, 1964) lancia i primi strali: “In realtà quella dell’uomo protagonista della canzone è la moderna transizione del mito di Sisifo. Soltanto due autori debosciati  potevano scriverla.”. 

Jona faceva parte del gruppo di cantanti politicizzati guidati da Giovanna Marini che occuparono il palco al Festival di Spoleto con Giancarlo Menotti disperato direttore artistico. Proprio nell’edizione del ’64. Finì a mazzate. Gianni Borgna nel suo libro “La grande evasione”(Savelli, 1980) propone e apre la sua versione marxista-leninista: “La canzone ha a che vedere con l’elogio della positività del decoro piccolo borghese all’aspirazione della casa tutta per sé”.

Il poeta pasoliniano Enzo Giannelli si schierò contro le due versioni: “Deploro la faziosità e le forzature di certi intellettuali frustrati dall’irrazionalismo del mito di Sisifo”. Il tema della “casa per tutti” era già uno slogan negli anni Trenta, al punto che Antonio Cederna, primo giornalista ambientalista, fece partire la sua analisi dal Concordato del 1929: “Libera Chiesa in libero Stato, un netto slogan separatista. Il risultato fu quello di sventrare un quartiere forse troppo attaccato a S.Pietro che possedeva una sua storia. Borgo Angelico, Borgo Vittorio, Borgo Pio, Borgo Sant’Angelo, Borgo Nuovo e Borgo Vecchio, la cosiddetta Spina, lasciarono il posto alla prossimità di via della Conciliazione. 

Il fascismo costruì case popolari in via Donna Olimpia ma gli sfrattati ebbero le prime dimore solo nel 1933. Monteverde non era nemmeno un quartiere, c’era addirittura un lago e proprio lì nacquero i Grattacieli, di cui parla Pasolini nel suo Ragazzi di vita”.

Intanto “La casetta in Canadà” incassava allori. Qualche mese dopo quel Sanremo, si invitò in Canadà Vittoria Mongardi, che trionfò al Festival di Toronto cantando la canzone che gli italiani cantavano a memoria. Con lei i canadesi furono munifici donandole  una “casetta in Canadà”, senza “pesciolini e fiori di lillà”. Intanto fioccavano innumerevoli versioni: Quartetto Cetra, Nilla Pizzi, Wilma De Angelis, Gigliola Cinquetti, Claudio Baglioni. 

In Francia Dalida arrivò al n.1 con la sua versione tradotta, “Le ranch de Maria”, subito bissata nel resto d’Europa  da Yvette Giraud e Andrè Claveau. A proposito. I due autori della canzone, entrambi milanesi, Vittorio Mascheroni (1895-1972) e Mario Panzeri (1911-1991) hanno scavalcato Mogol nella classifica delle vendite per autori: Mogol 523 milioni di dischi, Mascheroni-Panzeri 570. 

Estratto dell'articolo di Gino Castaldo per “la Repubblica” mercoledì 4 ottobre 2023.  

Chiedi chi erano i Beatles? Troppo facile. Prova invece a chiedere chi sono Thasup e Rhove […]. E quando spiegherete che si tratta di due tra gli artisti che hanno avuto più successo negli ultimi anni, molti crederanno che li stiate prendendo in giro. 

[…] nessuno sta prendendo in giro nessuno, la verità è che la nuova scena della musica ha creato sorprendenti e inedite spaccature, faglie generazionali che non si vedevano dai tempi della rivoluzione degli anni Sessanta. È una terminologia antica, da boomer, certo, ma è pur vero che dopo decenni di confusioni e sovrapposizioni, tra ragazzi e adulti ci sono ampie zone di non comunicazione. Ci sono musiche che gli adulti non solo ignorano, fanno anche fatica a comprendere, perché c’è anche una questione di linguaggio. Esattamente come decenni fa alcuni giovani artisti parlano ai loro simili, d’età e di ambiente, e non gliene importa nulla di essere capiti dagli altri.

Se andate a scorrere le classifiche ufficiali, da tempo totalmente ignorate da parte del grande pubblico, scoprirete che c’è qualche nome noto, in rarissimi casi anche nomi notissimi come Francesco Guccini, che esce “solo” col cosiddetto disco “fisico”, vende alcune migliaia di copie grazie al suo duraturo seguito, ed è sufficiente a salire in graduatoria delle vendite, ma immerso in una lista di altri nomi che non avete mai sentito nominare. 

Magari Tedua, Geolier, Thasup, VillaBanks, Shiva, eppure sono lì, sono loro i numeri uno di questa era dello streaming, stravincono, producono denaro, generano successo ma spesso in una fascia molto precisa e definita della popolazione, quella dei teenager, per non dire addirittura dei bimbi, con scarsa comunicazione all’esterno, ovvero verso la gran parte della popolazione adulta del nostro Paese.

La musica vive di compartimenti separati soprattutto da quando la dominante del mercato è diventata quella dei proventi da streaming, […] Si ascolta a raffica, non si compra mai il singolo pezzo, si paga in realtà un abbonamento generico che dà accesso a tutto, e quindi si ascolta in modo a volte indiscriminato, suggerito da playlist di genere, o in forma compulsiva, ben diversa dalla modalità che richiede di acquistare quel preciso disco perché si vuole ascoltare solo e soltanto quello.

Fanno eccezione quelli come i Pinguini Tattici Nucleari che suonano tanti concerti e riescono a produrre una percezione “fisica” della loro esistenza, anche per essere passati a Sanremo, che è una delle chiavi di volta dello scenario. 

Negli ultimi anni il festival ha sdoganato molti protagonisti della nuova scena, a partire da Achille Lauro e Mahmood, e poi Blanco, Madame, Tananai, Dargen D’Amico e altri, creando un’ulteriore spaccatura. Quelli passati da Sanremo in alcuni casi oltrepassano la linea di separazione e diventano mainstream, gli altri rimangono invisibili, sottotraccia, dominatori di mercato eppure non condivisi da tutti. […]

La musica dal vivo è diventata un universo a sé stante, rigoglioso e vitale. Ci sono concerti sempre e ovunque, […]segno che il pubblico vuole musica di tutti i generi, riempie i concerti di Ultimo così come quelli degli “invisibili”, ma riempie anche quelli dei grandi vecchi, Claudio Baglioni o Caetano Veloso che siano. Eppure questo fermento ha scarso rilievo nel mondo discografico dove invece l’imbuto si fa sempre più stretto e va verso una più commerciale fabbrica continua e serrata di singoli per adolescenti.

O per tormentoni estivi destinati a essere suonati ossessivamente e in modo sempre più invadente da qualsiasi altoparlante a disposizione nel circondario, che siano bar, stabilimenti, parchi, alberghi. Ed è un altro dei mondi separati della musica. Dove porterà tutto questo? Chiunque dica di saperlo è un mentitore. La realtà muta troppo velocemente per predirne l’esito. Non ci resta che ascoltare le voci di tutti questi diversi mondi e sperare di capire.

La grande palingenesi (nostra e) del Grande Fratello. Iniziò tutto con Taricone. Modificò la tv (e noi stessi cronisti condannati a guardarlo). Il blog di Francesco Specchia il 16 Settembre 2023 su Libero Quotidiano.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Il Grande Fratello? Be’, è qualcosa di più di un’ordalia barbarica e qualcosa di meno di una citazione orwelliana.

Trattasi della naturale evoluzione del Panopticon, del carcere ideale progettato dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, laddove s’intravvedeva un sorvegliante al controllo di galeotti ignari; nel solco di Argo, il gigante dai cento occhi della mitologia greca. Dunque, il Grande Fratello consiste in un voyeurista benedetto dagli dei che osserva una moltitudine – di certo colpevole di qualcosa- fondamentalmente indaffarata a non fare una mazza, e pagata per farlo. Che poi l’Argo, oggi, s’identifichi con lo sguardo perculante di Alfonso Signorini poco importa. La suddetta citazione dotta resta la mia scusante intellettuale per giustificare l’immenso Barnun del Grande Fratello televisivo, vincitore dell’ennesima serata tv con 2.994mila spettatori pari al 23,01%.

Certe volte, per accentuare il coté sociologico del programma - che nell’intimo ritengo latore di un’orchite invincibile - me la tiro: cito i sociologi Michel Foucault, René Schérer, e Zygmunt Bauman. E quando li cito, c’è sempre qualcuno tra i miei interlocutori, a ricordarmi che Bauman era in finale con Sabrina Mbarek vincitrice dell’edizione 2011; o che Foucault si fidanzò con Jonathan Kashanian nella quinta edizione, prima di andare all’Isola dei famosi.

STRANA DIPENDENZA Evidentemente, sono ricordi un po’ sfocati. Capita, d’altronde, quando un format televisivo accompagna senza soluzione di continuità la tua vita per ventitré anni. Io non seguo il Gfda secoli: l’ho preso come un impegno a metà tra il digiuno intermittente e le riunioni degli alcolisti anonimi. Non ho più dipendenza da Gf esattamente dal 2000 quando, costretto da Vittorio Feltri agli esordi di Libero, venni crocefisso al desk 24 ore al giorno, le mollette applicate agli occhi tipo Arancia meccanica, a recensire il format. Le puntate esalavano uno spaesamento dal sapore sadomaso, nell’osservare Sergio l’“ottusangolo” che disegnava arabeschi nell’aria; o Lorenzo Battistello (oggi esperto di gastronomia in Spagna) che declamava ricette e discuteva di politica col compianto Pietro Taricone, quando Taricone non era impegnato sotto le lenzuola a sedurre la bagnina Cristina.

Fu, di sicuro, un esperimento invasivo. Ero davanti al televisore per tre mesi, solo contro l’ignoto, per commentare il nulla che farciva il palinsesto di Canale 5 di quel «grande esperimento sociale» importato dalla Endemol di John De Mol, genio televisivo del male. Il Gf era un format rivoluzionario inquartato in una seduta di psicanalisi. Lì dentro la gente, mangiava, dormiva, prendeva il sole, faceva sesso, certe volte si appendeva a discorsi senza meta.

Accanto a me, a commentare tutto, c’era il collega Luca D’Alessandro col quale scrivemmo il primo libro satirico sugli abitatori delle casa (Diario inedito del Grande Fratello, Gremese; il secondo lo firmarono Tommaso Labranca e Dea Verna). Il buon D’Alessandro, rimase talmente sconvolto da quell’esperienza, che si buttò in politica, s’iscrisse a Forza Italia e divenne deputato della Repubblica. Lo stesso sentiero professionale percorso, anni dopo, nel Movimento Cinque Stelle, da Rocco Casalino, un allampanato ingegnere elettronico nato in Germania, omosessuale, eversivo, ambiziosissimo che aveva sfidato a colpi di congiuntivo Marina La Rosa e Salvo il piazzaiolo; e, in seguito, bazzicato Lele Mora e incrociato le telecamere con Platinette e Vittorio Sgarbi. Ecco. Casalino diventato potente portavoce del presidente del Consiglio Conte avrebbe rappresentato plasticamente il punto di snodo. Il passaggio dalla “Casa” al Palazzo (Chigi) divenne il viatico impossibile tra l’irrealtà del reality e il populismo della politica; fu la finzione che - come in un pagina di Borges - s’innestava senza permesso nel nostro quotidiano.

Nel ventennio di mezzo, nell’alternarsi dei conduttori (Bignardi, D’Urso, Marcuzzi, Signorini), tra gli ospiti del format presi “dalla strada” e le rutilanti comparse del Grande Fratello Vip fino all’edizione 2023, è scivolata gran parte della società italiana. C’era tutto. L’ascesa e la caduta del berlusconismo, il prodismo e il renzismo, Letta #staisereno, i governi tecnici (il cagnolino di Monti veniva citato più volte tra quelle mura Ikea), la parabola di Fini, l’Italia dei Valori di Di Pietro e la penombra di Gentiloni, le fiamme dei Cinque Stelle e quelle di Draghi che risolve i problemi come lo Wolf di Tarantino. Il Gf si era insinuato nel tessuto stesso della nazione.

TRA ANDREOTTI E LETTA Ricordo che se ne parlava con Giulio Andreotti nei talk show di Luciano Rispoli. Rammento le mille puntate sulla sua fenomenologia del Maurizio Costanzo Show (Costanzo fu il primo a crederci veramente). Rievoco, con allegria, le disquisizioni sulla sceneggiatura perfettamente tarocca del programma, durante gli incontri tra televisionari nei Vedrò di Enrico Letta; ossia nei think tank trentini organizzati dal futuro presidente del Consiglio e segretario de Pd ad uso delle «miglior menti over 40 di quella generazione». I think tank passarono, il Grande Fratello rimase. E, nondimeno, donò al mondo perfino qualche talento, da Luca Argentero a Eleonora Daniele; e ne rivitalizzò qualche altro da Daniele Bossari a Samantha De Grenet. Poi venne la deriva trash con tanto di sesso, fiacchi scandali, provocazioni estenuate. Tutta roba spazzata via, fortunatamente dal “new deal” di Piersilvio Berlusconi all’insegna del «no influencer e no only fans». In una versione con “vip” degni del ruolo e di “nip”, gente comune che emerge dal passato, tipo macellai romani, operaie turniste, chef italo cinesi. Il che, nella sempiterna metafora politica, rispecchia un po’ la sobrietà del governo di centrodestra: niente fuochi d’artificio, trasgressioni o fughe in avanti. Il racconto d’una normalità che continua a fare i suoi ascolti e - direbbe Signorini - la sua porca figura...

Quando l'Italia era da Oscar: la storia della famiglia Cecchi Gori. La casa produttrice della famiglia Cecchi Gori, con Mario e Vittorio, ha saputo regalare all'Italia e al suo cinema grandi trionfi, come tre premi Oscar. Tommaso Giacomelli il 2 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La figura di Mario Cecchi Gori

 Padre e figlio signori del cinema

 Le tre statuette

"And the Oscar goes to...", attimo di silenzio. In quell'istante si condensa una vita intera. L'esistenza, in fondo, si cristallizza in pochissimi attimi indimenticabili. Proprio come quello in cui la madrina della notte delle stelle, Sophia Loren, sventola con la mano la preziosa busta in cui è contenuto il nome del "Miglior Film Estero" in lizza per la settantunesima edizione del Premio Oscar. La platea non regge la tensione dell'attesa e qualcuno inizia a gridare "Roberto". La grande attrice italiana, poi, con fare emozionato sfila il cartoncino e urla a squarciagola: "Roberto! Roberto!", lasciandosi andare a un irrefrenabile grido di gioia. È l'ennesimo trionfo della genialità nostrana alla più prestigiosa kermesse dedicata al cinema. A festeggiare è Roberto Benigni, interprete e regista del delicato ma intenso "La vita è bella". Quella sera, l'attore toscano darà spettacolo, rompendo i rigidi schemi della tradizione americana, saltando sulle poltrone e agitandosi come un pazzo. Ad assistere alla scena, sorridente e sornione, c'è anche Vittorio Cecchi Gori. La gloria va divisa e una parte del bottino va anche a lui, in qualità di produttore che ha permesso di cogliere questo inestimabile traguardo. Il patron fiorentino, deus ex machina del cinema italiano, in quella notte aggiunge il terzo Oscar alla sua personale collezione. Sarà l'apice della sua carriera. È il 1997.

La figura di Mario Cecchi Gori

Il cinema italiano è da sempre il più rispettato e temuto dagli americani, tanto che ci fu un tempo in cui Hollywood ebbe davvero paura di Cinecittà. A rendere quelle creazioni così forti e dirompenti ci pensò specialmente Dino De Laurentis, del quale Mario Cecchi Gori fu l'autista personale prima di intraprendere - anche lui - la carriera di produttore cinematografico di successo a partire dagli anni '60. Autorevole, autoritario e severo, riceveva tutti nel suo grande ufficio romano con un sigaro in bocca. Leggeva in silenzio i copioni e spesso non gli piacevano. Faceva trascorrere giorni prima di dare una sentenza, poi, alzava la cornetta e convocava nel suo ufficio gli aspiranti registi per giudicarli a quattr'occhi. Talvolta li criticava aspramente, facendo volare anche le carte, ma sovente si faceva conquistare da chi ci metteva il cuore. Carlo Verdone racconta della figura di Mario Cecchi Gori come quella di un padre, pronto a dar fiducia ai suoi figli. "Fai i film meglio di come li scrivi", gli rimproverava. Un figlio, però, Mario ce l'aveva e di nome fa Vittorio. Nato dalla relazione con Valeria, conosciuta sugli spalti dello stadio comunale di Firenze, durante una partita domenicale della Fiorentina. Un altro dei grandi amori di famiglia. Con Vittorio nacque, poi, un sodalizio che ha riscritto il cinema italiano.

Padre e figlio signori del cinema

Mario e Vittorio Cecchi Gori, padre e figlio. Un duo che ha saputo iscriversi nelle pagine della grande storia italiana del secondo dopoguerra con coraggio, lungimiranza e talento. La loro casa di produzione cinematografica ha sfornato centinaia di pellicole, che hanno saputo tastare il polso e fotografare le vicende nostrane come pochi altri sono stati in grado di fare. Ci hanno fatto ridere, ci hanno fatto riflettere ed emozionare. A corredo ci sono alcuni capolavori che ancora adesso testimoniano la grandezza di un binomio - già di per sé - speciale. Tutto il meglio che il cinema italiano ha saputo offrire a livello di talento, estro e capacità recitative - nonché di regia - è passato sotto l’ala protettiva prima del placido ma burbero Mario, poi, sotto quella ingenua e vulcanica di Vittorio. Il figlio prediletto, appassionato ed eccentrico, fantasioso e fragile, tutto fuorché scaltro, che come un novello Icaro, una volta toccate le stelle è sprofondato al suolo con un tuffo roboante. Non è facile passare da Palazzo Borghese a Regina Coeli. Un impero distrutto con la forza e la rapidità di un turbine di vento, senza la guida certa e sicura del patriarca.

Le tre statuette

Oggi Vittorio ha 80 anni. Nel suo magnifico appartamento romano comprato con i soldi de "Il sorpasso", risplendono come la luce di un faro quelle tre statuette dorate che ci ricordano quanto grande fu la Cecchi Gori Group e, di conseguenza, il nostro cinema. Una è di "Mediterraneo" (miglior film straniero del 1991), una è de "Il Postino" (miglior film assoluto del 1994, seconda pellicola non in lingua straniera a vincerlo) e l'ultima è del - già citato - "La vita è bella". Dalla magnifica terrazza dell'attico che domina sulla città eterna, Vittorio può godersi ogni giorno lo spettacolo dell'arancione tramonto che irradia tiepidamente le rovine di un grande impero, come è stato anche quello della sua famiglia, fino a quando la notte non le fa prigioniere. Il vecchio Mario diceva che nei film o si piange o si ride, per questo motivo anche "Il sorpasso" di Dino Risi non lo convinceva appieno. In compenso, gli innumerevoli film prodotti dai Cecchi Gori ci hanno fatto tanto ridere, ma anche tanto piangere.

Estratto dell'articolo di Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” – articolo del 26 novembre 2022

(...)

Per Vittorio Cecchi Gori c'è una richiesta di grazia al presidente Mattarella. Ha compiuto pochi mesi fa ottant'anni, e dovendo riassumere la sua vita da imprenditore direi che tre cose hanno contato: il cinema, il calcio e le donne. Non è ancora del tutto uscito da vari cicloni giudiziari che le cronache hanno ampiamente illustrato. Qualcuno lo compatisce, c'è chi convintamente lo difende. Molti lo hanno attaccato, speculando e lucrando su un patrimonio stramiliardario. 

Che cosa ha rappresentato per lei la ricchezza?

"Quando c'è sembra naturale servirsene. Non l'ho fatto in modo dissennato. Ho acquistato immobili importanti: una villa a Beverly Hills dove ho vissuto, un appartamento a New York, che era di Donald Trump, la casa di Palazzo Borghese. Spazi prestigiosi. Un lusso funzionale alla rappresentanza. Per ospiti importanti: attori, attrici, registi, scrittori. Un mondo su cui fare colpo, oltretutto frequentato da produttori cinematografici e imprenditori della comunicazione. Non potevo certo riceverli in un appartamento di tre camere e cucina". 

(…)

E lei sta combattendo?

"Ho varie cause in piedi. Una monstre con Telecom, ci sono in ballo 900 milioni di euro". 

Che cosa ne è stato del suo patrimonio?

"Spolpato da gente senza scrupoli. Derubato perfino da alcuni avvocati che mi avrebbero dovuto difendere! Agli indici odierni quel patrimonio è calcolabile intorno a un paio di miliardi di euro". 

Da come ne parla sembra che lei non abbia colpe.

"Guardi, di errori ne ho commessi tanti. Il più grave è che negli anni della bufera io non mi sono reso conto della gravità della cosa. Non capivo che si stavano mangiando il gruppo Cecchi Gori. Ripeto, ho le mie colpe, ma sono ben poca cosa rispetto a quello che ho subito".

Mi scusi, lei ha avuto vari fallimenti per bancarotta, distrazione di fondi, le hanno perfino trovato della coca in cassaforte, l'hanno condannata in più occasioni. Tre arresti. Non è che sia proprio ben poca cosa.

"Tutto quello che è accaduto dopo il Duemila descrive quello che lei ha riassunto. Ma le cose vanno lette. Veri i fallimenti, vera la bancarotta, vere le distrazioni. Ma cominciamo col dire che era come se io rubassi a me stesso". 

Erano soldi che passavano da una sua società a un'altra?

"Esattamente. Riprovevole, non c'è dubbio, ma era diventato un meccanismo perverso. Il problema è come si fosse giunti a tutto questo". 

Prendiamoci un attimo di respiro. Chi vede in questa fase della vita?

"Pochissime persone. Non è più come un tempo quando tutti mi cercavano. Di una cosa sono felice. Continua a venirmi a trovare Maria Grazia Buccella, la nostra è stata una grande storia d'amore. Lei ha un paio d'anni più di me. Ci teniamo la mano e ci sembra di essere tornati giovani".

So che ha avuto molti innamoramenti.

"La prima infatuazione la provai per Marina Vlady, bellissima. Io dodicenne la spiavo recitare sul set e me ne innamorai. La seguivo ovunque. Con la troupe che si faceva un sacco di risate. Ho avuto diverse storie importanti. Ma credo di non essere mai stato un donnaiolo". 

I rotocalchi direbbero il contrario.

"Era soprattutto gossip". 

Si dice che fosse facile all'innamoramento. Come accadde con Ornella Muti.

"Quella fu una cottarella. Brava attrice, scanzonata, bella. Piaceva a mia madre. Dopo un po' capimmo che non eravamo nel giusto incastro". 

Si mormorò di una storia con Meryl Streep.

"Siamo stati solo amici. Doveva girare un film per me, alla fine si tirò indietro, con il contratto già firmato, perché era incinta. Lei fu adorabile: disse che invece di chiederle la penale stappai una bottiglia di Champagne per il lieto evento".

A proposito di America, nel 2018 ha coprodotto "The Irishman" con Martin Scorsese.

"Laggiù ho ancora un nome e un certo credito. Mi hanno di recente conferito la presidenza onoraria di due società americane del mio Gruppo. Quanto a Scorsese, lo incontrai la prima volta a Cannes insieme a mio padre per i diritti di Silence. Abbiamo collaborato spesso. Sono stato anche amico di Sidney Pollack. Avremmo dovuto fare un film sulla vita di Ferrari.

Era il 2004 o il 2005. Lo feci incontrare perfino con l'Avvocato Agnelli. Purtroppo Pollack si ammalò e il film è passato a Michael Mann. Dovrebbe uscire l'anno prossimo. Ho conosciuto e frequentato quasi tutti: da Richard Gere a Jack Nicholson, con cui andavo alle partite dei Lakers. Mi dispiace di non aver prodotto Seven, almeno nel nucleo iniziale era una mia idea. 

Scegliemmo Brad Pitt come protagonista, poi ebbi dei problemi societari in Italia, alcuni soci si tirarono indietro e di conseguenza dovetti rinunciare. Peccato. Però qualche anno dopo feci 300 e fu anche quello un grande successo. Ho conosciuto Mohammed Alì, ma era già malconcio. Sono stato amico di Gabriel García Márquez: volevo acquistare i diritti di Cent'anni di solitudine. Ma non volle venderli".

Perché?

"Non pensava che fosse possibile trasformarlo in un film. Andai a trovarlo a Città del Messico con Giuseppe Tornatore. Ci disse: per qualunque altro mio romanzo vi cedo i diritti ma non per Cent'anni di solitudine. Ricordo che mi invitò all'Avana, dove credo avesse una cattedra di cinema, voleva che facessi un paio di conferenze sul cinema italiano e poi farmi conoscere Fidel. Alla fine per impegni rinunciai ad andare a Cuba". 

Che cosa avrebbe detto del cinema italiano?

"Che è stato un grande cinema e che mio padre Mario, e anche il sottoscritto, hanno contribuito a renderlo tale. Pensi che questa casa dove sono tornato a vivere fu acquistata dal babbo con i ricavi del Sorpasso. Ho vinto tre Oscar con Mediterraneo, Il postino e La vita è bella, non so quanti Leoni d'Oro e David di Donatello. Il cinema è ancora la mia vita e la mia vita ha dato molto a questa arte popolare". 

(…)

Lei acquisì Tele Montecarlo che poi divenne la 7. Che cosa aveva esattamente in testa?

"Creare una piattaforma i cui asset principali sarebbero stati i diritti cinematografici e i diritti del calcio". 

Fu con questo obiettivo che lei divenne anche presidente della Fiorentina calcio?

"All'inizio no, tutta Firenze ci chiese di prendere in mano la squadra di calcio e lo facemmo volentieri. Fu un atto sentimentale. Tra l'altro il babbo e la mamma si erano conosciuti allo stadio durante una partita di Fiorentina Juventus. Il business dei diritti venne dopo. Avevo in mano le due cose più popolari in Italia: il cinema e il calcio. Era l'occasione per rendere il Gruppo Cecchi Gori protagonista". 

Si sentiva un visionario?

"Nel senso buono sì, tra l'altro con Murdoch e Telecom avevamo creato Stream, che è il progenitore di Sky. La piattaforma digitale dove poter vedere on demand calcio e cinema. Fui praticamente estromesso con un aumento mostruoso di capitale deciso completamente fuori dagli accordi siglati precedentemente". 

Ha mai avuto la percezione che le stava crollando il mondo, il suo mondo?

"Non mi sono accorto di nulla fino a quando le cose hanno cominciato a travolgermi. A quel punto ho avuto la certezza che il sistema economico finanziario e della comunicazione, che in quegli anni stava consolidando il proprio potere, aveva deciso di portarmi via tutto. È stato come sparare sulla Croce Rossa". 

Dal racconto lei ne esce più vittima sacrificale che responsabile. Non è un po' poco?

"Se si riferisce ai miei errori , beh ci sono stati e me ne assumo la responsabilità". 

Quali errori?

"Aver agito con un eccesso di individualismo e poi essermi affidato a persone che mi hanno mal consigliato. Ci sono mie responsabilità oggettive, ma c'è stata una sproporzione tra gli errori commessi, la distrazione di alcune decine di milioni di euro, e la distruzione di un gruppo che valeva miliardi".

 (…)

Italia al neon. "Non stop": da Troisi a Verdone, quando la Rai fabbricava comicità. Un format irriverente, privo di conduttore, incalzante. E con una concentrazione di talenti che mai più si sarebbe scorta nella storia del Paese. Paolo Lazzari il 26 Marzo 2023 su Il Giornale.

La Renault 4 rossa accosta al marciapiede cigolando scomposta. Paletta alzata. Tocca consegnare patente e libretto, identificandosi. Nell’abitacolo si diffonde una qual certa agitazione. Il 1978, del resto, non è il più placido degli anni possibili se vivi in Italia. Il terrorismo è un presentimento che si è infilato tra le vite della gente con veemenza tellurica. Quello alla guida consegna i documenti, contemplando gli agenti con quel volto pingue e benevolo. Il carabiniere scruta la foto, poi lancia un occhio sul tizio: non c’è dubbio, è proprio Giancarlo Magalli.

Quegli altri due però sono usciti senza niente in tasca. Intransigenti, le forze dell’ordine chiedono di scendere e declinare le rispettive generalità. Magalli si muove convulsamente, cercando di spiegare che sono con lui, che è tutto a posto. Quello più alto e sottile si fruga tra i risvolti dei jeans ed estrae una tessera, reputandola salvifica: “Ecco, leggete qui”. È bianca, con un piccolo logo blu. Sopra c’è scritto “RAI”. Equivoco sciolto? Nemmeno per idea. Uno dei carabinieri la maneggia con cura, poi lo rintuzza: “Ho capito signor La Smorfia, ma questo non è un documento”.

Strano anno, il ’78. Tempo di timori dilanianti e reflussi di vitalità. La televisione pubblica esprimeva bene la seconda porzione di questo ossimoro. Giancarlo Magalli si era rivelato un formidabile segugio di talenti comici. Lo avevano incaricato di perlustrare mezzo paese per scovare quelli più cristallini. Allora era sceso al sud, dove si era imbattuto in questo trio esuberante. Si facevano chiamare “I Saraceni”. Formazione composta da Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo De Caro. Nome troppo meridionale per sedurre il target ampio di mamma Rai. “Chiamatevi invece La Smorfia”, l’ecumenico suggerimento.

Il programma andò in onda dal 1977 al 1979. Lo battezzarono “Non stop”, perché le parole sono importanti e queste ti restituivano il senso di una trasmissione galoppante, dichiaratamente ritmica, un esilarante flusso di coscienza orientato. Il suo manifesto era una crepa dichiarata negli schemi incrostati dell’ammiraglia. Tanto per cominciare non c’era il conduttore. Sperimentazione pura. Non a caso il sottotitolo che campeggiava a intermittenza era l’emblematico “Ballata senza manovratore”. Una tv aperta e circense, dunque. Largo alle esibizioni a getto continuo, ma con il faro della qualità.

Fare in modo che le idee non si appannassero mai spettava ai quattro illuminati autori che si disimpegnavano dietro le quinte. Magalli, appunto, ma anche Alberto Testa, Enzo Trapani e Mario Pogliotti. Un quartetto che riscrisse, in quegli anni abrasivi e addensati di preoccupazioni, una pagina intera della comicità italiana. Oltre a La Smorfia, a bordo salirono calibri come i Gatti di Vicolo Miracoli, i Giancattivi, Gasparre e Zuzzurro. Ma il format si ossigenava con una quantità di affluenti. Cabaret, musica e danza premuti dentro ad uno spassoso frullatore. Così la Rai rimpiazzava, con un una magistrale sequenza di colpi da biliardo, una generazione intera di signori della risata. I Sordi, i Tognazzi e i Manfredi facevano largo ai Troisi, ai Nuti e poi anche ai Verdone, agli esordi ma già rilucente, con le pupille perennemente rivolte verso l'alto.

C’erano Ernst Thole, che con lucido sarcasmo verso i giudicanti dell’epoca interpretava il ruolo di un omosessuale. C’era la surreale esibizione della cantante britannica Nancy Nova, sempre pronta ad irrompere sul palco per intonare la sua “Akiri non stop”, totalmente scritta in una lingua inventata. C’erano i comizi di Corrado Lojacono e la mimica facciale di Jack La Cayenne. Un fantastico caos, nato a dirla tutta inizialmente da una pensata di Pippo Baudo, desideroso di aprire le porte della Rai ad una carovana di nuovi talenti, in linea con la riforma della rete.

Ci volle molto poco a farlo diventare un cult. Non durò troppo - è vero - come tutte le cose migliori, ma quell’inesauribile fucina di talenti avrebbe dominato generazioni intere a colpi di risate strappate. Quanto languono, oggi, quelle miracolose intuizioni.

La mia laurea suona il rock (e il pop). Ivano Fossati, Annalisa e gli altri «dottori» che non ti aspetti. Redazione Università su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2023.

Il cantautore genovese ha ricevuto la laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo dall’università della sua città. Dalla musica al cinema al calcio, sono tantissime le star che hanno in tasca il titolo di «dottore». Leggete chi sono

Ivano Fossati

«Una laurea così deve essere per forza inaspettata e la sorpresa sta nel fatto che altre persone pensano che nel tuo lavoro di tanti anni ci sia qualcosa di buono. Improvvisamente scopri che agli altri è piaciuto in maniera tale da doverti premiare e allora la sorpresa si raddoppia». Così Ivano Fossati ha commentato la laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo che gli è stata conferita dall’università della sua città, Genova. Una decisione, come ha spiegato l’ateneo, che «intende riconoscere la qualità di un artista che rappresenta una componente significativa della vita culturale di Genova degli ultimi 50 anni e per sottolineare la coerenza dell’attività di Ivano Fossati con alcune linee di ricerca e didattica del dipartimento, in cui ha svolto apprezzate attività di insegnamento».

Annalisa

Annalisa, fresca reduce dal successo di «Bellissima» (30 milioni di stream su Spotify), ha in tasca una laurea in fisica. Nata nel 1985 a Savona, ha studiato canto dall’età di 13 anni e si è diplomata al liceo scientifico prima di iscriversi all’Università di Torino, corso di laurea in fisica. Una scelta che, come lei stessa ha spiegato, è derivata «dalla piena coscienza dell’importanza di un titolo di studio e di una formazione culturale per la successiva ricerca di un lavoro e realizzazione personale»: «Io mi sono iscritta a fisica semplicemente perché mi piaceva. Ho iniziato fin da bambina a studiare musica e avevo intenzione di portare avanti anche quello. Quindi quando sono arrivata alla fine del liceo scientifico ho scelto una cosa più che altro che mi piacesse e che avrei potuto portare avanti insieme agli studi musicali».

Patti Smith

Solo lei poteva riuscire a rendere una canzone di Bruce Springsteen ancora più bella di quando a eseguirla è il Boss: lei è patti Smith e la canzone è Because the night, che molti telespettatori italiani conoscono per essere stata per un ventennio la sigla di Fuori Orario di Enrico Ghezzi. In Italia la vestale del punk rock americano anni Settanta ha ricevuto ben due lauree honoris causa: la prima in Lettere classiche e moderne nel 2017 a Parma, la seconda in Lingue e letterature europee e americane a Padova nel 2019.

Mr. Bean

Lo sapevate che Mr. Bean alias Rowan Atkinson ha conseguito una laurea in ingegneria elettrica presso il Queen’s College di Oxford? Ebbene sì: il grandissimo comico inglese ha iniziato a lavorare al suo personaggio più famoso, la quintessenza dell’inglese maldestro, proprio mentre studiava all’università.

Giorgio Chiellini

Classe 1984, il difensore e capitano della Juventus e bandiera della nazionale italiana, ha conseguito la maturità scientifica al liceo Federigo Enriques di Livorno con il voto lusinghiero di 92/100 e nel 2010 si è laureato in Economia e commercio a Torino (voto 109). Meno sorprendente il titolo della tesi: «Il bilancio di una società sportiva, il caso di Juventus Football Club».

Natalie Portman

L’eterea protagonista del Cigno nero, si è laureata in Psicologia ad Harvard nel 2003. Nata a Gerusalemme nel 1981, ha iniziato la sua carriera d’attrice giovanissima, recitando nel film di Luc Besson Léon al fianco di Jean Reno.

Sio

Sio, alias Simone Albrigi (1988), autore della fortunatissima serie di fumetti Scottecs, è laureato in Lingue orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Jodie Foster

L’ex bambina prodigio che a 3 anni già faceva la pubblicità del Coppertone in tv, la baby prostituta di Taxi Driver che diversi anni dopo, nei panni della giovane e tenace recluta di polizia Clarence Starling, riesce a conquistarsi il rispetto e un non scontato salvacondotto da Hannibal the cannibal Lecter nel Silenzio degli innocenti, si è laureata in letteratura inglese a Yale.

Cindy Crawford

La top model Cindy Crawford, icona dell’America rampante anni 80, ha mancato invece la laurea in ingegneria chimica: lasciò la Northwestern University per dedicarsi alla carriera di modella che le ha fruttato un patrimonio attorno ai 100 milioni di dollari. Non per niente vanta un quoziente di intelligenza altissimo: 156.

Quentin Tarantino

Meglio di lei, a Hollywood, fa solo Quentin Tarantino. Il regista di film di culto come Le Iene, Pulp Fiction, Kill Bill e Bastardi senza gloria, ha un QI di 160, pari a quello dell’autore della teoria dei buchi neri Stephen Hawking.

Hugh Grant

Hugh Grant si è laureato in letteratura inglese al New College di Oxford. Indimenticabili le sue foto in costume leopardato a un party della Piers Gaveston Society, la confraternita della gioventù dorata e debosciata di Oxford di cui ha fatto parte anche l’ex premier britannico David Cameron.

Elio (e le storie tese)

Stefano Belisari, in arte Elio, autore di canzoni di culto come Cara ti amo, dopo il diploma al Conservatorio di Milano si è iscritto al Politecnico dove si è laureato in ingegneria elettronica nel 2002.

Emma Watson

Altra laureata in letteratura inglese, questa volta però alla Brown University, è Emma Watson-Hermione. La maghetta di Harry Potter, cresciuta sotto gli occhi degli spettatori nel corso dei vari episodi della saga cinematografica, si è iscritta alla Brown nel 2009, quando era già stata nominata «attrice dal maggior incasso del decennio». Durante gli studi nella prestigiosa università dell’Ivy League, «nessuno mi ha mai chiesto un autografo», ha raccontato la Watson in un’intervista. Ma il giorno del diploma era accompagnata da una guardia del corpo nascosta sotto tocco e toga.

Claudio Baglioni

Il cantautore romano invece aveva lasciato la facoltà di Architettura dopo il successo di Questo piccolo grande amore a metà degli anni 70. E’ tornato alla Sapienza per dare gli ultimi esami ed è stato proclamato dottore discutendo una tesi sul restauro architettonico e la riqualificazione del gasometro di Roma nel 2004.

Kevin Costner

Ai suoi esordi interpretò la parte del suicida di cui si intravvedono solo i polsi tagliati nella scena iniziale del Grande Freddo (le altre scene che aveva girato furono tagliate nel montaggio finale). Kevin Costner, vincitore di un Oscar alla regia per Balla coi lupi, in seguito protagonista di una serie di memorabili flop dal budget stratosferico che lo hanno indebitato fino al collo, si è laureato - ironia della sorte - in marketing e finanza alla California State University nel 1978.

Edoardo Bennato

Nato a Bagnoli nel 1949, Edoardo Bennato si è laureato in Architettura con una tesi intitolata «Ristrutturazione della zona dei Campi Flegrei con particolare riferimento alle reti di trasporto urbano collettivo».

Gianna Nannini

La cantautrice toscana si è laureata in Lettere e filosofia a Siena nel 1994 con il massimo dei voti e la lode. Titolo della tesi: Il corpo nella voce.

Checco Zalone

Luca Medici, in arte Checco Zalone, si è laureato in Giurisprudenza a Bari, «l’unica città al mondo - come ha dichiarato lui stesso - in cui ci sono più avvocati che cittadini».

Guglielmo Stendardo

L’ex difensore della Lazio, dell’Atalanta e della Juve, non solo è laureato in Giurisprudenza ma nel 2014 ha anche superato l’esame di Stato per diventare avvocato dopo un primo tentativo fallito. Il giorno in cui ha passato l’orale presso la Corte d’Appello di Salerno ha dichiarato: «Volevo dimostrare come sia possibile conciliare la professione di calciatore con gli studi». Impresa tutt’altro che facile, visto che quando lo stesso Stendardo, alcuni mesi prima, aveva chiesto un permesso di tre giorni per andare a sostenere gli scritti, l’allenatore non solo glielo aveva negato (si era alla vigilia di una partita importante con la Roma poi finita malissimo: 3-0) ma gli aveva anche comminato una multa salata.

Carlo Verdone

Dopo la maturità classica al liceo Nazareno di Roma e prima di girare il suo primo film, Un sacco bello, Carlo Verdone si è laureato alla Sapienza in Lettere Moderne con una tesi sull’influenza della letteratura italiana nel cinema muto italiano. «Questa tesi è venuta fuori un po’ per caso - ha raccontato in un’intervista -. Tutto il mio piano di studi era stato incentrato sulla storia delle religioni dell’Oriente antico».

Renzo Arbore

Il foggiano «naturalizzato» napoletano Renzo Arbore si è laureato in Giurisprudenza alla Federico II. Di quegli anni ha raccontato: «Ero uno studente tutt’altro che eccellente. Uno così così».

Arnold Schwarzenegger

L’ex governatore della California, Arnold «Teminator» Schwarzenegger, ha al suo attivo oltre a un passato come campione di culturismo e una filmografia che va da Conan il barbaroa True Lies, anche una laurea in Economia con specializzazione in marketing dello sport all’università del Wisconsin.

Harry Styles, Pink, Drake: perché è nata la moda di lanciare oggetti ai concerti. Continua la serie di artisti colpiti da oggetti mentre si esibiscono dal vivo. Dopo Bebe Rexha, finita in ospedale per un telefonino in faccia, colpiti anche Harry Styles, Drake e Ava Max. Novella Toloni il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Bebe Rexha

 Harry Styles

 Ava Max

 Drake

 Pink

 Lil Nas X

Non importa dove, quando e neppure perché. La moda del lancio di oggetti sul palco, mentre gli artisti si esibiscono, sta diventando una tendenza pericolosa. Dalla Scandinavia a Londra, da Los Angeles a Vienna, sono sempre di più i cantanti che finiscono nel mirino di folli, che lanciano di tutto sul palco nel tentativo di essere notati o semplicemente per disturbare o finire protagonisti di qualche video virale.

La lunga sequenza di incidenti sul palco è iniziata con Bebe Rexha e si è conclusa - almeno per il momento - con il monito di Adele. Dopo i numerosi episodi avvenuti negli ultimi due mesi, nel suo ultimo concerto a Las Vegas, infatti, la cantante inglese ha letteralmente minacciato i suoi fan: "Non osate, c*** lanciarmi addosso qualcosa. È ora di finirla di tirare oggetti agli artisti". Ma vediamo insieme gli episodi avvenuti negli ultimi due mesi.

Bebe Rexha

Lo scorso giugno, mentre si stava esibendo al Pier 17, a New York, Bebe Rexha è stata colpita da un cellulare ed è stata costretta a interrompere lo show per ricorrere alle cure mediche. Tra il pubblico, un uomo ha lanciato un telefonino sul palco centrando in volto la cantante statunitense di origine albanese. L'artista si è accasciata a terra ed è subito stata soccorsa. Il concerto è stato annullato e Bebe Rexha ha lasciato il palco per andare in ospedale, dove le hanno dato tre punti di sutura sulla fronte. L'autore del folle gesto è stato identificato e denunciato, ma questo non ha fermato altri fan fuori di testa, che hanno messo nel mirino altri cantanti famosi.

Harry Styles

I più pazzi sembrano essere i fan di Harry Styles. Lo scorso novembre l'artista inglese era stato colpito ai testicoli da un panino lanciato da un fan irrequieto durante un concerto a Los Angeles. Pochi giorni fa, invece, Styles è stato nuovamente vittima di un lancio di oggetti sconsiderato, che ha rischiato di farlo finire in ospedale come la collega Bebe Rehxa. Un video diventato virale sui social, mostra Harry Styles sul palco del concerto di Vienna mentre viene colpito agli occhi da qualcosa di piccolo - forse una monetina. L'artista si copre gli occhi con la mano e la smorfia di dolore, che compare sul suo volto la dice lunga sull'esito del colpo.

Ava Max

Ava Max è stata letteralmente aggredita da uno spettatore durante il suo concerto di Los Angeles. L'episodio, avvenuto pochi giorni prima dell'incidente di Bebe Rehxa, è stato riportato da tutti i media americani. Nei numerosi filmati, che si trovano in rete, si vede un uomo - fermato dalla security - dare uno schiaffo in testa all'artista mentre questa sta cantando. Dopo l'iniziale smarrimento per l'accaduto, Ava Max ha proseguito il suo show.

Drake

È andata meglio al rapper canadese Drake, che a inizio luglio è stato colpito da uno smartphone mentre si esibiva. L'artista era sul palco dello United Center di Chicago per il live di apertura del suo "It’s All a Blur Tour”, quando è stato colpito al braccio da un telefonino lanciato da qualcuno nel pubblico. Drake ha esitato un istante e dopo avere controllato che il braccio fosse okay, ha proseguito la sua performance.

Pink

Dopo avere ricevuto in omaggio una forma gigante di brie, Pink si è vista gettare sul palco del live di Londra addirittura le spoglie di un defunto. Il fatto è avvenuto al British Summer Time di Londra lo scorso fine settimana, quando l'artista si stava esibendo dal vivo e sul palco una giovane le ha lanciato un sacchetto contente - pare - le ceneri della madre. "Questa è tua madre?” ha domandato Pink decisamente sorpresa del "regalo" mentre raccoglieva il sacchetto da terra: "Non so come mi sento a riguardo". Poi l'artista è tornata a esibirsi. Ma intanto, il video dell'accaduto è diventato virale sul web.

Lil Nas X

Ben più bizzarro l'incidente che ha visto protagonista Lil Nas x. Il controverso rapper statunitense è stato colpito a un ginocchio durante un concerto in Svezia, a Stoccolma, tappa del suo tour europeo. Mentre stava cantando davanti al pubblico, un fan nelle prime file davanti al palco gli ha lanciato un sex toy, che lo ha colpito al ginocchio senza conseguenze. A dire la verità, il cantante americano è stato molto divertito dal fatto e dopo avere raccolto il sex toy lo ha mostrato ai fan ridendo.

Quando sono iniziati i concerti negli stadi. I primi sono stati i Beatles. Poi sono arrivati Dalla, Vasco e i grandi del rock. E oggi ascoltare un cantante in un teatro è un’eccezione. Gino Castaldo su L'espresso il 19 luglio 2023.

Andiamo a vedere il concerto stasera all’Olimpico?».

«Dove, al teatro Olimpico?».

«Ma no, allo stadio…».

Il dialogo immaginario potrebbe essere avvenuto a Roma, grazie a una rapida e travolgente mutazione che ha portato gli stadi a essere un’abituale location di concerti. Solo nei giorni passati c’è stato Ultimo per ben tre date (e due ne farà a San Siro), e poi i Depeche Mode, Mengoni, Ligabue, i Pooh, praticamente a giorni alterni. Anche a San Siro si fanno più concerti che partite, anche perché se i match non si replicano, i concerti sì e i Pinguini Tattici Nucleari hanno riempito San Siro per due date, poi arriverà Blanco (che ha già domato lo stadio romano) e ancora i Muse, i Maneskin, anche loro per due date, non prima di aver già scaldato l’Olimpico.

Insomma si va allo stadio come una volta si andava nei teatri e nei palasport. Ma come è cominciata questa ennesima follia della musica dei nostri tempi? Il primo concerto che sia stato organizzato in uno stadio è quello dei Beatles allo Shea Stadium del 15 agosto 1965, una data storica dovuta alla enorme pressione che si era creata intorno al gruppo in America: furono venduti 55.000 biglietti, ma era la prima volta e la situazione tecnica era totalmente inadeguata. Come amplificazione c’erano solo tre Vox da 100 watt costruiti per l’occasione ma insufficienti e per le voci fu usato l’impianto dei cronisti delle partite di baseball. Una situazione ridicola, e infatti i quattro uscirono da questa esperienza per altri versi elettrizzante con una profonda amarezza: le urla dei fan avevano totalmente coperto la musica, e infatti di lì a pochi mesi avrebbero smesso del tutto di fare concerti.

Ma il passo era compiuto. Gradualmente gli impianti di amplificazione si adeguarono e gli stadi iniziarono a poter essere un luogo di concerto, rozzo certamente, magari anche scomodo, ma possibile. Alla fine del 1979 anche gli italiani iniziarono a utilizzare gli stadi, in occasioni speciali. I primi furono Dalla e De Gregori col tour di “Banana Republic”, poi Edoardo Bennato, e nel giro di pochi anni arrivò il ciclone Vasco, il massimo occupatore di stadi della storia. Per molto tempo l’immaginario da campi sportivi è stato legato al rock, quasi sembrò una profanazione quando arrivarono Madonna e Michael Jackson. Ora pensare ad associazioni stilistiche fa sorridere. Uno stadio non si nega più a nessuno, e non è in sé un male, se non altro è il segno di una smisurata voglia di partecipazione da parte del pubblico della musica. Del resto siamo in epoca di finzioni e artifici. L’unica cosa che sembra rimasta uguale, autentica e non truccabile, è proprio la dimensione del concerto.

UP

Nel nuovo regolamento sanremese, al posto delle famigerate ed evanescenti giurie demoscopiche, a votare sarà una giuria composta da quelli che lavorano nelle radio. E così questi giurati avranno un volto, e soprattutto ricorderanno al pubblico che la radio è e rimane in assoluto il veicolo più importante di trasmissione delle canzoni.

& DOWN

Guccini si stupisce del fatto che molti includano “L’avvelenata” tra le sue canzoni migliori. «Ne ho scritte dieci cento volte più belle», dice. Ma non è vero, caro Francesco. “L’avvelenata” è un capolavoro, unica nel suo genere, arguta e divertente. L’invettiva elevata ad arte. Devi fartene una ragione.

Imprenditori.

Agenti.

Imprenditori.

Imprenditori Classici.

Claudio Trotta.

Francesco Becchetti.

Imprenditori Classici.

Quegli imprenditori "classici" che creano eventi in musica. Animano la Penisola con festival e concorsi, raccolgono soldi e riempiono le piazze. Come già faceva... Vivaldi. Piera Anna Franini su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

Beatrice Rana, che il 23 gennaio inaugura la stagione della Filarmonica della Scala, è oggi la vetta del pianismo tricolore. Sta costruendo una discografia di valore, è nei cartelloni di punta, a 30 anni sta colmando il vuoto lasciato dall'ultimo grande pianista di casa nostra, Maurizio Pollini. Ma caschi il mondo, la terza settimana di luglio torna nel suo Salento dove è l'ideatrice del Festival Classiche Forme, le brillano gli occhi quando ne parla, lì esprime l'altra sua anima: quella dell'imprenditrice musicale. Sono loro, gli artisti come Rana, a trarre dal cilindro gli eventi di classica più innovativi del nostro Paese. Hanno un padre nobile: Antonio Vivaldi, modello perfetto di musicista-imprenditore. Godono di una reputazione tale da far breccia nei cuori, e non solo, di mecenati grazie ai quali supplire al mancato sostegno del settore pubblico.

In genere si attivano laddove sono cresciuti, anche perché trattandosi spesso della provincia hanno maggiori margini di manovra. Si muovono con lo stesso slancio, senso del rischio e ferrea disciplina che li sostiene quando affrontano migliaia di spettatori. Sono l'anima di stagioni e realtà non strombazzate ma che irrorano il tessuto musicale italiano, il quale ha il suo apice mediatico nella Prima della Scala: uno dei 365 giorni scanditi da eventi quotidiani lungo tutto lo Stivale.

ENRICO DINDO, VIOLONCELLISTA

La vittoria al concorso Rostropovich segnava per Enrico Dindo l'inizio di carriera e di un'amicizia molto speciale: con Rostropovich, che avrebbe usato la leva della propria leggenda per aiutare Dindo a lanciare l'orchestra I Solisti di Pavia. Dal 2001 l'ensemble ha una sua stagione al teatro Fraschini di Pavia, fa tournée, e tramite la Pavia Cello Academy fa formazione musicale anche con interventi nelle scuole. È un ente privato, dunque snello, nessun musicista ha l'approccio impiegatizio che si fiuta talvolta fra i leggii a tempo indeterminato.

CARLO FABIANO, VIOLINISTA

È il direttore artistico di Trame Sonore. Nei più bei palazzi di Mantova, trecento musicisti offrono musica da camera 16 ore al dì per cinque giorni. Giusto un musicista può inventarsi - accadde l'anno scorso - i concerti One2One, ovvero una performance per singolo uditore nella Grotta del Giardino Segreto di Palazzo Te: esperienza degna di un Principe e in barba allo sharing 4.0. Altra chicca, gli eventi nella camera in cui i Gonzaga ascoltavano l'artista in residenza, Monteverdi.

RAFFAELE PE, CONTROTENORE

Fra le stelle del barocco, sarà nel cast de Li zite ngalera presto alla Scala. Prima ha fondato La Lira di Orfeo, un collettivo di musicisti, artisti e ricercatori che progettano spettacoli di musica antica rivisti con una sensibilità contemporanea. A Lodi nell'autunno 2022 ha lanciato la Orfeo Week che dato il successo, anzitutto tra i giovani, è confermata fino al 2024 e potrebbe diventare un format esportabile. La formula prevede eventi di cultura senza barriere nel nome della trasversalità.

MAURIZIO BAGLINI, PIANISTA

L'Amiata Piano Festival è una creazione del pianista Maurizio Baglini, interprete di rango internazionale e con una personalità tale da folgorare Claudio Tipa: il mecenate nella cui tenuta di vini ColleMassari, in provincia di Grosseto, ha fatto costruire un auditorium. Il festival poi condiviso con Silvia Chiesa ha cambiato radicalmente l'offerta culturale di uno degli angoli più defilati della Toscana, l'Amiata grossetana.

MARIO MORA, DIRETTORE DI CORO

Ha fondato una scuola di musica e al suo interno il coro I Piccoli Musici. Conosciamo il coro per via dei concerti di Natale ad Assisi, in onda sulla Rai e in eurovisione. Fiorita in una località bergamasca di 3.800 anime, questa realtà ci rappresenta all'Onu, fa formazione, divulgazione, canta per i papi e i governatori, vince concorsi internazionali issando ovunque la bandiera italiana.

ENRICA CICCARELLI, PIANISTA

Dopo anni di concertiamo e di organizzazione musicale, Enrica Ciccarelli ha compreso qual è l'anello debole dei concorsi di ultima generazione. Ha provveduto lanciandone uno in proprio, il Premio Internazionale Antonio Mormone. Ha messo in campo una strategia che consente di scovare l'artista dotato di carisma, della magia che sprigiona quando entra in scena ma che una gara tradizionale difficilmente riesce a cogliere.

LUCA RANIERI, VIOLISTA

Luca Ranieri, prima viola dell'Orchestra della Rai, lanciando il Lake Music Festival ha trasformato Desenzano, Sirmione e Padenghe in calamite di eccellenze musicali. Sulle rive del Lago di Garda approdano solisti, prime parti di orchestre e docenti di scuole leggenda impegnati in masterclass e concerti, da soli e in compagnia degli allievi più talentuosi. Per l'edizione della scorsa estate, fra gli altri c'era Giuseppe Gibboni, la più bella promessa del violinismo italiano di oggi.

Claudio Trotta.

Estratto dell'articolo di Alessandra Arachi per “il Corriere della Sera” il 29 aprile 2023.

Claudio Trotta, era così buona l’amatriciana della mamma?

«Molto. Piaceva a tutti gli artisti che portavo in tour in Italia. Li facevo venire a casa e mia mamma cucinava per loro. Anche lei era un’artista, Lucy Darbi il nome d’arte. Era una ballerina acrobatica, una contorsionista, una showgirl: ad appena 23 anni ha abbandonato la carriera per la famiglia. E con mio padre mi ha aiutato ad avviare la mia di carriera, era il 1979». 

La sua carriera, ovvero la costruzione della Barley Arts, quasi 45 anni di organizzazione di concerti, più di quindicimila concerti organizzati. Il meglio della musica, nazionale e internazionale. Chi sono stati i suoi primi artisti, quelli che hanno beneficiato dei bucatini?

«Artisti non estremamente famosi ma di grande sostanza e qualità. Penso a John Martyn, uno dei più grandi cantautori scozzesi, John Renbourn, David Bromberg e Bruce Cockburn, cantautore canadese. Il primo dei Bruce della mia vita». 

Già. L’altro si chiama di cognome Springsteen. Come comincia l’avventura con il Boss?

«Con una bicicletta, in un concerto che non ho organizzato io». 

Cioè?

«Era il 1985, fu Franco Mamone il primo a portare Bruce Springsteen in Italia, a San Siro, un concerto rimasto nella storia. A me per l’organizzazione aveva voluto dare un ruolo piuttosto ridicolo: dovevo girare in bicicletta attorno allo stadio e controllare che quelli del servizio d’ordine non prendessero soldi sotto banco da chi voleva entrare». 

Poi però...

«Poi quando Franco se ne è andato, nel 1999 i concerti di Bruce ho cominciato a organizzarli io. E da lì è una storia che va avanti con trentasei concerti fatti in Italia, con tanti momenti passati insieme, anche divertenti».

Ce ne racconta qualcuno?

«Dopo il concerto di Padova, nel 2016 alloggiavamo ad Abano Terme, in un hotel pieno di tedeschi. C’era un’orchestrina che suonava il twist. Bevevamo grappa, io mi sono messo a ballare, lui rideva, mi ha detto: “Sei il king of twist”. Bruce è così». 

Così come?

«L’antitesi di qualsiasi genere di follia divistica. Bruce è uno che sta lì a salutare i pompieri, i facchini. Oppure in piena notte prende e va in giro e si mette a chiacchierare con i fan. È estroverso, ma non quando lavora. È molto rispettoso del lavoro che fa ed è rispettoso verso il pubblico. Come quella volta a Napoli». […]

Quali per esempio?

«I Sex Pistols con le loro bizze erano veramente pesanti da sopportare. I Jesus and Mary Chain una volta quando sono scesi dall’aereo la prima cosa che hanno chiesto è stata l’eroina. Li abbiamo rimessi sul primo volo. E i Motley Crue? Avevano come supporter i Guns N’ Roses: il concerto venne annullato perché tre sere prima di partire avevano avuto una notte eccessiva e hanno rischiato di morire. […] 

Qualcosa anche di Van Morrison?

«Era pieno di idiosincrasie. Voleva per contratto che lo portassi in giro io con l’automobile e ascoltavamo insieme tanta musica. Dopo il concerto mi chiedeva sempre di organizzare per fare delle jam con i suoi musicisti. Poi quando era tutto pronto guardava sdegnato e se ne andava. Però un artista al top». 

[…]

Era effettivamente così?

«Bisogna contestualizzare. C’erano stati gli anni delle contestazioni, non si voleva pagare duemila lire per un biglietto, l’equivalente di un euro, viene da ridere oggi. C’erano sì le multinazionali ma nella discografia non ce n’era una dominante come invece adesso, con una concentrazione di potere senza precedenti. C’erano promoter indipendenti territoriali». 

E i nostri artisti italiani? In tanti sono passati per la Barley Arts.

«Alcuni sono partiti con la Barley Arts».

Chi per esempio?

«Tiziano Ferro. Gli abbiamo insegnato a stare sul palco. Anche Mika l’ho lanciato io in Italia. Il suo primo concerto a Milano doveva essere ai Magazzini Generali, capienza mille persone. Poi è stato spostato all’Alcatraz, dove i posti sono tremila. Era entusiasta. Aveva sguinzagliato i collaboratori per cartolerie e laboratori teatrali in cerca di abbellimenti scenografici dell’ultimo momento. Ha una grande vocazione teatrale». 

Anche per Renato Zero c’è stata la Barley.

«Renato è simpaticissimo, un artista straordinario. Direi che ha un rapporto particolare con i soldi, riesce ad avere lo sconto anche sui fiammiferi dal tabaccaio. Ama la buona cucina, conosce in tutta Italia ristoratori di grande qualità, ma di pagare il conto non se ne parla. Se a una cena con 50 persone 48 erano suoi ospiti voleva sempre che pagassi io. In questo è il contrario di Bruce, che non mangia mai dopo i concerti e se capita è sempre generosissimo». […]

Francesco Becchetti.

Dagospia l’11 aprile 2023.Riceviamo e pubblichiamo da Francesco Becchetti

In merito alle dichiarazioni di Pupo rilasciate nei giorni scorsi, l’imprenditore Francesco Becchetti rassicura il cantante e showman che il contratto sarà rispettato, non appena messo nelle condizioni di farlo.

 In particolare, Becchetti tramite una nota stampa riferisce: “Ringrazio Pupo per aver creduto nella mia totale innocenza anche se in questi duri anni di lotta legale non lo ha mai manifestato né privatamente né tantomeno pubblicamente.

Ha aspettato una sentenza di un arbitrato internazionale per esprimerla e subito dopo rivendicare il pagamento dell'ultima trance del suo compenso.

Voglio rassicurarlo che intendo onorare, come sempre, i miei impegni quando sarò nelle condizioni di poterlo fare, ovvero, non appena mi sarà garantita la protezione diplomatica della Premier Meloni nei confronti del Primo Ministro dell’Albania, Edi Rama, protezione dovuta a garanzia dell'impresa, dello spettacolo e dei cittadini italiani”. Conclude Francesco Becchetti.

 Riepilogo della vicenda

La svolta nella vicenda è dei giorni scorsi, quando un tribunale internazionale ICSID, della Banca Mondiale, ha respinto l'istanza di revisione del lodo arbitrale promossa dall’Albania che ha riconosciuto all'unanimità a Francesco Becchetti ed altre persone oltre €120 milioni in danni, costi e interessi.

 Francesco Becchetti era il proprietario di Agon Channel, un'emittente televisiva paneuropea con 500 dipendenti con sede a Tirana, e ha trasmesso critiche al primo ministro albanese Edi Rama, al suo governo e ad altri politici. Agon è stata lanciata in Albania nell'aprile 2013 e, dal 2014, trasmetteva in Albania 24 ore su 24, sette giorni su sette, offrendo una vasta gamma di notizie e programmi di intrattenimento. Il canale è stato chiuso nell'ottobre 2015 dopo che Becchetti e sua madre, Liliana Condomitti, sono stati accusati ingiustamente di riciclaggio di denaro. I beni di Becchetti sono stati congelati, è stato emesso un mandato di arresto e sono state avviate le procedure di estradizione.

In una trasmissione televisiva nel giugno 2015, Rama ha definito Becchetti e i suoi collaboratori un "fenomeno scandaloso contro il quale abbiamo dichiarato guerra e che combatteremo fino alla fine". Ha aggiunto che il governo "farà tremare le fondamenta del sistema giudiziario". Nel frattempo, Becchetti ha presentato una richiesta di avvio di un procedimento arbitrale contro lo Stato albanese presso l'ICSID.

 Nell'ottobre 2015, Becchetti è stato costretto a sottoporsi a un arresto su appuntamento a Londra, dopo che il governo albanese aveva chiesto la sua estradizione. Ma nel luglio 2016, il Westminster Magistrates Court ha rigettato il procedimento di estradizione, definendo le prove del governo albanese "totalmente fuorvianti". L'Albania aveva annunciato un ricorso in appello, poi ritirato.

 Il tribunale dell'ICSID ha ritenuto che le azioni del governo di Rama nell'emettere mandati di arresto contro Becchetti e l'amministratore di AgonSet, Mauro De Renzis, accusandoli di evasione fiscale, falsificazione di documenti, appropriazione indebita e riciclaggio di denaro e richiedendo la loro estradizione dal Regno Unito, fossero motivate dalle critiche di Agonset al governo albanese e che la chiusura di Agonset fosse il culmine di una campagna politica contro Becchetti e altri. I tribunali di Londra che si sono pronunciati sulle richieste di estradizione hanno anche stabilito che l'Albania ha abusato e usurpato del procedimento giudiziario.

L'Interpol ha ritirato i mandati di arresto internazionale contro Becchetti e De Renzis, dopo che l'Albania non è stata in grado di giustificarli. Le “Red Notices” emesse contro i due sono state ritenute dall'Interpol non conformi alle sue regole quando l'Albania non ha fornito chiarimenti sul carattere politico, sulla mancanza di un giusto processo e sulla mancanza di basi probatorie per le accuse.

 La polizia albanese aveva fermato gli ex dipendenti e i manager di Agon e li aveva sottoposti a perquisizioni nel momento in cui essi avevano provato a lasciare il Paese. Tra questi dipendenti, definiti dal governo albanese "persone molto pericolose", c'erano giornalisti, redattori e analisti, ma anche cameraman, operatori e persino parrucchieri.

 Il Tribunale ha inoltre condannato l'Albania per espropriazione illegittima dell'emittente televisiva Agonset, in violazione dell’accordo bilaterale sugli investimenti tra Italia e Albania. In particolare, ha condannato il governo albanese a pagare a Becchetti e agli altri imprenditori la somma di €110 milioni in risarcimenti e spese. Per inquadrare l'entità di questi risarcimenti, €110 milioni equivalgono a quasi l'1% dell'intero PIL dell'Albania. Se la stessa percentuale fosse applicata agli Stati Uniti, equivarrebbe a $190 miliardi.

Dopo l'annuncio del risultato, Becchetti ha commentato: "Io e la mia famiglia siamo lieti che la nostra battaglia legale durata quattro anni e la nostra lotta contro l'arresto irregolare e la persecuzione politica siano giunte al termine. Il nostro primo pensiero va a tutte le famiglie dei dipendenti del Gruppo che hanno sofferto così ingiustamente a causa delle azioni precipitose del corrotto governo albanese. Siamo lieti che il tribunale abbia compiuto il raro passo di confermare che siamo stati oggetto di una persecuzione di Stato. Ora non vediamo l'ora di riprendere le nostre vite e le nostre attività commerciali".

Agenti.

Lucio Presta.

Beppe Caschetto

Lucio Presta.

Il Mangiafuoco calabresissimo che fa e disfa i burattini della tv. Luigi Mascheroni il 3 Aprile 2023 su Il Giornale.

È l'agente delle star: Mediaset, Rai e Sanremo sono "cosa sua". Protegge gli amici, la giura ai nemici: critici, ex clienti, giornalisti

Lucio Presta the dark side of the stars, il manager in ombra dei divi più sovraesposti è come un personaggio sorrentiniano della Grande bellezza. «In questo Paese per farsi prendere sul serio bisogna prendersi molto sul serio». E lui si Presta perfettamente alla definizione.

Definizione di Lucio Presta: procuratore, imprenditore, produttore tv. È, o è stato, l'agente, in ordine di cachet, di Benigni, Bonolis, Amadeus, Gianni Morandi, Antonella Clerici (se vuole, mandando tre WhatsApp, può farsi un Sanremo dal vivo in taverna), Venier, Cuccarini, Belén, Teo Mammucari, Ezio Greggio, Michele Santoro, Simona Ventura, Federica Panicucci, Rita Dalla Chiesa, Stefano De Martino, la Palombelli (!), la moglie Paola Perego Ma Lucio Presta definizione per definizione - è anche un Pippo Baudo all'ennesima Cosenza calabresissimo, 63 anni, anelli, riccioli e turdilli - perché come Baudo - così dice - li ha fatti e li ha distrutti tutti lui. «Questo l'ho inventato io!». Da meridionale con complesso di inferiorità e provinciale non risolto, pur assurto alla gloria professionale, Lucio Presta non riesce a godersi fino in fondo il trionfo come un Fiorello qualunque lui sì da Catania all'Olimpo sempre con la soddisfazione sotto i baffi e se ne sta lì, appollaiato sul suo deposito di dobloni, come se fosse un precario del successo con l'ossessione di essere il demiurgo della tivù italiana. Eppure come agente, alla destra di Beppe Caschetto, col quale spartisce la torta degli ascolti e la crème dei teledivi, è bravissimo. Il suo talento è saper riconoscere quello degli altri. Cinico, spiccio, schivo (ma malato di Twitter), vendicativo («Se uno vuole fare a pezzi un mio artista deve pensarci bene perché se lui oggi fa male a me, io domani posso fare male a lui. Voglio che rifletta»), facilmente irritabile (da cui il soprannome «Brucio Presta»), pragmatico da cui la legge economica che regola la sua idea di televisione «Prima di passare alla gloria meglio passare alla cassa» Presta è altrettanto bravissimo a insinuare il sospetto che se in Rai cambia l'Ad, è perché dietro c'è la sua zampa; se uno viene nominato Ceo delle Olimpiadi Milano-Cortina si intesta l'incarico, e se poi la stessa persona viene giubilata ti fa intendere che è stato lui a cambiare le carte; e se adesso il marito della Meloni fa un talk show su Rete 4 qualcuno dice che Presta ha già provato ad attribuirsi il merito

Eccellente uomo di relazioni la moglie lo chiama «Wolf», perché tutti si rivolgono a lui per risolvere i problemi è però negato per la politica. Anni fa a Cosenza si candidò a sindaco, appoggiato dai renziani, ma poi capì che non era aria, e lasciò perdere.

Vincente, consigliere, spin doctor. Lucio Presta è un po' il Richelieu di Matteo Renzi (però il terribile documentario «Firenze secondo me» non è andato molto bene, e neanche secondo i vertici del canale Nove), e un po' Mangiafuoco dei burattini dello star system: crea miti, organizza vite e carriere (pacchetto completo), architetta palinsesti, fa e disfa gli artisti, i programmi, le fasce orarie, determina soprattutto lo share. Se non fosse per lui da Bonolis alla Clerici, da Morandi a Amadues quater, quinquies, sexies - Sanremo sarebbe solo una ridente cittadina della riviera ligure.

Uomo del Sud che ha trovato il suo nord seguendo il movimento delle stelle televisive, una vita da pendolare fra LucioRai e MediaPrest, da Viale Mazzini a Cologno Monzese con un formidabile equilibrismo e un'innegabile abilità nell'antica arte del baratto Io ti do Roberto, tu mi dai il prime time, io ti presto Paolo e tu ti tieni anche Paola Lucius Augustus Presta, Imperatore di Tivulandia, si accontenta di un 12-15 per cento.

Il restante 85-88 per cento è fatto di un'infanzia cosentina fino alle elementari, poi collegio cattolico a mille chilometri da casa per punizione, a La Spezia; una discesa giovanile sulla fascia da mezzala, quando era magrissimo, 64 chili per 1,84, e lo chiamavano «Fogliolina», e oggi è sui cento ed è lo «Squalo» balena; a 14 anni cameriere, da Praia a Mare al demi-monde, cosa che gli insegna come si accontenta sempre il cliente; quindi ballerino, dieci anni di carriera e cinque edizioni di Fantastico e qui Lucio è l'eccezione in assoluto: maschio e non checca e poi la svolta: manager degli artisti tv. Primo cliente una nèmesi, retrospettivamente - Heather Parisi. «Ti pignoro!».

Pignolo, tre ore di sonno a notte, collezionista di orologi senza mai indossarne uno che è un po' come essere l'agente di Benigni senza sentire il bisogno di leggere la Comedìa tre matrimoni, quattro figli in tutto, un culto per la famigghia, «E adesso mi faccio la barca!», un'auto-agiografia (titolo: Nato con la camicia, Mondadori, anche se con il Cav non si sono mai presi), un guardaroba abbastanza basic (Adidas e giubbotto di renna), un debole per il dialetto romagnolo, chissà perché; scaramantico (odia il colore verde, tranne quello dei soldi), ricco sfondato, lui è quello che guida il Porsche portandosi nel bagagliaio un capretto per farlo allo spiedo, devoto di don Bosco, gira col porto d'armi (dice di essere stato aggredito due volte sotto casa quando abitava al Nuovo Salario, ora però non ce n'è più bisogno: vive al Fleming), impone cachet stellari - e la minchia di Ode alla Costituzione di Benigni a Sanremo, con tanto di Mattarella al seguito e caso diplomatico, fu salata assai Lucio Presta crede in due cose. Le querele, che adora. E l'amicizia: da calabro, per gli amici è pronto a tutto. In particolare a giurartela.

Amici (ex amici) con i quali Lucio Presta, uomo di percentuali e contratti, ha conti in sospeso.

Massimo Giletti: parlò male del reality La talpa, condotto da sua moglie, Paola Perego (finì a sputi e denunce). Aldo Grasso: scrisse che Presta imponeva velati ricatti alla Rai, tipo «Vi porto un fuoriclasse ma fai lavorare mia moglie Paola Perego» (controreplica via Twitter di Presta: «Grasso, sei un coglione»). Giancarlo Magalli: parlò pubblicamente della «clausola Perego», cioè «Se vuoi Bonolis prendi anche mia moglie, Paola Perego» (risposta di Presta via intervista: «Magalli è un delinquente»). Barbara d'Urso: lui la chiamò «Suora laica in paillettes che produce orrore in tv», ma adesso hanno fatto pace con photo opportunity su Twitter. E Antonio Ricci: non si sa cosa sia successo ma una volta Lucio Presta ha detto: «Ricci crede di essere il dottore della televisione. Invece è la malattia».

Frase-tormentone di Lucio Presta su Twitter: «Buongiorno a tutti, meno uno».

Frasi che piacciono molto a Lucio Presta. «Io so che gli uomini le cose se le risolvono tra loro, i quaqquaraquà se le risolvono in altra maniera». «Io non attacco mai. Proteggo i miei artisti». «Il mercato è mercato». E comunque sono sempre «Cifre fuori dalla realtà». Ma soprattutto: «Sono salesiano. Prima mi vendico, poi perdono». Del resto, è noto, sono soltanto tre le cose che Dio non conosce. Quanti ordini di suore ci sono. Cosa pensano davvero i gesuiti. E quanto sono ricchi i salesiani.

E per il resto, come dice il proverbio, «Andare a letto presto e alzarsi Presta, fanno l'uomo sano, ricco e potente».

Av salut burdel!

Il gip del Tribunale di Roma archivia l’indagine su Matteo Renzi e Lucio Presta, per finanziamento illecito. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Marzo 2023.

La vicenda era legata ai bonifici fatti dal manager tv per il documentario 'Firenze secondo me', dove il leader di Italia Viva guidava gli spettatori alla scoperta della città

Archiviazione per Matteo Renzi e Lucio Presta. Il gip di Roma ha archiviato l’inchiesta che vedeva indagati l’ex premier e oggi leader di Italia Viva Matteo Renzi, il noto manager televisivo Lucio Presta e suo figlio Niccolò Presta. L’accusa nei confronti dei tre era quella di “finanziamento illecito“. A chiedere l’archiviazione i procuratori aggiunti Paolo Ielo e Stefano Pesci della procura di Roma.

Il procedimento verteva sui rapporti economici tra Renzi e l’agente televisivo e, in particolare, i bonifici del documentario “Firenze secondo me”, che nel 2019 finirono in una relazione dell’antiriciclaggio della UIF, l ‘ Unità investigativa finanziaria della Banca d’Italia. Il documentario venne realizzato da Renzi con la casa di produzione Arcobaleno ed è andato in onda su Nove, canale del gruppo Discovery Italia, a cavallo tra il 2018 e il 2019. Un flop, con ascolti al 2%, ma evidentemente Discovery non nutriva grosse aspettative visto che pagò appena 20mila euro. L’ex segretario del Pd ottenne invece un cachet di 454 mila euro.

Non so in cosa possa sostanziarsi questo avviso di garanzia: tutte le nostre attività solo legali, lecite, legittime” – aveva dichiarato Matteo Renzi due anni fa quando venne alla luce il procedimento penale nei suoi confronti – “Si parla di una mia attività professionale che sarebbe finanziamento illecito alla politica, cosa che non sta né in cielo né in terra. Quando arriveranno gli atti potremo discutere e confrontarci“. aggiungendo in una videodiretta su Facebook, commentando l’indagine che lo coinvolgerebbe. “Io non ho paura, sono andato contro tutti e contro tutto per fare un nuovo governo. Pensate se possono farmi paura con qualche velato avvertimento e con qualche avviso di garanzia comunicato via stampa in un determinato giorno“.

Parte di quel denaro, secondo la ricostruzione fatta dagli investigatori, sarebbe servito a Renzi per ripagare il prestito di 700mila euro che aveva ricevuto dalla signora Anna Picchioni, vedova dell’imprenditore Egiziano Maestrelli, per comprare la villa di Firenze, costata un milione e 350mila euro (per 285 metri quadrati). Renzi affermò che il prestito era stato ripagato con i suoi guadagni ottenuti come conferenziere e, appunto, grazie alla realizzazione del documentario.

Ad annunciare l’archiviazione è lo stesso Lucio Presta su Twitter. “Desidero ringraziare la procura di Roma che ha svolto le indagini che mi vedevano indagato con il senatore Matteo Renzi, conclusesi con l’archiviazione – scrive Presta – Li ringrazio per aver avuto la professionalità e l’equilibrio che hanno garantito di salvaguardare la mia rispettabilità, la mia professionalità, la vita mia e quella di mio figlio Niccolò. Ringrazio i legali (Cersosimo-Lucarelli) per il grande lavoro svolto“. Redazione CdG 1947

Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 22 marzo 2023.

La vena del politico è sfociata – come è noto - in alcuni format tv da lui inventati, pagati cari e amari da Presta ma mai realizzati; e in un mandato di rappresentanza a Presta «per promuovere nel mondo la mia attività professionale esclusivamente nell’ambito dello spettacolo», costati all’agente ben 300mila euro. A cui vanno aggiunti altri 400 mila euro per l’ideazione e la conduzione del documentario “Firenze secondo me”, mossa economicamente disastrosa per la società Arcobaleno Tre controllata da Presta: costata in tutto quasi un milione, l’opera è stata venduta a Discovery Channel per appena mille euro, ad oggi nemmeno incassati.

La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione degli indagati perché, pur evidenziando come l’investimento fatto da Presta appare «estraneo» a una logica commerciale sensata, secondo la nuova legge Cartabia per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati è necessario che esista una «ragionevole previsione di condanna». Tradotto, senza prove solide che garantiscano una buona probabilità di vittoria il magistrato deve archiviare prima ancora di andare in udienza preliminare.

In questo caso, nonostante Presta abbia finora girato a Renzi 700 mila euro attraverso un’operazione che appare come «un mero costo», secondo i pm e il gip che ha accolto la richiesta di archiviazione non ci sono evidenze schiaccianti contro l’agente e Renzi: il documentario è stato effettivamente girato ed è opera «reale» forse vendibile ai posteri, mentre il contratto di esclusiva potrebbe – non è cosa da escludere a priori – portare futuri guadagni alla Arcobaleno Tre.

 Detto questo, le 20 pagine della richiesta di archiviazione descrivono la storia di un’operazione bizzarra tra l’allora segretario del Pd e un potente agente che lavora anche con la tv di Stato, con scritture private abortite, retrodatazioni, curiose trattative con le società del capo di Forza Italia Silvio Berlusconi (Mediaset e la casa editrice Mondadori) in merito all’acquisto dei diritti di “Firenze secondo me”. Con il corollario che alcune giustificazioni di Presta messe a verbale spesso vengono smentite dai fatti e da successive testimonianze di test chiave.

Soprattutto, il dispositivo di archiviazione evidenzia come l’impresa culturale Renzi-Presta sia collegata, temporalmente ed economicamente, all’acquisto di Renzi della casa di Firenze. Come già raccontato da chi scrive sull’Espresso e su Domani, la villa fu infatti acquistata grazie a un prestito (da 700 mila euro) ottenuto dall’anziana madre di alcuni imprenditori toscani amici del senatore, i Maestrelli. Soldi restituiti dal leader del Terzo Polo proprio grazie a parte della provvista ottenuta dall’Arcobaleno Tre, che in tutto ha girato a Renzi esattamente 700mila euro.

Partiamo dall’inizio della vicenda. E dal documentario “Firenze secondo me”. È il 16 giugno 2018, e i coniugi Renzi ottengono da Anna Picchioni (madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli che nel 2015, durante il governo Renzi, era stato nominato nel cda di CpdImmobiliare) il prestito con cui possono comprare la casa dei loro sogni.

Due giorni dopo, il 18 giugno, Renzi si impegna a girare alcune scene dell’opera con specifico riferimento al “Calcio fiorentino”: lo segnala un contratto «non sottoscritto» trovato dagli investigatori della Guardia di Finanza negli uffici dell’Arcobaleno Tre. Passa un mese, e il 27 luglio Renzi apre una partita iva. Gli servirà per firmare il 31 luglio il contratto da conduttore e autore del documentario, per un totale di 400mila euro. Per il film la società di Presta tra troupe e location spenderà altro mezzo milione, con un investimento totale di 920 mila euro.

 Se per gli investigatori il politico ottiene di fatto da Presta «700 mila euro e la produzione di un lungometraggio idoneo a promuovere la propria immagine pubblica», la società dell’agente «è apparsa avere riportato un mero costo».

La richiesta di archiviazione evidenzia poi che le prime trattative per piazzare il documentario in tv iniziano a luglio 2018 con Mediaset, dunque solo dopo che Renzi e Presta hanno già preso i primi accordi per girarlo. Nell’interrogatorio ai pm l’agente di Amadeus segnala come avrebbe raggiunto un accordo con gli alti dirigenti del Biscione Alessandro Salem (da lustri braccio destro di Piersilvio Berlusconi), Giorgio Restelli e Massimo Porta.

 Un patto da un milione di euro non scritto, ma «suggellato da una stretta di mano», ha detto Presta a verbale. «In seguito» scrivono ancora i pm «per via di una asserita divergenza con Salem che avrebbe voluto trasmettere la produzione in prima serata, mentre Presta insisteva per la seconda, il documentario non sarebbe stato mandato in onda. Sarebbe stato comunque pagato, così come da accordi intervenuti». Presta, in effetti, dichiara di non «avere perso nemmeno un euro dalla produzione di Firenze secondo me».

Se in una mail agli atti del 10 ottobre sembra raccontare che è Presta a lamentarsi con Salem per «il venir meno dell’impegno assunto per l’acquisto del documentario», non è chiaro come mai l’agente litighi con i dirigenti di Berlusconi che volevano dare la massima visibilità all’opera.

 La procura di Roma ha poi trovato traccia di un’altra lettera tra Mediaset e Arcobaleno Tre, che fa in effetti riferimento all’acquisto del documentario per soli 300 mila euro, ma che resterà comunque una promessa «non portata a termine». Anche un manager di RTI sentito in procura, Andrea Giudici, ha escluso che Mediaset abbia mai, per quanto a sua conoscenza, «proceduto all’acquisto».

Dunque, Presta non ha incassato un euro da nessun network tv. Da altre aziende dell’universo berlusconiano, invece, qualche denaro è arrivato. L’agente ha detto che l’esclusiva di “Firenze secondo me” «gli avrebbe procurato un contratto con Piemme», editore controllata dalla Mondadori, per pubblicare un libro dal titolo omonimo.

 Mentre i magistrati di Piazzale Clodio hanno scoperto che un contratto tra Renzi e Mondadori originato dal documentario esiste davvero. Ma pure che alla fine i 50 mila euro pattuiti sono stati poi riversati su un altro libro di Renzi, “Controcorrente”.

 Un saggio su Firenze del politico però potrebbe finalmente uscire nel 2024. La Mondadori ha firmato un contratto con Renzi e Presta, che potrebbe recuperare finalmente qualche spiccio: 16.625 euro è la somma corrisposta sul contratto firmato ad ottobre 2021. Quest’anno, invece, la casa editrice di Berlusconi forse darà alle stampe “Almanacco”, sempre a firma Renzi, volume che dovrebbe richiamare un format televisivo “5 minuti”, già venduto nel 2018 dal politico a Presta. «In forza di tale contratto alla Arcobaleno è stata corrisposta, difformemente da quanto dichiarato da Presta nell’interrogatorio, la somma di 10 mila euro, e non 40 mila».

Torniamo al torrido luglio 2018. Il giorno prima di firmare il contratto per il documentario, Renzi sigla con Presta anche una scrittura privata da 200 mila euro, con cui trasferisce al sodale i diritti di due format tv da lui ideati: il già citato “5 minuti” e “Mr Interviste”, entrambi mai realizzati. Non si sa come mai Presta e Renzi decidano improvvisamente nello stesso giorno di firmare contratti su tanti lavori d’ingegno così diversi che sommati insieme arrivano proprio ai 700 mila euro del prestito ottenuto dall’allora segretario del Pd.

Ma durante le perquisizioni gli investigatori trovano «un contratto avente pari data, medesimo oggetto, ma diverso importo di euro 500mila». Si tratta di una scrittura privata che secondo la commercialista di Presta sentita in procura sarà «poi superata», e tagliato ai 200mila euro suddetti.

 La circostanza ha fatto ipotizzare a Piazzale Clodio che il compenso che Presta voleva investire su Renzi non fosse «parametrato al valore della prestazione artistica, bensì a un risultato economico complessivo che si voleva raggiungere; ottenuto il quale (attraverso altri contratti, ndr) si è optato per un compenso inferiore a quello preventivato».

Anche il contratto da 100 mila euro con cui l’ex premier cede a Presta «i diritti di sfruttamento economico di eventuali opere future d’ingegno del senatore» è del 30 luglio 2018. Come gli altri, presenta peculiarità non banali: se «per prassi» è l’artista che paga il suo agente, «nel contratto stipulato da Renzi con l’Arcobaleno Tre invece è quest’ultima che retribuisce il rappresentato».

 Alla fine della fiera, i pm dicono che «dubbi» possono essere sollevati, che alcune affermazioni di Presta (come quelle sui soldi avuti da Mediaset) non sono state «confermate dalle indagini a riscontro», e che non si può dire con certezza se i progetti editoriali con Mondadori «siano o meno fumo negli occhi». Il «mero sospetto» è però irrilevante: piaccia o non piaccia, non essendoci prove decisive per sostenere a processo bisogna archiviare. Cartabia docet, e Renzi e Presta possono festeggiare.

Libri, doc e i misteri Mediaset. Tutti gli affari di Renzi e Presta. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 22 marzo 2023

Il senatore e il suo agente sono stati archiviati dalla procura di Roma per il reato di finanziamento illecito. Ma per i pm Presta di fatto ha perso (ad ora) 700mila euro. Usati da Renzi per restituire il prestito per la casa

Matteo Renzi e Lucio Presta sono stati archiviati dalle accuse di finanziamento illecito e sovrafatturazione, in merito ai denari (in tutto 700mila euro) che l’agente delle star ha girato cinque anni fa all’ex premier come compenso per «l’attività artistica del senatore».

La vena del politico è sfociata – come è noto - in alcuni format tv da lui inventati, pagati cari e amari da Presta ma mai realizzati; e in un mandato di rappresentanza a Presta «per promuovere nel mondo la mia attività professionale esclusivamente nell’ambito dello spettacolo», costati all’agente ben 300mila euro. A cui vanno aggiunti altri 400 mila euro per l’ideazione e la conduzione del documentario “Firenze secondo me”, mossa economicamente disastrosa per la società Arcobaleno Tre controllata da Presta: costata in tutto quasi un milione, l’opera è stata venduta a Discovery Channel per appena mille euro, ad oggi nemmeno incassati.

EFFETTO CARTABIA

La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione degli indagati perché, pur evidenziando come l’investimento fatto da Presta appare «estraneo» a una logica commerciale sensata, secondo la nuova legge Cartabia per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati è necessario che esista una «ragionevole previsione di condanna». Tradotto, senza prove solide che garantiscano una buona probabilità di vittoria il magistrato deve archiviare prima ancora di andare in udienza preliminare.

In questo caso, nonostante Presta abbia finora girato a Renzi 700 mila euro attraverso un’operazione che appare come «un mero costo», secondo i pm e il gip che ha accolto la richiesta di archiviazione non ci sono evidenze schiaccianti contro l’agente e Renzi: il documentario è stato effettivamente girato ed è opera «reale» forse vendibile ai posteri, mentre il contratto di esclusiva potrebbe – non è cosa da escludere a priori – portare futuri guadagni alla Arcobaleno Tre.

Detto questo, le 20 pagine della richiesta di archiviazione descrivono la storia di un’operazione bizzarra tra l’allora segretario del Pd e un potente agente che lavora anche con la tv di Stato, con scritture private abortite, retrodatazioni, curiose trattative con le società del capo di Forza Italia Silvio Berlusconi (Mediaset e la casa editrice Mondadori) in merito all’acquisto dei diritti di “Firenze secondo me”. Con il corollario che alcune giustificazioni di Presta messe a verbale spesso vengono smentite dai fatti e da successive testimonianze di test chiave.

Soprattutto, il dispositivo di archiviazione evidenzia come l’impresa culturale Renzi-Presta sia collegata, temporalmente ed economicamente, all’acquisto di Renzi della casa di Firenze. Come già raccontato da chi scrive sull’Espresso e su Domani, la villa fu infatti acquistata grazie a un prestito (da 700 mila euro) ottenuto dall’anziana madre di alcuni imprenditori toscani amici del senatore, i Maestrelli. Soldi restituiti dal leader del Terzo Polo proprio grazie a parte della provvista ottenuta dall’Arcobaleno Tre, che in tutto ha girato a Renzi esattamente 700mila euro.

LA TRATTATIVA CON MEDIASET

Partiamo dall’inizio della vicenda. E dal documentario “Firenze secondo me”. È il 16 giugno 2018, e i coniugi Renzi ottengono da Anna Picchioni (madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli che nel 2015, durante il governo Renzi, era stato nominato nel cda di CpdImmobiliare) il prestito con cui possono comprare la casa dei loro sogni.

Due giorni dopo, il 18 giugno, Renzi si impegna a girare alcune scene dell’opera con specifico riferimento al “Calcio fiorentino”: lo segnala un contratto «non sottoscritto» trovato dagli investigatori della Guardia di Finanza negli uffici dell’Arcobaleno Tre. Passa un mese, e il 27 luglio Renzi apre una partita iva. Gli servirà per firmare il 31 luglio il contratto da conduttore e autore del documentario, per un totale di 400mila euro. Per il film la società di Presta tra troupe e location spenderà altro mezzo milione, con un investimento totale di 920 mila euro.

Se per gli investigatori il politico ottiene di fatto da Presta «700 mila euro e la produzione di un lungometraggio idoneo a promuovere la propria immagine pubblica», la società dell’agente «è apparsa avere riportato un mero costo».

La richiesta di archiviazione evidenzia poi che le prime trattative per piazzare il documentario in tv iniziano a luglio 2018 con Mediaset, dunque solo dopo che Renzi e Presta hanno già preso i primi accordi per girarlo. Nell’interrogatorio ai pm l’agente di Amadeus segnala come avrebbe raggiunto un accordo con gli alti dirigenti del Biscione Alessandro Salem (da lustri braccio destro di Piersilvio Berlusconi), Giorgio Restelli e Massimo Porta.

Un patto da un milione di euro non scritto, ma «suggellato da una stretta di mano», ha detto Presta a verbale. «In seguito» scrivono ancora i pm «per via di una asserita divergenza con Salem che avrebbe voluto trasmettere la produzione in prima serata, mentre Presta insisteva per la seconda, il documentario non sarebbe stato mandato in onda. Sarebbe stato comunque pagato, così come da accordi intervenuti». Presta, in effetti, dichiara di non «avere perso nemmeno un euro dalla produzione di Firenze secondo me».

Se in una mail agli atti del 10 ottobre sembra raccontare che è Presta a lamentarsi con Salem per «il venir meno dell’impegno assunto per l’acquisto del documentario», non è chiaro come mai l’agente litighi con i dirigenti di Berlusconi che volevano dare la massima visibilità all’opera.

La procura di Roma ha poi trovato traccia di un’altra lettera tra Mediaset e Arcobaleno Tre, che fa in effetti riferimento all’acquisto del documentario per soli 300 mila euro, ma che resterà comunque una promessa «non portata a termine». Anche un manager di RTI sentito in procura, Andrea Giudici, ha escluso che Mediaset abbia mai, per quanto a sua conoscenza, «proceduto all’acquisto».

Dunque, Presta non ha incassato un euro da nessun network tv. Da altre aziende dell’universo berlusconiano, invece, qualche denaro è arrivato. L’agente ha detto che l’esclusiva di “Firenze secondo me” «gli avrebbe procurato un contratto con Piemme», editore controllata dalla Mondadori, per pubblicare un libro dal titolo omonimo. Mentre i magistrati di Piazzale Clodio hanno scoperto che un contratto tra Renzi e Mondadori originato dal documentario esiste davvero. Ma pure che alla fine i 50 mila euro pattuiti sono stati poi riversati su un altro libro di Renzi, “Controcorrente”.

Un saggio su Firenze del politico però potrebbe finalmente uscire nel 2024. La Mondadori ha firmato un contratto con Renzi e Presta, che potrebbe recuperare finalmente qualche spiccio: 16.625 euro è la somma corrisposta sul contratto firmato ad ottobre 2021. Quest’anno, invece, la casa editrice di Berlusconi forse darà alle stampe “Almanacco”, sempre a firma Renzi, volume che dovrebbe richiamare un format televisivo “5 minuti”, già venduto nel 2018 dal politico a Presta. «In forza di tale contratto alla Arcobaleno è stata corrisposta, difformemente da quanto dichiarato da Presta nell’interrogatorio, la somma di 10 mila euro, e non 40 mila».

SCRITTURE PRIVATE

Torniamo al torrido luglio 2018. Il giorno prima di firmare il contratto per il documentario, Renzi sigla con Presta anche una scrittura privata da 200 mila euro, con cui trasferisce al sodale i diritti di due format tv da lui ideati: il già citato “5 minuti” e “Mr Interviste”, entrambi mai realizzati. Non si sa come mai Presta e Renzi decidano improvvisamente nello stesso giorno di firmare contratti su tanti lavori d’ingegno così diversi che sommati insieme arrivano proprio ai 700 mila euro del prestito ottenuto dall’allora segretario del Pd. Ma durante le perquisizioni gli investigatori trovano «un contratto avente pari data, medesimo oggetto, ma diverso importo di euro 500mila». Si tratta di una scrittura privata che secondo la commercialista di Presta sentita in procura sarà «poi superata», e tagliato ai 200mila euro suddetti.

La circostanza ha fatto ipotizzare a Piazzale Clodio che il compenso che Presta voleva investire su Renzi non fosse «parametrato al valore della prestazione artistica, bensì a un risultato economico complessivo che si voleva raggiungere; ottenuto il quale (attraverso altri contratti, ndr) si è optato per un compenso inferiore a quello preventivato».

Anche il contratto da 100 mila euro con cui l’ex premier cede a Presta «i diritti di sfruttamento economico di eventuali opere future d’ingegno del senatore» è del 30 luglio 2018. Come gli altri, presenta peculiarità non banali: se «per prassi» è l’artista che paga il suo agente, «nel contratto stipulato da Renzi con l’Arcobaleno Tre invece è quest’ultima che retribuisce il rappresentato».

Alla fine della fiera, i pm dicono che «dubbi» possono essere sollevati, che alcune affermazioni di Presta (come quelle sui soldi avuti da Mediaset) non sono state «confermate dalle indagini a riscontro», e che non si può dire con certezza se i progetti editoriali con Mondadori «siano o meno fumo negli occhi». Il «mero sospetto» è però irrilevante: piaccia o non piaccia, non essendoci prove decisive per sostenere a processo bisogna archiviare. Cartabia docet, e Renzi e Presta possono festeggiare.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 13 febbraio 2023.

[…] Amadeus dice che se lo cacciano è per le sue idee. «Andrebbe cacciato per la mancanza di idee. Ma lo terranno lì, perché comanda Lucio Presta». […]

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano” il 13 febbraio 2023.

Il vero vincitore di Sanremo non ha dovuto aspettare la finale: Lucio Presta ha dominato il Festival dal principio. Il re degli agenti tv conduce la kermesse tramite il suo assistito Amadeus, ha piazzato Roberto Benigni […] e nella sua scuderia è passato anche Gianni Morandi.

Non bastava: Presta è finito pure nelle foto ufficiali del Quirinale per testimoniare la trasferta sanremese di Sergio Mattarella, di cui è stato regista. Se Sanremo è la gallina dalle uova d’oro della Rai, la Rai è il pollaio di Lucio Presta. […] lui è al di sopra dei capricci politici. […] come ha raccontato a Claudio Sabelli Fioretti nel 2005: “Se un direttore vuole fare a pezzi un mio artista, deve pensarci bene: se lui oggi fa male a me io domani posso fare male a lui. Voglio che rifletta. Non sono uno che vende spazzole”.

[…] il botto arriva nei primi anni 2000, quando Paolo Bonolis diventa il grande mattatore della tv italiana e fa l’elastico tra Rai e Mediaset. Con lui spicca il volo anche Lucio, ex ballerino di Fantastico negli anni ‘80. Sulla pista da ballo non ha lasciato ricordi indelebili, come agente delle star invece è diventato il migliore. Bonolis e Amadeus, appunto, ma pure sua moglie Paola Perego, Antonella Clerici, Marco Liorni, Ezio Greggio, Lorella Cuccarini, i tour teatrali di Checco Zalone e molti altri.

Il cosentino Lucio Presta è persona dai molti vezzi: nella casa di campagna alleva quattro mucche highlander, quelle col manto peloso come yak; ha un rapporto affettuoso anche con le armi perché “ho subito due rapine e sono il miglior deterrente che conosca”. […]  “Prima mi vendico e poi perdono”. […] Chiedere, tra gli altri, a Mario Orfeo e Monica Maggioni: il primo è stato silurato dalla Direzione Approfondimenti, la scorsa estate, anche per la guerra personale che gli ha mosso Lucio, la seconda è finita in black list perché nel 2017 fece chiudere il programma della moglie Perego […]

 Se attacchi Presta, Presta se ne ricorderà. Lo sanno anche giornalisti e critici tv, sottoposti a un regime di monitoraggio quasi militare: chi scrive male di un assistito di Lucio può aspettarsi chilometrici audio whatsapp con le reprimenda di Gina Cilia, la sua più stretta collaboratrice. Forse anche per questo, in genere, la stampa lo tratta con i guanti […] Il prossimo anno è ancora di Amadeus, e quindi ancora di Presta: sarà la decima edizione condotta da un suo cliente. Lui giura che sarà l’ultima, ma qualcuno pensa davvero che si ritiri a pascolare le vacche, lasciando il dominio tv al suo rivale Beppe Caschetto?

Nel frattempo però Presta ha regalato ai figli le quote di Arcobaleno Tre, la sua società storica, e poco dopo anche loro si sono disimpegnati. Poi c’è stato il pessimo affare di Firenze secondo me, il tremendo documentario con Matteo Renzi. Doveva rilanciare la popolarità dell’ex premier, è finito in un’indagine della procura di Roma, con l’ipotesi di un presunto finanziamento illecito: costato quasi un milione di euro – tra compenso per Renzi e costi di produzione – non ha incassato praticamente nulla.

Chi gliel’ha fatto fare? Forse gratitudine e affetto - Presta insieme a Simona Ercolani è stato il produttore della Leopolda nelle stagioni più brillanti, inoltre è conterraneo e grande amico del renziano Ernesto Carbone […] Nel 2017 il tentativo di limitare il suo strapotere - e quello di Caschetto - fece approvare in Vigilanza Rai una risoluzione “contro i conflitti di interessi di agenti, autori e conduttori”, poi recepita nel 2020 con una direttiva dell'ex ad Fabrizio Salini. Formalmente è ancora in vigore, nella sostanza è lettera morta: lavorano sempre, quasi solo, quei due.

Estratto dell’articolo di Leandro Palestini per www.repubblica.it del 11 ottobre 2005

 Massimo Giletti annuncia di voler querelare Lucio Presta, potente manager dei divi dello spettacolo (nella sua scuderia Benigni, Bonolis, Amadeus, Venier, Perego) per l' aggressione subìta domenica in una piazza di Roma, a Domenica in finita. Duplice la versione dei fatti. Secondo il conduttore, il manager lo avrebbe insultato, gli avrebbe sputato e «minacciato pesantemente» per aver parlato male del reality La talpa, condotto dalla ex compagna di Presta, Paola Perego.

 Il manager esclude la premeditazione, dice d'aver «incrociato casualmente» Giletti, ma confessa di avergli detto a brutto muso «che lui va in tv non per fare spettacolo, ma per tre ragioni: per smentire le voci sulla sua omosessualità; per parlare male dei colleghi; per dire che è caduto dal motorino, quando invece è stato preso a schiaffi». Massimo Giletti non entra nei dettagli, la sua versione è più sofferta. «Sono stato insultato pesantemente, minacciato e, quando mi sono girato, Presta mi ha anche sputato. Per fortuna non mi ha preso», racconta il conduttore.

«Sono rammaricato del fatto che uno non possa esprimere in tv i suoi giudizi sul valore morale di certi reality. Non so perché Presta abbia perso la testa: forse non credeva alla coppia Giletti-Baudo, e invece gli ascolti di Domenica in volano. L' altra sera il mio spazio ha fatto il 35% di share, come una volta Bonolis. Ma noi costiamo due lire». E sullo sputo di Presta aggiunge: «Credevo che i lama, quegli animali che sputano sempre, fossero confinati negli zoo». […]

Così Presta ha scavalcato i vertici Rai. Il manager di Amadeus ha trattato direttamente con il Colle. Laura Rio il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

«Invece di ringraziare, ci criticano pure». Arriva durissima la risposta di Amadeus ai consiglieri Rai infastiditi perché non sono stati messi al corrente della presenza del presidente Mattarella nella prima serata del Festival di Sanremo. Insomma - dice il presentatore - invece di festeggiare un avvenimento storico e i risultati di ascolto eclatanti (60 per cento di share), la Rai si spacca. Per questo l'irritazione del conduttore, del suo entourage e del direttore Prime Time Stefano Coletta si tocca con mano nella sala stampa di Sanremo. Irritazione che sale ancora di più quando si fa notare la «preoccupazione» del Cda perché «l'operazione Mattarella» è stata gestita passando sopra i vertici Rai da Lucio Presta, che non ha ruoli ufficiali nella tv di Stato, ma è manager del conduttore, di Morandi e di Benigni (la cui lettura della Costituzione è stata la chiave di volta per convincere Mattarella a venire a Sanremo) e di fatto organizzatore reale del Festival. «Al posto dei consiglieri - attacca Amadeus - direi grazie a qualunque persona abbia fatto in modo che il presidente fosse all'Ariston. Invece di colpevolizzarla andrei a stringergli la mano». E precisa con chiarezza che «la trattativa è stata gestita da Presta con Giovanni Grasso, portavoce del Quirinale, semplicemente perché si conoscono e si stimano da tempo». Ma perché era necessaria tutta questa segretezza? «Per ragioni di sicurezza del presidente stesso, come ci ha chiesto il Quirinale».

Al di là di questa poco convincente spiegazione, le repliche di Amadeus e del direttore Coletta («Io non mi sono per nulla sentito sminuito dall'essere tenuto all'oscuro di tutto») mostrano la totale confusione che regna ora in Rai. Come sempre succede in un momento di passaggio. Il vertice e il cda sono specchio delle larghe intese di Draghi e finché l'attuale maggioranza (leggi Giorgia Meloni, che per ora ha deciso di lasciare Fuortes al suo posto) non deciderà di metterci le mani, la situazione andrà peggiorando. Parte dei consiglieri - quelli di centrodestra - stanno cercando da tempo di buttare l'ad (espressione della sinistra draghiana) fuori dall'azienda, contestando aspetti economici e gestionali, ma lui resiste concedendo spazi e uomini alle istanze dell'attuale Governo. E quanto successo per Mattarella è lo specchio di tutto questo. In nessuna azienda «normale» operazioni come quella di Mattarella sarebbero gestite esternamente. Ma in nessuna azienda «normale» accadrebbe che, proprio nei minuti in cui Mattarella appare sul palco dell'Ariston ed entra Benigni per declamare la Costituzione, il Cda, massimo organo di governo dell'azienda medesima, protesti per quanto sta accadendo. In questa chiave, c'è, addirittura, chi insinua che il Capo dello Stato sia stato «coinvolto» in un'operazione di soccorso «rosso» all'attuale governance per mantenere ai loro posti l'ad e, a cascata, quelli che a lui sono più o meno legati, dal direttore Coletta a tutti i manager interni ed esterni più vicini al Pd. Non per nulla Salvini strepita contro il festival un giorno sì e l'altro pure. Prossimo appuntamento di scontro la presenza-non presenza di Zelensky sabato sera. Anche da questa operazione i consiglieri sono tagliati fuori.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 9 febbraio 2023.

Uno dei primi a festeggiare su Twitter lo sbarco del capo dello Stato a Sanremo è stato Matteo Renzi: «Inizio straordinario. Il presidente Mattarella in sala, Morandi che canta l’inno, Benigni show. Chapeau».

 Tanto entusiasmo potrebbe non essere casuale, visto che uno degli organizzatori dell’evento è stato Lucio Presta, l’agente delle star, da Amadeus e Benigni, ma anche e, forse, soprattutto di Renzi. Sui rapporti tra il manager e il politico, vale la pena di ricordarlo, sta indagando la Procura di Roma che nei prossimi giorni dovrà sciogliere il dilemma: chiedere il processo per i due indagati o l’archiviazione. Gli inquirenti contestano il reato di finanziamento illecito di un parlamentare e l’utilizzo e l’emissione di fatture false.

La vicenda ruota intorno a pagamenti per un valore di 700.000 euro effettuati dalla Arcobaleno Tre di Presta a Renzi, esattamente la stessa cifra che il senatore aveva ricevuto come prestito infruttifero dalla famiglia Maestrelli per l’acquisto di una villa a Firenze.

 I pm Alessandro Di Taranto e Gennaro Varone il 30 giugno del 2021 avevano inviato la Guardia di finanza a perquisire Presta e il figlio Niccolò, entrambi indagati, e anche altri soggetti, alla ricerca di materiale utile alle investigazioni.

 I contratti per prestazioni di servizi sotto la lente d’ingrandimento sono tre: uno ha portato alla produzione del documentario in quattro puntate Firenze secondo me, poi venduto al canale Discovery a una cifra molto modesta.

 C’è poi un contratto di cessione di opere d’ingegno per cui sarebbe stato effettuato il pagamento prima della realizzazione dei progetti: uno riguardava una specie di Accadde oggi in pillole di cinque minuti, un altro era, invece, un format in cui Renzi avrebbe dovuto intervistare personaggi famosi; c’era infine un mandato di rappresentanza artistica in esclusiva del fu Rottamatore da parte di Presta.

 Da mesi, però, nessuno parla di questa inchiesta e la Procura da tempo sta riflettendo su come procedere. Forse a causa di questo silenzio tombale sulla vicenda gli uomini del presidente hanno interloquito senza problemi con l’indagato Presta per la parte operativa (per esempio per capire da dove far entrare l’auto presidenziale e dove fare accomodare Mattarella e la figlia). Anche perché il manager si è presentato come responsabile organizzativo dell’evento. Per la parte artistica invece al Colle hanno avuto come interlocutori Amadeus e l’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes.

La lunga marcia per portare il presidente a Sanremo è iniziata l’anno scorso quando Amadeus decide di rivolgersi dal palco dell’Ariston al Capo dello Stato, appena riconfermato. Allora il conduttore, dopo avergli augurato buon lavoro, gli fece sapere, «a nome di tutti gli italiani», di considerarlo «un punto di riferimento».

Il conduttore svelò di aver saputo che il capo dello Stato e il fratello Piersanti nel 1978 avevano assistito all’«ultimo leggendario concerto di Mina» alla Bussola domani di Viareggio.

E per questo aveva deciso di dedicargli Grande, grande, grande, suonata dall’orchestra, una canzone «che spiega meglio di ogni cosa di ogni parola quello che pensiamo veramente di lei», aveva detto. A metà novembre Amadeus è tornato alla carica con il portavoce di Mattarella, Giovanni Grasso, chiedendo se fosse impensabile l’idea che il presidente interagisse in qualche modo con Sanremo, magari con un videomessaggio, con un collegamento o con un’intervista da realizzare prima. Grasso ne ha parlato con Mattarella che non ha dato subito l’assenso, ma quando si è orientato verso il sì è stato coinvolto anche Fuortes ed è partita l’organizzazione vera e propria dell’evento.

Dopo aver dato il suo assenso il presidente ha scelto, anziché di esternare, di partecipare da spettatore, seppur eccellente, come del resto ha fatto anche in occasione di altri eventi culturali o sportivi.

 A quel punto, come ci hanno rivelato fonti Rai, la macchina ha dovuto iniziare a lavorare a un piano, a considerare come giustificare la presenza di Mattarella, seppur in visita privata. Dal Quirinale hanno fatto sapere che il presidente stava facendo degli incontri per i 75 anni della Costituzione e hanno chiesto se fosse possibile tenere in considerazione quel tema.

 L’idea di Roberto Benigni è venuta in corso d’opera e molto probabilmente a lanciarla è stato il suo agente Presta. Al Colle era informati del fatto che il comico avrebbe parlato di alcuni articoli della Costituzione e in particolare di quello sull’arte e sulla scienza, ma non sarebbero stati a conoscenza dell’intero monologo.

 Si è a lungo discusso di chi avrebbe dovuto cantare l’inno Fratelli d’Italia. Il sogno inizialmente è stato quello di riuscire a portare al Festival Mina in persona.

Poi si è discusso di Ornella Vanoni e Patty Pravo. Qualcuno aveva pensato anche un omaggio dei Pooh. Si è ipotizzato pure il coinvolgimento di qualche grande direttore di orchestra. Alla fine la soluzione è stata trovata in casa con Gianni Morandi.

Il presidente avrebbe deciso di abbandonare il teatro dopo il preludio per evitare di ascoltare solo alcuni cantanti e lasciare gli altri a fare dietrologie.

La notizia dell’inaspettata visita privata di Mattarella è rimasta riservata sino all’ultimo sia per motivi di sicurezza (in questo periodo sono molto temuti eventuali attentanti degli anarco-insurrezionalisti) che per motivi di organizzativi.

 Infatti se fosse diventata di pubblico dominio, anche solo un giorno prima dell’arrivo del presidente, si sarebbe aperta la corsa all’occupazione di tutte le prime file da parte di ogni genere di autorità, parlamentari, prefetti, generali, sino all’ultimo sindaco ligure.

Il progetto di Bruno Vespa di mandare in onda un videomessaggio del leader ucraino Volodymyr Zelensky ha colto di sorpresa anche il Colle che ha osservato in silenzio l’evolversi del progetto sino al suo naufragio.

Il presidente, quando si è saputo del possibile contributo del capo dello Paese invaso, aveva già dato la sua disponibilità a presentarsi all’Ariston e quindi si è davvero rischiato di avere un ingorgo di capi di Stato nella città dei fiori: Mattarella il primo giorno e Zelensky l’ultimo. Le date non sono mai state in discussione. Al Quirinale hanno solo compreso che gran parte del governo non era favorevole alla carrambata e non si sono certo strappati le vesti dopo aver evitato di essere trascinati in ulteriori possibili polemiche. Che comunque sono arrivate lo stesso. Per fortuna di tutti la Procura di Roma attenderà la fine di Sanremo prima di inviare l’avviso di chiusura delle indagini o di chiedere l’archiviazione del dominus di Sanremo, Lucio Presta.

Il dominio di Presta, l’agente che occupa i vuoti della Rai. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 08 febbraio 2023

Dice il direttore artistico della 73esima edizione del Festival di Sanremo, Amadeus, che la Rai dovrebbe ringraziare Lucio Presta. Cioè il più potente degli agenti televisivi, suo manager e l’uomo che ha organizzato all’insaputa dei vertici Rai la presenza del capo dello stato, Sergio Mattarella, al teatro Ariston.

 Viene il dubbio che il ringraziamento debba essere almeno reciproco, considerato che la Rai tende a  esternalizzare di fatto il suo asset di maggior valore, l’unico che riporta gli italiani di fronte alla televisione, un palcoscenico su cui si tessono oltre che successi anche relazioni di potere.

La Arcobaleno Tre, amministrata dal figlio Niccolò, è tornata ai fasti di una volta, grazie alla produzione di Arena Suzuki, sempre con Amadeus e sponsorizzata dallo sponsor istituzionale di Sanremo. E ha investito nella MK3 entrando nel management musicale.

Dice il direttore artistico della 73esima edizione del Festival di Sanremo, Amadeus, che la Rai dovrebbe ringraziare Lucio Presta.

Cioè il più potente degli agenti televisivi, suo manager e l’uomo che ha organizzato all’insaputa dei vertici Rai la presenza del capo dello stato, Sergio Mattarella, al teatro Ariston, ad applaudire al trittico Roberto Benigni, Amadeus e Gianni Morandi, tutti suoi artisti. Viene il dubbio che il ringraziamento debba essere almeno reciproco, considerato che la Rai continua a esternalizzare il suo asset di maggior valore, l’unico che riporta gli italiani di fronte alla televisione, un palcoscenico su cui si tessono oltre che successi anche relazioni di potere.

Presta è da sempre considerato, assieme a Giuseppe Caschetto, il regista che non appare mai: il primo con un portafoglio di artisti popolari, da Ezio Greggio a Antonella Clerici, alcuni dei migliori autori televisivi e un rapporto storico con Benigni; il secondo che nell’epoca d’oro di Che tempo che fa decideva vita e morte di un prodotto culturale.

A sentire le voci che si rincorrono su di lui Presta è in grado di influire sui palinsesti e pure di influenzare le nomine apicali: gli viene attribuito anche un ruolo da protagonista nel siluramento di Mario Orfeo dalla direzione approfondimenti l’estate scorsa. Ma qui contano i numeri. La Arcobaleno Tre, amministrata dal figlio Niccolò, nel 2021 è tornata ai fasti di una volta anche grazie all’effetto Festival. E cioè a oltre un milione di utili, una soglia che non veniva superata dal 2017 quando aveva registrato 1,3 milioni di utili a fronte di oltre 10 milioni di ricavi. Non è andata sempre così.

All’approvazione del bilancio 2018, di fronte a un calo dei ricavi, la società si riprometteva di «studiare apposite strategie» per «guadagnare ulteriore spazio nel mercato televisivo», eppure l’anno 2019 si era chiuso con un rosso di 131mila euro, e con ricavi pari a 6,9 milioni di euro non in grado di coprire i costi di produzione. Tra gli imperativi, allora, c’era quello di ridurre i costi delle produzioni televisive.

Poi nel 2020 è iniziata la grancassa del Sanremo di Amadeus, la macchina perfetta per aumentare lo spazio vitale. Dopo il Sanremo 2020, nel 2021 Amadeus conduce anche Arena Suzuki, due puntate su Rai2, produzione indicata come l’origine dell’aumento dei ricavi della Arcobaleno Tre. Nel 2022, le puntate diventano tre. Lo sponsor è la Suzuki, da molti anni il marchio automobilistico di Sanremo, che dal 2021 è entrato nella rosa degli “sponsor istituzionali” a fianco di marchi come Plenitude e Costa crociere e che da quest’anno avrà anche un maxi palco in piazza: il Suzuki stage.

Sempre tra 2020 e 2021 cambiano anche le partecipazioni azionarie: nel 2020, secondo il registro delle imprese, viene depositato l’atto per lo scioglimento della Blue Box, la storica società di distribuzione con cui Presta portava in giro, tra gli altri, gli spettacoli di Benigni. Dal 2021 risulta ceduta anche la partecipazione nella Sdl 2005, di Paolo Bonolis e consorte Sonia Bruganelli, e invece entra nel portafoglio delle partecipazioni il 14,38 per cento della Milano K3 srl, cioè la società di music management fondata da Angelo Calculli, ex manager di di Achelle Lauro.

Le svolte degli ultimi anni però sono anche altre. Presta ha ceduto le sue quote nella Arcobaleno Tre a due commercialisti (restano pur ridimensionate quelle dei figli) nello stesso periodo in cui trapelava la notizia di una indagine a suo carico e del figlio Niccolò per presunto finanziamento illecito nei confronti dell’ex premier Matteo Renzi. La procura di Roma sta infatti indagando dal 2021 sui soldi versati a Renzi dalla società in varie forme, tra cui progetti televisivi pagati fuori scala e documentari mai realizzati. Le ispezioni della Guardia di finanza e pure dell’Inps sono citate nei bilanci della società, assieme alla pandemia, come causa della convocazione oltre la scadenza ordinaria dell’assemblea dei soci che ha approvato insieme il bilancio 2019 e 2020. A prescindere dall’esito delle indagini, quella con Renzi è una amicizia di lungo corso, che nel 2016 ha generato persino in una candidatura come sindaco di Cosenza per il Pd.

L’avventura politica è finita in un soffio, con un ritiro per motivi personali, mentre quella televisiva continua e va a gonfie vele.

Chi conosce i meccanismi della Rai dice che sarebbe meglio fare di Sanremo una produzione tutta interna, ma non c’è niente di nuovo sotto il sole: quando l’azienda è debole vince la logica spartitoria e vince il più forte, anche se si tratta di società nemmeno lontanamente comparabili all’ordine di grandezza della Rai.

Ora la più forte è quella di Presta, che deve ringraziare anche la debolezza del servizio pubblico.

Accompagnata da “Nessuno mi può giudicare” per l’ingresso si è presentata con un abito con disegnato il suo corpo: «Il corpo di noi donne non deve generare odio e vergogna», ha detto rivolgendosi a Gianni Morandi e Amadeus. Nel primo monologo di Sanremo 2023, Chiara Ferragni si è rivolta a una «bimba» leggendo una lettera che poi ha detto essere «la piccola Chiara». Sé stessa. Ha raccontato «dei selfie» che le chiedono ma anche del fatto che «non posso piacere a tutti».

In ogni momento, ha proseguito, c’era un pensiero: «Non sentirmi abbastanza». Ma si è invitata a non avere paura e ad andare avanti: «Un amico un giorno mi ha detto che nessuno fa la fila per delle montagne russe piatte. Vivile tutte senza paura, anche se la paura ti accompagnerà tante di quelle volte che perderai il conto, ma se una cosa ti fa paura probabilmente è la cosa giusta da fare». e bisogna procedere per vincere «le insicurezze nella sua testa».

«Abbiamo tutti la scritta fragile». Gli unici che potranno dare il giudizio sull’operato di una vita «sono i tuoi figli».

Molti i passaggi sulla maternità. Dalla gioia di aver avuto dei figli al rapporto con gli impegni: «La nostra cultura ci ha insegnato che una madre ha una identità», e ancora: «Quando diventi mamma però sarai ritenuta solo una mamma, e pensaci: quante volte la società fa sentire in colpa una donna perché per lavorare è lontana dai figli? Sempre. Quante volte succede per gli uomini? Mai». Le donne vengono colpevolizzate perché lavorano, gli uomini no. «Ma se tu fai tutto per i tuoi figli, sei una brava madre, magari non perfetta, ma brava». Poi è tornata sul corpo e sui giudizi: «Se nascondi il tuo corpo sei una suora, se lo mostri sei una troia».

Essere una donna «non è un limite, gridatelo a chiunque e lottate insieme ogni giorno per cambiare le cose. Io ci sto provando, anche in questo momento». Con una stoccata a un uomo che si voleva prendere il merito «di avermi creata». Alla fine, ha concluso, «andrà tutto bene, e sono fiera di te».

GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43.

Beppe Caschetto.

Marco Zonetti per Dagospia il 17 aprile 2023.

Il potentissimo agente Beppe Caschetto, che rappresenta di fatto gran parte dei conduttori dei talk di La7 (Gruber, Floris, Formigli, Telese), oltre a vari nomi importanti del mondo del giornalismo (Annunziata, Gramellini, Sottile, Bignardi, Saviano, ecc.) e dello spettacolo (Crozza, Fazio, Littizzetto, Brignano, Marcuzzi, Cucciari, De Martino, ecc.) ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera ripresa da Dagospia, nella quale si è vantato di aver raggiunto addirittura in elicottero l'isola di Vulcano per convincere Nicola Porro a prendere le redini del talk di La7 In Onda.

Correva l'anno 2011 e il programma era stato fino ad allora condotto da Luca Telese e Luisella Costamagna. La quale, a partire dalla stagione successiva, si vide sostituita per l'appunto da Porro (assistito da Caschetto per la trasmissione). 

Costamagna, non esattamente una che ha paura di mandarle a dire, ha prontamente ribattuto a Caschetto sottolineando che la sua cacciata segnò anche la fine degli ottimi ascolti del programma. La rivendicazione di Luisella corrisponde al vero? Ebbene sì. Basti guardare i dati e le date. 

In Onda condotto da Costamagna e Telese si assestava su una media del 6.7% di share con tanto di exploit, mercoledì 7 settembre 2011, che li vide conquistare la cifra record del 9.25% di share pari a 2.204.000 spettatori. Solo poche settimane più tardi, sabato 17 settembre, Luca Telese e Nicola Porro raccolsero invece il 5.88% di share, mentre il giorno dopo, domenica 18, il 2.94%. Il sabato e la domenica successivi, 24 e 25 settembre, i due dovettero accontentarsi del 3.76% e del 2.75%. 

In rete furono molti i commentatori a sottolineare il calo d'interesse e a evidenziare la cruciale mancanza di Luisella, preparata e anche di gradevole aspetto, mentre sulla stampa si parlava di "onda afflosciata" senza di lei.  

Il crollo di ascolti di In Onda dopo la defenestrazione di Costamagna dal programma è visibile anche da altri dati: lunedì 22 agosto 2011, per esempio, la coppia Costamagna-Telese conquistava il 6.96% di share pari a 1.339.000 spettatori; lunedì 20 agosto 2012, la conduzione estiva affidata alla coppia ben poco affiatata composta da Filippo Facci e Natascha Lusenti radunava il 3.26% con 587.000 individui all'ascolto; lunedì 19 agosto 2013, Luca Telese rimasto solo al timone attirava 638.000 affezionati con il 3.37% spettatori. Che sono poi più o meno i numeri da lui ottenuti in coppia con Marianna Aprile nell'estate 2022. 

Quanto a Porro, è curioso che quest'ultimo dopo aver sostituito Costamagna - come per una sorta di karma - sia stato poi a sua volta "licenziato" da Urbano Cairo, patron di La7, nel giugno 2013. La dinamica pare ricordare una delle tante versioni legate alla recente cacciata di Giletti. Porro stava infatti per trasmigrare a Rai2 a condurre Virus, ma si appellava al precedente di David Parenzo che, seppur legato da un contratto con La7, aveva ottenuto l'aspettativa per condurre La guerra dei mondi su Rai3. Cairo però, nel caso di Porro, non aveva gradito e, dopo lo scatenarsi di una sorta di "psicodramma", gli aveva dato il benservito. Quando si dice il karma.

In ogni modo, tornando a Luisella Costamagna, la sua replica a Beppe Caschetto appare corroborata dai dati, e - a fronte della popolarità accresciuta dal passaggio e relativa vittoria a Ballando con le Stelle - forse La7, orfana di Massimo Giletti, potrebbe fare un pensierino su di lei per i prossimi palinsesti estivi. Nei quali, va detto, con Otto e mezzo e diMartedì in vacanza, i talk serali di La7 non brillano certo per ascolti eclatanti. 

Beppe Caschetto: «Ho venduto una campagna pubblicitaria a 5 milioni. Alba Parietti? Fragile. Lele Mora? È stato abbandonato». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023

L’agente televisivo: «La trattativa più lunga? Quasi 72 ore». L’ex dirigente Rai: «Adoro Freccero, ma mi ha fatto un sacco di danni». Il papà e Berlusconi: «Mio padre era anticomunista. Gli portai una foto autografata del Cavaliere che diceva: “Creda di più a suo figlio”»

È più potente lei o Presta?

«Presta».

Non si butti giù.

«Giochiamo in campionati differenti. Lui corre i 100 e i 200 metri, io lavoro più sul mezzofondo».

Chi gli soffierebbe?

«Non ci ho mai pensato. Ma sarebbe emotivamente interessante lavorare con Benigni».

Com’è riuscito, lui, a portare Mattarella in tv?

«Ci siamo riusciti pure noi nel 2015, quando il presidente della Repubblica è intervenuto al programma di Fabio Fazio Viva il 25 aprile!: venne nella piazza del Quirinale ad ascoltare l’Inno nazionale. Ci aiutò Giancarlo Leone».

Beppe Caschetto è l’agente di Lilli Gruber e Giovanni Floris, Luciana Littizzetto e Virginia Raffaele, Maurizio Crozza e Neri Marcorè, Geppi Cucciari e Fabio Volo, Stefano De Martino e Lucia Annunziata. La lista è ancora lunga, come la carriera che riesce a garantire ai personaggi rappresentati dalla Itc 2000, azienda per il 70% sua, per il 15% della moglie Rossana Mignani e per il 15% della figlia Federica. Questa è la terza intervista che concede in 30 anni di carriera, davanti a un infuso di zenzero e limone.

Cominciò tutto con Bibi Ballandi.

«Lavoravo in Regione con l’assessore Alfredo Sandri. L’Emilia Romagna aveva firmato una convenzione con la Rai per realizzare in Riviera eventi televisivi importanti, e Ballandi gestiva al Bandiera gialla Beato tra le donne. Il colpo di fulmine fu a Roma a una riunione con Pingitore, autori e dirigenti Rai, un piccolo girone dantesco dove tutti litigavano. Presi la parola e si tranquillizzarono. Ballandi chiese: sapresti rifarlo?».

Prima artista: Alba Parietti.

«La raggiunsi in Sardegna il 13-14 agosto 1993. Era un astro nascente assoluto, esigentissima: in quel momento ti consentiva di parlare con chiunque, ministri e non. Fini le chiese addirittura di candidarsi come sindaco di Roma».

Un aneddoto incredibile?

«Mi si presentò un signore distinto, disse che possedeva banche e ville. Stavano facendo una grande lottizzazione a Sharm el-Sheikh e chiedeva che Alba partecipasse alla conferenza stampa a Milano con il ministro degli esteri egiziano. Era disposto a pagare un buon compenso e a darle “pure una villa”. Ai tempi io facevo fatica a fare il pieno della benzina...».

E quindi?

«Risposi va bene e gli chiesi la villa. Replicò che aveva detto tanto per dire. Ed io: no, ha parlato lei della villa e ora gliela compra. Lo fece».

Parietti racconta che vi siete lasciati perché non le rispondeva più al telefono. È vero?

«No, le rispondevo meno. Il tema era un altro: capivo di esserle poco utile professionalmente».

Impossibile.

«Alba aveva una sua inespressa fragilità: faceva solo le cose che riteneva di poter fare. Le faccio due esempi. L’agente di Mia Farrow mi cercò perché il produttore di 007, Albert Broccoli, aveva letto sul New Yorker un servizio dedicato a lei e la voleva per il ruolo di antagonista nel nuovo film di James Bond. Mi chiese come se la cavava con l’inglese, risposi che sarebbe potuta stare sei mesi in Inghilterra per perfezionarlo. Quando glielo proposi, rifiutò: che noia Londra».

L’altro esempio?

«Fece a teatro Nei panni di una bionda, un successo. Poi un giorno mi telefonò perché Franco Branciaroli l’aveva chiamata: Ronconi voleva fare una cosa teatrale con loro. Pensai: Bingo! E lei: non me la sento. Capii di essere inadeguato. Le ho voluto bene, le sono riconoscente, ma non sono un percentista: se non ci metti nulla di tuo, non ha senso fare questo lavoro».

Non è un percentista, ma prende una percentuale. Quant’è?

«Un agente guadagna dal 10 al 15 per cento».

Il contratto più importante?

«Come faccio a dirglielo? Ho venduto una breve campagna pubblicitaria a 5 milioni e stagioni televisive per qualche milione».

Chi guadagna di più, tra quelli che segue?

«Alcuni guadagnano milioni, ma generano anche ricavi per milioni».

Cura da solo le trattative?

«I contratti minori li seguono le mie assistenti: ho 14 dipendenti, tutte donne. Più un avvocato e un commercialista».

Com’è lavorare con sua figlia?

«Complicato. Fa bene, ma non vuole che il lavoro diventi la sua ragione di vita. Lo rispetto».

È anche produttore: di quale film è più fiero?

«Del Traditore , mio vecchio pallino. Grazie a Bellocchio ho avuto la percezione di giocare in un altro campionato. Tre giorni dopo averlo contattato, mi richiamò e disse: Il traditore. Non era solo un titolo, ma la sintesi di una cosa che altrimenti non avrebbe avuto senso».

Ha visto la serie tv «Call My Agent - Italia»?

«In parte: c’è un artista che rappresentiamo, Maurizio Lastrico, un talentaccio. Quando avevo visto la serie francese avevo pensato a un progetto simile in Italia, ma credo che un agente non dovrebbe mai raccontare quello che fa».

Sogna mai di mollare tutto e andare a Bali?

«C’è un tale carico, dal punto di vista emotivo, che non vorresti solo andare a Bali, vorresti proprio sparire. Se decidessi di andarmene, non mi troverebbe più nemmeno l’Interpol».

Nei primi anni Duemila i Fab 4 degli agenti eravate lei, Ballandi, Presta e Mora. Contattò Mora quando fu travolto dalle disavventure?

«Credo di averlo cercato una volta e di non essere riuscito a parlargli. Avrei voluto esprimergli solidarietà umana. Il nostro lavoro è un po’ come quella canzone di De André, ha presente? “Alla stazione c’erano tutti...”?».

...dal commissario al sagrestano.

«Lele Mora è stato organico a un mondo, e poi per ciò che ne so io è stato abbandonato».

La chiamano in tanti modi: Richelieu della televisione, Eminenza grigia, Uomo ombra, Lucio Presta della sinistra. Quale la diverte di più?

«Forse Lucio Presta della sinistra».

In effetti segue solo personaggi di sinistra.

«Seguo personaggi che mi corrispondono un po’, o forse corrispondo io a loro».

Però ha rappresentato anche Nicola Porro.

«Non solo lui. Lo proposi a La7 per fargli condurre In onda. Convinsi l’allora amministratore delegato Gianni Stella a raggiungerlo in Sicilia, dov’era in vacanza. Arrivammo in Calabria in aereo e da lì andammo in cima a Vulcano in elicottero, dove ci venne a prendere un’apecar che ci portò da lui».

Perché vi lasciaste?

«Non ci siamo lasciati. Lo avevamo seguito solo per quel programma».

Non segue più nemmeno Miriam Leone.

«Non è così. Ce ne occupiamo per la tv. Quando è stata matura per il cinema siamo stati noi a consigliarle un altro agente, perché non siamo un’agenzia di cinema: producendo film ci sarebbe un conflitto d’interessi. Fanno eccezione Luca e Paolo, Ferilli, chi è con noi da sempre».

Parla di conflitto di interessi, ma spesso in un programma si trovano diversi suoi artisti.

«E dove sarebbe il conflitto? Se io immagino che la Littizzetto possa funzionare da qualche parte, posso proporla o no? La scelta finale non è mia: chi decide pensa al bene del programma».

Lavora mai in nero?

«No, e non è una scelta virtuosa. Se sei figlio di carabiniere e cominci a fare questo mestiere a 36 anni, non sai nemmeno cosa significhi quando senti: “Quelli me li dai con l’elastico giallo”».

I suoi genitori ci sono ancora?

«No. Mio padre era anticomunista viscerale, litigavamo sempre. A 18 anni me ne andai. A 45 ho comprato una casa importante a Bologna, gliene ho dato una parte con il giardino dove poteva tenere un cane, il suo sogno. Non riusciva a capire che lavoro facessi. Non lo convinse neppure una foto autografata di Berlusconi che diceva: “Creda di più a suo figlio”».

Con quale direttore è stato più bello lavorare?

«Con Freccero, paradossalmente: è quello che mi ha fatto più danni, mi ha chiuso tanti programmi, compreso uno di Luca e Paolo che andava benissimo nell’access prime time».

È più difficile, ora, con il Governo Meloni?

«Non sono convinto che questo governo rappresenti un saccheggio. Il vero oltraggio è la regola che definisce nel triennio il periodo di competenza dell’ad e, a cascata, dei dirigenti. Il primo anno serve a capire, il secondo a cominciare a lavorare e il terzo è già di uscita...».

L’artista che segue da più tempo?

«Alessia Marcuzzi, da 30 anni. Quando la presi, il padre mi chiese cosa volessi farne. Vorrei che stesse a casa almeno un anno, risposi. Veniva dal Grande gioco dell’oca, era la ragazza nel fango. Feci almeno 20 viaggi da Gregorio Paolini di Mediaset prima di convincerlo a prenderla».

C’è un artista a cui vuole più bene?

«Sì, ma non glielo dico».

Libro preferito?

«Iliade e Odissea. Mi piace la parte in cui Ulisse sistema il conto coi Proci e poi cerca il padre».

Il film di sempre?

«Ombre rosse ».

Quello che vorrebbe produrre?

«Uno sulla Battaglia di Canne: Annibale mi piace da morire».

È scaramantico?

«Abbastanza. Una volta in Grecia mi attraversò la strada un gatto nero e per tornare allo stesso punto feci il giro dell’isola al contrario».

Gli occhiali sono un vezzo o le servono?

«Mi proteggono. Ma potrei non usarli».

La trattativa più lunga?

«Una durò 71 ore e mezzo. Il mio interlocutore arrivava ogni giorno sempre più in ritardo. Dopo la firma, sbottò: ma che uomo è lei, non le dava fastidio? E io: chi le dice che non mi desse fastidio?; non ha idea di quanto le sia costato».

Ama i proverbi. Il suo preferito?

«Male non fare, paura non avere».

Un hobby insospettabile?

«A 13 anni mi iscrissi al Club Magico Italiano: non ho più smesso di leggere i libri di magia».

L’hanno aiutata nel suo mestiere?

«Moltissimo. Perché c’è un segreto dietro ogni cosa: fa la differenza come la presenti».

Quale sfizio si è tolto con il benessere?

«Andare in vacanza come piace a me: con il mare a portata di piede».

A chi è più grato?

«A mia moglie: per tutte le volte che ha aspettato un marito che non arrivava mai a casa la sera».

(ANSA il 7 Settembre 2023) - È morto a Roma, all'età di 77 anni, il cantautore Luciano Rossi, autore di brani come Se mi lasci non vale e Ammazzate oh!. La scomparsa è avvenuta l'8 luglio e a darne notizia, a distanza di quasi due mesi, è la figlia Ilaria. Luciano Rossi era nato nella capitale il 5 settembre 1945, aveva iniziato a scrivere per altri artisti (I Gens, Rosanna Fratello, Little Tony ed altri). 

Nel 1972 pubblicò l'album Esaltarsi che però non ottenne successo, nel 1974 Rossi fu in gara a Un Disco per l'Estate con Ammazzate oh!, fu eliminato ma il brano ottenne un gran successo sulla scia del quale l'anno dopo uscì il suo secondo album Bella. Nel 1976 fu la volta dell'album Aria pulita, che contiene Senza parole e Se mi lasci non vale canzone portata poi al successo da Julio Iglesias e interpretata da tantissimi altri artisti.

Scrisse per Nicola Di Bari, I Vianella, Bobby Solo, Ornella Vanoni, Lando Fiorini, realizzò colonne sonore per il grande schermo e la sigla finale del programma televisivo Tappeto volante condotto da Luciano Rispoli su Telemontecarlo.

Dagospia mercoledì 6 settembre 2023. Comunicato

Mentre si approssima la ricorrenza della scomparsa di Lucio Battisti – il 9 settembre saranno 25 anni da quando l’Artista ci ha lasciati – non accenna ad interrompersi la querelle Battisti. 

Stavolta, ad alimentarla è stata la Sony Music, la quale nel 2017 ha iniziato l’ennesima causa contro gli Eredi di Lucio Battisti (Grazia Letizia Veronese e Luca Battisti). 

L’accusa mossa dalla Sony Music contro gli Eredi di Lucio Battisti è la stessa che Mogol aveva mosso contro di loro anni prima: aver opposto un diritto di veto a qualsiasi forma di sfruttamento economico delle opere musicali di Lucio Battisti. 

In particolare, gli Eredi di Lucio Battisti sono stati accusati dalla Sony Music di aver revocato il mandato alla SIAE per l’utilizzazione on line delle opere musicali di Lucio Battisti (in tal modo, impedendo alla Sony Music di commercializzare le registrazioni fonografiche delle canzoni interpretate da Lucio Battisti sulle principali piattaforme digitali, Spotify su tutte) e di aver ostacolato l’utilizzazione delle opere musicali di Lucio Battisti per sincronizzazioni (in tal modo, impedendo alla Sony Music di utilizzare le registrazioni fonografiche delle canzoni interpretate da Lucio Battisti in spot commerciali di noti marchi, Fiat e Barilla su tutti). 

La richiesta di risarcimento del danno monstre avanzata dalla Sony Music era stata di euro 8,5 milioni. 

La Corte d’appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, che aveva già respinto le domande della Sony Music, ha rigettato l’appello e condannato la Sony Music al pagamento delle spese processuali. 

«La decisione della Corte milanese - spiega l’avvocato Simone Veneziano, legale degli Eredi di Lucio Battisti – è significativa per almeno tre ragioni. 

In primo luogo, perché un giudice chiarisce, per la prima volta, che i contratti discografici stipulati da Lucio Battisti oltre cinquanta anni fa con i produttori fonografici danti causa di Sony Music non consentono, senza adesso il consenso (degli Eredi) di Lucio Battisti (o dei suoi Editori musicali), né di utilizzare on line le registrazioni fonografiche che incorporano le interpretazioni a suo tempo eseguite da Lucio Battisti, né di utilizzare le medesime registrazioni fonografiche per la pubblicità di prodotti commerciali. 

In secondo luogo, perché l’accoglimento della tesi di Sony Music avrebbe avuto un effetto dirompente nel settore della musica e, segnatamente, in quello dell’editoria musicale. Sony Music, infatti, ha sostenuto in giudizio che il comportamento ostruzionistico tenuto dagli Eredi di Lucio Battisti, anche nella loro veste di amministratori degli Editori musicali (Edizioni Musicali Acqua Azzurra S.r.l. e Aquilone S.r.l.) delle opere musicali di Lucio Battisti, avrebbe determinato in capo agli stessi una responsabilità da “contatto sociale”.

Siccome – sostiene Sony Music – i diritti dell’autore dell’opera musicale, dell’interprete e del produttore fonografico che fissa l’interpretazione su supporto sono diritti che si condizionerebbero l’uno con l’altro, nel senso che non sarebbe possibile lo sfruttamento della registrazione di una canzone senza che tutti gli aventi diritto (autore, interprete e produttore fonografico) abbiano espresso il loro consenso, gli Eredi di Lucio Battisti sarebbero stati obbligati a consentire a Sony Music di utilizzare le registrazioni fonografiche delle canzoni di Lucio Battisti per sincronizzazioni a scopo pubblicitario. In caso di accoglimento della tesi di Sony Music, avremmo dunque assistito all’affermazione del principio eversivo secondo il quale l’utilizzazione economica di un’opera musicale, anziché dall’autore (o dall’editore musicale), sarebbe governata dal produttore fonografico.

La decisione se, a chi e per quale corrispettivo concedere in licenza un’opera musicale non spetterebbe più all’autore (o all’editore musicale), bensì al produttore fonografico. Insomma, a “comandare” sulle opere musicali non sarebbero più gli autori (o gli editori musicali), ma le case discografiche. Chiunque invece sa perfettamente che chi voglia utilizzare, ad esempio in uno spot pubblicitario, una qualsiasi canzone deve farne richiesta, separatamente, sia al titolare della registrazione fonografica, sia all’autore (o all’editore musicale); e sa, ancor meglio, che ciascuno di tali soggetti è assolutamente libero di decidere se, a chi e per quale corrispettivo concedere la licenza.

In terzo luogo, perché gli Eredi di Lucio Battisti sono stati mandati assolti anche dall’accusa di aver violato, in qualità di amministratori degli Editori musicali (Edizioni Musicali Acqua Azzurra S.r.l. e Aquilone S.r.l.) delle opere musicali di Lucio Battisti, gli obblighi di diligenza nei confronti di Sony Music, non avendo addotto Sony Music alcuna condotta illecita degli amministratori diversa ed ulteriore rispetto a quella addebitata (peraltro, infondatamente, data l’insussistenza, come detto, di una responsabilità da “contatto sociale”) agli Editori musicali». La Sony Music ha preannunciato che proporrà ricorso in Cassazione. Gli Eredi di Lucio Battisti fanno sapere che attenderanno con serenità anche questa decisione.

Da Anthony a Eminem, è guerra ai politici. Quando la musica fa campagna elettorale. Storia di Marco Liconti su Il Giornale mercoledì 30 agosto 2023.

Chi ti ha dato il permesso? È questo il senso della lettera che Eminem ha fatto recapitare a Vivek Ramaswamy, dopo che il candidato repubblicano alla nomination 2024, durante un evento elettorale in Iowa, si era lanciato in un'interpretazione (niente male, a dire il vero) di Lose Yourself, una delle hit più celebri del rapper di Detroit. «You only get one shot, do not miss your chance to blow. This opportunity comes once in a lifetime», scandiva dal palco Ramaswamy, che a quanto pare si cimenta col rap dai tempi del college. Il messaggio: votate me, che sono il più giovane (38 anni) e il più innovativo.

Eminem, che di anni ora ne ha una cinquantina, evidentemente non ha apprezzato e ha fatto recapitare all'imprenditore di origine indiana una lettera nella quale gli contestava l'uso non autorizzato della sua musica. «Rispettiamo la richiesta dell'artista», hanno replicato dalla campagna di Ramaswamy, che però si è voluto prendere una piccola rivincita personale su X, postando una sua foto sul palco accanto a un'immagine dello stesso Eminem, ritratto con l'aria un po' dimessa. «Chi è il VERO Slim Shady?», il commento, in riferimento all'alter ego usato in passato dal rapper. Per Ramaswamy, che si propone come il «nuovo Reagan», unico in grado di attirare sulle sponde del Gop il voto dei giovani, si è trattato di un inciampo, non certo il più grave della sua campagna, dopo gli scivoloni su politica estera e Ku Klux Klan (ha paragonato una deputata afroamericana al Gran Maestro del KKK).

Lo stesso inciampo, del resto, nel quale incorse nel 1984 il vero Ronald Reagan, che tentò di utilizzare Born in the Usa di Bruce Springsteen come inno della sua campagna. Il «Boss» non la prese bene e negò il permesso. All'epoca, Springsteen sembrò prendere le distanze dalla politica in generale, per tenersi al riparo da qualsiasi strumentalizzazione. In seguito, salì sui palchi delle campagne presidenziali di Barack Obama e, nel 2020, la sua The rising fu l'inno della Convention democratica del 2020. In generale, i Repubblicani non sono fortunati con le colonne sonore. Solitamente, l'universo pop-rock Usa (con qualche eccezione, soprattutto sul versante country) pende a sinistra. Nel 2008, i Foo Fighters chiesero a John McCain di non suonare più nei suoi comizi la loro My hero e Jackson Browne gli fece causa per l'uso non autorizzato della sua Running on empty. Donald Trump ha ricevuto decine di altolà da star del calibro di Adele, Neil Young, Phil Collins, Prince, Rolling Stones, Queen e Pharrell Williams: non usare la nostra musica ai tuoi comizi. Il fatto è che negli Usa non occorre chiedere un'autorizzazione preventiva per l'impiego di un brano musicale. Per le manifestazioni pubbliche si può accedere (pagando i diritti) ai cataloghi di organizzazioni tipo Bmi o Ascap (le Siae americane).

Gli artisti che non gradiscono, possono però chiedere la rimozione dei loro brani dai cataloghi. Altro esempio, quello del fenomeno musicale del momento, il cantante folk della Virginia, Oliver Anthony, sconosciuto fino a poche settimane fa, che ha totalizzato centinaia di migliaia di ascolti e visualizzazioni sul web con la sua Richmen north of Richmond, inno country di un'America povera e disperata. I Repubblicani hanno tentato di appropriarsene in chiave anti-Biden. I Dem, per reazione, lo hanno tacciato di demagogia. Anthony ha preso le distanze da entrambi, bastonando sia a destra che a sinistra. Il problema, ha detto, è lo stato attuale della politica, a prescindere dal colore, il problema sta a Washington, troppo distante dalla vera realtà del Paese.

La tv raccontata da chi la scrive nelle pagine di Aldo Dalla Vecchia. Nicola Santini su L'Identità il 24 Maggio 2023 

S’intitola “La tivù è tutta scritta? – Il mestiere di autore”, ed è un excursus dietro le quinte del piccolo schermo, raccontato da chi ci lavora dentro da tre decenni.

Il volume riprende, ampliate e arricchite, le lezioni che l’autore tiene ogni anno al master Fare TV dell’Università Cattolica di Milano, ed è diviso in tre parti.

Nella prima, “La mia tivù. 30 anni dietro le quinte”, Dalla Vecchia ripercorre la sua attività televisiva e di giornalista di costume e spettacolo per la carta stampata, iniziata nel 1988.

Con un racconto in prima persona minuzioso e ricco di aneddoti, scopriamo l’evoluzione del mezzo televisivo dagli inizi degli anni Novanta, quando l’autore ha mosso i primi passi in televisione con il magazine settimanale Target e il rotocalco quotidiano Verissimo, entrambi in onda su Canale 5, alla Nuova Era rappresentata dai reality e cominciata il 14 settembre 2000, con la prima puntata della prima edizione di quel “Grande Fratello” che avrebbe rivoluzionato non soltanto gli ascolti, ma anche i contenuti e le modalità di fruizione del mezzo.

Dopo i reality, che hanno contrassegnato la prima decade del nuovo millennio, è la volta dei tutorial, alla base del successo clamoroso di Real Time, che si affermano a cavallo degli anni Dieci; e dei nuovi linguaggi rappresentati da realtà come Netflix, Amazon Prime Video, RaiPlay e Mediaset Infinity, che hanno ancora una volta rivoluzionato il mezzo, regalandogli una nuova giovinezza alla vigilia delle 70 primavere, all’inizio del prossimo anno (la televisione italiana, lo ricordiamo, è nata domenica 3 gennaio 1954).

Nella seconda parte, “Dentro la scatola magica – Parlano i protagonisti”,tutte le sfumature dell’essere autore televisivo, attraverso cinque lunghe interviste di Dalla Vecchia ad altrettanti colleghi, che raccontano in che cosa consiste questo mestiere, così esaltato ma in fondo così poco conosciuto: Elisa Dossena e Barbara Rempi, con una lunga esperienza, da sole e in coppia, fra Rai e Mediaset; Duccio Forzano, regista e autore che ha firmato colossi della televisione come “Che tempo che fa” e il “Festival di Sanremo” e ha lavorato ai grandi show del sabato sera con personaggi come Fiorello, Morandi, Giorgio Panariello; Micol Palmieri, colonna di programmi del daytime come “Unomattina”; Luca Tiraboschi, che ha diretto Italia 1 e creato trasmissioni come “Il Bivio” e “Mistero”.

La terza parte, “Le parole della tele – Glossario minimo”, è un vero e proprio mini-dizionario per cominciare a masticare il gergo della televisione, fra parole-chiave, tecnicismi ed espressioni di uso comune. Si va da “auricolare” a “infotainment”, da “late show” a “titoli di coda”.

Il paroliere Popy Minellono: «Composi la canzone L'italiano guardando Canale 5. Ora è più famosa di 'o Sole mio». Alessandro Chetta su Il Corriere della Sera lunedì 28 agosto 2023

Il 77enne originario di Stresa si racconta: «Celentano preferì me a Malgioglio. De Andrè mi definì anarchico individualista. La formula per la hit non c'è, bisogna scrivere anche cose che non ci piacciono ma vicine alla gente» 

L’italiano del compianto Toto Cutugno l’abbiamo ascoltata e canticchiata tutti. Ma c’è uno che l’ha scritta. «Era l’82. Un giorno mi chiama Toto, dovevo immaginare un testo per un suo arrangiamento — ricorda il 77enne Cristiano ”Popy” Minellono, uno dei nostri più grandi parolieri, piemontese come Luigi Albertelli — Sono a casa, cerco di farmi venire un’idea quando in tv vedo il programma 'Buongiorno Italia' su Canale 5... illuminazione, inizio a comporre buongiorno Italia / gli spaghetti al dente… buongiorno Italia / buongiorno Maria... e via cantando».

Allora meno male che in tv passava «Buongiorno Italia» e non «Il pranzo è servito».

Ride. «Grazie a quella minima ispirazione composi le strofe de L’italiano in cinque minuti. A Cutugno piacque molto, la proponemmo a Celentano che però rifiutò. E fu la fortuna di Toto». 

Camillo Langone ha scritto che nelle parole di quella canzone si racchiude l’ultimo momento di sovranità nazionale prima della globalizzazione.

«Ne sono felice. La considero una fotografia critica e affettuosa del mio Paese. C’è anche molto della mia infanzia insieme a tanta nostalgia».

Analisi del testo. «Un partigiano come presidente», Sandro Pertini, capo dello Stato amatissimo.

«Anche se prima della salita al Quirinale non lo conoscevo. Ero stato un periodo in Australia e, informandomi sul suo conto, mi colpì che tanti amici ne rimarcassero non la fama di economista o intellettuale bensì la militanza nella Resistenza».

«L’autoradio sempre nella mano destra / un canarino sopra la finestra».

«Eh, i ladri, piccoli e grandi, da noi non sono mai mancati. Passeggiare con l’autoradio per non lasciarla in macchina faceva parte del paesaggio urbano». 

«La bandiera in tintoria e una 600 giù di carrozzeria».

«Tiriamo fuori la bandiera solo quando vince la Nazionale, ci vergogniamo del tricolore. Chi lo espone rischia pure di essere chiamato fascista... Per quanto riguarda la 600, volevo descrivere chi vive del suo stipendio, compra l’auto ma poi finisce che non ha tanti soldi per mantenerla».

«Troppa America sui manifesti».

«Quella c’è sempre stata, dilagante ieri come oggi». 

Considera «L’italiano» un inno patriottico?

«Direi di no, anche se l’orgoglio di cantarla c’è, soprattutto negli italiani all’estero. Uso figure meno scontate dei soliti pizza, sole e mandolino. E comunque un motivo ci sarà se è la nostra canzone più famosa nel mondo insieme a Volare e ‘O sole mio».

Popy da Stresa.

«Ma nato ad Arona. A Stresa però ho vissuto e ne ho un bellissimo ricordo. Sono felice di essere piemontese; della mia regione apprezzo tanto la cucina, i formaggi, la carne di fassona, gli agnolotti del plin…». 

Figlio di attori.

«Maria Pia Arcangeli e Carlo Minello, scomparso a soli 28 anni. Anch’io ho recitato da bambino. Ho debuttato in teatro grazie a Ernesto Calindri a Milano. Seguirono le compagnie di Giorgio De Lullo e Romolo Valli e poi nel ‘65 Le avventure di Laura Storm, la serie televisiva firmata da Leo Chiosso, sodale artistico di Fred Buscaglione».

Com’è diventato paroliere?

«Lasciai il teatro. Abitavo a Brera senza una lira. Suonavo al ”Due” cantando Bob Dylan unplugged per fare qualche soldo. Qualcuno mi notò e finii a intonare Blowing in the wind per la sigla di una commedia Rai; piacque molto e Giovanni Danzi, autore di O mia bela Madunina, mi fece un contratto da cantante per le Edizioni Curci, ma riascoltando le prime registrazioni ho desistito. Non mi piacevano. Però sorse un problema: mi avevano già pagato e così accettai di fare il selezionatore di titoli stranieri; dovevo ascoltarli e decidere le cover per il mercato italiano. Poi ho preso gusto a comporre testi. Scrissi Soli si muore e da lì è partito tutto».

Ha scritto brani che hanno venduto oltre 600 milioni di dischi nel mondo, una cifra mostruosa. Quindi non sono solo canzonette.

«Da presidente della Commissione musica in Siae ho sempre combattuto la definizione ”musica leggera”; per me è musica popolare. Sfugge ai più che fare canzoni “semplici” che durino nel tempo è più difficile che comporre brani cantautorali o sperimentali. Di hit estemporanee che fanno soldi siamo pieni, invece sono rari i pezzi pop che oltre ad avere successo diventano evergreen mondiali».

Qual è la formula? (domanda retorica, se ci fosse saremmo tutti in classifica)

«Infatti non c’è. Ci sarà che vinse Sanremo l’ho inventata al telefono con Al Bano poco prima della chiusura delle selezioni per l’Ariston. Per il famoso ritornello di Mamma Maria dei Ricchi e Poveri sono partito da Barbara Ann dei Beach Boys. Certo, un bravo paroliere deve avere la capacità di scrivere anche cose che non gli piacciono ma vicine al pubblico. Un po’ come distrarsi da sé, mettersi al servizio solo della canzone: ho scritto una ballata, credo molto dettagliata, su un padre che vede la figlia crescere, anche se di figlie non ne ho avute».

Gli incontri: Celentano.

«Metà anni 70, Adriano era in crisi perché non vendeva più tanto. Il suo autore Luciano Beretta era ricoverato e qualcuno gli fece il mio nome e quello di Cristiano Malgioglio. Disse “vi metto alla prova”, cioè avrebbe ingaggiato l’autore del singolo di maggior successo. Malgioglio presentò La moglie l’amante l’amica, ma prevalsi io con Ti avrò. Per Celentano ho composto una trentina di canzoni e non ha mai obiettato nulla sui testi; su Il tempo se ne va confessò “mi hai scavato troppo dentro”. È una persona meravigliosa, purtroppo circondato da persone non altrettanto belle. Ero sempre a casa sua, poi i rapporti si sono interrotti di colpo e non so perché».

De Andrè?

«Mi definì anarchico individualista azzeccandoci in pieno, non ho mai sopportato le consorterie radical chic. Insieme scrivemmo l’album di Dori Ghezzi Mamadodori. Ammirava il fatto che riuscissi a comporre in maniera tanto sciolta pur avendo appena la quinta elementare».

Milioni di dischi ma onorificenze poche.

«Nessuna. Hanno fatto cavaliere della Repubblica pure Eros Ramazzotti, per me nulla. In Russia invece mi hanno insignito del titolo di cavaliere della Stella di Rubino, lo conferiscono a pochissimi. Il nostro ministero della Cultura ignora del tutto la musica popolare. In Italia pare esista solo Mogol, ma su Mogol mi taccio».

La musica popolare oggi?

«Mengoni è bravo e in generale mi piace che questa banda di malvestiti e mal pettinati abbia un po’ smesso col rap. Fa sperare nella rinascita della musica popolare italiana, major permettendo».

Il paroliere è un poeta, non un parolaio! Paolo D'Achille su L'Accademia della Crusca e su L'Inkiesta il 21 e 29 Aprile 2023.

È giunta da qualche giorno al nostro presidente Marazzini la seguente richiesta, da parte della SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori):

Gentilissimo Presidente,

come accennatole stamattina e su indicazione del nostro Presidente onorario Giulio Rapetti Mogol, vorremmo avere dall’Accademia della Crusca una consulenza sul termine paroliere, usato spesso in maniera colloquiale come sinonimo della parola autore. Come le abbiamo spiegato, per il nostro Presidente utilizzare questo vocabolo equivale a sminuire la portata di un’attività creativa e artistica tra le più nobili ma saremmo onorati di avere anche la vostra opinione in merito.

Tale richiesta si aggiunge a quella, pervenutaci vario tempo fa, di un lettore che voleva “sapere quando e come entra in uso la parola paroliere per indicare colui che scrive il testo di una canzone”.

Risposta

Che il più famoso paroliere italiano, il celebre Mogol, Presidente onorario della SIAE, fosse contrario all’uso del termine paroliere per indicare chi scrive i testi delle canzoni di musica leggera era noto da tempo, come risulta dai brani di due interviste rilasciate a distanza di qualche anno, che riproduciamo:

Dove sta andando la canzone italiana? Mogol, il sommo paroliere di casa nostra, non è proprio ottimista. Sta scrivendo con Oliviero Beha un libro intitolato L’ Italia non canta più per sottolineare che “mai come in questi ultimi anni il divario tra successo e qualità è stato così abnorme”. […] Eppure già prima d’incontrare Battisti, Giulio Rapetti si chiamava Mogol da un pezzo ed era un paroliere di enorme successo. “Non mi chiami paroliere, la prego” protesta. “Io sono solo un piccolo autore. Il termine paroliere sminuisce la nostra categoria. Nel mondo anglosassone ci chiamano ‘lyrics writers’, scrittori di liriche”. (Giuseppe Videtti, Io, Mogol, dico Dio ci salvi dai cantautori, “la Repubblica”, 30/11/1996, p. 37)

Anche rispetto al suo nuovo incarico, Mogol, che inorridisce quando viene chiamato “paroliere” e ribadisce di voler essere definito “autore” (“io vi chiamo giornalisti, mica giornalai”), ha idee molto chiare. (Mogol sarà consigliere del ministro della Cultura: “Il mio impegno per l’arte popolare”, Repubblica.it, 23/2/2023)

Degno di nota, in questo secondo brano, il parallelismo tra parolieri e giornalai (che si oppone a giornalisti), nonostante i due termini abbiano suffissi diversi (-iere e -aio), entrambi usati, accanto all’ormai più diffuso -ista, per indicare nomi di professione (e si può rilevare che il termine spagnolo corrispondente a paroliere è letrista).

Per cogliere la percezione negativa del termine da parte di Mogol, è opportuno rispondere all’altra domanda pervenutaci, e ricostruire la storia della parola, che i principali dizionari italiani datano al 1928, sulla base di un esempio riportato dal GDLI nel Supplemento 2009, che anticipa il passo di Moravia (del 1970) citato nel vol. XII, s.v. paroliere (identica, nelle due voci, è la definizione: “Autore del testo di una canzone di musica leggera; chi svolge professionalmente tale attività”):

G. Giannini [“Kines”, 18-XI-1928]: Pochi versi qualsiasi su una musichetta rubacchiata danno al paroliere enormemente di più di quanto una riduzione cinematografica... dà al riduttore.

A. Moravia, 17-45: Quale verità? Quella dei parolieri di San Remo?

Sul piano dell’etimologia sincronica, paroliere può essere facilmente interpretato come suffissato, da parola + -iere, suffisso tuttora produttivo per indicare i nomi di mestiere, e non sempre con connotazione negativa: se verduriere e verduraio sono (geo)sinonimi, il gelatiere è professionalmente più quotato del gelataio. Storicamente, però, si tratta di un francesismo. Lo documenta il fatto che il termine francese parolier è attestato anteriormente: il TLFi lo data al 1855, riportando anche esempi del 1863 e del 1935, ma la prima registrazione lessicografica è in Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, vol. III, Paris, Hachette, 1873, dove si precisa che si tratta di una “parola d’autore”, inventata dal critico e musicologo Castil-Blaze (citato del resto anche nel TLFi) con un valore spregiativo, per indicare l’autore di testi di opere e operette, quello che in Italia si chiama – a partire dai primi dell’Ottocento, e inizialmente anch’esso con valore spregiativo – librettista (vocabolo formato con l’aggiunta di -ista a libretto, nel significato specifico, documentato già dal Settecento, di ‘testo in versi di un melodramma o di un’opera lirica’):

PAROLIER pa-ro-lié s. m. Néologisme. Nom donné par Castil-Blaze aux auteurs des paroles dans les pièces à mettre en musique, parce qu’il prétendait que le poëte y devait être l’esclave du musicien, et fournir seulement des paroles propres à être chantées. (Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, vol. III, Paris, Hachette, 1873, s.v. Trad.: “Neologismo. Nome dato da Castil-Blaze agli autori delle parole nei testi teatrali da mettere in musica, perché egli riteneva che in essi il poeta doveva essere al servizio del musicista e fornire soltanto delle parole adatte a essere cantate”]

Dopo aver riportato un exemplum fictum (Un parolier italien) e un passo di Castil-Blaze, il lessicografo commenta:

Le mot parolier suppose que la pièce, en soi, n’a aucune valeur; ce qui est souvent vrai. Mais, appliqué aux auteurs de pièces comme la Vestale de Jouy, la Muette et le Comte Ory de Scribe, le nom de parolier serait un contre-sens. [ibid. Trad. : “La parola parolier presuppone che il testo, in sé, non abbia alcun valore poetico, il che spesso è vero. Ma, se assegnato agli autori di testi come La Vestale di Jouy o La Muta [di Portici] e Il Conte Ory di Scribe, l’appellativo di parolier sarebbe un controsenso”]

Anteriormente alla prima attestazione italiana troviamo il termine francese, al plurale e con riferimento alla Francia, anche in un giornale piemontese:

Maître Ambros a Parigi — L’opera era attesa con una certa impazienza. La giustificava il fatto di essere il libretto di Coppée e la musica dell’elegante autore della Korrigane, Charles Widor. Un’opposizione sorda si era anche manifestata prima della recita, specialmente, al dire di certi giornali, per opera d’un “syndicat de paroliers d’operette”. (Arti e scienze, “Gazzetta piemontese”, 18/5/1886)

C’è, in verità, una precedente attestazione di paroliere in italiano, ma nel senso di ‘parolaio’, ‘linguaiolo’:

Il Gherardini reca altro esempio della Città di Dio, ma nella r. crusca trovasi soltanto intransitivo e accompagnato dal con. L’ho fatto avvertire, per altre voci da me usate senza licenza dei superiori, e per risparmiarmi la noja di appuntarmi ai piuchearciultravanignorantissimi pestiferi e pestilenziali fastidiosi parolieri del conciossiafussecosaavvegnaidioché; becchini della lingua, che vanno razzolando le ossa, ma non saprebbero ricomporle in forma d’uomo e plasmarle di vita. (Filippo Zamboni, Roma nel Mille. Poema drammatico, 2a ed., Padova, Salmin, 1878, p. 435)

Si può aggiungere che in italiano, per indicare, ironicamente, il librettista è documentato – prima ancora che nascesse questa parola, la cui prima attestazione risale al 1836 – anche un derivato da parola, usato più spesso nel senso di ‘chi parla molto e in modo poco concludente’, e cioè parolaio (1817). Sempre a scopo ironico, invece di paroliere, troviamo un esempio di parolante (1965), non a caso contrapposto a musichiere ‘autore della musica di una canzone’. Ecco al riguardo i due esempi riportati nel GDLI:

Pananti, I-32: Il suggeritore ed il copista / si lagnano d’aver quanto il poeta; / abbiam sentito dir fino il lumaio / che non vuole aver men del parolaio.

Brignetti, 3-56: La gente era stata emancipata a migliori garbatezze quali dopo sarebbero stati i quiz, le pacifiche tenzoni di parolanti e musichieri.

Tornando a paroliere, tra i due esempi riportati nel GDLI ce ne sono molti altri; tra i più antichi mi pare interessante questo, tratto da Google libri:

Maestro e paroliere (l’autore dei “versi” è definito per accordo internazionale paroliere) s’incontrano. (“Il Dramma”, XIV, 1938, p. 32)

Un’impennata decisiva nell’uso del termine si ha a partire dagli anni Sessanta (proprio quelli in cui Mogol ha iniziato la sua attività), come dimostra il grafico delle frequenze di Google Ngram Viewer, in cui considero anche il femminile paroliera e il plurale maschile parolieri: 

Va detto che dalle occorrenze di paroliere (che comprendono anche quelle del femminile plurale), dovremmo scremare dai dati le occorrenze (che comunque saranno verosimilmente pochissime), in cui il termine indica qualche altra cosa, e cioè:

1) la trasmissione RAI di Lelio Luttazzi del 1962-63 intitolata “Il paroliere questo sconosciuto”, dedicata, peraltro, proprio agli autori di testi di canzoni (cfr. V.B., TV: un servizio speciale e il ritorno del «Paroliere», “Il Corriere della Sera”, 3/7/1963);

2) la rubrica tenuta sull’“Espresso” da Tullio De Mauro, a cui si riferisce questo esempio:

Il mio vecchio amico Tullio De Mauro mi ha fatto l’onore di chiamarmi in causa, nella prestigiosa rubrica Il Paroliere che tiene sull’Espresso (di questa settimana). (Beniamino Placido, Rimini Rimini e la curva sud, “la Repubblica”, 24/5/1989, p. 29);

3) il nome commerciale di un “gioco consistente nel formare parole a partire da lettere dell’alfabeto scritte sulle facce dei dadi” (GRADIT; significato registrato con la data 1986); si tratta della versione italiana del gioco da tavolo inventato dallo statunitense Alan Turoff nel 1970, denominato in inglese Boggle, introdotto in Italia dalla Casa Editrice Giochi qualche anno dopo;

4) alcune rare occorrenze della parola come aggettivo (anche al femminile e al plurale) nel senso di ‘che usa molte parole, che ha un ricco vocabolario’ (ne do un esempio: “la sua superlativa capacità paroliera”, in Ettore Paratore, Il Satyricon di Petronio. Commento, Firenze, Le Monnier, 1933, p. 185).

A parte ciò, il successo di paroliere nella musica leggera si spiega col fatto che, diversamente dalla prassi propria del melodramma e dell’opera lirica (almeno fino a Puccini), il musicista metteva in musica (“intonava”, per usare il termine tecnico) un preesistente testo drammatico in versi (sia pure non rispettandone sempre la metrica e cambiando, omettendo o ripetendo varie parole). Invece, nella canzone,

[…] il procedimento è di solito inverso. È la melodia a essere composta per prima e a offrire l’attenzione del poeta o paroliere una serie di ritmi e accenti che precostituiscono il suo schema prosodico. Il metro, quindi, precede nel lavoro del paroliere ogni altro elemento di lingua poetica, costituisce anzi il modello obbligato, astratto e concreto nello stesso tempo, che sta alla base della composizione. […]

Il nostro paroliere è […] legato fino alla fine allo schema precostituito, desunto dalla melodia, che tra gli addetti ai lavori viene chiamato “maschera” o “mascherina”. Questa pappa, eccipiente neutro, è pronta a ricevere qualunque contenuto di parole. (Fernando Bandini, Una lingua poetica di consumo, in Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana. Saggi critici e antologia di testi, a cura di Lorenzo Coveri, Novara, Interlinea, 1996, pp. 27-35: pp. 27-28)

Questa prassi era normale (e lo è tuttora, anche se molto meno frequente che in passato) nel caso delle cover, cioè delle versioni italiane di canzoni angloamericane (ma anche francesi, spagnole e tedesche), che ponevano non poche difficoltà di traduzione sul piano sillabico, dati i nuovi ritmi sincopati, tanto che «un bravo paroliere, Giorgio Calabrese, lamentava: “Ah, se l’italiano non fosse così povero di monosillabi!”» (Lorenzo Coveri, Per una storia linguistica della canzone italiana, ibid., pp. 13-24: p. 21).

Insomma, al paroliere si richiedono competenze particolari e non c’è dubbio che, data la crescita del peso della musica leggera e della cosiddetta “canzone popolare” nella cultura contemporanea, il termine – così come quello di cantautore (“cantante che interpreta brani da lui stesso composti”; GRADIT, con datazione al 1960) – si è progressivamente diffuso.

Numerose sono infatti le occorrenze negli archivi di alcuni quotidiani: 1.653 nella “Repubblica”, 2.266 nel “Corriere della Sera” e 4.800 nella “Stampa”, in cui si ha l’attestazione più antica:

Nello stesso specchio troviamo con forti percentuali i nomi dei maestri Petralia, Giuliani, Ferruzzi, Mariotti, Culotta, tutti direttori delle varie orchestrine dell’E.I.A.R. che si scambian piccoli servizi tra di loro, quelli degli editori Leonardi, Casiroli, Olivieri, che fanno capo alla Cetra, qualche paroliere, come si dice con vocabolo inventato di fresco (si è sentito il bisogno di riservare la parola «poeta» a gente di altra levatura!) che passa indifferentemente dalla parola alla musica con la massima disinvoltura, e qualche... intruso di larga fama come Mascheroni, Kramer, Bixio, Di Lazzaro che si difendono come possono, con le loro produzioni cioè. (s.s., Cronache del teatro e della radio, “La Stampa”, 21/11/1937)

Di undici anni posteriore è il più antico esempio del “Corriere della Sera”, in cui il termine è usato tra virgolette:

Il tamburo principale della banda D’Affori ha perso in questi giorni la sua baldanza. E non è proprio uno scherzo. Il poeta, per dir così, della canzonetta famosa aveva bisogno, di una rima in “pifferi”. […] Così facendo il “paroliere” senza immaginarlo andava molto vicino alla realtà… (Il tamburo principale nei guai, “Corriere della Sera”, 11/11/1948)

Tra le occorrenze successive, ce ne sono varie in cui paroliere è certamente usato con una connotazione spregiativa o comunque riduttiva, come la seguente:

Tutti i poeti veri ingaggiano un titanico corpo a corpo con la tradizione e anche quando credono di volerla distruggere, in realtà la perpetuano e la arricchiscono. La tradizione non è un bazar o un buffet, né una boutique di pret à porter, dove ognuno può pescare i frammenti che vuole, accozzandoli fra di loro alla bell’e meglio. Ma questo è quello che fanno i canzonettisti, forti del collante della melodia. I testi, quindi, sono quasi sempre messi insieme con i cascami male orecchiati della tradizione alta. Finché il poetico è identificato con la rima baciata, il sole che tramonta e lei o lui, o tutti e due, che se ne vanno lungo la battigia, magari d’inverno e in groppa a un cavallo bianco, lo stereotipo è tale che, non significando più nulla, va benissimo. Ma, se le masse giovanili sono illetterate, non sempre lo sono i parolieri. Alcuni sono di buone letture. Il che spesso è anche peggio. (Giorgio Manacorda, Il paroliere vuole vestirsi da poeta, “la Repubblica”, 6/1/1990, p. 9)

Va invece lasciato da parte quest’altro esempio tratto dalla “Stampa”: qui infatti siamo a Torino, ci si riferisce al sindaco Sergio Chiamparino, poi eletto al Parlamento, e il significato di paroliere è quello di “venditore di parole”, proprio, come si è visto, di parolaio, ma anche del francese parolier, che nel TLFi ha un’altra entrata con questo significato (simile a quello della più antica attestazione di paroliere in italiano, riportata sopra):

Il nostro sindaco forse studia da primo ministro. Non è dato sapere se si stia già impratichendo nella mansione di paroliere, ma si sa che ha alzato gli occhi e gli è sfuggito un grido di dolore alla vista delle tende di nailon svolazzanti o tristemente pendule nei cortili torinesi. E pensando all’evento olimpico che ormai incombe, ha esortato noi tutti a uno scatto d’orgoglio in nome dell’esteticamente corretto. (Margherita Oggero, Sindaco, lasciaci le tende, “La Stampa”, 31/12/2005)

In molti altri esempi giornalistici il termine ha valore puramente denotativo, come nel caso seguente:

È morto a Los Angeles per insufficienza cardiaca il paroliere e compositore americano Sammy Cahn, autore dei testi di canzoni famosissime per cantanti come Frank Sinatra e Dean Martin. (Morto Sammy Cahn autore per Sinatra, “la Repubblica”, 17/1/1993, p. 33)

Possiamo concludere con un esempio che forse potrà far riconciliare il Presidente onorario della SIAE con la parola (visto che questa viene riferita addirittura a Dante!):

Usciti tutti a riveder le stelle e complici i festeggiamenti del settimo centenario, nel 2021 abbiamo scoperto che Dante è anche un paroliere straordinario. I suoi versi sono ultramoderni. Sembrano nati apposta per essere recitati a ritmo su basi, remixati, rappati su groove elettronici. (Nicola Gallino, Dante e l’Inferno con la musica di Vivaldi e Piazzolla, “la Repubblica”, 10/11/2022, p.12)

In ogni caso, anche se paroliere aveva all’inizio un significato ironico o comunque una connotazione spregiativa (così come il francese parolier), oggi non lo ha più, se non in rapporto al contesto in cui figura. Lo dimostra la sua presenza in un documento ufficiale, la Classificazione delle professioni fornita dall’Istat, che, anche nella sua ultima versione del 2023, presenta la seguente sequenza (dal generale al particolare), in cui i parolieri sono posti accanto ai Dialoghisti e distinti da Scrittori e poeti:

2 - PROFESSIONI INTELLETTUALI, SCIENTIFICHE E DI ELEVATA SPECIALIZZAZIONE

2.5 - Specialisti in scienze umane, sociali, artistiche e gestionali

2.5.4 - Specialisti in discipline linguistiche, letterarie e documentali

2.5.4.1 - Scrittori e professioni assimilate

2.5.4.1.1 - Scrittori e poeti

2.5.4.1.2 - Dialoghisti e parolieri

Naturalmente, preferire – nell’uso individuale – una designazione alternativa è del tutto lecito, ed è anche lecito rivendicare per il paroliere il rango di “autore” a tutti gli effetti, e in certi casi di vero “poeta”, se le parole di una canzone sono davvero belle e ben riuscite. Questo serve anche a ribadire il ruolo non sempre gregario rispetto al compositore della musica. Non sembra tuttavia possibile, allo stato attuale, sostituire la parola in tutte le occasioni, perché ormai il radicamento è molto forte, e vasta la sua diffusione, anche in contesto tecnico (come mostra la categoria ISTAT). Va comunque tenuto presente che la larga diffusione di paroliere ha finito per attenuare e anzi annullare il significato spregiativo che il termine aveva all’inizio, quando è arrivato dal francese. 

Paolo D'Achille su L'Inkiesta il 29 Aprile 2023.

Dario Salvatori per Dagospia il 19 febbraio 2023.

C’è stata un’epoca nella storia del Festival di Sanremo dove ognuno incideva le canzoni di tutti gli altri.  I cantanti erano dei bambocci, a stabilire il tutto furono per primi i direttori d’orchestra, dove si formavano le “scuderie” di cantanti, ma soprattutto le case discografiche e ancor di più le case editrici musicali, autentica cassaforte della canzone.

 Quando ascoltate canzoni molto celebri negli spot pubblicitari credete che siano i cantanti originali o gli autori a percepire denaro? Macchè, sono soltanto le case editrici a guadagnarci. Gli interessi delle case erano talmente cospicui che di fronte alle eterne rivalità cadeva ogni muro di gomma: Nilla Pizzi che cantava “Tua” della sua rivale Jula di Palma, Teddy Reno che incideva “Una marcia in fa” di Gino Latilla.

Nel 1961, l’anno n cui sbarcarono in massa i cantautori, non andò bene a tutti. I più giovani pagarono pegno. Nella compilation Giorgio Gaber (che nella gara cantava “Benzina e cerini” insieme a Maria Monti) fu costretto a cantare “Patatina” di Wilma De Angelis. Potete immaginare  Gino Paoli a cantare “Al di là” di Luciano Tajoli, vincitore di quella edizione?.

 Lo sconsolato Sergio Endrigo obbligato a cantare la sconsolatissima “Pozzanghere” di Tony Renis.  “Notturno senza luna” di tal Silvia Guidi entrò nella compilation interpretata di Dick Ventuno, ovvero Luigi Tenco. L’intera facciata B della raccolta 1961 fu affidata ai Flippers (Max Catalano, Franco Bracardi, Romolo Forlai, Maurizio Catalano e Fabrizio Zampa) i quali trasformarono “24 mila baci” in un cha-cha-cha. Nel 1965 si divisero la torta la Rifi e la Ricordi, dunque la canzone vincente di quell’anno, “Se piangi se ridi” di Bobby Solo, passò nelle mani di Mina.

La stessa Ricordi fece bingo l’anno dopo con “ A la buena de Dios” dei Ribelli (unico gruppo ad entrare in finale quell’anno) affidata ai Quelli, ovvero i futuri membri della Premiata Forneria Marconi, ma soprattutto inserendo “Adesso si”, in gara con Sergio Endrigo, nella versione di Lucio Battisti.

 L’album possiede una notevole quotazione proprio per questo inserimento, anche se  la prima incisione di Battisti venne arrivò quattro mesi con il suo primo disco a suo nome, “Per una lira”.  Nel 1967, il vincitore morale di quell’edizione fu Little Tony con la sua “Cuore matto”, reinterpretata da Fausto Leali. La miscellanea del 1969 propose “Un’avventua”, in gara con Lucio Battisti e Wilson Pickett, finita nelle mani dei New Trolls. Non mancano gli interpreti che si sono sempre vergognati di aver inciso una canzone di un altro, tipo Gabriella Ferri alle prese con “Chi non lavora non fa l’amore” di Adriano Celentano, Lucio Dalla che incide “Taxi” di Antoine, Nicola Di Bari costretto ad interpretare “Come le viole”, portata in gara dal suo eterno rivale, Peppino Gagliardi.

Per non parlare di Claudio Baglioni in piena miscellanea con “Bianchi cristalli sereni” di Don Backy. La Cgd, importante casa discografica tutta italiana, mise sul mercato il Sanremo del 1969 affidando ai Camaleonti “Se tu ragazzo mio”, in gara con Gabriella Ferri e Stevie Wonder, Sergio Leonardi con “Bada bambina” di Little Tony. Il fatto che le canzoni stridessero in mano ad altri interpreti contava poco, l’importante era occupare una quota di mercato. Per esempio scegliendo Gianni Nazzaro per interpretare “Come stai” di Domenico Modugno, oppure Sergio Endrigo per la “Il cuore è uno zingaro” della coppia Nicola Di Bari-Nada.

 Ancora la Ricordi per la compilation del 1971. “Che sarà” di Jose Feliciano e Ricchi e Poveri finita nelle mani di uno svogliato Ricky Gianco e “La folle corsa” di Little Tony finita ai Leoni.

 Con l’inizio dei Settanta le canzoni del Festival di Sanremo diventarono esageratamente racchie, stessa cosa per i vincitori (Homo Sapiens, Gilda, Mino Vergnaghi, ecc.), insomma queste canzoni non se le litigava più nessuno.

 Le case discografiche giunsero ad un patto di non belligeranza: la compilation sarebbe stata affidata un anno a testa. Il che non migliorò la produzione di quel periodo. Anni affollati ma cupi, Sanremo era ormai molto lontano dal mercato, da ciò che finiva in classifica e lontano addirittura dai  gusti del pubblico di Raiuno.

Questa storia ha una morale. I cantanti non contavano nulla, a parte i notissimi, però tutti gli altri sgomitavano, anche non se non erano stati inseriti nel cast Sanremo e magari interpretare una canzone in gara costituiva un  ticket di ingresso. Era la gavetta, tesoro. Proprio quella che nessuno vuole più fare.

«Io, paroliere fantasma a Sanremo. Scrivo canzoni di successo, ma resto anonimo». Tommaso Giagni su L’Espresso il 17 Gennaio 2023.

Cede i suoi testi ad altri, che li firmano e li portano al successo. E spesso al Festival. Ma l’impegno è di rimanere sempre nell’ombra. «A volte sento i presunti cantautori raccontare di come hanno scritto i testi fatti da me e mi viene da ridere. All’Ariston va in scena il trionfo dell’apparenza»

«Capita che sto ascoltando la radio, in macchina, e passa una canzone che ho scritto io. Allora mi sbrigo a cambiare stazione». C’è un paroliere fuori dalle luci di Sanremo. Ce ne sono più di uno, in realtà, ma lui è disposto a raccontare dall’ombra. «Capita anche di leggere cosa dicono i cantautori nelle interviste, a proposito di testi miei. Perché la curiosità è inevitabile. E capita che dicano: “Questa canzone l’ho scritta in un momento strano della mia vita”...». Il Paroliere Fantasma sorride, a ridosso del 73° Festival della canzone italiana.

Ha un nome sconosciuto al grande pubblico, ma è autore di testi che il grande pubblico conosce magari a memoria. Quel nome non lo faremo, perché la segretezza è una condizione chiave nel suo mestiere. Non viene annunciato dal palco di Sanremo, non compare nel sottopancia, quando chi canta aspetta la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi. Ci sono altri nomi a firmare, anche famosi. Eppure è lui il vero autore. Per quanto, vero e falso ancora una volta non sono categorie praticabili.

Il Paroliere Fantasma mette insieme parole che a volte hanno successo, in ogni caso lontano da lui e senza che a lui siano riconducibili. Non ci dirà quali canzoni ha scritto in questi anni («Non l’ho mai detto neanche a mia madre»). Non ci dirà quale brano, nell’imminente edizione del festival, ha raggiunto la finale. Farà di più: porterà L’Espresso nelle cucine in cui si prepara il grande spettacolo della musica italiana.

«Ho iniziato cinque anni fa. Per gioco, anche se con la paura che fosse qualcosa di illegale. Alcuni cantautori delle mie parti hanno letto testi che avevo scritto e mi hanno incoraggiato. Allora ne ho proposto qualcuno a un’agente, eravamo in contatto perché l’avevo intervistata tempo prima». Il Paroliere Fantasma scrive libri e collabora con i giornali, nella vita emersa, visibile. E proviene dalla musica: «Sono un pianista, scrivo canzoni fin dall’adolescenza. Ho anche partecipato alle selezioni di Sanremo Giovani, molto tempo fa. Mi sono fatto diciotto anni di piano-bar, quindi il festival dovevo seguirlo: nei pub ti chiedono quelle canzoni già dal giorno dopo. E poi Sanremo finisce a febbraio, a maggio prendono il via i matrimoni e i pezzi devi saperli. Scoprire, in questi anni, che il pezzo che faceva piangere gli sposi non era del suo autore, ma di un ghostwriter... Ti dici: come cazzo è possibile?».

La stagionalità è un fattore importante. Tra settembre e ottobre, in tempo per le selezioni di Sanremo, il Paroliere Fantasma invia i suoi lavori. Tre alla volta, ogni anno. «L’agente scova autori per canzoni, autori che accettano di restare nell’anonimato, e sottopone i loro testi alle produzioni. Così ha fatto per me, ha mandato le mie parole a chi è dietro alle più grandi manifestazioni. Mi ha colpito questo, che ha voluto iniziare da subito in grande».

Ci parla di un sistema unico, in cui oltre a Sanremo ci sono i grandi talent televisivi, gli album, i tormentoni estivi («Magari mi chiedono dieci parole da inserire nella hit di un deejay»). Ovunque gli stessi meccanismi. La fase creativa, però, mantiene una dimensione personale, isolata. Se c’è qualcosa di autentico in questa storia, bisogna cercare lì. «Non ricevo indicazioni sui temi o su altro. So che l’estate è un tema che piace, per esempio, ma scrivo di quello che mi va. Non saprei fare in un altro modo, mi bloccherei».

All’inizio di dicembre, il Paroliere Fantasma ha saputo che uno dei suoi testi ha passato le selezioni per Sanremo 2023. Verrà interpretato sul palco dell’Ariston. Da chi, lui lo saprà in un secondo momento. «La canzone viene abbinata all’artista dalle produzioni. Indirizzano loro, a seconda degli ospiti che hanno. Io lo scopro solo poco prima dell’inizio del festival, quando vengono pubblicati i testi in gara: vado in edicola, compro Tv Sorrisi e Canzoni e vedo a chi è stato assegnato il mio».

A quel punto il Paroliere Fantasma e le parole che ha scritto saranno, apparentemente, slegati. «Studio con attenzione le piccole modifiche che sono state fatte al testo. Quasi sempre una frase, una parola qua e là, non un periodo intero. Sono cambiamenti legati alle ritmiche, agli arrangiamenti». Così come, nel momento in cui l’artista di turno aspetterà sul palco la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi, il Paroliere Fantasma sarà apparentemente uno spettatore qualunque davanti alla tv. Nonostante quel brano sia fatto di parole sue.

È un paradosso che vale per ogni campo d’applicazione del ghostwriting: una distanza improvvisa separa l’autore dall’opera (che sia un romanzo, una sceneggiatura, una canzone). Il film “The Ghost Writer” di Roman Polanski, nel 2010, mostrava la tecnica di uno scrittore al servizio delle memorie di un primo ministro. È più difficile immaginare il ricorso a un autore occulto per una cosa legata alla stretta creatività, come il testo di una canzone. Forse perché è diffusa l’idea che il gesto creativo riguardi pochissimo la tecnica e sia invece uno slancio, immediato come i sentimenti che traduce. È certo, però, che il rapporto tra creatività e inautenticità può creare un cortocircuito.

Perché fare il ghostwriter, se non per soldi? Il Paroliere Fantasma non considera altri motivi. Ed è nei soldi l’origine dell’unica frustrazione che ammette di provare in questo mestiere. «Vengo pagato dalle produzioni tramite l’agente, una parte che di volta in volta si pattuisce. Non ricevo percentuali sulle vendite. Un mio testo ha vinto un premio importantissimo: ho ricevuto 4.800 euro, la canzone in pochi mesi ha guadagnato milioni di euro».

È una regola di questo gioco, sta nei patti. Il ghostwriter svolge un lavoro in cambio di un compenso, qualcun altro casomai si arricchirà. «Se non scrivessi anche altro, come invece faccio con libri e articoli, di sicuro non scriverei testi per la musica. L’anonimato mi peserebbe e sentirei di disconoscere il valore della scrittura, di non rispettarla. Invece, così rimane un gioco. E giocarci è un lusso».

Un altro lusso lo vede nell’essere riconosciuto attraverso la scrittura. Il Paroliere Fantasma si attiene al segreto sulle canzoni che hanno le sue parole, ma non nasconde l’attività di ghostwriter alle persone care. E anche quest’anno ci sarà chi, di fronte ai brani in concorso al festival, proverà a riconoscere la sua sensibilità. «Sì, ogni tanto mi beccano», ride. Anche quest’anno, nel caso, non potrà confermare né smentire. La soddisfazione correrà invisibile. Uno dei maggiori crucci di chi scrive, d’altronde, è che la sua voce sia anonima, impersonale. Forse per questo il ghostwriting richiede una maturità stilistica, sparire è per chi ha già una consistenza.

E gli altri parolieri fantasma? Esiste una rete, una solidarietà, un confronto, nell’ombra? «Ne ho conosciuti diversi. Per me una delle rivelazioni più sconvolgenti è stata scoprire che alcuni sono giovanissimi, adolescenti, magari usati per accorciare la distanza dal target. Per quanto, lo sapevo già che i ragazzi spesso sanno scrivere meglio di noi adulti. In ogni caso, è difficile che venga fuori un’amicizia. C’è una specie di titubanza: il timore di rubarsi il mestiere, di farsi sfuggire qualcosa di delicato». Si fa l’abitudine a stare nascosti, a non esporsi, e in qualche modo l’ombra protegge. È un circuito in cui non bisogna apparire.

Contemporaneamente, le serate della finale sono un evento mondano di tale portata che non esserci può equivalere, per qualcuno, a non essere. «Ci vanno tutti, a Sanremo, nei giorni del festival. Ma io finora non sono andato e anche quest’anno non andrò. Un po’ per paura. Va ricordato sempre che intorno al mio lavoro c’è una grande segretezza. È un gioco, la prima impressione che ho avuto era giusta, però è un gioco serio». Non andrà di persona, sarà uno spettatore qualunque davanti alla tv. Apparentemente, come ha fatto dall’infanzia e fino a qualche anno fa.

«L’Ariston sarà pieno, ma molto sarà falso. Un po’ come quando una figura istituzionale visita una scuola e allora viene tirato tutto a lucido. Il teatro pieno di questo febbraio non sarà, in fondo, dissimile dal teatro vuoto per la pandemia nell’edizione 2021». I cantanti in gara scenderanno in platea, si avvicineranno alle telecamere, mostrando di avvicinarsi al pubblico, di abbattere la distanza. Ma sarà una costruzione, come pure la gran parte dei momenti a prima vista spontanei. Effetti di realtà.

Il Paroliere Fantasma la mette giù lucidamente, ma senza cinismo: «Sanremo è un’industria dello spettacolo, una holding che dà lavoro a migliaia di persone. È un sistema basato sull’apparenza e non ha nulla di improvvisato. È come il metateatro, il metacinema. Io, certo, lo seguirò sempre, per tutta la vita, ma ormai non me lo godo più tanto. Mi sento preso per il culo, ho perso quell’ingenuità bambina che avevo. Scoprire che certe canzoni firmate da autentici miti, canzoni che amo, miei punti di riferimento, sono state scritte da altri...scoprire che non sono emozioni provate da quell’artista è stato uno shock. E allora ho messo in discussione tutto. Quello che ascolto è vero o è falso? Dubito di tutto, da quando scrivo testi per la musica. Mi sono creato una corazza rispetto al mondo».

Si sente un avversativo ad accompagnare la frase. In effetti il Paroliere Fantasma, dopo una pausa, dice: «Forse è tutto falso, però quella falsità produce comunque emozioni. Per questo non mi sembra un lavoro sporco: perché è legato a sentimenti veri che provo mentre scrivo. E dà emozioni vere a chi ascolta. Niente vale quanto l’emozione che viene da una canzone, no? Per fortuna esistono le canzoni... A volte questi artisti neanche sanno chi sono i loro ghostwriter, chi c’è dietro alle loro parole».

Dal 7 all’11 febbraio lui starà, come il resto del pubblico televisivo, a guardare dall’esterno il festival. «Spero che il mio testo vada a un interprete che mi piace, questo sì. Spero sempre che non abbiano assegnato le mie emozioni a qualcuno che non stimo».

Estratto dell’articolo di Mauro Masi per adnkronos.com il 2 maggio 2023.

Lunedì 1 maggio si è aperta la discussione presso la corte federale di Manhattan per la causa di presunta violazione del copyright da parte della star inglese Ed Sheeran (la canzone è “Thinking Out Loud”) nei confronti del classico di Marvin Gaye “Let’s get it on”. 

La causa è interessante per tutto il mondo della musica e non soltanto per quello anglosassone perché il motivo del contendere (peraltro non facilissimo da capire nei meandri del processo civile americano che a differenza del penale è niente affatto semplice, articolato e complesso) non è tutta la canzone nel suo insieme ma una parte di essa, diciamo la ritmica di base.

Una base costituita da accordi e arrangiamenti che secondo molti, non solo musicisti ma anche esperti legali, sarebbe di pubblico dominio. Negli USA ciò avrebbe un senso specifico perché prima del 1978 (la canzone di Gaye è del 1973) le copie di canzoni che venivano depositate al Copyright Office non proteggevano esplicitamente gli arrangiamenti.

Ma, come detto, il tema riguarda un po' tutto il mondo musicale (è in gioco la libertà di usare accordi di base e arrangiamenti largamente riprodotti) soprattutto ora che il copyright musicale è messo (e lo sarà sempre di più) a dura prova dalle possibilità offerte dai sistemi basati sull’intelligenza artificiale come chatGPT.

Ed Sheeran assolto dall'accusa di plagio. Vinta la causa a New York. Assolto Ed Sheeran a seguito dell'accusa di plagio da parte degli eredi di Ed Townsend per la canzone Thinking Out Loud. Il cantautore non ha infranto le regole del copyright. Cristina Balbo il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’accusa di plagio

 La reazione del cantante

 L’assoluzione

 Il nuovo album e la docuserie

Ed Sheeran è stato assolto dall’accusa di plagio, questo quanto fa sapere la Cnn. Infatti, nei giorni scorsi il cantautore di origine britannica era stato accusato di avere plagiato Let's Get It On, il classico del 1972 di Marvin Gaye, con la sua hit Thinking Out Loud. Stando a quanto deciso dalla giuria di Manhattan (nella giornata di oggi 4 maggio), Ed Sheeran non ha infranto alcuna legge sul copyright e, dunque, non ha copiato melodia e ritmo per realizzare il suo brano.

L’accusa di plagio

A citare l’artista in giudizio era stata la famiglia del cantautore Ed Townsend, co-autore del brano Let's Get It On. Gli eredi di Townsend sostenevano che Ed Sheeran – insieme alla co-autrice di Thinking Out Loud, Amy Wadge - avesse copiato alcuni elementi del brano del ’72; in particolare, il ritmo e la sequenza ascendente di quattro accordi. L’accusa chiedeva cento milioni di dollari all’artista inglese, e la sentenza del tribunale federale di Manhattan avrebbe dovuto stabilire se il cantante fosse costretto o meno al risarcimento dei danni.

La reazione del cantante

“Se dovessi perdere lascerò la musica” aveva detto il trentaduenne durante la prima udienza del processo, sconvolto da quanto stesse accadendo. Poi, il cantautore per esprimere il suo dissenso aveva anche cantato e suonato la chitarra proprio davanti alla giuria di Manhattan. "Traggo molta ispirazione dalle cose della mia vita e della mia famiglia", aveva spiegato Sheeran in aula; inoltre, l’autore ha anche descritto ampiamente la sua intera carriera.

L’assoluzione

Finalmente il cantante può tirare un sospiro di sollievo e ringraziare anche tutti coloro che lo hanno sostenuto; in molti - come ha fatto sapere lo stesso Ed Sheeran - gli sono stati vicino in questo momento difficile per la sua carriera. Anche se non sarebbe la prima volta in cui al cantautore accade un episodio simile: era già successo nel 2017 con la canzone Shape of You; in quel caso, fu accusato di avere copiato un brano del 2015, Oh Why di Sami Chokri e Ross O'Donoghue.

Il nuovo album e la docuserie

Adesso, Ed Sheeran può godersi a pieno l’uscita del suo nuovo album, Subtract. Un progetto nato in un contesto di dolore e che vede il cantautore ritornare alle sue origini. “All’inizio del 2022, una serie di eventi ha cambiato la mia vita, la mia salute mentale e, in definitiva, il modo in cui vedevo la musica” aveva spiegato il cantante. Infatti, il suo nuovo lavoro è nato a seguito della scoperta del tumore della moglie incinta e della morte del suo migliore amico Jamal. Subito dopo, il cantautore si era ritrovato in tribunale per difendere la sua carriera. Nel frattempo, su Disney + è già online la docuserie in cui Ed Sheeran racconta come da “semplice ragazzo balbuziente e senza il physique du rôle” sia diventato una super star.

 Non esiste più il plagio di una volta: in musica ormai tutti copiano tutti. Gino Castaldo su L’Espresso il 06 Febbraio 2023

Dopo le leggendarie dispute legali, tra Endrigo e Bacalov o Al Bano e Michael Jackson, si è passati a una sensazione diffusa di déjà-vu. Ma le leggi andrebbero riscritte

Copio, ergo sum. Non se ne può fare a meno, intrappolati come siamo nell’epoca dell’eterno ritorno, del riciclaggio, della ri-composizione. Ogni cosa sembra la copia della copia della copia. Ma anche il plagio non è più come quello di una volta, non è più il tempo in cui accusavano Ivana Spagna di aver copiato la sua “Gente come noi” da “Last Christmas” di George Michael e lei candidamente ci teneva a precisare che non aveva niente a che vedere con quella, casomai si era ispirata a “Insensitive” di Jann Arden.

Non è più il tempo delle leggendarie dispute legali tra Sergio Endrigo e Bacalov, con tanto di perizia in tribunale di Ennio Morricone, oppure di quella clamorosa che oppose nella pretura di piazzale Clodio a Roma niente di meno che Al Bano e Michael Jackson.

Non c’è neanche più la possibilità che uno come George Harrison pubblichi la sua più bella e deliziosa hit, “My sweet lord”, ammettendo poi, con la onestà che lo contraddistingueva, di aver inconsapevolmente copiato un precedente pezzo delle Chiffons intitolato “She’s so fine”, ammettendo la colpa e pagando il dovuto.

Le leggi sul plagio sono strane, e per certi versi antiche, concepite per un’epoca in cui il plagio aveva un senso, e il meccanismo più diretto: si doveva solo valutare se qualcuno aveva deliberatamente copiato da qualcun altro. E agivano con molta severità: quando gli Stones fecero causa ai Verve perché nella base di “Bitter sweet symphony” avevano utilizzato un tema strumentale di un loro pezzo, i Verve sono stati costretti a cedere interamente le royalties anche se c’era una cospicua parte originale scritta da loro.

Oggi è tutto cambiato. Assecondando un processo graduale di perdita di originalità le canzoni tendono ad assomigliarsi, e al prossimo festival di Sanremo proveremo di nuovo quella strana sensazione di déjà-vu. Qualcosa di già sentito c’è sempre, un’aria di familiarità, di conosciuto.

Un esempio per tutti: ricordate la mega-hit “Mille” di Fedez featuring Achille Lauro e Orietta Berti? Lì non è questione di plagio, casomai di bricolage. Scomponendo la canzone potremmo rintracciare un’infinità d frammenti riconducibili a qualcosa di precedente. Ma è solo un caso eclatante di un procedimento abituale. Lo fanno tutti. Come se le combinazioni si fossero esaurite e oggi scrivere una canzone voglia dire usare i materiali del passato come fossero tanti piccoli mattoncini di un gioco di costruzioni che alla fine porta a qualcosa di inedito ma che ci sembra altamente familiare. Ovvio che anche le leggi del plagio andrebbero riscritte. Se tutti copiano tutti, alla fine chi è il colpevole?

UP & DOWN

Classe 1945, Sir George Ivan Morrison, meglio noto come Van, pubblica un singolo intitolato “Worried man blues”, che potrebbe essere uscito indifferentemente nel 1958, nel 1974, oppure oggi. Ma l’unico a non essere preoccupato sembra proprio lui perché a dispetto di ogni evidenza, nel pezzo c’è vita.

Classe 1947, Sir Elton Hercules John, nato Reginald Kenneth Dwight, meglio noto come Elton, si è imbarcato per il più lungo tour d’addio della storia della musica, iniziato nel 2018 e non ancora completato, fruttando cifre sbalorditive. Un addio talmente lungo che si fa fatica a credere che sia veramente un addio.

Patria in versi. Toto Cutugno, l’italianità nella musica e la costruzione di una nazione attraverso le canzoni. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 26 Agosto 2023.

Dall’inno nazionale al pop, certi brani musicali hanno edificato l’identità popolare di molti Paesi, a partire dal nostro come racconta Leonardo Varasano in “Nazione pop”

«Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente/ E un partigiano come Presidente/ Con l’autoradio sempre nella mano destra/ E un canarino sopra a una finestra». Morto martedì, Toto Cutugno è stato attivo sulla scena musicale per cinquantotto anni; ha pubblicato ventotto album; ha vinto oltre cento milioni di dischi; ha, con quindici edizioni, un record di partecipazioni al Festival di Sanremo (pure alla pari con Al Bano, Peppino di Capri, Milva e Anna Oxa); lo ha vinto nel 1980 con “Solo noi”, giungendovi inoltre sei volte secondo, una volta terzo e due volte quarto, più altri piazzamenti con brani scritti per altri artisti; è stato nel 1990 il secondo italiano a vincere nel 1990 l’Eurovision Song Contest, dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e prima dei Måneskin nel 2021; però è stata “L’Italiano” la canzone che la folla dei fan ha intonato al suo funerale.

E “L’Italiano” è stata anche la canzone su cui si sono alla fine concentrati tutti i commenti. Inno popolare per alcuni, monumento al trash e agli stereotipi per altri, anche se poi in realtà qualche sfumatura c’era. «Buongiorno Italia con i tuoi artisti/ Con troppa America sui manifesti/ Con le canzoni, con amore, con il cuore/ Con più donne sempre meno suore». Insomma, un po’ di autocritica sui difetti e limiti nazionali in fondo c’era, mentre a destra non è mancato chi ne ha preso le distanze proprio per quel rifermento al «Presidente partigiano». Una contrapposizione tra dubbi di élite e entusiasmo di masse che in fondo inizia da subito, con appena il quinto posto al festival, ma il successo strepitoso, fino alla cover col Coro dell’Armata Rossa fonte di qualche perplessità in tempi di aggressione putiniana all’Ucraina, o alle versioni in finlandese e cinese. Una possibile storia politica del Festival di Sanremo non può non considerarla come una icona di quella Italia craxiana che prendeva slancio dalla vittoria ai Mondiali in Spagna e che si sarebbe schiantata su Tangentopoli.

Ma, appunto, una precisa analisi ne faceva “Nazione pop L’idea di patria attraverso la musica”. Un recente libro scritto per Rubettino da Leonardo Varasano, e il cui sottotitolo avrebbe dovuto essere «L’idea di nazione e la musica, dagli inni nazionali al pop. Il caso italiano». Poi è stato un po’ più sfumato, ma la stessa drammatica attualità della guerra in Ucraina si ricorda come «il tempo presente è ancora il tempo delle nazioni», anche se spesso si tratta di una idea «intiepipidita». Il «nazionalismo banale» ha però sempre bisogno di alcune forme simbolo. Prime fra tutte, quella visuale delle bandiere e quella sonora degli inni. “La Marsigliese” ne è un archetipo della nazione moderna, anche se “God save the King/Queen” ne è un esempio molto più antico.

Il rapporto tra nazione e musica, osserva Varasano, «ha avuto un valore particolarmente considerevole nei processi di emancipazione nazionale: è esemplare, in tal senso, l’importanza che un pensatore come Giuseppe Mazzini ha attribuito al canto, all’opera e alla musica in genere anche in chiave risorgimentale». Si perdoni qua l’autocitazione, ma anche l’autore di queste note si occupò di Mazzini in un libro da lui dedicato al rapporto tra canzone e letteratura. Vi si ricorda che il fondatore della Giovine Italia fu non solo un chitarrista appassionato, ma anche un pioniere della etnomusicologia, con il suo arrangiamento di un canto popolare svizzero da lui ascoltato in esilio. «Nel Novecento, poi, un celebre intellettuale come Roberto Michels ha perfino teorizzato una sociologia delle canzoni nazionali, decisamente significativa benché misconosciuta», aggiunge Varasano.

Mazzini a parte, il Risorgimento ebbe una colonna sonora formidabile nelle musiche di Giuseppe Verdi. In particolare “Va, pensiero”: si ricordava sempre in “Da Omero al rock”, in effetti perifrasi in italiano ottecentesco di quel Salmo 137 della Bibbia che è stato rifatto in una quantità di altre lingue, dal latino di Pierluigi da Palestrina all’anglo-giamaicano dei Boney M.; ma di fatto una sorta di pre-inno nazionale più volte riproposto. A volte anche in alternativa all’Inno di Mameli: il Canto degli Italiani composto all’epoca della Prima Guerra d’Indipendenza da colui che sarebbe poi divenuto un eroe e martire della Repubblica Romana, e dopo tanti anni in cui era stato trattato praticamente da anticaglia di cattivo gusto infine rilanciato alla grande da Carlo Azeglio Ciampi. C’è quasi un prima Ciampi in cui gli atleti azzurri soprattutto lo ascoltavano, e un dopo in cui lo contano a squarciagola.

L’Italia unità aveva in realtà avuto “La Marcia Reale sabauda”, che memorialisti della Grande Guerra descrivevano però spesso come «accozzaglia di note» quasi incantabile. Il fascismo vi aveva affiancato “Giovinezza”, che in realtà era stato in origine un inno goliardico e poi un canto degli arditi.

Con la repubblica si era adottato come inno provvisorio “La leggenda del Piave”: canzone scritta da un autore di popolari canzoni napoletane che l’aveva composta in un momento di gravi problemi economici, in cui aveva idealmente sovrapposto la propria volontà di affrontare i creditori all’auspicio che i soldati affrontassero gli invasori, come lui stesso racconto. E in effetti il brano aiutò sia l’Italia a vincere la guerra, sia lui a recuperare l’agiatezza economica.

Curiosamente Giovanni Ermete Gaeta, in arte E. A. Mario, oltre che autore di una canzone di vittoria come “La leggenda del Piave” lo fu anche di un canzone che parlava di sconfitta e occupazione straniera come “Tammurriata nera”, anche se pure quella cercava di affrontare la situazione con spirito positivo: «Ca tu ’o chiamme Ciccio o ’Ntuono,/ Ca tu ’o chiamme Peppe o Giro,/ Chillo…’o ninno, è niro, niro,/ Niro, niro comm’a che». Essendo un mazziniano storico, però, rifiutò una commissione di Alcide De Gasperi per scrivere un inno della Dc, e De Gasperi allora pose un veto alla “Leggenda del Piave” come inno. Dopo una proposta comunista dell’Inno di Garibaldi, si arrivò appunto a Mameli.

Una cosa poco nota che Varasano ha ritirato fuori, però è che a un certo punto Mazzini aveva commissionato a Mameli un altro testo che proprio Verdi aveva musicato, per farne un inno nazionale esplicito, dal titolo “Suona la tromba”. Ma, esattamente come accade ad esempio nel calcio quando due fuoriclasse che giocano assieme non si prendono, il paroliere di Fratelli d’Italia e il musicista di “Va, Pensiero” assieme non funzionarono, e il pezzo fu un flop.

Ma non ci sono solo gli inni ufficiali. Varsano cita Michael Billig per spiegare come l’idea di Nazione continua a proporsi in varie forme e gradazioni, e spesso in modi silenziosi, inavvertiti, «banali». Spesso non viene neppure nominata, eppure sopravvive e prospera. Le «banali profondità della coscienza nazionalista» si riproducono in una ricca molteplicità di manifestazioni. Tra queste c’è anche la musica. Ripercorrendo il legame tra musica e nazione alla luce della “Filosofia della musica” di Mazzini e dei “Prolegomena sul patriottismo” di Michels, il volume arriva fino al pop. Dall’analisi del caso italiano emerge una teoria di frasi, sintagmi, ritornelli inseriti in molte canzoni dagli anni Settanta a oggi. Nella musica popolare di massa il tema nazionale si presenta attraverso la celebrazione dell’amore o della nostalgia dell’Italia, il ricordo della storia patria, la critica al carattere e al malcostume italiani.

In particolare, c’è un filone sull’appello agli italiani in nome della critica ai vizi nazionali che dal «serva Italia» di Dante attraverso personaggi come Alfieri o Leopardi arriva al “Povera patria” di Battiato o a cose di Lucio Dalla, Roberto Vecchioni, Rino Gaetano o Venditti. Come d’altronde il filone del «Viva l’Italia» va dai citati Inni di Mameli e Garibaldi e “Leggenda del Piave” fino a Francesco De Gregori, Mino Reitano e, appunto, Cutugno.

Come scrive Varasano, «nel clima successivo al Mondiale di calcio del 1982, vinto dagli Azzurri di Bearzot in finale contro la Germania Ovest, il brano del cantautore toscano – nel tempo oggetto di molte reinterpretazioni, traduzioni e citazioni cinematografiche – esprime un evidente orgoglio patriottico, una chiara rivendicazione di italianità. L’Italia, infatti, nonostante i suoi limiti (a partire da un eccessivo filoamericanismo), è per Cutugno la nazione a cui si può essere orgogliosi di appartenere» «Lasciatemi cantare / con la chitarra in mano / Lasciatemi cantare / una canzone piano piano / Lasciatemi cantare / perché ne sono fiero / sono un italiano / un italiano vero».

Nel videoclip, girato a Parigi, appaiono alcuni dei simboli nazionali citati nel testo della canzone, come il tricolore (compare a più riprese una ragazza vestita di verde, bianco e rosso) e la pasta (gli «spaghetti al dente»). L’Italia, animata dalla vitalità della musica, viene descritta come un Paese «che non si spaventa», dal profilo borghese eppure capace di condensare il senso del proprio riscatto postbellico in «un partigiano come Presidente» (Sandro Pertini) e il proprio senso di appartenenza nella bandiera (portata «in tintoria»), nel caffè (rigorosamente «ristretto») e nel calcio (con «la moviola la domenica in Tv»). Insomma, Nazione Pop.

Michele Bovi per Dagospia il 6 febbraio 2023.

Mi chiedo se nell’edizione 2023 il Festival della canzone italiana ricorderà ‘O sole mio, ovvero la canzone italiana più famosa nel mondo e resa tale principalmente per l’interpretazione di Enrico Caruso, il mio bisnonno tenore che nacque proprio nel febbraio di 150 anni fa”.  

 È quanto si legge nella lettera inviata a Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai, da Riccardo Caruso, pronipote di Enrico e a sua volta con trascorsi di voce tenorile nel coro del Maggio Musicale Fiorentino.

Fuortes s’intende di musica importante. Gli manca solo il Teatro alla Scala di Milano, giacché prima dell’incombenza nella radiotelevisione pubblica aveva per l’appunto ricoperto incarichi di vertice a Roma tra Auditorium Parco della Musica e Teatro dell’Opera, a Bari per la Fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e a Verona per la Fondazione Arena.

Per Sanremo 2023, tra tutti i nomi annunciati da Amadeus, quali ospiti o protagonisti di celebrazioni, è mancato finora quello di Enrico Caruso, che il 25 di questo mese verrà altrove ricordato per i 150 anni dalla nascita.  Ed Enrico Caruso, come scrive il pronipote Riccardo, non è soltanto un gigante della lirica italiana ma anche il più famoso esecutore di ‘O sole mio, il brano che grazie a quell’incisione del 1916 è diventato e resta nel mondo l’inno fondamentale della canzone italiana, etichetta che dal 1951 contraddistingue il Festival di Sanremo che ha successivamente prodotto altri popolarissimi motivi quali Nel blu, dipinto di blu e Quando quando quando.

Il rischio che la Rai possa minimizzare l’evento è calcolato. I precedenti in proposito sono a dir poco sconcertanti.  Il 25 febbraio del 1973 la Rai non allestì celebrazioni per i 100 anni dalla nascita dell’artista. Addirittura il Radiocorriere Tv, all’epoca diffusissimo periodico cartaceo dell’azienda radiotelevisiva che ospitava spazi dedicati alla musica lirica, nella settimana dell’anniversario pubblicò un articolo sull’Elisir d’amore, l’opera di Gaetano Donizetti che aveva provocato il clamoroso divorzio tra Caruso e la sua Napoli, dimenticando del tutto però di citare Caruso.

Il fattaccio originario risaliva agli ultimi due giorni del dicembre del 1901. Il tenore ventisettenne arrivò al Teatro San Carlo già forte di una pregevole reputazione: il suo stile di canto era innovativo, virile e passionale. Ma il pubblico, assuefatto alle interpretazioni languide di Fernando De Lucia il tenore che all’epoca dettava legge sui palcoscenici partenopei, non sembrò apprezzare immediatamente il protagonista dell’Elisir d’amore, quel Nemorino impersonato da Caruso.

 Non ci furono fischi, come molti ancora oggi raccontano perpetuando frottole tramandate negli anni, ma solo un’accoglienza inizialmente tiepida, poi nel giro di un’ora convertita in un successo tondo. Caruso non convinse però il critico Saverio Procida che sul giornale Il Pungolo gli rimproverò una voce baritonale non adatta al ruolo di Nemorino e persino una notevole insufficienza tecnica. Ancora più pesante fu il giudizio di Procida sulla Manon Lescaut di Giacomo Puccini che Caruso interpretò subito dopo l’Elisir d’amore: “Gli mancano lo charme del cantante, la finezza dell’artista, l’eleganza dell’attore, la dizione raffinata”.

Una critica in cui Caruso ingiustamente lesse la condanna di tutta Napoli. Ferito nell’orgoglio non si esibì più nella città natale, continuò la sua carriera trionfale altrove, all’estero, soprattutto oltreoceano. Tornò a Napoli nell’estate del 1921, per morirvi all’età di 48 anni.

 Il caso dell’Elisir d’amore fu elemento centrale nella celebrazione del centenario. L’Associazione della stampa napoletana organizzò il 24 aprile del 1973 – due mesi dopo l’esatta ricorrenza - un maestoso concerto al Teatro San Carlo. Con l’orchestra diretta dall’imponente maestro Oliviero De Fabritiis si esibirono, ripercorrendo le tappe obbligate del repertorio di Caruso da l’Elisir d’amore a ‘O sole mio, le più prestigiose voci maschili della lirica mondiale: Mario Del Monaco, Ferruccio Tagliavini, Luciano Pavarotti, il francese Alain Vanzo, il russo Vladimir Atlantov.

Mancarono all’appuntamento lo svedese Nicolai Gedda afflitto da laringite e lo spagnolo Placido Domingo proveniente da San Francisco ma bloccato all’aeroporto di Londra a causa della nebbia. L’autentica perla dell’evento fu la formale riappacificazione tra la Napoli melomane e il suo più glorificato erede.

 Tra interminabili scrosci di applausi il pubblico del San Carlo accolse con commozione l’abbraccio riparatore tra il nipote di Caruso, Enrico junior, e Roberto Procida discendente del critico, che gli organizzatori avevano fatto sedere uno accanto all’altro nel palco reale.

 Lo splendido live dei cinque tenori del 24 aprile 1973 fu inciso in un disco raro, solo recentemente messo a disposizione degli appassionati su youtube dai figli di Mario Del Monaco. Non esistono invece registrazioni della Rai e neanche segnalazioni del Radiocorriere Tv nella settimana di pertinenza.

Una distrazione replicata nel 2021, a 100 anni dalla scomparsa del tenore (Napoli, 2 agosto 1921).

Nel 2020 ci fu la proposta di connettere i due anniversari 2021-2023 attraverso una serie di iniziative patrocinate e coordinate dalla Rai a livello internazionale, dal Centro produzione di Napoli a quello di Milano, fino alla sede di New York - racconta il pronipote Riccardo Caruso – La proposta veniva proprio dal consigliere d’amministrazione della Rai Riccardo Laganà ed era rivolta all’amministratore delegato Fabrizio Salini, al presidente Marcello Foa e ai colleghi consiglieri.

 L’appello di Laganà raccolse l’adesione di noi familiari, di musicisti, editori, giuristi, scrittori, giornalisti, soggetti eventualmente interessati a collaborare in concorso con le istituzioni culturali e musicali che da tempo si occupano di custodire le memorie del nostro bisnonno. Ma rimase lettera morta: il Consiglio di amministrazione Rai non inserì mai all’ordine del giorno la proposta che pure era partita da uno dei suoi membri, tra l’altro quello eletto non dalla politica ma dai dipendenti dell’azienda”.

La disattenzione del servizio pubblico radiotelevisivo è forse scaturita dalla stessa mancanza di incisività da parte della politica nei confronti dell’artista universalmente più celebre di tutti i tempi. Unica eccezione l’entusiasmo dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone che nel 1973 volle personalmente redigere la presentazione dell’opera omnia dedicata al centenario del tenore dalla sua casa discografica americana.

Ma Giovanni Leone era napoletano. In quella stessa circostanza il ministro del turismo e spettacolo Vittorio Badini Confalonieri si limitò a inviare al Teatro San Carlo un telegramma. Badini Confalonieri era torinese. Oggi con Gennaro Sangiuliano, napoletano doc alla guida del ministero della cultura, le aspettative degli appassionati di Enrico Caruso sono molto più ottimistiche. A partire dalla attesa rievocazione in questa edizione del Festival. ‘O sole mio sta ‘nfronte anche a Sanremo?

Così Milano ha regalato la colonna sonora all’Italia. Un libro a cura di Crovi e Fassina racconta le mille anime musicali meneghine. Storia vera di Celentano, Gaber e altri geni. Alessandro Gnocchi il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ogni città ha il suo suono. New York: l'avanguardia rock e minimalista, i Velvet Underground e Philip Glass. Los Angeles: il pop metal di Eddie Van Halen e dei Mötley Crüe. San Francisco: le jam session psichedeliche dei Grateful Dead. Seattle: le chitarre rumorose di Jimi Hendrix e Kurt Cobain. Londra: la British invasion dei Rolling Stones. Liverpool: il Mersey Beat dei Beatles. Potremmo proseguire all'infinito. Ci fermiamo in Italia perché un libro gigantesco per formato, contenuto e procurato divertimento prova a definire il suono di Milano. Si intitola Milano Sound System. 100 anni di suoni all'ombra del Duomo, a cura di Luca Crovi e Luca Fassina (About Cities, pagg. 320, euro 48). Aperto a decine di contributi, il libro, splendidamente illustrato, va da Adriano Celentano ad Arthur Rubinstein, con tutto quello che c'è in mezzo. In oltre mezzo secolo, è cambiato tutto. L'industria musicale è morta e rinata dalle sue ceneri. Il cantautorato locale è diventato italiano e ha lasciato (in parte) il posto al rock indigeno degli anni Novanta e al rap, che attraverso le sue ramificazioni arriva fino ai giorni nostri. Un tempo c'erano Adriano Celentano, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Celentano si divertiva a imitare le canzoni rock, trasformando l'inglese in celentanese: non diceva nulla ma suonava bene. Avete presente Prisencolinensinainciusol, brano del 1972? Era un ritorno-omaggio alle origini. Secondo una leggenda metropolitana, Adriano aveva un paroliere, Michele Del Prete, che non scrisse una parola: era il suo portafortuna ma anche un abile procacciatore di testi suggeriti, per amicizia, da gente come Mogol. A proposito. Naturalmente anche il successo del romano Lucio Battisti inizia a Milano, quando incontra il batterista dei Quelli, Franz Di Cioccio, di origine abruzzese, che poi farà la storia della musica italiana con la Premiata Forneria Marconi, band partita dalle cotolette del Quartiere Otto (quello della Triennale) e approdata agli hot dog delle arene americane.

Chi nasce, anche solo professionalmente, a Milano, eredita il gusto della innovazione. Prendiamo Giorgio Gaber. Prima cantore della realtà milanese: il Giambellino, Porta Romana bella, i trani, cioè le piccole osterie in periferia. Poi cantautore rock'n'roll con licenza di spaziare in televisione. Infine, eccezionale interprete teatrale in una serie di spettacoli in cui si mettevano in scena e si cantavano ipocrisie, tormenti e tormentoni della borghesia milanese ma non solo. Provate ad ascoltare Far finta di essere sani (1973).

Enzo Jannacci, professione medico, fece esplodere, da subito, un talento che partiva da Milano, stazione di Rogoredo, e giungeva alla Parigi surrealista. Costantemente sottovalutato, anche a causa di un carattere votato all'understatement, ha portato gli umili nella canzone italiana, con un'umanità che finirà col rivelarsi apertamente cristiana. El purtava i scarp del tennis (1964) è una lectio magistralis su come si scrive un testo di canzone insieme locale e universale.

Ecco, abbiamo toccato uno dei temi più interessanti. Quando si pensa a Milano, si pensa a una storia culturale fortemente connotata. Milano è la città del realismo coniugato alla fede religiosa. Tutti hanno il diritto di arricchirsi. Tutti hanno il dovere di ricordarsi della comunità in cui vivono. Il sistema milanese è questo: spirito imprenditoriale e spirito religioso. La società deve puntare a espandere la dignità, il benessere e il decoro. Questa identità è fortissima e si esprime in ogni aspetto. In letteratura, Alessandro Manzoni, nei Promessi sposi, ne è stato il primo e insuperato interprete. Avvicinandoci ai nostri giorni, un altro grande scrittore con i piedi ben piantati in Milano è Giovanni Testori. Figlio di un imprenditore e cristiano imperfetto, Testori è il prodotto della temperie lombarda ma ne ha colto anche il probabile tramonto (vedi il romanzo Gli angeli dello sterminio, 1992). Se dall'iperuranio della cultura scendiamo nel cortile dell'industria, beh, noteremo subito un dettaglio rivelatore nelle ville padronali che sorgono accanto ai capannoni: l'ingresso principale, spesso, quasi sempre, non si apre sulla strada ma guarda verso la fabbrica di famiglia.

Bene, è giunto il momento di verificare a che punto siamo con la Storia: esiste ancora una milanesità siffatta? Dove cercarla? Le canzoni sono sempre un'ottima spia di quanto ci accade intorno. Jannacci è stato il Manzoni della canzone milanese. Oggi non è così semplice. Gli umili hanno le stesse aspirazioni dei borghesi e usano la stessa lingua. Lo si vede chiaramente nel rap da classifica e nei suoi derivati più moderni, come la trap. I rapper non parlano la lingua degli emarginati. Cantano con le parole dei giovani, che sono uguali dappertutto, in centro e in periferia. Gli umili, forse, sono i figli degli immigrati ma non è detto che si esprimano in italiano.

Al di là di questo problema, che andrebbe indagato, possiamo dire, seguendo le pagine di Crovi e Fassina, che Milano ha sempre saputo rinnovarsi. Il nuovo rock italiano ha avuto tre capitali: Bologna, Firenze e appunto Milano. Tolto il caso dei fiorentini Litfiba, sono stati forse i gruppi milanesi a lasciare il solco più profondo. Gli Afterhours di Manuel Agnelli si sono rivelati da esportazione e se avessero insistito... Del resto, alla base del successo dei Måneskin c'è proprio una intuizione di Agnelli stesso, oggi solista. I Ritmo tribale di Andrea Scaglia sono tornati sulle scene con un album capolavoro, La rivoluzione del giorno prima, dove Milano ha un ruolo centrale. Edda, ex voce dei Ritmo tribale, è uno dei cantautori più rispettati. I Casino Royale hanno introdotto e sviluppato i suoni dell'elettronica inglese, che oggi possiamo ascoltare ovunque.

Anche il rap, come il rock, affonda le radici nei primi anni Novanta. Milano è la mecca per gli artisti di tutta Italia. J-Ax, microfono degli Articolo 31, gruppo apripista, è milanese doc. Tra i primi a trasferirsi nel capoluogo lombardo ci fu Fabri Fibra, nato a Senigallia. Marracash, siciliano, è la voce della Barona, quartiere di Milano. I Club Dogo nascono e prosperano in città. Anche l'ondata trap ha trovato la sua sede nel capoluogo lombardo.

Ci sono poi fenomeni unici. Ad esempio, l'intrecciarsi di cabaret e canzone d'autore ha dato meravigliosi risultati con Jannacci, ancora lui, e con Cochi e Renato. Una tradizione che arriva fino a Elio e le storie tese e passa per Teo Teocoli, cantante dei Quelli prima di diventare un comico. Sarebbe l'argomento di un altro libro. Crovi e Fassina, se ci siete, battete un colpo...

Costanzo, De Chiara e Morricone: come nacque “Se telefonando”. Le sirene della polizia marsigliese, un’intuizione fortunata, Mina che prende il foglio e inizia subito a intonarla: come fabbricare un successo. Paolo Lazzari il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Stretti nel clima rarefatto della loro stanzetta, i due confabulano fitto. Quello più paffuto si riavvia l’incerta criniera, fremendo. Sente che sta per avere un’epifania. L’altro soppesa accuratamente la manciata di frasi scribacchiate sul foglio, intonso fino ad un istante prima. Dalla cornetta del telefono accasciata sulla scrivania rimbalzano, lievemente metallici, gli appunti di un terzo convitato.

Su un fatto si trovano tutti d’accordo: Studio Uno è stato un congegno deflagrante. Quei gran geni di Antonello Falqui e Guido Sacerdote hanno messo su un varietà inedito ed effervescente. Dunque, irresistibile. Fare altrettanto per questa costola che sta emettendo i primi vagiti è quantomeno opportuno: Mamma Rai non accetterebbe nulla di diverso. Aria condizionata - perché è questo il titolo del nuovo programma – deve viaggiare subito spedito. E quando cerchi un acceleratore percettivo, dentro la musica puoi scorgere un alleato formidabile.

Il trio si spreme e affastella idee scoppiettanti. C’è una sigla da scrivere e, visto che il microfono lo stringerà ancora una volta Mina, magari circondata dalle fluttanti gemelle Kessler, la banalità è un nemico da contrastare senza quartiere. Fuori esplode il 1966. Al governo c’è la DC, Maurizio Costanzo ha ancora tutti i capelli e Ghigo De Chiara indossa un sorriso sornione, persuaso di essere vicino a districare la matassa. Il primo assist in realtà lo fornisce il tizio dall’altra parte della cornetta, che nel fratempo sobbolle. “Mi viene in mente il suono delle sirene della polizia marsigliese”, l’eccentrica suggestione di Ennio Morricone.

A tirarlo in ballo è stato proprio De Chiara. Ci ha lavorato insieme per uno spettacolo teatrale e ne è rimasto sedotto al punto da volerlo coinvolgere anche per la tv. Il clima retrivo degli anni Cinquanta è alle spalle da un pezzo. Ora i varietà devono essere sfrontati e disorientanti: un risultato che raggiungi soltanto se lasci il volante ai creativi. Il secondo colpetto di assestamento lo piazza Costanzo. Sono nel bel mezzo di una telefonata, quindi rinfodera le elucubrazioni galoppanti e attinge dal reale: “E se la parola giusta fosse telefono?”. De Chiara non potrebbe essere più d’accordo. L’arnese sta spopolando in quegli anni.

Adesso tocca avvitare la narrazione intorno a un tema. Al trio viene in mente che potrebbe trattarsi della fine di un amore. Una di quelle così improvvise e contundenti da riempire tutto lo spazio riservato alle parole. È successo così in fretta che nessuno dei due diretti interessati ha il tempo materiale di fornire una spiegazione. Potrebbe farlo lei, telefonando. Il condizionale usato nel testo però è un rampicante che inibisce il movimento e acuisce questa sensazione di incompiutezza. È un amore destinato a rimanere irrisolto e forse, per questo, ancora più sferzante.

Allora è deciso. L’illuminato trio si riunisce per recarsi in via Teulada, dove li attendono la regale Mina ed il suo impresario. Nello studio di registrazione troneggia un monumentale pianoforte a coda. Costanzo, le dita tremolanti, ci appoggia foglio e spartito. Lei lo afferra e inizia a studiarlo per un tempo che pare indefinito. In ossequioso silenzio, il sudore che già si lavora anche i polsini delle camicie, la geniale combriccola ripete interiormente mantrici scongiuri. Poi, d’un tratto, si consuma il pezzo di magia. Senza distogliere lo sguardo dal foglio, Mina inizia a intonare una strofa. Dapprima è un bisbiglio appena accennato. Una fessura che stappa un nuovo inizio. “Lo stupore della notte, spalancata sul mar”. Poi cresce. “Ci sorprese che eravamo, sconosciuti io e te”.

La sua voce è un balsamo che scende su tutte le parti del testo, congiungendole. Il trio dilata le iridi, compiaciuto. La cantante esprime soltanto un appunto: la strofa “Poi nel buio la tua mano d’improvviso sulla mia” potrebbe prestarsi ad ambiguità. I nostri sfregano e sbrogliano il lieve impasse volgendo il testo al plurale.

È fatta. La canzone viene incisa e Mina la presenta nel corso della sedicesima puntata di Studio Uno, il 28 maggio 1966. Diverrà un successo di respiro mondiale. Il brano, particolarmente intricato per via dei molteplici salti di tonalità e per l’estensione vocale pretesa, è in realtà il terreno di caccia d’elezione per la tigre di Cremona. Il trionfo che ne consegue, con decine di migliaia di vinili che fanno le fusa da una parte all’altra dell’oceano, è ruggente.

Riunito in un bugigattolo adiacente alla regia, il trio si distribuisce pacche reciproche. A volte basta agganciarsi a un’intuizione per flettere il corso della storia.

Barbara Costa per Dagospia il 9 aprile 2023.

Rod Stewart si è iniettato cocaina nel c*lo. Svuotando capsule antiinfluenzali, riempendole di coca, e infilandosele nel retto. Il suo naso stava marcendo, per le sniffate. Pure Ronnie Wood se l’è iniettata nel c*lo. E pure Stevie Nicks. Rod Stewart è stato operato d’urgenza per rimuovere lo sperma che s’era inghiottito succhiandoli a una flotta intera di marines.

 Gene Simmons ha la lingua di una mucca. Trapiantata. Per questo è così lunga. Jimi Hendrix non è morto, ha cambiato nome per cambiare mestiere, infatti è Morgan Freeman. Lo stesso Kurt Cobain, mica è morto, vive a Seattle, è sempre stato lì, ma nella Seattle nascosta, sotto terra, seppellita durante il grande incendio del 1889.

Ok, Kurt è morto, fooorse, ma l’hanno ucciso, chi, il Deep State che, come le rockstar campate fino a 27 anni, l’ha eliminato perché sobillatore di giovani. Guarda che Cobain è stato ammazzato dalla moglie, anzi, siamo precisi, la moglie al soldo della CIA. Courtney Love voleva uccidere anche la madre, di Cobain, e in seguito il marito della figlia Frances. Courtney è una della CIA, e tiene la polizia di Seattle per le p*lle. Prima di mettere Cobain nella bara, quelli delle pompe funebri lo hanno rasato, fatto a pezzi, tolto il cuore, e c’hanno fatto un sabba con la musica dei Pearl Jam.

Se non l’ha ucciso Courtney, Cobain ha fatto la stessa fine di Chris Cornell dei Soundgarden e di Chester Bennington dei Linkin Park, che non si sono uccisi, sono stati uccisi, perché volevano svelare una setta pedofila. Come Courtney Love, anche Charles Manson era c*lo e camicia con la CIA. Lui e la sua Family con l’omicidio di Sharon Tate non c’entrano niente: erano debiti di droga.

 Manson mi sa che in carcere l’hanno fatto fuori, lui stava bene e faceva progetti per il futuro: si voleva sposare con una 26enne, a 80 anni suonati, embè? Dopo 9 anni di fidanzamento epistolare l’ha lasciata lui scoprendo che, dopo la sua morte, la sposa avrebbe esposto il suo cadavere in una bara di vetro come Biancaneve.

Avril Lavigne si è uccisa nel 2003, depressissima per la morte del nonno. Sì, prima che diventasse famosa. Quella che vedi a tutt’oggi è una sosia trovata e pagata dalla casa discografica per non perderci i soldi investiti. Si chiama Melissa. Paul McCartney è morto – decapitato! – in un incidente d’auto nel 1966, lo sanno tutti. Sveglia: la prova non sta che Paul è scalzo sulla copertina di Abbey Road, sta nella targa della macchina sulla copertina di Abbey Road, c’è scritto “28IF”, “28 (anni) SE” non fosse morto.

 Capito? Sono decenni che un Macca-sosia ci percula (per volere dei Servizi Segreti inglesi) manco tanto uguale all’originale. Ci sono varie foto che lo dimostrano. Non erano i Beatles a celare messaggi satanici nelle loro canzoni (anche perché i Beatles non sono mai esistiti, erano tutti attori, mandati via nel 1969 quando muore il loro compositore, Adorno), chi lo fa è Taylor Swift: lei è Zeena LaVey, figlia di Anton LaVey, capo satanico. E ex amico di Marilyn Manson.

Britney Spears è stata pagata dal presidente Bush Jr. affinché con le sue mattane di droga e d’amore sviasse i media dai casini di Bush Jr. in Iraq e non solo. I presidenti degli Stati Uniti non li decide il popolo, ma una élite di ricconi a capo dello smercio mondiale di oppio. Banksy è Robert Del Naja dei Massive Attack. Robert Del Naja dei Massive Attack è Banksy. Amanda Lear era trans, i soldi per il cambio di sesso glieli ha dati Salvador Dalí. Romy Haag, drag queen ex di David Bowie, lo sa perché ha lavorato con Amanda Lear, ex di Bowie, quando Amanda il pene ce l’aveva ancora, altrimenti non sarebbe stata con David Bowie.

Pippo Franco è morto nel 1981 in Puglia, gli ha sparato il padrone del terreno da cui stava rubando mandorle. Quel che si vede da più di 40 anni è un sosia e si chiama Salatino Fulvio Franco. Gianni Morandi è coprofago conclamato. Romina Power canta le scie chimiche (“non vogliamo scie chimicheee/ nel cielo bluuu”), Robbie Williams le canta per gli alieni e, una volta, appena terminata una, “una sfera di luce si è messa a fluttuare sulla mia testa”.

 Billy Corgan, sobrio e pulito, stava a letto con una donna che si è mutata in un mostro e lui se l’è fatta sotto e ancora se la fa se solo ci ripensa. Perché Billy ai mostri ci crede e alle streghe no, e fa male, perché Beyoncé è una strega, e vola. Lo dice il suo batterista. E il marito di Beyoncé, Jay Z, vola nel tempo, lui nel 1939 era a Harlem. È documentato. E comunque Jay Z e Nicky Minaj sono la stessa persona. Jay Z beve sangue. Justin Bieber sa trasformarsi in Godzilla. E Aleksandr Dugin, prima di essere l’ideologo di Putin, era un cantante “assatanato, avvinazzato e satanizzato”, senonché un “mistico sessuale” che faceva orge ambo-sex. Le ha sempre sparate grosse.

Se vuoi scoprire se queste sono tutte colossali caz*ate, o quali sì e quali no, leggiti "Music Paranoia. Leggende Urbane, Misteri e Cospirazioni Dal Mondo Delle Sette Note", (Il Castello editore), “sordido tomo” il cui autore, Episch Porzioni, raccoglie e smonta miriadi di fake news, miti, panzane, montature, che popolano il web, e a cui in troppi credono. Sonore risate garantite. 

Barbara Costa per Dagospia sabato 2 dicembre 2023.

Io sarei anche disposta ad andarci, da uno bravo. A farmi vedere. Esaminare. Nel cervello e tra le gambe. E come no. Non che non ci abbia pensato. Il fatto è che non voglio guarire. Nossignore. Io nella mia perdizione ci sto da dio, e non ci penso proprio, a farmelo calmare, il mio clitoride, e a farlo tornare (o iniziare?) insieme al mio intelletto, alla ragione. Non serve. È dall’adolescenza che, alle prime note di "Whole Lotta Love", il mio dolce clitoride si gonfia e si contorce felice. Ogni volta. Raggiante. E non è che io non gli dia “tutto l’amore di cui hai bisogno”.

No, no, no, è lui, e io con lui, che della schiavitù dei Led Zeppelin, non vogliamo liberarcene. Ma poi come fai a uscirne se è Jimmy Page, la divinità, che lo dice, “Whole Lotta Love, io l’ho creata perché creasse dipendenza”, e tu, dimmi come si fa a smettere coi pusher lì, pronti, in agguato, con le loro dosi nuove, e che sono i libri, che sui Led Zeppelin si continuano a scrivere? Come quest’ultimo, di Matteo Palombi, luccicante fin dal titolo, "Thank You. I Led Zeppelin canzone per canzone" (Tsunami ed., dal 15/12). Eeeeeh… Mica male. Prende tutte le canzoni degli Zep – tutte!!! – e te le passa pelle a pelle. E sono lusinghe, e palpiti.

Come resistere? "Down Inside/ Woman/ You Need/ Love". Sicuro, io sto qui, arrendevole, e me ne godo lingua sulle labbra. Certo non sono come tante che stanno a pigolare parità. Sai che me ne f*tte. Io credo a altri fotti. Altri fottii. Tipo quello che mi sta inzuppando slip e quasi sedia ora che scrivo. Mi succede perché io do ascolto a Robert Plant: “Spremimi piccola/ fino a quando il succo non mi colerà giù lungo la gamba”. Che è pure tra le mie sevizie sessuali preferite.

E fa niente che Plant a quanto canta non vuole che ingoi, io alla sua “spada dorata” una “sgrullata” (per i non iniziati, lo sto citando verso per verso) non la avrei lesinata, dacché è Plant che strilla orgasmico “Babe!” per 31 volte e sta a dire che te lo spinge dentro, e per 31 volte, sia chiaro. Io Plant lo tradisco e non posso farne a meno col suo (ex) migliore amico, e cioè chi sul palco e nella scrittura gli stava accanto: lui, il padre padrone degli Zep, Jimmy Page. 

Page è la maestosità di chi comanda. È Page che gli Zeppelin li ha ideati plasmandoli di sound diabolico. È Page che “ha portato sulla scena qualcosa che doveva ancora venire”. È Page ad essere “imponente, e provocante, e rivoluzionario, e confronto inevitabile, e punto di non ritorno”. È Page parte della “sacra triade britannica delle sei corde, con Jeff Beck, e Eric Clapton”.

Col dirigibile sempre più in alto, Plant e Page litigano. Perché? Si azzardano ipotesi. La più mefistofelica: per l’esoterismo di Page. Plant ha paura delle fascinazioni di Page, ma Page non c’entra con la maledizione spaventosa che piega gli Zep: Page si fa male alla mano sinistra, Plant si frattura le gambe, Jones si esaurisce di mente, e Bonzo… lasciamo perdere. Stoni di coca, e alcool. Ero. Il dirigibile non sale più. 1977.

Muore il figlioletto di Plant. E Jones e Page non vanno al funerale. Plant li attacca negli ultimi brani Zep: “Ho degli amici/ che non mi daranno un caz*o”. E a Page: “Dov’erano le tue parole? / dov’eri andato? / dov’era il tuo aiuto? / dov’era il tuo arco…”. Poi Bonzo muore a casa di Page. Il dirigibile si schianta al suolo. Era stato più in alto, più di chiunque altro.

Io a chi ostinato mi rompe a musicalmente mettermi appresso a non so chi trapper coi mutandoni sgraziato e al mio clito molesto, il mio vaffa stavolta lo metto per iscritto: io non cambio, non mollo, e ognuno ascolti chi gli pare. Plant non si sarebbe mai lagnato a che una fan gli avesse toccato il pacco!!! Arrivarci… Si ambisca ciò che per gli Zep è la forza ipnotica del Rock “devastante, carnale, oscena”.

Allacciata “al potere rovinante del femminile sull’uomo”. Non è la misoginia Zep, no, è la donna che, nel Rock degli Zep, è “wanton song”, è un’auto, “è caramella e miele”, è “una torta alla crema”: è la donna che morde, che annienta, che ha il dominio. Di distruzione. Totale. Chi è che spreme il limone? Si prenda nota: “Nel letto degli Zep, gli squali non ci sono mai entrati, i limoni sì”.

“Noi Siamo i Vostri Signori”. Out on the tiles. Il martello degli Dei. A cui mi inchino in riverenza incondizionata. È da ineducate non ringraziare chi ti fa ribollire il sangue. Ma qualcuno lo ha visto il bridge? E, in ogni caso, “se c’è qualche plagio, accusate Robert!”.

Barbara Costa per Dagospia domenica 5 novembre 2023.

“Devo essere stata una chi*vata terribile!”, si lagnò Grace Slick dopo essersi fatta "mangiare" la frutta addosso da Jim Morrison, e solo come preliminare. Morrison, "dopo", non la richiamò più, e sebbene io sapessi che si erano rifatti e richi*vati ad Amsterdam, in tour europeo, chi sono io per mettere in dubbio le squisitezze che Stefano Mannucci, il Doctor Mann di Radiofreccia, ha scritto nel suo "Batti Il Tempo. La Musica Nella Storia. La Storia Nella Musica" (Il Castello ed.) ? Si può solo che imparare, da questa sua sontuosa enciclopedia di fatti e dei "fatti" del Rock.

E io ho imparato che Grace Slick, signora dei Jefferson Airplane, non indossava le mutande, e che, sul palco, a richiesta, ne dava "ampia" dimostrazione ai fan. Grace Slick se le è però messe – e tenute – quando è stata invitata a un thè alla Casa Bianca, e lei ci è andata con la ferma intenzione di sciogliere LSD a mo' di dolcificante nella tazza del Presidente Nixon, e col nobile fine di “aprirgli la mente” quindi farlo ragionare a chiudere la guerra in Vietnam.

Peccato che Nixon a quel thè le abbia dato buca! Grace che, oltre le mutande, per la festosa occasione si era scelta come cavaliere Abbie Hoffman, sballatissimo attivista politico che nel 1968 aveva candidato alla Casa Bianca un maiale, Pigasus, e li avevano arrestati. Lui, e pure il maiale. Grace Slick ha un grosso rimpianto, anzi due: non essersi portata a letto l’attore Peter O' Toole, e nemmeno il caz*one (non sta a insulto) di Jimi Hendrix. La sua grande amica Janis Joplin non glielo voleva dire, che lei con Hendrix ci aveva rimediato un assaggio orale… Janis Joplin, da rockstar planetaria, si era adattata a pagarli, gli uomini, per sc*parseli. Lei li spaventava.

In tournée, tappa in New Jersey, Janis mette occhi (e mani) su un 19enne sbarbatello che qualche anno dopo sarà Bruce Springsteen. Gli dice subito che se lo vuole fare, e senza giri di parole. Steve Van Zadt, futuro chitarrista di Springsteen, era lì e… ce lo giura, sono scappati a gambe levate: “Non avete idea di cos’era Janis Joplin, ci metteva paura!!! Era aggressiva e predatrice!”. 

Pore stelle, con Joni Mitchell sarebbe potuta andarvi peggio. La sua angelicità è tutta voce e facciata. Joni s’è portata a letto Leonard Cohen, David Crosby, e Graham Nash, Warren Beatty, David Geffen (mitico produttore), e Sam Shepard in tour con Bob Dylan (che Joni non ha sedotto perché “Dylan non si lava mai i denti!”) e Jackson Browne, e molti altri. Joni Mitchell “rumina boli velenosi su ognuno dei suoi amanti”, e glieli sputa, in pubblico, nei suoi brani, per imputargli violenze (false) contro le donne che hanno amato – e sposato – dopo di lei. 

"The revolution will not be televised", certo, è e sarà su internet, e Steve Jobs, da toy boy, ha avuto un flirt con Joan Baez. Fosse tutto qui. Joan Baez ha fatto sesso nientemeno che con Martin Luther King, uno che da prete lo sapeva, che “al corpo è concesso di desiderare, e il Diavolo ha fattezze da donna”. E alcuni scaltri "fratelli" di King la sapevano più lunga di lui: Charles Mingus ha toccato il record di “23 donne in una notte” e Miles Davis a Parigi si è innamorato, ricambiato, di colei che negli USA non sarebbe stata altro che “la bianca p*ttana del negro”: Juliette Gréco. Poi, vabbè, Davis scordò di dirle che in USA era già sposato, e padre. 

Ike Turner portò Tina “a un bordello di Tijuana la prima notte di nozze”. E Aretha Franklin ha partorito un figlio a 13 anni, e si vociferava che il padre fosse il padre, di lei!!! E solo in punto di morte Aretha ha confessato che il vero padre di suo figlio era un suo coetaneo “conosciuto su una pista di pattinaggio”. E che suo padre, prete, impazziva per le orge etero, a volte gay, e basta.

Al primo marito di Aretha, invece, piaceva esser il maggior p*ppone di Detroit, e picchiare Aretha ogni qualvolta avesse qualcosa in contrario. Al padre dei fratelli Wilson, fondatori dei Beach Boys, mancava un occhio e ha educato i figli obbligandoli a guardarlo fisso senza quello di vetro. È tra i motivi per cui Brian Wilson è scoppiato schizofrenico e hikikomori non diagnosticato…?

"James sc*pamiiiii!", "James f*ttimiiiii!", "ti prego, sono tuaaaaa, fammi tutto quello che vuoiiiii!", erano le grida più pudiche che adolescenti in calore schiamazzavano a James Brown ai concerti. Keith Richards si è spupazzato la figlia di Dean Martin soltanto per vendicarsi di quando Dean Martin in diretta TV ha detto che “i Rolling Stones hanno le pulci”. Che ignoranza: a lavarsi poco, nella storia del Rock, “è stato Frank Zappa”. Ne sanno qualcosa le groupie che vivevano a casa, di lui, con lui, e la di lui moglie.

Ha detto benissimo Bonzo Bonham, batterista dei Led Zeppelin: “È il Rock, amico! Pentirsene adesso non serve a niente!”.

Estratto dell'articolo di movieplayer.it il 20 aprile 2023.

Woody Harrelson e Matthew McConaughey sono noti per la loro grande amicizia e per aver condiviso il set della prima stagione della serie antologica True Detective. In una recente intervista al podcast Let's Talk Off Camera with Kelly Ripa, McConaughey ha rivelato che c'è la possibilità che i due attori siano anche fratelli e sarebbero disposti a fare anche il test del DNA, nonostante ci sia qualche dubbio da parte di Matthew.

Woody Harrelson […] Durante un'intervista al talk show The Late Show With Stephen Colbert, Harrelson ha confermato la possibilità che questa clamorosa notizia sia vera.

"Beh, posso solo dire che c'è una certa veridicità in quella teoria perché abbiamo parlato con Mamma Mac, la madre biologica di Matthew, e una volta ci ha fatto questa rivelazione... voglio dire, è pazzesco", ha detto Harrelson.

"Eravamo in Grecia a guardare la squadra degli Stati Uniti giocare la Coppa del Mondo e non so, ho menzionato qualcosa riguardo ai rimpianti. E ho detto, 'Sai, è strano che mio padre non abbia rimpianti'. E conosco Mamma Mac da molto tempo, e lei ha detto, 'Conoscevo...tuo padre'. Ed è stata la sua pausa dopo quel 'Conoscevo' che ho trovato un po' inquietante, o interessante".

[…] Partiti da questa rivelazione, i due attori hanno iniziato a indagare e hanno scoperto che il padre di Woody Harrelson, uscito di prigione, era tornato a casa durante un periodo di crisi tra i genitori di McConaughey, che poi hanno divorziato. L'ipotesi ha acquisito maggiore plausibilità quando sono emerse delle ricevute di alcune località del Texas in cui i due potrebbero essersi incontrati clandestinamente. 

"Vogliamo fare un test del DNA, ma per lui è molto più complicato", ha continuato Harrelson. "Si sente come se stesse perdendo un padre. Ma io gli ho spiegato, no, stai guadagnando un secondo padre ed un fratello".

Potrebbe essere una coincidenza, o forse no, ma Brother From Another Mother, ovvero, Fratelli da un'altra madre, è il titolo della commedia per Apple TV+ che vedrà Woody Harrelson e Matthew McConaughey riuniti sul piccolo schermo. Nella serie, i due attori daranno vita a personaggi ispirati a loro stessi e condivideranno la casa in un ranch texano con le loro famiglie.

Estratto dell'articolo di Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2023.

 Vivere a casa dei «mostri» conviene. […] È successo nel 2009, con l’attico dell’Upper East Side che appartenne a Bernie Madoff. Dopo l’arresto del finanziere newyorkese […] il governo federale requisì l’appartamento sulla 64esima […] dove Bernie viveva con la moglie Ruth e lo mise sul mercato. Lo comprò Alfred Kahn, il magnate dei giocattoli inventore dei Cabbage Patch Kids[…] «Alfred si preoccupava del karma, ma io adoravo il terrazzo», spiegò al New York Post sua moglie Patsy.

 In un’intervista con la newsletter «Airmail», fondata dall’ex direttore di Vanity Fair Graydon Carter, Kahn ha spiegato che il prezzo era stracciato rispetto al valore delle proprietà in zona. «Pensai che fosse una buona opportunità per guadagnarci». Pagò 8 milioni di dollari nel 2010, il 20% in meno del prezzo richiesto. Dopo la ristrutturazione (e il divorzio) l’ex moglie Patsy lo ha venduto per 14,5 milioni di dollari nel 2014.

Non succede solo a New York. Nel 2020 il cofondatore di Tinder, Justin Mateen, ha comprato la villa di Lori Loughlin a Bel Air per 18 milioni di dollari, quasi a metà prezzo […] dopo che l’attrice […] fu condannata a due mesi di carcere per aver pagato una mazzetta da mezzo milione per fare entrare le figlie in una delle migliori università americane […]

Certo, c’è una certa differenza tra vivere a casa di Madoff […] e crescere una famiglia a casa di Jeffrey Epstein, il miliardario pedofilo che adescò decine di ragazze e abusò di loro nelle sue dimore, prima di morire suicida in carcere.

 Eppure la sua townhouse di 40 stanze sulla 71esima nell’Upper East Side, una delle più grandi di Manhattan, è stata comprata nel 2021 per 51 milioni di dollari (35 milioni in meno del prezzo di listino) dall’australiano Michael Daffey, ex responsabile per i mercati globali di Goldman Sachs che ha fatto una fortuna con Bitcoin e secondo il Daily Mail intendeva viverci con la moglie e i quattro figli dopo aver rimosso ogni traccia del precedente inquilino. La magione di Epstein a Palm Beach in Florida è invece stata acquistata, demolita e rivenduta da un costruttore con grande profitto.

Harvey Weinstein tendeva a usare le camere d’hotel per le sue aggressioni sessuali. […] È di moda purificare la casa «maledetta», bruciando erbe. […]

Barbara Costa per Dagospia il 4 marzo 2023.

Chi di voi ha mai tolto le piattole dal pisello del suo migliore amico? O è gelosissimo della di lui moglie? O lo ha mai baciato in bocca? O salvato dalle pallottole d’un mafioso? Se non avete fatto nessuna di queste azioni, significa che non ne siete innamorati. No, la vostra non è una storia d’amore, come quella che ha legato Dean Martin e Jerry Lewis e, per chi non sa chi questi due sono stati, rimedi: Dean Martin e Jerry Lewis sono stati per 10 anni esatti, dal 24 luglio 1946 al 25 luglio 1956, la coppia di spettacolo che “ha acceso e fatto urlare l’America”. Ci credete che “eravamo più famosi dei Beatles e Elvis messi insieme”? E famosi quando si era tali perché si aveva del talento vero.

Dean Martin e Jerry Lewis, una coppia comica “che dalle risate faceva sdraiare il pubblico” in teatro, davanti alla TV, al cinema. Che quello tra Dean e Jerry sia stato un incontro “tra due che si piacciono, all’istante, e si innamorano”, in un idillio, per poi non parlarsi più, pur lavorando in coppia, e fino a odiarsi, e tradirsi, lasciarsi, facendosi male, è quanto sincero fino in fondo confessa Jerry Lewis nel suo "Dean & Me. Una storia d’amore" (Sagoma, nuova ed.).

Io ve lo dico: se cercate qualche verità sull’amore, la trovate qua. Sull’amore tra due uomini eterosessuali. La chimica è chimica. Dean e Jerry si adorano, ma tra loro non v’è amore fisico, vi son baci in bocca (di scena) e passione, per lo spettacolo, e per ciò che insieme sanno e riescono a fare, che li consuma dal primo sguardo e per la vita. Quando Dean e Jerry si conoscono, a Manhattan, hanno 28 e 19 anni. Lavoricchiano, come cantante Dean, come comico da strapazzo Jerry. E sono entrambi sposati, con un figlio Jerry, e ben 3 Dean. E s’innamorano. Umanamente. Professionalmente.

Non riescono a stare l’uno senza l’altro, “con una mano mi respingeva, con l’altra mi tirava a sé”, si rincorrono data dopo data, fino a unire forze e vite in una coppia comica demenziale che, improvvisando, spancia platee via via più vaste, espugnando Hollywood, e da lì… il mondo! Un amore dipanante nella forma di fratelli, complici, confidenti intimi.

Dean e Jerry vivono insieme 10 mesi su 12. 10 mesi in cui condividono stanze d’hotel, fife, sfoghi, ire, respiri, ansie, e capi mafia (frequentano i Gambino, i Costello, i Giancana, i Siegel, i Fischetti, i padroni della Chicago post Capone, perché senza "gli amici" nel settore non ci stai, sono loro i padroni dei circuiti dove ti esibisci, e mica puoi dir no se ti invitano ai loro matrimoni, e mica puoi parlarne male: “È gente di parola, seri galantuomini”, scrive Jerry Lewis, “meno ipocrita della maggior parte dei politici. Se hai bisogno, ti aiutano…” E chi ne dubita!?).

Dean e Jerry vivono avventure da scapoli: “Qual è un posto in cui sc*pare in pace in questa città?”, è l’idea fissa di Dean Martin in tournée. Ai tempi andava che “un vero uomo ha moglie e figli, e tutto ciò che riesce a rimorchiare”. E le consorti a casa son complici di questo andazzo. Basta essere discreti, cornificarle senza umiliarle. Senza che le prove spuntino sui giornali.

 Sbadataggine che Dean e Jerry "pagano" una volta quando, con due svalvolate, si danno ai sesso bagordi in giro per New York. Sia all’inizio quando sono nessuno che da mega star di Hollywood, Dean e Jerry in coppia sessualmente bisbocciano, e con attrici e cantanti e showgirl anche loro per lo più sposate e con prole. Così andavano le cose nei lontani '50, non tanto diversi da oggi, non vi pare? E appunto, come oggi, e come sarà sempre: quand’è che inizia la fine? Dean e Jerry iniziano ad allontanarsi quando arriva il successo quello clamoroso, che li assale con orde di fan urlanti.

È un crescendo silenzioso di rancore e non detto che isola Dean da Jerry perché è Jerry l’unico apprezzato dalla critica, qualsiasi cosa facciano. Jerry è la mente, il genio, quello bravo, Dean il belloccio, con una bella voce, la spalla. Jerry è l’insostituibile, Dean è intercambiabile. Queste le recensioni. Per 10 anni!!! Tant’è che, quando si separano, i media decretano la caduta di Dean Martin e l’ascesa di Jerry Lewis.

Però, quando si lasciano, dopo aver mai litigato una volta, ma accoltellandosi sui giornali, in astioso silenzio se faccia a faccia… che succede? Che dopo il flop del primo film solista, Dean Martin diventa cantante e showman e attore di grido lavorando con Brando, Montgomery Clift, John Wayne (e ne sto dimenticando), mentre Jerry Lewis… dopo i primi botti, cade nella tossicodipendenza da Percodan, fino a puntarsi una pistola carica in bocca. Ma non si spara.

 Dean Martin e Jerry Lewis si perdono per 20 anni. È Frank Sinatra, amicissimo dei due (il quale però al divorzio tra Dean e Jerry sceglie Dean, facendolo entrare nel suo "Rat Pack", gruppo di cantanti, attori, adorabili mascalzoni, e grande è la gelosia di Jerry, che l’aveva capito, subito!, che Dean lo avrebbe tradito con Frank, che Dean si era innamorato di Frank “quel wop cocco di mamma!” e wop sta per "italiano" e sta a insulto come "nigger" sta a "negro", ma tra questi uomini sono affettuosi complimenti: capito, conformisti più cancel-culturisti?).

Frank Sinatra che, nel 1976, in diretta TV, fa riabbracciare Dean Martin e Jerry Lewis. E tra i due la storia d’amore rinasce, esclusivamente telefonica – ed è sempre Jerry a chiamare – fino alla morte di Dean, il giorno di Natale 1995. E per i seguenti 22 anni, fino a che Jerry muore, Jerry sogna Dean, almeno una volta al mese, “e urlo nel sonno”.

La vita procede secondo regole misteriose. La vita è troppo breve. Tutto finisce sicché, a chi volete bene, diteglielo. Dean Martin ha detto a Jerry Lewis “ti voglio bene” una volta sola, festeggiava 72 anni, e torta e festa gliele aveva pagate Jerry. Dean che a Jerry mai ha fatto un regalo. Jerry che a Dean l’ha soffocato, di regali, e da quando non avevano un soldo bucato. Non ci si innamora né si ama allo stesso modo. Mai. Non lo fa nemmeno il pubblico che “è una giungla, di animali, e sente la paura: in un secondo può rivoltartisi contro”. E cambiare canale.

Estratto dell'articolo di Eugenia Nicolosi per alfemminile.com il 29 gennaio 2023.

Il concetto di famiglia si evolve

Al netto delle accuse reciproche e delle angherie che si sono scambiati negli ultimi anni, la coppia formata da Woody Allen e Mia Farrow è nota, oltre che per i successi di entrambi, per aver scelto di non convivere: negli oltre vent'anni di unione i due intellettuali e artisti hanno vissuto in due appartamenti separati, niente di meno che, dal gigantesco Central Park, diventando così pionieri delle coppie “Lat”, acronimo di “Living apart together” ovvero una coppia non convivente.

 Sono gli unici? No, anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre vivevano separati. E non sono nemmeno da considerare mosche bianche. Le famiglie aristocratiche, dalle famiglie reali in giù, non hanno mai condiviso gli appartamenti che pure si trovavano all'interno dello stesso palazzo, o castello. Da Versailles alle reggie italiane, re e regine avevano due residenze separate che si trovavano in due ali distinte dell'edificio.

 (…)

Una relazione Lat è quella vissuta da una coppia dello stesso sesso o del sesso opposto che sta insieme e che fa tutto insieme tranne che condividere la stessa casa: la dimensione di coppia è comunque rispettata e trattata allo stesso modo delle coppie sposate o delle conviventi di fatto nonostante le due persone costituiscano due nuclei familiari separati. A volte in questi nuclei in cui possono esistere altre persone, come bambini avuti da precedenti unioni, fratelli, sorelle o genitori. Una ricerca diffusa dalla StatLine (come l'Istat, però dei Paesi Bassi) rivela che quattro donne su dieci preferiscono avere una relazione così piuttosto che fare parte di una coppia convivente, e sono il doppio degli uomini che invece preferirebbero la stabilità di una convivenza.

 (…)

I motivi dietro la voglia di non convivere

Ma, quali sono i motivi per cui le coppie scelgono di trovare nuovi modi per stare insieme? In primo luogo come detto, ci sono coppie che vivono lontane in quanto hanno un lavoro in città diverse e lasciare un buon lavoro per accettarne uno mediocre oggi come oggi è rischioso. Molte di queste coppie non vedono l'ora che arrivi il momento in cui uno di loro andrà in pensione per poter andare finalmente a vivere insieme.

 Tuttavia, ci sono quelle coppie che vivono nella stessa città ma che hanno in casa figli nati dalla precedente relazione e che non desiderano costruire una famiglia allargata. In alcuni casi è un supposto benessere dei bambini che viene posto prima delle esigenze e dei desideri personali del genitore. Altre coppie si trovano in situazioni simili a questa per via della convivenza con genitori anziani di cui prendersi cura non possono, quindi, o non desiderano, trasferirsi altrove.

Una terza motivazione a non convivere è l'aver avuto brutte esperienze nella precedente convivenza e il desiderio di non commettere lo stesso errore (ci sono persone che semplicemente non vogliono convivere con nessuno ma non lo sanno finché non provano). Infine, ci sono coppie di persone che hanno vissuto insieme per decenni e che quando si trovano in pensione potrebbero dividersi a causa della volontà di uno dei due di andare a stare vicino ai figli o ai nipoti. E l'altro invece resta dov'era.

 Comunque sia sono esempi: non è necessario trovare una spiegazione al perché una coppia decide di vivere in case separate.

 Coppie famose che non sono conviventi

Si dice che la distanza alimenti i fuochi più forti e spenga le scintille, la pensano forse così alcune coppie famose che hanno scelto di non convivere pur avendo figli insieme ed essendo regolarmente “coniugi” grazie a matrimoni da copione.

Partiamo da Gwyneth Paltrow che sebbene sia sposata con il suo secondo marito, il produttore Brad Falchuk, da settembre del 2018, la coppia ha scelto consapevolmente di non convivere per tutto il primo anno di matrimonio. In un'intervista del 2019 sul The Times, Paltrow ha spiegato che la coppia ha trascorso quattro notti a settimana insieme, trascorrendo le restanti tre nelle loro rispettive case con i loro rispettivi figli nati dai precedenti matrimoni.

 La ex Posh Spice Vittoria e il calciatore David Beckham non vivono esattamente in residenze separate ma hanno due separate “ali” di una stessa gigantesca villa nell'Oxfordshire (come le famiglie reali). Julia Roberts e Danny Moder sono sposati da 16 anni ma la star di Pretty Woman e il direttore della fotografia non condividono le ville: a quanto pare Moder trascorre gran parte del suo tempo in una villa da 9 milioni di dollari di fronte alla casa di Roberts.

L'attrice Helena Bonham Carter e il regista Tim Burton hanno vissuto a lati separati di una enorme proprietà per tutti e 13 gli anni del loro matrimonio, "ci vediamo tanto quanto qualsiasi altra coppia ma la nostra relazione è migliorata da quando abbiamo scelto di avere uno spazio personale in cui ritirarci" ha detto l'attrice al The Telegraph

Hollywood regina del cinema: ecco quali Paesi producono più film ogni anno. Gli Stati Uniti sono irraggiungibili: l'anno scorso sono state prodotte 1.362 pellicole. Sul podio due nazioni europee. Gianluca Lo Nostro il 5 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Nonostante sia stata scossa dal recente sciopero di attori e sceneggiatori che ha paralizzato l'intera industria per buona parte del 2023, Hollywood rimane ancora la regina del cinema. D'altronde che la cinematografia, perlomeno quella mainstream, fosse americanocentrica non era certo un mistero. Gli Stati Uniti sono il primo Paese al mondo per numero di film realizzati ogni anno. Nel 2022, negli Usa sono state pubblicate 1.362 pellicole. Le produzioni americane sono quelle non solo più consolidate, ma che possono contare su una disponibilità economica che all'estero non c'è.

Al secondo posto si colloca la Francia, ma la distanza con Hollywood è siderale: lo scorso anno la nazione transalpina ha prodotto 395 film in tutto. Il cinema francese è sempre stato uno dei più attivi fuori dagli Stati Uniti, sia per quanto riguarda le commedie che per i film drammatici, d'autore e i documentari, grazie ai suoi registi e attori di fama internazionale come Roman Polanski, Jean Reno e Vincent Cassel.

Chiude il podio il Regno Unito, dove hanno visto la luce 295 tra lungometraggi e cortometraggi. I film britannici sono talvolta frutto di uno sforzo congiunto e parte di una produzione più ampia allargata ad altri Paesi: basti pensare alle opere di Christopher Nolan, celebre cineasta inglese abituato ormai a fare la spola tra Londra e l'America per i suoi lavori internazionali.

In quarta posizione, con 287 film, c'è poi l'India, patria di "Bollywood", genere spiccatamente indiano di stampo commerciale e con sede a Mumbai.

L'Italia chiude la parte alta della classifica con 199 produzioni soltanto nel 2022, un numero che si è confermato nel tempo. La maggioranza di queste vengono girate a Roma o comunque nel Lazio, nei set di Cinecittà. La Capitale ospita i principali studi televisivi e cinematografici italiani, attirando così tutti i talenti in cerca di successo dietro e davanti alla macchina da presa provenienti dalle altre regioni dello Stivale. Gianluca Lo Nostro

Elvira Notari, la storia sconosciuta della regina di Napoli che ha inventato il cinema italiano. L’affermazione in un mondo di uomini, il trionfo, la censura fascista. La vita della prima regista del muto, ha ispirato il romanzo “La figlia del Vesuvio” di Emanuele Coen. Stefania Auci su L'Espresso il 13 settembre 2023

Nella vita ci sono dei lampi, istanti che fanno vedere altri mondi, altre prospettive, altre vite. Ricordo ancora il lampo che, qualche anno fa, si accese nella mia mente quando la mia editor Cristina Prasso, appassionata di cinema delle origini, mi parlò di una regista a me del tutto ignota, Elvira Notari. Vidi – in un istante, appunto – una di quelle donne forti, coraggiose e innovative che troppo spesso sono trascurate o dimenticate, non soltanto perché gli uomini hanno sempre rubato loro la scena, ma anche perché quelle donne hanno seminato tanto, diffusamente, e noi adesso vediamo gli alberi e i frutti del loro lavoro, senza più pensare a quanto sono profonde le radici. Purtroppo, però, quel lampo si era spento subito, sostituito da altri personaggi e altre storie. Chi vive d'immaginazione non può seguire ogni voce: diventerebbe pazzo. E anche così non è che sia facile mantenere almeno una parvenza di equilibrio. 

Ringrazio quindi di cuore Emanuele Coen perché, con il suo romanzo «La figlia del Vesuvio» (Sem) è riuscito a riaccendere quel lampo e a trattenerlo, illuminando così con mano ferma e sensibile la straordinaria vita di Elvira Notari, la prima regista italiana e una delle prime a livello mondiale, accanto alla pioniera Alice Guy-Blaché, la segretaria di Leon Gaumont che creò, in America, nel 1910, una casa di produzione tutta sua. Una vita che comincia in sordina, com’è destino per quasi tutte le donne di fine Ottocento (Elvira nasce nel febbraio 1875): figlia di un rappresentante di commercio e di una casalinga, Elvira Coda trascorre l'adolescenza a Salerno, ma poi è costretta a trasferirsi a Napoli per seguire il padre e, dopo un primo momento di sconforto, scopre la bellezza abbagliante, sontuosa e tragica di quella città: se ne innamora, insomma, la vuole, in un certo senso, possedere. E, in un modo tutto suo (e molto moderno), ci riesce: il marito Nicola Notari – sposato a 27 anni, nel 1902 – è un pittore di scarso successo, ma si fa apprezzare come colorista prima di fotografie e poi di film (all'epoca, le pellicole vengono colorate a mano, fotogramma per fotogramma) e lei lo aiuta, sfruttando quelle doti di precisione e di caparbietà che la caratterizzano (nel bene e nel male). 

Si chiama Dora Film – Edoardo, Dora e Maria sono i loro tre figli – la casa di produzione che è il coronamento di quella meticolosa analisi visiva della realtà, il primo, decisivo passo non soltanto verso la conquista dell'immagine di Napoli, ma anche del suo cuore e delle sue contraddizioni. Da un lato, infatti, la Dora Film annuncia, orgogliosa, nelle sue pubblicità, che i suoi film (anzi: “le sue films”, come si diceva allora) sono “dal vero” e mostrano fatti “in real time” (come si direbbe oggi): per esempio, nel 1912, durante la guerra di Libia, propone la “Guerra italo-turca tra scugnizzi napoletani”, nata dall’osservazione fortuita di una violenta baruffa tra due bande di ragazzini che, appunto, giocavano alla guerra... tirando pietre anche all'indirizzo di Nicola Notari che filmava la scena. Dall'altro, però, a partire dal 1915, c'è ben di più: proprio come Alice Guy-Blaché aveva già intuito, nel 1896, le infinite possibilità di coinvolgimento della narrazione cinematografica in rapporto alla “semplice” registrazione della realtà, così Elvira attinge a piene mani all'immaginario che scorre sicuramente nelle vene di Napoli ma anche dell'Italia intera, anche se si tende a dimenticarlo in favore della cultura “alta”. Ed è proprio qui che il romanzo di Coen si accende ancora di più e coglie con elegante, essenziale, precisa vivacità luci e ombre della sua protagonista. Cosa non facile perché la personalità e la storia di Elvira Notari sono una continua sorpresa. 

C'è la donna «di casa», che coinvolge l'intera famiglia nell'avventura della Dora Film (il figlio Edoardo avrà un particolare – per quanto effimero – successo in una serie di film nel ruolo dello scugnizzo Gennariello); c'è la donna d'affari che intuisce la potenza emotiva e commerciale dei romanzi d'appendice (lettrice di Carolina Invernizio e di Matilde Serao, porterà sullo schermo il romanzo “Raffaella o i misteri del vecchio mercato” – con il titolo “Il nano rosso” – della prima e cercherà inutilmente di convincere la seconda a cederle i diritti di “Sterminator Vesevo”, il diario dell'eruzione del Vesuvio dell'aprile 1906) e delle canzoni popolari, soprattutto quelle del Festival di Piedigrotta (“‘A Santanotte” e “Piccerella”, entrambi del 1922, e “Fantasia ‘e surdate”, del 1927, gli unici suoi tre film completi rimasti), di cui acquista i diritti, elabora un soggetto in armonia con il testo e poi presenta il film con la canzone “in sincrono”; c'è la regista severissima (soprannominata “il generale” o “la marescialla”), ma dall'occhio infallibile per individuare angoli e scorci di quella che è ormai la sua Napoli, per riprenderli con efficacia e per far recitare gli attori – spesso presi dalla strada – con la massima spontaneità possibile (all'interno della Dora Film nasce anche una scuola di recitazione); c'è la donna che osserva e racconta con tutta la schiettezza e tutti gli eccessi del melodramma (della sceneggiata) il destino del corpo femminile, il suo uso e abuso, come si ribella e come si piega ai desideri maschili: un discorso complesso, approfondito da Giuliana Bruno nel suo fondamentale saggio dedicato proprio a Notari, “Rovine con vista”… 

E il successo, per Elvira e per la sua casa di produzione, arriva. È un successo travolgente, segnato addirittura da esplosioni di isterismo collettivo, come in occasione della prima del film “A’ legge”, tratto da due canzoni di Pacifico Vento, con la Galleria Vittorio Emanuele debordante di persone in fremente attesa. Un successo che valica addirittura l'oceano, con la creazione della Dora Film d'America, con le pellicole che viaggiano per nave insieme con i cantanti che devono “interpretare” il film e i numerosi emigranti italiani a New York che si struggono nel vedere immagini così vere della patria e ad ascoltare le sue canzoni. 

Ma poi arriva anche il declino. È sempre arduo raccontare i momenti tragici nella vita di un personaggio senza dimostrare troppa pietà o senza, al contrario, sminuirlo, ma anche qui lo stile asciutto e controllato di Coen riesce a comunicare tutta la dignità e la comprensione che Elvira Notari merita. Il complesso succedersi di colpi sferrati alla sua attività – dalla censura che si accanisce non soltanto per i numerosi sottintesi sessuali dei film, ma addirittura perché le didascalie, essendo in dialetto, non sono in “corretta lingua italiana”, all'avvento del sonoro che rivoluziona l'apparato tecnico della produzione e dei teatri – induce a pensare che non sia tanto Notari che si allontana dal cinema, ma viceversa. Come un figlio ormai cresciuto che abbandona la casa materna e si avvia verso un destino magari non radioso, ma affascinante. A me, invece, dopo aver letto questo romanzo, è venuta voglia di rimanere lì, accanto a Elvira, e ascoltare ancora una volta la sua storia. Perché le radici, quando sono così ben raccontate, sono anche più belle degli alberi e dei loro frutti.

Estratto dell'articolo di Paola Jacobbi per "Il Venerdì di Repubblica" sabato 9 settembre 2023.  

A diciassette anni appena compiuti Dante Spinotti si trovava in volo su un DC 8 semivuoto diretto a Nairobi. […] Oggi Spinotti ha appena compiuto 80 anni e qualche mese fa ha finito di girare un film, il settantacinquesimo, di cui è protagonista il suo coetaneo Robert De Niro: Wise Guys, la regia è di Barry Levinson e uscirà l'anno prossimo.

In mezzo, […] c'è una vita avventurosa come direttore della fotografia che ha lavorato al fianco di tanti autori del cinema italiano e internazionale. Due volte candidato all'Oscar (nel 1998 per L.A Confidential e nel 2000 per Insider – Dentro la verità), Spinotti pubblica ora la sua autobiografia. Si intitola Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta (La nave di Teseo) e l'ha scritta con Nicola Lucchi.

[…]

A Hollywood lei si fece la fama di quello che rendeva belle le attrici. Sono davvero così vanitose come si pensa?

«Più che vanitose, sono insicure. Ho avuto un'esperienza semitraumatica con Barbra Streisand. Simpaticissima e generosa nella vita ma quando è ripresa, diventa di un'insicurezza pestifera e fastidiosa. Il set di L'amore ha due facce, film di cui lei era protagonista e regista, è l'unico che io abbia lasciato in vita mia. Era impossibile. Un giorno girammo una scena in un ristorante con lei e Jeff Bridges. Per tutto il giorno pretese solo suoi primi piani.

 Rimase un'ultima mezz'ora per fare un campo largo di tutto l'ambiente e il controcampo sul povero Jeff. In più, la truccatrice di Barbra stava continuamente appiccicata al mio monitor e diceva la sua su luci, ombre, inquadrature. Insopportabile. Quando le dissi che me ne andavo, Barbra cercò di minimizzare: "Quello tra regista e direttore della fotografia è come un matrimonio, si litiga e poi si fa la pace". Le risposi: "Nei matrimoni si divorzia, anche"».

È andata meglio con Michelle Pfeiffer.

«Lei è stupenda. La prima volta che ci siamo incontrati era per il film Paura d'amare. Mi chiese di non farla troppo bella perché il ruolo era quello di una ragazza semplice che lavora in una tavola calda, sempre un po' spettinata e stanca. Molti anni dopo ci siamo ritrovati sul set di Ant Man and the Wasp e le ho chiesto "Vuoi sempre che non ti faccia troppo bella?". Lei ha riso e ha risposto: "No, anzi. Stavolta se puoi ringiovaniscimi un po'". Poi mi ha dato un bacino a fior di labbra».

Quindi il direttore della fotografia è una specie di seduttore?

«No, non in quel senso! Però per le attrici è una figura essenziale, infatti ai tempi dello studio system, ogni grande diva aveva, da contratto, un direttore della fotografia personale. Comunque, ammetto che certe volte, nel mio entusiasmo creativo, guardavo attraverso il mirino queste donne bellissime e dentro di me pensavo: "Avrai anche un marito, un fidanzato o un amante ma in questo esatto momento, sei mia". […]». 

E gli attori maschi sono insicuri come le donne?

«Dipende. Russell Crowe lo è. Un caso patologico. Ha sempre paura di non essere ripreso e valorizzato abbastanza. Altri non fanno una piega, almeno apparentemente. Si affidano alle scelte del regista e del direttore della fotografia».

[…] Tra i grandi registi italiani che ha conosciuto bene c'è stato Ermanno Olmi. Come fu la lavorazione della Leggenda del santo bevitore?

«Bella ma complicata. Il protagonista era Rutger Hauer, il quale aveva deciso di non stare in albergo con la troupe, ma di alloggiare nella propria roulotte parcheggiata in giro per Parigi. In più, lui e Ermanno faticavano a comunicare, perché Olmi non parlava una parola d'inglese. Quindi, ogni tanto gli urlava in bergamasco: "Rudighe! Ostia!"».

Avete voluto lo streaming? La faccia è mia e me la gestisco io, e altre rimostranze hollywoodiane. Guia Soncini su L'Inkiesta sabato 15 luglio 2023.

Le star protestano perché i produttori vogliono scansionare l’immagine degli attori per poterla riusare all’infinito, senza consenso e senza compenso. Sull’evoluzione dell’intrattenimento urge imparare le lezioni di Robert Altman e di Black Mirror, ma anche quella di Pippo Baudo

«È un concetto interessante, quello di eliminare gli scrittori dal processo artistico. Se troviamo il modo di liberarci anche di attori e registi, forse si inizia a ragionare». Lo diceva, trentun anni fa, il produttore interpretato da Tim Robbins nel più favoloso film di Altman, “I protagonisti”.

Era lo stesso film in cui, alcuni decenni prima dei social e degli slogan politici che stanno nella misura d’un tweet, gli scrittori potevano prosperare o perire a seconda della loro capacità di convincere i produttori della buona idea d’un film nel tempo necessario ad andare da un piano all’altro in ascensore. Non vorrei ripetere tutti i giorni che le opere di fantasia, qualora siano opere di genio, funzionano da editoriali meglio degli editoriali e da saggistica meglio della saggistica, quindi facciamo finta che non l’abbia rimarcato.

Tra i miei primi lavori ci furono alcuni irrilevanti programmi televisivi che firmavo come autrice. Non avevo io per prima contezza di che lavoro fosse fare l’autrice televisiva: avevo venti e poco più anni, e l’idea romantica, mutuata appunto dai film americani, che gli autori (che lì sono appunto writer, come gli sceneggiatori dei film e i romanzieri: gente che scrive) scrivessero quel che i conduttori dovevano dire.

Come funziona in Italia – dove l’autore televisivo è la dama di compagnia del conduttore nel migliore dei casi e della moglie del conduttore nei peggiori – s’incaricò di svelarmelo la vita servendosi d’una soubrette non amabilissima, che una sera in camerino alzò un sopracciglio e mi disse: «Tu pensi di poter dire a me cosa devo fare? Tu devi stare un po’ con Baudo, per vedere come tratta gli autori». (Pensai: magari, con Baudo, almeno imparerei un mestiere. Lo penso ancora).

Ma quel che m’importa raccontare qui è un altro dettaglio di quegli anni, cioè la conversazione sempre uguale «Che lavoro fai?» «L’autrice televisiva» «E cosa significa?». Seguiva spiegazione del fatto che, quando la valletta leggeva la telepromozione dal gobbo, il gobbo l’avevo scritto io (con tutto quello che avevano speso per farmi studiare). Seguiva stuporone perché, scoprii in quegli anni, il pubblico medio è convinto che il mondo dello spettacolo sia fatto di gente che entra in scena e dice un po’ quel che le viene in mente.

Tutto questo preambolo per dire che lo sciopero americano di cui scrivevo dieci settimane fa si è finalmente fatto interessante. Mentre gli sceneggiatori continuavano a picchettare nell’indifferenza del grande pubblico (di quello americano, per non dire di quello italiano, che non ha mai ben capito che differenza ci sia tra sceneggiatore e scenografo), è scaduto il contratto collettivo degli attori, i loro sindacalisti sono andati a trattare uscendone con poche pive e molto sacco, e da oggi sono in sciopero anche loro. (Alla prima londinese di “Oppenheimer”, Matt Damon ha detto che, se fosse scattato uno sciopero, il cast si sarebbe ritirato dalla promozione del film: quindi niente più foto dalle prime di Barbie e filmati di Tom Cruise che racconta nei talk-show come s’è lanciato in moto dal dirupo?).

Avevo detto di non voler ripetere tutti i giorni la stessa storia della vita che imita l’arte e l’arte che spiega la cronaca meglio di coloro preposti a spiegarla, quindi ora mi limito a trascrivervi la dichiarazione del portavoce del sindacato degli attori, uscito dalla trattativa. «Hanno proposto che gli attori non in primo piano vengano scansionati, prendano un giorno di paga, e poi la produzione sarà proprietaria della scansione, della loro immagine, e potrà usarla per il resto dell’eternità in ogni progetto che voglia, senza consenso e senza compenso».

Ho promesso di non trarre io la conclusione, quindi mi metto comoda e aspetto che vi accorgiate da soli che l’altroieri i produttori americani hanno proposto al sindacato degli attori il sistema che Charlie Brooker ha ideato per “Joan is awful”, la prima puntata della stagione di “Black Mirror” uscita due mesi fa. Nell’epoca che consuma tutto a bocconcini, immagino che sui social stia già girando (o comincerà presto a girare), come commento all’attualità, la scena in cui Salma Hayek s’incazza tantissimo perché stanno usando la sua immagine per un progetto che le fa schifo, e chi se ne importa se gli ho ceduto i diritti, mica potevo prevedere che finisse così.

Charlie Brooker ha sì inventato un colosso dello streaming che crea un’intera serie con la scansione di un’attrice famosa, ma non la pratica, che raccontano sia già in uso per esempio per le scene di massa nei film di supereroi: la Marvel ti scansiona così può aggiungerti in altre scene senza bisogno di farti girare di nuovo, e ciò che ha scansionato – cioè: tu – è perpetuamente suo.

È, tra l’altro, dopo mesi di inutili articoli paranoici sull’intelligenza artificiale che ci sostituirà tutti e i lavori d’ingegno non esisteranno più, il primo esempio concreto del modo in cui si potranno distruggere posti di lavoro con l’aiuto dell’intelligenza artificiale: non per i lavori d’ingegno, ma per quelli d’immagine (sì, lo so che pensate che fare l’attore sia un lavoro d’ingegno: è perché non avete abbastanza ingegno da capire quando non serve averne).

L’eroina di giovedì era Fran Drescher, che con Fran Fine (ebrea di Queens, nell’adattamento italiano Francesca Cacace, ciociara) ha allevato a fine Novecento intere generazioni di femmine frivole e maschi omosessuali. A novembre “La tata” compie trent’anni: andava in onda quando la tv era una cosa che guardavamo tutti assieme e che guardavamo in tv, il che permetteva ai produttori di guadagnarci moltissimo e quindi a sceneggiatori e attori di guadagnare benone.

Adesso non è più così. La parabola è stata la stessa dei giornali: a distanza di qualche anno, i produttori cinematografici come già gli editori si sono fatti truffare dalle nuove tecnologie, terrorizzati di perdere chissà quale treno, e hanno deciso di spostare il loro giro d’affari da posti che permettevano loro di guadagnare (le sale cinematografiche, le edicole) a un posto che nessuno ha ancora capito come diavolo monetizzare (l’internet).

Adesso Fran Drescher è a capo del sindacato degli attori (l’ultima volta che il Sag aveva scioperato, il suo presidente era un certo Ronald Reagan), e ha fatto un discorso che quelli che non sanno parlare definirebbero “virale”. Ha tentato di procurarsi empatia da chi fa lavori normali e pensa che un attore di Hollywood sia comunque un privilegiato dicendo che alle multinazionali «importa più di Wall Street che di voi».

Sugli americani ha fatto moltissimo colpo: la riterrebbero l’erede di Di Vittorio, se solo sapessero che è esistito Di Vittorio. Nel paese più impreparato sul tema dei diritti dei lavoratori, lo scandalo di qualche giorno fa era un articolo di Deadline che riferiva come lo scopo dei produttori sia non concedere nulla agli sceneggiatori finché, dopo mesi che non lavorano, non sapranno più come pagare il mutuo e cederanno. I commentatori americani trasecolavano per la perfidia come può fare solo gente che non sa chi fosse Margaret Thatcher e come andò coi minatori.

Drescher eroina dei lavoratori arriva pochi giorni dopo Drescher responsabile d’alto tradimento, giacché l’internet è perentoria ma è anche afflitta da disturbo della memoria a breve termine. Lunedì, Kim Kardashian ha instagrammato una foto di lei e Fran Drescher alla sfilata di Dolce e Gabbana. L’internet, un posto dove anche la gente che di lavoro dovrebbe capire il mondo diventa stolida, si era indignata. Taffy Brodesser-Akner aveva twittato che il fatto che la presidente del sindacato degli attori, tre giorni prima della scadenza del contratto nazionale, fosse a una sfilata in Italia andava interpretato come uno sprezzante «che mangino brioche». Evidentemente convinta, Taffy, che in Europa si vada ancora in nave e che quindi Drescher non fosse in grado d’essere ad Alberobello di domenica e a Los Angeles di mercoledì.

Giovedì, nella conferenza stampa che annunciava la fine delle trattative e lo sciopero, alla Drescher è toccato spiegare ai giornalisti – gente il cui mestiere consiste ormai nel riportare lo sdegno social come fosse meritevole di risposta – che per un’attrice andare a una sfilata è un lavoro: «Ero lì a camminare coi tacchi sui sanpietrini».

Adesso che lo sciopero è di facce famose, al pubblico importerà, o comunque non ci accorgeremo di niente finché non inizieremo a non avere più roba nuova da guardare, nella bulimia da streaming? Considerato che per svuotare i magazzini dai film e dalle serie già pronte ci vorrà almeno un semestre, quante volte i mutui hollywoodiani dovranno nel frattempo venire congelati?

Forse si può fare qualcosa per far guadagnare decentemente i lavoratori dello spettacolo in tempi di piattaforme semigratuite che producono più di ciò su cui è possibile guadagnare e anche più di ciò che abbia senso guardare.

Non molto si può fare per l’instupidimento di un’epoca piena di piattaforme sulle quali guardare ogni settimana nuove produzioni mediocri e ridondanti, ma su nessuna delle quali è possibile guardare “I protagonisti”.

Sciopero a Hollywood: star e autori spengono la fabbrica dei sogni. Storia di Marco Liconti l'8 Luglio 2023 su Il Giornale.

Su Hollywood si è scatenata la Tempesta Perfetta. Allo sciopero degli 11mila sceneggiatori della Writers Guild of America, iniziato a maggio e senza soluzioni in vista, si è aggiunto quello degli attori. Il tutto, in un contesto finanziario in cui studios e piattaforme streaming, cresciuti più di quanto il mercato potesse assorbire, da mesi si trovano alle prese con tagli di costi e personale e ridimensionamento delle produzioni. Il Sag-Aftra, il sindacato che in America rappresenta 160mila attori ha deciso di paralizzare la Mecca del cinema, dopo che mercoledì si sono interrotte senza un accordo le trattative per il rinnovo del contratto collettivo.

Già il mese scorso, in vista dello scontro, il 98% degli iscritti aveva votato a favore della serrata. Ironia della sorte, l'annuncio della serrata è giunto all'indomani di quello delle candidature agli Emmy, l'Oscar della tv: in testa Succession e The last of us, entrambi show targati Hbo. «Le aziende si sono rifiutate di impegnarsi in modo significativo su alcuni argomenti e su altri ci hanno completamente ostacolato. Fino a quando non negozieranno in buona fede, non possiamo pensare di raggiungere un accordo», ha dichiarato Fran Drescher, la star di The Nanny, presidente del sindacato.

L'ultima volta che sceneggiatori e attori scioperarono insieme fu nel 1960. Leader del sindacato dei performer era all'epoca Ronald Reagan. Al 1980, l'anno in cui Reagan vinse la Casa Bianca, risale invece l'ultimo sciopero dei soli attori. Portavoce del sindacato era Ed Asner, il mitico «Lou Grant» dell'omonima serie tv. Anche allora, a scatenare la protesta fu uno un inflection point, una cambiamento epocale dell'industria: l'avvento delle videocassette e la richiesta degli attori di ricevere una quota delle royalties dalle vendite dei vari Betamax e Vhs (i Dvd sarebbero arrivati decenni dopo). Stavolta, come nel caso degli sceneggiatori, la rivoluzione è lo streaming, che ha modificato le modalità di fruizione di film e serie tv, e dall'intelligenza artificiale, che minaccia in un futuro abbastanza prossimo di sostituire (almeno in parte) l'elemento umano.

Volti dello sciopero sono nomi di peso, come Meryl Streep e Jennifer Lawrence, prime firmatarie di una lettera che ha poi avuto migliaia di adesioni, nella quale hanno chiesto alla leadership del sindacato di adottare una linea dura con la controparte, la Alliance of Motion Picture and Television Producers (Amptp), la stessa degli sceneggiatori. Secondo gli attori, all'enorme aumento delle produzioni giunto con l'avvento dello streaming, laddove un tempo i canali di fruizione erano limitati alle sale, ai grandi network e all'home video, non ha coinciso un analogo aumento dei compensi, rimasti al palo - ed è chiaro che qui si parla della massa, non certo delle superstar. Inoltre, gli attori reclamano la loro fetta di royalties dalle repliche dei loro show, riproducibili all'infinito grazie ai nuovi sistemi. L'Amptp, che rappresenta colossi come Amazon, Apple, Cbs, Disney, Nbc Universal, Netflix, Paramount, Sony e Warner Bros. Discovery, ha per ora fatto muro.

Altro motivo di scontro è quello dell'IA, l'intelligenza artificiale, che potrebbe presto prendere il posto degli attori in carne ed ossa. La sigla che rappresenta gli studios ha sostenuto che l'offerta fatta agli attori è «rivoluzionaria» e ne proteggerà le «fattezze digitali». Gli attori temono però che in un universo tecnologico in rapidissima evoluzione, la formulazione di un nuovo contratto di lunga durata rischi di non rispecchiare quanto potrebbe accadere di qui a pochi anni, o addirittura mesi. Lo sciopero degli sceneggiatori ha già paralizzato le riprese di gran parte dei film e degli show tv. Quello dei performer che potrebbe protrarsi per mesi, porterà alla chiusura dei pochi set rimasti aperti. Ci aspetta una stagione di repliche per le quali, peraltro, gli attori non riceveranno le percentuali che reclamano.

Fran Drescher, da tata a sindacalista: chi è l'attrice che ha fermato Hollywood. Come l'attrice della sitcom La tata ha superato traumi e sofferenze per diventare la leader sindacale che oggi guida gli attori Usa allo sciopero. Valerio Chiapparino il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

Non è bastata una tata per scongiurare lo sciopero degli attori di Hollywood che, a partire da oggi, per la prima volta dal 1960 si aggiungerà a quello già in corso degli sceneggiatori. Una sconfitta per Fran Drescher, la presidente di Sag-Aftra, il potente sindacato americano che rappresenta 160mila artisti del cinema e della tv. In Italia questo nome potrebbe suonare molto meno famigliare di Francesca Cacace (Fran Fine nella serie originale), la svampita tata, appunto, della celebre sitcom che ha alleggerito i pomeriggi di molti spettatori negli anni Novanta.

Chi lo scorso weekend ha visto la foto di questa splendida 65enne in posa accanto a Kim Kardashan per le sfilate di Dolce e Gabbana in Puglia avrà pensato che il tempo, almeno per lei, si sia fermato. Proprio il viaggio in Italia è stato attaccato e definito da molti come inopportuno. In risposta alle critiche, la sindacalista si è difesa sostenendo che si è trattato di un viaggio di lavoro e che è sempre rimasta in collegamento su tre fusi orari diversi preoccupandosi anche dei suoi genitori che vivono in Florida.

L’ex tata, diventata paladina dei diritti dei lavoratori del mondo dello spettacolo, sta cercando, senza successo sino ad ora, di strappare alle majors aumenti salariali, il ricalcolo dei diritti d’immagine e le tutele sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Ma chi è Fran Drescher e come è arrivata ad occupare un posto al vertice dell’organizzazione che un tempo fu di Ronald Reagan?

Fran Drescher con John Travolta in una scena del film La febbre del sabato sera.

Il cancro e il matrimonio

Le telecamere, si sa, spesso ingannano e la donna solare e ancora giovanile che sembra aver stretto un patto col diavolo nasconde un passato piuttosto doloroso. Ne ha parlato lei stessa qualche anno fa confidandosi con la rivista di moda InStyle. Qui ha raccontato di aver subito uno stupro sotto la minaccia di una pistola durante una rapina in casa nel 1985, un trauma che riuscirà ad affrontare solo molti anni più tardi. Quando le luci del telefilm La Tata si spengono arriva, nel 2000, la diagnosi di un cancro all’utero. Quello è il momento in cui abbassa le difese e si libera del complesso da superwoman. La sua reazione al male è straordinaria e liberatoria. Pubblica un libro, Cancer Schmancer, che esorcizza la paura della malattia e ricopre anche il ruolo di “ambasciatrice” per la salute femminile sotto la presidenza di George W. Bush continuando poi ad impegnarsi anche sul fronte legislativo per l’approvazione di una legge sul tema.

Con la fine delle riprese de La Tata nel 1999 termina anche il suo matrimonio con Peter Marc Jacobson, co-produttore dello show. “Ci siamo incontrati quando avevamo 15 anni”, racconta Fran aggiungendo che il suo ex marito “realizzò di essere gay e la cosa curiosa è che fu lui a perdere la testa quando lo lasciai. Uno dei lati positivi dell’esperienza del cancro è che ci ha permesso di riscoprire la nostra amicizia. Lui è ancora la mia anima gemella”.

Fran Drescher oggi

Dopo il telefilm che l’ha resa famosa appare sporadicamente in altre produzioni televisive, l’ultima della NBC dura appena 12 episodi prima di essere cancellata nel 2020. Negli anni di Donald Trump e di Alexandra Ocasio-Cortez il suo impegno da attivista di sinistra diventa sempre più marcato e le fa guadagnare la copertina del New York Magazine e il titolo di “La vostra nuova icona anticapitalista". Nel 2021 Fran Drescher vince l’elezione a rappresentante degli attori dopo un’intensa campagna contro il rivale Matthew Modine che accusa la collega di diffondere falsità sul suo conto.

Il giudizio sull’operato di Fran Drescher come rappresentante sindacale non è totalmente positivo, specie nell’ultima fase che ha portato alla chiusura totale nei confronti degli studi di produzione e di streaming. Nonostante ciò, buona parte della stampa americana ha mostrato apprezzamenti per il discorso appassionato con cui la sindacalista ha annunciato l’inizio di uno sciopero che avrà ripercussioni sulla vita di milioni di lavoratori. Tutti si chiedono quale sarà adesso la prossima mossa della Drescher per uscire dall'impasse. Uno spoiler della strategia dell'ex tata potrebbe venire dalle sue parole, anche queste affidate tempo fa alla rivista Instyle. “La vita non si ferma. È necessario essere fluidi o si rimane bloccati. Bisogna cercare di dare un senso anche a quello che non lo ha e aprirsi a percorrere una strada che non avresti mai preso”. Chissà se basterà ad arrivare al lieto fine di questo film.

Hollywood, perché attori e sceneggiatori sono in sciopero: paghe basse ‘grazie’ allo streaming e rischio intelligenza artificiale. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2023

Hollywood incrocia le braccia e gli attori scioperano per la prima volta dal 1980, il primo sciopero in assoluto in 63 anni che vede a braccetto attori e sceneggiatori, quest’ultimi già in protesta da inizio maggio. “Quello che succede a noi succede a tutti gli altri lavoratori, quando i datori di lavoro rendono Wall Street e la sete di profitto la loro priorità e dimenticano le persone essenziali che fanno muovere la macchina” commenta Fran Drescher, la presidente della Sag-Aftra, il sindacato che riunisce ben 160mila attori di Hollywood, ha confermato lo sciopero votato all’unanimità, invitato quindi gli iscritti a interrompere quindi da domani la partecipazione ai set cinematografici ed alle serie televisive.

Sciopero che arriva dopo il fallimento delle trattative, durate oltre un mese, tra i principali studi americani e il sindacato degli attori che denunciava paghe “insulse”. Una decisione che dovrebbe paralizzare completamente Hollywood. “Il consiglio nazionale di SAG-AFTRA ha votato all’unanimità un ordine di sciopero contro studi e emittenti”, ha annunciato nella serata di giovedì 13 luglio Duncan Crabtree-Ireland, direttore esecutivo nazionale del sindacato.

“Dopo più di quattro settimane di trattative”, il precedente accordo è scaduto mercoledì sera a mezzanotte senza alcuna speranza di conciliazione, aveva rilevato in giornata il sindacato SAG-AFTRA, principale rappresentante degli attori americani. Le sue posizioni sono troppo lontane da quelle dell’Alliance of Film and Television Producers (AMPTP), che riunisce storici gruppi cinematografici come Disney, NBC Universal, Paramount, Warner Bros Discovery e Sony, e piattaforme digitali come Netflix, Amazon o Sony. Mela. “Le risposte dell’AMPTP alle proposte più importanti del sindacato sono state offensive e irrispettose nei confronti del nostro contributo vitale a questo settore. I datori di lavoro si sono rifiutati di essere coinvolti in modo significativo su alcune questioni e su altre ci hanno completamente ignorato “, ha scritto il sindacato.

Le richieste di attori e sceneggiatori

Sia attori che sceneggiatori chiedono un aumento del loro compenso, in ribasso nell’era dello streaming. Vogliono anche garanzie sull’uso dell’intelligenza artificiale, per evitare che l’IA generi script o cloni la loro voce e immagine. Lo sciopero degli attori è un duro colpo per i capi degli studi e delle piattaforme di streaming. Da maggio le uniche produzioni che hanno deciso di girare lo fanno sulla base di sceneggiature già completate in primavera, senza poterle modificare. Questo è particolarmente vero per il prequel de Il Signore degli Anelli finanziato da Amazon, The Rings of Power. Ma, senza attori, le riprese semplicemente non sarebbero possibili.

Estratto dell’intervento di Michele Bovi da benhurunaltrofilm.it il 14 luglio 2023.

Nel suo libro di memorie “La mia vita nella CIA”, l’ex direttore dell’agenzia William Colby che fece l’agente segreto a Roma per tutti gli anni Cinquanta, racconta di come fosse facile nel periodo della Dolce vita infiltrare agenti con la copertura di aspiranti attori del cinema. Alcuni attori dichiaratamente sospettati di aver avuto ruoli nell’intelligence compaiono anche in Ben-Hur di William Wyler, realizzato a Cinecittà tra il 1958 e il 1959. Aveva lavorato per l’intelligence Ferdy Mayne che interpreta il comandante della nave che mette in salvo il protagonista Ben-Hur e il console Quinto Arrio. 

Mayne era nato in Germania da famiglia ebrea. Nel 1932 i genitori per proteggerlo dai nazisti lo avevano mandato a studiare in Inghilterra. All’inizio della guerra fu reclutato nel servizio segreto del Regno Unito. Lo racconta nel libro “La guerra di una ragazza” Joan Miller assistente personale di Maxwell Knight, all’epoca dirigente del controspionaggio britannico. Il primo film in cui nel dopoguerra Ferdy Mayne recitò fu Una notte con te diretto da Terence Young, il regista dei primi film dell’agente 007 James Bond.

Un altro attore del cast di Ben-Hur sospettato di spionaggio finì nel mirino delle autorità italiane di sicurezza, che ne chiesero l’espulsione dal nostro Paese. Si chamava Hubert Gillis De Poliolo marito di una delle protagoniste degli anni d’oro della Dolce vita: la pittrice Dorothy Schoulemann De Poliolo. Lui principe, lei di conseguenza principessa. Lui di origine belga con passaporto portoghese; lei americana, dopo essersi aggiudicata il titolo di Miss Florida, aveva cominciato giovanissima a girare il mondo. Hubert e Dorothy si erano conosciuti a Cuba e sposati poco dopo. Dal 1957 vivevano a Roma in un appartamento in zona Parioli. Il principe era titolare di un’agenzia di collocamento per lo spettacolo. Di lui scrisse il Corriere della sera: “Aveva anche una notevole mole di rapporti cinematografici con l’estero, particolarmente con la Turchia e altri Paesi orientali”. 

Lei dipingeva ritratti: ne aveva fatto uno a Richard Nixon all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti.

Lui interpretò in Ben-Hur il ruolo di un ufficiale romano. Lei recitò in L’avventura di Michelangelo Antonioni, assieme a Monica Vitti e alle amiche nobildonne Esmeralda Ruspoli e Angela Tomasi di Lampedusa. Quella partecipazione lasciò il segno. Il procuratore della repubblica di Milano Carmelo Spagnuolo nell’ottobre del 1960 fece sequestrare il film per una scena interpretata da Dorothy De Poliolo con l’attore Gabriele Ferzetti, ritenuta dal magistrato offensiva della morale pubblica. 

Il principe Hubert Gillis De Poliolo era spesso all’estero. La principessa Dorothy era sempre sui giornali: figura di spicco delle cronache mondane. Non c’era salotto aristocratico con vista rotocalco che non ospitasse la principessa Dorothy De Poliolo. Faceva parte del cosiddetto “bel mondo romano” che comprendeva l’ex imperatrice di Persia Soraya, i principi Raimondo e Filippo Orsini, la principessa Doris Pignatelli, il principe Memé Borghese, il duca Serra di Cassano, e di volta in volta ospiti come i duchi di Windsor, la principessa Grace di Monaco, ma anche il fisico statunitense Robert Oppenheimer, il filosofo britannico Aldous Huxley, gli attori Peter Ustinov, Fernandel, Brigitte Bardot, Marilyn Monroe.

Dorothy De Poliolo, originaria dell’Illinois come il protagonista di Ben-Hur Charlton Heston, riuscì a utilizzare un cocchio della spettacolare corsa delle quadrighe di Ben-Hur appena ultimate quelle riprese, mentre il resto del film era ancora in lavorazione. 

Accadde nel dicembre del 1958. Il derby cittadino di calcio si era chiuso con la vittoria della Roma per 3 a 1 e la principessa, tifosa della Lazio, dovette pagare il pegno di una scommessa fatta con il pittore Antonio Privitera, romanista. A bordo del cocchio usato nel film da Messala i due attraversarono la capitale, dal Campidoglio a Porta Pinciana. Privitera vestito da auriga, Dorothy  

De Poliolo da schiava comunque armata di tela e pennello.

Della scommessa scrissero tutti i giornali del mondo. La Domenica del Corriere dedicò il retro copertina alla nobile schiava affidando alle matite colorate di Walter Molino la descrizione dell’episodio. 

Nonostante il principe Hubert fosse tra gli interpreti di Ben-Hur e la principessa Dorothy avesse così clamorosamente promosso il film, la coppia Gillis De Poliolo non fu invitata alla serata di gala per la prima proiezione il 6 ottobre del 1960 al cinema Capitol di Roma. Colpa di un infortunio in odore di spionaggio. Esattamente 8 mesi prima l’ufficio stranieri della Questura di Roma aveva chiesto l’espulsione di entrambi dall’Italia. Il provvedimento era stato tuttavia sospeso nel giro di 24 ore dal nostro ministero degli Esteri con la motivazione “in attesa di ulteriori accertamenti”. In realtà nulla fu più ulteriormente accertato, ma il pregiudizio rimase, rafforzato da un identico provvedimento di espulsione adottato poco dopo dal governo francese nei confronti di Hubert Gillis De Poliolo. Il principe-centurione in odore di spionaggio era tollerato a Roma. Ma non a Parigi.

Michele Bovi per Dagospia il 10 giugno 2023

È nata prima Guardo gli asini che volano la canzone del film “I diavoli volanti” che rese popolarissima in Italia la coppia di comici americani Stan Laurel e Oliver Hardy o A Zonzo, successo evergreen del cantante torinese Ernesto Bonino? I ritornelli sono identici, gli autori sono gli stessi, un apparente auto-plagio. Attorno alle origini e all’esecuzione di quei due brani permangono abbagli, controversie e misteri.

Nell’archivio delle opere musicali della Siae Guardo gli asini che volano è depositato come titolo alterativo all’originale A Zonzo, con i nomi del compositore Gino Filippini e del paroliere Riccardo Morbelli e quello delle edizioni Curci. 

Il deposito risale al 1942 anno di pubblicazione di A Zonzo e mentre l’etichetta del disco riporta la dicitura “Dal film I diavoli volanti”, lo spartito aggiunge altri dettagli: “Dal film Aci-Europa I diavoli volanti con Stan Laurel e Oliver Hardy”. Pertanto, al contrario di quanto si è sempre letto, gli asini di Stanlio e Ollio precedettero la canzone-cult di Ernesto Bonino.

Il film “The Flying Deuces” uscì negli Stati Uniti nel 1939 con Oliver Hardy che cantava Shine On Harvest Moon, uno dei brani più popolari della Broadway di inizio Novecento. La versione italiana “I diavoli volanti” fu realizzata nel 1941 negli studi romani della Aci-Europa Film e proiettata nelle nostre sale cinematografiche nei primi mesi del 1942, con Ollio che intona Guardo gli asini che volano in subentro a Shine On Harvest Moon, forte di una perfetta consonanza labiale: non si percepisce la sostituzione del motivo americano con quello italiano, identica sequenza, nessun trucco di montaggio.

La casa di produzione Aci (Anonima cinematografica italiana) fondata nel novembre del 1940 da Vittorio Mussolini aveva acquisito due mesi dopo l’Europa Film dando vita alla nuova società Aci-Europa Film. Una ricerca della storica Carla Nardi sull’attività dell’Enaipe (Ente nazionale acquisti importazioni pellicole estere) attraverso la documentazione conservata nell’Archivio dello Stato rivela che Benito Mussolini, molto attento al cinema hollywodiano inteso come strumento di propaganda, era un ammiratore dei due comici americani, guardava i loro film in proiezioni private a Villa Torlonia e nel 1937 incaricò il figlio Vittorio di incontrare in America Hal Roach produttore delle loro pellicole per stabilire un rapporto che portasse alla realizzazione di una serie di film tratte da opere liriche, nel primo dei quali Stan Laurel e Oliver Hardy avrebbero dovuto parodiare il Rigoletto di Giuseppe Verdi.

Nacque così la società RAM, acronimo di “Roach and Mussolini”, con un capitale iniziale di sei milioni di dollari, che riuscì di fatto a produrre soltanto pochi cinegiornali di propaganda per l’Italia. Nella ricerca sono focalizzati alcuni aspetti relativi all’applicazione pratica della politica subalterna al Regime, come doppiaggio e mediazione culturale, con la curiosa consuetudine di italianizzare gli inserti musicali delle pellicole straniere.

Le voci italiane di Stan Laurel e Oliver Hardy dal 1937 erano quelle di Mauro Zambuto, figlio di Gero Zambuto, un doppiatore che aveva lavorato per gli americani della Walt Disney Company, e di Alberto Sordi al debutto nel mondo della cinematografia. Zambuto fu Stanlio e Sordi fu Ollio fino all’ultimo film della coppia “Atollo K” del 1951. Mauro Zambuto era un genio poliedrico che si divise sempre tra Italia e Stati Uniti. A Roma divenne docente di Fisica Teorica nella scuola fondata da Enrico Fermi e nel 1952 si trasferì a New York per dirigere l’Italian Film Export la società che curava l’importazione in America dei film italiani e la loro sincronizzazione, e contemporaneamente per lavorare alla Rca come ingegnere a un progetto dell’azienda britannica Marconi sullo sviluppo dei tubi a raggi catodici.

La Metro-Goldwyn-Mayer lo volle come consulente alla tecnica del suono e agli effetti speciali del kolossal “Ben-Hur” del 1959. Zambuto diventò poi direttore del dipartimento di sincronizzazione della casa di produzione statunitense Paramount. Lasciò il cinema negli anni Ottanta per tornare alla sua primaria vocazione, l’insegnamento, e accettò la cattedra di Elettrodinamica Quantistica nella facoltà di Fisica dell’Università del New Jersey.

Zambuto era quindi uno dei massimi esperti al mondo di tecnica di sincronizzazione: chi meglio di lui poteva confezionare il testo della canzoncina affinché sembrasse proprio l’originale intonato da Ollio? È verosimile che il musicista Gino Filippini, già famoso per aver composto nel 1939 il capolavoro di Odoardo Spadaro Sulla carrozzella, abbia lavorato assieme a Zambuto per confezionare il motivo Guardo gli asini che volano, poi dal cinema dirottato alla discografia per diventare con le parole scritte dal drammaturgo Riccardo Morbelli l’incantevole A Zonzo portato al successo da Ernesto Bonino. I malintesi a proposito di quei due brani sono diversi. Ad esempio non fu il direttore d’orchestra dell’Eiar (antenata della Rai) Cinico Angelini a curare l’arrangiamento della registrazione di Bonino, come si è letto finora, bensì il maestro Carlo Zeme, altro direttore d’orchestra dell’Eiar.

E c’è ancora di peggio. Chi per anni ha ritenuto possibile l’attribuzione dell’adattamento del testo della canzone regina de “I diavoli volanti” ad Alberto Sordi oggi deve fare i conti con chi addirittura mette in dubbio che sia la voce di Sordi a interpretarla. A cantare Guardo gli asili che volano è Ollio, ma Sordi aveva dato al tenore Oliver Hardy una voce italiana da basso, mentre nella canzone il tono, le cadenze e le inflessioni anglosassoni suonano a favore della voce di Stanlio, ovvero quella di Mauro Zambuto.

A sostenere la tesi di Zambuto interprete del popolare brano sono numerosi appassionati italiani di Stanlio e Ollio, tra cui l’avvocato novarese Antonio Costa Barbé che ha intrattenuto una fitta corrispondenza con Mauro Zambuto prima della sua scomparsa avvenuta nel 2011 (su YouTube si rintracciano alcune conversazioni telefoniche tra i due). Costa Barbé ha anche incaricato Matteo Pace, uno dei maggiori esperti italiani di registrazioni da studio, di effettuare una perizia per stabilire definitivamente la verità su quell’interpretazione.

“Pace mi ha detto che non ha ancora sufficiente materiale per dare una risposta precisa – spiega l’avvocato Costa Barbé – Mi sono impegnato a farglielo avere. In realtà Alberto Sordi non ha mai affermato di essere l’esecutore di Guardo gli asini che volano: ha sempre e soltanto sostenuto di essere stato per 14 anni il doppiatore italiano di Oliver Hardy in coppia con lo Stan Laurel di Mauro Zambuto, ossia la sacrosanta verità”. Nel 1984, per il programma televisivo Fantastico 5, Alberto Sordi con Heather Parisi ricrearono la coppia Stanlio e Ollio e in quella circostanza l’attore cantò proprio Guardo gli asini che volano. “Sordi la cantò nella sua naturale tonalità di basso – spiega l’avvocato Costa Barbé – ben diversa da quella del film”. Insomma l’avvocato novarese non ha dubbi: per quella canzone fu Stanlio a prestare la voce a Ollio.

Articolo del “New York Times” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 9 giugno 2023.

I mitici studi cinematografici di Cinecittà a Roma sono pieni come non lo sono mai stati, perché le produzioni sono attratte dagli incentivi fiscali, dagli alti valori di produzione e dal glamour italiano. Scrive il NYT. 

Oltre l'ingresso monumentale di Cinecittà Studios, enormi schermi sovrastano quello che normalmente è il prato anteriore dello studio cinematografico, racchiudendo un ampio backlot - e off-limits - per il film "Queer" del regista Luca Guadagnino, interpretato da Daniel Craig.

Lo Studio 5, un palcoscenico amato da Federico Fellini, è stato riconfigurato in una serie di stanze e cortili medievali per un adattamento Netflix del "Decamerone" di Boccaccio. Non lontano, il regista britannico Joe Wright ha requisito cinque studios per la serie in otto episodi "M: Son of the Century", basata sul romanzo best-seller di Antonio Scurati sui primi anni di Benito Mussolini. 

In una recente mattinata, gli operai della troupe si sono arrampicati sulle impalcature per stringere i bulloni e far passare i cavi su un enorme set, originariamente costruito per "Rome" della HBO, che presto farà da sfondo a "Those About to Die", la serie sui gladiatori di Roland Emmerich con Anthony Hopkins. 

Dopo decenni di alterne fortune, i favolosi studios di Roma - pronunciati Chi-neh-chi-TAH - sembrano rivivere un momento scintillante simile a quello degli anni Cinquanta e Sessanta, quando le star e i registi americani e britannici affollavano Roma e la grande Via Veneto, fiancheggiata da alberghi nel centro della città, era un vivace ritrovo per i paparazzi a caccia di celebrità. 

Allora Cinecittà era conosciuta come "Hollywood sul Tevere". Oltre a molti classici del neorealismo italiano e del genere spaghetti western, vi furono girati film di spada e sabbia come "Ben Hur", "Quo Vadis" e "Cleopatra", oltre a "Vacanze Romane" e "La Pantera Rosa".

Negli ultimi due anni, "siamo passati dal 30% di occupazione al 100%", ha dichiarato Nicola Maccanico, amministratore delegato di Cinecittà. Per ottenere nuovi contratti, è stato sufficiente, ha aggiunto, modernizzare le strutture e promuovere le sue troupe di artigiani altamente qualificati, ostentare la sua posizione in una delle città più belle e storiche del mondo e sfruttare i generosi incentivi fiscali dell'Italia per le produzioni straniere.

La sua sfida, ha detto, era quella di far sì che le produzioni continuassero ad arrivare. 

Maccanico è diventato amministratore delegato due anni fa: un momento particolarmente fortunato, che ha coinciso con un forte aumento della domanda di nuovi contenuti, spinta dai servizi di streaming. 

Ma sa che per rimanere competitiva in un mercato di nicchia con concorrenti come lo Studio Babelsberg, vicino a Berlino, o i Pinewood Studios, alle porte di Londra, Cinecittà deve investire continuamente in se stessa e nei suoi servizi. E crescere. 

Fondata nel 1937 da Mussolini per promuovere il cinema italiano e, in parte, per realizzare film di propaganda fascista, Cinecittà sta introducendo un importante rinnovamento utilizzando i fondi dell'Unione Europea per la ripresa della pandemia.

Quattro palcoscenici esistenti saranno ristrutturati e altri cinque saranno costruiti entro il 2026. Un palcoscenico è già stato dotato di una gigantesca parete LED high-tech che consente di aggiungere effetti virtuali durante la produzione. In questi pomeriggi, il palcoscenico era occupato da una troupe che stava girando una scena della serie Mussolini, con disegni astratti colorati in rosa pallido e blu che danzavano sullo schermo. Durante la visita al set, Wright ha enigmaticamente descritto l'estetica della serie come "piuttosto stravagante" e "piuttosto caleidoscopica". 

Maccanico ha dichiarato che la tecnologia degli effetti virtuali ha ampliato enormemente il potenziale cinematografico di Cinecittà, rendendo sostenibili "sviluppi narrativi che prima sarebbero stati impossibili a causa delle limitazioni di budget".

Anche lo sconto fiscale del 40% sui costi di produzione per i film e le serie televisive internazionali è stato un forte richiamo per l'Italia. 

Nei suoi 90 anni di storia, lo studio ha avuto la sua parte di bassi, ma anche di alti. A un certo punto è stato utilizzato soprattutto per le serie televisive italiane. (Solo il set del "Grande Fratello", andato in onda per la prima volta nel 2000, è ancora operativo). Anche in tempi di magra, Cinecittà ha mantenuto nel suo organico artigiani come falegnami, saldatori e pittori di set. 

In una recente mattinata, Paolo Perugini, caposquadra della falegnameria di Cinecittà, stava armeggiando con un computer collegato a una sega industriale che tagliava decine di pannelli identici che, una volta verniciati, sarebbero stati utilizzati sul set di un film di kung fu (progetto ancora segreto). 

Il suo team di falegnami era al lavoro su tre produzioni, ha detto, ma negli ultimi anni ne aveva lavorate fino a otto contemporaneamente. Il lavoro è aumentato notevolmente da quando la pandemia di coronavirus ha iniziato a diminuire, ha detto. "Non ci fermiamo mai", ha detto. "Per fortuna". 

L'anno scorso, Cinecittà ha firmato un accordo quinquennale con il gruppo di produzione Fremantle per l'affitto continuo di sei palcoscenici nel sito. (Attualmente sono occupati da "M" di Wright e "Queer" di Guadagnino). 

Maccanico ha detto che sta cercando di sviluppare partnership simili con "produttori indipendenti, servizi di streaming o - perché no? - altri studios", aggiungendo: "Ecco perché la crescita è importante, perché ci permette di andare in questa direzione".

La seconda fase del piano di crescita di Maccanico prevede un accordo con un gruppo controllato dallo Stato per l'acquisto di un terreno di 75 acri non lontano dagli studios originali. Lo sviluppo di questo sito si avvarrà anche di una parte dei 262 milioni di euro provenienti dalla sovvenzione dell'Unione Europea per rendere gli studios più attraenti per le grandi produzioni. 

Il fatto che così tante grandi produzioni siano già a Roma ha già dato una spinta agli abitanti del luogo e alle aziende che producono film. "È stata una forza trainante positiva", ha detto Maccanico. "L'unica cosa che non possiamo fare è far decollare di nuovo Via Veneto", ha aggiunto, "perché gli attori non si comportano più come una volta".

Marina Valensise per “il Messaggero” il 13 dicembre 2021. La commedia all'italiana si fonda sulla satira, anche politica, del costume contemporaneo e racconta storie che si potrebbero trattare anche tragicamente, ma lo fa in modo lieve, scanzonato, sardonico, beffardo, a volte persino surreale. La grande stagione degli anni Sessanta inizia almeno trent' anni prima, come espediente per evitare la censura fascista, poi come reazione al neorealismo, al cinema verità imposto dalla miseria, dalla necessità di risparmiare, e quindi come via traversa e antiretorica, fondata sul comico, sullo sberleffo, per trattare di problemi attuali e seri, in forma di intrattenimento, ma dando voce non solo all'autobiografia, ma all'introspezione italiana nelle sue pieghe più autentiche. Tanto i caratteri, i personaggi, le situazioni, le trame dei film di De Sica, Dino Risi, Monicelli, Germi, Zampa, Sordi, Sonego, Lattuada sono il riflesso di tipi umani reali, tanto infinite le corrispondenze tra cinema e vita Aldo Fabrizi, per esempio, romanissimo, veracissimo, popolarissimo, aveva 37 anni quando si impose in Campo de' Fiori, firmando la sceneggiatura con Fellini, Piero Tellini e Mario Bonnard, e interpretando un pescivendolo infatuato di una bella signora nei guai. In Roma città aperta è lui a interpretare il prete che prima della mitragliata delle SS contro la Magnani dà una padellata in testa a un malato di scorbuto per trasformarlo in un finto moribondo, con un passaggio dal tragico al comico degno del teatro elisabettiano, che fra l'altro segna la sopravvivenza del neorealismo attraverso la stessa commedia all'italiana. È una delle tante spigolature offerte dalla ristampa di quest' opera pubblicata nel 1985 e sempre attuale. Più che un saggio o un libro di storia, trattasi di un repertorio ragionato di tutti i film, noti e meno noti, ignoti e del tutto dimenticati, dei loro antesignani nel fascismo, all'epoca dei telefoni bianchi, e dei loro concorrenti americani ai tempi dell'invasione delle major, ma anche dei registi, da Fellini a De Sica, da Germi a Lattuada, passando per Dino Risi, Visconti, e Pasolini, per citarne soli alcuni, e degli attori, da Sordi a Gassmann, da Tognazzi a Manfredi, da Macario a Totò, da Rascel a Franchi e Ingrassia, dalla Valeri a Monica Vitti a Laura Antonelli, senza dimenticare le grandi star come la Loren e la Lollobrigida, che hanno dominato il cinema del dopoguerra. Per il figlio della leggendaria Suso Cecchi d'Amico, che fu la sceneggiatrice di Visconti e di tantissimi altri, ed era a sua volta la figlia del principe della critica, Emilio Cecchi, e la moglie del musicologo più brillante d'Italia, Fedele d'Amico, questa rassegna sull'industria del cinema che include prezzi, produzioni, incassi, è anche un'autobiografia involontaria dove i ricordi personali scorrono sottotraccia. Ecco allora l'esordio di un comico sconosciuto, tal Alberto Sordi, scoperto da Masolino in un'arena all'aperto a Santa Marinella, prima che diventasse il protagonista del cinema italiano, regista, attore e interprete, premiato da incassi ragguardevoli come i 3 miliardi de Il medico della mutua diretto da Luigi Zampa, ma che aveva alle spalle una lunghissima gavetta iniziata a sedici anni come doppiatore di Oliver Hardy, col suo accento americano in tonalità da basso profondo, e continuata come autore radiofonico inseguendo il divismo coi Compagnucci della Parrocchietta, il conte Claro e Mario Pio. Ecco il torneo di ping pong organizzato sempre da Masolino sul terrazzo della casa di Castiglioncello, per placare l'ira di Gassman, dopo che la troupe del Sorpasso era stata battuta in una partitella di calcio da una squadra di vacanzieri. Ecco Franco Cristaldi in estasi a Venezia davanti all'apparizione del bikini verde smeraldo di una moretta dal sorriso smagliante, una tale Claudia Cardinale, sbarcata da Tunisi. E cosi alla fine della fiera, resta solo da sperare che dopo la ristampa arrivi pure un nuovo libro di memorie inedite e retroscena gustosi.

Tutte le volte di James Bond in Italia, ecco le location che hanno ospitato 007. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 29 settembre 2021. E venne il giorno dell’attesa prima di “No Time To Die” venticinquesimo film della saga di 007 e ultimo con Daniel Craig nei panni di James Bond, film che ha come location Matera ma anche Altamura e Maratea.

Le vicende di Bond nel corso della sua lunga vita cinematografica hanno spesso avuto come scenari incantevoli posti italiani segnati dalle riprese dei film girati. Una breve guida per ricordare inseguimenti e vicende tricolori dell’agente segreto più famoso della storia del cinema

DALLA RUSSIA CON AMORE- 1963

Il secondo film della saga, si conclude a Venezia, città molto glamour e internazionale. Arrivo lagunare con l’Orient Express con la prima bond girl italiana, Daniela Bianchi. Hotel Danieli e luna di miele veneziana sui titoli di coda. Ma le riprese sono in studio e il Canal Grande è solo riprodotto per l’unica avventura italiana di Sean Connery

AGENTE 007, LA SPIA CHE MI AMAVA-1977

Secondo film con interprete Roger Moore e la produzione scopre la Sardegna per scene molto spettacolari. La Lotus anfibia emerge sulla spiaggia di Capriccioli. In Costa Smeralda è collocata l’Atlantide marina del cattivo di turno. Si vedono Palau, la baia di Cala di Volpe e il suo esclusivo hotel, San Pantaleo ma c’è anche l’hotel Pitrizza.

MOONRAKER, OPERAZIONE SPAZIO-1979

Torna Venezia, e questa volta plain-air. Bond- Moore alle prese con inseguimenti su calli e gondole veneziane con il cinese Chang. Un godibile inserto italiano prima dello spazio.

AGENTE 007- SOLO PER I TUOI OCCHI-1981

Roger Moore resta in Veneto a Cortina. È accolta da Bibi, bella campionessa di pattinaggio su ghiaccio e da un folto gruppo di killer cattivi sugli sci. Nel corso del tempo diversi raduni organizzati da bondisti con raduno di auto e star della saga. Perché un Bond è per sempre.

CASINO ROYALE- 2006

Alla sua prima volta Daniel Craig trova godibili scene italiane e grandi giacimenti culturali. La villa del Balbianello con vista mozzafiato sul lago di Como è il buon retiro di Bond con Eva Green che registra un bacio sotto il celebre balcone.

Per il Daily Telegraph all’epoca la più bella location di sempre di James Bond. Ma anche nel finale del film appare un’altra stupenda villa lariana, una sorta di castello, ovvero Villa Castello. E in mezzo al film ritorna Venezia. Bond approda in barca a Bacino San Marco , si vede il Canal Grande, il Mercato del Pesce di Rialto, piazza San Marco non può mancare, il conservatorio Benedetto Marcello. Suspence e bellezza non mancano per uno dei più grandi incassi di sempre.

QUANTUM OF SOLACE-2008

Trionfa Siena in questa avventura di Bond con inseguimento durante un Palio ricostruito in piazza del Campo ma ci si rincorre anche sui tetti della città storica toscana. Sulla Gardesana occidentale inseguimento automobilistico che registrò un pauroso incidente con uno stuntman che rischiò la vita sul set. Scene di azione anche tra le cave di Talamone e i marmi di Carrara. Alcune guide riportane scene girate anche a Craco e Maratea ma si è trattato solo di sopralluoghi. Ora è arrivato il vero momento della Basilicata con “No Time No Die”.

SPECTRE -2015

Finalmente la città eterna. Anche Roma accoglie 007 con un inseguimento notturno che tocca i monumenti tra i più conosciuti al mondo. Strade chiuse e compensi per tutti. Da Trastavere alla Nomentana si sfreccia su Piazza Navona, Fontana di Trevi, via delle Quattro Fontane, luoghi della “Grande Bellezza”, Ponte Milvio.  

È stato anche realizzato l’ebook “Discover Roma with Jamed Bond” – Guide to Spectre film locations, con una serie di descrizioni e aneddoti legati ai luoghi di Spectre a Roma illustrato con acquerelli originali. Monica Bellucci nei panni della Bond girl incontra Daniel Craig nel colonnato del Museo della Civiltà romana adattato per esigenza di copione a Cimitero del Verano.

Sette sataniche, sincretismo e stragi: ecco i santoni neri di Hollywood. Matteo Carnieletto e Andrea Indini il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. C'è un (lungo) filo esoterico che collega la fondazione di Hollywood e la sede del cinema internazionale. California, 1886. Il sole si infrange sulla terra, rendendola incandescente, mentre un uomo di origini cinesi spinge un carro pieno di legna. Suda e impreca per il gran caldo. All'improvviso incontra un imprenditore, Hobart Johnstone Whitley, il quale gli chiede cosa sta facendo: "I hooly-wood", risponde il carrettiere, intendendo "I'm hauling wood" (sto trasportando del legname). L'imprenditore ha un'epifania, un'irruzione del sacro nella quotidianità, che saranno una costante in questa fetta di mondo. Capisce male, o forse lo fa apposta, e decide di chiamare questo luogo tra le colline della California "Hollywood", il bosco di agrifoglio. È l'inizio di una storia nuova, in cui la luce del sole si mescola alle tenebre del satanismo e dell'occultismo. A partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, migliaia di persone si riversano verso la West Coast. Cercano l'oro. Inseguono un sogno. Vengono dalle parti più disparate del mondo e credono in fedi diverse. Ci sono protestanti e cattolici. Bianchi, indiani e neri. Litigano, a volte si ammazzano anche, ma alla fine si amalgano. Anche spiritualmente. Scrive Jesùs Palacios, autore di Satana a Hollywood (Edizioni NPE), che la California diventa "il luogo ideale per mescolanze e sincretismi, il luogo ideale perché a poco a poco la vecchia fede di indebolisse e si evolvesse in nuove credenze e superstizioni... Affinché proliferassero altresì imbroglioni, santoni, predicatori e falsi profeti". Sembra quasi che tutti si siano dati appuntamento lì. Negli anni Venti del XX secolo arriva Jiddu Krishamurti. Sopracciglia folte, occhi profondi e lineamenti da statua. Riesce ad ammaliare tutti, ma soprattutto le donne. Ottiene una rendita di cinquecento sterline l'anno. Un'enormità per l'epoca. Viene invitato a tutte le feste e incontra i personaggi più importanti dell'epoca, tra cui l'astrofisico Edwin Hubble e Greta Garbo, che rimane folgorata da lui. Più passa il tempo e più Krishamurti ottiene consensi: "Sempre radicato a Ojai e nelle vicinanze di Hollywood, avrebbe trovato di nuovo il sostegno della comunità cinematografica grazie a Mary Zimbalist, vedova del profuttore Sam Zimbalist, deceduto nel 1958 durante le riprese di Ben-Hur. Sarebbe diventata lei, a partire dal 1964, la sua principale fonte di finanziamento; gli costruì una casa nuova a Ojai, lo invitava spesso nella sua villa di Malibù e contribuiva di tanto in tanto alla sua stbailità economica, tenendo conto che il maestro fu imbranato fino alla fine dei suoi giorni in ambito finanziario". Il 17 febbraio del 1986 Krishamurti muore a Pine Cottage. Non vuole alcuna celebrazione. Sparisce per sempre. Nel vuoto. Con il passare del tempo, però, accanto all'esoterismo comincia a muoversi il culto per il demonio. Howard Stanton Lavey ne è il fondatore. Nato, l'11 aprile del 1930 a Chicago, a soli 36 anni rivela che è giunta l'Era di Satana e, in poco tempo, si circonda di un numero sempre più cospicuo di fedeli e conquista le bionde più belle di Hollywood. Dopo la seconda guerra mondiale frequenta per un breve tempo Marylin Monroe, consumata per lo più "sotto l'ombra di uno degli edifici più magici e spettacolari dell'architetto e occultista Frank Lloyd Wright a San Francisco, ispirato dall'achitettura maya e azteca del Messico dell'era precolombiana". Ma è con Jayne Mansfield che LaVey crea il legame più profondo: inizialmente l'attrice non lo considera più di tanto ma, non appena lo vede in abiti sacerdotali neri, impazzisce per lui e se ne innamora. Si dice addirittura che LaVey le abbia chiesto la mano e che l'avesse introdotta in alcuni circoli sacerdotali occulti. Accanto al satanista girano avvocati, artisti, anche agenti dei servizi segreti. Sono tutti alla sua corte e partecipano a riti terribili, fatti con candele nere e teschi umani. Nel 1968 apre la prima chiesa dedicata al culto luciferino e, qualche anno più tardi, scrive La Bibbia satanica: "L'opera - scrive Palacios - parla di invertire la morale tradizionale e fornisce una guida teorica e pratica (il libro contiene preghiere, incantesimi e cerimonie magiche) per l'uomo nuovo che dominerà il mondo del futuro, incentrata su un egoismo attivo un tantino darwinista, sul sesso libero, l'amoralità e una sorta di realismo religioso tipicamente ateo e umanista". Strane morti accompagnano la vita di Lavey e che tinteggiano, in una lunga scia di sangue, le colline della California. Ma come si è potuti arrivare a tutto questo? Secondo Michel Houellebecq, che ne Le particelle elementari, che quest'estate La Nave di Teseo ha riportato in liberia, si è dedicato a questo tema. La strada è lunga ed è indissolubilmente legata ai cambiamenti che, dopo il secondo dopo guerra, attraversarono il Vecchio continente: "Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo - si legge nell'incipit - di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia rapporti saltuari con altri uomini. Visse in un'epoca infelice e travagliata". Nel volume, lo scrittore francese analizza il legame sotteso tra la liberazione sessuale, di cui il Sessantotto si fa portatore sconvolgendo definitivamente i consumi dell'Occidente, e gli omicidi compiuti dai satanisti. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1998, è il racconto (crudo e disilluso) di due vite agli antipodi: Michel Djerzinski, biologo molecolare che spende tutta la sua vita per dare alla vita stessa un significato che sembra non esserci, e il fratellastro Bruno che, invece, cerca quel medesimo significato in un'onnivora attività sessuale devastata e devastante. Sono entrambi i prodotti di una rivoluzione culturale che ha lasciato nudo l'uomo, spogliato di una tradizione millenaria e in balìa di un voyeristico egoismo. Houellebecq accompagna il lettore per mano in un tour virtuale dentro e fuori le comunità hippy, i raduni new age, i campeggi per nudisti e i club per scambisti, che nella seconda metà del secolo scorso sono sorti in Francia. Quello che emerge è un vuoto cosmico che lascia le anime solo dinnanzi alla propria vacuità. Ma, se nel Sessantotto questa spinta emotiva, che ha portato alla disgregazione della famiglia e dei legami famigliari, viene ammantata da un'aurea di novità, sul finire degli anni Ottanta scema in una compulsiva reiterazione di canoni fallimentari che, però, sono ormai tanto permeati all'interno della nostra società da essere dati per scontati e, quindi, passivamente accettati. Finita l'euforia, che ha drogato gli anni Settanta (poi sfociati nella violenza ideologica del terrorismo), quello che rimane degli ex sessantottini è una triste "congrega" di ex ribelli (non più giovani) in cerca di emozioni ormai sciupate. E così il sesso si fa sempre più estremo e le droghe sempre più pesanti. È proprio tra gli "scarti" del Sessantotto (pochi soggetti a dire la verità) che Houellebecq intravede l'insinuarsi del germe del satanismo. Ne Le particelle elementari viene dato spazio, anche se per poche pagine, a un personaggio che sin dall'inizio appare oscuro e turpe: David Di Meola, figlio della cultura hippy che, dopo aver fallito come musicista rock, si butta prima sul sesso estremo e poi sul mercato degli snuff movie ammantandolo dei tetri simboli satanici. Il passaggio da violenza sessuale a omicidio è brevissimo. Ma sufficiente a macchiare di sangue un'intera generazione. Nel saggio Il disagio della civiltà (Feltrinelli), Sigmund Freud indaga, tra le altre cose, sul rapporto tra sessualità e morte, due concetti che la nostra mente fatica a tenere insieme. Eppure certi disvalori si sono fatti portatori di una sessualità forzata che in alcune sacche della società è accettata e condivisa (si pensi al masochismo e al sadismo), mentre in situazioni al limite sfocia negli stupri e negli omicidi rituali. Per Houellebecq questa deriva è la diretta conseguenza del materialismo più puro. Un altro figlio di questa degenerazione è sicuramente Charles Manson (venticinque anni più tardi scimmiottato dal cantante pseudo-satanista Marilyn Manson) la cui ombra sembra calare anche su alcuni capitoli de Le particelle elementari. Rileggendo la storia di Hollywood non deve affatto stupire se nel 1967, dopo aver girovagato per mezza America (dall'Oregon all'Ariziona, dallo stato di Washington al New Mexico), decide di insediare la sua Family (così venivano chiamati i suoi adepti) nella periferia di Los Angeles. Tra loro c'erano anche molte ragazze (tutte giovani, tutte molto belle). Nel romanzo Le ragazze (Einaudi) Emma Cline le descrive così: "Parevano appena ripescate da un lago [...] Stavano giocando con una soglia pericolosa, bellezza e bruttezza allo stesso tempo, e attraversavano il parco lasciandosi alle spalle una scia di improvvisa allerta. Le madri si guardavano intorno cercando i figli piccoli, spinte da una sensazione a cui non avrebbero saputo dare un nome. Le altre giovani prendevano per mano i fidanzati". Ancora una volta: eros e violenza, vita e morte. Che rimangono impregnate nella terra. "C'è gente che dice che questo posto è impregnato di una forza malefica", racconta una segretaria a John Waters mentre è in visita al ranch di Manson. Il male lì sembra non essersene mai andato. Alberga in quella terra e non se ne vuole più andare via. Del resto Charles lo accoglie, anzi lo invoca, per lungo tempo. Raduna attorno a sé un gruppo di hippy ai quali propone una nuova vita spirituale. Scrive Palacios che la "famiglia Manson" frequenta "riunioni notturne degli Angeli dell'Inferno, sette e comunità religiose piuttosto singolari come la crowleyana Loggia Solare dell'Ordine del Tempio d'Oriente (Oto) o l'orientalista Fonte del mondo, ispirata dagli insegnamenti pacidisti di Krishna Venta, che annoverava tra i suoi membri Shorty Shea, impiegato nel ranch, e una delle vittime della Famiglia, il cuio corpo, teoricamente smembrato e cosparso nel desrto, non fu mai ritrovato". Charles li fomenta. Promette loro il sangue e, infine, glielo concede. Accade tutto in una notte, quella tra l'8 e il 9 agosto del 1969: quattro suoi "figli spirituali" entrano nella casa di Sharon Tate e regista Roman Polanski. L'ordine è uno solo: "Uccidere tutti i presenti, nella maniera più macabra possibile". Così sarà. Alcuni degli ospiti verranno uccisi a colpi di coltello, altri furono freddati con armi da fuoco. La Tate chiede pietà per il figlio che ha in grembo, ma non c'è nulla da fare. È l'helter skelter - questo il nome del massacro, preso in prestito da una canzone dei Beatles - e non possono esserci sopravvissuti. Il sangue deve essere ovunque, perfino sui muri della casa. Immaginare un altro finale è difficile, ma non impossibile. Ci ha provato il re dello splatter Quentin Tarantino. C'era una volta a... Hollywood riscrive quella mattanza dandogli un altro finale. E prova a liberare Hollywood dai suoi mali. Ma è solo fiction. E Hollywood rimane quella che è.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue occidentale e Cristiani nel mirino. Con Fausto Biloslavo ho invece scritto Verità infoibate. Nel dicembre del 2016, subito dopo la liberazione di Aleppo, ho intervistato il presidente siriano Bashar al Assad. Nel 2019 ho vinto il premio Prokhorenko-Paolicchi per i miei scritti sulla Siria.  

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del

Leonardo Colombati per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. Esiste un posto, in Italia, famoso in tutto il mondo, che il turista straniero non visita mai. Sta a Roma, sulla Tuscolana, e non ha nemmeno cent' anni. In sé, poi, non è poi tutta questa gran cosa: una serie di anonimi padiglioni, uffici e capannoni. In uno di questi, davanti a un immenso fondale che riproduce un cielo, sospesi a diversa altezza su due piccoli ponti attaccati con le funi ai tralicci del soffitto, due pittori in canottiera e coi cappellini fatti col giornale muovono i lunghi pennelli con lentezza da acquario, i secchi della vernice accanto. Tutto intorno è silenzio. Si sente solo il fruscio delle spatole sul fondale già quasi interamente dipinto. «Oh, a Ce'...» «Che voi?» «Vattela a pijà...» Così, in uno dei suoi ultimi film, Fellini descrive il Teatro 5 di Cinecittà, forse il luogo - insieme alla Firenze di Lorenzo de' Medici e al Vaticano di Giulio II - dove si è concentrato il più alto tasso di creatività e genio italico: una città dentro la città, più grande del suo contenitore, che riesce ad allargare i suoi confini fino ad abbracciare il mondo intero. Qui dentro, se batti il ciak, Visconti litiga ancora con Anna Magnani durante le riprese di Bellissima, Pasolini chiacchiera con Orson Welles in una pausa di lavorazione de La ricotta, e Mastroianni con gli occhi bistrati e un cappellaccio nero divide il cestino con gli operatori di ripresa. Il film si chiama 8 e ½ , il regista è Fellini. Mastroianni fa la parte di Guido, che poi è Fellini: un regista in crisi che non sa che film fare. E che alla fine imparerà, donandocela, una delle più liberatorie e gioiose lezioni su sé stesso e sulla vita che un'opera d'arte abbia mai saputo offrire. Il soggetto è di Fellini - che ha appena letto Jung: «la creatività e il gioco stanno l'una accanto all'altro» - e di Ennio Flaiano lo scrittore più ferocemente anti-italiano e al tempo stesso più tenacemente arci-italiano, che vuole chiamare il film La bella confusione. Di confusione ce n'è tanta, ed è davvero bellissima. Alla fine, poi, spuntano, in bianco, tutti i personaggi inventati dal regista, e si prendono per mano, con Guido che ne decide i movimenti, elettrizzato, felice, al megafono: «prendetevi per mano!» urla, e comincia il girotondo al suono di una fanfara di clown, finché non scende la notte e un bambino suona le ultime note su un flauto per poi sparire nel buio. A realizzare l'equivalente filmico della Cappella Sistina c'è voluta la creatività del più grande raccontatore di sogni dai tempi di Artemidoro (Federico); del più corrosivo scrittore italiano del dopoguerra (Ennio); di un attore smisurato e umano, troppo umano, come Marcello; e del prodigo Angelo Rizzoli, un miliardario che annotava giornalmente debiti, crediti e liquidità sul pacchetto di sigarette Turmac. Intanto, nel silenzio riverberato del grande Teatro 5 vuoto, il primo pittore si rivolge di nuovo al secondo: «A Ce'... No, stavo a pensà 'na cosa...» «Cosa?». «Perché non te la vai a pijà...?» e scoppia a ridere, felice come un bambino. Da quando 8 e ½ uscì nelle sale, nel 1963, esiste nei dizionari la parola «felliniano». «Avevo sempre sognato, da grande, di fare l'aggettivo. Ne sono lusingato. Credo però che fregnacciaro sia il termine giusto» dirà Fellini. Trent' anni dopo, il 1° novembre 1993 una processione folta e silenziosa si dirige al Teatro 5, completamente vuoto, ad eccezione di una grande pedana con moquette azzurra su cui è stata sistemata una bara monumentale dalle borchie dorate. Due carabinieri in grande uniforme, ai lati del feretro di Fellini, sembrano due enormi fiori dal pennacchio rosso. Dietro la cassa, un grande cielo limpido, con le nuvole bianche: è il fondale utilizzato per Intervista, il film di Fellini che originariamente doveva chiamarsi Cinecittà. Quella notte, quando la bara è stata portata via e tutto è di nuovo in silenzio, continua il dialogo tra i due pittori: «A Ce'», fa il primo. E l'altro, sbuffando: «Uuhhhh!». «Sai chi t' ho incontrato ieri? Moccoletto. Sai che m' ha detto?» «No.» «M' ha detto che te la devi annà a pijà...!» Titoli di coda. 

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 14 giugno 2021. Parlando di cinema, meglio cominciare dal finale: spiega sempre la storia che si è appena vista. E la storia che stiamo per raccontare, quella di Renato Casaro, uno fra i più celebri cartellonisti cinematografici che l'Italia abbia mai avuto, si conclude, almeno dal punto di vista artistico - il maestro sta benissimo: ha 85 anni e si diverte ancora con i pennelli - con Quentin Tarantino, regista innamorato del cinema italiano di genere, che sta girando il suo C'era una volta a Hollywood, uscito nel 2019. Per la scenografia gli servono dei manifesti di finti B-movies - crime action e spaghetti western - interpretati dall'attore protagonista, Leonardo DiCaprio: film inventati ma credibili, tipo Operazione Dyn-o-mite! o Uccidimi subito Ringo, disse il Gringo. Aveva bisogno di un maestro. E a chi chiede di dipingerli? A Renato Casaro il cinema è sempre piaciuto, fin da ragazzo, quando - erano i primi anni '50 -, per entrare gratis nelle sale, si mise a creare le grandi sagome degli attori, pezzi unici dipinti a mano, da mettere all'ingresso del Cinema Teatro Garibaldi o del Cinema Esperia, nella sua città, Treviso. Che oggi, per sdebitarsi di tanta gloria ricevuta, gli dedica una grande mostra - titolo icastico: Renato Casaro -, divisa in tre sedi cittadine: «L'ultimo cartellonista del cinema» al Museo della Collezione Salce, nella chiesa di Santa Margherita, «Treviso, Roma, Hollywood» ai Musei civici di Santa Caterina e «Dall'idea al manifesto» al complesso di San Gaetano. Curata da Roberto Festi e Eugenio Manzato, da oggi al 31 dicembre, tra schizzi a matita, bozzetti, foto di scena, prove, varianti (per i diversi mercati, italiano e internazionale: qui ad esempio c'è Mai dire mai, per i cinema tedeschi Sag Niemals Nie, ma Sean Connery è sempre impeccabile in smoking e Walther PP d'ordinanza), e poi locandine, manifesti, a due e a quattro fogli, per le sale cinematografiche o per l'affissione stradale (ecco Sapore di mare, ecco Amadeus con tutti i personaggi racchiusi nella sagoma nera del compositore...), la mostra racconta fantasia, creatività, artigianalità che diventa arte, occhio e capacità di sintesi dell'uomo che dipinse il cinema. «Quando dovevo fare un manifesto, la cosa essenziale, una volta capita la trama, era togliere, togliere, togliere. Quello che restava di solito era l'immagine giusta». Classe 1935, ma di anni ne dimostra 65, T-shirt, sahariana e scarpe da tennis, Renato Casaro dopo una vita a Roma ha perso l'accento veneto e guadagnato una certa impassibilità romana, anche se nel 1984 si trasferì per un lungo periodo a Monaco di Baviera. «Oggi il manifesto non è più fondamentale - ammette mentre ci accompagna lungo le sedi, le sale e i 300 pezzi della mostra scelti tra una carriera che è lunga 1500 manifesti -. Un tempo invece seguiva il film importante ma dava anche importanza al film». Casaro, autodidatta puro, ha dato molta importanza a molti film. Nel '53, a 18 anni, è già a Roma, nello studio di Augusto Favalli. Il suo primo manifesto è Criminali contro il mondo, del '55. Studia i maestri italiani della pubblicità e gli illustratori americani come Norman Rockwell, gli Impressionisti e la pittura di Rembrandt, più avanti persino gli iperealisti giapponesi Passano due anni e apre un suo studio privato a Cinecittà («Un'industria che allora dava lavoro a non sai quante persone dai tecnici agli sceneggiatori, dalle comparse ai costumisti, dagli arredatori a noi pittori»). Prima si firma «C. Renè», poi con il suo nome. A Roma vive l'epoca d'oro del cinema: gli anni '60 e '70. Conquista i registi italiani e americani almeno un maestro per lettera dell'alfabeto: Annaud, Bertolucci, Coppola, fino a Tornatore, Verdone e Zeffirelli Lo chiamano Hollywood e le major: Fox, United Artists, MGM, Columbia Lo vogliono i grandi autori come i distributori dei film di cassetta Lui accontenta tutti, arriva a realizzare anche cento manifesti l'anno: «Dallo schizzo iniziale al poster finito ci volevano 4-5 giorni Lavoravo anche su più film contemporaneamente. Agli inizi avevo un collaboratore per il lettering, poi ho sempre fatto da solo. Mai mancato una consegna. Magari quando arrivava il fattorino a ritirare il manifesto non era ancora asciugato del tutto, e mi è capitato di metterlo sul radiatore della macchina, ma non tardavo di un giorno». Li faceva vedendo solo le foto di scena, a volte i trailer, raramente qualche girato «giornaliero», quando andava bene leggendo il soggetto. Ma il risultato soddisfaceva sempre tutti. I registi, che si fidavano ciecamente («Certo, lavorare con Leone e Bertolucci mi creava un po' di apprensione... ma ad esempio il manifesto dell'Ultimo imperatore dicono tutti sia un capolavoro, con il bambino inondato da un fascio di luce...») e i distributori, che un giorno dovevano accontentare il pubblico di cinefili, un altro gli amanti del cinema di genere Eccoli qui, tutti i generi reinventati da Casaro, prima a colpi di pennello e poi, dalla fine degli anni '70, di aerografo, «che dà maggior realismo all'immagine, avvicina ancora di più alla fotografia...»: l'horror (qui c'è Il laccio rosso, con la testa di una donna strangolata «a tutto schermo»), il peplum (a decine, uno più bello dell'altro), il western (fra i tantissimi, il nostro preferito è 7 dollari su rosso), il giallo (c'è il magnifico L'orologiaio di Saint-Paul, tratto da Simenon, con Philippe Noiret visto dietro il vetro del negozio con la scritta dell'insegna a specchio), i film di Franco e Ciccio (il cult movie I 2 sanculotti, dove la cosa migliore del film è il manifesto), la commedia (tantissimi titoli di Sordi), i musicarelli, la trilogia di Rambo. E poi tutti i film della coppia Terence Hill e Bud Spencer («Una volta mi dissero che senza i miei manifesti i loro film non avrebbero avuto così successo»), i capolavori della storia del cinema (come C'era una volta in America: qui ci sono diversi bozzetti, locandine e la versione tedesca con i volti dei quattro protagonisti in oro su sfondo nero) e i suoi personalissimi capolavori: Balla coi lupi («Dicono sia perfetto, scelsi l'immagine di Kevin Costner che da soldato si trasforma in indiano truccandosi il volto coi colori americani bianco e rosso sullo sfondo blu») e soprattutto Nikita («Lei di spalle che gira dietro una parete sporca di sangue, e tu non sai se sta andando via, e dove, con chi... È il lavoro che amo di più»). E poi i nostri personalissimi capolavori. Ne citiamo tre. La riedizione del 1962 per l'Italia di Rapina a mano armata di Kubrick (Casaro si fece scattare delle foto con un mitra in mano mentre fingeva di essere colpito a morte, poi scelse quella a cui ispirarsi per il manifesto), Misery non deve morire (il volto di Kathy Bates, una macchina per scrivere e una baita avvolti nel buio) e Opera di Dario Argento, con gli occhi tenuti aperti da spilli fissati con lo scotch come fossero due palchi di teatro... E il film, infatti, era tutto lì. L'arte di dipingere il cinema.

Quando Tirrenia era la Hollywood sull’Arno. Paolo Lazzari su larno.ilgiornale.it  il 15 gennaio 2021. Se tendete bene l’orecchio e lasciate che i ricordi flettano i pensieri, le sentite anche voi. Un tramestio di voci ispeziona i corridoi in rifacimento. Quella sequela di volti amati dalla tradizione del cinema popolare crea una pausa dalla tristezza. C’è il fascino luminoso di Sophia Loren e c’è il sorriso aperto di Marcello Mastroianni. Quell’espressione imperiosa di Vittorio Gassman ed il volto benevolo di Vittorio De Sica. Ci sono Elio Petri e Sergio Corbucci e, con loro, decine di altri attori di un livello quasi irriverente, circondati da spalle più modeste, registi indaffarati, tecnici del suono, direttori della fotografia, comparse e semplici maestranze. Dove ci siamo infilati, dite? Richiesta legittima. Il posto è una piega del tempo incisa tra gli anni Trenta e i Sessanta, in Toscana. Precisamente, a Tirrenia. Se a qualcuno avanzasse una macchina del tempo, farebbe bene ad alzare la mano. Niente indifferenziato: soffiamo via la polvere ed accomodiamoci. Lancette indietro quasi di un secolo. Avete licenza di sgranare gli occhi ed allargare la bocca. Del resto, il “Pisorno” è uno spettacolo maestoso. Lo hanno chiamato così perché Tirrenia è terra di confine: con un piede sei nella città della torre pendente, l’altro affonda nell’Ardenza. Nel 1930 questi sono gli studi cinematografici più importanti d’Italia: lo rimarranno per tre decenni, fatto salvo il tetro interludio della seconda guerra mondiale, quando la cittadella del cinema verrà occupata prima dai tedeschi, poi dagli Alleati. Gli Studios sono costruiti durante il fascismo. La forma era quella rimbalzata nella testa del drammaturgo Gioacchino Forzano, ma servì l’iniezione di pragmatismo dell’architetto Antonio Valente perché i pensieri iniziassero a camminare davvero. Il regime bonificò l’intera area poiché la ritenne strategica: proprio in mezzo a due città, l’Arno ad un passo, il mare che si estende come un balsamo che lima le scarificazioni dell’anima, i monti a poca distanza. I denari necessari per finanziare un’opera così colossale vennero per la maggior parte sborsati dalla famiglia Agnelli. Breve stacco. Seguite la telecamera. Nel 1935 gli studi di Tirrenia assumono la denominazione ufficiale di “Pisorno“: se pensate che gli Universal Studios di Hollywood verranno inaugurati soltanto nel 1964, d’un tratto il quadro assume tinte più nitide. La Toscana è il vero centro del mondo cinematografico. Una culla del jet set internazionale che produce pellicole a manovella: quando la guerra stende un provvisorio sipario sono già ottanta i film girati da queste parti. Il secondo conflitto mondiale infligge un duro colpo al Pisorno. Gli anni che dovevano collimare con la ripresa assumono il retrogusto inospitale della disfatta. I fasti del tempo andato vengono presi a picconate, perché l’economia dell’Italia del dopoguerra gira ancora intorno all’essenziale e il cinema, in tutta sincerità, poteva considerarsi un lussuoso passatempo. Ma proprio quando la malinconia sembra avviluppare ogni cosa, la trama viene percorsa da un sussulto inatteso. Se non avete avuto fretta di tornare nel 2021 (perché dovreste, a conti fatti?) mettetevi di lato. L’Alfa Romeo che ruggisce sopra il viale di ghiaia che conduce agli Studios è pilotata da Carlo Ponti, produttore cinematografico a capo della Cosmopolitan Film e, a tempo perso, marito affettuoso di Sophia Loren. Osservatelo bene mentre si avvia all’ingresso, il gessato impeccabile crivellato da raggi riluttanti. Sta per staccare un assegno per acquistare tutta la baracca. Qualche settimana dopo gli operai sviteranno l’insegna: ora la città del cinema si chiama Cosmopolitan. La nuova era è propellente sano. Ossigeno che erompe in stanze asfittiche. Tornano i grandi attori. I maestri della regia sono di nuovo di casa. Il grande gigante intorpidito si scuote e riparte a pieno ritmo. Il successo però non ha un animo stanziale: si diverte a distribuire sferzate di felicità, senza concedere esclusive. In meno di un decennio la nuova ondata di fortuna degli Studios toscani si dissipa, complice anche l’ascesa di Cinecittà. Nel 1969 il Cosmopolitan getta la spugna. Quei monumentali spazi tornano ad imperlarsi di polvere e tristezza. Per l’ultimo stralcio di luce bisogna attendere il 1987, quando i fratelli Taviani decidono di ricostruire qui una Hollywood in miniatura per girare il pittoresco Good Morning Babilonia. Oggi questi luoghi sono in ristrutturazione e, per la maggior parte, diventeranno residenze alberghiere. Eppure, se vi trovate da quelle parti, fate un tentativo. Mollate il presente. Scaricate l’orologio. Socchiudete le palpebre ed evitate di trasalire: la Hollywood sull’Arno ha ancora molte cose da sussurrarvi.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” domenica 30 luglio 2023.

La prima revenge song era roba grossa. In How Do You Sleep at Night, di John Lennon, registrata con George Harrison e Yoko Ono per l'album Imagine del 1971, John si scagliava contro Paul McCartney che se n'era andato dai Beatles e aveva chiesto con successo al tribunale di Londra di dichiarare disciolta la società legale della band. Gli cantava come facesse a dormire di notte dopo quel che aveva combinato, la canzone era potente e carica di pathos musicale: ma ricordata più per il testo, ovviamente. 

[…] Tempi eroici, personaggi mitici. Adesso più modestamente va così, nel pop: i risentimenti sono ripresi e si stanno facendo sempre più numerosi, e sono soprattutto femminili e amorosi. Nel trionfo dei social, quando si scopre che la canzone di una star vomita veleno verso un ex che si è comportato da carogna, nasce subito un'attenzione spasmodica e parte la caccia al reprobo, per lo più personaggio semisconosciuto, forse sfigato. Si punta al maschile senza indecisioni, perché sono le ragazze della musica quelle afflitte dai peggiori profittatori. […]

Va ricordato che a riattizzare il clamore sulle revenge songs come vengono chiamate, è stata Shakira, le cui vicende personali sono state amplificate dal fatto che il traditore – il calciatore Piqué – era famoso quanto lei. Spietata nella sua confessione del subìto tradimento, si è buttata sul sarcasmo («Le donne non piangono più, le donne fatturano») con paragoni velenosi in Music Session Vol. 53: «Hai cambiato un Rolex con un Casio, una Ferrari con una Twingo». […]

La più illustre delle vittime contemporanee di maschi senza sensibilità che si è sfogata in note resta Lady Gaga. Il suo matrimonio con Christian Carino era fissato per l'autunno 2019.

Ma non se ne fece nulla, e nel maggio successivo dentro l'album Chromatica appena uscito, si poteva ascoltare com'era finita. Nel brano Fun Tonight, cantava la riservatissima Lady: «Ami i paparazzi, ami la fama/ anche se sai che mi provoca dolore/ Sento di essere in un inferno di prigione/ Se grido te ne vai/ Quando sono triste, vuoi solo giocare/ Ne ho abbastanza, perché rimango?».

Quasi contemporaneamente, Miley Cyrus interpreta in Flowers la storia che tre anni prima l'ha portata al divorzio dall'attore Liam Hemsworth: «Posso comprarmi i fiori da sola, scrivere il mio nome sulla sabbia/ Parlare con me stessa per ore... sì, posso amarmi meglio di quanto possa fare tu». Taylor Swift, che di queste canzoni ne ha cantate parecchie ai suoi fidanzati, è nota nel campo soprattutto per Dear John, che dovrebbe essere ispirata al collega John Meyer. Beyoncé ha cantato i tradimenti di suo marito Jay-Z in varie occasioni, fino all'album intero Lemonade che è un inno alla rabbia coniugale.

 E comunque la madre di queste ragazze, molto più sottile e perfida di tutte quante messe insieme, fu Carly Simon a fine '72 con You're so vain, che incrociava i ritratti di 3 compagni che avevano in comune l'esser vanitosi. […]

Achille Lauro: «Scrivere canzoni è stata una terapia, ero un adolescente turbolento». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2023.

L’artista torna con «Stupidi ragazzi», brano elettronico che parla d’amore: «Credo in un sentimento maturo, in cui si costruisce»

Nuovo capitolo artistico, nuovo sound per Achille Lauro, tornato con «Stupidi ragazzi», singolo che punta sull’elettronica e si rifà «a sonorità londinesi e berlinesi, filone non molto esplorato in Italia».

Chi sono questi «Stupidi ragazzi»?

«II pezzo fa una riflessione su esperienze autobiografiche. È una ballad intima che ha una visione dell’amore cinica e personale. Ciò non vuol dire che io non creda nell’amore e non lo idealizzi, ma è difficile, ci vuole molto impegno».

Uno sguardo adulto.

«Io credo nell’amore maturo. L’amore non è l’attrazione iniziale che può capitare tutti i giorni, ma sono due persone che vogliono costruire qualcosa. Stare insieme non è semplice: si cresce, si cambia e non è detto che se stai 10 anni con una persona rimanga la stessa che hai conosciuto».

Lei si sente cresciuto?

«Sto vivendo tanto e ho una visione più matura di quel che sono stato. È un momento bello, in cui sono libero. Mi sono dedicato alla musica, ho viaggiato, mi piacerebbe anche andare a stare un po’ a New York, e sento che posso fare quello che mi va, anche la cosa più fuori moda possibile».

E quando riguarda la sua carriera fin qui cosa vede?

«Che ho fatto un percorso pazzesco. Ogni disco è una fase diversa, ho fatto 5 Sanremo, un tour con orchestra. A 33 anni ho difficoltà a trovare quel che non ho fatto».

Bilancio molto positivo...

«Sono un esponente del mondo contemporaneo abbastanza importante e sto cercando ciò che si trova solamente in me. Achille Lauro può piacere o non piacere, ma bisogna ammettere che la mia identità è abbastanza unica».

C’è chi ha visto in Rosa Chemical delle somiglianze con lei, è d’accordo?

«Non attacco mai i giovani, per alcuni il modello può essere Elvis o chissà chi, per altri può essere Achille Lauro. Se vedo un ragazzo che si esprime come me, vuol dire che ho fatto un gran percorso. Ma al di là di Rosa, penso ci sia stata un’onda partita da quel che ho fatto. Anche a Sanremo, non voglio essere presuntuoso, ma quello del 2019 non era come oggi. Prima i ragazzi stavano nelle gabbie, inquadrati, ora cercano di essere se stessi».

La sua immagine fluida ha fatto scuola?

«Al di là del fluido, io ho cercato di portare sul palco la mia anima. Se sono stato percepito come uno stendardo di libertà, fluidità, essere chi si vuol essere, ne sono contento. Ma non mi sono mai proclamato paladino di qualcosa, ho fatto quel che sentivo».

Tornerà a Sanremo?

«In questi anni penso che col Festival ci siamo dati tanto a vicenda e siamo cresciuti insieme. Stavolta non so, magari lasciamo spazio ad altri».

Sta lavorando a un disco?

«Ho tanta musica, con una forte identità. Ma mi voglio prendere il mio tempo, esplorare, provare, sbagliare».

A proposito di sbagli: è pentito della sua partecipazione all’Eurovision 2022 per San Marino?

«No, io per la mia musica colgo le occasioni che ci sono. Ho cercato di portarla a un panorama internazionale e sono andato lì con la mia visione».

L’anno prossimo sarà a «Una nessuna centomila». Le sta a cuore il tema della violenza sulle donne?

«Mi sta a cuore il tema della violenza in generale, cerco di prendere parte alle cause giuste. L’anno scorso ho realizzato un progetto stupendo andando a parlare nelle scuole e concludendo con un discorso all’Onu. Ma faccio anche cose che nessuno sa nel sociale, è il mio modo di dare».

Fedez si sta battendo per il bonus psicologo: che ne pensa?

«Tante persone crescono sole, confrontarsi è importante. Una volta chi aveva bisogno dello psicologo era malvisto, invece è determinante, specie per i giovani dopo la pandemia. Io sono stato fortunato perché scrivere è anche conoscersi e curarsi. Se non avessi scritto non so che farei oggi, c’era qualunque rischio».

A cosa si riferisce?

«Vengo da una situazione familiare complessa, dalla periferia violenta. Ero un turbolento minorenne e scrivere è stata una specie di terapia».

Si sente capito?

«Non mi aspetto che la gente mi capisca, ma cerco di essere sempre un po’ più avanti e spero che questo crei dibattito. Tanti che mi hanno visto con la tutina a Sanremo avranno detto “questo da dove è uscito”, ma sono tutt’altro che un prodotto di marketing».

C’è sostanza, intende?

«Nulla di quel che mi è capitato è successo a caso. Tutto è l’esatta trasposizione di quel che ho in mente. In Italia c’è un pregiudizio: si pensa che un artista sia esibizionista, anziché capire che c’è un pensiero dietro».

Ada Alberti: “Il mio segreto? Non indossare una maschera”. Redazione su L'Identità l'8 Luglio 2023 

di FRANCESCO URRU

Con una famiglia in gran parte astrologa, non poteva che diventare anche lei una figlia delle stelle e amica delle costellazioni. Da giovane guardava l’astrologia da miscredente, ma il papà la introdusse nella materia: dopo poco fu amore a prima vista. Col passare del tempo grazie alla sua compostezza, bravura e portamento è approdata in tv con una rubrica tutta sua. Da ben 17 anni ci racconta cosa prevedono per noi gli astri. Vive splendidamente in una famiglia allargata dove regna la pace e la serenità. L’Identità incontra la regina delle stelle, Ada Alberti

Lei è nata in una famiglia di astrologi: papà, zia mamma, i cugini. Che ricordi da piccola ha del lavoro che facevano i suoi familiari?

Preciso subito che mia mamma non era l’astrologa Lucia Alberti. Non c’entra nulla. Mia madre era fantastica e aveva solo un intuito formidabile. Io però ho sempre seguito mio padre. Lui dipingeva, ed io ho fatto il liceo artistico, facendo diverse mostre d’arte. Poi cambiò, si mise a disegnare mobili ed io lavorai in diversi studi di ingegneri, architetti; ho fatto l’arredatrice, la pittrice. Le faccio questa premessa perché, quando ero quindicenne, mio padre era astrologo e studiava la materia. Nonostante lo seguissi in ogni cosa che facesse, gli dissi “Papà, io ti ho seguo in tutto, ti stimo in tutto ma questa cosa dell’astrologia non la capisco perché non credo che attraverso la data di nascita si possa arrivare alla vita della persona”. Lui mi guardò e mi rispose “Sai che ti dico? Tu hai mai letto qualcosa in merito?”. Ovviamente no, ero a digiuno della materia. Mi regalò l’enciclopedia sull’astrologia e un libro sulla storia dell’astrologia, dicendomi “Tu inizia a leggere, poi parleremo”. Iniziai a studiare i calcoli astronomici, anche non ero portata per i numeri. Mi presero un insegnante di sostegno, risultò poi anche lui appassionato di astrologia e mi spiegò come fare i calcoli. Ovviamente il primo calcolo astronomico che feci fu il mio e con i dati e l’orario di nascita precisi. Tutto tornava, nel senso che il risultato corrispondeva con il mio essere. Ovviamente l’interpretazione che si faceva allora non è la stessa rapida di adesso. Quello che mi fece proseguire però con l’astrologia fu la richiesta di una professoressa del liceo artistico che frequentavo, una donna bellissima e di classe a cui andavano dietro tutti, alunni inclusi; un giorno mi disse “Ada io so che studi l’astrologia, voglio sapere se mi sposerò”. Ai tempi ci mettevi una settimana per fare un quadro astrale e interpretarlo. Quando vidi delle congiunzioni astrali particolari, andai a leggere sul libro e scoprii che la professoressa non poteva avere figli. Successivamente, in maniera delicata, le feci la domanda: mi confermò di aver avuto un brutto intervento che l’aveva privata della maternità. A 23 anni mi sentii pronta per fare l’astrologa e dopo aver studiato, conosciuto, approfondito da maestri ed esperti, aprii a Catania il mio primo studio di astrologia; a 25 anni ne aprii un secondo a Roma perché mi chiamò Rai 1, mi volevano in un programma in Rai. Cercavano chi fosse il migliore astrologo in Sicilia, prima fu fatto il nome di mio padre, poi il mio. Pensavo fosse uno scherzo, poi arrivò una lettera, vennero a casa per parlare per questa una rubrica. Rifiutai, perché la situazione mi sembrava un po’ ambigua; in ogni caso sono arrivata lo stesso ad avere una rubrica in tv, un po’ come Branko, che aveva un modo di raccontare magnifico e affascinante. Credo di avere un’ottima parlantina, chiara e sicura e pensai “perché no, sono brava in quel che faccio”; vorrei avere più tempo per parlare e spiegare perché ho 2 minuti e mezzo. A monte di tutto devo dire grazie a Mediaset perché mantiene il mio spazio da 17 anni: vuol dire che i risultati in termini di share ci sono. Devo ringraziare l’Azienda che mi ha permesso di essere presente in tutto questo tempo.

Prima che lei iniziasse a fare l’astrologa, quando ne parlava con gli amici o veniva fuori l’argomento, che commenti si sentiva dire?

Guardi, io faccio una divisione tra conoscenti e amici, anche se cambio città mantenendo i rapporti. Conoscenti ne ho tantissimi, amici veri ne ho da quando avevo cinque anni, per esempio, loro mi conosco benissimo; una mia ex compagna del liceo artistico mi ha fatto notare che, quando giro le dita sono in contatto con qualcuno, essendo anche sensitiva. I conoscenti mi sfruttano come dei pazzi: un esempio capitato a cena al ristorante. È mia abitudine guardarmi intorno e mi cattura l’attenzione un signore. Dietro di lui aveva una figura, una persona e vengo attratta dalla situazione. Sono andata da questa persona per dirgli che avevo necessità di parlargli. Gli spiegai che una persona vicina a lui e voleva comunicargli un messaggio; specifico che le anime non comunicano, trasmettono col pensiero. Gli riportai la missiva e mi chiese chi io vedessi. Dalla descrizione lui capii che era la madre. Tornando alla domanda che mi ha fatto inizialmente, prima che diventassi famosa tutti dicevano di non credere, di non seguire, poi diventavano “pazzi” per le cose che dicevo che erano vere. diventavano tutti curiosi nel sentirsi dire certe cose da una ragazza di 15 anni, tutte cose che poi si sono avverate: non è facile, stupisce.

Ha un ingrediente segreto che le fa affrontare le giornate col sorriso?

Il segreto piò essere quello di affrontare la gente senza maschera, con la verità senza imbrogliare. Ammetto che per problemi di famiglia il sorriso un po’ si è perso. Il sorriso ora lo sto recuperando in mezzo alla natura, circondandomi di vita vera.

Quale peculiarità deve avere chi fa l’astrologia in tv?

Sicuramente la sicurezza di quello che dice, e magari un po’ più di tempo per parlare; poi la materia, conoscere quello che si dice. Alcuni pensano che io abbia il gobbo davanti, invece, vado a braccio perché so di cosa parlo.

C’è qualcosa che la rende insicura o la inquieta?

Insicura no, inquieta sì, a livello politico ma non riesco ancora a capire bene di che cosa si tratta, a livello mondiale intendo.

Facendo un quadro astrologico della sua famiglia allargata che cosa ne viene fuori?

Cosa vuole che venga fuori? Stiamo tutti bene! Quando ti relazioni con una per donna come Alba (Parietti, ndr) che è una persona estremamente intelligente e intuitiva non può esserci che un grande rispetto tra noi; con Francesco (Oppini, figlio di Franco, ndr) stessa cosa, è un ragazzo sveglio.

Ha un progetto che è in cantiere e che vorrebbe realizzare?

Sì, ma non posso dire nulla. Se non hai qualcuno che ti aiuta di potente, resti dove sei, lei lo sa meglio di me.

Estratto dell’articolo di repubblica.it domenica 22 ottobre 2023.

La popstar Adele ha raccontato durante un concerto a Las Vegas, fra lo stupore del pubblico, che era un alcolista. Ma che ha smesso da circa tre mesi. Una confessione che il pubblico non si aspettava da una donna di successo come lei. La cantante sta vivendo un periodo fortunato, con il fidanzato Rich Paul e il figlio, Angelo, di 11 anni. Ma l’alcol, e in particolare il vino, è stato difficile da lasciare. Adele, infatti, ha rivelato di aver avuto un passato da alcolista per molti anni. […]

Durante il suo show a Las Vegas sul palco del Colosseum Ceasar’s Palace, Adele con un bicchiere di vino in mano si è messa a dialogare con un fan, che le ha detto che stava bevendo da diverse ore. A quel punto Adele ha spiazzato tutti: «Goditi il tuo whisky sour. Sono molto, molto invidiosa». La frase ha lasciato tutti stupiti, e la cantante ha voluto spiegarsi meglio: «Ho smesso di bere circa 3 mesi fa. Però, la sobrietà è noiosa. Durante i miei vent'anni, ero quasi una vera e propria alcolista. Così, ho deciso di darci un taglio. Ho rinunciato anche alla caffeina».

E poi ha aggiunto che le manca molto l'alcol, e che la decisione di smettere è arrivata dopo i lockdown per il Covid. Durante le quarantene era arrivata a bere quattro bottiglie di vino al giorno, prima di pranzo. Così la star ha descritto quel periodo: “Volevo ultimare il mio album, 30. Però stavamo sempre in casa ubriachi”. […]  “È una noia adesso. Sono stata un’alcolista borderline per quasi tutti i miei vent’anni, mi manca molto”, confessa durante il concerto. 

E non è la prima volta che Adele parla della sua difficile relazione con l’alcool. Lo aveva già fatto nel 2022, in un’intervista con Oprah Winfrey, in cui aveva raccontato che i suoi problemi con l’alcool sono derivati dall’alcolismo di suo padre: “Ho sempre avuto una stretta relazione con l’alcool. Ne sono sempre stata affascinata. È ciò che ha tenuto mio padre lontano da me, quindi ho sempre voluto sapere cosa c’era di così bello”.

La cantante aveva raccontato nello show di Oprah Winfrey di aver smesso di bere dopo la morte del padre, Mark Evans, per un cancro all’intestino nel 2021. Il trauma l’aveva portata ad allontanarsi dall’alcol per poi riprendere, in un continuo tira e molla che ora sembra essere finito. Il periodo peggiore […]

Le confessioni di Adele: "Durante il lockdown ho bevuto anche 4 bottiglie di vino al giorno". La Repubblica il 29 Marzo 2023

La cantante lo ha rivelato durante un concerto nella sua residenza al Caesar Palace di Las Vegas. E ha poi rivelato: "Di questi concerti verrà fatto un film"

Da quando ha eliminato l’alcol dalla sua vita ha perso 45 chili. Ora si capisce come abbia potuto ingrassare così tanto. Sabato scorso, durante un concerto a Las Vegas, Adele ha confessato che in pieno lockdown ha bevuto fino a quattro bottiglie di vino. Anche di mattina, prima di pranzo. La confessione è arrivata mentre si esibiva al The Colosseum del Caesars Palace per Weekends with Adele. "Ricordo quando sono venuta qui durante il Covid, in lockdown. Erano le 11 e mi ero già bevuta quattro bottiglie di vino. Nel 2020 eravamo tutti a casa, praticamente sempre ubriachi".

La sua residenza a Las Vegas è stata un successo, ogni sera sold out. "Questa esperienza mi ha riportata in vita, qui mi sento al sicuro. Di solito mi vengono le farfalle nello stomaco, mi innervosisco, prego e incrocio le dita sul palco, ma questi spettacoli non mi rendono affatto ansiosa. Sono stati i quattro mesi migliori della mia carriera, gli show mi hanno dato tanta gioia e ho adorato farli».

Da qui la decisione di Adele di ripetere l’esperienza dal prossimo agosto a fine autunno. "Esibirmi davanti a quattromila persone per 34 notti non è sufficiente, quindi tornerò", quindi Adele ha rivelato che sulla residenza a Las Vegas verrà realizzato un film "in modo che tutti possano vedere lo spettacolo".

Celentano dopo Sanremo: «Ho letto i giornali, ora è certo che non posso tornare in tv». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023

Su Instagram il Molleggiato sembra riferirsi alla gara canora conclusasi ieri sera senza nominarla direttamente

Dopo i complimenti, venerdì, a Amadeus, conduttore e direttore artistico del Festival di Sanremo per aver portato per la prima volta il Presidente della Repubblica all’Ariston, e a Madame, la «grande novità di quest’anno per il pezzo e la straordinaria interpretazione», oggi Adriano Celentano, cantante, attore, provocatore sulla scena artistica da sessant’anni, scrive su Instagram: «Ho letto i giornali... Ora è certo: non potrò più tornare in televisione». Il «molleggiato» non la nomina direttamente, ma il riferimento sembra chiaro alle polemiche sulla manifestazione canora. L’ex ragazzo della via Gluck non potrà più portare le sue provocazioni sul palco o in studio.

Celentano ha partecipato al Festival di Sanremo cinque volte, vincendolo nel 1970, con «Chi non lavora non fa l’amore». Alla sua prima volta, nel 1961, esordì voltando le spalle alla platea in sala e a quella televisiva. Un gesto provocatorio in un festival fino a quel momento modello di bon ton e perbenismo. Un gesto che ruppe gli argini. Un anno dopo, «osò» sfidare il dominio delle case discografiche creando il Clan, una etichetta indipendente che riuniva una squadra di artisti-amici. Per non parlare del suo sostegno alla causa ambientalista quando ancora l’ambientalismo non era una causa: l'arruffato processo di urbanizzazione delle città finì nel mirino della canzone «Il ragazzo della via Gluck».

Adriano Celentano compie 85 anni: storia dell’orologiaio che vendette 200 milioni di dischi in rock senza sapere l’inglese

Premendo il tasto forwarding arriviamo velocemente al 3 ottobre 1987. Su Rai1, l’ammiraglia di Viale Mazzini, va in onda il primo dei silenzi di Adriano Celentano. Una svolta epocale nell’intrattenimento televisivo. A «Fantastico», durante un discusso monologo sulla caccia alla vigilia dei referendum abrogativi del 1987, il cantante invita gli elettori a scrivere sulla scheda la frase riportata sulla lavagna, «La caccia e contro l’amore» (dopo aver mostrato un cruento filmato di Greenpeace che documentava il massacro di cuccioli di foca da parte dei cacciatori per il mercato delle pellicce). Dimentico del fatto che scrivere frasi sulla scheda avrebbe comportato l’annullamento del voto, Celentano fu processato. La frase fece scalpore anche per l’errore commesso da Celentano di non accentare la «è» (errore che fu uno dei pretesti per incoronarsi «Re degli ignoranti»). Sui silenzi Celentano ha costruito una intera carriera. Se non è questa provocazione...

Dario Salvatori per Dagospia il 6 gennaio 2023.

Chissà se questa mattina Mina ha preso il telefono e ha fatto gli auguri di compleanno ad Adriano Celentano. Il rito si celebra da sessantacinque anni. Non è poco. Se era cartaceo cominciava sempre così: “Tanto Auguri! Molleggiatino mio!”. Nei Sessanta era spesso telefonico: “A pensarci bene a me sembra di non essere mai stata adulta. Subito responsabilizzata. Subito vecchia, quasi. Tu no. Tu ragazzo forever. Non ti sei mai stancato di fare casino.”

 Nei Settanta, il decennio in cui si sono frequentati di meno, bastava un segnale materno da parte della Tigre: “Da un paio di  pantaloni improbabili alla voglia di cantare il Celeste. Beato te!”.

 Nei dorati anni Ottanta gli auguri erano  quasi sempre materni: “Sei sempre in testa al gruppo, senza farsi sorpassare da immeritevoli inseguitori capaci di giovanilismi e modernismo, ma non di giovinezza o di modernità. Mi domando se ti possano aver salvato le proverbiali pause.”

 Ecco i Novanta: “E ti metti ad urlare di foche, petrolio, armi, cibo, dischi, ladri di verità. Solitamente tutti smettono di voler cambiare il mondo ad una certa età, quella bruttissima della resa, quando la delusione incombe e zittisce.”.

 Gli auguri del 2000 iniziano sempre così: “Ciao dove sei?”. Sono arrivati i cellulari, vicini ma invadenti, plastici ma inguardabili, con quell’antennone  che spunta da tutte le parti. Anche  chi ha cantato “Se telefonando” si adegua: “Dimmi che non è vero! Tu settant’anni! No, non è possibile. Mi sembrano passati cinque minuti da quando eravamo ragazzi. Oddio…ragazzi…”.

Arriva il nuovo secolo: tutto diventa liquido, addirittura le canzoni, i social, i video messaggi, i podcast, le app… Come saranno stati oggi  gli auguri di Mina ad Adriano? Proviamo. “85 anni il giorno della Befana solo te potevi festeggiarli. Non saranno certo loro a fermarti. Di questo sono più che sicura. Auguri, Adriano! Auguri davvero.”

 Quando fece il provino per l’Inter davanti al grande Giuseppe Meazza. Anche quella volta era già in controtempo. Era il 1952, la prima volta che i neroazzurri vincevano lo scudetto due anni di fila. A guidare l’attacco c’erano Lorenzi, Nyers, Amadei, Skoglund. Posti in piedi per tutti. E Peppin’ lo scartò.

 Molleggiato chi? Jack La Cayenne! Si esibiva al circo come ballerino di boogie-woogie, il rock and roll non era ancora arrivato, si faceva chiamare Torquato il Molleggiato. Poi semplicemente Molleggiato. E dunque Adriano doveva fare qualcosa di più: Supermolleggiato!

Bastò “Il tuo bacio è come un rock” e si comprò la Giulietta Sprint. Del resto le sue canzoni parlavano di emancipazione femminile, prendiamo “Che dritta!”(1960):

Si chiama Gabriella/ le piace far la bulla/ lei fuma le Mentola/si fa bruciar la gola/ per la misera che dritta/ senza la Giulietta/niente da far/ lei vuole  il tipo sui trenta/capelli tinta polenta/le piace far la grinta se vuol baciar.”

 Nel 1962 fonda il Clan con tutti i suoi amici. Mutuato dal Clan Sinatra. Non a caso  nei suoi uffici milanesi c’erano solo posacenere con una sorridente immagine di Sinatra. Così c’era più gusto a spegnere  la sigaretta sulla faccia di “The Voice”.

 Nel 1962 il primo ad arrivare al Clan è Ricky Gianco, che sente un brano appena uscito, “Stand by me”, cantato da Ben E. King. Il testo lo scrive Don Backy in una notte. In italiano diventa “Pregherò” però non lo incide Gianco ma il Boss e diventa un disco da un milione di copie. A Ricky propone di fare il “seguito”, “Lei vedrà”, ovvero la storia della non vedente che riacquista la vista.

 “Pregherò” coincide con la crisi mistica di Celentano. Bruciando tutti i mistici che sarebbero venuti dopo: George Harrison, John Lennon, Carlos Santana, Brian Wilson, Donovan, John McLaughlin e dozzine d altri. Il suo nume tutelare è padre Ugolino Vagnozzi. Sarà lui a sposarlo con Claudia Mori (ex fidanzata del calciatore della Roma Francisco Ramon Loiacono) nel 1964 e ad ufficiare  di nuovo la coppia  nel matrimonio dei cinquant’anni.

 Si chiudono gli anni spensierati del Clan e per Adriano arriva il momento ecologico,  naturalista ma soprattutto moralista. Un periodo che si apre con “Il ragazzo della via Gluck”, il suo brano più autobiografico, presentato al Festival di Sanremo del 1966, che non entra nemmeno in finale. Celentano diventa ambientalista, Dc, anti sindacalista, cattolico ma estraneo a l’ortodossia, si salva con l’ironia del baratro reazionario. Si impegna senza limiti, difende il suo diritto a dire cazzate.

 Arriva il “Fantastico” del 1987 e Celentano cambia stile ma non troppo, inventa la “pause”, lui che ha sempre frequentato il rock and roll in battere, crea dei “ritardi” jazzistici, cari a Nat King Cole. Uno storico come Arturo C. Quintavalle apre l’antifona: “Il –Fantastico- di Celentano serve per far capire e per capire noi stessi, serve per aprire rapporti diversi fra noi e il mondo, fra l’Europa e il Paesi della povertà, ma anche fra noi e gli spettacoli che alcuni si ostinano a definire –leggeri-. Apriti cielo. Le proteste dei delusi e si spiegano i consensi entusiastici di altri.

Celentano mi ha sempre annoiata. Oltre tutto, ora che è vecchio avrebbe potuto imparare qualcosa”  (Camilla Cederna)

 “Bisogna cacciarlo subito. Perché è incapace, presuntuoso, arrogante, maleducato, perché perde il suo tempo facendo un mestiere che non è capace di fare. (Roberto Gervaso)

 Non ho visto –Fantastico- perché il sabato sera io esco. Spero che lo facciano anche i telespettatori.”  (Beppe Grillo)

 “E’ uno svitato che parla a vanvera”  (Indro Montanelli)

 “Ho visto la trasmissione, purtroppo, e avrei potuto risparmiarmi il disturbo.”

(Pippo Baudo)

 “Se fossi il direttore della Rai lo butterei fuori” (Edmondo Bernacca)

 “L’irresistibile gag del sabato sera è –il cretino di talento-.” (Giorgio Bocca)

L’esibizione mi è parsa il tipico esempio di fascismo emozionale. Celentano dovrebbe concludere la sua esibizione a –Fantastico- come nel film –Quinto potere-, cioè uccidendosi.” (Roberto d’Agostino)

LE CANZONI

Le gemme

Il tuo bacio è come un rock (1959)

Il ribelle (1959)

Teddy girl (1959)

Che dritta” (1960)

ADRIANO CELENTANO E BEPPE GRILLO

24 mila baci (1961)

Stai lontana da me (1962)

Non mi dir (1965)

La festa (1965)

Il ragazzo della via Gluck (1966)

Mondo in mi 7° (1966)

Torno sui miei passi (1967)

Azzurro (1968)

Prisencolinensinainciusol (1972)

Svalutation (1976)

Acqua e sale (1998)

 Racchie

Furore (1961)

Grazie, prego, scusi (1962)

E voi ballate (1965)

Storia d’amore (1969)

Chi non lavora non fa l’amore (1970)

Sotto le lenzuola (1971)

Bellissima (1974)

Un’altra volta chiudi la porta (1975)

Il tempo se ne va (1980)

Giornata nein (1982)

Uomo (1982)

Jungla di città (1983)

Uh… uh… (1983)

Susanna (1985)

Adriano Celentano compie 85 anni: storia dell’orologiaio che vendette 200 milioni di dischi in rock senza sapere l’inglese. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Il Molleggiato è arrivato al traguardo con una parabola che sembra quella di un extraterrestre, a partire da quel lontano 1954 in cui scoprì la «musica nuova»

Come ogni extraterrestre che si rispetti, è arrivato sul nostro pianeta grazie alle comete. In occasione del suo 85esimo compleanno è giusto ricordare che Adriano Celentano è nato due volte: la prima, il 6 gennaio 1938 in una modesta palazzina a due piani di via Gluck 14 a Milano (dove, peraltro, incredibilmente, non c’è una targa che lo ricordi). La seconda, in un giorno imprecisato del 1954, quando un amico arrivò di corsa nel negozio d’orologiaio del signor Tranquillo Galvani dove Adriano lavorava come apprendista e gli disse che era arrivata una musica nuova, il rock’n’roll di Bill Haley and the Comets. “Quando l’ho sentito, è come se mi fosse entrato un fulmine nella testa”, raccontò Celentano molti anni dopo all’amica Fernanda Pivano, in quella che è probabilmente la più bella intervista di una carriera straordinaria (nel libro “Complice la musica”, Bur). Elvis Presley non era ancora arrivato in Italia, i Comets di Haley erano ancora un fenomeno di nicchia che lui capì immediatamente, tra i primissimi nel nostro Paese.

E così, lui che era l’unico in famiglia a non aver mai suonato strumenti – il papà, immigrato dalla Puglia, amava il mandolino – diventò musicista: cominciò in periferia, nella sala da ballo della Cooperativa Filocantanti di via Arese nei pressi di viale Zara, cantando “L’orologio matto”, cioè “Rock around the clock” (la generazione successiva la conoscerà come sigla di “Happy Days”), in italiano, con quattro amici detti i “Rock Boys”. “Piaceva talmente, anche perché era il primo a far questo genere, che a un certo punto si divertiva a portar via clienti da una sala per travasarli in un’altra dove rifaceva il numero”, scrisse sull’Espresso Camilla Cederna elogiando quell’adolescente che aveva inventato “un tipo di cantante assolutamente nuovo e tutto italiano, in cui il milanese felicemente si fonde con il meridionale”.

Non renderebbe giustizia al giovane Celentano – e neanche al signore 85enne di oggi, che ha ancora una stanza della villa adibita a laboratorio d’orologeria: il suo vero mestiere, la musica è il suo hobby, dice spesso scherzando – classificarlo come genio spontaneo della musica, come fenomeno capace d’imparare in un istante il rock’n’roll senza sapere l’inglese e arrivando così a vendere 200 milioni di dischi attraverso sette decenni, e a recitare in film campioni d’incassi senza aver mai formalmente studiato recitazione, a finire primo e secondo nello stesso Sanremo sottolineando pragmaticamente che se avesse portato tre canzoni sarebbe arrivato anche terzo, e a creare un fenomeno mediatico (e politico) con il suo “Fantastico” televisivo, quando ordinò al pubblico di spegnere la tv per 5 minuti e 8 milioni d’italiani (due terzi dei voti della Dc, il doppio del Psi) obbedirono.

Perché il genio di Celentano non esisterebbe senza il talento dell’orologiaio: smontare e rimontare un meccanismo complicatissimo per capire come funziona, e imparare a rimetterlo insieme, come fece da ragazzino – quand’era ancora un fiulett – con il grande orologio del bar sotto casa che s’era rotto, e lo riportò perfettamente in funzione nell’ammirazione generale. Smontare e studiare maniacalmente la chitarra elettrica dei Comets, la voce di Haley, il blues a 12 misure, i fianchi di Presley che accompagnavano quella che in America veniva vista come “musica del demonio” ma lui rese subito amichevole, travolgente, calorosa – in una parola, italiana, smontare la recitazione di Brando ne Il selvaggio, gli sketch di Jerry Lewis.

I suoi grandi successi – “greatest hits” come dicono quelli che a differenza di Celentano sanno l’inglese ma non hanno venduto 200 milioni di dischi – sono troppi per elencarli, da “24.000 baci” a “Il tuo bacio e’ come un rock”, ma basta “Azzurro” per riassumere tutto Celentano: scritta da Paolo Conte, dal ’68 in poi è stata cantata da legioni di artisti in tutto il mondo, “cover” di extra lusso da Mina a Régine, ma la versione di Celentano non è soltanto la prima, è in un certo senso l’unica (ci perdoni l’avvocato Conte, che resta uno dei grandi compositori della nostra epoca) perché diversa da tutte le altre, inimitabile in quel modo sfuggente che è la cifra di Celentano da quasi settant’anni.

Federico Fellini aveva capito tutto subito, vedendo su una rivista le foto di un concerto allo Smeraldo di Milano (oggi è un grande magazzino di alimentari) nel quale uno sconosciuto cantante rockettaro aveva provocato disordini tra i fans, e l’aveva convocato a Roma per “La dolce vita”. Forse per l’unica volta nella sua vita, intimidito davanti al maestro, tacque. Disse soltanto, quando Fellini spiegò che la protagonista era Anita Ekberg, “Urca”, e bastò quello. Sposato da 59 anni con Claudia Mori, tre figli (Rosita, Giacomo, e Rosalinda), disse 12 anni fa a Fernanda Pivano che il suo progetto per il futuro era quello “di saltellare ancora un po’”, che è l’augurio migliore da dedicargli anche oggi.

Adriano Celentano compie 85 anni: tutto quello che non sapete di lui. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Il compleanno del Molleggiato

Compie 85 anni proprio oggi Adriano Celentano, cantautore, attore e showman a tutto tondo. Il Molleggiato (soprannome che deve al modo di ballare particolarmente dinoccolato che l’ha contraddistinto a inizio carriera) è nato il 6 gennaio 1938 a Milano, in via Gluck 14, quella via che diventerà celebre con la sua canzone del 1966.

Il ragazzo della via Gluck

I genitori di Adriano Celentano sono di origine pugliese: arrivano nel nord Italia da Foggia per cercare lavoro, stabilendosi prima in Piemonte e poi in Lombardia, nella casa milanese di via Gluck (una strada non distante dalla stazione Centrale, che ne costeggia i binari). Rievocando la sua infanzia nella famosissima canzone che portò a Sanremo nel 1966 - «Il ragazzo della via Gluck», appunto - Celentano precorre i tempi e per la prima volta fa entrare il tema dell’ecologia nella musica, parlando di speculazione edilizia. A dispetto del successo che poi riscuote, a Sanremo il brano si piazza negli ultimi posti della classifica, non riuscendo ad arrivare in finale.

L’amore con Claudia Mori

Adriano Celentano e Claudia Mori sono sposati da 58 anni: la «coppia più bella del mondo» (come cantano nel celebre duetto) si conosce nel 1963, durante la lavorazione del film «Uno strano tipo». Si sposano l’anno dopo, in segreto, nella chiesa di San Francesco a Grosseto, e hanno tre figli: Rosita, nata nel 1965, Giacomo (1966) e Rosalinda (1968). Il sodalizio fra Celentano e Mori è anche professionale, visto che è lei a essere amministratrice delegata della «Clan Celentano srl» e a farsi spesso sua portavoce.

La prima fidanzata, Milena Cantù

Quando Celentano conobbe (e sposò) Claudia Mori, era in realtà già impegnato: il cantante era fidanzato dal 1958 con Milena Cantù, conosciuta quando faceva la commessa in una profumeria e poi lanciata come cantante con il Clan Celentano. Cantù, in seguitò, sposò Fausto Leali (da cui divorziò nel 1983) e proseguì l’attività artistica come autrice di testi.

Cinque volte a Sanremo

Celentano è uno dei primi artisti ad appassionarsi al rock in Italia e a travolgere il pubblico con la sua ventata di cambiamento. Nel 1961 partecipa al Festival di Sanremo con il brano «24mila baci» insieme a Little Tony e scandalizza tutti perché volta le spalle alla platea per qualche secondo: «Il mio era un genere nuovo, il rock era qualcosa di sovversivo. Andavano per la maggiore Villa, Tajoli, Tonina Torielli e a me non dava retta nessuno. Quando portai 24 mila baci a Sanremo mi dicevano che ero un violento. Per un festival di Sanremo ero quasi una provocazione con quei movimenti del corpo. Ci fu perfino una interrogazione parlamentare perché, per qualche attimo, voltai le spalle al pubblico dei telespettatori», racconta poi lui stesso a Mario Luzzatto Fegiz. A Sanremo torna altre quattro volte come concorrente, vincendolo nel 1970 in coppia con la moglie Claudia Mori con il brano «Chi non lavora non fa l’amore». In anni più recenti, invece, il Molleggiato è stato al Festival come ospite.

La parentela con Alessandra Celentano

Adriano Celentano è lo zio di Alessandra Celentano, ex ballerina e coreografa, molto nota perché è insegnante di danza (super severa) al talent show di Mediaset «Amici di Maria De Filippi»: il padre, Alessandro Celentano, era fratello maggiore di Adriano ed è morto nel 2009.

Chiuso in casa durante la pandemia

«Io e Claudia siamo chiusi in casa da un anno praticamente, ci hanno portato il vestito a righe come i carcerati». L’anno scorso Adriano Celentano è intervenuto a sorpresa a «Domenica In» tramite collegamento telefonico e ha raccontato come stava vivendo la pandemia. Ha poi aggiunto che sia lui sia la moglie Claudia Mori avrebbero fatto quanto prima il vaccino: «Volevo dirti che io non mi sono mai vaccinato, ma questa volta sono d’accordo di farlo e anche Claudia», ha detto il Molleggiato.

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” domenica 29 ottobre 2023.

Ha 78 anni e la barba bianca, ma è sempre un vulcano di passione, entusiasmo e parole a raffica che - se fosse in tv - sarebbero continuamente interrotte dal beep del politicamente corretto. Adriano Pappalardo, basta il nome. […] 

Come se la passa?

«Benissimo. Per due motivi: lo scorso 23 settembre Amadeus mi ha invitato a Verona per Arena Suzuki, una delle sue serate musicali su Rai1, e mi sono esibito di fronte a quattro generazioni che mi hanno accolto con un affetto incredibile. E fra loro c'era anche mio figlio Laerte.

La prima volta che ero stato all'Arena, quarantadue anni fa, il patron del Festivalbar, Vittorio Salvetti, neanche mi voleva. Era stato costretto a chiamarmi per via del clamoroso successo di Ricominciamo. In prima fila c'era anche mio padre, che non aveva mai creduto nelle mie scelte. Dopo avermi visto, nel camerino mi prese per un braccio per dirmi: "Sono orgoglioso di te. Bravo Adriano"». 

E il secondo?

«Sono soddisfatto e sereno: faccio i miei concerti e non vado più in tv a fare reality, talent show e via dicendo. Mi sono stufato: oggi non dico più "sì" quando in realtà vorrei dire "no"». 

È successo spesso il contrario?

«No. Però a volte per contratto mi sono trovato a fare cose che non mi piacevano e io sono uno che ha sempre fatto di testa sua.

In tv ho avuto anche la fortuna di lavorare con la più brava di tutti, Simona Ventura». 

Quest'anno anche Simona Ventura partecipa a "Ballando con le stelle": Milly Carlucci non l'ha mai invitata alla gara?

«No. E non accetterei mai».

Perché in giuria c'è Selvaggia Lucarelli , mamma del suo unico nipote (Leon, 18 anni, nato dal matrimonio, durato dal 2004 al 2007, fra la giornalista e Laerte Pappalardo, 47)?

«No. Perché non mi piace essere giudicato, anche se già so di non saper ballare. Solo se mi offrissero 400 mila euro, andrei e mi lancerei anche in un tango argentino. Altrimenti non se ne parla. Per l'Isola dei famosi guadagnai solo 30mila euro». 

La separazione fra Selvaggia Lucarelli e suo figlio fu un po' complicata: adesso che rapporti ha con lei?

«Normalissimi. Quando la vedo in tv la seguo. È brava. La stimo. È una donna che ha fatto quello che fatto, se n'è andata a Milano, ma va bene così. È tutto a posto».

[…] 

Per quale motivo l'ultimo disco l'ha inciso nel 1988?

«Per colpa di Battisti. Nel 1971 Claudio Fabi, papà di Niccolò, mi presentò a Lucio, che mi mise sotto contratto con la sua etichetta Numero Uno - sua e di Mogol - quella con Gianna Nannini, Pfm, Bruno Lauzi, Tony Renis e tanti altri. Ero uno sconosciuto e diventai un fenomeno. Gli devo tutto. Da allora passammo quattordici anni sempre insieme. Facevamo surf, immersione, vela. E anche delle grandissime mangiate. Poi si separò da Mogol, perché voleva fare altro, e insieme incidemmo due album scritti da me e prodotti da lui, di cui sono orgogliosissimo: Immersione nel 1982 e Oh! Era ora nel 1983. Insieme eravamo trent'anni avanti a tutti. Dopo lui si mise a fare altro e a me passò la voglia. Sentivo di aver detto tutto. Pasquale Panella, però, l'autore dei testi del secondo Battisti, gliel'ho fatto scoprire io. Aveva scritto per me».

A lei piace di più Battisti con Mogol o Panella?

«Fantastico con tutti e due. Sono sincero: non so scegliere». 

È vero che Lucio Battisti non amava tanto Mina?

«Non posso dirlo, dai». 

Questa storia circola da anni.

«Diciamo che la voce gli piaceva tanto ma spesso - diceva - l'emozione dentro la canzone non c'era». 

E perché ce l'aveva così tanto con Claudio Baglioni?

«Lucio registrò album in Inghilterra e Baglioni, dopo di lui, scelse stesso studio, produttore e arrangiatore... Se in studio non cantavo bene, bloccava tutto e diceva: "Così non va, mi sembri Baglioni...". Era fatto così».

Come arrivò al cinema?

«Grazie a Sergio Corbucci, che nel 1984 mi venne a cercare per propormi di lavorare in A tu per tu con Paolo Villaggio e Marisa Laurito. In seguito recitai con Marco Risi (L'ultimo Capodanno, ndr), Monica Bellucci, Beppe Fiorello, Claudio Santamaria, Ricky Tognazzi (Canone inverso, ndr), Riccardo Scamarcio (in Quasi orfano, ndr), in teatro con Johnny Dorelli (Aggiungi un posto a tavola, ndr), in tv con Michele Placido (La Piovra, ndr)». 

Se negli Anni 70 e 80 si fosse schierato politicamente avrebbe potuto avere di più?

«Certo. L'hanno fatto tutti, o quasi. Io però non ho mai chiesto favori a un politico, né a un dirigente Rai o Mediaset, non ho mai preso una tessera, né sono mai stato a quelle serate elettorali dove leccando si otteneva sempre qualcosa. Io devo ringraziare solo me stesso e la mia voce. Anche se sono caduto spesso, rialzandomi sempre con dignità».

Nel 2016 i era esposto con il Movimento 5 Stelle, però.

«È vero. E mi sono scottato, che delusione... Mi piaceva, Beppe Grillo. A Roma votai anche per la Raggi sindaco. Non lo farò mai più, né per loro né per altri». 

Dopo il brutto incidente del 2016 va ancora in parapendio?

«Certo. L'ultima volta dieci giorni fa. Senza non vivo. Mi piace il contatto con la natura e quando volo mi sento un ragazzino. Ho il brevetto per l'aliante, il deltaplano e il parapendio». 

Si stava ammazzando: cosa sbagliò?

«Un amico mi convinse ad andare con lui, anche se la giornata non era buona. Poi il cielo si ripulì, mi lanciai, e durante una manovra si chiuse l'ala all'improvviso e feci un salto di sette metri. Pensai di morire. Mi spaccai il malleolo e un paio di costole, una di queste mi pizzicò un polmone. Dopo otto mesi in carrozzina, però, sono tornato lassù». 

Dopo l'imbarazzante lite con Antonio Zequila a "Domenica In", nel 2006, con Mara Venier ha mai avuto un chiarimento?

«Sì, dopo due anni. Siamo tornati amici. È una persona speciale». 

[…]

Uno come Fedez le piace?

«No. Se lo vedo in tv cambio canale». 

Sul Nove ha Peter Gomez ha detto che le piace Sfera Ebbasta: conferma? E perché?

«Ahahahah (ride, ndr)... L'ho detto così, per dire. Non lo conosco e non lo voglio conoscere. Quelle canzoni, con quei testi sulle droghe e contro le donne, non appartengono al mio mondo». 

La cosa da fare assolutamente nei prossimi anni?

«Cantare in teatro i miei ultimi due album per fare capire a tanta gente che non sono solo quello di Ricominciamo». 

 Quando sarà, fra cent'anni, che fine farà: inferno o paradiso? «Purgatorio di sicuro. Poi deciderà Lui. E se sarà inferno, aspetterò l'era glaciale. Qui non si molla mai (ride, ndr)».

Cacciata salutata da Recep Tayyip Erdogan con queste parole: «Ci ha reso orgogliosi il fatto che l’Azerbaigian abbia portato avanti l’operazione militare in tempi brevi e con il massimo rispetto per i civili». Testuale. 

Non bastasse, il presidente turco ha aggiunto alla sua perorazione in difesa di Hamas qualche altra parola sulla guerra in corso: «Avevamo buone intenzioni, ma sono andate alla malora. Avevamo in programma di andare in Israele, ma non ci andremo. La metà delle vittime palestinesi sono bambini, cui vanno aggiunte donne e anziani. Un massacro che sta raggiungendo le dimensioni di un genocidio». Rileggiamo: genocidio. Esattamente quella parola contro cui da anni si ribella furioso quando qualcuno osa accostarla alla mattanza degli armeni in Turchia un secolo fa. Due pesi, due misure.

Adriano Pappalardo: «Io e Battisti a fare surf, non l’ho mai visto così felice. Renato Zero era mio fan e mi chiese una foto insieme». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023

Adriano Pappalardo: «Venditti è un grande amico, ma per poco il mio dobermann non gli staccava una mano. Mio nipote Leon mi ha fatto cantare al telefonino per la sua classe» 

«Provino alla Numero Uno in Galleria del Corso a Milano. Tre stanze più ingresso. Mi accoglie Claudio Fabi, papà di Niccolò. “Lucio non lo chiamo sennò si arrabbia”. Si mette al pianoforte. “Cantami Yesterday alla tua maniera”. Attacco. A metà brano la porta si spalanca e sbuca un capoccione di ricci con il foulard alla gola. Battisti. Quasi mi viene una paralisi. Mi guarda. “E questo chi è?”. “Un mio artista, lo porto alla Durium”, risponde Fabi. Lucio caccia un urlo per chiamare Mogol: “Giulio! Giulioooo! Viè qua”. E a me: “Come te chiami? Pappachè? Pappachì? A’ Clà, e tu me lo vuoi fregare? No, sto Pappafico me lo piglio io”». E questo fu il primo incontro (1970) tra Adriano Pappalardo — 78 anni e ruggito inconfondibile («Ci provo a parlare piano ma urlare mi viene naturale») – e il suo mentore/produttore/amico Lucio Battisti.

Al secondo diede una testata al muro.

«Avevamo improvvisato una jam session, io, lui, Mario Lavezzi e Alberto Radius. Tirammo per un’ora e mezza. Preso dalla foga, mi dimenavo. E diedi una craniata allo spigolo, mi colava il sangue sulla fronte però continuavo a cantare. Lucio si preoccupò. “Oh, che ti sei fatto male?”».

Niente nome d’arte?

«Alla firma del contratto, Mogol era dubbioso. “Pappalardo sembra uno che vende cavalli alle macellerie”. Propose Adrian Peppard. Lucio non era convinto. “Senti Giulio, questo è grande e grosso, ha gli occhi piccoli e neri e un gargarozzo che pare l’ottavo colle di Roma, lasciamogli il suo. O fa il botto o il pubblico lo manda a quel paese”».

Il suo collo in effetti è leggenda. Se l’è mai misurato?

«No, però non era così enorme, solo che quando cantavo spingevo col diaframma e mi si gonfiava la giugulare, le telecamere mi inquadravano sempre lì e parevo King Kong. Renzo Arbore raccontò che portavo una protesi».

E questo suo vocione, quando le è comparso?

«Boh, verso i 14 anni, mica a cinque. Quando dissi a mio padre Giuseppe, elettricista, che volevo cantare, rispose: “Mi prenderà in giro tutto il paese”. Facevo il liceo classico con la media del sei, a parte 4 in condotta e 8 in greco. Al terzo anno smisi di andarci. Uscivo alle 8 e mi nascondevo da zio Franco che suonava il bombardino nella banda, mi rimettevo a dormire fino a mezzogiorno, facevo colazione e tornavo a casa all’una e mezza. Quando portai la pagella con “Non classificato”, papà mi tirò una scarpa».

Nel 1972 fece furore al Festivalbar con “È ancora giorno” di Mogol-Battisti.

«In sala di incisione cantavo a occhi chiusi, concentrato. A un tratto sentii una voce in tre tonalità più alte. Mi voltai, era Lucio. Poi però voleva cancellarla. “Non solo ti regalo il pezzo ma pure il coretto? Ma vaff... va”. Alla fine la lasciò. E si piazzò seconda in una hit parade piena di brani di Battisti, dietro a I giardini di marzo. E Lucio: “A’ Pappafì, mica vorrai arrivare primo eh?”».

Diventaste inseparabili.

«Abitava a cento metri da me. Andavamo a fare surf a Bracciano, lui era bravo, ma restava sempre vicino alla riva. Un giorno gli proposi di arrivare ad Anguillara. “Sei matto?” Aveva paura che cadessi e affogassi. Ce l’abbiamo fatta. E non l’ho mai visto così felice».

Lo convinse a correre.

«Lucio era piazzatello, aveva le gambe grosse, io già correvo la 10 km. “Puoi farlo anche tu, ti alleno io”. “No che mi viene l’infarto”. Si convinse. Dopo due mesi si presentò con una ruota contametri. Ai 5 km mi abbracciò».

Negli studi della Rca conobbe un sacco di gente.

«Lucio Dalla suonava il piffero e faceva strani vocalizzi. Claudio Baglioni cantava le stornellate: “Me so magnato er fegato…”. Una sera, al Cenacolo, ritrovo per artisti, vidi Ennio Melis giocare a carte con un capellone con i Ray-Ban. “Ma chi è?”, chiesi. “Venditti, ha scritto un pezzo forte, Roma Capoccia, questo sfonda”. Antonello è uno dei due amici veri nella musica. Tempo fa l’ho incontrato a via Cola di Rienzo, lui a piedi io in auto, dietro c’era il dobermann di mia moglie, che gli si è lanciato addosso. “ Ahò,a momenti me stacca ‘na mano”».

L’altro è Renato Zero.

«A una presentazione per la stampa arrivò questo tizio vestito di pizzo, lo guardavano tutti ridendo. Mi si avvicinò al trucco. “Ciao, mi chiamo Renato, sono un tuo ammiratore facciamo una foto insieme?”. Da allora diventammo amici. Quando è nato mio figlio Laerte voleva fargli da padrino, poi l’ho battezzato io al mare, senza prete. Un giorno stavo al semaforo con la mia Harley, un tipo su una Smart mi suonava il clacson, mi sono girato pronto a mandarcelo. “Non mi riconosci, so’ Renatino!”»

Non c’è Adriano senza “Ricominciamo”.

«Era il 1979, venivo da quattro anni di insuccessi, non mi voleva più nessuno. C’era questa musica. Luigi Albertelli mi chiese: “Cosa vorresti dire?”. “Vorrei aprire una finestra e mandare tutti affan…o”».

«E lasciami gridare/Lasciami sfogare/Io senza amore non so stare».

«Ho venduto 5 milioni di copie. Con la versione spagnola Recomencemos ho battuto pure Julio Iglesias».

Al cinema debuttò in “A tu per tu”di Sergio Corbucci con Dorelli e Villaggio.

«In una scena dovevo cacciare di casa Villaggio, prendendolo per un orecchio. Non regolai bene la forza. “Ahi! A momenti me lo stacchi”, urlò Paolo. Sul set di Rimini Rimini incontrai Laura Antonelli, una dea. Le confessai: “Ti amo, ma sono sposato”».

Ex suocero di Selvaggia Lucarelli. Come va tra voi?

«Quando mio figlio mi annunciò che si sposava, gli ho detto: “Io non metto il dito”. I primi due anni tutto bene, poi c’è stato qualche scontro, ma ora le voglio un gran bene, è la madre di mio nipote Leon, guai a chi me la tocca”».

E con Leon?

«Ha voluto che gli cantassi Ricominciamo sul telefonino per tre compagne di classe e il professore. “Nonno, sono tutti tuoi fan”».

In tv va poco e niente.

«Non mi piace più, ci sono solo reality e altre putt...e».

Pure lei però andò all’”Isola dei Famosi”. E fu bandito dalla Rai dopo un litigio trash con Antonio Zequila a “Domenica In”.

«Fu colpa sua, urlò che voleva tagliarmi la gola. E di Mara Venier, che lo lasciò fare per il 25 per cento di share. Io ho avuto il meglio, con Baudo e la Carrà. Faccio solo quello che mi va. Ma ai miei concerti è pieno di ragazzini».

Franco Giubilei per “Specchio – la Stampa” il 10 aprile 2023.

Un successo colossale è un'arma a doppio taglio, perché la canzone finisce per confondersi col cantante, stringendolo in un abbraccio soffocante: «La cosa che mi distrugge è che appena salgo su un palco il pubblico mi chiede Ricominciamo e io la canto, certo, ma non ce la faccio più... Questa canzone sarà il mio epitaffio».

 Adriano Pappalardo ovviamente è conscio di quanto gli abbia dato un pezzo da sette milioni di copie di cui realizzò una versione in spagnolo che da sola ne fece due milioni e mezzo, ma tutto ha un prezzo, perché d'altra parte «ci si è dimenticati la canzoni che ho fatto con Lucio (Battisti, ndr)».

[…]  «Ho 78 anni e resto un incazzato di natura, faccio sub e parapendio, lo sport è sempre stato una mia grande passione». Tanto grande da aver coinvolto a suo tempo anche Lucio Battisti, l'artista cui lo lega una storia fatta di musica e amicizia: «Lucio non faceva neanche venti metri a piedi ma io lo allenai ai dieci chilometri di corsa. Insieme abbiamo fatto anche pattinaggio a rotelle, vela e surf, pure d'inverno», ricorda il cantante.

 […]

 A tredici anni, oltre tutto, il piccolo Adriano aveva già un vocione impressionante: «Da bambino facevo paura anche a mio padre, poi un giorno sentii una voce e mi dissi: tu devi cantare, e sarai pure il numero uno». La gavetta allora passava dai concerti nei ristoranti - «pagato 5mila lire a sera o con un piatto di spaghetti» -, poi qualcuno lo sentì cantare, le cose cominciarono a ingranare, arrivò il primo contratto e le canzoni scritte per lui da Battisti.

Se il successo arrivò fu anche merito di sua moglie Lisa Giovanoli, al suo fianco da cinquant'anni, di cui ricorda il ruolo chiave quando Ricominciamo venne proposta al Festivalbar: «Salvetti (il patron, ndr) non la volle e mia moglie ebbe l'idea di proporla alle radio: arrivò al terzo posto in classifica e allora mi presero come superospite all'Arena di Verona».

 […] alla fine degli Anni 60 lo sentirono cantare e lo invitarono a Milano: «Era la nuova etichetta di Lucio, mi chiesero di cantare Yesterday e a un certo punto si spalanca la porta, vedo un capoccione riccio col foulard, era Battisti che diceva "Hai sentito che voce, ma chi è, Pappa chi..?"».

Una svolta decisiva che lo porta al grande pubblico: «Con È ancora giorno ho venduto cinque milioni di copie, Lucio mi fece anche la terza voce in falsetto». La collaborazione fra i due continua, poi Battisti parte per gli Usa, ma al suo ritorno si rifà vivo: «Era innamorato dei Talking Heads, mi disse di scrivere e ne nacquero due lp. Lucio si fece presentare Pasquale Panella con cui cominciò a lavorare».

Un'amicizia che si consolida fra corse insieme e serate in trattoria. «Gli piaceva molto mangiare bene, poi si ammalò e una sera alla tv seppi che era morto». Un dolore enorme e un concerto a Roma con Formula 3 ed Equipe 84 per ricordarlo.

 Poi la vita è andata avanti, fra il cinema con Corbucci e L'isola dei famosi in tv, fino all'allontanamento dalle scene che oggi non sembra pesargli granché: «In tv non ci vado più, la trovo orribile». Dietro le quinte, la figura fondamentale della moglie, cui ogni tanto si rivolge anche durante la nostra chiacchierata: «È la mia compagna, la mia sposa, la mia amante».

Dal podcast "One More Time" venerdì 8 dicembre 2023.

“Avevo 22 anni quando è scomparsa mia sorella, ero già qua in Italia. Mia madre e mia sorella sono partite  per fare un viaggio, sono andate nei Caraibi, poi quando sono tornate indietro le hanno rapite e le hanno uccise tutte e due. Non sappiamo niente di più. Quando lo racconto le persone rimangono basite perché lo racconto con tanta tranquillità. 

La verità è che loro sono dentro di me. Io le ricordo con tanto amore, ricordo mia madre quando ballava le canzoni di Bob Marley… voglio ricordarmi questi momenti. Ho cercato di tenermi il meglio di loro”. Così Ainett Stephens intervistata da Luca Casadei nella nuova puntata del podcast One More Time di OnePodcast. 

Una storia tristemente nota, che la celebre modella e showgirl venezuelana – famosa in Italia come la “gatta nera” del Mercante in fiera - ha reso pubblica un paio di anni fa, ma senza mai entrare nel profondo del complicato rapporto con la madre. Racconta a Casadei: “A livello di relazioni con altri bambini la mia è stata un’infanzia molto gioiosa. Ma mia madre non è mai stata una madre affettuosa, era molto fredda, lavorava tutto il giorno ed era molto severa. Noi eravamo tutti molto indipendenti.

Adesso che sono una donna mi rendo conto che con i miei fratelli non abbiamo mai affrontato veramente il tema della perdita di mia madre. Abbiamo avuto tante mancanze emotive, troppe cose dolorose, e siamo cresciuti come piante selvagge. Non abbiamo avuto nessuno che ci ha veramente seguito” . “Io ho vissuto qualche anno con mia nonna e posso dire che tutto ciò che sono lo devo a lei. Quando mia nonna mi preparava il panzerotto fritto io me lo ricordo, perché lei lo faceva con amore. Invece mia mamma lo faceva quasi per dovere. Sono quelle piccole cose che i bambini colgono”. 

Nell’intervista parla del contesto familiare nel quale è vissuta - “Eravamo 8 fratelli. Mia madre ci ha cresciuti da sola, mio padre provvedeva solo economicamente. Vengo da una città venezuelana di periferia, abitavo in un quartiere carino, eravamo una famiglia povera ma le cose basiche le avevamo” – ed emergono violenze e traumi che l’hanno profondamente segnata: “Abbiamo vissuto delle violenze da parte di un marito di mia madre. Per qualunque cosa ci picchiava. Arrivava la polizia in casa, lui minacciava mia madre con un coltello, l’attaccava al muro… io avevo 5 o 6 anni”

Un’infanzia e un’adolescenza segnata anche dal bullismo e dal razzismo di cui è stata vittima: “Il venezuelano tipico è olivastro e c’è un grosso problema di razzismo – oggi mi dicono un po’ meno ma allora era molto molto grave - e quindi ogni giorno a scuola ero bullizzata e derisa perché ero nera, è arrivato un momento che non volevo nemmeno andare più a scuola. 

Al casting per Miss Venezuela avevo 17 anni, eravamo 54 ragazze, ero l’unica nera e mi prendevano tutte in giro. Ho fatto il casting solo perché ha insistito mia mamma, però poi ho vinto e sono stata ammessa al concorso. Ma mi sono accorta di essere bella solo quando sono arrivata in Italia”. 

È proprio l’arrivo in Italia a dare una svolta alla vita di Ainett Stephens. Qua comincerà a lavorare come modella e poi come showgirl: “I miei fratelli quando mia madre è morta sono rimasti letteralmente in mezzo di strada. Hanno vissuto situazioni di pericolo. Io ero già in Italia ma non aveva la disponibilità economica per aiutarli. Poi da Dio è arrivato questo grande dono e nel giro di un anno improvvisamente ho iniziato a lavorare in tv e tutto è cambiato”.

Nella lunga intervista Ainett parla anche di suo figlio, a cui a due anni è stato diagnosticato l’autismo: “Dopo due anni dalla sua nascita ci siamo accorti che qualcosa non andava. A due anni ha smesso di parlare, saltava, giocava ma non parlava. Lo abbiamo portato da una neuropsichiatra e appena Christopher è entrato, lo ha osservato per qualche minuto e ho capito subito da come lo guardava che c’era qualcosa che non andava. Abbiamo fatto ulteriori analisi e la diagnosi è stata di autismo”. 

“A noi questa notizia c’è arrivata “senza anestesia”… Io ho sofferto tantissimo, forse più del padre, nel senso che l’ho presa con più dramma”. “Non si può guarire. Dovevamo decidere quale percorso riabilitativo scegliere, ce ne sono tanti, ed eravamo ancora sotto choc. Poi devi parlare con i parenti, e io ho aspettato tanti mesi… devi avere il tempo di metabolizzare, realizzare e accettare soprattutto” 

Un percorso di accettazione complesso, che l’ha portata a vivere un periodo di grande depressione, dal quale è uscita cercando conforto e forza nella fede: “La perdita di mia madre in maniera tragica e questa diagnosi sono state le prove più dure della mia vita. È stata come una valanga. Ero depressa, l’ho capito dopo, non volevo uscire, continuavo a mangiare, ero ingrassata. Mi sentivo inutile, avevo l’autostima molto bassa.

È durata un anno e mezzo. Poi quando stavo per toccare il fondo ho capito che avevo bisogno di aiuto. Ho chiamato una mia carissima amica e le ho detto che stavo male e che volevo pregare per la mia famiglia e per mio figlio. Ognuno trova conforto come meglio crede, io mi sono sentita di trovarlo in Dio e per me è stato più efficace che se fossi andata dallo psicologo ” 

L’intervista prosegue con il racconto della sua rinnovata consapevolezza e della loro vita quotidiana oggi: “Christopher oggi ha 8 anni, va a scuola. Non socializza ma è molto amato grazie a Dio. Fa sport, fa tutto, comunica solo in modo diverso. (…) L’autismo è un problema di comunicazione e lo spettro autistico è molto ampio, i bambini autistici hanno tutti caratteristiche diverse. La cosa importante, fondamentale, è la diagnosi precoce”

Barbara Costa per Dagospia il 17 giugno 2023.

“Era mia madre. E è stata un’ottima madre. Mi ha amato molto, mi ha dato tutto. Anche la droga. Noi due avevamo una relazione speciale. Unica. Io per lei ero come un uomo con la moglie. Nulla di incestuoso, anche se la gente a volte pensava fossimo sposati”. A dirlo è Ari, 23 anni di differenza con mamma sua, e che questa "unione" non ricalcasse il classico rapporto tra una madre e un figlio, quasi nessuno l’ha sottolineato quando un mese fa Ari è morto. È complicato parlarne. L’incesto non c’è, ma si sfiora. E può una madre essere amatissima se ti mette l’eroina in vena? E qui, la risposta è atroce, può non piacere, fare orrore, ma è un sì.

Questo Ari di cui non posso scrivere il legittimo cognome è stato per decenni un viso e un uomo noto alle cronache, perché Ari era il figlio di Nico, “bellezza di classe mondiale”, top model, attrice, Superstar di Andy Warhol, e cantante dei Velvet Underground, poi cantante solista di un rock che puoi definire solo da suicidio. E Ari, questo Ari, era figlio suo e di Alain Delon. 

Se nel riportare la morte pur inquietante di un tal "figlio di" famose testate come il "Corriere della Sera" si sono in aggettivi sperperate (“trovato morto il presunto figlio illegittimo di Alain Delon”) è perché il signor Delon fin dal concepimento ha negato codesta paternità. Lo fa ancora oggi. È una storia folle, da soap-opera (e che in ogni dettaglio e retroscena Jennifer Otter Bickerdike narra in "Nico", Auditorium ed.) un dramma che manda fuori di testa: perché Ari è stato cresciuto dalla nonna paterna, Édith, la madre di Delon. 

Delon imperterrito ha negato sempre negato che Ari fosse figlio suo. La madre, di Delon, ha cresciuto il figlio del figlio non come suo nipote ma come figlio, suo, apponendogli il cognome del suo secondo marito. La sto facendo troppo contorta? Eppure è andata così!!! E la droga? E l’eroina tra mamma e figlio??? E lo pseudo-quasi-incesto? Vi dico tutto. Nico, celebre e celebrata top model, conosce Alain Delon in Italia, a Ischia, sul set di "Plein Soleil", film dove in un primo momento avrebbe dovuto recitare.

Lei è libera, Delon no: è fidanzato con Romy Schneider. A Ischia Nico e Alain non fanno sesso. Fanno sesso una volta sola, pochi mesi dopo, a New York. Concependo Ari. Nico da subito lo dichiara, “è figlio di Delon”, ma mai ha venduto parola ai media, o preteso da Delon soldi, o un matrimonio riparatore. Le sarebbe piaciuto sì, essere riamata come lei ha amato Delon, ma, per Delon, Nico è stata una notte di sesso, e basta. E Nico tiene Ari. Da sola. 

Nico torna a lavorare, nella moda, e come attrice, poco dopo il parto di Ari. Nico deve mantenere sé stessa, Ari, e sua madre, a cui lascia Ari. E qui iniziano i guai. Perché la madre di Nico è schizzata e paranoide: quando viene internata, Nico, sola, mette l’orgoglio da parte, e chiede aiuto alla madre di Delon. Nonna Delon non ha dubbi: “per istinto e per somiglianza fisica”, è nipote suo. Avverte Alain Delon, che si inca*za e per vie legali le impone di scegliere tra lui e “quel bambino”.

Nonna Delon tiene il nipote e rompe con Delon che, da ricco, raccontano manco l’aiuti (nonna Delon “fa la commessa per mantenersi”). Nico e la "suocera" si accordano nel crescere tutte e due Ari, alternandosi. Ari vive con nonna Delon, a Parigi, e con mamma Nico, a New York. Dentro la Factory di Warhol. Gli fa da baby-sitter la drag queen Mario. Circondato da drogati, Ari cresce scombinato, “mangia soltanto patatine fritte”, e beve “ogni cosa mi capitasse a tiro, residui di vodka, whisky”, e inghiotte pillole, e ero spalmata su chewin gum.

Con Ari in crisi epatica, Nico ricorre alla "suocera". E però nonna Delon, davanti alla vita bizzarra di Nico, senza il consenso di Nico, adotta Ari, gli cambia identità in "Christian Aaron Boulogne" (nonna Delon è vedova, risposata Boulogne), e non permette a Nico di vederlo più per 10 anni. 

Sono gli anni in cui Nico cade, peggio, sprofonda nell’eroina, anni in cui Nico diventa ancora più famosa: da diva junkie consuma amanti su amanti, uomini che si chiamano Bob Dylan, Brian Jones (“dava il miglior sesso, quando poteva”), Lou Reed, John Cale, Jackson Browne, Jim Morrison (“il miglior pene che abbia mai avuto dentro di me: ci picchiavamo, ci piaceva la sensazione. Ci siamo scambiati il sangue, porto il suo sangue con me. Jim mi ha dato il peyote”), Iggy Pop (“Nico mi ha insegnato il cunnilingus, e lasciato lo scolo”) e Philippe Garrel, con cui vive in un appartamento a Parigi senza mobili, luce, gas, né acqua, ma pareti tinte nere. Qui Nico vi porta il toy-boy Lutz Graf-Ulbrich, a viverci in ménage-à-trois, e ad iniziarlo all’ero. A quanto pare, Nico solo a Leonard Cohen ha detto no, mandandolo in pezzi. 

Nico e Ari si rivedono quando lui ha 19 anni, lei 42. Nico fa dei dischi che quasi nessuno compra, venduti tramite questo slogan: “Perché perdere tempo a suicidarvi quando potete ascoltare lei?”. Nico per campare ruba, e con l’ero, per l’ero, uccide il suo fascino. Veste con tuniche e stracci, neri, ha i capelli, neri, e zero igiene. Puzza. Per scelta sua. E Ari è egli stesso eroinomane. Sebbene ex di Nico ripetano sia stata lei ad iniziarlo all’ero, Ari è chiaro: “Ho iniziato a 17 anni e mia madre non c’entra niente. C’entra la mia attrazione per la siringa, e l’orgoglio per le mie pupille dilatate”.

Inizia così una relazione tossica in vena e nei sentimenti tra una madre e un figlio per anni divisi, che ora vivono, insieme, fanno uso di droga, insieme, e dormono, insieme, “a letto, abbracciati, a cullarci”. E Ari è geloso dei fidanzati della madre e contento se la lasciano: “Aveva me al suo fianco. Suo figlio, padre, e compagno”. 

Nico è morta a 49 anni, cadendo da una bici, a Ibiza, dove viveva con Ari. Stava andando a comprare hashish. Era fuori dall’ero da un po’. Ari s’è venduto le dosi di metadone della madre, per l’ero. Dilapidato le royalties ereditate, per l’ero. Passato anni e anni in cura psichiatrica. Sottoposto a non so quanti elettroshock. Mai una volta Alain Delon si è fatto vivo con lui. Mica era figlio suo. 

Estratto dell'articolo di Danilo Ceccarelli per “La Stampa” l'11 maggio 2023.

Come ho già detto in passato. se c’è una cosa di cui sono fiero è la mia carriera». Impossibile dare torto ad Alain Delon, che nella breve prefazione di «Amours et mémoires», la sua biografia pubblicata in Francia dalle Editions de la Martinière, si lascia andare a ricordi ed emozioni come forse mai aveva fatto prima d'ora. 

L'immagine del sex symbol inarrivabile dallo sguardo seducente diventato nel tempo un'icona mondiale si accosta alla storia dell'uomo che cerca di aprirsi al suo pubblico attraverso le sue memorie.  Nel volume Denitza Bantcheva e Liliana Rosca, collaboratrice dell'attore francese, ripercorrono la vita e i lavori di uno dei mostri sacri del cinema mondiale 

(...)

«La belva del cinema francese», lo definisce Costa-Gavras nel suo commento. Ma soprattutto, il vero motore dell'attore è stato l'amore per le donne: «Per loro ho voluto essere il migliore, il più bello, il più forte». E forse c'è riuscito, almeno a leggere le lettere ricevute da alcune di loro. 

Come quella di Mireille Darc, attrice scomparsa nel 2017 con la quale Delon intrattenne una relazione durata fino al 1983. «Volevo abbracciarti molto forte», si legge nel messaggio scritto nel 2007 in cui dice al suo ex compagno di non perdere mai la «fragilità», che rappresenta la sua vera «forza».

Brigitte Bardot, invece, lo paragona a una «belva» in un'epistola ironica e affettuosa, nella quale definisce il suo amico un «dominante» che «nasconde la sua vulnerabilità nella solitudine». Proprio sul rapporto con Bibi, interviene lo stesso Delon chiarendo una volta per tutte uno dei gossip più chiacchierati della sua generazione: «Per quanto sorprendente possa sembrare, siamo stati solo amici, non è successo niente di più», garantisce spiegando che ancora oggi si sente spesso al telefono con la Bardot. Ma tra i messaggi più toccanti, c'è quello postumo scritto dalla star francese nel 1982 a Romy Schneider, il suo primo vero amore scomparso proprio in quell'anno.

«Eravamo della stessa razza mia Puppelé, parlavamo la stessa lingua», sostiene l'attore in uno straziante ricordo di quella che è stata la sua compagna fino alla metà degli Anni Sessanta. «Ti guardo dormire, mi dicono che sei morta. Penso a te, a me, a noi», recita la lettera. Delon ricorda il loro incontro, il colpo di fulmine e la passione di quel periodo. «Abbiamo vissuto più di cinque anni l'uno accanto all'altra (...) Poi la vita, la nostra vita che non riguarda nessuno, ci ha separati». 

I due si conobbero sul set di «Christine» nel 1958. Inizialmente la vedette franco-tedesca, già celebre allora per aver interpretato Sissi, vedeva quel giovane francesino ancora semisconosciuto come un semplice Dongiovanni. La scintilla scattò poco dopo, dando vita ad una delle più celebri storie d'amore.

Immancabile, tra i ricordi dei suoi amori, quello dedicato a Nathalie, «la sola Madame Delon» e madre di Anthony, ma anche a Rosalie van Breemen, modella olandese con la quale fece altri due figli: Anouchka Alain-Fabien. Storie di grandi passioni, ma anche di amicizie maturate nel tempo. Tra queste quella con Claudia Cardinale, compagna di lavoro alla fine degli Anni Cinquanta in «Rocco e i suoi fratelli» e ne «Il Gattopardo», entrambi diretti da Luchino Visconti. 

«Per noi aveva uno sguardo molto affettuoso», racconta l'attrice parlando del regista che aveva preso sotto la sua ala protettrice due talenti ancora giovanissimi. Sophia Loren, invece, ricorda di quando gli parlò di Fellini durante un viaggio in Messico. La biografia a tratti sembra una confessione, in altri il semplice ricordo della vita di un attore che è anche un pezzo di '900, che dedica l'opera al pubblico, in particolare i giovani, e al «cinefili del futuro»

Estratto dell'articolo di Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 6 marzo 2023

«Non ho mai sognato di essere un attore. Sono entrato nella professione e ho continuato a recitare grazie alle donne e per le donne». Sono le parole della leggenda del cinema francese, Alain Delon, nella prefazione delle sue memorie uscite ieri per le Éditions de la Martinière, Alain Delon. Amours et mémoires. Impreziosito da foto inedite che passano in rassegna la formidabile carriera dell’attore oggi 87enne, il volume è stato curato da Denitza Bantcheva, sua stretta collaboratrice, che ha raccolto le testimonianze di alcuni giganti della settima arte francese.  

[…]

Sofia Loren, Claudia Cardinale, Jane Birkin e Nathalie Baye manifestano una ad una il loro affetto per il divo dagli occhi blu, lui, rievoca le donne della sua vita, Nathalie, l’unica moglie, madre del figlio Anthony, Rosalie van Breemen, con cui ha avuto i figli Alain Jr eAnouchka, alcune delle sue conquiste, come Brigitte Auber, Mireille Darc, Michèle Cordoue, ma soprattutto lei, quella che ha amato più di tutte: Romy Schneider. È a lei che ha dedicato una lettera postuma, pubblicata nel libro, a quella ragazza austriaca che aveva solo vent’anni quando si conobbero nel lontano 1958, durante le riprese del film L’amante pura di Pierre Gaspard-Huit. […]

«Mia Puppelé (“bambolina” in tedesco, ndr), sei arrivata da Vienna e io ti aspettavo a Parigi, con un mazzo di fiori tra le braccia. Io mi sono innamorato perdutamente di te e tu ti sei innamorata di me», scrive Alain nella sua lettera postuma a Romy. «Spesso ci siamo fatti questa domanda sugli innamorati: chi si è innamorato per primo? Tu o io? Abbiamo contato: “Uno, due, tre!” e ci siamo detti, “Né tu né io”! Insieme... L’uomo che sono è quello che ti conosceva meglio, che ti capiva meglio». 

Sei anni dopo il primo incontro, per decisione di Alain, la loro storia finì. Romy, tuttavia, come conferma questa lettera postuma, ha sempre avuto un posto speciale nel cuore dell’attore francese. Nel volume, dedicato “ai giovani e ai cinefili del futuro”, Delon scrive che «l’amore lo ha sempre portato a superarsi» e confida di aver voluto «essere il migliore, il più bello, il più forte» per le donne della sua vita. […] 

A proposito di donne, uno spazio importante è dedicato al rapporto con Brigitte Bardot. Nel 1961, Delon recitò accanto alla bionda più bella di Francia nel film Les Amours célèbres di Michel Boisrond. All’epoca, circolavano molti rumors su un flirt durante il set tra i due simboli della bellezza made in France, tra il Samurai e BB. Ma Delon, a distanza di sessant’anni, ha voluto mettere le cose in chiaro: tra noi due è stata soltanto amicizia.  «Per quanto sorprendente possa essere, tra noi due non c’è mai stato nulla. Da 65 anni, abbiamo le migliori relazioni amichevoli che possano esserci». […]

Estratto dell’articolo di Roberto Pavanello per “la Stampa” lunedì 28 agosto 2023

Alan Sorrenti sta scrivendo la sua autobiografia ed è difficile pensare che avrà problemi a riempire le pagine. Succede quando hai 72 anni e la tua vita somiglia a un film: «Ogni tanto ho bisogno di aiuto – racconta il cantautore, in una pausa del tour estivo - . 

Quest’inverno ero in Costa Rica, stavo scrivendo della festa del proletariato giovanile Re Nudo al Parco Lambro quando mi ha chiamato Luca Pollini, uno degli organizzatori. Che coincidenza. Così gli ho chiesto in che anno ci suonai. Era il 1974. Mi ha mandato la locandina, in cartellone c’era anche Franco Battiato». 

[…] Sono arcinoti i versi che le dedicò Battiato, da fan deluso, “Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro”. Tu rispondesti che se avesse fatto il suo stesso viaggio a Los Angeles, avrebbe capito. Non ti dispiace non averlo più incontrato per parlare con lui?

«Sì, ma non perché ci fosse bisogno di una riappacificazione. Tant’è che fece anche la cover del mio brano Le tue radici. Peccato per la versione dance, ma ciascuno è libero di fare la musica che vuole.

Ho invece potuto abbracciare pochi mesi prima della sua morte Pino Daniele. Facemmo Figli delle stelle a un suo concerto. Nel camerino mi confessò che avrebbe voluto ridare vita al Neapolitan Power. Sarebbe stato un bel rilancio anche per lui». 

Il tuo nuovo disco, Oltre la zona sicura, è stato prodotto da Ceri. Nella musica l’età conta?

«No, conta la visione che si ha. Magari io ho più esperienza di Ceri, ma lui conosce meglio i suoni nuovi. Mi ha aiutato a veicolare i contenuti di un album che avevo quasi già scritto per intero». […] 

Torniamo al 1972, hai poco più di vent’anni e diventi un nome importante del progressive: qual è il ricordo più nitido di quel periodo?

«Il lavoro in studio. Per il secondo album, Come un incensiere all’alba di un villaggio deserto, io, Toni Esposito e gli altri italiani affittammo un appartamento a Londra, ma stavamo sempre in studio, giorno e notte». 

Scusi, ma chi cucinava? Tu o Toni?

«Mangiare credo che mangiassimo… ma cucinare proprio no. Toni è bravo col pesce, ma a Londra che vuoi fare?».

Qualche anno dopo arrivarono Los Angeles, la svolta pop e il grande successo di pubblico: Figli delle stelle, L’unica donna per me, Non so che darei sono tre hit che hanno superato il tempo e le mode. Qual è la loro magia?

«Suonano bene. Figli delle stelle ha anche un testo speciale che parla dell’appartenenza all’universo dell’essere umano. I giovani oggi ci si ritrovano anche più che in passato. Nelle altre due l’adolescente si identificava, allora come oggi. Ceri ha centrato il punto: “Tu scrivi delle cose chiare e semplici”». 

Successo fa rima con eccesso, ti ritieni un sopravvissuto? Vasco direbbe “supervissuto”.

«Sì. Dopo quel successo pop tornai al rock con La strada brucia e Angeli di strada con i Toto. Senza il cantante, naturalmente. Era il mio rifiuto del mondo effimero delle star. Ero e sono un esploratore della musica. Quando nel ’79 vinsi il Festivalbar dissi: “Volete che mi atteggi da superstar? Ok”. 

Pretesi di entrare all’Arena di Verona con la RollsRoyce cabrio di un amico. Mi divertii, ma era l’addio a quel mondo, non era roba mia. Credevo che il pubblico mi avrebbe seguito, invece è arrivato l’insuccesso». […] 

Nel 1983 ci sono i 33 giorni di carcere con l’accusa, infondata, di spaccio di sostanze stupefacenti, dopo la denuncia della tua futura ex moglie. Chiudi gli occhi: qual è la prima immagine che ti viene in mente?

«L’isolamento, durato una settimana, credo. Fu davvero un colpo. Non avevo paura ma mi diede la possibilità di interrogarmi sul tipo di vita che stavo conducendo. Poi mi ritrovai in cella con esponenti della Nuova Famiglia.

Vissi tutto come un’esperienza nuova e scrivevo per i giornali raccontando come si viveva in carcere. Ricordo che venni invitato nella cella di un “capobanda”, gli cantai Dicitencello vuje, da quel momento ogni mio possibile problema in carcere era risolto». 

Roberto Baggio ha raccontato che senza il buddismo non sarebbe riuscito più a giocare a calcio, tanto era il dolore alle ginocchia. A te cosa ha aiutata a fare?

«A salvarmi totalmente. Per me non è stata una questione di ossa, ma di vita. Dopo tanta ricchezza creativa mi accorsi che stavo iniziando a inaridirmi. Avere incontrato il buddismo della Sokka Gakkai mi ha fatto capire che avevo vissuto solo per me e non per gli altri. Il valore si costruisce insieme. Mi ha aperto nuove porte, permesso di ritrovare la mia luce e vedere quella che c’è negli altri.». […]

Estratto dell'articolo di Carlo Moretti per “la Repubblica” il 29 giugno 2023.

Per la rivista inglese Mojo , che lo celebra nel numero di luglio, l’album Aria di Alan Sorrenti del 1972 è “un tesoro nascosto”, un “esempio sublime” del miglior rock progressive di tutti i tempi. 

Eppure Sorrenti non è certo un artista da riscoprire: Figli delle stelle è diventato un sempreverde e a ottobre l’artista napoletano ha pubblicato Oltre la zona sicura , un nuovo disco che, dice, «mi fa sentire di essere tornato da dove sono partito: sono indipendente e ho ritrovato un pubblico giovane lontano dal mainstream». In questi giorni, poi, Sorrenti, 72 anni, torna on the road con un fitto tour: sabato 30 sarà alla Triennale di Milano , il 2 luglio a Giovinazzo (Bari) per Porto Rubino , il 9 ad Arezzo per il Mengo Fest e poi proseguirà fino alla fine di agosto. 

Dev’essere stata una bella sorpresa essere celebrato dal paese che il rock progressive l’ha inventato: come nacque “Aria”?

«Passavo molto tempo a Londra e tornando scrivevo musica chitarra e voce, la registravo su cassette. Qualcuno ebbe l’idea di girarle a un funzionario Rai che si chiamava Paolo Giaccio e trasmetteva brani di emergenti alla radio: la mia musica ebbe tantissime reazioni positive. E così nacque Aria. Tornai a Londra per registrare Come un vecchio incensiere , la prima facciata è musica contemporanea, me la ispirò il film La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky».

Album con lo spirito del tempo.

«In quegli anni si leggeva Le porte della percezione di Aldous Huxley, era il tempo dell’Lsd. Come amo chiamarli, quelli erano “gli stati alterati di musica”. Vedevo altro, percepivo il cosmo, un mondo più ampio. Da qui sono nate tante cose, scelte di vita, gusto nella musica, nella lettura, nella scrittura. In Aria sono fluite le esperienze vissute e le rivelazioni a cui quelle esperienze mi avevano portato. Ho avuto anche qualche esperienza di musica dal vivo in stati alterati, come al festival di Parco Lambro nel ’74: pensavo di poter tenere tutto sotto controllo e invece ogni volta che iniziavo un pezzo sconfinavo in qualcos’altro. La cosa straordinaria è che tutti gli altri mi seguivano in questo mio viaggio, tutto insomma aveva un senso». 

(...)

Nel ‘79 con “Tu sei l’unica donna per me” vinse al Festivalbar: arrivò all’Arena di Verona in Rolls Royce.

«Dissi: se la facciamo allora facciamola come si deve. La Rolls decapottabile era di un mio amico, mi divertivo a esagerare ma non credo che mi rendessi conto di cosa realmente succedeva». 

La notorietà irruppe nella vita privata con gossip e liti, nell’83 lei finisce in prigione.

«Fu per un episodio di gelosia folle della mia ex, che mi fece passare per uno spacciatore di droga. C’era il desiderio di farmi male, ci sono relazioni che poi scoppiano, in realtà tra noi c’erano già le pratiche di divorzio. Fui al centro di una tempesta perfetta, il ciclone che coinvolse per altre vie anche Tortora. A Rebibbia in quei 33 giorni c’erano i camorristi della Nuova Famiglia, nell’ora d’aria incontravo Ali Agca, che aveva sparato al Papa. Fu un’esperienza molto forte, mentre ero in cella scrivevo per i giornali raccontando come stavano veramente le cose. La testa l’ho poi ritrovata solo grazie al buddismo». 

Come?

«Grazie a una forza incredibile che mi ha aiutato a liberarmi dalla schiavitù dell’ego, dando un senso a tutto ciò che di buono e anche di meno buono avevo fatto finora. Il mio collegamento con il cosmo doveva ritrovare la sua strada: è successo con il buddismo, in maniera più terrena».

Alba Parietti: «Il MeToo? Quello italiano è stato una barzelletta». Cosa insegna l’assoluzione di Kevin Spacey? Parla l’opinionista tv: «Io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 luglio 2023

Cosa resta del MeToo? È la domanda che si pone all’indomani dell’assoluzione di Kevin Spacey, diventato suo malgrado il simbolo di un movimento che ha sconquassato il mondo dello spettacolo in ogni parte del mondo. Cadute le accuse, svanisce anche la gogna. E forse l’attore americano potrà riprendersi la carriera che gli è stata sottratta. Ma cosa è cambiato, intanto, dentro quel sistema che si voleva smantellare? Per quel che riguarda l’Italia «assolutamente nulla», risponde Alba Parietti. «Il MeToo interessa soprattutto perché riguarda personaggi famosi, è il gusto del gossip - aggiunge la conduttrice e opinionista tv -. Ci siamo limitati a guardare la punta dell’iceberg, senza badare a quello che c’era sotto. E senza prendere coscienza di ciò che accade nel mondo, dove ogni giorno alle donne sono negati i diritti fondamentali. Ecco perché bisognerebbe estendere la nostra visione e smettere di piangersi addosso. Altrimenti facciamo le Elkann sul treno per Foggia».

Il MeToo italiano: caccia alla streghe o una rivoluzione mancata?

In America tutto è partito da due casi eclatanti, Weinstein ed Epstein, vicende documentate e arcinote. In Italia, il MeToo è stata un po’ una barzelletta: si è parlato di un unico caso, il caso Brizzi, assunto come capro espiatorio. Intanto il sistema è rimasto intatto. Tanto nel mondo dello spettacolo, quanto negli altri ambiti lavorativi dove ci sono tante situazioni che non hanno la stessa risonanza mediatica. Se c’è stata una caccia alle streghe? Prenda il caso di Roman Polanski, che ha pagato un prezzo altissimo per le accuse che gli sono state rivolte. Accuse che mi hanno molto stupita, e nelle quali non rivedo la persona che ho conosciuto per anni.

Ritiene che nel suo ambiente alcune vicende siano state strumentalizzate?

Bisogna imparare ad essere intellettualmente onesti. Io non giudico nessuna donna. Qualsiasi persona ha diritto di sognare la più fantastica delle carriere, senza accettare compromessi. Ma sono altrettanto convinta che questo sia possibile in pochissimi casi. Perché per ogni persona di talento, ce ne sono altrettante pronte a tutto per fare carriera. E bisogna ammettere che è la regola del gioco.

Accettare compromessi?

Scardinare questo tipo di sistema è molto - molto complicato. Perché c’è una grande capacità in questo lavoro di scavalcare gli altri senza alcun tipo di scrupolo morale. Io posso permettermi di dire che in 46 anni di carriera non ho mai accettato un compromesso.

Le è capitato di trovarsi in situazioni spiacevoli?

Due in particolare, molto inquietanti. Ho avuto la forza di reagire e di uscirne senza grosse conseguenze. Ma anche senza vantaggi per la mia carriera. Una volta, quando avevo 18 anni, ho ricevuto delle avances da parte di una persona che si trovava in una posizione di potere. Sono rimasta paralizzata, ma per fortuna avevo di fronte una persona non violenta che ha capito la situazione. E io purtroppo l’ho considerato un episodio normale. Il meglio che potessi sperare è che questa persona non mi perseguitasse lavorativamente per un rifiuto.

Ci ha più ripensato negli anni?

Ho cercato di limitare i danni. Non l’ho raccontato a nessuno, non volevo farne un caso. S’immagina un mondo in cui nessun produttore o regista importante ci prova con un’attrice? Crede che possa succedere? Dovrebbe, ma è un’utopia. Un giorno un grosso dirigente disse al mio agente: “Ricorda che la Parietti che non ha santi in paradiso”. Vede: certamente si può fare carriera anche senza accettare compromessi, ma facendo cento volte più fatica. E questo non è un lavoro per persone deboli. Ci sono i lupi e gli agnelli, ma gli agnelli devono imparare a diventare dei falchi ed essere capaci di difendersi.

Si potrebbe obiettare che non sono le donne a doversi difendere, ma gli uomini a dover cambiare.

Mi creda, nessuno è più femminista di me. Però io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose.

Come le si potrebbe cambiare, a suo parere?

Le donne devono imparare a difendersi culturalmente. Certo gli uomini devono cambiare per primi, ma anche le donne devono appropriarsi del diritto di non stare al gioco. E di sottrarsi a questo schema di scambio. Oggi si è perso il senso della morale e della vita. Vedo un analfabetismo totale dei sentimenti, un mondo mercificato e brutto da vedere.

E al contempo siamo diventati “puritani”, come sostiene qualcuno?

Se parla del politicamente corretto, ci siamo tolti soltanto il gusto della battuta. Un’ipocrisia totale. Perché non si può più dire nulla, ma sul piano dei diritti non è cambiato nulla.

Ma tornando al discorso precedente, per una donna che trova il coraggio di denunciare le cose non sono mai semplici. Il rischio è di finire sul banco degli imputati, fuori e dentro i tribunali.

Quando una donna denuncia viene sempre giudicata, lo abbiamo visto nei casi più eclatanti, come nella vicenda Genovesi. Si diceva: “Ah, ma queste ragazze facevano le escort”. Come se significasse che sono schiave. Il problema è il giudizio, che spesso viene proprio dalle donne. Una donna che fa la escort e viene violentata, è una donna violentata. Punto. Bisogna sempre distinguere tra una scelta consapevole da parte delle donne, che possono accettare dei compromessi e non vanno giudicate per questo. Ma quando non c’è una scelta, si tratta di violenza. A qualunque livello.

Che idea si è fatta del caso LaRussa Jr? Il presidente del Senato ha ricevuto duri attacchi per le parole pronunciate in difesa del figlio, ed è diventato anche un bersaglio delle femministe che hanno affisso dei manifesti in segno di protesta.

Credo che abbia ragione Meloni, quando dice che se fosse stato suo figlio avrebbe scelto di restare in silenzio. Sono abituata a non giudicare mai prima di conoscere i fatti. E questo deve valere anche per il presidente La Russa. Ma non mi piace fare la forcaiola, i processi si fanno in tribunale.

Jet privato, dentista e ristrutturazioni. Alba Parietti: "Negli affari so intuire la potenzialità". Parsimoniosa, ma con un grande sesto senso per gli immobili, che sono diventati ormai il suo secondo lavoro. Così Alba Parietti, con testa e buon gusto, non crede nelle criptovalute, ma punta tutto sul mattone. Roberta Damiata il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il gusto per il bello, respirato e vissuto fin da piccola, una carriera brillante come showgirl, scrittrice, presentatrice e opinionista. che non ha però spostato il suo baricentro. Piuttosto da "solido pianeta" è stata proprio lei, Alba Parietti, a decidere quale satellite doveva girarle intorno, usando la testa e quel carattere indipendente che l'ha sempre contraddistinta. Così mentre per definizione il suo lavoro principale porta "leggerezza", la solidità è insita in lei e in quel suo essere un'acuta formica, che ha imparato dagli errori, soprattutto quelli economici, decidendo poi di investire sul suo gusto personale che è diventato: "Un secondo lavoro e un'importante fonte di guadagno" come racconta nella nostra intervista. 

Che rapporto ha con i soldi?

"Molto sano secondo me. A volte vengo considerata una persona parsimoniosa, ma in realtà non mi sono mai fatta mancare niente e ho sempre considerato il denaro come il mezzo per poter essere una donna completamente libera. I soldi nella mia vita, hanno significato indipendenza e fiducia in me stessa, la possibilità di poter scegliere in ogni momento, con chi stare, cosa fare e chi poter aiutare e, soprattutto, non avere costrizioni rispetto alle necessità".

Si considera fortunata?

"Molto, perché a 28 anni la mia vita è cambiata. Improvvisamente mi sono trovata a essere una donna completamente indipendente sul piano economico e forse direi anche qualcosa di più. Nonostante questo però, non ho mai buttato via i soldi, li ho reinvestiti e spesi in case".

Ricorda i primi che ha guadagnato? Come li ha utilizzati?

"Ho cominciato molto presto ad essere economicamente indipendente. Avevo 14 anni quando ho iniziato a lavorare con le prime televisioni e le radio private di Torino e già prima di ottenere la grande notorietà, avevo comunque guadagnato molto bene. Con i primi soldi ho comprato una macchina, dei vestiti, li ho utilizzati per sistemare i denti, ma soprattutto per non dipendere dai miei genitori".

Tutto questo a 14 anni?

"Sì, prima come segretaria, ricordo che prendevo al telefono le dediche per la radio, poi ho cominciato a registrare gli stacchetti e ad andare in onda sia in radio che in tv. Man mano che avanzavo, guadagnavo sempre di più. I miei primi contributi ho iniziato a versarli a quell'età".

C'è un investimento che non rifarebbe?

"Ha perso dei soldi in un momento di crisi generale dell'economia, ma ho saputo anche reagire decidendo poi di investire nelle case, che mi hanno dato modo di avere una grande solidità. Come tutte le persone che non sono al dentro della materia, posso aver sbagliato qualche forma di investimento, ma mai in maniera importante".

Investire sulle case è stata una sua decisione o qualcuno l'ha consigliata?

"Sono molto brava a ristrutturare immobili, sono diventati per me un secondo lavoro, oltre che una fonte di guadagno. Una parte delle case queste le ho messe a reddito dopo averle rinnovate. Ho chiesto aiuto a persone capaci, ma ho un certo talento per arredare, modificare, per questo non ho mai avuto bisogno di architetti, ma solo di ingegneri strutturali, perché per il resto uso il mio gusto personale, che, devo dire, piace molto. Le ho sempre rivendute a prezzi molto più alti rispetto a quelli che le avevo acquistate. Spesso li ho solo arredati, ma in maniera così carina che non sono rimaste vuote per più di cinque minuti".

Ha mai giocato in borsa o magari acquistato criptovalute?

"A quelle (le criptovalute), non ho mai creduto, sarà forse perché avevo già fatto investimenti sbagliati con alcuni fondi simili, ma ho capito molto presto a cosa fare attenzione. Questo però non significa che sono un genio della finanza, anzi pur avendoli lasciati in mano a grandi professionisti del settore, non sono mai riuscita a ricavare cifre importanti. Al contrario ho guadagnato molto bene con gli immobili".

Quale è stata la spesa più folle che ha fatto?

"Un aereo privato".

Comprato o affittato?

"Per comprarlo avrei dovuto essere un magnate, l'ho affittato una volta".

Quanto le è costato?

"Non ricordo bene è passato un po' di tempo, mi sembra 11 milioni. Un'altra spesa importante è stata una casa in Sardegna, quando si affittavano a 50 milioni al mese, dove ho invitato tutta la mia famiglia. Era un modo per far star bene tutti. Ovviamente l'ho fatto nei momenti di grande guadagno, quando arrivavo a prendere 100 milioni per una trasmissione, quindi la spesa era compatibile con il mio stato. Poi mi sono ridimensionata molto".

Pensa di avere il fiuto per gli affari?

"No, ho fiuto per quello che so fare bene. Non sono 'navigata' per gli affari, ma ho un grante talento, quello di avere gusto. Sono una persona che ha occhio per vedere le cose che possono migliorare con poco sforzo. Quando scelgo una casa non commetto errori, so valutarla bene, capisco i punti di forza e come valorizzarli, riesco a vederne le potenzialità. Questo è un tipo di talento che ho anche con gli esseri umani, capisco subito se in una persona c'è talento, e così anche gli oggetti".

Come ha affinato questo "senso"?

"Non pretendo di avere un gusto universale, però, crescendo con un nonno e una madre artisti, e intendo a livello alto, sono stata circondata da arte e bellezza. Ho avuto la possibilità di vivere situazioni di condivisione straordinaria. Sono cose che non si possono mettere in discussione. È così che si impara".

Hai mai paura di rimanere senza soldi?

"Sì, questa è una sensazione atavica vissuta fin da piccola, perché mio padre ha fatto la guerra e patito la fame, e mi ha un po' cresciuta con la paura della miseria. Per questo a volte mi accusano di essere una persona che non si gode abbastanza la vita, ma a me non sembra di farlo. Preferisco spendere per le cose utili, piuttosto che buttare i soldi per sciocchezze. Piuttosto ho aiutato mio figlio ad avere una casa sua, che magari avrebbe potuto realizzare vent'anni dopo e questo mi sembra molto. Per il resto ho sempre avuto la fortuna di essere vestita dai più grandi stilisti, perché mi hanno voluta come testimonial, personalmente non ho mai speso più di 300 € per una borsa".

Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il Corriere della Sera il 20 giugno 2023.

Leopardata dalla testa ai piedi e con i capelli cotonati frisè passò e ripassò davanti alla Rai di Torino.

«Quando mia madre mi vide conciata così si mise a piangere, lei che non aveva pianto nemmeno al funerale della sua. E al ritorno mi mise la testa sotto al rubinetto. Avevo 17 anni ma ne dimostravo 20, ora che ne ho 61 mi dicono che ne dimostro sempre 20, beh, facciamo 30», se la ride Alba. «La vanità è un mio difetto eppure lo ostento». 

La passerella era mirata.

«C’era Enzo Trapani che registrava Non Stop , con Verdone, I Gatti, Troisi. Volevo farmi notare. Mi abbordò Jerry Calà, il “tampinatore” del gruppo. Prese il mio numero, mi corteggiava, non un gran complimento, visto che ci provava con tutte. La verità è che non la davo a nessuno, ero solo una bravissima allumeuse, fisico androgino, sedere brasiliano, 1 e 76, bionda, imitavo Dalila Di Lazzaro, avevo sciami di uomini dietro. Mi chiedevano: “Che hai, il miele?” Li attiravo ma poi scappavo». 

Jerry no, Franco Oppini sì.

«Dopo un giro notturno per le vie di Torino, Franco mi invitò per un weekend in Romagna. Andai con un’amica che si fidanzò subito con Jerry. Lui era impegnato, lasciò l’altra e io feci la parte della ruba-mariti anche se di solito sono i mariti a volere essere rubati. Ci innamorammo e fu subito Francesco» (il figlio). 

All’asilo dalle suore con un baby Marco Travaglio.

«Mi faceva i dispetti: passavo vestita di bianco e mi schizzava con le pozzanghere».

Subito bella.

«A 10 anni sembravo una ninfa, per mamma somigliavo alla Venere di Botticelli».

Innamorata di Baglioni 

«E chi non lo era? Creai un club di fedelissime di Claudio, la cassetta della posta si intasò di lettere, papà ebbe una crisi di nervi. Siamo amici, il suo è stato il primo concerto che ho visto con Fabio».

Una particina in «Sapore di Mare» dei Vanzina 

«Breve ma iconica comparsata, nella famosa scena finale. Nella vita ci vuole talento ma anche fortuna».

Voleva fare la cantante e non molla, anche se a “Tale e Quale” il suo amico Cristiano Malgioglio la stronca tappandosi le orecchie.

«Una gag tra noi. Non sono male come interprete, so emozionare, se avessi studiato avrei sfondato. Come attrice potevo fare meglio. Pierce Brosnan mi voleva a tutti i costi per 007 GoldenEye , ma io non avevo voglia di studiare l’inglese, volevo godermi la vita, Beppe Caschetto è ancora lì che piange. Occasioni così non ne ho più avute». 

Quando intonò «Etienne» (“La Piscina”, Raitre, 1991) fu subito feroce parodia.

«Lì ero atroce, ammetto». 

Era nata la «selvaggeria».

«Ero una sexy cialtrona. Un’idea di Angelo Guglielmi, che mi adorava. Sono sempre piaciuta agli intellettuali». 

Lo sgabello di Galagoal.

«Di calcio capivo poco, però conoscevo la tv. Mai caduta, la classe non è acqua».

I calciatori apprezzavano.

«Ci provarono in tanti, ci riuscì solo uno, stop».

E Maradona?

«Non ero il suo tipo, gli piacevano più... semplici. Generoso, travolgente, che serate con lui e Gianni Minà».

Le inviavano tir di regali .

«Auto e gioielli, pure gli emiri. Mi telefonava Gianni Agnelli, gentile e discreto. Però mi è sempre piaciuto snobbare i ricchi. Ho avuto storie solo con uomini che mi attraevano, magari discutibili, ma non che mi fossero utili». 

Sanremo con Baudo, Milly Carlucci e Brigitte Nielsen.

«La mia consacrazione. Pippo mi diede la grande occasione, ma l’anno seguente, al Dopofestival, non mi voleva, mi trattava malissimo. Come Enrico VIII, che prima prende moglie e poi la fa chiudere in prigione». 

Anche con Boncompagni bisticciò alla seconda edizione di “Macao” (Rai2, 1998): via dopo una puntata.

«Come un ragazzino viziato, Gianni si era stancato del suo giocherello. Mi faceva dispetti: non mi inquadrava, usava le luci sbagliate». 

(...)

Non girò “Così fan tutte” ma accettò “Il Macellaio” .

«Il film di Tinto Brass, un maestro, era troppo spinto, avevo un bimbo piccolo. L’altro era d’autore, magari noioso, non volgare, nel contratto però avevo vietato inquadrature ravvicinate». 

(...) 

«Coscia lunga della Sinistra» fu il nome di battaglia.

«La coscia resta, la Sinistra no. Azzeccato, ne vado fiera».

E questa Rai «meloniana»?

«Appena sono arrivati i nuovi, si è sbloccato il mio show Non sono una signora , dal 29 giugno, 5 prime serate su Rai2. Quindi bene, forse tutto questo bacchettonismo non c’è. Del resto chi non ha mai sognato di essere una drag queen ? Quanto a me, non sarò più una signora».

Eh?

«Nel senso che non mi sposerò con Fabio. Ho incontrato l’uomo giusto, per gioco mi chiama “la definitiva”. Mi piace il termine fidanzata, cerco l’emozione che mantiene viva la passione. Ha due ex mogli con cui vado d’accordissimo».

(...)

Ivan Rota per Dagospia il 17 febbraio 2023.

La sirena Alba Parietti.

Quale sarà il segreto della strega highlander Alba Parietti?

La Parietti ventenne, ancora prima di aver conquistato il mitico Lambert , aver fatto svenire Alain Delon per la rabbia di non averla saputa far innamorare , aver fatto girare la testa alle più grandi star del cinema mondiale , da Jack Nicholson a Mel  Gibson  e altre star presenti alla festa del festival di Venezia come raccontava il New Yorker.

Cosa avrà’ mai la diabolica coscia lunga della  sinistra ?Quale sarà il suo asso nella manica? Sul Corriere in un’intervista a Candida Morvillo svelato suo segreto attraverso la dichiarazione di Sandy Marton sex symbol degli anni degli anni 80 che dice di aver scoperto il sesso attraverso di lei.

Ora possiamo considerare senza ombra di dubbio Fabio Adami un uomo veramente fortunato

Estratto dell’articolo di Alessandra Paolini per la Repubblica il 30 aprile 2023.

Signora Alba Parietti, è pronta? Parliamo d’amore? “Ma sì! Mi coglie nel momento giusto: un anno fa ho incontrato il mio principe azzurro. Pensi che mi manda le rose ogni mese, per il nostro anniversario…”.  A sessant’anni compiuti, la donna che nel ’90 sedusse mezza Italia seduta sullo sgabello di GalaGoal vive un momento di inattesa felicità, volteggiando finalmente al di sopra della nuvola di gossip che per decenni ha avvolto la “coscia lunga di sinistra”. 

Parleremo subito del suo principe azzurro. Prima però le chiedo di saltare di palo in frasca. Ha sentito che, secondo Paola Ferrari, voi due da ragazze vi “palleggiavate” Sandy Marton, la star di People from Ibiza?

“Non vorrei rispondere… Lei l’avrà vissuta così. Come diceva Oscar Wilde ‘La falsità è la realtà degli altri’. E comunque, Paola ha anche detto che avevamo in comune Alessandro Stepanoff, all’epoca il fotomodello più famoso al mondo.  Perciò a questo punto sarebbe meglio lasciare la risposta a Sandy e ad Alessandro che sono tutt’ora miei carissimi amici. Pensi che Alessandro e sua moglie Carina hanno persino chiamato la figlia come me, Alba. Anzi, le voglio dire un’altra cosa…”

 Che cosa?

“Paola deve a me il marito (l’imprenditore Marco De Benedetti, ndr). Sono io che li ho fatti conoscere. Si sono sposati dopo tre mesi. E tutt’ora sono una bella coppia che si ama, con due figli adorabili. Quando incontro i ragazzi ci scherzo sempre su: ‘Se siete nati belli e ricchi è merito mio…’. E comunque, e poi finisco sull’argomento: se c’è una cosa che non ho mai fatto in vita mia, perché mi fa orrore, è fare gli occhi dolci al fidanzato o al marito di un’altra. Con me, invece, lo hanno fatto spesso…”. 

Con lei presente?

“Hai voglia! È la solita storia della competizione tra donne. Fare la gatta morta, cercare di conquistare uno che sta con te - che magari sei pure famosa - le fa sentire più fighe. Ma io non ce l’ho con loro, semmai con quel tipo d’uomo che si sente lusingato e non si tira indietro. La realtà è che uno che si presta al gioco vale poco”.

Il suo principe azzurro, invece, quanto vale?

“Tantissimo.  Fabio (Adami, ndr) è il compagno che se da ragazzina mi avessero detto ‘Disegna su un foglio l’uomo della tua vita’, l'avrei disegnato esattamente uguale. E non solo perché è bellissimo, ma perché è capace di farmi sentire felice, di proteggermi, di ascoltarmi. E dire che credevo di essere fatta solo per gli amori tormentati. Dopo Oscar Wilde, Tiziano Ferro: Fabio mi ha fatto capire quanto è bello Un amore semplice”. 

Lui è un manager di Poste Italiane. Vi siete conosciuti sul treno Roma- Milano.

“Esatto. Una storia che non aspettavo. Avevo compiuto da poco sessant’anni e mi ero convinta di voler stare da sola. Erano sei anni che non volevo una storia importante. Del sesso non mi interessava più nulla.  A me, senza amore, non è mai piaciuto. Ma non che stessi male: avevo trovato il mio equilibrio. Poi sono salita su quel treno. C’è stato uno sguardo intensissimo tra noi. Ho pensato che fosse strafigo. Lui mi ha confessato poi che da ragazzo era sempre stato innamorato di me e che i suoi amici una volta gli regalarono una mia foto autografata, perché aveva sempre voluto conoscermi. Ma sul vagone quasi non ci siamo scambiati una parola. Solo all’arrivo, è venuto a parlarmi. Io sono scappata. Mi ha raggiunto e lasciato il suo biglietto da visita: ‘Per qualsiasi cosa io ci sono!’”. 

(…) 

Domanda di rito. Il suo primo bacio?

“Non fu una mia scelta: ma del gioco della bottiglia, avevo 13, 14 anni”. 

Il fortunato?

“Mi pare fosse Marco Zatterin, che ora credo sia un vicedirettore della Stampa…ho sempre saputo scegliere bene (ride)’”. 

Il primo bacio non pilotato dalla sorte?

“A un ragazzo che faceva il cameriere a Torino. Era bellissimo”. 

E Christopher Lambert come baciava?

“Da dio! A conti fatti è stata una bellissima storia finita molto male. E oggi non lo metterei tra gli uomini che hanno contato di più. Diciamo che era un bravo attore anche nella vita vera”. 

Quali sono, invece, gli uomini della sua vita?

“Pochi. Franco Oppini, con cui ho un rapporto bellissimo. Il compleanno di mio figlio Francesco lo abbiamo passato al ‘Jackie O’’ con sua moglie Ada e Fabio mentre lui, Franco, cantava al piano. Ci siamo sposati giovanissimi: anni meravigliosi vissuti insieme agli altri Gatti di vicolo Miracoli. Poi c’è Stefano Bonaga: l’intelligenza, la cultura allo stato puro, compagno spiritosissimo. Giuseppe Lanza di Scalea: la classe. Mi ha insegnato a stare al mondo, anche se non è riuscito a insegnarmi a parlare poco… (ride). Poi Cristiano De Andrè - la nostra coppia fu un vero disastro - ma è il migliore amico del mondo. E ora Fabio, che cercavo da tutta la vita”. 

(…)

A 58 anni Paulina Porizkova, la top model anni Novanta, ha postato una foto in cui è semi nuda. E ha scritto “L’erotismo non ha una data di scadenza”. Sarà d’accordo…

“D’accordissimo.  E chi pensa che una donna passati gli ‘anta’ non sia più oggetto del desiderio ha un problema. L’erotismo è questione di chimica, a prescindere dall’età. Ora però non mi faccia altre domande su questo argomento, che Fabio si arrabbia. Lui fa un lavoro dove non è abituato a questo tipo di esposizione sul suo privato”. 

Neanche una cosuccia?

“Va bene: fa una gricia da paura, un inno all’erotismo”. 

Allora, Fabio è fuori da questa domanda. Ma è vero che con lei l’80 per cento degli uomini ha fatto cilecca al primo appuntamento?

“Confermo (ride). Però poi col tempo sono migliorati… è successo a tutti tranne ad uno! (ride)”.

Ansia da prestazione?

“Penso di sì. Si ritrovavano con me tra le braccia e si sentivano come all’esame di maturità. I maschi rispetto a noi donne hanno sta ‘condanna’. Anche se è un problema che si creano loro. Un uomo, per me, è un uomo perché sa starti accanto. Come Fabio. Come, in modo diverso, ha fatto mio padre. Certo, il sesso è importante. Ma non è tutto”. 

Nel ’90 lei divenne una dea, seduta su quello sgabello di TMC a commentare i mondiali di calcio. A ripensarci, tutto quel clamore non le metteva ansia?

“Sì, è stato un momento pazzesco, molto stressante. Ma sinceramente ha sistemato economicamente me e tre generazioni a seguire (ride). Se ci fosse un grafico a raccontare quegli anni, sarebbe un picco in ascesa verticale e lunghissimo. Picco che poi, naturalmente, è calato. Il grafico è diventato orizzontale, ma stabile. Sa che a quei tempi c’è chi mi offriva di tutto? Un costruttore mi regalò una villa a Sharm el-Sheikh per partecipare a una convention!”. 

E lei l’ha accettata?

“Beh certo”. 

Molti le chiesero di entrare in politica. Quale partito?

“Tutti. Specie quelli di destra, anche se poi passavo per la ‘coscia lunga di sinistra’”.

E perché non si buttò?

“Walter Veltroni mi disse: ‘Lascia stare, che in politica per tre che si divertono ci sono tutti gli altri che si annoiano’. Gli ho dato retta, anche se sinceramente ho sempre pensato che avrei fatto parte di quei tre”. 

(...) 

Cosa?

“A volte mi attaccano per tutto. Come questa storia delle labbra. Tutti i delitti cadono in prescrizione…e le mie di labbra risalgono a trenta anni fa". 

Ci rimane male?

“Più che altro mi dispiace leggere commenti così stupidi. Fabio mi dice di lasciare perdere… E, quando vado a sbirciare sui loro profili social, mi accorgo che chi mi insulta è magari l'ultimo che dovrebbero parlare…”.   

Beppe Caschetto, tra i più famosi manager dello spettacolo, ha raccontato che lei in quegli anni ruggenti ha rifiutato di recitare in un James Bond, perché non aveva voglia di fare una full immersion di inglese.

“Vero, vero. Era una parte in GoldenEye. Diciamo che anche allora ero una cialtrona determinata… Ma secondo me Caschetto è ancora arrabbiato con me perché all’epoca rifiutai un contratto da nove miliardi di lire”. 

Nove miliardi? Chi glieli offrì?

“Silvio Berlusconi. Che in quel momento stava per fondare Forza Italia. Come le ho detto, sono una determinata. Soprattutto, a restare sempre e comunque libera”.

Alba Parietti: «Sandy Marton fu un’apparizione. Più che sedurlo seppi motivarlo». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2023.

«Se la sinistra si riconoscesse nel bacio di Rosa Chemical a Fedez, i partigiani si dovrebbero rivoltare nella tomba. Io “coscialunga” della sinistra? La coscia c’è, è la sinistra che manca»

Alba Parietti, ha visto che ha detto di lei Sandy Marton al «Corriere»?

«Ho letto e, dopo, l’ho anche sentito. Sostanzialmente, dice che ha cominciato a credere in se stesso grazie a me».

Più che altro, dice che con le donne era totalmente timido, ma che, dopo un flirt con lei, è diventato «un mostro di sex appeal».

«La sua è stata una dichiarazione postuma. Mi succede sempre così: quando stanno con me tacciono, dopo, confessano che sono stata la donna che hanno amato di più. L’unico che me l’ha detto, e me lo dice, a relazione in corso è il mio attuale fidanzato, Fabio Adami: deve aver avuto pietà della mia età, ormai, sono 61 anni».

Tornando al flirt col ragazzo che incarnò gli anni Ottanta cantando «People from Ibiza»?

«Fu un’apparizione quasi messianica, aveva una specie di luce, un alone... Eravamo due cantanti di Disco Music. L’ho visto e ho detto: ma che è? Era alto due metri, coi capelli biondi lunghi, era bellissimo, ma aveva una delicatezza particolare, se vogliamo, una timidezza. A me non sono mai piaciuti gli uomini convinti della loro bellezza. Un uomo certo di essere bello è cafone. Io ho avuto uomini estremamente belli ed estremamente brutti, ma i più belli non avevano la sfrontatezza di ritenersi tali».

Pure Christopher Lambert non si credeva bello?

«Era vagamente insicuro, diceva che chi lo vedeva dal vivo restava deluso e lui gli dava ragione».

Come andò con Sandy al punto che lui la incorona campionessa di seduzione?

«Più che campionessa di seduzione, io sono campionessa di motivazione. E sono talent scout di talenti. Gli dicevo che lo invidiavo, che volevo essere lui. A volte si faceva prendere dall’insicurezza, mi faceva tenerezza, a volte era malinconico. Però è sicuramente un maschio alfa, con tratti di allegria, dolcezza, una risata stupenda. A me non piace l’uomo vincente, i vincenti sono spietati, a me sono sempre piaciuti i dannati o quelli che avrebbero potuto fare di più. In fondo, anche io avrei potuto fare di più, ma rispetto alla carriera, ho sempre privilegiato la mia libertà».

Quanto siete stati insieme?

«Non siamo stati fidanzati. Uscivamo a Milano la sera e facevamo il giro delle discoteche: partivamo con l’Amnesia e chiudevamo col Plastic. E, a Ibiza, Amnesia e Ku».

Milano, Ibiza... Sta dicendo che durò tanto?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».

Il suo show sulle drag queen continua a slittare: il tema è troppo sensibile per la Rai nell’era di Fratelli d’Italia?

«Se il motivo fosse questo, sarebbe paradossale, perché con le polemiche post Sanremo finirebbe per pagare un programma girato stando attentissimi che non ci fosse un secondo, un’inquadratura, una parola che potesse offendere la sensibilità di spettatori meno avvezzi ai temi di genere o i moralisti o i bambini. In cinque puntate, non c’è un solo minuto che abbiamo pensato di tagliare perché volgare o trash o fuori luogo. Non sono una signora vuole dare dignità all’arte delle Drag Queen. Ci sono concorrenti famosi, non necessariamente etero, che salgono sui tacchi per un giorno e danno vita a uno spettacolo bellissimo. Mi spiace che qualcuno possa aver pensato che abbia una connotazione politica».

Che il programma sia stato registrato prima delle elezioni politiche e che sia stato promosso con partenza il 7 dicembre e poi sia slittato è un fatto. La Rai che spiegazione le ha dato?

«Io non chiedo spiegazioni alla squadra in cui gioco: se mi chiedono di andare in quarta fila, lo faccio. E credo che considerare tutto un atto politico non ha più senso: se la sinistra si dovesse riconoscere nel bacio di Rosa Chemical dato a Fedez fuori contesto, mio padre e gli altri partigiani si dovrebbero rivoltare nella tomba. Io non riesco a identificarmi più in nessun partito e ora guardo alle singole persone, quindi, mi piacerebbe vedere come una premier donna si muoverà su questi argomenti, mettendo a tacere le componenti più bigotte ed evitando polemiche inutili su temi di civiltà che appartengono a tutti».

Ha detto che non s’identifica più in un partito, quindi, non è più la coscialunga della sinistra?

«La coscia c’è, è la sinistra che manca».

Ha appena messo su Instagram una sua foto versione Lolita, perché?

«Perché sto con un uomo meraviglioso che mi ha restituito l’adolescenza. Io dico sempre che bisogna avere fidanzato e chirurgo più giovani, così ti sopravviveranno entrambi».

Sta denunciando di avere un chirurgo estetico?

«Certo, mica al Duomo di Milano qualcuno ha detto qualcosa quando l’hanno restaurato? E di me, Vittorio Sgarbi, che è critico d’arte e quindi mi attengo al suo giudizio, ha detto che sono un monumento nazionale».

Alba Parietti e Fabio Adami: «Tra di noi la gelosa sono io». Lui: «Avevo un suo autografo dai tempi di Galagoal». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.

L’opinionista e il manager di Poste italiane: «In treno il colpo di fulmine». I paparazzi: «Lui è riservato, non ama finire sui giornali. All’inizio ero mortificata». Il primo messaggio: «Dopo averla incontrata ero emozionato. Lo stavo raccontando a un amico quando mi ha scritto su WhatsApp»

La cacciatrice di Narcisi si è arresa. Dopo aver speso anni a smascherare egocentrici e vanagloriosi, si è dovuta rassegnare al fatto di aver incontrato, finalmente, il Principe Azzurro. L’ultimo esemplare, va detto. Alba Parietti e Fabio Adami da dieci mesi formano una bellissima coppia. Che raccontano per la prima volta insieme nel soggiorno della casa di lei a Basiglio, emozionati e titubanti. Perché un conto sono i selfie (lui la rimprovera di farne troppi), un conto è la vita vera, fatta di dettagli: la premura di servire la «fidanzata» prima di versarsi la pietanza nel piatto, quella sfumatura di vulnerabilità con cui lei racconta che lui non ha ancora letto il libro autobiografico sulla sua famiglia, la felicità sfacciata negli sguardi che si scambiano, maglione chiaro lui, nero lei, yin e yang fatti apposta per mescolarsi. Fabio Adami è un manager di Poste italiane, Alba Parietti è Alba Parietti. Hanno cinque anni di differenza (lei è più grande), anche se non lo diresti.

Quando vi siete conosciuti?

Alba: «Il 23 marzo 2022, in treno. Io dovevo prenderlo un’ora prima, lui 2 ore dopo».

Fabio: «Indossavamo la mascherina, non l’ho riconosciuta subito. Ero seduto due posti più avanti, di spalle, però la spiavo con il telefonino, tipo specchietto retrovisore».

Alba: «La sua forma mi aveva colpito. Mentre metteva il trolley in alto ci eravamo scambiati il primo sguardo. Durante il viaggio ne ammiravo le spalle. Poi all’altezza del lago di Bolsena sono entrata in bagno per sistemarmi e lui mi ha riconosciuta».

Fabio: «Va premessa una cosa».

Prego.

Fabio: «Io ho vissuto in India e in Kenya fino ai 18 anni, mio padre lavorava per Alitalia. Quando sono tornato a Roma nella mia compagnia c’era un amico che lavorava a Telemontecarlo e tutti lo supplicavamo di farci conoscere Alba Parietti, nel periodo di massimo splendore sullo sgabello di Galagoal. Finché un giorno arrivò con una foto in bianco e nero con l’autografo e la scritta: a Fabio».

Alba: «So che può sembrare assurdo, ma io ricordo di aver fatto quella dedica con il pennarello bianco».

E tutto questo quando ve lo siete detto?

Fabio: «Mentre aspettavamo di scendere dal treno. Io per la fretta di raggiungerla mi ero anche scordato il telefonino sul sedile, sono dovuto tornare indietro a prenderlo. Poi l’ho aiutata a portare giù il bagaglio e le ho dato il mio biglietto da visita, dicendole di chiamarmi, di qualunque cosa avesse avuto bisogno».

Alba, e lei?

«Io ero confusa. Era successo qualcosa, un colpo di fulmine: scappai via. Non appena salii sulla macchina che mi aspettava fuori, però, gli mandai un messaggio: “Sarei curiosa di vedere l’altra metà della faccia”. Aggiunsi la faccina con la mascherina e firmai A.P.».

Fabio: «Io pure ero emozionato. Stavo raccontando il nostro incontro al telefono al padrino di mio figlio, quando ricevetti il messaggio. Non capivo. Lo lessi al mio amico e lui: ma guarda che è lei!».

Chi ha invitato a cena chi?

Alba: «Non è stato così automatico. Intanto noi continuavamo a mandarci messaggi e a chiamarci, ma io nel frattempo stavo facendo le mie indagini. Tutti mi assicuravano che era una brava persona, padre premuroso, professionista serio».

Fabio: «Ero preoccupato: qualcuno mi aveva detto che stavano facendo indagini su di me, non sapevo chi».

Quando si è sbloccata la situazione?

Alba: «In treno, una settimana dopo».

Fabio: «Le scrissi dicendo che lo avrei preso da Bologna in una certa data e le mandai lo screenshot del biglietto».

Alba: «Tornando da Milano, sarei passata da Bologna alla stessa ora: una coincidenza incredibile».

Il racconto è ancora lungo e questa è la sintesi: la sera di quel secondo treno sono andati a cena (lei ha invitato lui) con Dario Maltese e Beatrice Iannozzi, per un rassicurante interrogatorio; la sera dopo hanno replicato da soli (è stato lui a invitare lei) e si sono dati il primo bacio; tre mesi dopo vivevano già insieme (pianificando viaggi per i successivi sei mesi).

Siete adulti, con vite precedenti. Quando avete conosciuto i vostri familiari?

Alba: «Beh, io ho proprio vissuto con sua mamma».

Fabio: «Era stata operata e ha fatto la convalescenza a casa mia. Devo ammettere che era strano rientrare a casa la sera e trovare Alba Parietti, mia mamma e la tata».

E i vostri figli?

Alba: «Io ho conosciuto i suoi subito, e con la figlia grande abbiamo fatto anche una vacanza insieme».

Fabio: «Io ho conosciuto Francesco 20 giorni dopo il primo viaggio in treno, a Basiglio. È stato un po’ uno choc, non per lui, ma perché quel giorno ho sperimentato con mano cosa significava stare con lei: un paparazzo ci stava aspettando».

Alba: «È stato un momento brutto, sono corsa dentro casa piangendo e sulle scale gli ho detto che non potevo promettergli che non sarebbe successo di nuovo. Se voleva chiudere lì, lo avrei capito».

Fabio: «Io l’ho abbracciata, non c’era altro da dire».

Litigate?

Alba: «È successo poco, forse quattro volte in tutto. Ma quando succede, ecco, lui da Principe Azzurro si trasforma nel Libanese della Banda della Magliana. E, devo ammettere, lo trovo ancora più sexy».

Raccontatemene una.

Alba: «La prima: per il titolo di un giornale su di noi».

Fabio: «Al lavoro mi avevano massacrato! Sono una persona riservatissima. Quando due mondi lontani come i nostri si incrociano, c’è bisogno di un punto di equilibro».

Alba: «Ero mortificata. Poi però mi arrabbiai, la sua reazione era stata eccessiva. Quella sera volle andare a dormire in albergo, ma dopo due ore tornò. Entrambi percepiamo la paura della perdita».

Chi è più geloso?

Alba: «Io. Perché vedo come lo guardano le altre. Da quando sta con me gli hanno chiesto di seguirlo su Instagram cinquemila donne».

Fabio: «Prima avevo un profilo aperto, limitato alla mia cerchia di amici... Comunque il suo nome è anche la sua garanzia. Si immagina se uscissi con qualcun’altra in quanto lo scoprirebbe?».

Cosa amate di più di voi?

Alba: «Per me Fabio è famiglia. In tre parole: una persona perbene. Una figura identica a quella di mio padre, che era bellissimo, seducente, con una grande etica e dignità. E poi mi riempie di sorprese. A ogni “mesiversario” mi spedisce un meraviglioso mazzo di rose rosse. È presente. Chiede il suo spazio solo per stare con il figlio più piccolo, e lo rispetto molto. Poi fa sport, ma solo la mattina quando io dormo».

Fabio: «Alba è dolce, sentimentale, romantica, intelligentissima, capace. Ho assistito alle registrazioni del suo nuovo programma: ha una incredibile dimestichezza».

Perché non ha ancora letto i libri di Alba?

«Mi sono dato del tempo. Ho accanto a me l’originale e la sto scoprendo giorno per giorno. Non desideravo conoscerla attraverso la lettura».

Pensate al matrimonio?

Fabio: «Abbiamo un rapporto così importante che è come fossimo già sposati».

Alba: «Magari faremo una festa di non matrimonio, come Berlusconi!».

Alberto Fortis: «Le ragazze mi aspettavano sul pianerottolo. Pippo Baudo di me disse: “Ma chi è questo incivile?”» Renato Franco su Il Corriere della Sera  il 21 luglio 2023. 

Il cantante: «Tra i miei compagni di scuola c’era Ghira, il massacratore del Circeo. Andai a cena in limousine con Tina Turner». L’incontro in Rai con Pippo Baudo: «Mi diede dell’incivile, ma poi diventammo amici» 

L’incontro più significativo e folle?

«Con Paul McCartney negli studi di Abbey Road, dove entrambi stavamo registrando. Era un luogo organizzato in maniera molto british, durante la pausa ci si vedeva tutti in mensa. Io avevo la tremarella quando parlai con lui ma nonostante l’enorme successo fui colpito dall’aspetto friendly da ragazzotto di Liverpool; fu molto affabile, gentile. Poi arrivò la moglie Linda con Stella bambina in una mano e una canna enorme nell’altra: would you like some joint? Mi chiese se volevo fumare come se fosse la cosa più naturale del mondo».

A Los Angeles ha conosciuto Tina Turner.

«Dopo il suo concerto presi una limousine con lei per andare a cena. Ricordo la grande umanità di questa donna, la carica, l’impressione della vicinanza con il mito».

Come fu aprire il concerto di James Brown nel 1979?

«Lo conobbi durante la famigerata vestizione, con il suo personal che gli infilava il mantello e lo vestiva con gesti rituali. Io avevo pubblicato solo il mio primo singolo, ero atterrito e incosciente, mi aspettavo che mi tirassero le lattine — era la simpatica usanza allora nei confronti dei supporter — invece mi arrivarono le mutandine delle ragazze in prima fila. Fu un debutto veramente rock».

Nel 1992 invece salì sul palco prima di Bob Dylan.

«Era in buona quel giorno, chiacchierammo e mi disse una frase che mi rimase impressa, tra il romantico e l’esoterico: noi artisti non creiamo niente, andiamo a prendere cose scritte nell’aria, tutto dipende da quanto sono lunghe le nostre».

Alberto Fortis nei primi anni 80 ebbe un successo clamoroso, in classifica era dietro a Michael Jackson e ai Dire Straits («sono molto orgoglioso di essere stato in scia a dei colossi»), diede sonorità pop alla canzone d’autore. Un bagliore che poi non ha saputo ripetere perché non è un cantautore nostalgico a cui piace replicare il già fatto («si tende sempre a voler da te la stessa cosa, ma sono un libero battitore e ho sempre fatto ciò che la musa mi ha ispirato nell’animo»). Fuori dal mainstream continua la sua lunga carriera, tra concerti e nuovi brani: ha da poco pubblicato un brano latin pop, Mambo Tango & Cha Cha Cha.

Nato e cresciuto a Domodossola, medie e liceo al famigerato collegio Rosmini.

«Era molto duro, lì per lì ho odiato quel posto ma oggi lo ringrazio per la formazione che mi ha dato. Tra i compagni di scuola avevo principi e conti, ma anche gente da “raddrizzare” tipo Andrea Ghira, quello del massacro del Circeo. Lo mandarono via dopo un anno e mezzo».

La musica come arriva?

«Per Dna inconscio. A volte ci sono aspetti quasi inspiegabili dei perché. A cinque anni chiedo la batteria come regalo a Babbo Natale e non la lascio più. Al liceo entro nelle prime band, il repertorio prevedeva cose tipo Vanilla Fudge, Creedence Clearwater Revival: alle feste di Capodanno ci chiamavano e non ballava nessuno».

Come la prese suo padre, affermato chirurgo?

«Fu strepitoso, c’era un bel gap di età, lui mi ebbe a 54 anni. Mi disse: qui hai uno scenario sicuro, di là un punto interrogativo, se ti senti di affrontare questa scommessa fallo».

A 20 anni il primo contratto con Rca. Un sogno che diventa incubo però...

«All’inizio provai una felicità indescrivibile, ma ai tempi la politica consolidata era di mettere i giovani promettenti sotto contratto per non farli andare in altre case discografiche».

La tengono fermo per due anni e mezzo.

«Io scalpitavo, avevo la promessa di realizzare la mia prima opera, ma niente. Era un tempo enorme, così sbottai con le famose canzoni Milano e Vincenzo e A voi romani».

Nella prima se la prendeva con il discografico Vincenzo Micocci (poi avete fatto pace): «Io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere». Nella seconda cantava: «E vi odio voi romani / Brutta banda di ruffiani e di intriganti / Siete falsi come Giuda, e dirvi Giuda è un complimento».

«Nacquero quasi di getto, dall’incazzatura dell’epoca. A voi romani fu un casus belli. I due obiettivi erano la discografia che faceva male al sistema e l’apparato socio-burocratico di Roma che per un ragazzo giovane e ingenuo come me era inconcepibile».

Baudo non la prese bene.

«Ero andato a fare un’intervista in Rai, finisco e sento la sua voce inconfondibile: Ma chi è questo incivile? Lo voglio vedere, lo voglio incontrare! Ci incontrammo e lui capì che non ero un bifolco, siamo anche diventati amici. Certo quella canzone mi ha causato parecchi problemi, fui marchiato con la lettera scarlatta ai piani alti della discografia e della Rai».

Quando lo stigma autoimpresso è stato superato?

«Anche chi mi metteva i bastoni tra le ruote ha dovuto cedere alla legge “triste” dei numeri, il successo mi aprì diverse porte».

Il Festival di Sanremo rimane un vuoto?

«Siamo in quattro ad avere il record di non averlo mai fatto: io, De Gregori, Branduardi e Ligabue, che poi è salito sul palco come ospite. Ai tempi me lo chiesero due volte e dissi di no, era troppo orientato alla canzone nazionalpopolare. Ora ci andrei subito».

Il suo è stato un successo travolgente.

«Dopo i concerti non si riusciva ad andare via dai palazzetti, si stava almeno un’ora nei camerini, perché ti ritrovavi tra le 600 e le 800 persone ad aspettarti. Una volta che riuscivi a entrare nel van iniziavi a sentire il rumore sordo delle mani che battono sui vetri. Rossana Casale, la mia fidanzata, ogni tanto piangeva perché non ne poteva più».

Le vertigini dell’altezza. Cosa ricorda più volentieri dei suoi anni all’apice?

«Una cosa buffa, i sit-in sotto il palazzo dove abitavo in via Rovello a Milano, non si riusciva a entrare. Quando uscivo alla mattina trovavo già le ragazze sul pianerottolo di casa; tra il quarto piano — dove c’era il mio appartamento — e il secondo i muri erano pieni di graffiti e scritte con dediche e numeri di telefono».

Ne approfittava?

«Mi sarebbe anche piaciuto, ma ero fidanzatissimo con Rossana che è stata una delle storie importanti della mia vita. In compenso i musicisti della band ogni tanto si appuntavano qualche numero di telefono».

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano venerdì 7 luglio 2023.

Le istantanee della sua vita sono talmente tante, incredibili e varie da sembrare un album della Panini. Non di calciatori.

Ma di musicisti (“Ho conosciuto dai Beatles agli Stones; da Springsteen fino a Iglesias. Ma soprattutto ho suonato con Hendrix”); quindi gli attori (“De Niro? Certo, e poi Verdone. Anzi, Carlo è uno dei miei migliori amici”); fino ad arrivare ai papi (“Giovani Paolo II l’ho incontrato più volte”). Tutti sono o sono stati sull’agenda di Alberto Marozzi. 

A differenza dell’aspetto da rockettaro, giubbotto di pelle e stivali, la sua vita sembra più suonata sui ritmi imprevedibili del jazz, con note che sanno di avventura e improvvisazione, l’uovo oggi piuttosto della gallina chissà quando (“Ora non ho quasi più nulla”); note di amicizia, a volte fratellanza, di amori impossibili diventati possibili per qualche ora. Lui è la personificazione del Manuel Fantoni di Carlo Verdone, il bellone, sbruffone romano che seduceva con foto false di vip, con dediche altrettanto fasulle. (“Molte battute e storie di Carlo vengono da me. Io sono un Fantoni meno bello, però vero”). 

(...)

La Pravo narra di una canna con Hendrix. E proprio nella sua 500...

La storia dello spinello non è così, ma con Nicoletta non ero così intimo come con Mimì (Mia Martini, ndr); con Mimì di notte restavamo in auto ad ascoltare la musica, poi decidevamo di partire, senza meta, solo per chiacchierare e cantare Cat Stevens o i Beatles. 

Insomma, niente canne.

Jimi no, quello spinello era dei suoi due musicisti; per la nebbia nell’abitacolo ero costretto a guidare con la testa fuori dal finestrino; (sorride) quella macchina ne aveva di storie da raccontare perché a quel tempo gli impresari mi chiamavano per portare in giro questi super personaggi.

Sempre lei...

Conoscevo l’inglese meglio dell’italiano e suonavo la batteria al Piper: così ho diviso la mia vita con i miti.

Come con Hendrix.

Con l’organizzatore dei concerti terrorizzato: ‘Albertì, occhio, pare sia matto’; (ride) pensare che in realtà ero un operaio: la mattina nella fabbrica di missili, la sera in mezzo alle star. 

Bella distanza.

Io pacifista, andavo a lavorare con il braccialetto “fate l’amore e non la guerra”; i responsabili incazzati, fino a quando una mattina mi hanno bloccato e tagliato i capelli. Sono stato costretto a denunciarli.

Torniamo a Hendrix.

Entro nel suo camerino e scopro una persona molto carina, calma, accogliente; io impreparato a trovare un uomo del genere, ero condizionato dai pregiudizi.

Era già un suo idolo.

Musicalmente conosciuto grazie a Charlie Watts (batterista dei Rolling Stones, ndr): l’anno prima, nel ’67, ero nella sua camera d’albergo e con un registratorino della Philips ci fece ascoltare Hey Joe; io emozionatissimo. 

Per Watts o Hendrix?

Per Jimi! Così emozionato da restare zitto davanti a lui, caso raro per me. Fu lui a togliermi dall’imbarazzo: ‘Che fai nella vita?’. ‘Lavoro in fabbrica, ma suono la batteria; ho un gruppo e conosco i tuoi pezzi’.

Carta d’identità perfetta.

Dopo i due concerti del primo giorno (24 maggio ’68) andiamo al Titan, dove normalmente c’era musica dal vivo: Jimi vede il palco e decide di suonare. Chiede una chitarra in prestito, solo che lui era mancino, quindi la sistema al contrario (pausa)... 

E poi?

La sera successiva stessa scena: tutti al Titan, solo che questa volta aveva con sé la sua chitarra; di nuovo chiede di suonare, ma i suoi due musicisti erano strafatti, allora si gira verso di me: ‘Alberto, suoni con me?’. Io pensavo di svenire (qui cambia postura, voce, atteggiamento; qui non si capisce se è lui o Verdone in “Troppo Forte” nella scena in cui dice “Daje, batti il ciak”).

Quindi...

Ho guardato il mio amico Piero: ‘Te va de fatte ’na session con Jimi?’. E allora ci siamo piazzati, ho battuto il tempo con il piede e via. 

In quei momenti a cosa pensava?

Che quando a cinquant’anni lo avrei raccontato nessuno mi avrebbe creduto; per fortuna c’erano tanti testimoni, come Arbore e Minà. 

Di sicuro suoi amici.

Per due anni sono stato l’assistente di Gianni e l’ho accompagnato ovunque, mi ha presentato chiunque: dalla Nazionale di calcio a De Niro, fino a portarmi sul set di C’era una volta in America; con Gianni ho fatto una figura di merda.

La confessi.

Mi sono fatto fregare l’auto che aveva in dotazione; (si alza in piedi, torna al suo “Jimi”) ho pure una sua dedica (e indica una parete dove ha incorniciato una foto di Hendrix); e non è finita qui: dopo la seconda serata lo porto in giro per Roma, tra Colosseo e Villa Medici, poi verso le quattro del mattino lo lascio in albergo. Ci salutiamo. Torno in macchina. E vedo la sua chitarra sul sedile. La prendo e la consegno al portiere.

Che errore.

Super corretto...

L’aveva comprata a Roma, non era preziosissima, lui ne sfasciava in continuazione, però ci aveva suonato e l’avrei ceduta nei momenti di difficoltà. 

Ne ha passati?

Eccome, sono arrivato a vendermi tutto, pure l’Lp degli Who con sopra le loro dediche: 80mila lire negli anni 70.

Come mai gli alti e i bassi?

Sono così, soprattutto dopo l’addio alla casa discografica. 

Che era successo?

Ero direttore dell’ufficio di Roma e responsabile della promozione per la Cbs; da quell’ufficio sono passati tutti, da Lucio Dalla che mi veniva a chiedere i dischi di Bob Dylan fino a Venditti e De Gregori. Francesco era un mio fan...

In che senso?

Quando suonavo anche lui frequentava il Piper e come musicista facevo molta scena, avevo la batteria tutta a fiori, vestivo all’inglese, un po’ di show... 

Insomma, l’addio?

Ero amico di Pino Daniele, so che gli scade il contratto con la Emi e mi chiede di passare con la mia casa discografica: ‘Pino, magari, a quali condizioni?’. ‘Ho già il disco pronto, ma ho bisogno di 50 milioni. Con 25 liquido il mio vecchio manager’.

E...

Quel manager non era una persona limpida; allora vado a Milano, spiego ai vertici la questione, incontrano Pino; dopo pochi giorni mi informano che per loro era un musicista locale, ‘va bene per Napoli’. Mi sono licenziato.

Tranchant...Mi avevano già bocciato Venditti per Sotto il segno dei pesci e Bennato con Burattino senza fili. L’unico che avevano preso era Baglioni, strappato per 1 miliardo e mezzo; (pausa) a Baglioni 1 miliardo e mezzo e neanche 50 milioni per Pino?

Lei e Daniele legatissimi.

(Si alza e mostra le foto di vacanze a Formia) Per un periodo, quando viveva qualche crisi sentimentale, chiamava me e lo raggiungevo a casa sua; ricordo una mattina con lui che mi sveglia, si piazza sul mio letto, caffè e chitarra, e inizia a suonare un brano che aveva appena composto. Stupendo. Era uno dei pezzi di Bella ’mbriana. 

Alcuni dei suoi ex compagni di strada non ne parlano sempre benissimo...

A Pino hanno rotto le palle fino a quando non è tornato a suonare con loro; mi ha pure insegnato a come lavare la biancheria intima in albergo, lui esperto per le tournée.

Condividiamo la dritta.

Basta lavare le mutande, piazzarle dentro un asciugamano e strizzare tutto; a quel tempo, anni 70, non avevamo una lira, però ci divertivamo, condividevamo e un pomeriggio ho suonato con lui i brani di Jimi. Anche qui: se avessi quella registrazione, sarei sistemato. 

Occasione persa...

Uno dei miei massimi l’ho raggiunto con Mario Schifano: mia madre si chiamava Palmina, detta Palma. Una mattina Mario mi chiama: ‘Vieni in studio’ e lo trovo buttato a terra, mentre dipinge con le sue vernici. ‘Ho realizzato questa cosa per mamma tua’. Era una palma.

Il suo simbolo...

E aggiunge: ‘Vieni tra una settimana, così la vernice è asciutta, poi è tua’. Aspetto, torno, l’arrotolo e la porto a casa. Solo che con mamma vivevamo in venti metri quadri, sotto terra, in mezzo ai bacarozzi. Così srotolo il quadro e mamma inizia con gli interrogativi: ‘Do’ lo mettemo? Che ce famo?’. L’ho riportato a Schifano. 

Ha pure recitato in tanti film...

Il primo nel 1965, Le sedicenni: sono entrato nel cast perché conoscevo l’amante del produttore, che poi era la mamma del mio chitarrista; per girarlo mi davo malato sul lavoro, poi ero piaciuto al regista, che dopo mi propose di girare il Carosello dell’Algida: 1 milione e mezzo di lire l’offerta.

(...) 

Con Pieraccioni ha recitato in quattro film?

Leonardo l’ho conosciuto insieme al povero Francesco Nuti e a Giovanni (Veronesi): un giorno vado in Rai per portare gli inviti alla festa dei miei cinquant’anni. Ci vediamo. E Giovanni: ‘Che, non dai l’invito a Leonardo?’. ‘Va bene’. E rivolto a Pieraccioni: ‘Leona’, dai il tuo numero a Marozzi, perché se non stai sulla sua agenda non diventerai mai nessuno’. Al mio compleanno c’era il mondo, ero io il meno famoso tra i presenti (si distrae, si alza, prende una foto).

Chi è?

Pamela Curson, la moglie di Jim Morrison. Che donna. Che serata. 

Pure lei?

Mi aveva regalato un suo disegno, ora ho solo la fotocopia. 

E l’originale?

Venduto, insieme al bracciale originale di Morrison.

Si è sbarazzato di tutto...

Non ho più un cazzo, mi è rimasta solo la chiavetta del rullante di Keith Moon, però ho con me ricordi fantastici, (ride) pure intimi.

In che senso?

Sa quante punture ho fatto? 

Punture di cosa?

Ricostituenti! (Ricominciamo con l’elenco)

A Ferruccio Amendola, Loredana Berté, Fiorello, Alberto Sordi...

Ha toccato il culo di Sordi.

Certo, quando l’ho portato ospite da Baudo; ma ho una tecnica pazzesca (mima la tecnica). Alberto stupito: ‘È la più bella puntura della mia vita’.

Ma i soldi...

Ho pure vinto 50 milioni al Casinò di Sanremo. 

A cosa?

Alle slot. 

Impiegati, come?

Non impiegati, sputtanati. 

Ha qualcosa da parte?

Niente. 

Chi è lei?

Uno che si è divertito tanto. 

L'ipocrisia delle donne. Costretta ad abortire, cioè uccidere il proprio figlio? Cose di donne all'antica?

Verissimo, il dramma di Romina Carrisi: "Costretta ad abortire". Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023

Momenti emozionanti a Verissimo. Ospite nella puntata di sabato 7 ottobre su Canale 5 Romina Carrisi. La figlia di Al Bano ha confessato a Silvia Toffanin di essere in dolce attesa. "Sono incinta di cinque mesi e mezzo – ha raccontato la 36enne -. Mi sono reclusa in masseria quest’estate perché non volevo renderlo pubblico troppo presto, il termine della gravidanza lo ho il 14 gennaio".

La scoperta è arrivata mentre si trovava in Croazia dalla sorella Cristel: "Mi sentivo sempre stanca, avevo sempre sonno. Vado in Croazia, ho un ritardo, mia sorella mi porta subito a fare il test: risultato positivo. Ho chiamato subito Stefano che era in Bangladesh a lavorare ed è scoppiato di gioia. Con Stefano stiamo insieme da un anno e mezzo, abbiamo iniziato a convivere dopo soli 5 mesi".

Inutile dire che a gioire sono stati anche i genitori: il cantante di Cellino San Marco e Romina Power. Addirittura - ha aggiunto - "mamma usa il pendolo per capire il sesso del bimbo, mi ha detto che prima avrò una bimba e poi un maschietto. Comunque è super entusiasta. Papà quando glielo ho detto ha fatto un’esclamazione in pugliese che non si può ripetere. Gli ho detto: 'Non sei contento?'. Risposta sua: 'Tu devi essere contenta'. Però sì, è entusiasta".

Per Romina non è però la prima gravidanza: "Mi è capitato di abortire perché non volevo essere madre single. Mi sono trovata costretta a dover abortire perché da questo punto di vista sono all’antica e penso che un bimbo debba avere un padre e una madre. Una donna deve poter fare ciò che vuole con il suo corpo. Se hai un bimbo credo che devi avere gli strumenti giusti per crescerlo, io non li avevo all’epoca", ha ammesso stupendo e commuovendo la conduttrice.

La surreale battaglia legale tra Al Bano e Michael Jackson. Lo scontro in tribunale tra Al Bano e Michael Jackson durerà nove anni, con l'americano chiamato a difendersi dal plagio di "I cigni di Balaka" del cantante di Cellino San Marco. Tommaso Giacomelli il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 "Will you be there" è la copia di "I cigni di Balaka"

 Al Bano porta in tribunale Michael Jackson

 La conclusione della vicenda

Da una parte abbiamo il "Re del pop", Michael Jackson, un'icona vivente e una star capace di frantumare qualunque record nel campo musicale. Dall'altra abbiamo il granitico Al Bano che, in coppia con la moglie Romina Power, si è ritagliato lo status di colonna portante della musica leggera italiana. Due mondi lontani, non solo geograficamente, eppure così vicini da scontrarsi persino in un'aula di tribunale. Il pomo della discordia? Un presunto plagio ai danni del cantante di Cellino San Marco, che si è visto soffiare da sotto il naso la melodia di "I cigni di Balaka" da MJ. Sembra paradossale, eppure per ben nove anni la battaglia legale ha tenuto banco colpo su colpo.

"Will you be there" è la copia di "I cigni di Balaka"

Nel 1987, Al Bano compone insieme Willy Molco, già direttore del Corriere della Sera, la canzone "I cigni di Balaka" incisa nell'album "Libertà" con Romina Power. Passano quattro anni e arriviamo al 1991, quando Michael Jackson all'apice della sua carriera artistica lancia sul mercato il suo nuovo album, "Dangerous", pronto a scalare le classifiche di tutto il globo per issarsi sulla vetta, come spesso gli è capitato con i sette capolavori precedenti. Uno dei singoli contenuti in questo disco si chiama "Will you be there" e, per l'orecchio del figlio di Al Bano, questo brano è uguale a quello proposto dai genitori sul finire degli anni Ottanta. Appena il cantante pugliese riesce ad ascoltare la performance di Michael Jackson, dà mandato ai suoi avvocati, Gianni Massaro e Francesco Caroleo Grimaldi, di presentare alla sezione civile del Tribunale di Roma un esposto per plagio.

Al Bano porta in tribunale Michael Jackson 

Dopo aver interpellato personalità del calibro di Ennio Morricone, Luciano Chailly e Nicola Piovani, il pretore dirigente Domenico Bonaccorsi decide di accogliere il ricorso di Al Bano e fa ritirare l'album "Dangerous" dagli scaffali d'Italia. Al di là delle evidenti differenze di testo e di lingua, la melodia dei due brani è praticamente identica, con ben 37 note combacianti. È il 1994 e Al Bano ottiene il primo successo, ma non finisce qui. L'artista italiano vorrebbe un risarcimento di 14 miliardi di lire dal "King of Pop" che, nel frattempo, ignora quasi del tutto la vicenda. Questo almeno fino al 1997, anno in cui Michael Jackson fa tappa in Italia per esibirsi a Milano nel suo "HIStory World Tour". Prima del concerto nella città meneghina, la star americana decide di presentarsi a Roma per per rispondere alle domande dei magistrati ed esporre la sua versione dei fatti. L'autore di "Thriller" sostiene di non aver mai ascoltato "I cigni di Balaka" del maestro Carrisi, mentre i suoi legali affermano che se un plagio vi è stato, questo è ai danni di Eddie Lane e Don Baker, autori di "Bless you for being an angel”, un brano blues degli anni '30. A quel punto la Sony, detentrice dei diritti d'autore della canzone di sessant'anni prima, cita in giudizio sia MJ che Al Bano.

La conclusione della vicenda

Dunque, lo scontro tra i due mondi finisce in pareggio, perché entrambe le canzoni risultano prive di originalità. Al Bano è costretto a risarciare le spese legali sostenute dalla Sony, mentre a Michael Jackson vengono addebitate quelle processuali. Dangerous ritorna in commercio in Italia con la melodia incriminata e, nel 2001, il tutto si conclude con l'assoluzione completa della pop star perché "il fatto non sussiste". I due protagonisti di questa vicenda si sarebbero dovuti successivamente esibire in un concerto insieme, ma le arci note vicende in cui sarebbe incappato la celebrità statunitense avrebbero interrotto sul nascere la collaborazione. Un autentico peccato.

Estratto dell'articolo di Massimo Balsamo per “il Giornale” l'1 agosto 2023. 

Non si placa il dibattito su trapper e autotune. Il nuovo capitolo dello scontro ha coinvolto uno dei cantautori più amati d’Italia, Samuele Bersani. «Mi hanno girato un video dove a uno di questi semidei contemporanei della rima “cantata” si stacca l’autotune per qualche secondo sul palco, ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera», il suo j’accuse senza fare nomi e cognomi. Ma in molti hanno letto un riferimento a Sfera Ebbasta […] 

Chi non ha bisogno di aiutini è Al Bano Carrisi, che a 80 anni continua a fare emozionare tutti con la sua potenza vocale. L’artista di Cellino San Marco non ha dubbi: «La “compu-music” è la fine della musica».

Al Bano, che idea si è fatto della polemica su trapper e autotune?

«Pensandoci bene, c’è sempre una polemica sul nuovo. È così da sempre e sarà così per sempre. È così dai tempi di Wagner e di Verdi o più recentemente dai tempi dei grandi cantanti come Claudio Villa, quando c’erano quelli che criticavano gli urlatori. E poi hanno criticato gli artisti venuti dopo e le nuove forme di musica. C’è sempre una critica, ma bisogna anche capire che la musica non è nient’altro che lo specchio del tempo che viviamo. E dobbiamo saperlo accettare in un modo o nell’altro». 

Se c’è un blackout al suo concerto, lei continua a cantare senza grossi problemi. I trapper invece no: per loro è una tragedia, non possono fare più niente.

«Io sono un cantante di voce. Loro sono cantanti di computer. C’è una grossa differenza, la dimensione è diversa».

E cosa ne pensa di quella dimensione?

«Io penso che la musica purtroppo sia finita. Oggi infatti c’è la “compu-music”, ovvero la musica dei computer […] C’è anche da dire che molti critici dei cosiddetti cantanti urlatori li criticavano per aver ucciso la musica. Ma in realtà sono arrivati e sono passati. Ma c’è anche un ricordo mio personale, di quando incisi Nel sole. Alcune persone mi puntavano il dito contro: “Tu con questo tipo di musica non farai niente”. Poi quella canzone ha venduto 1 milione e 600 mila copie». 

La moda dell’autotune è sbarcata anche al Festival di Sanremo: ormai fa notizia se un artista non lo utilizza.

«Il tempo è quello e non si cambia: vince la moda del periodo. Quanto dureranno non lo sanno neanche loro. Ormai basta un computer... La vera musica è a riposo, ma c’è una tradizione antica che rimane viva». 

Negli ultimi giorni è diventato virale un video in cui lei si arrampica ad un traliccio durante un concerto, altro che trapper...

«Mi ha stupito l’improvvisa viralità, a dire il vero: sono sessant’anni che salgo sui tralicci (ride, ndr). Provo una gioia immensa: quando sei sul palco e canti, vai verso il pubblico e lo vedi, capisci se canta, ride o scherza. Quando sali sul traliccio c’è una sola direzione: mi sento un drone umano. Ma lo faccio da sempre, solo che ha fatto l’exploit solo adesso».

[…] 

Tornando un attimo al Festival, si parla di un suo ritorno all’Ariston...

«Io non vedo l’ora. Lo dichiaro da sempre, io ho una malattia che si chiama “sanremite acuta”. Ho frequentato tanti grandi teatri, ma l’Ariston è l’Ariston». 

[…] «[…] Io amo la cultura religiosa, perché è dimostrato che la nostra religione offre la cultura vincente. La politica è caduta, il regno della Chiesa no. E sia chiaro che non è che il regno della Chiesa sia la perfezione, anche lì esistono persone che guardano alla convenienza».

Citando la politica, cosa ne pensa dell’azione di governo di Meloni? Lei in passato ci ha messo la faccia e si era detto fiducioso del primo ministro.

«Giorgia Meloni è straordinaria, è veramente straordinaria.

Fa quello che vuole, lo fa come vuole, sa quello che deve dire e sa come difendersi. Io le auguro un lungo governo e di riuscire ad annullare queste divisioni politiche: l’Italia è una e tutti dovremmo comportarci come i figli nei confronti di una mamma». 

Lei ha elogiato anche il presidente Berlusconi, ricordando la sua generosità e sottolineando che tante persone lo rivaluteranno.

«Sì, molti con il tempo lo rivaluteranno, davvero. Silvio Berlusconi per me è stato il novello Re Mida».

Dagospia giovedì 27 luglio 2023. Da rockol.it - articolo del 10 marzo 1999 

Scrive "La Repubblica": «Un invito alla riconciliazione tra Al Bano e Romina Power arriva da "Famiglia cristiana". La rivista si augura che avvenga un ripensamento: "Al Bano e Romina si sono, per ora, dichiarati vinti. Speriamo non per sempre. Dalle crisi l'amore può uscire più forte".

E sul sito "Italy global nation" (adnkronos.com) un servizio con foto, illustrerebbe come alla Power sarebbe vicino Alain Elkann, ex marito di Margherita Agnelli e padre di Jaki». Intervistato dal "Messaggero", Elkann nega tutto e parla di una grande amicizia, prima di dichiarare che «Quanto accade nella mia vita privata sono solo fatti miei».

L'addio a Berlusconi, il ricordo di Al Bano: «Ho perso un amico». Il cantante tornato per qualche giorno nel suo buon retiro delle Tenute di Cellino, parla della scomparsa di Silvio Berlusconi cercando di nascondere il nodo in gola. VINCENZO SPARVIERO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Giugno 2023

«Eh sì, ho perso un amico. Un carissimo amico». Al Bano, tornato per qualche giorno nel suo buon retiro delle Tenute di Cellino, parla della scomparsa di Silvio Berlusconi cercando di nascondere il nodo in gola.

«Ha dimostrato di essere il grande uomo che è stato nel momento peggiore della mia vita - racconta il cantante -. Una vicinanza che in quei giorni terribili mi è stata di grande conforto».

Il periodo è quello della scomparsa della figlia Ylenia: quando Al Bano e Romina facevano la spola tra l’Italia e gli Stati Uniti alla ricerca di tracce dell’amata primogenita.

«Ogni giorno una telefonata o un telegramma: ogni giorno, quasi fosse uno di famiglia», ricorda al Bano.

Ma non soltanto una vicinanza affettiva. Berlusconi, per essere vicino ai coniugi Carrisi, fece qualcosa di più.

«Mise a disposizioni il suo aereo privato per alcuni dei miei spostamenti, in modo da accelerare i tempi - ricorda Al Bano -: non potrò mai dimenticare questo gesto di grande generosità nei nostri confronti in un momento di disperazione e dolore».

Era il 1994, ma l’amicizia con il patron di Canale 5 era cominciata molto prima, ovviamente per motivi di carattere professionale. Berlusconi teneva molto alla coppia per antonomasia della canzone italiana.

«Siamo stati ospiti delle sue Tv a più riprese - spiega Al Bano -. E lui era sempre presente».

Poi, una punta di polemica. «Gliene hanno fatte di cotte e di crude - dice il cantante - ma lui è uscito sempre vincitore, perché era un vincente. In Italia e anche nel mondo ha cambiato il modo di fare politica, rendendola più umana, più vicina alla gente. Lui, nel privato era come appariva in tv: generoso e cordiale con tutti, non solo con noi artisti. So per certo che è stato generoso con tanta gente sconosciuta. Eppoi, nelle sue aziende ha dato lavoro a migliaia di persone, senza mai licenziare qualcuno. Con le sue tv, dopo il monopolio Rai, ha contribuito a far crescere tante altre aziende italiane che potevano contare sulla pubblicità trasmessa dalle sue reti».

«Un’umanità a prova di bomba quella del cavaliere - conclude -. Mancherà a me, mancherà di certo anche agli italiani».

Al Bano, "cosa mi ha rubato la droga". Parole pesantissime su Romina. Daniele Priori su Libero Quotidiano il 23 maggio 2023

Il telefono continua a squillare. È il grande giorno. Quello degli 80 anni di Al Bano Carrisi. Proprio sabato, quando abbiamo incontrato il grande cantante e interprete alle prese con i suoi Quattro volte 20 che è poi anche il titolo del one man show andato in scena all’Arena di Verona. Canale 5 trasmetterà l’evento nella prima serata di domani. Sul palco col festeggiato una carrellata di ospiti, amici, colleghi: Gianni Morandi, Umberto Tozzi, I Ricchi e Poveri, Arisa, Iva Zanicchi e Renato Zero e ovviamente Romina Power.

Maestro, Quattro volte 20 significa che si sente un eterno ventenne? 

«Non un eterno ventenne ma un quattro volte eterno ventenne! Con tutti gli acciacchi, le gioie, le tempeste e la calma che arrivano. In una parola: la vita».

Il suo nome è il tributo che suo padre ha voluto riservare all’Albania da cui tornò salvo negli anni della guerra. Ha avuto altri contatti col Paese delle Aquile? 

«Gli albanesi mi hanno detto che io ho aperto le porte della democrazia nel loro Paese. Per questo mi hanno fatto albanese, con tanto di passaporto. Un’azione inaspettata che ho accettato come gesto di grande umanità».

Nella tenuta che ha creato negli anni a Cellino San Marco, suo paese natio, ritrova tutti i mondi che ha conosciuto oppure rivive per lo più il mondo antico di suo padre? 

«Analizzare un albero, capirne bene il processo ti farà capire chi sei tu. Come un albero che si muove che però se non avesse una radice sana non avrebbe potuto vivere una vita sana».

Milano la città in cui è approdato per inseguire quello che già allora era un mito: Adriano Celentano... 

«Devo tutto a Milano. È la città che mi ha insegnato ad essere quello che sono. Inseguivo il mito di Modugno. Celentano in un secondo momento è stato il mio datore di lavoro».

L’ha invitato all’Arena per la sua festa? 

«Ve ne accorgerete martedì sera. Non anticipo nulla ma vi dico che sarà interessante».

A Milano ha anche molti ricordi giovanili di altro tipo. Le difficoltà coi lavori nei ristoranti... 

«Non le chiamerei difficoltà. È stato il mio viaggio. Ho fatto tutto ciò che ho ritenuto fosse possibile e positivo da fare. Ero un ragazzo solo con gli affetti a 1100 chilometri da Milano ma non mi sono mai arreso perché quella era l’ideologia di mio padre: non arrendersi mai».

Milano è anche la città di Berlusconi, l’ha sentito ultimamente, prima del ricovero? 

«Mi sono interessato a come sta, restando però leggero come una piuma di colomba. Sono sempre vicino a lui col pensiero. Ha fatto per me delle cose che nessun altro ha mai fatto. Lui e Sophia Loren sono stati speciali. L’ho constatato nel momento del bisogno, quando stavo vivendo la tragedia di mia figlia. Sono stati gli unici due che si sono preoccupati di un loro connazionale a New Orleans, facendomi sentire la presenza costante. In quei tempi sono stati l’unica nota positiva per me. Come si possono dimenticare gesti di una umanità tale?».

Suo padre le ha sempre consigliato di stare lontano dalla politica. Ma la politica riesce a stare vicino agli italiani? 

«Lasciamo la risposta agli italiani... Non è diplomazia la mia. Abbiamo la fortuna di vivere in questo Paese. Purtroppo secondo me c’è sempre stata una politica disordinata che litigando su tutto continua a dare l’esempio sbagliato. Possibile che non si possa essere fratelli o figli dell’unica madre chiamata Italia? Un’Italia che va aiutata. Con tutte le tragedie naturali che accadono... Dal Polesine a oggi succedono le stesse cose ed è sintomatico».

L’avvocata Bernardini De Pace ha definito il suo divorzio con Romina il più «sanguinoso». Userebbe lo stesso aggettivo? 

«Che si calmi sennò non la chiamerò mai più De Pace ma De Guerra. Se sanguinoso è stato, una bella impostazione l’ha data lei. Prendiamoci le responsabilità. Chi è stato il generale di questa armata? Non voglio entrare in polemica. Solo mi difendo da battute che reputo infelici».

La storia di Romina che si faceva troppe canne l’ha tirata fuori giusto per festeggiare con più brio i suoi 80? 

«Non è una cosa che ho detto contro Romina ma contro la marijuana che mi ha rubato due meravigliosi mondi: quello di mia figlia e della mia famiglia. Io sono contro la droga perché fa male alla società oltre che al singolo. Contro la droga mi batterò finché avrò fiato in gola».

Romina ha capito secondo lei il senso di questa sua rivelazione? 

«Non lo so se l’ha capita. Forse gliela dovrò spiegare meglio...».

Coi suoi figli più giovani, Bido e Jasmine, parla della sorella Ylenia? 

«Non ne parlo ma penso che ne sappiano più di quanto ne so io. Se dovessero affrontare il tema, certo lo affronterei».

Lei ha due famiglie ormai da molto tempo. La definirebbe una “famiglia allargata”? 

«L’altra sera ero di fronte a un’altra famiglia di 10mila persone. La mia famiglia va dai miei figli, dalle donne che me li hanno dati a chi mi ascolta con attenzione e amore o anche muovendo qualche critica».

Lei è un uomo di fede. È vero che È la mia vita a Sanremo è stata censurata perché nel testo c’era la parola “bestemmiare”? 

«È una balla enorme. Che io sia contro le bestemmie è una grande verità. Quel testo non l’ho scritto io ma le garantisco che non c’è mai stata la parola bestemmiare».

C’è una figura religiosa che nei giorni della disperazione per la scomparsa di sua figlia l’ha aiutata più di altri, offrendole la parola che le ha fatto davvero ritrovare la fede?

«Ho avuto la fortuna di conoscere don Luigi Verzé. La risposta sta in tutto quello che ha lasciato per gli altri. Dall’università all’ospedale di avanguardia che ha creato. Nella preoccupazione che ha avuto sempre per seguire il popolo di Dio. Nei suoi ultimi anni un po’ strani mi disse che se il suo datore di lavoro aveva voluto così, avrebbe sopportato anche la croce su cui lo stavano inchiodando. Però si chiedeva pure come lui avrebbe potuto rubare a se stesso. Parole che non dimenticherò mai».

Lei ha conosciuto Putin che le disse di essere un suo fan...

«Era il 1986, lui era il capo del Kgb. Ci trovavamo a Leningrado. Poi ho cantato per lui in numerose altre occasioni: quando fu eletto presidente e fino a 5 anni fa a Budapest, dove c’era anche Orban. Putin era il più occidentale dei russi. Amava l’Italia. Lui ha deciso di difendere la sua territorialità ma in maniera sbagliata, perché la guerra non andava scatenata».

Se oggi potesse che cosa gli direbbe?

«Che nella vita si può anche sbagliare. Non dico di ammettere l’errore, ma una buona intenzione per terminare questa squallida e tragica guerra ci vorrebbe».

Estratto dell'articolo di Francesca D’Angelo per lastampa.it il 28 maggio 2023.

All’indomani dei festeggiamenti per gli 80 anni di Al Bano, la chiacchierata con Romina Power non poteva che iniziare da qui: dal suo rapporto con l’ex marito e dall’(ormai celebre) intervista rilasciata da Al Bano al settimanale Oggi. Finora la cantante aveva replicato alle polemiche con la risposta forse più eloquente, ossia il silenzio, negando qualsiasi intervista. Adesso però Romina Power accetta di raccontarsi in esclusiva e lo fa con l’eleganza di chi preferisce guardare avanti. 

Al Bano ha usato parole molto forti sostenendo che la vostra storia non sarebbe finita per via della scomparsa di sua figlia. È così?

«Le relazioni durano quando tutti e due si è impegnati nella crescita insieme. È importante che esista il dialogo e la comprensione, ma soprattutto che ci si ascolti a vicenda. In America diciamo: “Happy wife, happy life”, ossia “moglie felice, vita felice”. Come la terra ci insegna, un seme, per quanto prezioso, non può essere lasciato alla mercé delle intemperie ma ha bisogno di protezione all’inizio e poi cura e attenzione costante. Ha bisogno di calore e di sentirsi nutrito». 

Nonostante le recenti dichiarazioni di Albano, continuerete a esibirvi insieme?

«Serbare rancore non fa altro che danneggiare entrambe le parti coinvolte, quindi impariamo dagli errori commessi e andiamo avanti con comprensione piuttosto che con rabbia o risentimento reciproco. Abbiamo delle tournée in programma e il canto che offriamo insieme suscita gioia in tante persone: vorremmo continuare, a Dio piacendo, a donare momenti di bellezza e felicità».

Nella sua lunga carriera lei è stata, ed è, molte cose insieme: cantante, attrice, conduttrice tv, attivista, pittrice, scrittrice. Quale di queste anime sente più sua?

«Le sento un po’ tutte. Ma vorrei spendere più tempo scrivendo e dipingendo, oltre che a coltivare il mio giardino».

(...)

Al Bano e i suoi 80 anni: Felicità nel sole del Sud. Gli auguri di Emiliano: «Il tuo sorriso che sa di felicità». Il Leone di Cellino San Marco compie oggi 80 anni, lo speciale Gazzetta del Mezzogiorno dedicato ad Al Bano Carrisi e ai suoi successi. OSCAR IARUSSI su La Gazzsetta del Mezzogiorno il 20 Maggio 2023

Prima metà degli anni Ottanta, Roma, piazza Esedra - come ancora la chiamavano i più invece di piazza della Repubblica.

Un tardo pomeriggio di quell’età che oggi può apparire aurea, per la gioventù, forse, non ancora gravata dall’«insostenibile leggerezza dell’essere» che grazie a Milan Kundera, a Renzo Arbore e a Roberto D’Agostino si affacciava a mo’ di marchio di una lunga stagione a venire. Sui gradini che dal portico di fine ‘800 conducono sul selciato della antica piazza, un uomo di quarant’anni e una donna più giovane si tengono per mano e si guardano negli occhi, sorridono e semplicemente si amano, perdutamente si amano. Lui non ricordiamo, ma lei aveva un completino niveo, jeans attillati e giubbottino bianchi. Un’epifania di candore e gioia, anzi di «Felicità» (1982).

Sono trascorsi i decenni e un mondo intero da allora, Albano Carrisi e Romina Power si sono divisi nel 1999 dopo il dolore immenso e assurdo della scomparsa della figlia Ylenia Maria Sole a New Orleans, cinque anni prima. «Nel sole» della Puglia, della sua Cellino San Marco dove fu battezzato il 20 maggio 1943 nel segno/sogno del ritorno del papà dalla guerra in Albania, il Nostro ha vissuto anche stagioni in penombra o scure di tormenti. Poi, però, la rinascita: «Per amare devi andare / verso il sole che c’è in te. / Sempre in libertà. / Sempre in libertà». E ieri ha chiosato in un’intervista alla radio: «Tutto quello che ho vissuto è stato perfetto, anche nelle sue imperfezioni».

Non diremo di nuovo della sua voce prodigiosa che ha incantato il pubblico tv dall’Arena di Verona, dopo aver commosso pochi mesi fa la platea di Sanremo con «È la mia vita» e altri successi. Né parleremo della generosità di Albano, che per il Sud e per le buone battaglie c’è ogni volta, pronto a spendersi senza chiedere alcunché in cambio. Lo abbiamo incontrato in altre occasioni, ha ormai da tempo una seconda famiglia e, per parafrasare Gabriel García Márquez, è un patriarca senza autunno.

Al Bano (staccato il nome d’arte) è amato in tutto il mondo, al punto che può permettersi di «bacchettare» il nuovo zar di Mosca che ha conosciuto di persona: «Io non approvo ciò che ha fatto Putin, chi lo approverebbe? Invadere l’Ucraina mi ha dato fastidio, e non solo a me. Sono violazioni. Putin, la sera vai a dormire?».

Ma quell’immagine quasi archetipica dell’eterno ragazzo pugliese che prende per mano l’ex hippy californiana, la figlia dei divi Tyrone Power e Linda Christian, beh, rimane un formidabile simbolo dell’amore che non è bello se... non è musicarello. Un’icona della forza irresistibile della natura e dell’umano che per Albano coincidono, è tutto lì. Auguri, giovane maestro.

Estratto dell'articolo di leggo.it il 20 maggio 2023.

[…] In una lunga intervista a Vanity Fair, Al Bano Carrisi si racconta in questi suoi 80 anni vissuti alla grande. E la prima domanda non può non essere su Romina Power e le ultime dichiarazioni rilasciate sulla marijuana che la rendevano irriconoscibile.

Il neo 80enne annuncia che ci sarà pure lei sul palco e che, ogni volta, è bellissimo. Per quanto riguarda le controversie... «in qualche modo, le abbiamo superate», racconta.  

Ma Al Bano cosa si aspetta come regalo? Un cantante che nella sua vita ha avuto e ha tutto, cosa avrebbe il piacere di ricevere? «Un messaggio di Putin con scritto: “Caro Al Bano, la guerra è finita. Tanti auguri”». […]

Il suo sogno più grande si è già realizzato: una nuova cantina vinicola, la terza di sua proprietà. Ma l'obiettivo è in grande: «Ora voglio passare a produrre da un milione e 600 mila bottiglie l’anno a cinque milioni». […]

Nei suoi sogni da poter realizzare potrebbe esserci anche quello di Sanremo 2024... «Sono affetto di sanremite acuta», dice e ha un conto aperto con il Festival. «Sono stato cacciato come un cane rognoso, un'offesa su cui non posso passare sopra»

Il sesso con la Lecciso 

Tra lui e Loredana Lecciso la passione è ancora accesa. «Il sesso è come il cibo: quando ne hai bisogno, devi nutrirti», dichiara Al Bano, facendo intendere che - nonostante l'età - sotto le coperte ci sia ancora molta attività con la moglie. E poi ammette di essere un compagno di vita ideale. Reputa la donna l'essenza della vita e, per questo, l'ha sempre messa su un piedistallo. 

E se dovesse scegliere un giorno preciso da rivivere in questi suoi 80 anni, lui risponde così: «Nessuno, per non fare dispetto a tutti gli altri di un’esistenza senza rimpianti».

Estratto dell’articolo di Arianna Puricella per repubblica.it il 20 maggio 2023. 

"Non sono 80 anni, sono quattro volte 20". Al Bano interviene in diretta in uno show radiofonico per ricevere gli auguri per il suo compleanno, e confessa di essere senza voce: colpa delle prove e poi del concerto che ha tenuto il 18 maggio all'Arena di Verona, organizzato proprio come una grande festa in suo onore.

Lo spettacolo andrà in onda il 23 maggio su Canale 5, e sul palco a celebrare Al Bano sono arrivati tanti colleghi, che con lui hanno condiviso musica per decenni e che hanno lasciato un segno profondo nella cultura italiana: Ricchi e Poveri, Renato Zero, Umberto Tozzi, Iva Zanicchi, Arisa. Soprattutto, Al Bano ha voluto accanto a sé la sua grande famiglia, i figli - Romina jr. e Cristel, Yari, Jasmine e Albano jr. - e Romina Power. […]

Dall'estero sono stati in tanti a mettersi in viaggio per il concerto dell'Arena di Verona del 18 maggio, oltre ai fan club sparsi per l'Italia che si sono dati appuntamento lì. "Al Bano ti amo", si legge sulla maglietta di una donna, mentre una coppia tedesca si è ritratta seduta in platea, e su Instagram ha scritto: "Al Bano, Der Meister der Felicità", il maestro della Felicità.

Gli 80 anni di successi di Al Bano: «Mi chiamavano terrone». Il Leone di Cellino San Marco si racconta in un'intervista a tutto tondo per la Gazzetta. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Maggio 2023

Ottanta... voglia di vivere. Per lui, meglio dire… “quattro volte venti”. E ai suoi vent’anni, anno più anno meno, è rimasto legato nello spirito e – soprattutto - nella voce. Al Bano, all’anagrafe Albano Carrisi da Cellino San Marco, ha festeggiato i suoi primi 80 anni portando all’arena di Verona gli amici e colleghi da sempre: da Gianni Morandi a Massimo Ranieri, passando per Renato Zero e i Ricchi e Poveri, Umberto Tozzi e Iva Zanicchi e Arisa. Non sono mancati Romina e i suoi figli nel mega show, che sarà trasmesso da Canale 5.

Ma è vero che il successo di Al Bano è legato al suo nome, oltre alla voce?

«Diciamo che è in qualche legato alla profezia di mio padre, don Carmelo. Fui concepito durante una licenza, prima che lui tornasse al fronte, in Al- bania. Con qualche stratagemma, tanta fortuna e l’aiuto degli albanesi riuscì a tornare in paese ma prima scrisse a mia madre che un eventuale figlio maschio dovevano chiamarlo Albano, perché quel popolo al di là del mare lo aveva salvato. “Vedrai - scrisse alla mamma - quel bambino sarà la no- stra fortuna”. Poi, il ritorno a Cellino dopo il sogno premonitore della mamma, che aveva sognato il patrono San Marco che gli annunciava il ritorno di mio padre nel giorno della sua festa. Così fu. E fu festa anche per me, che grazie a lui scoprii per la prima volta il cioccolato degli americani e apprezzai tanto i suoi regali: un clarinetto e una piccola fisarmonica».

Due strumenti musicali, un segno del destino?

«Un segno del destino anche il fatto che il mio idolo Mimmo Modugno abitasse a pochi chilometri da me. Il suo esempio mi ha spinto ad andare a Milano, anche se a lui i frati di un convento gli aprirono le porte, quando arrivò squattrinato dal- la Puglia. A me, invece, le… chiusero in faccia. Ero partito per Milano con la classica valigia di carto- ne: dentro qualche indumento, una bottiglia d’olio, qualche frisa e tante speranze».

A Cellino aveva lasciato anche una fidanzatina?

«Non proprio, nel senso che mi ero in qualche modo innamorato di una ragazza che studiava con me, al Magistrale gestito dalle suore, a San Dona- ci. Si chiamava Fiorella, ma con lei neanche un ba- cio. Quando dovevo comprare la prima chitarra le chiesi mille lire in prestito e con grande sorpresa lei me le fece avere. Poi le ho battezzato il figlio»...

Anticipazione da “Oggi” il 18 maggio 2023.

Albano Carrisi, 80 anni il 20 maggio, ripercorre in un’intervista a OGGI, in edicola da domani, la sua vita e la sua carriera. Sollecitato dalla cover del marzo 1999 con l’annuncio in esclusiva della separazione da Romina Power, rivela: «Lo dico per la prima volta: il problema fu la marijuana. Romina fumava quella robaccia anche quattro volte al giorno. 

E lo faceva da anni, ancor prima della scomparsa di Ylenia. Era un’altra donna. Fumava ed era allegra; finito l’effetto, si intristiva e piangeva. Era irriconoscibile. Non esprimeva più quell’attaccamento alle cose, la passione per la vita, per quello che avevamo vissuto e costruito quegli anni. Fu l’inizio della fine». 

Ma Al Bano parla anche dell’inizio del loro legame, nel 1969. «Nessuno sapeva di noi, ma Cannes pullulava di paparazzi. Finire su Oggi, ora lo ammetto, mi fece piacere. Era un modo autorevole per ufficializzare la nostra storia». 

E aggiunge sulla giovanissima attrice, figlia di due star, Tyrone Power e Linda Christian: «E chi li conosceva? La mia ignoranza è stata il mio salvagente, se no mai sarei andato a cercare una così. Tra l’altro il suocero non c’era più, ma la suocera mi osteggiava. Le sue indicazioni, e questo lo avrei scoperto anni dopo, erano precise: sfruttalo, spremilo per bene e poi mandalo a quel paese».

Nella lunga intervista, Al Bano parla anche di Loredana Lecciso: «Non finirò mai di ringraziarla perché quando Romina se ne andò portò via anche i ragazzi e qui non c’era più nessuno. Loredana mi ha dato due figli meravigliosi, qui è tornata la vita, la casa si è riempita di bambini, di casino, come deve essere una casa. Poi però ha fatto scelte che non ho condiviso per niente».

«Non ho ottant’anni ma quattro volte venti… mi sento un ulivo che cammina, che vola», dice, e il futuro lo immagina così: «Identico al passato. Rimango sempre un buon contadino, continuerò a cantare e continuerò a mettere quello che guadagno, qui, nei miei 150 ettari di terra. Continuerò a produrre olio e nella cantina che sto costruendo passerò da un milione e 600 mila bottiglie di vino a 5 milioni».

Al Bano, 80 anni all'Arena di Verona: «Il regalo che spero? La fine della guerra». Francesco Verni su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2023

Il concerto atteso nell'anfiteatro romano: tra gli ospiti Romina, Morandi e Renato Zero. 

Felicità, Nel sole, Sharazan, Mattino, Ci sarà, È la mia vita, Nostalgia canaglia. Hit disseminate in una carriera lunga sessant’anni da parte di Al Bano, nome d’arte di Albano Carrisi, icona della musica italiana che oggi, giovedì 18 maggio, sarà all’Arena di Verona per l’evento «4 volte 20» che celebrerà il suo 80esimo compleanno. Il concerto, che sarà trasmesso il 23 maggio in prima serata su Canale 5, vedrà sul palco anche Gianni Morandi, I Ricchi e Poveri, Umberto Tozzi, Arisa, Iva Zanicchi e Renato Zero, oltre a tutta la famiglia di Al Bano, incominciando da Romina Power.

Qual è il regalo che vorrebbe ricevere per il suo 80esimo compleanno?

«Il regalo me lo aspetto da Putin: la fine di questa guerra».

Festeggerà in Arena i suoi «4 volte 20». Il titolo scelto della serata evento è perché si sente ancora un ragazzo?

«Amo tutto ciò che non è retorico… e volevo divedere questi ottant’anni in quattro. È una cosa che trovo divertente».

Come mai ha scelto proprio l’Arena di Verona per questo compleanno?

«È diventata il luogo di incontro tra musica leggera e classica. È un binomio che funziona alla grande e lo si vede dall’entusiasmo del pubblico. In qualche maniera la programmazione areniana è un Sanremo estivo».

Quando pensa alla sua infinita carriera, qual è il primo ricordo che le viene in mente?

«Sono davvero tantissimi… e di ogni tipo. Il primo viaggio che ho fatto da Cellino San Marco a Milano, il disco fatto nel clan Celentano nel 1965, il primo grande successo del ’67, i viaggi intercontinentali, l’incontro con i giapponesi nel ’69. In una vita così piena, è impossibile sceglierne solo uno».

Quale è invece, se ne ha, il suo più grande rimpianto?

«La mia vita è stata, ed è, talmente intensa che non c’è mai stato spazio per i rimpianti. Tutto è andato meglio di quanto mi aspettassi ma alle volte è arrivato anche il peggio: è la vita che è fatta così».

A festeggiarla arriveranno molti amici. Come ha scelto i suoi ospiti?

«Ho chiamato solo gli amici. Solo Ranieri non può esserci perché sta registrando lo show per la Rai. Tutti gli altri hanno detto tutti di sì: sarà fantastico».

Nell’infinità di hit che ha cantato, ce ne è una che ha un posto d’onore nel suo cuore?

«Non ce ne è nessuna che non vorrei aver cantato, mi piacciono tutte. Ognuna è un passo che ho fatto nella mia carriera artistica. Non ne rinnego neppure una».

Un evento così potrebbe anche far pensare anche a un possibile ritiro…

«E che ho fatto di male (ride, Ndr)! Queste sono “quattro volte venti”, poi arriverà anche la quinta».

Dopo il live del 2015, ritroverà in Arena Romina Power. Che ricordi ha dello straordinario periodo artistico vissuto assieme?

«Ci ritroveremo sul palcoscenico dell’Arena tutti e due con qualche anno in più. Il nostro passato è semplicemente fantastico, apparteniamo alla storia. È stato un successo mondiale che non abbiamo spinto affinché diventasse tale: sono stati gli avvenimenti a portarci lì grazie a quelle fantastiche canzoni».

Come sarà ritrovarsi sul palco con Romina?

«Ci sono state tutte le traversie che si conoscono ma, in qualche modo, le abbiamo anche superate. Su un argomento (la scomparsa della figlia Ylenia, Ndr) lei la pensa in un modo e lo rispetto, io invece ho un’altra certezza. Bisogna vivere con questo continuo quotidiano dolore, ma bisogna fare in modo che non si espanda in tutta l’anima. Non deve vincere».

Guardando la classifica italiana, oggi è composta gran parte da artisti rap o trap. Ascolta questo genere di musica?

«Non chiamiamo il rap musica. Dai canti gregoriani arrivando a Puccini fino a Modugno la musica è stata scritta con le sette note, oggi si fa solo con il computer, ma non è musica, è un’idea musicale. Certo bisogna prendere coscienza che è la fotografia di questi tempi: è necessario tenerne conto».

Galeotta fu la marijuana. Al Bano e Romina Power, la marijuana ha messo fine al loro matrimonio: “Lei fumava troppe canne da anni, molto prima della scomparsa di Ylenia”. Redazione su Il Riformista il 18 Maggio 2023 

Galeotta fu la marijuana. Alla soglia dei suoi 80 anni, Al Bano svela alcuni retroscena sui motivi della sua separazione da Romina Power. Un matrimonio durato 29 lunghi anni e interrotto a causa del vizietto della Power.  Il problema, rivela Al Bano, fu la marijuana. Quella robaccia che Romina “fumava anche quattro volte al giorno e che la rese irriconoscibile”. 

Nell’intervista per il settimanale Oggi, Al Bano ha parlato del rapporto con Romina Power, sua ex moglie dopo il divorzio ufficializzato nel 2012. I due cantanti si sono separati nel ’99 e una delle cause furono gli spinelli. La rivelazione inedita: “Lo dico per la prima volta: il problema fu la marijuana. Romina fumava quella robaccia anche quattro volte al giorno. E lo faceva da anni, ancor prima della scomparsa di Ylenia. Era un’altra donna. Fumava ed era allegra. Finito l’effetto, si intristiva e piangeva. Era irriconoscibile. Non esprimeva più quell’attaccamento alle cose, la passione per la vita, per quello che avevamo vissuto e costruito quegli anni. Fu l’inizio della fine.”

Il cantante di Cellino San Marco ha parlato anche degli inizi della loro storia: si incontrarono per la prima volta nel 1967, sul set del film Nel sole. Nel ’69 iniziò la loro relazione: “Nessuno sapeva di noi, ma Cannes pullulava di paparazzi. Finire su Oggi, ora lo ammetto, mi fece piacere. Era un modo autorevole per ufficializzare la nostra storia”. Non conosceva la famiglia Power, prima di incontrare Romina: “La mia ignoranza è stata il mio salvagente, se no mai sarei andato a cercare una così. Tra l’altro il suocero non c’era più, ma la suocera mi osteggiava. Le sue indicazioni, e questo lo avrei scoperto anni dopo, erano precise: sfruttalo, spremilo per bene e poi mandalo a quel paese”.

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 5 maggio 2023.

«Menomale che lo hanno fermato, perché Al Bano aveva intenzioni belluine e con quel braccio agricolo di chi impugna la zappa mi avrebbe spaccato in due», racconta nel suo stile inconfondibile Roberto D’Agostino, temuto fustigatore di Dagospia, rievocando la rissa sfiorata con il cantante di Cellino San Marco (che nell’intervista a Aldo Cazzullo ha ricordato il “fattaccio”: «D’Agostino provai proprio a menarlo, lo aggredii davanti ai Ricchi e Poveri, allibiti»). 

Cosa era successo è presto detto. «C’è un antefatto. Nell’anno di grazia 1986, io e Renzo Arbore avevamo pubblicato “Il peggio di Novella 2000”, fantastico libro che raccontava il nostro Paese attraverso la storia di Al Bano e Romina Power, che ha riscritto la favola di Cenerentola al contrario, con il cafone del Sud che sposa la figlia del divo di Hollywood e poi la porta a vivere al paesello. E purtroppo scrissi anche che “Romina si chiama così perché è nata a Roma, ma dato il suo quoziente intellettivo doveva nascere a Creta”. Al Bano si arrabbiò e sobillato da lei, permalosissima, ci querelò, ma perse la causa. Renzo se ne dispiacque: “Ma come, un pugliese contro un altro pugliese?”.

Passò del tempo. A un Dopofestival di Sanremo — che allora era una corrida, una carneficina — commentando con ferocia la loro esibizione, osservai che “l’acuto di Al Bano più che un do di petto mi pare un do di stomaco”». 

Il classico carico da dodici. «Sono stato birichino», ammette il più caustico dei caustici. «Dietro le quinte mi venne a cercare. E alla presenza dei Ricchi e Poveri — detto così fa ridere, manco fossero stati il presidente della Repubblica — minacciò di picchiarmi. Che poi io gli voglio bene, abbiamo fatto pace, apprezzo quel suo essere un campagnolo di successo, orgoglioso della sua terra, che si fa fotografare in groppa al somarello con il fazzoletto al collo. Mi dispiace che se la sia presa, ma critiche e ironie fanno parte del gioco».

Al Bano non è stato né il primo né l’ultimo a prendersela con D’Agostino.

«Claudio Villa mi mise proprio le mani al collo, da vero coatto di Roma. E un ignoto, sempre al Dopofestival , mi buttò tutti i vestiti in piscina. Ho discusso con Loredana Bertè — la chiamavo Luridona — e con Donatella Rettore. Il più furioso? Lucio Presta. 

Un giorno si presentò a casa mia, inseguito dal portiere, con intenzioni poco amichevoli. Offeso perché avevo preso in giro il suo Paolo Bonolis. E quando, per stemperare, risposi: “Ma che mi vuoi davvero menare per una battuta su Banalis?”, s’imbufalì ancora di più».

Al Bano: «La scomparsa di Ylenia, il divorzio da Romina: volevo farla finita, poi sentii Dio vicino a me. Dicono che sono di destra, ma votavo Berlinguer». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2023. 

Al Bano compie 80 anni e si racconta: «Dopo la morte di Ylenia e la separazione da Romina il dolore è stato terribile», poi la tentazione del suicidio e la riscoperta di Dio. Gli inizi: «Emigrato a Milano ho lavorato anche alla Innocenti e per resistere alla catena di montaggio cantavo tutto il giorno». Botte e rimpianti: «Provai a menare D’Agostino davanti ai Ricchi e Poveri. Dovevo suonare con Michael Jackson, ma lui morì prima» 

Al Bano che nome è?

«Mio padre Carmelo era sul fronte albanese. Una granata centrò in pieno due suoi compagni e li spappolò. Lui si finse malato...».

Come fece?

«Surriscaldava una pietra, la metteva sotto l’ascella, la lasciava cadere, e gli trovavano il febbrone. Riusciva a sputare sangue, mai capito come. Così lo mandarono nelle retrovie. Gli albanesi gli aprivano le loro case, lo facevano dormire nella paglia, lo sfamavano con il granturco. Poi tornò a Cellino in licenza».

E cosa accadde?

«Fece la fuitina. E fui concepito io. Mia mamma Jolanda aveva appena diciotto anni. Un amore immenso. Papà dovette tornare al fronte. Era analfabeta, imparò a scrivere per scrivere a lei: gli altri le lettere le dettavano, ma papà non voleva affidare i suoi sentimenti a un estraneo. E mamma d’inverno dormiva senza coperte per provare lo stesso freddo che provava lui».

Cosa scriveva suo padre?

«Gli albanesi mi hanno salvato e se avremo una femminuccia la chiamerai Alba, se un maschietto Albano. Vedrai che sarà la nostra fortuna».

Però si scrive Al Bano, vero?

«Me lo staccarono quando entrai nel clan di Celentano. All’americana. E così è rimasto».

Suo padre fu fatto prigioniero dopo l’8 settembre.

«Come altri seicentomila soldati italiani preferì restare nei lager, a Wletzar, piuttosto che schierarsi con Hitler. Partì che era un omone; tornò che pesava 42 chili. Una volta mi accompagnò in tournée in Germania, nel camerino c’erano wurstel, formaggi, birra. Mi chiese: quanto ti costa tutta ’sta roba? Niente papà, è nel contratto. “E a me i tedeschi mi hanno pestato a sangue, con i calci dei fucili, per due scorze di patate che avevo raccolto!” (Al Bano sorride con gli occhi pieni di lacrime)».

Qual è il suo primo ricordo?

«Mio padre che torna a casa dalla prigionia. Mamma aveva avuto un sogno premonitore: san Marco, il patrono di Cellino, le disse che papà sarebbe tornato il giorno della sua festa. Domenica 29 luglio 1945, festa grande di San Marco, mio padre tornò. Ricordo un profumo strano, che sentivo per la prima volta. Lui estrasse una tavoletta scura: “Sai cos’è questo? Il cioccolato”. Gli americani lo regalavano ai prigionieri liberati, e lui ne aveva messo da parte un poco per il suo primogenito, che non aveva mai visto. E aveva altri due regali».

Quali?

«Un clarinetto e una piccola fisarmonica. I prigionieri a volte saccheggiavano le case dei tedeschi: denaro, gioielli. Lui aveva preso due strumenti musicali per me».

Quando comincia la musica?

«Il mio idolo era Modugno, che è cresciuto nel paese qui accanto, San Pietro Vernotico. Cantavo sempre, anche nei campi; e nei campi andavo già a sei anni. Papà mi ha insegnato a raccogliere le olive, curare la vite, selezionare le infiorescenze dell’uva. Lavoravo e studiavo. Ma al secondo anno di magistrale mi bocciarono».

Come mai?

«Non sopportavo i professori. Sapevo solo disegnare. Feci un disegno per la ragazza di cui ero innamorato, Fiorella: lei prese 8, io 4».

Fu la sua prima volta?

«Con Fiorella non ci fu neppure un bacio. Ma quando mi mancavano mille lire per comprare la prima chitarra, le chiesi a lei, con una lettera. Arrivò una busta: dentro c’erano mille lire. Avrei potuto procurarmele in altro modo, ma volevo vedere se si ricordava di me. Così le dedicai la mia prima canzone. E battezzai sua figlia».

Prima era partito per Milano.

«La valigia era davvero di cartone: due pantaloni, una bottiglia d’olio, qualche frisella. Era la seconda volta che andavo via da Cellino».

La prima dove era stato?

«A San Giovanni Rotondo, da padre Pio: mi confessò, ricordo il profumo di rose. Mia madre era contraria: “Le milanesi sono tutte zoccole!”. Magari fosse stato vero: non mi guardava nessuna. Andai a fare l’imbianchino. Dormivo in cantiere, al Giambellino, in una stanza al pianterreno, alla luce di quattro candele. Ma non mi pagavano. Ero rimasto con mille lire. Andai alla Standa, a comprare sette michette e la carne in scatola. Vidi la Simmenthal e le lattine con la scritta “Ananas”. Pensai a una sottomarca. Le aprii: “Mamma mia quant’è gialla la carne a Milano!”. Ho mangiato pane e ananas per una settimana».

E cambiò lavoro.

«Al ristorante Ferrario, vicino a piazza Duomo, cercavano un aiuto cuoco. Pensai che fosse quello che metteva la legna. Mi presentai. “Ma tu sai cucinare?”. “Certo, cosa ci vuole a mettere un po’ di legna?”. Mi misero a distribuire i volantini fuori dal ristorante e poi a fare le pulizie. Imparai a preparare le pizze, il caffè...».

Com’era Milano nel 1960?

«Piena di poesia. Ricordo un uomo innamorato di una prostituta: veniva al bar, ordinava un tè, poi un amaro; aspettava che lei finisse di lavorare. Poi andavano via a braccetto, felici. Un altro tizio mi disse: quanto guadagni al mese? Venticinquemila lire? Te li do ogni giorno, se mi consegni queste buste. Ma papà mi aveva messo sull’avviso: la droga, mai».

Non l’ha proprio mai provata?

«Aprivo i concerti dei Rolling Stones, e dai loro camerini veniva un odore misterioso, mai sentito prima... Non era cioccolato: era marijuana. L’ho fumata una volta sola. Mi avevano detto che pure Fellini la usava per ispirarsi. Passai la giornata più strana della mia vita: non ero padrone di me stesso, scrivevo in verticale anziché in orizzontale... Mi dissi: mai più».

Fino a quando fece il cameriere?

«Avevo due colleghi. Finché mi chiamavano terrone, pazienza. Ma un giorno mi indicarono mentre salivo le scale trafelato, pieno di piatti: “Per fortuna abbiamo lo schiavetto...”. Non ci ho più visto. Li ho chiusi in una stanza e li ho menati. E ho cambiato ristorante».

Dove andò?

«Al Dollaro. Si chiamava così perché si mangiava a volontà pagando in lire l’equivalente di un dollaro: il primo “all you can eat”. Ma litigai pure lì. Il figlio del padrone amava una ragazza, che però preferiva me. Lo sentii sibilare: “Questi terroni ci portano via le donne...”. Così me ne andai in fabbrica».

Dove?

«Alla Innocenti. Catena di montaggio. Lavoravo e per resistere cantavo tutto il giorno. Mi dicevano: “Terrone, piantala!”. E io: goditela finché è gratis, perché tra poco per ascoltare la mia musica dovrai pagare».

Come arrivò nel Clan?

«Risposi a un annuncio, superai il provino. La fortuna fu che nel 1965, finito il boom, all’Innocenti ci misero in cassa integrazione: il mattino al lavoro, pomeriggio libero. Così ogni giorno potevo andare al Clan. Esordii alle selezioni per Sanremo».

Come andò?

«Fuori dall’Ariston c’era un signore piccolo e villoso, in mano un grande cappello, con cui chiedeva l’elemosina. Me lo ritrovai in gara. Vinse clamorosamente. Era Lucio Dalla».

Al Bano: «Una serie sulla mia vita: dalla guerra a Ylenia. Il finale? Un trionfo a Sanremo»

I fusilli a casa Carrisi. «Papà Al Bano? In cucina lui è meglio di mamma»

Romina Power: «Albano? Non so perché sia finita. Vorrei rivivere un giorno con Ylenia, non smetterò mai di cercarla»

E Celentano com’era?

«Io parlavo con suo fratello Sandro, Adriano non osavo guardarlo in faccia, quando arrivava mi nascondevo. Sapevo che era di origine pugliese, ma ero troppo timido. Certo, ci restavo male se scrivevo una canzone e la facevano cantare a un altro. Quando ebbi successo mi offrirono le copertine purché attaccassi Adriano. Rifiutai. Gli sarò grato per sempre. Un giorno mi ritrovai nella stessa stanza con Mogol, e non ci dicemmo una parola. Mi stava studiando».

Il successo arrivò con «Nel sole»: oltre un milione di copie.

«Le ragazze cominciarono a inseguirmi, a Rimini ne trovai una in stanza, nascosta sotto il letto. Con i primi soldi feci salire a Milano i miei genitori. Papà era contrarissimo: “Come faccio con il mulo? Mi è affezionato...”. “Vendilo!”. Così gli diedi otto milioni per comprare il trattore e un terreno. Ma a Milano don Carmelo Carrisi si trovò male».

Perché?

«Si muoveva come al paese. Per strada diceva buongiorno a tutti, e nessuno gli rispondeva. Alla Rinascente trattava sul prezzo, come al mercato di Cellino, e lo mandavano via. Sul tram chiedeva al bigliettaio: “Quanto costa il biglietto? Quaranta lire? Dai, facciamo trenta”. Il bigliettaio lo faceva scendere. Dopo due settimane tornò qui in Puglia».

«Nel sole» divenne anche un film.

«C’erano Loretta Goggi, Montesano, Nino Taranto, Franco e Ciccio: due attori straordinari. Ciccio ebbe la consacrazione con Fellini, e Franco un po’ ci soffriva. Lo processarono per mafia, e lui si difese dicendo: “Noi artisti incontriamo tutti. Non sappiamo chi abbiamo di fronte. Io non sono mio!”».

E sul set c’era Romina Power.

«Portava la minigonna; e io non avevo mai visto una minigonna in vita mia. Era figlia di due star di Hollywood, ma nelle pause delle riprese faceva la maglia. Gli ultimi tre giorni di lavorazione ci siamo amati. Mi pareva di toccare il cielo. Poi lei mi respinse. Telefonavo a casa e rispondeva facendo l’accento pugliese: “Sono Antonietta, Romina è uscita”. Cioè un’americana voleva fare fesso me. Così la lasciai perdere. Finché un giorno in albergo a Roma il portiere mi disse: “Al Bano, ha chiamato Romina Power per lei».

Diventaste la coppia più famosa d’Italia.

«Nell’estate del 1970 ero in Grecia. Cantai Il ragazzo che sorride di Theodorakis sotto l’Acropoli, davanti a 90 mila giovani che mi seguivano in coro. C’erano i colonnelli, Theodorakis era agli arresti domiciliari, il disco si vendeva di nascosto dentro una copertina su cui era scritto O sole mio; e poi dicono che sono di destra... Il giorno dopo, nelle onde dell’Egeo, Romina mi disse: sono incinta. Così decidemmo di sposarci».

Perché solo allora?

«Perché le americane avevano il divorzio facile; e io non volevo divorziare. Ci promettemmo di non dirlo a nessuno; ma un impresario, temo per denaro, fece la spia. Il 26 luglio a Cellino fuori dalla chiesa c’erano trentamila persone. Linda Christian, la mamma di Romina, seguì la cerimonia dal tetto».

Lei non è di destra?

«Ai tempi di Berlinguer votavo comunista».

Al Bano comunista vale un articolo.

«Ho sempre scelto la persona. Ho creduto in Berlusconi: hanno tentato di ostacolarlo in tutti i modi, e alla fine si è infilato da solo nella trappola che si era costruito, quella delle donne. Ora trovo interessante la Meloni. Ma mio padre, oltre che dalla droga, mi aveva messo in guardia dalla politica».

Cosa le aveva detto?

«Che i politici ti usano e ti abbandonano. Negli anni 70 non riconoscevo più l’Italia. Il terrorismo, le bombe sui treni. Un clima di intimidazione. De Gregori, un artista che stimo moltissimo, processato al Palalido. Una volta a Torino per strada portavo una sciarpa rossa, uno mi fa: “Finalmente ti sei emancipato”. Gli rispondo male, quello si fa sotto, e quand’è così meglio colpire per primi: gli tirai un cazzotto. E andai in Spagna, nonostante Gianni Minà».

Cosa c’entra Minà?

«Mi faceva un po’ da addetto stampa. E mi diceva: in Spagna no, che sono tutti fascisti! Scoprii invece un Paese meraviglioso, dove sono tuttora molto amato. E poi l’America Latina. La Francia, la Germania».

E la Russia.

«Nel 1986 tenni diciotto concerti a Mosca e diciotto a San Pietroburgo, che si chiamava ancora Leningrado. Una sera arriva un dirigente del Kgb, gentilissimo, quasi intimidito. Mi porge la mano e dice: “Sono un suo grande fan, conosco tutte le sue canzoni. Mi chiamo Vladimir Vladimirovic Putin».

Diventaste amici?

«Suonai per Eltsin e per lui, quando era primo ministro. Solo per lui, quando divenne presidente. Ma ora non lo farei più. Mi ha deluso. Non doveva scatenare la guerra».

È giusto mandare le armi all’Ucraina?

«È inevitabile: alle armi si risponde con le armi. A me, però, non piace. Si dovrebbe fare di più per portare Putin e Zelensky al tavolo della trattativa».

Nel 1984 lei e Romina vincete Sanremo con «Ci sarà».

«Dovevamo vincerne altri; invece arrivavamo sempre secondi o terzi o anche settimi. Non eravamo abbastanza “impegnati”. L’invidia genera nemici. Mettevano in giro voci false, tipo che non volevo suonare in Italia».

È vero che querelò Arbore e D’Agostino?

«Ora abbiamo fatto pace, ma D’Agostino provai proprio a menarlo, lo aggredii davanti ai Ricchi e Poveri, allibiti... In un libro, Il peggio di Novella 2000, scrisse che avevo rinchiuso Romina in una masseria. Era vero il contrario. Io a Cellino non volevo tornare. È stata lei a farmi riscoprire il mare, la terra».

Fu la scomparsa della vostra primogenita, Ylenia, a far finire il matrimonio?

«No. Da tempo lo sguardo di Romina non era più quello». 

Cos’è accaduto a Ylenia?

«Era una ragazza straordinaria. Studiava al King’s College di Londra. Parlava inglese, spagnolo, francese, portoghese. Venne a Mosca con noi e imparò un po’ di russo, la sera Romina e io andavamo a dormire e lei scendeva sulla Piazza Rossa a vedere il cambio della guardia al mausoleo di Lenin. Poi ci accompagnò negli Usa, a girare un docufilm, l’America perduta. Andammo da Los Angeles a New Orleans. E lì fece l’incontro fatale».

Quale?

«Gli homeless. Gli artisti di strada. Ricordo un nero, si chiamava Masakela. Una sera la compagnia andò al cinema, ma io rimasi con Ylenia perché avevo notato qualcosa di strano. A un tratto cominciò a correre, e io dietro, lei gridava “fermate quell’uomo vuole farmi del male”, e quell’uomo ero io, gridavo “lasciatemi, è un problema di droga”. Mi seminò, la ritrovai il mattino alle 8. A sua madre disse che aveva rischiato la vita sulle acque del Mississippi».

E poi?

«Andammo a Venice a trovare la zia di Romina, Anne, la sorella di Tyrone Power: una pittrice di animo gentile. Sembrava tornata la pace. Al ritorno Ylenia mi dice: papà, ho deciso di scrivere un libro, e per farlo devo andare in Belize, la patria degli homeless. Dissi: va bene, ma prima ti devi laureare, manca poco... Invece andò in Belize, visse in una capanna, un uomo la minacciò, lei si salvò prendendo in braccio un bambino. Così tornò a New Orleans. Diceva che non voleva frequentare gente di plastica».

E nella notte del Capodanno 1994 scomparve.

«Ho ricostruito quella notte ora per ora. Ho parlato con i testimoni. Ho incontrato Masakela, che era stato pure in galera, ma negava di avere colpe. Ho interrogato l’ultima persona che l’ha vista, il guardiano del porto. Era seduta in riva al fiume, lui la avvisò: non puoi stare qui. Ma Ylenia non se ne andava. Il guardiano insistette, allora lei gli disse “io appartengo alle acque”, e si tuffò nel fiume, nuotando a farfalla. Lì capii che il guardiano stava raccontando la verità, perché Ylenia diceva quella frase da bambina prima di tuffarsi, e nuotava a farfalla. Ma il Mississippi non perdona. Romina non l’ha mai voluto accettare. Ma è andata così».

Ora lei sta ancora con Loredana Lecciso?

(La risposta viene da Loredana Lecciso, che in quel momento entra nella stanza: «Al Bano vieni, c’è nostra figlia in tv!». In effetti su Rai2 Jasmine Carrisi sta mostrando un video con il padre che ha fatto due milioni di visualizzazioni su TikTok in un giorno).

Con Loredana come vi siete conosciuti?

«Fuori da scuola, a Lecce. Io portavo le mie figlie Cristel e Romina junior, lei la sua primogenita, Brigitta. Loredana mi piaceva, ma la trovavo strana: prima mi sorrideva, cinque minuti dopo mi ignorava... Poi capii che erano due: l’altra era la gemella, Raffaella Lecciso, che aveva pure lei una figlia nella stessa scuola».

Lei crede sempre che Dio esista?

«Non è che credo; lo so. L’ho sentito molte volte. Così come ho sentito il diavolo».

Il diavolo?

«Dopo la scomparsa di Ylenia e la separazione con Romina, sono stato da solo per nove anni. Il dolore era terribile. Pensavo che Dio mi avesse abbandonato. E con il dolore cresceva una voce che diceva: “Al Bano eliminati. Al Bano falla finita”».

Ha pensato al suicidio?

«Sì. Ma poi ho capito che era la voce del demonio. E ho sentito anche la presenza di Dio. Ho provato una pace profonda. Mi sono detto: chi sei tu per giudicare Dio? Ricordati che anche Lui ha perso un figlio».

Come immagina l’Aldilà?

«Non oso pensarlo. Spero sia il luogo in cui ogni pena sarà consolata, ogni cosa troverà senso. Spero che il Signore mi accoglierà tra le sue braccia. Quando lavoravo nei campi c’era una cappella votiva diroccata; giurai: se avrò successo, la restaurerò. Ora al posto di quella cappella c’è una chiesa».

Se è per questo, don Verzé mi disse che lei era uno dei più grandi benefattori dell’ospedale San Raffaele.

«La beneficenza si fa, non si dice. Ho avuto dei segni. Quando incontrai madre Teresa di Calcutta, mi parve di rivedere mia madre: stesso volto olivastro, stesse rughe. Pioveva; un raggio di sole squarciò le nubi, le colpì il viso e la seguì nella camminata».

Come trova Papa Francesco?

«Straordinario. Ma il mio Papa fu Wojtyla, per cui ho suonato sette volte».

Cosa pensa di quel che ha detto il fratello di Emanuela Orlandi?

«Nessuno come me può comprendere la sofferenza del familiare di una ragazza scomparsa. Ma non deve dire queste cose di Giovanni Paolo II. Se avesse avuto una debolezza, i suoi nemici l’avrebbero sfruttata. Ricordiamoci che fu il primo Papa a gridare contro la mafia».

Lei ebbe come nemico Michael Jackson.

«Mi copiò una canzone. Mio figlio Yari mi avvisò: papà, Will you be there è identica ai tuoi Cigni di Balaka! Finimmo in tribunale. Ci accordammo per un grande concerto di beneficenza all’Arena. Aveva già pagato le spese, quando morì. Al Bano& Michael Jackson: è il mio grande rimpianto».

Estratto dell’articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero – Cronaca di Roma” l’1 aprile 2023.

Non provate a fermarlo: Al Bano è infaticabile. A febbraio è tornato a esibirsi sul palco dell'Ariston, a Sanremo, con una performance muscolare che lo ha visto tenere testa agli altri due "highlander" - così li ha definiti Fiorello - Massimo Ranieri e Gianni Morandi. Muscolare nel vero senso della parola: di fronte alla platea il leone di Cellino San Marco s'è pure messo a fare i piegamenti.

 In queste settimane sta ultimando le registrazioni di un nuovo album di inediti: sabato ha trovato anche il tempo per andare a fare per una sera Il Cantante Mascherato su Rai1, da Milly Carlucci, cantando dietro la maschera del cuore con la figlia Jasmine. […]

Morandi ha raccontato che il suo telefono smise di squillare. Accadde anche a lei?

«Sì. Il primo a riconoscere che non vendevo più una copia fui io. Quando arrivavo negli uffici della Emi, l'etichetta con la quale conobbi il grande successo, mi trattavano con sufficienza. […]».

 Non fu tentato da una svolta impegnata?

«Mai. Sono sempre stato un cane sciolto. Non nascondo che a più riprese certi politici, sia di destra che di sinistra hanno provato a tirarmi dentro. Mi rendo conto che porterei tanti voti, ma non ci penso nemmeno a darmi alla politica». […]

Quando fu sdoganato?

«Da solista, se si esclude il successo in coppia con Romina, solo nel 1996, l'anno di È la mia vita. A Sanremo arrivai settimo: fu strano».

 Perché?

«Dovevo vincere io. Quella canzone segnò la mia rinascita. La sera della finale (vinsero Ron e Tosca con Vorrei incontrarti fra cent'anni, ndr) non mi tornarono i conti».

 Cosa vuole dire?

«Non so cosa accadde. Ho smesso di chiedermelo. Di certo, È la mia vita non era un brano da settimo posto».

Nel testo alludeva alla scomparsa di sua figlia Ylenia, in circostanze misteriose mentre si trovava a New Orleans: il successo della canzone fu determinato anche dalla compassione del pubblico?

«La compassione è una cosa che non mi piace. Però sul palco sentii forte l'abbraccio del popolo: mi aiutò». […]

 E quindi cosa sta preparando?

«Ho un brano che voglio far ascoltare ad Amadeus per Sanremo 2024: mi sento pronto per tornare in gara».

Incalzato dalla Fagnani, dice: "Canterò sempre per il popolo russo". Al Bano condanna la guerra ma difende Putin: “Ucraina sempre stata russa poi la Nato se n’è appropriata”. Redazione su Il Riformista l’8 Marzo 2023

Vladimir Putin in qualche modo una buona parte di ragione ce l’ha. L’Ucraina è sempre stata sotto la giurisdizione russa, la Nato se n’è appropriata… Certo poi Putin ha anche torto”.  Lo ha dichiarato Al Bano, all’anagrafe Albano Antonio Carrisi, raccontandosi ai microfoni di Francesca Fagnani, durante la puntata di ieri sera di “Belve”. Si è parlato di musica, di famiglia, e di guerra… Quella che da più di un anno sta devastando l’Ucraina, mietendo dall’inizio del conflitto più di centomila vittime. “Questa guerra è terribile, squallida – ha detto ancora Al Bano – Io non approvo quello che Putin ha fatto, chi lo approverebbe? Invadere come ha fatto quel paese a me ha dato fastidio, e non solo a me”. Poi ha chiosato: “Io dico quello che in tanti pensano, ma che non hanno il coraggio di dire”.

La Fagnani chiede quindi se anche oggi sarebbe disposto a suonare le sue canzoni per Putin, e Al Bano risponde: “Io suono e canterò sempre per il popolo russo. Putin è un russo e io ho cantato anche per lui”. Dalla guerra all’amore, all’amore perduto, a quella figlia svanita nel nulla. Sulla scomparsa della sua Ylenia, Al Bano ha racconta commosso: “È stato l’unico momento dove sono diventato un anticristo, un anti – Dio. Mi sono sentito violentato da quella forza superiore che è Dio. Erano notti in cui per dormire prendevo il Lexotan. Erano quelle notti che non finivano mai neanche durante la giornata. Quel dolore che si fa sentire anche adesso. Ma io sono cristiano e mi sono detto: se lui l’ha perso e tutto continua, chi sei tu per ribellarti a questa realtà?'”.

La scomparsa di Ylenia Carrisi è uno dei gialli mai risolti. Mentre frequentava un corso di letteratura a Londra, iniziò a nutrire il proposito di girare il mondo in solitaria, munita solo di uno zaino e del suo diario. Nel luglio del 1993, appena atterrata a Roma di ritorno dal primo viaggio in famiglia a New Orleans disse al padre che a ottobre sarebbe partita per il Belize perché voleva scrivere un libro sugli artisti di strada e i senzatetto. Decise così di prendere una pausa dagli studi e vendette alcuni oggetti per autofinanziarsi il viaggio sognato, iniziando con il Sudamerica. Dopo qualche settimana dalla sua partenza, nel periodo natalizio, Yari, fratello minore di Ylenia, decise di farle una sorpresa e di raggiungerla. Arrivato in Belize scoprì di essere arrivato con “24 ore di ritardo”, in quanto la ragazza si era già diretta a New Orleans, città in cui poi sarebbe misteriosamente scomparsa pochi giorni dopo.

Poi si parla di musica. A proposito dei suoi successi, alla domanda se senta di aver avuto un riconoscimento maggiore in Italia o all’estero, Albano confessa che nell’ambiente “il successo all’estero ha dato fastidio, qui non venivano sopportati perché non dovevano dire grazie a nessuno”. Quando la Fagnani fa riferimento al fatto che forse, questa marginalizzazione, derivava dal fatto che all’epoca non avesse aderito al partito comunista, Albano replica: “Solo allora?”. E la Fagnani: “Quindi anche adesso?”, Albano chiude: “Forse solo adesso mi stanno un po’ sdoganando”.

Poi la Fagnani ricorda l’accusa di plagio che Al Bano mosse contro In Michael Jackson perché convinto che “Will Yu Be There” fosse uguale alla sua “I cigni di Balaka”, Al Bano conferma: “Me ne fece accorgere mio figlio Yari che studiava in America”. Albano ricorda che “l’accordo finale era che avremmo dovuto fare un concerto insieme e devolvere il ricavato ad associazioni per bambini”. E alla domanda su cosa avrebbe fatto cantare a Jackson, Al Bano provoca: “Avremmo potuto cantare insieme i cigni di Balaka, anche la parte corale. Insieme avremmo fatto un botto enorme”. Insomma, una lunga intervista a viso aperto dopo i successi di Sanremo.

Al Bano a Belve, "grazie a nessuno": la bomba sulla sinistra. Libero Quotidiano il 07 marzo 2023

Si toglie molti sassolini dalle scarpe, Albano Carrisi. Ospite di Francesca Fagnani a Belve, su Rai 2, il Leone di Cellino San Marco affronta senza tabù ogni tema, da quello politico (la guerra in Ucraina e le responsabilità di Vladimir Putin, a cui è stato per molti anni assai vicino) a quello più toccante e privato (la scomparsa della figlia Ylenia, ormai quasi 20 anni fa). Ma forse per la prima volta, con toni inusitatamente duri, si sfoga contro il suo mondo, quello dello spettacolo e della critica musicale, colpevoli di averlo "snobbato" per anni salvo poi riconoscergli i giusti meriti all'alba degli 80 anni. 

 "Il successo all’estero ha dato fastidio - ha risposto secco alla domanda della Fagnani sulla sua carriera -; qui non venivano sopportati perché non dovevano dire grazie a nessuno". "Ha pesato il fatto di non essersi mai iscritto al Partito comunista?", chiede maliziosa la conduttrice. "Solo allora? - risponde amareggiato Al Bano - Forse solo adesso mi stanno un po’ sdoganando…".

 Particolarmente commentata sui social anche l'anticipazione sul commento di Carrisi sulla guerra in Ucraina: "Una buona parte di ragione Putin ce l’ha, ma ha anche la parte del torto…Questa guerra è terribile, squallida…". Per lui, storicamente apprezzatissimo oltre la Cortina di Ferro, autentica postar sia in Russia sia in Ucraina, l'invasione del febbraio 2022 ha rappresentato una dolorosa cesura, un capitolo della sua storia professionale e della su vita forse chiuso per sempre, non per colpa sua. "Non solo io ho trovato fastidio…", sono le sue parole a proposito dell'inizio del conflitto. Particolarmente intenso anche il ricordo della figlia Ylenia, un tragico mistero che gli ha fatto mettere in forte dubbio la sua Fede: "E’ stato l’unico momento dove sono diventato un anticristo, un anti-Dio. Mi sono sentito violentato…".

Belve, Al Bano su Ylenia: "In cosa mi ero trasformato", l'atroce confessione. Libero Quotidiano l’08 marzo 2023

"È stato l’unico momento dove sono diventato un anticristo, un anti Dio. Mi sono sentito violentato da quella forza superiore che è Dio". Al Bano si confessa a Belve, il programma condotto da Francesca Fagnani e in onda questa sera 7 marzo su Rai2, e parla con molto dolore della scomparsa della figlia Ylenia Carrisi. "Erano notti in cui per dormire prendevo il Lexotan. Erano quelle notti che non finivano mai neanche durante la giornata. Quel dolore che si fa sentire anche adesso. Ma io sono cristiano e mi sono detto 'Se lui l’ha perso e tutto continua, chi sei tu per ribellarti a questa realtà?'".

Il cantante si racconta a viso aperto, a partire dai suoi esordi. A proposito dei suoi successi, quando Francesca Fagnani gli chiede se sente di aver avuto un riconoscimento maggiore in Italia o all’estero, il cantante confessa che nell’ambiente "il successo all’estero ha dato fastidio; qui non venivano sopportati perché non dovevano dire grazie a nessuno". Quando poi la conduttrice fa riferimento al fatto che forse, questa marginalizzazione, derivava dal fatto che all’epoca non avesse aderito al partito comunista, Albano Carrisi replica: "Solo allora?". E la Fagnani: "Quindi anche adesso?", il cantante di Cellino San Marco chiosa: "Forse solo adesso mi stanno un po' sdoganando".

Da “Un Giorno da Pecora – Rai Radio1” il 14 febbraio 2023.

La mia esibizione al Festival? “Io ho una brutta malattia, la sanremite acuta, da quando ero piccolo, perché è una grandissima fonte di musica. Quel palcoscenico mi ha dato delle emozioni uniche”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è il cantante Al Bano Carrisi. “Purtroppo non sono riuscito a seguire tutto Sanremo per motivi di lavoro ma non vedo l’ora di recuperare”.

Non ha sentito neanche una delle canzoni in gara? “Quella di Mengoni mi è piaciuta davvero tanto, avrei potuto farla mia”. Sul palco dell’Ariston non sono mancate le polemiche. “Senza avrebbe voluto dire che non sarebbe stato un buon festival. E ricordatevi: quando c’è Sanremo, sinistra, destra e centro possono andare a riposare, la politica non c’entra nulla”.

Cosa ne pensa del bacio tra Fedez e Rosa Chemical? “Che alla mia età turbarsi è molto difficile”. Lei poteva dare un bacio a Ranieri e Morandi… “Non certamente sulla bocca ma abbracciarli e ringraziarli ancora una volta si - ha detto l’artista pugliese a Rai Radio1 - questo trio lo aspettavo da 27 anni. Me lo sono rivisto, è stato speciale”. Dica la verità: le piacerebbe condurre Sanremo? “Onestamente no. Non me la sentirei. Ne sarei capace perché ho tanta esperienza ma preferisco lasciare il Festival nelle mani di chi lo sa fare meglio di me”.

Secondo Vittorio Sgarbi Morgan sarebbe la persona adatta per fare il direttore artistico. “Ho letto anche io, ma il tema è: Morgan ce la farebbe a condurlo per cinque serate? Senza contare tutta la preparazione…non ce lo vedo proprio Morgan”. Meglio Amadeus quindi. “Lui - ha concluso Al Bano a Un Giorno da Pecora - sta dimostrando di esser quello che è: uno bravo e competente”.

Estratto dell'articolo di Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 20 febbraio 2023.

(...)

Ma a Sanremo ci vorrebbe tornare anche nel 2024.

«Ho un brano pronto da mesi e l’anno prossimo vorrei proporlo. Lo stavo per far sentire ad Amadeus per questa edizione, quando lui mi ha detto dell’idea di Morandi e Ranieri. La avevo avuta io stesso nel 1996. Come facevo a dir di no? È stato meraviglioso e li ringrazio».

 Si canta insieme a voi per nostalgia dei tempi andati?

«Si canta con noi perché abbiamo cantato la nostra storia musicale, in parte. Siamo veri, fin da ragazzini».

Una verità che come si conquista?

«Siamo tutti e tre figli di un’epoca di sana e onesta povertà, di un sano proletariato. Non abbiamo avuto la possibilità di studiare, ma possiamo dire a testa alta che ci hanno dato la laurea all’università della vita».

 (...)

 Ha annullato i concerti in Russia.

«Purtroppo sì. Di messaggi dei fan me ne arrivano ancora. Solo se arriverà la manna della pace, tornerò».

Si parla più di armi che di pace.

«Ho imparato che tutte le cose finiscono».

 Ci racconta di quando conobbe Putin? Lo ha descritto in passato come l’uomo più filo-occidentale della Russia.

«Putin l’ho vissuto, l’ho visto da vicino molte volte. Ci sono cose che non possono essere descritte, gesti altrui che fanno capire come stanno le cose al di là delle parole. Ho assistito all’armonia tra lui e Berlusconi. Filo-occidentale, sì, lo era certamente. D’altra parte dimentichiamo che sono gli architetti italiani ad aver costruito San Pietroburgo. Quanti teatri che ci sono a Odessa… I russi non hanno mai odiato l’Occidente, certo difendendo le proprie radici».

Poi? C’è chi ha perso la testa?

«Non mi faccia parlare troppo, non val la pena».

 Ma è vero che ha scritto a Putin una lettera, per implorarlo a fermarsi? Ha ricevuto risposta?

«Fake news del web, nessuna lettera. Quel che dovevo dire l’ho detto in tv senza paura. E l’ho detto da amico. Certo che qualcosa oggi è cambiato, ma vorrei ricordare che quando i russi su invito di Castro stavano portando i missili a Cuba, Kennedy alzò il telefono e chiese a Krusciov chi sarebbe stato il padre di una terza guerra mondiale, chi si assumeva le responsabilità e le conseguenze. Lui capì e si fermò. Non le pare che Putin lo avesse fatto capire, in passato, che ci sarebbero state conseguenze? Ovvio: l’invasione è ingiustificabile».

Ad Est la amano molto.

«“Libertà” fu la canzone che cantavano durante la rivoluzione romena contro il regime di Ceausescu, lo sa? Un brano magico. Ci ho messo 9 mesi per scriverlo. È stupendo quando si riescono a sposare la sonorità di un testo e quella della musica. Scrivevo e cancellavo, e reimpastavo… e poi la canzone è arrivata, in un momento sul terrazzo di casa mia».

Musica è anche politica?

«Pensi a Giuseppe Verdi, il suo “Va pensiero”, e a quando scrivevano sui muri “Viva Verdi” per il re».

 Poi se ne impadronì la Lega Nord, di quel brano.

(Ride) «Eh va beh, ogni tanto qualche sgarbo lo fanno, i politici».

 Di recente, in Polonia ad esempio, ha cantato anche insieme a Romina Power.

«Concerti sempre strapieni. Quando richiedono il duo artistico, noi ci siamo. Per il resto, poi, nel 2000 ho conosciuto una donna che è stata la mia seconda primavera, Loredana, e che mi ha regalato due figli anche loro straordinari. Basta sperare e le cose si avverano».

Quanto conta la musica oggi, e quanto la trasgressione o il far parlare di sé, perché una canzone abbia successo?

«In Italia abbiamo il Vaticano, e quando si entra lì si sa che occorre comportarsi da buoni cristiani. Con un vestiario consono, e non certo scosciati e mezzi nudi. Beh, Sanremo per me è un po’ la stessa cosa. Non parlo di sacralità, ovviamente, ma certi gesti che ho visto credo mirassero a rovinare il tempio della musica. Ma non ci riusciranno».

 L’ha fatta arrabbiare l’appello di Fedez sulla cannabis?

«Davvero c’è stato? Ho avuto poco tempo per guardare tutto, impegnato com’ero per l’esibizione».

Sì. Ma lei non l’ha mai provata, una canna?

«Una volta sì, per capire l’effetto. E, giuro, non capisco come la gente si possa rovinare la vita con questa porcheria. Che fastidio… dovevo scrivere e scrivevo in verticale, non ero padrone di me, e lo avvertivo. Ma come si fa? Poi Fedez faccia quel che vuole, si fumi quel che vuole. Ma perché deve farne una religione per gli altri? Mi sembra che l’Italia abbia abbastanza problemi».

 Dicono lei sia di destra.

«Mamma mia, ancora. Ripeto sempre che ho votato a sinistra, a destra e al centro. Mai per ideologia, sempre per l’uomo che pensavo potesse dare una mano a risollevare l’Italia».

 E pure la donna?

«Se mi chiede se mi piace Meloni le rispondo che sì, mi piace. Ha una gran bella personalità, mi pare».

 (...)

 Ho letto di una sua crisi di fede negli anni Novanta. Legata ad avvenimenti dolorosi della sua vita.

«Forse ho sbagliato, ad avere qualche diverbio con Dio. Penso che sia l’esperienza umana, però. Un atto d’amore non calcolato bene. Ho imparato l’umiltà. E dopo la ribellione ho concluso che senza la fede vivo peggio, vivo il male due volte. Ma io mai mi lamento, sono fortunato».

 Perché ha successo?

«Perché ho scoperto la dolcezza del volo della musica. Pure se non fossi diventato un cantante professionista, la musica è il mio “tappeto volante”. Mi ha aiutato a sognare e a realizzare i miei sogni».

Verissimo, Al Bano e le parole choc su Romina Power: "Tutta la vita". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2023

Al Bano si confessa. Ospite di Silvia Toffanin nella puntata di domenica 12 febbraio su Canale 5, il cantante ripercorre carriera e vita privata. "Quando io e Romina ci siamo sposati già sapevo che prima o poi il nostro matrimonio sarebbe finito - ammette sull'ex moglie -. Dentro di me dicevo: durerà un anno, due o tre anni non mi interessa, non voglio perdermi neanche un minuto senza di lei".

L'artista non nega di essere stato molto innamorato della Power, al punto che "mi piaceva tutto di lei e sapevo sin dall'inizio cosa sarebbe successo. Non immaginavo che il nostro matrimonio durasse trent'anni. Quando mi ha comunicato la decisione di volersi separare ero totalmente impreparato. Con lei avrei fatto quello che anche mio padre e mia madre hanno fatto, sarei rimasto con lei tutta la vita". 

  Nella loro relazione è subentrata anche una tragedia, la scomparsa della figlia Ylenia. Una notizia che ha messo a dura prova entrambi. "Ho tentato di bloccarla ma purtroppo non ci sono riuscito - dice oggi Al Bano confessando di aver avuto brutti presentimenti prima che la figlia partisse -. È il destino che comanda la tua vita, non sono riuscito a fare quello che avrei voluto e che qualsiasi padre avrebbe fatto. È l’unico grave rimpianto che ho dentro". Un rimpianto che non scomparirai mai. Da qui la richiesta alla conduttrice di parlare d'altro, "mi fa male ogni volta". 

Al Bano: «Vi racconto i miei 16 Sanremo». Il Leone di Cellino San Marco si racconta: «Ricordo che ero un ragazzino quando per la prima volta riuscii a salire sul palcoscenico più ambito per tutti i cantanti italiani». Al Bano su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Febbraio 2023.

Mercoledì saranno sedici, ma l’emozione resta quella di sempre, anche se l’anagrafe segna… qualche anno in più.

Ricordo che ero un ragazzino quando per la prima volta riuscii a salire sul palcoscenico più ambito per tutti i cantanti italiani. Era un «Sanremo Giovani»: quello del 1965 e cantavo «Devo dirti di no». Ricordo come fosse ieri quei momenti, il confronto con i «big» e l’impatto che può avere quel palco su un ragazzo di 22 anni che arrivava da Cellino San Marco.

Poi, la prima esperienza da professionista. Sulla scia del successo di «Nel sole» dell’anno precedente, portai a Sanremo «La siepe»: un pezzo che mi è rimasto decisamente nel cuore e che ancora oggi propongo nei miei concerti. Quel nono posto ottenuto, per me fu come una vittoria: unita al premio della critica intitolato a Luigi Tenco. Un riconoscimento che – oggi come allora – aveva un valore davvero molto particolare, non fosse altro perché espressione degli addetti ai lavori.

Da allora, tra Casinò e Ariston – al festival dei fiori (come si usava chiamarlo qualche anno fa) ho vissuto la magica atmosfera del mio «natale laico» per altre quindici volte dopo il 1965, ospitate escluse, l’ultima avvenuta proprio grazie ad Amadeus nel 2020.

Mercoledì, dunque, si torna ancora una volta come ospite, ma questa è diversa come per verità ogni volta in riviera è… diverso e non solo perché cambiano le canzoni. L’unica cosa sempre uguale è l’emozione, unita all’adrenalina, che ti fa vivere sempre un momento magico.

Non posso anticiparvi nulla di quello che accadrà sul palco ma, come ha annunciato Amadeus, con me ci saranno due miei vecchi amici (vecchi nel senso che siamo amici da tanto, tanto tempo).

Il sogno di cantare insieme con Massimo Ranieri e Gianni Morandi lo inseguivo da sempre. Anni fa ho anche proposto ai due colleghi-amici di fare insieme una tournée nei teatri di tutta Italia. Un progetto però, che per un motivo o per l’altro e per i nostri rispettivi impegni non è si è mai concretizzato. Mi è capitato di cantare con Morandi e con Ranieri, separatamente, ma l’occasione di farlo tutti e tre insieme ancora non c’era stata.

Poi, arriva Amadeus e riesce laddove noi non eravamo mai riusciti. Con Gianni e Massimo ci siamo subito sentiti e devo dire che tutti abbiamo accolto con entusiasmo la proposta del direttore artistico di questa 73.ma edizione del Festival di Sanremo.

Sono sicuro che faremo qualcosa di bello, raccontando le nostre storie musicali, ricordando le nostre esperienze e le nostre canzoni.

Non ho mai avuto dubbi: il festival di Sanremo resta la vetrina più importante della musica italiana.

Tutti noi siamo in debito con tale evento che ha fatto conoscere la «nostra» canzone in ogni parte del mondo. Da qui sono «partiti» tutti i più grandi artisti: cito Domenico Modugno, ma potrei fare decine e decine di esempi ancora: da Ramazzotti a Giorgia, passando per Bocelli e Vasco Rossi, Zucchero e tanti altri per non parlare di chi ora va per la maggiore in tutto il mondo: i Maneskin.

Anche loro, sentendosi in qualche modo in debito con Il festival, quest’anno tornano.

Riguardo il festival «targato» Amadeus, posso dire che adeguando lo spettacolo ai tempi moderni con l’inserimento di tanti giovani, il fantasanremo e qualche pillola di storia musicale italiana, il direttore artistico si è assicurato ascolti da record. A Sanremo, anche grazie a lui, negli ultimi anni si sono avvicinati giovani e giovanissimi che prima snobbavano questo appuntamento e ora invece non perdono il festival perché sul quel palcoscenico trovano i loro beniamini. Evviva Sanremo.

Estratto dell’articolo di Alessandra Pescali per “Novella 2000” l’1 febbraio 2023.

Al Bano, Gianni Morandi e Massimo Ranieri i tre grandi miti della musica italiana (rigorosamente citati in ordine alfabetico) si incontreranno sul palco dell’Ariston per la settantatreesima edizione del festival di Sanremo, sarà uno scontro o una reunion?

 Inizia a svelarcelo l’inarrestabile Al Bano, quel ragazzo che delle sue umili origini e della sua grande fede ha fatto la sua forza […]

 Con Morandi e Ranieri una storica rivalità o una solida amicizia?

«Non siamo mai stati nemici, anzi ho sempre visto in loro due grandi amici da ammirare. Questi due signori erano sulla piazza già prima di me e stare al loro fianco, a Canzonissima per esempio, è stato meraviglioso. […]

 Cosa ne pensa di Amadeus come direttore artistico del Festival e delle sue decisioni?

«Amadeus è un po’ il Mozart di Sanremo, ne sta facendo uno più bello dell’altro e l’idea dei superospiti italiani solo over 70 credo possa funzionare. Penso che sarà importante l’intervento del Presidente ucraino Zelensky (al momento di andare in stampa sembra confermato, ndr) e mi auguro che la sua presenza sia un’invocazione di pace.

 Non dimentichiamo la partecipazione a Sanremo nel 1999 dell’allora Presidente dell’Unione Sovietica Gorbaciov, perché il Festival della canzone italiana in tutto il mondo, ma soprattutto in tutta quell’area, era quasi “sacro”: lasciava da parte la politica per far entrare trionfalmente la canzone ed unire. […]».

È vero che ha ospitato per un anno una famiglia di rifugiati ucraini?

«Sì ho ospitato per un anno quattro persone. Due ragazzi che ora sono uno in una casa famiglia a Francavilla Fontana (qui vicino, e sa che la mia casa è sempre aperta per lui) e l’altro è stato adottato da una famiglia in America. Poi una mamma con suo figlio che sono rientrati in Ucraina a Sumy, ma che sono felici di essere tornati nella loro famiglia».

 Detiene il record di partecipazioni a Sanremo, 15 oltre a quelle come ospite, che sapore e che significato ha per lei il Festival?

«Ogni Sanremo è stato diverso, ha portato delle emozioni uniche e l’ho sempre amato. […] Ho sempre vissuto Sanremo quasi come un Natale, un Natale pagano, la celebrazione delle nuove melodie. Io guardavo Domenico Modugno e mi dicevo arriverò anch’io su quel palco».

Cosa ricorda della sua prima volta?

«La mia prima volta è stata nel 1965 a Sanremo Giovani, c’erano Teo Teocoli e un signore barbuto, con un cappellaccio che stava a gambe incrociate fuori dall’Ariston a chiedere l’elemosina che poi mi sono trovato sul palco al primo posto, era Lucio Dalla. Quel Sanremo fu un momento speciale, da lì ebbi un gran successo. Nel ’67 Nel Sole fu un’esplosione e nel maggio di quell’anno cantai coi Rolling Stones per la prima volta in tour in Italia». […]

Ci sono state due donne importanti nella sua vita: Romina è sempre stata accolta dal pubblico, quello di Loredana invece è stato un percorso più tortuoso. C’è qualcosa che vorrebbe chiarire?

«Con Romina non c’è stata alternativa, decise di andarsene e lo fece. Io rinacqui nel 1996 con È la mia vita con una nuova vita ed una carriera da solista. Ringrazio Romina per tutto quello che è riuscita a darmi, ma purtroppo mi ha anche tolto.

 E così ringrazio anche Loredana, sottolineando che non ha mai sottratto nulla a Romina che se ne era già andata, quasi dieci anni prima. Loredana è stata una sferzata di primavera in un periodo difficile della mia vita, la mia casa era spoglia, con lei sono arrivati due fantastici figli che amo e seguo esattamente come gli altri».

Alla soglia degli 80 anni, con tante soddisfazioni ottenute, c’è qualcosa ancora da raggiungere?

«Intanto si dice “quattro volte vent’anni” e ho ancora molte cose da fare: il tour italiano È la mia vita, registrerò all’Arena di Verona Quattro volte venti, un docufilm, un tour mondiale per il 2024 e una cosa molto bella che ancora non posso svelare».

Estratto dell’intervista di Stefano Mannucci per il “Fatto quotidiano” il 10 gennaio 2023.

 "Non la presi bene".

Quando, Al Bano?

Quando sospettai fosse nata una simpatia tra Romina e Massimo Ranieri. La trasmissione era Doppia Coppia, 1970. C'erano pure Noschese e Bice Valori.

E?

Le dissi: se è così sono pronto a farmi da parte. Eravamo alla vigilia del matrimonio. Lei mi rassicurò: sto con te. Non concepivo il divorzio. Gli americani sono più disinvolti.

 Ne parlò con Massimo?

Ma sì. Abbiamo avuto sempre un gran rapporto.

(...)

Nel '67 aprivo per i Rolling Stones. Ogni volta la stessa scaletta, puro show business. 

Che ricorda di Jagger?

L'odore che usciva dal camerino degli Stones. Non capivo. Era marijuana.

 A Sanremo lei è recordman di partecipazioni, tra gara e ospite.

Anche quest' anno siamo partiti con le polemiche, che sono il letame per nutrire poi la terra del Festival. Alla fine vincono le canzoni.

 Prima del trio con Morandi e Ranieri, lei azzardò arie d'opera con Domingo e Carreras.In Austria.

Un trionfo. Mancava Pavarotti, uomo squisito. Andai a trovarlo a Pesaro con Romina, Luciano era con Adua. Mai visto mangiare così tanto. E il lambrusco scorreva come acqua di fonte.

 Il 20 maggio festeggerà gli 80 anni all'Arena.

Meglio dire '4 volte 20'. Con tanti amici. Se sarà liberà, pure la signora Power.Sua figlia Jasmine è pronta per spiccare il volo nella musica. Non mi chiede mai consigli, è molto indipendente. L'unica volta in cui mi ha chiesto di cantare con lei è stato su Nessuno. Io: ma è un pezzo del '59. E Jasmine: 'Sì, ma piace a noi giovani'.

Jasmine Carrisi: «Papà Al Bano e mamma Loredana Lecciso hanno esagerato con il gossip. Con Romina non ho rapporti». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.

La figlia di Al Bano e Lecciso che sogna di fare la cantante: «Una situazione che mi ha sicuramente formato, mettiamola così, ma non è bello vedere certe cose» 

Figlia di Al Bano e di Loredana Lecciso, più di 200mila follower su TikTok, più di 100mila su Instagram, 22 anni. Jasmine Carrisi, chissà come mai, sogna di fare la cantante. Sorride: «Mio papà si meravigliava quando dicevo che volevo fare la cantante, ma dopo tutti i suoi concerti che mi ha portato a vedere...». Un destino segnato, ma anche ingombrante, con un padre che, volenti o nolenti, è una leggenda. «La passione per la musica ce l’avevo in casa, l’ho seguito spessissimo in giro con mio fratello, mi portava sempre, soprattutto se c’erano belle città che voleva farci visitare... per forza di cose mi sono innamorata di questo lavoro».

Cosa ha imparato ai concerti di suo padre?

«Mi fa effetto vedere la gente entrare in contatto sincero con lui, i fan che si infilano a forza in camerino per le foto, c’è una fusione tra lui e il pubblico che si percepisce subito».

C’è sempre una fase della vita in cui i figli si vergognano dei genitori, a lei è successo?

«Non porto un nome facile, non ho un genitore qualunque: vergognata mai, ma il peso l’ho sentito, quello sì».

Fare la cantante non aiuta, l’inevitabile paragone, la figlia di...

«In realtà sento la responsabilità perché penso che in ogni modo io mi esponga in quel momento sto esponendo anche la mia famiglia. Ma non lo sento come un peso in modo negativo, i paragoni con lui sono forzati, so che la mia musica è completamente diversa dalla sua».

I suoi brani sono tra il pop e la dance, quanto di più lontano dalla tradizione italiana. Le piace la musica di suo padre?

«Io spazio molto, ascolto di tutto, anche le sue canzoni».

Come papà che esempio le ha trasmesso? Cosa le ha insegnato?

«Papà ha un carattere molto determinato, mi insegna ad essere forte, ad affrontare i problemi senza avere ansie, mi insegna a essere pratica e non farmi mangiare dai problemi».

E come artista?

«Mi aiuta tantissimo vederlo sul palco, nei concerti osservo cosa fa, come intrattiene il pubblico, come si pone, l’esperienza live è un esempio incredibile».

Che consigli le dà?

«Se legge una mia intervista o ascolta l’esibizione di una canzone mi dà il suo punto di vista critico: questo andava bene, questo lo avrei fatto diverso... Nelle prime esperienze mi sentivo un pesce fuor d’acqua e lui era molto presente».

E lui le chiede suggerimenti?

«Mi chiede di fargli ascoltare la musica nuova, vuole sentire i sound che girano oggi per prendere qualcosa che gli piace e farlo suo».

I suoi genitori l’hanno ostacolata? Non le hanno detto, lascia perdere la musica, non è il caso...

«Finché frequentavo il liceo mi hanno sempre tenuta fuori, io volevo iniziare da piccola, ma loro mi dicevano di aspettare, che dovevo capire se era una vera passione. La frase che mi ripetevano era una: quando sarai maggiorenne vediamo se ne sarai ancora convinta. Mi hanno ostacolato per tutelarmi».

I suoi genitori sono stati spesso al centro del gossip, da figlia come l’ha vissuta?

«Non l’ho vissuta benissimo, mi pesava vedere i titoli di giornale, le copertine o le notizie in tv a volte esagerate. Mi faceva strano che tutti sapessero o presumessero di sapere quello che succedeva in casa. È sempre stato così fin da quando ero piccola, poi ci fai l’abitudine».

Dovevano essere più riservati?

«Avrei preferito che non circolasse nulla. Mi ha sicuramente formato, mettiamola così, ma da figlia non è bello vedere certe cose».

Una famiglia tipo squadra di calcio: Al Bano e Romina hanno tre figli, Al Bano e Loredana due, Loredana una con il compagno precedente...

«Siamo tanti, ma non c’è la concezione di Natale da famiglia allargata, quelle cose tipo le vacanze tutte insieme. Con gli altri miei fratelli ci viviamo in momenti diversi, anche perché abitiamo in posti diversi, siamo tutti sparsi».

Vede anche Romina Power?

«No, con lei non ho rapporti».

Il pregiudizio la insegue, con i social poi è molto esposta...

«Capita spesso sui social che dicano che fai schifo. Oggi riesco ad affrontarlo meglio, non ci do peso, so che litigare e rispondere è una battaglia persa».

Ci si abitua? Anche quando le parlavano del presunto ricorso alla chirurgia estetica?

«I primi tempi la vivevo male, mi pesava, poi smetti di dargli importanza. Una volta mi arrabbiavo e rispondevo a tono, soprattutto se venivano mosse accuse non vere, come quando dicevano che ero tutta rifatta. In quei casi litigavo. L’aspetto che mi ha sempre fatto effetto è che le critiche venissero da tanti adulti, persone che potrebbero essere mio padre o mia madre. Un ragazzo può essere immaturo, ma un adulto non deve...».

Ha subito più cattiveria da parte degli uomini o delle donne?

«Forse più dalle donne».

Lei sui social fa pubblicità ad alcuni marchi, è una buona fonte di reddito?

«Sicuramente sono soldi facili rispetto a chi si spacca la schiena al lavoro per un mese».

Sa qual è la prima ricerca su Google su di lei?

«Ho paura».

Tranquilla. Il fidanzato.

«Non c’è».

Chiedono anche dei suoi ritocchi...

«Il filler alla labbra e basta».

Con che modelli è cresciuta?

«Justin Bieber è stato il mio idolo, avevo poster ovunque, vedevo tutti i documentari su di lui; grazie a lui ho praticamente imparato l’inglese. E poi mi piaceva molto Ariana Grande».

E invece tra dieci anni dove si immagina?

«Spero di essere laureata. Sto studiando comunicazione online, ma me la sto prendendo con calma... E spero di lavorare, magari in televisione, e di aver fatto progressi musicalmente, di avere un mio seguito».

È un’epoca in cui si predica l’accettazione del proprio corpo, ma sui social il continuo ricorso ai filtri non fa apparire per quello che si è...

«La gente ormai lo capisce che si mette in mostra solo la parte più bella... Non sono contro i filtri o le applicazioni che ti modificano la faccia e ti fanno sembrare perfetta, però bisogna essere consapevoli che i filtri esistono e che tutto quello che si vede sui social è finto».

Lollobrigida, il racconto doloroso di Romina Carrisi: "Come ha visto morire mio nonno". Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

Il ricordo di Gina Lollobrigida, scomparsa lunedì 16 gennaio, riempie le cronache televisive. Si parla della sua morte anche da Serena Bortone, su Rai 1, a Oggi è un altro giorno, la puntata è quella di martedì 17 gennaio. Il cordoglio per l'addio alla grande attrice è unanime e palpabile. In molti vogliono offrire il loro personale ricordo.

E tra questi ricordi, ecco quello di Romina Carrisi, figlia di Al Bano Carrisi e Romina Power, ormai ospite fissa della Bortone, che ha svelato un aneddoto molto triste che le aveva raccontato proprio mamma, un aneddoto che riguarda ovviamente la Lollo suo nonno, Tyrone Power.

"Nel ’58 iniziarono le riprese di Salomone e la regina di Saba - ricorda Romina Carrisi -, soltanto che purtroppo il 10 novembre mio nonno ebbe un infarto e non c’era un medico sul set e Gina gli portò uno scialle per tenerlo caldo. Erano in Spagna vicino Madrid e faceva freddo poi lo portarono in ospedale, ma purtroppo morì nel tragitto". Un altro lutto, un episodio doloroso in cui Gina Lollobrigida aveva provato ad aiutare, a fare quel che poteva.

La Lollo fu scelta per Salomone e la regina di Saba nel 1958. Il volto maschile del film avrebbe dovuto essere proprio Tyrone, padre di Romina Power, ma a impedirgli il ruolo fu proprio la morte, che lo colse a soli 44 anni. Fu poi sostituito da Yul Brynner.

E ancora, sull'episodio Romina Carrisi aggiunge: "Morì con il suo scialle addosso. È un ricordo un po’ macabro ma io ci vedo anche un po' di romanticismo. Me lo ha raccontato mia mamma. Gli ha dato qualcosa di suo in un momento di fragilità", ha concluso Romina.

 Romina Carrisi, "Ricordo tutto": le ore della tragedia di Ylenia. Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

Il giorno che ha cambiato la vita di Romina Carrisi Power della sua famiglia. La figlia di Al Bano e Romina Power pubblica su Instagram un breve video: montagne innevate, su cui sventola la bandiera svizzera. Non è una semplice vacanza, una settimana bianca: al contrario, è un colpo al cuore, una drammatica Madeleine. La mente, spiega, corre sempre alla scomparsa della sorella maggiore Ylenia, di cui si sono perse le tracce ormai da 20 anni.

"Era gennaio 1994 quando avviene la tragedia che capovolse la mia intera esistenza", scrive la ragazza su Instagram. All'epoca Romina aveva solo 6 anni, ma ricorda ancora alla perfezione quei giorni di paura, di angoscia, di terrore, trasformatisi negli anni in dolore insopportabile, tra speranze e frustrazione. 

 "La mia sorella maggiore a 23 anni non dava notizie da giorni - si legge nel post -. I miei genitori decisero di andare a cercarla. 'Si, ma dove lasciamo le bambine?'. In quel viaggio io e Cristel non li potevamo seguire. Mio padre decise di chiedere questo piccolo grande favore a un suo amico che viveva in Svizzera. Era padre di 4 bambine più o meno nostre coetanee. Per 3 mesi io e Cristel vivemmo con loro. E’ stato con loro che imparai a sciare. Ogni mattina alle 7, scuola di sci. Piangevo per il freddo che sentivo ai piedi tutti i giorni, ma imparai a sciare. Ben 90 giorni dopo che i miei lasciarono me e Cristel con la nostra 'famiglia temporanea', mamma e papà tornarono. Li vidi ai piedi della montagna, il freddo improvvisamente sparì e sciai dritta nella loro braccia". 

 Con Al Bano e Romina non c'era Ylenia, inghiottita da New Orleans. Da allora, conclude Romina con una nota straziante, "Ogni volta che scendo una montagna ho questa immagine impressa nella mia memoria. Saranno pure passati 30 anni… Ma la memoria, lo sai, non possiede ne calendari, né orologi".

Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per repubblica.it domenica 5 novembre 2023.

Trentamila dollari al mese. E’ l’assegno che l’attore Al Pacino ha accettato di pagare alla madre del suo ultimo figlio, per garantirgli gli alimenti, anche se la coppia secondo i loro rappresentanti vive ancora insieme. Un segno di come cambiano i tempi, forse, oltre ovviamente alle peculiarità delle inimitabili vite dei ricchi e famosi. 

A giugno l’attore di 83 anni, e la sua compagna di 29 Noor Alfallah, sono diventati i genitori di Roman. Per Al si tratta del quarto figlio, dopo i tre avuti da due relazioni precedenti. A settembre la madre, che di mestiere lavora nel settore delle produzioni cinematografiche, ha avviato il procedimento legale per ottenere la ‘piena custodia fisica’ del figlio, concedendo però al padre ‘ragionevoli diritti di visitarlo’.

Secondo l’Huffington Post, un rappresentante dell’attore ha assicurato che i due sono ancora una coppia, ma lei intanto ha voluto tutelarsi con questo accordo. Così Pacino ha accettato di pagare 30.000 dollari al mese di alimenti, più 110mila dollari di bonus una tantum, 13.000 dollari per una tata notturna, e un deposito di 15.000 dollari all’anno per l’istruzione del bambino. 

Pochi possono permettersi un trattamento simile, e bisogna tenere ben presente l’unicità della condizione dei due protagonisti. Il padre infatti è un famoso attore premio Oscar, mentre la madre viene da una famiglia benestante e in passato è stata con altre celebrità, tipo Mick Jagger. […]

Estratto dell'articolo da lastampa.it il 31 maggio 2023.

Al Pacino diventa papà per la quarta volta a 83 anni, superando anche Robert De Niro che è diventato di nuovo padre a 79 anni. 

Tmz ha infatti rivelato che la sua fidanzata Noor Alfallah, 29 anni, è incinta di circa 8 mesi. I due si frequentano dall'inizio della pandemia. Prima della sua relazione con la star del cinema, Alfallah è stata legata sentimentalmente a Mick Jagger e al miliardario Nicolas Berggruen.

L'attore premio Oscar 1993 per Scent of a Woman ha già una figlia di 33 anni, Julie Marie, avuta con l'ex fidanzata Jan Tarrant, e due gemelli di 22 anni con l'ex Beverly D'Angelo. […]

Estratto dell'articolo di Giovanni Gagliardi per repubblica.it l'1 giugno 2023. 

La notizia che avrà presto un figlio è stata presa dall’83enne Al Pacino in modo tutt'altro che positivo. Secondo Tmz e Showbiz 411, la gravidanza della 29enne Noor Alfallah è stata una vera doccia gelata per l'attore, che riteneva impossibile poter mettere incinta una donna per problemi di salute e si è sottoposto al test del Dna.

[…]

I problemi di salute

"Gli avvocati ci stanno lavorando da mesi" dicono alcune fonti sottolineando che Al Pacino non può avere figli per un problema alla tiroide e, quindi, è rimasto "molto sorpreso" da questa notizia. 

"È un casino"

Inoltre, i due non solo non avrebbero una relazione, ma non avrebbero neanche cercato intenzionalmente di avere un figlio insieme: "È un casino", spiega Showbiz 411 aggiungendo che il rapporto tra i due era già finito al momento della scoperta della gravidanza, tanto che Noor non avrebbe comunicato la notizia all’attore per le prime 11 settimane. 

La verità

"Ci è stato detto che Al non aveva idea fino a 2 mesi fa che la ragazza fosse incinta - spiega Tmz - e quando lo ha scoperto è rimasto scioccato". Il sito conclude spiegando che Noor è stata obbligata a fare il test. E la verità è che, quello in arrivo, sarà il quarto figlio di Al Pacino.

Estratto dell'articolo di tgcom24.mediaset.it il 16 giugno 2023.

Al Pacino è diventato di nuovo papà. A 83 anni l'attore americano ha dato il benvenuto ad un maschietto con la sua giovane compagna Noor Alfallah, 29 anni. Ad annunciare la lieta notizia un rappresentante della coppia, che ad alcuni media americani ha rivelato anche il nome del neonato: Roman Pacino. I due, che si frequentano da poco più di un anno, avevano confermato di essere in attesa di un bebè solo il mese scorso. Alcuni scatti li hanno immortalati qualche giorno fa in auto con un seggiolino sul retro, sorridenti e rilassati.

Quarto figlio per la star

Al Pacino ha già altri tre figli avuti con due donne diverse: Olivia Rose e Anton James, nati nel 2001 dal suo rapporto con l’attrice Beverly D’Angelo (i due sono stati insieme dal 1997 al 2003), e una, Julie Marie, nata nel 1989, avuta con l'insegnante di recitazione Jan Tarrant. La precedente relazione sentimentale del divo è finita nel 2020. Era fidanzato con l'attrice Meital Dohan, che all'epoca aveva lamentato la rottura "perché la differenza d'età è pesante". 

Test di paternità

Stando a quanto rivelato da Tmz il divo è rimasto "scioccato e sorpreso" quando ha appreso della gravidanza di Noor Alfallah. L'attore era infatti certo di non poter più avere i figli a causa di un problema alla tiroide. Ma non solo. Pare che Al Pacino e Noor Alfallah non si frequentassero più da alcuni mesi. La donna gli avrebbe rivelato di essere incinta solo all'undicesima settimana di gravidanza: "Sapeva che Al non voleva avere altri figli", ha detto un insider al tabloid.

L'attore però ha voluto vederci chiaro e ha preteso da Noor il test di paternità, che ha confermato che il bebè in arrivo era suo.

[…] 

Una predilezione per gli uomini maturi

Noor Alfallah, classe 1993 originaria del Kuwait,  lavora come produttrice, si è laureata alla Cinematic School of Arts della University of Southern California prima di continuare i suoi studi all'Università della California di Los Angeles, dove ha conseguito un master in produzione cinematografica e televisiva, secondo Deadline. Nel 2017, ancora 22enne Alfallah ha cominciato a frequentare Mick Jagger, 74 anni […]

Nel gennaio 2019, Alfallah ha scatenato un altro gossip su una sua possibile relazione con Clint Eastwood (che ha recentemente compiuto 93 anni) dopo che sono stati fotografati insieme a Los Angeles. Voci che sono però subito state smentite: "Non c'è alcuna relazione", aveva dichiarato lei stessa al Daily Mail. […]

Estratto dell’articolo di Giulia Cazzaniga per “la Verità” lunedì 13 novembre 2023.

Ha tante voci, il mago Silvan al telefono. C’è quella morbida e suadente per l’incantesimo di chi lo ascolta, quella ferocemente sdegnata quando parla delle guerre in corso. È poi divertente mentre imita i dialoghi goldoniani per le vie della sua Venezia, che ama «visceralmente». 

Mitologico, senza date, non ha età e ci prega di non domandargliela. Ha viaggiato in ogni angolo del globo dove si è fatto conoscere e ha studiato i trucchi dei più grandi illusionisti della storia. Ha studiato «Ermete Trismegisto e testi che risalgono all’ellenismo», perché «i maghi nell’antichità facevano cose incredibili». […] All’anagrafe è registrato come Aldo Savoldello.

Ma c’è qualcuno che la chiama ancora Aldo?

«Ma certo, gli amici. Ci sono quelli sparsi in tutto il mondo e quelli a Venezia. Anche se qualcuno ogni tanto mi stupisce: sei diventato cosi famoso che ho avuto paura di salutarti. Ma scherziamo, quasi ci rimango male: sono sempre io, l’Aldo che a 11 anni si esibiva davanti a Orson Welles e in tutti gli oratori della città di fronte a un pubblico formato da genitori e sacerdoti. 

Duravano anche per più di tre ore consecutive i miei spettacoli di allora, sa? Ho grande rispetto per il pubblico. Dopo ogni mio spettacolo mi intrattengo sempre per almeno due ore a fare selfie. Che una volta erano cartoline autografate». 

[…]

Non basta la destrezza con le mani? Occorrono anche tanti libri?

«Posseggo 4.000 titoli: i libri sono la mia passione. La storia della magia ha anche una rilevanza storica e culturale da non sottovalutare. Certo, la pratica è importante. Ogni sera dedico ancora un paio d’ore all’allenamento. Per manipolare 140 carte da gioco con una mano serve un esercizio costante. Ma questo è richiesto anche negli sport, no? Per fare il mio mestiere serve però molto altro». 

Doti particolari?

«Quando si alza il sipario devo intrattenere e stupire la platea, e io non faccio né interpreto il mago. Lo sono. Questo è quello che cerco di trasmettere al pubblico, quando taglio una splendida ragazza in 8 pezzi, la faccio levitare a mezz’aria, la trasformo in una tigre, o compio degli esperimenti prodigiosi pseudo paranormali. Sono un po’ come il sacerdote, che sempre prete è, anche senza l’abito talare»

E un po’ psicologo?

«Non possiedo ovviamente doti paranormali, ma ho in effetti la capacità di influenzare psicologicamente il comportamento mentale di una persona». 

Come fa?

«Non basta sapere come funziona un trucco, per essere il mago. Occorre capire come funziona la mente umana, traendo a proprio vantaggio gli errori di ragionamento di idee abituali. Un esempio pratico: se per strada tagliassi una donna a metà mi ricovererebbero immediatamente al manicomio, ma se in un teatro reso soffuso dalle tenui luci, con l’ausilio delle note di un brano musicale di notevole drammaticità, la taglio in due o otto pezzi il pubblico applaude. Perché associa alla sua verità, alla sua cultura, ciò che è soltanto finzione teatrale». 

[…] 

E lei è mai stato in analisi?

«Mai nella vita. Anche se mio padre mi portò dallo psichiatra, allarmato da questa mia intensa passione per la magia. Si risolse subito, naturalmente. Qualche anno fa succedeva spesso però che le persone mi telefonassero o fermassero per strada per una sorta di seduta. Mi ritenevano evidentemente capace di comprendere le loro essenze. Fino agli eccessi delle signore che mi offrivano assegni in bianco affinché rivelassi loro se il marito le stesse tradendo».

 Credevano insomma che lei avesse dei poteri?

«Sarà che l’irrazionale ha enorme importanza in ciascuno di noi».

Vale per tutti, l’incanto?

«Ricordo un divertente episodio. Molti anni fa ero negli studi Rai a registrare i miei spettacoli televisivi Sim Sala Bim. Arrivò il momento di un numero in cui facevo levitare a tre metri di altezza la mia partner Evelyn Hanack. Immagini l’espressione del mio volto, la postura, la mia voce che intimava “ti stai sollevando”, la gestualità che assumevo durante l’esperimento. 

Al termine il famoso giornalista Ugo Zatterin - allora direttore del centro di produzione a Torino - piombò in studio ansante e trafelato, a portarmi un bicchiere d’acqua. Mi fece sedere, preoccupato per me, e chiedendomi per le supposte energie disperse se mi sentivo bene». 

[…]

All’Arlecchino di Milano qualche giorno fa erano applausi scroscianti e standing ovation.

«Magia. Si ripete sempre. È cultura, la magia. L’arte del reale che non è reale». 

Possiamo farne a meno?

«Non credo. Pensi che monotonia la nostra vita, se perdessimo la capacità di stupirci. D’altronde gli oroscopi si leggono ancora. C’è poi chi va a farsi leggere la mano, per sentirsi bene. Ovvio, sono cose molto diverse e distanti dalla prestidigitazione, ma hanno tutte a che fare con questa particolare attrazione che fa consistere l’essenza filosofica dell’uomo. Ciò che non si conosce, in un mio spettacolo sviluppa curiosità ed estasi. E la curiosità non deve essere mai appagata».

Le è mai successo di non comprendere un trucco di un altro mago?

«Raramente. Anche se la cultura magica è come una piantina, che cresce un poco alla volta dentro di te. Nonostante le mie letture e migliaia di esperienze magiche mi ritengo a metà strada della conoscenza». 

Legge anche testi che non hanno a che fare con la magia?

«Ho studiato anche le religioni. Ho avuto l’onore di intrattenere tre Papi, sa? Giovanni XXXIII, papa Luciani e papa Bergoglio, ai Giardini Vaticani». 

È cattolico?

«Ho fede in Dio perché non posso fare a meno di credere nell’ultraterreno. A volte sorge in me il bisogno di entrare e inginocchiarmi in una chiesa, anche se non le frequento tanto spesso». 

C’è qualcosa che stupisce il mago Silvan?

«Mi stupisce e mi incanta tutta questa tecnologia di oggi. Mio figlio che parla con l’orologio al polso e io che posso connettermi con gli amici di New York, Tokyo, Londra e Parigi in un attimo. Quelli della mia generazione restavano a bocca aperta per un film al cinema di James Bond o per la tv a colori… e guardi ora cosa sta accadendo». 

 Scienza e tecnologia non sono nemici del suo mestiere?

«No. Il rischio, temo però, è che si perda l’identità dell’uomo. Penso ad esempio alla intelligenza artificiale, che potrebbe anche scavalcare alcuni limiti importanti. Spero che nessuno pensi mai di potersi far suggerire quello che deve pensare».

Mago Silvan: «L’assistente perse la chiave e rischiai di soffocare nel baule. Ho assicurato le mani per 500 milioni di lire». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2023.

L’illusionista Aldo Savoldello: «Il primo frac me lo regalò re Umberto II di Savoia». Da bambino: «Mamma era convinta che fossi matto: mi portarono dallo psichiatra». Partner d’autore: «Ho fatto levitare Anna Falchi, Carmen Russo l’ho tagliata in due»

Sim Sala Bim. Ma cosa vuol dire?

«Non lo so, era il ritornello di una canzoncina danese anni ’40. Prima la mia parola magica era tactàc-serùmba-yamaclèr, l’avevo inventata io, sente come suona bene?».

Illusionista, mago, prestigiatore, manipolatore, che titolo gradisce?

«Illusionista. Ma anche mago può andare. E la magia è una forma d’arte, che crea l’illusione della verità, dove l’impossibile diventa possibile», spiega dotto Aldo Savoldello in arte Silvan, anni per vezzo mai dichiarati perché «un mago non ha età» e come contraddirlo. Con la chioma bruna («come la mia bisnonna Luigia, che morì a 104 anni e aveva ancora i capelli neri, la chiamavano nonna Mora») e la voce suadente con cui da sempre incanta il pubblico, mentre mostra una moneta, fa svolazzare le mani in aria, dorso, palmo, dorso, palmo, destra, sinistra, incrocio rapido di dita e voilà, non c’è più.

Ora anche commendatore della Repubblica italiana.

«Come mio padre Giovanni, capo della polizia lagunare di Venezia, fu nominato nel 1976 dal presidente Leone. Bello, alto, carismatico, era il sosia di Rodolfo Valentino, lo chiamarono a Hollywood, però alla fine non ci andò».

A 7 anni l’incontro con un mago di paese.

«Papà aveva una casetta a Crespano del Grappa, ci passavano le vacanze estive. Il sabato c’era la lotteria in piazza, primo premio un maialino vivo, la domenica il mercato delle mucche. Una sera, in pizzeria, l’attrazione era questo prestigiatore simpatico, con la marsina lisa, grande affabulatore, proponeva numeri con fiori finti e foulard. “Ehi tu, vieni qui”, mi disse. E mi porse delle monetine su un vassoio. “Prendile. Sono dieci giusto? Ora dammene tre che me le metto in tasca, così. Te ne restano sette, stringile forte nel pugno”. Pronunciò non so quale formula. “Ora ricontale”. Riaprii la mano e cominciai: “Uno, due, tre... dieci”. Di colpo fui invaso da un tremore, un’emozione forte che mi sembrava di volare. Era il bacillus magicus appena entrato in me».

E dove o da chi ha imparato tutto ciò che sa?

«Sono autodidatta. Studiavo su vecchi testi di magia comprati alle bancarelle dell’usato nel sestiere di Cannaregio. Mi rifilavano volumi di occultismo, stregoneria, teosofia, esoterismo, leggevo tutto». E intanto scendiamo per una scala a chiocciola fino al suo “antro magico” in cui pochissimi sono ammessi. Sugli scaffali oltre tremila libri e preziosi incunaboli di magia, antichi tarocchi, un raro automa del 1830 che fa un gioco di prestigio, un teschio parlante.

A casa non erano proprio entusiasti.

«Chiuso a chiave nella mia stanzetta rifacevo esperimenti appresi sui libri antichi, recitando le formule magiche. Il mio amico, figlio del farmacista, mi procurava i componenti chimici per l’autocombustione. Una volta mi sono bruciato le sopracciglia, un’altra ho dato fuoco alla tovaglia. Tramutavo l’acqua in vino per i miei sei fratelli. “Sto fìo ze mato”, sospirava mamma. Per disperazione papà diede fuoco alla valigia in cui tenevo tutti i miei giochi. E mi portò dallo psichiatra Cappelletti a San Servolo, «l’isola dei matti». Feci un trucchetto pure a lui. Tagliai in due una cordicella, me la misi in bocca e la tirai fuori intera. Il professore restò a bocca aperta. “Come hai fatto caro?”. “Sono un mago”. “Mi sa che hai ragione”».

Quando diventò un lavoro?

«A 18 anni vinsi Primo applauso, un programma della Rai presentato da Enzo Tortora e Silvana Pampanini. In gara con me c’erano Adriano Celentano e Peppino Di Capri, in giuria Carlo Dapporto e Vittorio De Sica. Presi tutti dieci sulle palette. Allora mi presentavo come Saghibù, dalle iniziali di Savoldello, Ghigi, grande ipnotizzatore, e Bustelli, famoso mago. La Pampanini mi consigliò di cambiarlo. “Troppo esoterico. Chiamati come me, ma senza la a: Silvan”. E così mi hanno conosciuto in tutto il mondo, a parte in Germania dove divento Zilvan».

Quanti numeri ha in repertorio?

«Centocinquanta grandi illusioni, e migliaia di giochi da salotto». Indica tre pile di libri sul tavolo. «Ne prenda uno a caso. Apra una pagina, scelga una parola». Eseguo. «Ora mi guardi negli occhi, io le leggerò nel pensiero». Mi fissa a lungo, poi scandisce la parola esatta, lettera dopo lettera. «È un esperimento unico al mondo, restò sbalordito pure Gustavo Rol».

Trucco preferito?

«Quello in cui tengo fino a 140 carte in una sola mano e le apro a ventaglio, eseguendo varie figure, sulle note del concerto n.21 di Mozart. Dura cinque minuti, piace moltissimo. Si pensa che il prestigiatore debba avere dita lunghe, non è così. Dipende dalla loro conformazione, dall’arco palmare e dall’estensione dei tendini».

Quanto e come si allena?

«Due ore ogni sera, davanti alla tv. Da ragazzo anche cinque, perché manipolavo le palle da biliardo o 16 sigarette accese. Prendo un foglio di carta, lo appallottolo, lo rilascio, ricomincio. E attacco dei pesetti alle dita — quelli di ottone della vecchia bilancia di mia madre — poi le alzo e le abbasso, a ripetizione».

Unguenti miracolosi, impacchi, massaggi?

«Nessuno. Però porto sempre i guanti».

Cose che non ha mai potuto fare?

«Sciare, andare a cavallo, affettare le verdure, ma tanto non so cucinare manco due uova. E non posso giocare a carte al casinò, sono schedato dall’Interpol. Solo dadi e roulette. Ho giocato un anno a Las Vegas, osservando la spinta che il croupier dava alla ruota, riuscivo a prevedere dove si sarebbe fermata la pallina. Vincevo».

Ha assicurato le sue mani?

«Certo. Un tempo per 500 milioni di lire».

Mai messo un paio di jeans in vita sua.

«Vero. Possiedo 36 smoking. Prima portavo il frac. Il primo mi fu regalato dal re Umberto II di Savoia. Mi esibivo al casinò dell’Estoril, in Portogallo. Una sera nel pubblico c’era anche lui, si divertì molto. L’indomani mi mandò il segretario per invitarmi a Villa Italia, a Cascais. Portavo un modesto vestito da sera di un sarto di Venezia. Rifiutai il compenso e mi esibii in uno spettacolo di 45 minuti. Alla fine Umberto II venne a ringraziarmi. E il giorno dopo mi rimandò lo stesso segretario con un pacco per me: dentro c’era un magnifico frac, cucito dal suo sarto personale».

Lo smoking ha tasche nascoste, maniche col doppio fondo?

«Nooo».

Quando è in scena non ha paura che qualcosa non funzioni, che il trucco non riesca?

«Non ho paura, ma timore, sempre. Succede che si inceppi un attrezzo, che accada l’imprevisto, ma il pubblico non sa mai cosa andrò a fare, perché non lo svelo in anticipo. Trovo una soluzione sul momento e nessuno se ne accorge».

Qualche volta che è andata proprio storta?

«Eseguivo il numero della donna tagliata in tre pezzi. La ragazza si mosse, la graffiai con la lama e lei quasi svenne. Mi fermai subito».

Meno male.

«O quando ero chiuso nel baule, ma l’assistente perse la chiave che avrebbe dovuto tenere in tasca. Dovettero chiamare un fabbro a liberarmi, stavo soffocando, me la sono vista brutta».

Chi le costruisce le attrezzature?

«Un falegname fidato e un fabbro di Borgo Pio, Antonio. Ognuno fa un pezzo singolo, quindi non hanno mai scoperto i miei trucchi».

Li ha mai svelati ad anima viva?

«Solo se costretto. Al teatro Sistina, per uno show con Ornella Vanoni, facevo apparire sei colombe bianche che tenevo qui in giardino. Arrivò la protezione animali, convinta che le schiacciassi, dovetti spiegare come facevo. O quando, nel 1982, mi esibii a Versailles per i sette Grandi della Terra: c’erano Ronald Reagan — a cui indovinai quanti soldi aveva in tasca — Margaret Thatcher, Helmut Schmidt, François Mitterrand, Giovanni Spadolini. La sicurezza fu inflessibile, smontarono tutti i miei marchingegni, pezzo a pezzo, svitarono anche le gambe dei tavolini».

Che numeri aveva proposto?

«Il baule della metamorfosi. Ci chiudevo dentro una ragazza, infilata in un sacco postale, serravo il lucchetto e ci giravo intorno delle catene. Poi salivo sul coperchio, si alzava un drappo e quando ricadeva la ragazza era al mio posto e io al suo, nel forziere con una sigaretta in bocca».

Altre diavolerie?

«La testa galleggiante, che si separa dal corpo e si posa su un armadio. A Sanremo feci sparire 25 persone in diretta tv. Anna Falchi l’ho fatta levitare. Carmen Russo e Gabriella Carlucci le ho tagliate in due con la sega circolare. Raffaella Carrà si sdraiava sulle punte di tre scimitarre. “Mi raccomando eh”, mi diceva ridendo, ma non aveva paura, la adoravo».

Si è esibito per tre pontefici.

«Papa Roncalli, Papa Luciani e Papa Bergoglio. Roncalli era stato patriarca di Venezia, amico di papà, lo conobbi da bambino. Mi raccontò che San Giuseppe era un mago e che, durante l’Esodo, faceva l’astrologo, narra la Bibbia».

E Papa Francesco?

«Ho fatto uno show per tremila persone nei giardini del Vaticano, eseguendo l’esperimento di levitazione della mia assistente Sveva, mia nuora. Lui è stato squisito, ci siamo parlati in spagnolo. “Ma come fa?”, mi ha chiesto».

Conquistò sua moglie Irene, scomparsa due anni fa, con un gioco di prestigio.

«La conobbi a Londra, frequentava la Saint Martins, scuola esclusiva di arte e design, e vendeva oggetti per beneficenza . Portava al collo un vassoio con sopra un cappello a cilindro. “Sono un mago”, dissi. Lo presi, lo voltai e feci apparire una rosa. “Questa è per te”. Non ne voleva sapere, all’inizio. Suo padre ancora meno, convinto che gli italiani fossero tutti playboy. Ero già socio del Magic Circle, club serissimo, ne fa parte Carlo d’Inghilterra, appassionato prestigiatore, come Dwight Eisenhower e Orson Welles».

Pensa mai di riporre i trucchi nel baule?

«Mai. Il grande John Calvert andò in scena al Palladium di Londra fino a cent’anni».

Giacomo Poretti: "Pensavo che Tafazzi fosse un insuccesso, Veltroni mi fece cambiare idea. Comici di destra? Non ce ne sono". Michele Brambilla su La Repubblica il 25 Maggio 2023 

L'artista milanese ricorda com'è nato il personaggio simbolo della sinistra autolesionista. "Tutti mi dicevano che non funzionava, ma quando finì sulla prima pagina dell'Unità capii che non era vero"

Giacomo Poretti da Busto Garolfo, 67 anni, Giacomino per l'anagrafe (“Al battesimo il prete disse a mio padre: questo qui non supera il metro e mezzo, lo registriamo con l'ino finale”) lo incontriamo alla Cascina Cuccagna, Porta Romana, ovviamente Milano. A poche decine di metri c'è il Teatro Oscar, che con grande lungimiranza lui ha rilevato e aperto un attimo prima che chiudessero l'Italia per Covid.

È l'uomo che - suo malgrado, come poi ci spiegherà - ha inventato il personaggio simbolo del masochismo di sinistra: Tafazzi. E dalla sinistra certamente Giacomo proviene, anche se oggi è più vicino al mondo cattolico. 

Giacomo, ma è vero che anche i comici (oltre che gli scrittori, gli attori, i registi, i cantanti eccetera) sono tutti di sinistra? C'è pure l'egemonia della risata?

“Un po' sì. Ma non c'è stata nessuna prevaricazione. Se i comici che hanno avuto successo sono tutti di sinistra, forse è perché la destra non ha saputo produrre nulla di meglio”.

Giacomo, cominciamo dal Derby di via Monte Rosa a Milano?

“Cominciamo dal Derby. Io e i miei due soci, Aldo e Giovanni, abbiamo appena registrato un documentario, sul Derby. Lo trasmetterà la Rai in autunno”. 

Primissimi anni Sessanta: chi c'era?

“Gaber, Jannacci, Dario Fo, Strehler, la Vanoni, Toffolo, Andreasi, Faletti, Cochi e Renato, Paolo Rossi, Franco Nebbia...”. 

Aldo dice che quando c'era Franco Nebbia non si vedeva niente.

“Ah ah... Aldo e Giovanni hanno fatto in tempo a lavorarci, al Derby. Millenovecentottantadue. Si esibivano in coppia, si facevano chiamare I Suggestionabili”. 

E lei?

“Anch'io lavoravo in coppia: con Marina Massironi. Facevamo Hansel & Strudel. Nel luglio 1986 facemmo un provino con Arturo Corso, direttore artistico del Derby. Ci disse: bravi, vi prendiamo, cominciate in settembre. In agosto il Derby chiuse”.

Così finiste allo Zelig.

“Viale Monza. Un locale stretto e lungo. Marina ed io facemmo qualche serata alla fine degli anni Ottanta. Poi nel 1992 nacque il Trio: Aldo, Giovanni e Giacomo. Ma non ci chiamavamo così. Il primo nome fu demenziale: Galline vecchie fan buon brothers. Esordimmo al Caffè Teatro di Verghera di Samarate, il paese natale di Bossi”. 

Soldi?

“Il padrone del locale, Maurizio Castiglioni, ci disse: in sala ci stanno centocinquanta persone, faccio cinquemila lire a biglietto, l'incasso è tutto vostro, io mi tengo le consumazioni. Ma noi a un certo punto dovemmo prendere anche un paio di musicisti e insomma, eravamo in bolletta”. 

Il suo esordio personale fu fortunato come quello al Derby.

“Mi ero rotto tibia e perone giocando a pallone il giorno prima e mi presentai sul palco con il gambone di gesso. Aldo e Giovanni usavano la ruota della mia carrozzella per fare il verso alla Ruotona della Fortunona di Indietro Tutta, il programma di Renzo Arbore”. 

Insomma: di sinistra o no, bisognava fare la gavetta.

“La fame, non la gavetta. A un certo punto Castiglioni mi trovò uno spettacolo al Sud e mi accompagnò in treno perché io avevo ancora il gambone. In albergo eravamo ospiti degli organizzatori e credevamo fosse tutto compreso. Stappammo una bottiglia che c'era nel frigo bar e ci partì tutto l'ingaggio della serata”. 

Passione o incoscienza?

“Tutte e due. Una sera del 1987 andai con Marina a Groppello, provincia di Pavia. Discoteca Chewing Gum. Ci avevano offerto seicentomila lire, per noi era una cifra enorme. Entriamo e c'è una musica infernale: bum-bum-bum. Arriva il padrone, spegne la musica e annuncia: ecco a voi Hansel & Strudel. Entra Marina e cominciano a insultarla: Tr... Nu-da! Nu-da! Lei scoppia a piangere e scappa da me, che ero ancora dietro le quinte. Le dico: 'Tranquilla Marina, tranquilla: ci penso io. Lascia fare a me'. Entro e il pubblico impazzisce: 'Nano di m... Vai fuori dalle balle!'. Alla fine andiamo dal padrone per farci pagare e questo ci caccia a pedate: 'Volete anche i soldi?'. Io sono finito dallo psichiatra”. 

Il successo arrivò a metà degli anni Novanta con "Mai Dire Gol".

“Il successo sì, la grana no. Ci davano 240.000 lire lorde in tre a puntata. Giovanni voleva scioperare. Ma Paolo Guerra, il nostro manager, ci disse: ragazzi pensateci bene, qua avrete una visibilità pazzesca”. 

Aveva ragione?

“Eccome. Una sera, che ricordo benissimo perché era il mio compleanno, mi inventai il personaggio di Tafazzi, un supereroe che si dava le bottigliate sui cosiddetti. Torniamo a casa e Giovanni mi dice: Giacomo, non ti offendere, ma quel personaggio lì te lo sei giocato male”. 

Che amico, eh?

“La mattina dopo dovevamo raggiungere Palermo e ci ritrovammo sotto casa sua per andare all'aeroporto. Giovanni cominciò così: senti Giacomo, l'ha detto anche mia moglie che ci ha visti in tv, è meglio che lasci perdere. E io: a me l'ha detto un' amica, non funziona. Atterrati a Palermo ci arriva una telefonata: guardate che c'è Walter Veltroni che cerca Giacomo. Veltroni era, allora, direttore dell'Unità. Mi disse: 'Ma che trovata geniale! Avete saputo rappresentare la sinistra di oggi, che si fa male da sola. Domani pubblico in prima pagina un pezzo di Sandro Veronesi'”. 

Ma lei aveva pensato di rappresentare la sinistra?

“Ma neanche per sogno. Però Tafazzi è diventato l'icona della sinistra autolesionista. Ed è finito anche sullo Zanichelli”. 

La sinistra è ancora oggi tafazziana?

“Beh, veda lei. Renzi e Calenda da dove vengono? E le correnti del Pd che litigano fra loro?”. 

Non ci sono comici di destra?

“Non me ne vengono in mente”.

Vianello e Fabrizi?

“Altra era geologica. E comunque loro furono la prova che, se uno di destra è bravo, non c'è niente e nessuno che gli possa impedire di avere successo. Decide il pubblico”. 

Non ci sono state vie preferenziali per i comici di sinistra?

“Ha sentito quanto tempo ci si metteva, in quegli anni, per arrivare a campare? E comunque ripeto: il successo lo può decretare solo il pubblico. Ripensiamo ai nomi che abbiamo fatto all'inizio, quelli del Derby. Sono i miei maestri, i maestri di tutti noi. Ed erano tutti di sinistra. Li mise il partito, dentro il Derby? Fu il partito a ordinare gli applausi? O fu il talento? La verità è che quella era una generazione incredibile”. 

Nel suo teatro, l'Oscar, lei sta mandando in scena due spettacoli di Dario Fo: Mistero buffo e Lu santo jullare Francesco. Perché?

“Perché ho l'impressione che la sinistra abbia un po' dimenticato Dario Fo. E ho la presunzione di pensare che il giullare abbia ancora un ruolo”. 

Una risata vi seppellirà?

“Io credo che in un momento come questo i comici abbiano la possibilità di svolgere un grande ruolo. Facendo ridere, possono comunicare anche cose molto alte. Possono dire cose che la politica non riesce più a dire. E la gente li ascolta più volentieri”.

 

Giovanni Storti: «Amo ancora far ridere, ma ora penso (tanto) alle mie barbabietole social». Lorenza Cerbini su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Mentre esce nelle sale l’ultimo film - «Il grande giorno» - di Aldo Giovanni e Giacomo, l’attore del trio racconta (“insegna”) la natura su Instagram: «Ho 375 mila follower parlando di verdura. Incredibile...»

Giovanni Storti, lei è “l’uomo che accarezza il basilico”?

«Beh, è un modo per avvicinarmi il più possibile alle piante. Le guardo, le studio per cercare di capire come si approcciano al mondo. Le piante non si muovono, non respirano, non mangiano come pensiamo. Vedono il mondo in un modo diverso, a noi così clamorosamente sconosciuto».

Cappello di paglia in testa, felpa e jeans. In mano due finocchi che ha appena colto. L’attore milanese si trova in mezzo a un campo. Registra un video per il suo profilo Instagram. Giovanni Storti, artista, naturalità/benessere , così si presenta. Poche parole in cui detta i termini della sua comunicazione, non un professore, ma un comico che attraverso la professione del sorriso invita a uno stile di vita in sintonia con la natura. Qualche foto, tanti video. Storti guarda con orgoglio quei finocchi dai pennacchi tanto folti e lunghi da far invidia ai bersaglieri. «Sono una verdura sottovalutata come Paolo Rossi ai Mondiali dell’82», dice.

Quindi, ne esalta le qualità.

«Il finocchio è ricco di sali minerali, vitamina C e fibre. Povero di grassi, stimola l’appetito, è anche digestivo».

Poi, l’aneddoto.

«Il termine infinocchiare? Nelle locande, quando si dava agli avventori cibo e vino un po’ scadente, si metteva dentro tanto finocchio. Molto aromatico, copriva i cattivi odori».

Nei suoi sketch parla di alberi e natura. C’è comicità e tanta passione. Un amore nato di recente?

«No, da adolescente. Mi piace stare nei boschi e osservare. Un interesse acuitosi negli ultimi anni, dopo incontri con il botanico Stefano Mancuso».

Eppure lei è di Milano.

«Milano è la città dove sono nato, ma fino a quindici anni passavo tutte le estati in montagna, sopra Lecco e lì si vive in modo selvaggio, perdendosi nei boschi, arrampicandosi sugli alberi».

Una casa nella campagna del Monferrato, è il suo “buen retiro”?

«È un luogo di mezze colline dove andavo a correre. Poi, un contadino ha deciso di estirpare il suo vigneto e con mia moglie Annita abbiamo acquistato quel terreno e iniziato a trasformarlo. Abbiamo messo arnie, sono arrivate le api, abbiamo piantato alberi da frutto».

Di quanti ettari dispone oggi?

«Sei e coltivandoli in due non sono pochi».

Che tipo di alberi ha inserito?

«Negli anni ne abbiamo piantati circa 200. Querce e carpini, poi le acacie che crescono da sole, oggi formano due boschetti, luogo prediletto dalle api. Abbiamo messo a dimora meli e peri di varietà antiche e alcuni corbezzoli. Poi, altre piante che fanno gruppo, sinergia tra di sé, scambiandosi sostanze nutritive».

È nella campagna del Monferrato che crea i suoi video?

«Sì, con l’aiuto di mia moglie, davvero brava come cameraman. Usiamo il cellulare, poi mandiamo i video in agenzia per taglio, montaggio e pubblicazione».

Dal suo grande rispetto per la natura è nato il progetto ‘Giova Loves Nature’, presentato nei social del trio di cui fa parte. Poi lo spin off, strategia?

«Era un progetto del tutto personale. In agenzia mi hanno suggerito di tenerlo separato e ho seguito le indicazioni».

Pochi mesi ed è già seguito da 375 mila follower. Si aspettava un successo di questo tipo?

«No, davvero. Il mio scopo è usare la comicità per entusiasmare la gente e farla innamorare della natura, far capire quanto sia importante rispettarla, amarla e curarla».

Attore, comico e adesso anche contadino 5.0. Che tipo di agricoltura pratica in Monferrato?

«Sperimento. Sono passato dalla biodinamica “home made” al tentativo di fare un’orto senz’acqua. Mi sono messo alla prova nell’“agricoltura del non fare” studiando i principi del microbiologo giapponese Masanobu Fukuoka. Oggi, curo la terra lasciandola senza troppe intromissioni».

In tutto questo, ha ottenuto la maggior soddisfazione da quali specie?

«Barbabietole, rafani e pure da tre mandorli che fanno frutti buonissimi nonostante questa pianta si adatti meglio alla Sicilia che al Piemonte. Forse, una conseguenza dei cambiamenti climatici».

Nei suoi video indossa spesso t-shirt con l’immagine del ranger Tex Willer, un omaggio?

«È il mio mito. Un uomo incredibilmente generoso, giusto, coraggioso, ottimista. Leggo le sue storie da quando ero bambino. Ospite in redazione da Bonelli Editore, ho chiesto delle magliette. Mi è sembrato l’abbigliamento estivo migliore per raccontare la natura. La stessa irreprensibilità di Tex verso la vita bisognerebbe usarla nei confronti di Madre Terra. Invece, si tende a distruggere».

Immagino, abbia tutta la collezione di Tex in casa...

«Per questioni di spazio, ogni tanto ne vendo una parte, di solito al negozio di fumetti di via Volta».

Arriva nelle sale cinematografiche il suo ultimo film con Aldo e Giacomo per la regia di Massimo Venier. ‘Il Grande Giorno’ affronta il tema del matrimonio già ricorrente in uno dei vostri più grandi successi ‘Tre uomini e una gamba’. Un revival?

«In Tre uomini e una gamba le nozze erano una meta. Adesso, passato tanto tempo, ci troviamo davanti alla gioia potente del coronamento dell’amore dei nostri figli anche se quel matrimonio sembra più appartenere ai genitori e questo creerà tanti problemi».

Un mezzo per parlare dell’egocentrismo umano?

«Anche, il mio personaggio è un padre che pensa in grande, vuole mostrare quanto ci tenga all’unione della figlia con il figlio del suo migliore amico che è anche il socio in affari. Un uomo che ci tiene a mostrare cosa ha realizzato nella vita. Giacomo invece, soffre di questo, la gestione del denaro è sua e si crea un enorme contrasto tra i due. Arriva Aldo e come un uragano distrugge i sogni di uno e dell’altro, creando un gran pasticcio».

L’amicizia dura per sempre?

«In genere c’è sempre qualcosa che la fa mandare gambe all’aria, ma è possibile che vada avanti all’infinito».

Dove è stato girato questo film ricco di comicità e pure di panorami mozzafiato?

«In giugno e luglio sui luoghi del Lago Maggiore, a Bellagio, ma anche in provincia di Milano e a Cassano d’Adda».

È difficile oggi far ridere?

«Con Aldo, Giacomo e Venier, con cui abbiamo realizzato alcuni dei nostri più grandi successi, non ci poniamo mai questa domanda».

È appena iniziato l’inverno, come sarà in base al nocciolo dei suoi cachi?

«Tutti quelli che ho tagliato in due mostrano o il cucchiaio o il coltello, mai la forchetta. Sarà dunque un inverno freddo o freddissimo».

Per spiegare che nei mesi freddi anche le formiche vanno in letargo, racconta la storia della cicala che canta all’infinito e della formica risparmiosa e accumulatrice. A quale dei due animali assomiglia di più?

«Decisamente sono un mix».

Ricorre spesso alla mitologia. Uno stratagemma?

«I miti classici mi affascinano. Greci e romani ne hanno inventati di belli. Cerco e propongo le storie che mi fanno più sorridere come quella di Nea. Era una ninfa della dea Artemide e si trasformò in castagno per sfuggire a Zeus e non perdere la verginità. Da qui l’origine della parola casta».

Nei suoi video rivela un lato sconosciuto, da poeta ermetico. Colpisce un suo verso così intimo: “Il pero disse alla pera: però”. Ne ha altri?

«Così su due piedi... Cerco nella comicità di arrivare all’essenza delle cose, le metafore stringate fanno ridere».

E il romanticismo del sambuco che ama vedere le stelle?

«Tutto vero, i fiori di questa pianta restano aperti anche di notte, sono un firmamento di stelle senza spazio vuoto».

Ha un orto anche a Milano?

«In terrazza. È successo che mangiando del cocomero, abbia gettato i semi in un vaso. È nata una pianta che ha dato persino un frutto. Magia».

Pratica Thai-chi, incide nella sua relazione con la natura?

«Invita alla meditazione, alla tranquillità, a vedere oltre le apparenze. La verità è sempre un po’ nascosta, il Thai-chi è un mezzo per fare chiarezza verso se stessi e quello che ci circonda».

È anche un cicloturista. Usa la bici per gli spostamenti quotidiani?

«Spesso, in città e in campagna. Ho fatto lunghi viaggi in bicicletta: da Milano a Roma; da Vienna a Milano. Ha iniziato mia moglie con un’amica. Mi sono aggregato».

Il prossimo viaggio?

«A piedi, nel parco Nazionale dell’Abruzzo per osservare da lontano gli orsi».

Usa davvero le zucche per allenarsi?

«Servono per fare ginnastica, al posto dei pesi. Si parte da quella più leggera e poi si prende quella più pesante».

Il regalo di Natale che suggerisce?

«Donate e piantate alberi. Siate consapevoli che sono la salvezza dell’umanità».

Ale e Franz: «Molti pensavano stessimo insieme anche nel privato. Ma il nostro matrimonio funziona perché non è consumato...». Chiara Maffioletti su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023

I due comici lanciati da Zelig si raccontano a tutto tondo: «Il nostro mito? Paolo Rossi»

Una sera di alcuni anni fa, alla fine di un loro spettacolo, una ragazza è entrata nel camerino di Alessandro Besentini e Francesco Villa — per tutti, più semplicemente Ale e Franz — e li ha guardati dritto negli occhi. «Ci ha detto: “Comunque io l’ho capito eh”. “Capito cosa?”, le abbiamo risposto. E lei: “L’ho capito che siete una coppia, insomma che state insieme... davvero si nota tanto”. “Beh, se lo hai capito tu allora regalaci qualcosa per la casa”».

Se non è amore, quello che da 28 anni lega questi due comici milanesi, poco ci va lontano.

Ale: «Di certo tra noi traspare un certo affetto, ma ci si ferma anche lì eh. Però di gente convinta che stessimo insieme, negli anni, e che ce lo ha detto con una sicurezza invidiabile ce n’è stata parecchia».

Franz: «Si diceva anche di Stanlio e Ollio, infondo. L’affiatamento è una base su cui costruire tutto il resto».

Amici, quasi fratelli nella vita, legati come fossero un unico nome in scena, Ale e Franz hanno conosciuto il successo più clamoroso, diventando dei pilastri di una trasmissione come «Zelig», dove li abbiamo visti — nei panni di due gangster o seduti su una panchina — segnare la storia della comicità milanese, ma non solo.

Se dovessimo raccontare l’inizio della vostra storia?

Ale: «Ci siamo conosciuti al Centro Teatro Attivo, a Milano, quando eravamo molto giovani: io avevo 21 anni, lui 25. Andavamo d’accordo, ridevamo per le stesse battute... ci hanno suggerito di provare a lavorare assieme e ci siamo detti: se va bene va bene, se va male pazienza».

È andata bene.

Franz: «Molto. Anche se abbiamo la consapevolezza di aver vissuto un momento davvero bello della comicità, che non c’è più. Non c’è rimpianto, ma il mondo si evolve e si avverte anche nel nostro lavoro. Venivamo dall’idea che nella comicità servisse lo studio, adesso si ride su TikTok per uno che si tuffa sul ghiaccio piuttosto che per chi fa una battuta. Va bene, solo abbiamo sperimentato qualcosa di differente».

Ad esempio?

Ale: «Al Cta passavano un sacco di comici che stimavamo un sacco, li vedevamo lavorare. Natalino Balasso teneva un laboratorio domenicale, lo frequentavamo con grande impegno e dopo un po’ abbiamo deciso di provare a scrivere il nostro spettacolo, ci abbiamo messo mesi».

Franz: «Il nostro mito, quello forse fra tutti a noi più vicino, era Paolo Rossi, un vero riferimento. Eravamo appena arrivati a Zelig, al locale, e io e Ale stavamo appunto scrivendo quello che poi avremmo portato in scena. Nel vuoto, a un certo punto passa lui, Paolo Rossi. Aveva un appuntamento di lavoro e vedendo le luci accese era entrato nel teatro. Non so se si riesce a immaginare come siamo rimasti noi vedendolo».

Lo avete fermato?

Franz: «Subito. Gli abbiamo anche detto che stavamo scrivendo questa cosa e se poteva dirci cosa ne pensava. Lui ci ha ascoltati e alla fine ci ha detto: mi piace quello che volete raccontare».

Meglio di un diploma, insomma.

Ale: «Sì. Da lì a poco cambiarono molte cose. Zelig era un luogo dove se funzionavi bene, se avevi anche un po’ di costanza, allora potevi crescere davvero tanto. Era un palco che ti restituiva moltissimo, non solo a noi, ma a tutti i comici che sono passati di lì: era uno scambio di opportunità».

Grazie a quello scambio, avete conosciuto il grande successo.

Franz: «Sì, è così. Anche se ci sono degli episodi che ho nella mente a cui penso sempre quando si parla di successo. Ad esempio, non dimenticherò mai una serata, agli inizi, quando le cose andavano proprio bene. Dovevamo fare uno spettacolo con diversi altri comici, tra cui Aldo, Giovanni e Giacomo: erano al top della loro esplosione. Eravamo in un palazzetto dello sport e ricorderò per sempre il fragore delle risate del pubblico quando loro erano sul palco: si avvertiva proprio lo spostamento d’aria per via dei boati delle risate... non credo lo dimenticherò mai. Qualche anno prima, una regista ci aveva portati a vederli al locale dello Zelig e non eravamo riusciti a entrare per tutta gente che si accalcava. Lei allora ci ha fatto fare un giro per farci affacciare da una finestra, dall’esterno, e vederli da lì. “Imparerete qualcosa in ogni caso”, ci disse».

E così è stato.

Ale: «Nella nostra prima edizione televisiva di Zelig facevamo i due gangster andando in onda dopo mezzanotte, eppure la prima avvisaglia che le cose stavano cambiando l’abbiamo avuta poco dopo, quando in un tour in collettivo, davanti a una platea di più di 20mila persone, ci acclamavano tipo curva dell’Olimpico».

Cosa funziona nel rapporto tra voi?

Ale: «Franz è già di suo un personaggio, con tutte le sue manie, le sue metodicità... è molto preciso, al contrario di me. Di solito si va d’accordo quando il difetto di uno è compensato dalle qualità dell’altro e direi che tra noi va così».

Franz: «Una nostra grande qualità è che ci stimoliamo sicuramente a vicenda e poi che finita una cosa si gira pagina per entrambi e ci si rimette in gioco. Con mille dubbi e anche con le incertezze che avevamo quando facevamo le prime serate nelle birrerie e ci davano un solo microfono anche se eravamo in due... quella che si dice la gavetta... però ti premetteva di fare esperienza. Oggi vedo invece un sacco di gente inesperta proposti davanti a pubblici immensi, anche di milioni di persone e lì si provano emozioni che, invece, solo l’esperienza ti insegna a gestire».

Siete mai stati in disaccordo su alcune scelte artistiche?

Ale: «Non è mai successo, forse perché abbiamo creduto sempre che quello che presentiamo al grande pubblico va prima ponderato bene e valutato poi messo in scena con la convinzione di entrambi: se non ne ridiamo noi è difficile trasmettere qualcosa».

Franz: «Al tempo stesso, però, abbiamo fatto anche uno show sull’improvvisazione, “Buona la prima!”. La prima volta però è stato tutto involontario: stavamo registrando delle puntate di Zelig, facevamo il nostro noir ed eravamo proprio cotti per via dei ritmi. A un certo punto, non ci siamo più ricordati niente, ma proprio niente. E abbiamo iniziato a improvvisare. Siamo andati avanti per dodici minuti, si trova ancora il video sul web».

Cosa rappresenta il cinema per voi? La sensazione è che ci sia ancora dell’inespresso: è così?

Franz: «C’è dell’inespresso, c’è il desiderio di raccontare cose che con la maturità stanno affiorando. Certo, anche il cinema sta radicalmente cambiando la propria funzione comunicativa, in tutto il mondo, non solo da noi. Ma ci piacerebbe tornare a fare film, la sentiamo come una cosa molto vicina a noi».

Ale: «Abbiamo avuto delle bellissime esperienze, anche con grandi registi come Salvatores, in Comedians, ma non siamo ancora usciti dall’ottica di progettare un film nostro. Sono anni che abbiamo in mente qualcosa e anche se forse oggi sarebbe forse un po’ imprudente, perché non abbiamo un grosso posizionamento al cinema, comunque non è una cosa che abbiamo abbandonato. Assolutamente. Ci stiamo anzi pensando seriamente adesso, in questo periodo».

Passiamo al lato umano: siete uno per l’altro la prima persona che si chiama quando succede qualcosa che non va?

Ale: «Certo. Dopo tanti anni insieme in questo lavoro, ognuno di noi ha confidato e portato anche nel nostro rapporto quello che gli succedeva nella vita, nel bene e nel male. Abbiamo condiviso tutto come due fratelli, più che due colleghi: passando così tanto tempo assieme, anche fuori casa, in tournée lunghissime, si arriva a una completa confidenza. Sentimentalmente ho fatto più danni io della grandine e lui mi dava i consigli... da che pulpito poi...».

Franz: «Sì, in effetti non è che su quel fronte io sia molto meglio di lui. Siamo diversi ma anche molto simili. Ale è una persona che mi fa sempre molto ridere, anche fuori dal palco. Il comico vero è quello che sa cogliere la comicità che c’è attorno a noi, trova battute nelle situazioni più impensabili, non perché deve far ridere, ma perché deve dirle. Una volta eravamo in aereo e stava passando la hostess con il carrellino del cibo. “Hai fame”, gli ho chiesto. E lui: “Mi viene fame in montagna figurati se non mi viene a 16mila metri di altezza”. Ecco, essere un comico è un modo di vivere e lui lo è».

Mai pensato di vivere assieme?

Ale: «Ma noooo, ci ammazzeremmo. Con tutto il tempo che passiamo assieme ci manca solo rientrare in casa e ritrovarci anche lì. Sarebbe difficoltoso».

Franz: «Il nostro matrimonio è riuscito perché non è stato consumato. Forse il segreto per far funzionare i matrimoni è proprio non consumarli».

Dei giovani comici hanno mai detto a voi quello che voi avevate detto a Paolo Rossi?

Ale: «Succede, sì. Così come avverto che anche io non ho più quell’incoscienza che avevo all’inizio, che aiuta tanto a buttarsi, a provare, a non aver paura di fallire. Ma compenso con l’esperienza, che all’inizio non c’era».

Franz: «Arrivano tanti ragazzi a dirci: “ Grazie, siamo cresciuti con voi”. È successo a una generazione di loro. Del resto, per Sanremo con 12milioni di spettatori si è parlato di ascolti record, ma ogni puntata di Zelig arrivava a farne almeno dieci... un altro segno che il tempo è cambiato. Oggi la parola d’ordine è la trasgressione ma con un significato così ridimensionato... vedo solo un gran bisogno di apparire che svuota il termine stesso del suo valore. Ancora una volta mi torna in mente Paolo Rossi, un uomo che ha vissuto qualsiasi esperienza, e che dice: oggi la vera trasgressione è rimanere lucidi».

Alec Baldwin, la procura lascia cadere le accuse per la sparatoria sul set del film Rust. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2023

Se fosse stato riconosciuto colpevole rischiava 18 mesi di prigione 

La procura del New Mexico ha deciso di far cadere l’accusa di omicidio colposo nei confronti di Alec Baldwin . Soddisfatti gli avvocati della star che hanno diffuso la notizia: «Incoraggiamo un’indagine come si deve sui fatti e le circostanze di questo tragico incidente». Baldwin era stato incriminato in gennaio per la morte della direttrice della fotografia Halyna Hutchins sul set del film Rust. Se fosse stato riconosciuto colpevole rischiava 18 mesi di prigione.

Al momento restano in piedi le accuse contro l’armiera del film, Anna Gutierrez-Reid. Questo offrirebbe ai procuratori l’opzione di tenere aperta l’inchiesta sulla morte della Hutchins. La cineasta era stata colpita da un proiettile letale partito dalla pistola vintage che Baldwin teneva in mano durante una prova. 

Dovrebbero intanto riprendere domani le riprese del film interrotte dal giorno della tragedia: una pura coincidenza temporale con la decisione della procura di lasciare cadere le accuse. Si girerà in Montana con Baldwin ancora nella parte del protagonista, Joel Souza come regista e Matthew Hutchins, il vedovo di Halyna, a bordo come produttore esecutivo. 

Sia Baldwin che la Gutierrez-Reed and si erano dichiarati non colpevoli. L’attore, in una intervista a caldo con la Abc poche settimane dopo il tragico evento, aveva insistito di non aver premuto il grilletto della pistola.

Alec Baldwin incriminato formalmente di omicidio per la morte sul set di Halyna Hutchins. su La Repubblica il 31 gennaio 2023.

La tragedia durante le riprese del film western 'Rust'. L'attore sparò con una pistola di scena convinto che fosse caricata a salve e colpì la direttrice della fotografia. Rischia 18 mesi di carcere

L'attore Alec Baldwin è stato formalmente incriminato. L'accusa è di omicidio involontario "legato a negligenza", dopo la morte del direttore della fotografia Halyna Hutchins, 42 anni, avvenuta il 21 ottobre 2021 in New Mexico, durante le riprese del film western "Rust".

Baldwin, a cui era stato detto dai tecnici di scena che l'arma era stata messa in sicurezza, aveva puntato la pistola verso la telecamera e aveva fatto fuoco. Il proiettile aveva colpito Hutchins, sposata e madre di un figlio, uccidendola. Era rimasto ferito, ma non gravemente, anche il regista, Joel Souza.

Baldwin, 64 anni, co-produttore del film, aveva parlato di "tragico incidente", ma dall'inchiesta sono emerse negligenze e una diffusa incuria nel gestire la sicurezza delle armi da utilizzare in scena. Con Baldwin è stata incriminata per lo stesso reato l'armiera, Hannah Gutierrez-Reed. Se dichiarato colpevole, l'attore rischia fino a diciotto mesi di carcere.

Baldwin, Brandon Lee, Fantozzi: quando il cinema diventa un reato. Non solo "Rust": la storia del cinema è piena di vicende di omicidi o incidenti colposi e guai giudiziari. Dalla morte di Brandon Lee all'uccisione della tartaruga in "Cannibal Holocaust". Angela Leucci il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.

La morte corre sulla pellicola. Non nella trama, ma sui set. La vicenda avvenuta durante la lavorazione di “Rust” ne è la prova. L’attore Alec Baldwin è stato infatti formalmente incriminato per omicidio involontario: un colpo con una pistola di scena ha infatti ucciso la cineoperatrice Halyna Hutchins a ottobre 2021, e per questo è stata rinviata a giudizio anche l’armiera della produzione, Hannah Gutierrez-Reid. L’assistente alla regia David Halls aveva già patteggiato invece una condanna alla libertà vigilata.

Questa però non è la prima volta che durante la realizzazione di una pellicola si compie un crimine o un fatto che porta registi, produttori o attori in tribunale. “Nel cinema l’etica deve essere mantenuta”, commenta a IlGiornale.it Mattia De Pascali, regista tra l’altro del film “McBetter”, in cui veniva preconizzato l’orrore dell’alimentazione a base di insetti.

Brandon Lee

Probabilmente l’incidente con omicidio involontario più celebre occorso su un set fu quello che portò alla morte Brandon Lee. Nel 1993 Lee era il protagonista de “Il corvo”, con il personaggio di Eric Draven. Mentre girava una scena, fu colpito a morte da un proiettile non privato dell’innesco: a esplodere il colpo era stato l’attore Michael Massee, che interpretava Funboy.

Può darsi che quello che è accaduto sul set abbia contribuito alla curiosità prima e poi al successo a lungo termine de ‘Il Corvo’ - spiega De Pascali - Brandon Lee interpretava un personaggio dark con un’aura maledetta. La pellicola aveva già le potenzialità di un piccolo cult, ma è diventata iconica anche per questo. E Brandon è diventato un mito come il padre Bruce Lee, anche lui morto durante la lavorazione di un film”.

Un altro celebre incidente fu quello che vide protagonista, nel 1923, l’attrice Martha Mansfield, il cui abito prese fuoco durante la lavorazione di “The Warrens of Virginia”. Un incendio uccise invece ben 62 persone su set della serie indiana “The sword of Tipu Sultan" l’8 febbraio 1989.

Jon Eric Hexum

Un altro colpo di pistola uccise invece il 12 ottobre 1984 l’attore Jon Eric Hexum: mentre era in pausa, Hexum finse di giocare alla roulette russa con una pistola di scena, ma lo sparo, benché a salve, generò una pressione tale da far conficcare alcuni frammenti di ossa nel cervello dell'attore. Di incidente sul lavoro, tecnicamente, si trattò invece per Harry O’Connor, stuntman di Vin Diesel in “XXX”. La controfigura si schiantò contro un ponte durante una scena col paracadute il 4 aprile 2002.

Ci fu infine il caso di “Ai confini della realtà”, film a episodi diretti da vari registi. In quello con la regia di John Landis, il 23 luglio 1982, un elicottero con cui si stava simulando la guerra in Vietnam sfuggì al controllo del pilota a causa di una serie di circostanze che Landis richiese per girare la scena. Le pale dell’elicottero decapitarono l’attore Vic Morrow e due bambine tra i figuranti: Myca Dinh Le e Renee Shin-Yi Chen, di 7 e 6 anni.

I film che finirono sotto processo

In Italia alcuni film finirono alla sbarra per crimini o presunti tali che sono entrati nella storia del cinema. Forse il caso più celebre è quello relativo a “Non si sevizia un paperino”. A gennaio 1973 il regista Lucio Fulci, il produttore Edmondo Amati e l’interprete Barbara Bouchet furono chiamati in tribunale per dare conto di una scena con contenuti di tipo sessuale, che si riteneva girata da un bambino. In realtà la scena in cui il personaggio-bambino è presente insieme a Bouchet in video è interpretata da quello che divenne noto alle cronache come il nano di Termini, Domenico Semeraro, ucciso poi a Roma nel 1990. Per cui la causa non ebbe seguito penale.

Fulci - racconta De Pascali - venne chiamato in tribunale per la scena in cui un bambino serve un’aranciata a Barbara Bouchet nuda, ma poi si scoprì che le cose erano andate in modo diverso sul set. Oggi la legge è molto più evoluta e per girare una scena così, con un vero bambino, ci sarebbe un assistente o una figura predisposta a tutela dell’incolumità dell’infante. Certo è che Fulci non era nuovo ai processi per il suo lavoro. L’anno prima che uscisse ‘Non si sevizia un paperino’ fu alla sbarra per ‘Una lucertola con la pelle di donna’. In quest’ultimo film c’era una scena in cui si mostravano cani vivisezionati. Fu imputato perché tutti pensarono che fossero cani veri, ma in realtà, Fulci era un grande amante degli animali e la sua fu solo una finzione scenica: i cani erano pupazzi realizzati dal premio Oscar Carlo Rambaldi”.

Diverso il discorso per “Cannibal Holocaust”, il padre di tutti i cannibal movie e dei “found footage” diretto da Ruggero Deodato. La pellicola fu sequestrata nel 1983 per essere “contraria al buon costume e alla morale”: nel film venivano mostrate le violenze di documentaristi occidentali nei confronti di indigeni, e in una scena veniva uccisa anche una tartaruga. Ci fu un lungo processo (in cui diverse persone coinvolte nella lavorazione furono condannate, tra cui lo stesso Deodato), ma il film tornò al cinema l’anno successivo dopo la sentenza di Cassazione e aver ricevuto il divieto ai minori di 18. Deodato dovette portare anche gli attori in aula, per dimostrare che fossero ancora in vita.

"Lui, lui e l’altra. Quel delitto del nano al bando del politicamente corretto"

Trovo un po’ ipocrita puntare il dito su ‘Cannibal Holocaust’ - chiosa De Pascali - Scene con vere uccisioni di animali sono presenti in diversi film, antecedenti ma anche posteriori a quello di Deodato. Di solito gli animali macellati sui set sono quelli che poi vengono mangiati e Deodato non fece eccezione: girò la scena perché la tartaruga doveva essere mangiata. Può apparire cinico, può essere sbagliato, ma avveniva anche in più blasonati capolavori della storia del cinema, non solo horror. Personalmente mi dà un po’ fastidio che si trasformi la morte in estetica, è pur sempre un'uccisione. Da un lato però fu la fortuna di Deodato, in un certo senso, dato che comunque finì in tribunale: per tutti diventò Monsieur Cannibal”.

Attualmente la legge che impedisce che avvengano situazioni simili è l’articolo 544 ter del codice penale. Una piccola curiosità: nel “McBetter” di De Pascali si possono vedere degli insetti che vengono divorati con grande realismo, ma, come per Fulci, anche quello è un effetto di scena elaborato dall’artista Silvia Cappello. Sui set oggi non si può ovviamente molestare neppure una mosca.

Quello che il cinema non racconta per paura di altri reati

C’è poi un altro fenomeno interessante: quello dei film che non vengono realizzati o vengono tagliati perché raccontano crimini troppo vicini alla realtà o che si teme vengano emulati. Uno dei casi eclatanti è la mai realizzata trasposizione cinematografica di “Glamorama”, romanzo di Bret Easton Ellis.

Il romanzo narra di un gruppo di top model, uomini e donne, che vengono sostituiti da sosia e utilizzati per compiere atti di terrorismo internazionale. Nei primi anni 2000 tutto sembrava pronto per le riprese: il romanzo era stato opzionato dal regista Roger Avary, che aveva girato “Le regole dell’attrazione” sempre tratto da un romanzo di Ellis con molti degli stessi personaggi di “Glamorama”, ma la lavorazione subì molti rinvii. Parte di essi furono dovuti all’attentato alle Torri Gemelle: la tragedia era troppo fresca perché il cinema tornasse a parlare con disinvoltura di terrorismo.

Il cinema è un media che si diffonde più velocemente di altre arti e attraverso la narrazione veicola un messaggio - conclude De Pascali - Per questo l’etica va mantenuta. Basti pensare che negli anni ’90 fu tagliata una scena di ‘Fantozzi - Il ritorno’, poiché in essa si vedeva Paolo Villaggio lanciare sassi da un cavalcavia: in quel periodo una donna morì proprio a causa di questo crimine, e in segno di rispetto la scena fu eliminata, anche per timore di emulazione. D’altro canto Stanley Kubrick fece ritirare ‘Arancia Meccanica’, perché accusato di un’escalation di violenza all’epoca dell’uscita: la violenza però c’era già, a prescindere dal film. A volte una pellicola è la radiografia di un dato momento storico, non la causa, altre volte può effettivamente veicolare un messaggio sbagliato, ma comunque non bisogna prendersi tutte le responsabilità del mondo”.

Estratto da Il Messaggero il 18 Settembre 2023 

Torna oggi a Verissimo Alena Seredova con una nuova luce negli occhi e una brillante fede al dito. Si è sposata qualche mese fa con Alessandro Nasi in Sicilia e ora è pronta a condividere con i telespettatori le sue immagini più belle di quel giorno. 

Alena Seredova ospite a Verissimo, chi è la showgirl: il tradimento di Buffon, la dolorosa separazione, i figli e il matrimonio con Alessandro Nasi 

Si mette così alle spalle il doloroso passato e riesce ora a togliersi anche quache sassolino dalla scarpa. A 10 anni dalla separazione dall'ex Gigi Buffon l'ex modella torna a parlare del tradimento subito in una recente intervista con Harper's Bazar svelando come, all'epoca, si sia sentita tradita non solo dal marito ma anche da chi si professava amico ma sapeva tutto del flirt di gigi con Ilaria D'Amico. «Andavo allo stadio ma tutti lo sapevano.

Tutti i cosiddetti amici e conoscenti del calcio alla fine mi hanno detto che lo sapevano - ha rivelato Seredova -. Ho smesso di frequentarli». Lo scoprì dalla radio per caso, gli speaker parlavano di indiscrezioni, ma la realtà è che non erano solo indiscrezioni

(...)

Alessandra Martines: «Ascoltando una fuga di Bach sono approdata alla fede. Mastroianni mi aiutò sul set». Storia di Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera sabato 14 ottobre 2023.

In un caffè di Saint Germain des Près, tra i rumori dei cantieri in vista dell’Olimpiade 2024 e davanti al solito cappuccino sbagliato alla francese (bollente, troppa schiuma), cita «la parola del Signore» proprio all’inizio della conversazione. Può capitare spesso negli Stati Uniti; è un po’ meno frequente nella nostra Europa secolarizzata, e ancora meno nell’ambiente dello spettacolo. Ballerina classica, étoile a Zurigo, New York, Chicago e Roma, poi star degli show del sabato sera sulla Rai, poi ancora attrice da Mastroianni a Fantaghirò fino ai film in Francia con l’allora marito Claude Lelouch — «e tanti altri registi», tiene giustamente a precisare —, Alessandra Martines è un’italiana di Parigi «mai stata appagata come oggi». E in effetti la sua bellezza sprigiona serenità, la prontezza di spirito nelle risposte (notevoli in questi anni le sue interviste alla tv francese) si accompagnano a una nuova sicurezza. Silenzia il telefonino, lo lascia acceso «solo in caso chiami la scuola di mio figlio», ovvero il quasi 11enne Hugo nato dall’unione ormai conclusa con l’attore Cyril Descours (dal matrimonio con Lelouch nel 1998 nacque la primogenita Stella). Poi, cominciamo a parlare di quella che ha l’aria di una rinascita.

I francesi oggi la vedono in tv, su «CNews» e «C8» del gruppo Canal Plus, per parlare del Santo del giorno. Come mai ha scelto di fare questo programma? «Quando me l’hanno proposto ho pensato che fosse un segno del destino e ho accettato subito, con gioia. È bellissimo parlare delle vite dei Santi. Il mio preferito è San Francesco».

Perché? «Perché San Francesco si è spogliato della ricchezza e della gloria per dedicarsi agli altri».

Si riconosce un po’? «No, per carità, non sono così presuntuosa. Mi affascina però la capacità di andare al nocciolo delle cose, di badare all’essenziale».

Quando è cominciata questa sua nuova fase di attenzione alla religione? «Circa due anni fa, dopo alcuni eventi non facili. La vita mi ha dato qualche sganassone, diciamo, e finalmente ho capito. C’erano stati alcuni segnali anche prima, anni fa, dei richiami, ma non ero ricettiva e non li avevo raccolti».

Video correlato: Alessandra Mattezzi, gli audio: "Giovanni ? molto malato" (Dailymotion)

E stavolta che cosa è successo? È stata un’illuminazione improvvisa? «No, piuttosto un processo, cominciato per caso un giorno che passeggiavo per Parigi. Sono entrata nella basilica di Sainte Clotilde, una chiesa molto bella poco lontano da qui, e proprio in quell’istante è cominciata una fuga di Bach suonata all’organo. La musica barocca, in particolare quella di Bach, è la mia preferita. A quel punto sono rimasta nella chiesa anche per la messa, e le parole del sacerdote mi sono piaciute. Adesso vado a Lourdes, e mi dedico a cose che abbiano un senso per servire la mia fede».

Che cosa ha sentito a Lourdes? «Mi ha colpito la tranquillità, l’amore delle persone anche in situazioni di sofferenza. Ci sono andata di recente con alcune amiche, siamo state benissimo».

Che cos’altro fa per la fede? «Per esempio dico sì alla trasmissione sul santo del giorno, e rifiuto film magari anche interessanti, ma che non servono al mio bisogno di testimonianza. Soprattutto, sto costruendo una fondazione per le donne sopra i 18 anni in situazioni di vita estremamente difficili, dal punto di vista materiale ed emotivo. Le aiuteremo in tre tappe: ricostruzione, formazione e posto di lavoro per ritrovare dignità e autostima. In modo che siano finalmente viste, guardate».

Questa questione dello sguardo è interessante. Lei ha avuto sempre i riflettori puntati addosso, da ballerina e poi da attrice. «È così, e adesso ripenso ai miei talenti. Perché mi sono stati dati? Da bambina e da ragazzina ho lavorato durissimo per diventare étoile, ma non ci sarei riuscita senza una specie di talento innato, e quello non è merito mio, me lo sono ritrovato».

Le persone a lei vicine cosa dicono? I come hanno preso questa svolta? «Anche loro hanno ricevuto la grazia della fede e anche per questo sono estremamente riconoscente al Signore. Non è mai stata un’imposizione da parte mia, è una cosa che è nata nel loro cuore. La mia figlia più grande Stella ha intrapreso degli studi di teologia».

Lei è nata a Roma, ed è arrivata a Parigi con i suoi genitori a cinque anni. Da bambina ha avuto una formazione religiosa? «No, per niente».

E che cosa si ricorda di quegli anni di adattamento alla Francia? «È stato molto facile, andavo alla scuola italiana, ma ho imparato il francese molto presto. I bambini comunicano tra loro anche senza conoscere le lingue, si impara la lingua dell’altro quasi senza accorgersene. Poi sono entrata al Conservatorio nazionale di musica e danza di Parigi, i corsi erano molto rigorosi. Ma volevo fare la ballerina ed ero molto decisa a studiare e impegnarmi quanto necessario per riuscirci».

I suoi genitori l’hanno incoraggiata? «No, era proprio una enorme passione spontanea che veniva solo da me. Ma non mi hanno neppure scoraggiata. Neanche quando a 15 anni mi sono trasferita all’Opera di Zurigo. Vivevo da sola in un monolocale, in quegli anni Zurigo era una città difficile, c’erano molti problemi di droga, per andare a fare le prove costeggiavo un parco con tanti ragazzi tossicodipendenti buttati per terra. I miei genitori mi hanno lasciata andare a Zurigo a patto che prendessi il Bac, la maturità francese. Ho seguito i corsi per corrispondenza, studiavo di notte. In quegli anni ho dormito molto poco».

Come riusciva a reggere? «Non è stato facile. Ricordo una volta, dietro le quinte, a Londra, una nostra compagna svenne in pieno spettacolo per la fatica e la denutrizione. Ci dissero “ go, go!”, la rappresentazione non poteva certo fermarsi, tornammo in scena e il ballerino fece finta di ballare con un fantasma. Mi pare che oggi ci sia più attenzione per la salute fisica e psichica di chi fa danza classica».

Comunque, lei è diventata étoile e il grande George Balanchine l’ha notata. «Per qualche anno mi ha dato consigli perché migliorassi fino a meritare di entrare nel suo New York City Ballet, il mio sogno. Dopo un paio di “non sei ancora pronta”, quando avevo 18 anni mi ha chiamata a New York. Poi sono entrata nel Chicago City Ballet».

Che cosa ricorda di quegli anni americani? «Una grande competizione. È inevitabile ed esiste ovviamente anche in Europa, ma in America mi è sembrata più dura. Io comunque ho sempre cercato di concentrarmi su di me, la gara era con me stessa. Poi ho incontrato quell’idea americana di essere artisti completi, chiamati a ballare, recitare, cantare, un’idea che mi è tornata utile qualche anno dopo».

Perché dopo l’America ha deciso di tornare in Europa, e a Roma, dove era nata? «Sentivo che nella mia formazione mancava la grande scuola russa. Avevo già ballato con Nureyev, ma non era mai stato il mio insegnante. A Roma al Teatro dell’Opera c’era Maja Plissetskaya, e sono stata felice di potere lavorare con lei».

Dalla danza classica alla tv italiana, Raffaella Carrà e «Fantaghirò». «È stato un caso, dopo una prima apparizione in tv dove ho interpretato un pezzo classico, Gianni Boncompagni mi ha chiesto di fare l’ospite da Raffaella Carrà. Già quando ero a New York ero stata avvicinata da due impresari che volevano portarmi a Broadway, ma avevo rifiutato subito come è abitudine nel nostro ambiente blasé. A Roma invece ne ho parlato con la mia amica e grande critica di danza Vittoria Ottolenghi, e ci siamo dette che unire i mondi della danza classica con quello dello spettacolo popolare poteva essere interessante».

E ha cominciato anche a recitare. «Nel film Miss Arizona di Pál Sándor, con Marcello Mastroianni e Hanna Schygulla».

Com’è stato l’incontro con Mastroianni? «Mi ha fatto molta impressione. Un uomo eccezionale, di straordinaria gentilezza e di grande umiltà, che è un po’ la caratteristica di chi è davvero grande. Mi tranquillizzava dicendomi: “Alessandra, non devi fare nulla”».

Le pause, i silenzi, sono importanti nell’arte, lo diceva pure Miles Davis. «Sì, anche se questo stride un po’ con la mia preferenza per la musica barocca. Di fronte a certa musica colta contemporanea mi capita di sbottare, facendo la parte del bambino che ha il coraggio di dire Il re è nudo. Quando la ricerca musicale diventa completo narcisismo, si potrà pur dire che è insopportabile».

Dopo la tv italiana è tornata in Francia per il cinema. Si sente italiana o francese? «Mi sento italiana, tengo molto alle mie radici, parlo in italiano ai miei figli. Anche se amo pure la Francia e ci vivo benissimo. Il presidente Nicolas Sarkozy mi ha dato l’alta onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica francese per il contributo che tramite il mio lavoro artistico e umano porto dall’Italia in Francia e dalla Francia in Italia. Per strada mi riconoscono e mi salutano, mi fa piacere non per vanità, ma perché sento l’affetto. Oggi mi pongo la questione di dare un senso a tutto questo».

Lei ha anche scritto un libro per bambini. «Sì, Contes pour Stella, una raccolta delle storie che mia figlia mi chiedeva di inventare, pubblicate per sostenere l’Unicef».

Prima parlava dei segnali che pensa le siano stati mandati, e che lei non era pronta a ricevere. A che cosa si riferisce? «Ripensandoci, c’è stato un istante di grazia, tanti anni fa a Chicago, in cui ho sentito una sintonia perfetta tra la musica di Bach, la coreografia, il pubblico, e me. Mi sono sentita un tramite, una specie di antenna di qualcosa di superiore. Ma all’epoca non ho saputo interpretarlo».

E adesso? «Adesso credo fosse la prima di alcune chiamate. Penso che ci siano due mondi, in basso e in alto. Oggi ho imparato a vivere con lo sguardo verso il cielo, e non sono mai stata meglio».

Estratto dell'articolo di Fe. Po. per “il Messaggero” il 9 maggio 2023.

Ancora una mattinata in Tribunale per le gemelle Giudicessa, conosciute ai più per il film "Come un gatto in tangenziale", in cui interpretavano la parte di due ladre inquiline di un alloggio popolare nell'ex residence Bastogi. Una finzione che però, negli ultimi anni si è spesso confusa con la realtà perché le sorelle sono finite più volte davanti ai giudici proprio per gli stessi reati di cui si rendevano colpevoli nei film. Questa volta a finire sotto gli occhi degli inquirenti è Alessandra (che nel film si chiamava Pamela), in aula con il suo avvocato, Giovanni Belcastro; mentre ad attenderla in corridoio, sotto gli occhi curiosi di chi passando l'ha riconosciuta, c'era la sorella Valentina (che nella pellicola era Sue Ellen).

IL SEQUESTRO A metà marzo sono state sequestrate ad Alessandra Giudicessa due polizze vita e due auto, per un totale di 110mila euro. L'ultimo episodio che aveva attualizzato la «pericolosità sociale» della donna, portando i giudici della sezione Misure di prevenzione ad emettere il provvedimento, è una denuncia sporta il 31 gennaio del 2022 a carico della gemella e di suo marito per il reato di ricettazione di una mountain bike del valore di mille euro. Da altri accertamenti svolti dal Gico del Nucleo di polizia economico-finanziaria, era emerso che l'attrice disponeva di beni «in misura del tutto sproporzionata rispetto agli esigui redditi dichiarati». Si trattava, in particolare, di due polizze vita del valore di circa 80mila euro e di due auto acquistate tra il 2018 e il 2019, del valore di circa 35mila euro, che sono state quindi sequestrate.

(...)

LE REAZIONI Un fatto incredibile che è reso ancora più incredibile e lascia tutti a bocca aperta quando le si incontra dal vivo. Sì, perché, oltre allo "shopping compulsivo" come lo chiamano le due gemelle nel film ad essere uguale alla trama è anche il loro modo di vestire oltre al modo di parlare. Tanto che, come successo ieri nei corridoi del Tribunale di Roma, a chi le incontra, stupito, non resta che avvicinarsi loro ed esclamare: «Ma allora siete proprio così voi, parlate anche così non è finzione». La reazione delle gemelle è compiaciuta e cordiale, non come alla vista dei giornalisti, ai quali pronta Alessandra risponde: «Non ho niente da dire e non c'è niente da sapere».

(ADNKRONOS il 17 marzo 2023) - Il Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Roma ha sequestrato beni per un valore di oltre 110 mila euro a Alessandra Giudicessa, attrice romana nota al grande pubblico per il ruolo di una delle sorelle di Paola Cortellesi nella commedia 'Come un gatto in tangenziale' e il suo seguito.

La misura è stata applicata per ragioni di 'pericolosità sociale' relative ai precedenti della Giudicessa per furto, truffa e falsificazione nel periodo dal 2011 al 2018. Già nel 2019 l'attrice era stata destinataria della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, poi revocata nel 2021.

 Dagli ulteriori accertamenti svolti dalla Polizia Economico-Finanziaria di Roma è emersa, però, una nuova denuncia effettuata nel 2022 a carico dell'attrice e del coniuge per un'ipotesi di ricettazione.

Le indagini che sono seguite hanno consentito di scoprire beni dell'attrice sproporzionati rispetto al reddito dichiarato: in particolare, 2 polizze vita del valore di circa 80mila euro e di 2 autovetture, acquistate tra il 2018 e il 2019, del valore di circa 35mila euro.

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2023.

Nel 2017, quando il regista Riccardo Milani la sceglie come Sue Ellen nel suo Come un gatto in tangenziale, […], Alessandra Giudicessa ha già un fitto curriculum. Come borseggiatrice però.

 Ora che gli esperti del Gico del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf le hanno notificato il sequestro di centodiecimila euro affiora un lungo elenco di iniziative. Il primo «furto in concorso» risale infatti al 10 settembre 2011 (sei mesi di reclusione e 100 euro di multa). Ma poi Sue Ellen/Giudicessa si muove, disinvolta, tra boutique di abbigliamento e negozi di ottica, saccheggiando scaffali di profumi e tuffando le mani nelle borse altrui.

Oggi, complice la sproporzione tra quanto dichiarato e quanto posseduto, Giudicessa è stata ritenuta socialmente pericolosa […].

 […] Giudicessa vanta esperienza lungo le corsie di supermercati e mall, boutique e discount. Qualche variazione sul tema dei reati contro il patrimonio si verifica durante la collaborazione con la sorella gemella Valentina. Assieme vengono indagate per truffa in una vicenda che risale al marzo 2015, quando «al fine di procurarsi un profitto, consapevoli della provenienza delittuosa acquistavano o comunque ricevevano l’assegno di Poste italiane provento di furto denunciato da Luciano Sassara presso la stazione dei carabinieri di Castelnuovo di Porto di Farfa».

A volte sono piccole cose come il furto di «prodotti per il corpo dell’erboristeria Bioremedy Store» (2017). Altre sono episodi più strutturati come il furto di una carta di credito «con la quale successivamente facevano la spesa» (sempre 2017). Rapidamente le due diventano il terrore dei commercianti, tra aprile e luglio 2018 […].

A volte è un colpaccio tipo il blitz da “Falconeri” all’Eur dove «si impossessavano di prodotti di vestiario (diciotto articoli di maglieria) per un valore complessivo di 4.794 euro sottraendoli dagli scaffali e dai cassetti dell’esercizio commerciale». In conclusione, una polizza assicurativa e altri beni rintracciati sui conti di Sue Ellen/Giudicessa fanno affiorare il sospetto degli investigatori: «Si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano in reimpiego». Sequestrati.

Dagospia il 25 giugno 2023. Da I Lunatici – Radio 2

Aleandro Baldi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'1.20 e le 2.30 circa. 

Il cantautore ha raccontato: "Se mi sono sentito messo da parte dopo 'Non amarmi' e 'Passerà'? Non posso esattamente sapere cosa sia successo. A livello alto si dice che quando è emerso Bocelli due non vedenti non potevano stare sulla breccia. Avevo scritto anche una canzone in merito a questo, se uno ha un giocattolo o una macchinina dello stesso colore o uguale, prende la nuova e butta la vecchia. Non credo che essere non vedente mi abbia penalizzato, anche se è molto difficile ottenere alcune cose. Penso comunque che nel disegno del creato nessuno sia nato per essere penalizzato. Sicuramente a chi non si può dare la colpa del mio allontanamento è il pubblico". 

Su Aleandro Baldi oggi: "Vivo a Greve in Chianti in provincia di Firenze, non sono sposato e non ho figli. Vivo in una casa per conto mio. Sono spesso in giro da amici con cui lavoriamo, ho fatto un nuovo disco. La musica fa parte della mia vita da sempre, mi accompagna come sinfonia nei momenti dell'esistenza".

Su 'Non amarmi': "Era dedicata alla prima ragazza che ho avuto. Era una canzone dove io mi disistimavo. Ecco perché dico che 'Non amarmi' non la riscriverei. Non perché voglio rinnegarla. Non la riscriverei. Non mi sapevo valorizzare per le qualità che potevo avere". 

Sull'esplosione e l'arrivo del successo: "Non ho mai rischiato di perdere la testa, perché avevo sempre pensato che il successo fosse un qualche cosa di transitorio. Che oggi ci poteva essere e domani no. Il successo non è tutto di una persona. Non è tutto nella vita. Io preferisco avere meno successo ma fare canzoni dove mi scrivo".  

Sulla vita da non vedente in Italia: "Diciamo che in Italia siamo ancora in un Paese  in cui non abbiamo fatto passi in avanti perché se ne parla troppo. Questo sarebbe un argomento da non parlarne. Meno parole e più fatti. Questo è un argomento dove si capisce solo con i fatti, non con le parole, per quanto uno si sforzi a spiegare".

La malattia, l’amore maturo: Baricco si confessa. «Il corpo può diventare una roba pazzesca». Conversazione di Alessandro Baricco con Matteo Caccia su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.

Un estratto del podcast realizzato con Matteo Caccia per Feltrinelli e «il Post»: «L’amore? Negli ultimi 10-15 anni forse mi sono successe più cose che in tutto il resto della vita. Il corpo malato è come uno strumento musicale che non hai mai suonato. Abel? Dentro questo libro c’è l’uomo che sono diventato, nel tempo»

Il testo che pubblichiamo è un estratto del podcast «Wild Baricco», realizzato da Alessandro Baricco con Matteo Caccia per Feltrinelli e Il Post.

Matteo Caccia: Prima di tutto: perché hai un pianoforte a mezza coda in casa?

Alessandro Baricco: [risata] Questo qui [suona qualche tasto] è un pianoforte che ha più di centodieci anni. È uno Steinway, mi ha accompagnato per tanti anni: c’ho speso, credo, quasi tutti i soldi di Oceano mare per comprarmelo, ai tempi.

Come chi ha letto Abel ha già capito, io comincio a pensare che il tempo non sia lineare. Il prima e il dopo sono un’illusione: questo pianoforte ce l’ho perché suono il pianoforte, male, ma da sempre... ho iniziato a cinque anni e non ho mai smesso. È uno dei grandi piaceri della mia vita. Non suono mai per nessuno, solo per me. Tornare a casa e suonare è una delle cose più belle che mi possano accadere. E quindi ho avuto sempre un pianoforte in casa, anche nei periodi di maggior sbalengamento... però poi devo registrare il fatto che oggi la donna della mia vita è una pianista, e una delle ragioni per cui è venuta a vivere con me quando io gliel’ho chiesto è che c’era il pianoforte... se non ci fosse stato non sarebbe mai venuta o comunque ci avrei messo di più per convincerla. Insomma da quattro-cinque anni, da quando sto con lei, il pianoforte è entrato nella mia vita in maniera addirittura invasiva.

Non so, c’era qualcosa tra me e il pianoforte, al di là di Novecento. Il pianoforte c’è in molti miei libri... ci sono alcune cose che ritornano spesso: bordelli, pianoforti... è strano. E adesso ti dirò che io e Gloria, la donna che amo e che vive con me, ci siamo premiati comprandoci un nuovo pianoforte... che comprarsi un pianoforte Steinway nuovo non dico che sia come comprarsi una Ferrari... ma no, anzi, è proprio come comprarsi una Ferrari se la tua passione è il pianoforte.

Matteo Caccia: Senti, l’amore in età adulta è diverso dall’amore a vent’anni? Sai quando si dice «Eh quella roba lì, quella sensazione, le farfalle nello stomaco», dico una cosa molto banale, «le provi all’inizio, poi a cinquant’anni non succede più». È vero?

Alessandro Baricco: Ma, guarda, io ho avuto una vita strana comunque, per cui non mi azzardo a dire nessuna regola per nessuno... a me è girata che dopo i cinquantacinque anni, insomma negli ultimi dieci-quindici anni, sono forse successe più cose, da quel punto di vista lì, che in tutto il resto della vita.

Ma perfino... proprio perché sono qui a sputtanarmi nel nome di Abel... ma perfino il corpo, secondo me, prima non sai cos’è. Il tuo, eh. Però forse anche quello degli altri...

Matteo Caccia: E quand’è che lo conosci?

Alessandro Baricco: Sicuramente non lo conosci a vent’anni. Quando vedo mio figlio, che ha venticinque anni, so per certo — questo lo posso dire — che lui non ha idea di cosa ha addosso. Che pure è nello splendore, no?, perché a quell’età lì (io ne ho due di figli, hanno diciassette e venticinque anni): splendore fisico, tutt’e due. Infatti li mandavano in guerra...

Dal punto di vista di come il corpo ti detta la vita, dal punto di vista erotico, dal punto di vista della bellezza ad esempio... non puoi averne una idea precisa.

...Però sai quante cose uno scrive, quando non le ha ancora capite, ma con una precisione pazzesca? Come se in lui ci fosse un sapere ancora chiuso nell’uovo, chiuso nel guscio, che poi riverbera in questa maniera involontaria nel racconto... Siamo dei sapienti mescolati: la saggezza, la sapienza, il capire non sono un processo lineare, è un’unica grande esplosione, che avviene in un istante, non sai quale, e tutto il resto sono questi brandelli che tu raccogli... e tra i vari brandelli del sapere c’è il tuo corpo. E devo dirti che poi quello del sesso, dell’amore fisico, è un capitolo, ma nemmeno il più grande, di quello che può fare il tuo corpo. Quando entri nell’hangar della malattia, il tuo corpo diventa una roba, guarda, pazzesca.

Matteo Caccia: Cioè...?

Alessandro Baricco: Il corpo malato è come uno strumento musicale che non ha mai suonato e inizia a suonare: la cassa armonica, le corde... Il corpo malato seriamente. Ma lui è sempre stato lì, appoggiato sul mobile, capito?, un violoncello appoggiato sul mobile. Ogni tanto strimpellava — magari ti si è rotto un ginocchio —, ma dopo emette suoni che tu non conoscevi, timbri di cui non pensavi fosse capace. Armonie, coincidenze tra cervello e altre parti del corpo... veramente è un capitolo completamente nuovo, paragonabile a quando scopri il sesso a sedici-diciassette anni: prima avevi un corpo per correre, per giocare a pallone eccetera, poi d’improvviso ti scopri che fa delle cose... e anche lì: è uno strumento che comincia a suonare. E paradossalmente la malattia ti porta a un’esperienza molto simile, ecco. Capisci che numero di cose il tuo corpo ha da darti. Tutto sommato, se dovessi fare i conti adesso che c’ho sessantacinque anni, la storia dei corpi è più affascinante della storia delle menti.

Matteo Caccia: Com’è che hai scritto Abel? L’hai scritto in maniera un po’ diversa dal solito...

Alessandro Baricco: Sì, ho cominciato a regalarne delle pagine in giro, a figli, amici, a Gloria, così. Ma lì le cose si sono un po’ mosse, allora poi l’ho mandato all’editore, che non se l’aspettava neanche, peraltro.

Matteo Caccia: E sei contento?

Alessandro Baricco: Abel è un libro particolare, cioè ha un significato particolare per me, di vita, diciamo di biografia, perché mi ha accompagnato in anni difficili. È un libro piccolo, ma è molto denso... quasi in ogni parola, quasi in ogni frase c’è un lavoro dietro.

Gli voglio molto bene, e secondo me è molto bello. Adesso tiro fuori un’arroganza, la più dolce di cui dispongo. Intanto c’è l’uomo che sono diventato nel tempo. Quindi è l’unico libro che io abbia scritto che è figlio di quest’uomo qua.

... È uno di quei libri che hanno questa specie di forza coniugata con la leggerezza, per cui, tac, si staccano da terra, non so come dire, e lì rimangono poi sospesi. E questa credo anche che sia la vocazione più alta dello scrivere libri, cioè quello a cui dovresti mirare, se hai il talento. E, secondo me, io nella vita ho scritto qualche pagina che si è staccata da terra, mai un libro intero. E Abel, io lo guardo e lui sta in aria.

... Non è che posso spiegarlo, ma non lo voglio spiegare, perché poi parlare dei propri libri è orrendo. Ma ho questa sensazione ed è questa sensazione che me lo fa amare così tanto: tanto da festeggiarlo facendo quest’intervista sputtanante, ma poi nemmeno troppo, e renderlo insomma un libro diverso da tutti gli altri per me. Poi non so per i lettori, vediamo cosa succede, però per me è così.

L’ESTRATTO

L’estratto che qui anticipiamo è tratto dal podcast Wild Baricco. Il testo è stato risistemato per la pubblicazione ma non modificato, quindi conserva tutte le particolarità e l’immediatezza di un testo orale e registrato e non scritto.

Wild Baricco è una conversazione di oltre due ore «su tutto, senza rete», con Alessandro Baricco, che ha deciso per l’occasione «di fare delle cose che di solito non faccio: parlare a lungo e parlare di cose di cui non ho mai voluto parlare»: questa proposta è diventata un podcast-intervista condotto dall’autore e conduttore Matteo Caccia e prodotta da Feltrinelli e da «il Post» . Lo si può ascoltare — gratuitamente — da oggi sull’app del Post e su tutte le piattaforme di podcast.

Questa iniziativa arriva giusto un mese dopo l’uscita del nuovo bellissimo romanzo di Baricco, Abel (edito da Feltrinelli) , e dopo un periodo complicato in cui l’autore aveva annunciato di essere malato di leucemia e di essersi sottoposto a due trapianti di midollo, l’ultimo lo scorso agosto. Abel ha segnato il ritorno alla narrativa di Alessandro Baricco dopo una pausa di circa otto anni.

Nato a Torino nel 1958, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, critico musicale, autore televisivo, Baricco, tra le figure più poliedriche ed eclettiche della scena culturale italiana, ha esordito come romanziere nel 1991 con Castelli di rabbia con il quale ha vinto il Prix Médicis étranger. Tra le tante pubblicazioni ricordiamo, nel 1993, Oceano mare, uno dei suoi romanzi di maggior successo (Premio Viareggio), poi nel 1996 l’uscita di Seta, libro dal quale verrà tratto un film con la regia di François Girard. (s.ba.)

Estratto dell'articolo di Emilio Marrese per “la Repubblica” il 30 aprile 2023.

Alessandro Benvenuti, due ore prima di andare in scena al Dehon di Bologna. Ha un quaderno aperto davanti allo specchio, scrive continuamente. 

A 73 anni si emoziona ancora?

«Sì, ma più che l’emozionarsi è il trascendere. La battaglia col pubblico ti prosciuga, è più una trincea che una nuvola. Ma poi sul palcoscenico arriva lo stato di grazia ed entri in una dimensione spirituale: il teatro è un canto mistico, un rito laico sacro». 

La battaglia col pubblico, dice: qual è il peggiore?

«Non esiste il pubblico peggiore, al massimo quello meno facile. Gli spettatori sono meravigliosi, sono santi che pagano il biglietto e salvano la vita a noi attori altrimenti disadattati o disoccupati. Il pubblico peggiore, se vogliamo, è quello che accende il telefonino in platea»

E si diverte ancora?

«Molto, a fare le mie sfide, le mie ricerche di nuove forme di comicità. Il comico ingoia il dolore, lo mastica e lo risputa. Mi diverto, anche se è una lotta. Ho smesso col cinema da regista perché non avevo più niente da dire. La qualità è sempre più rara, così come il bisogno di qualità. Pare si faccia di tutto per sfuggire alle grinfie dell’intelligenza e questo è disarmante per chi vorrebbe trovare un senso nella scrittura. 

Le parole sono importanti, e invece girano senza padrone. Se sono sbagliate, possono uccidere. Eppure c’è tanta faciloneria nel dire cose solo per fare effetto, senza riflettere, emettendo rumoripiù che contenuti. Questo tempo così poco incline all’ascolto dell’altro, mi turba. E talvolta scelgo lo sciopero del silenzio, anche a dannodi chi mista intorno». 

Tutto cominciò mezzo secolo fa coi Giancattivi: è stufo di raccontarla?

«No. Athina Cenci era una funzionaria dell’Arci regionale e grazie a lei portammo per la prima volta la satira e il cabaret al popolo rosso delle feste de l’Unità, là dove prima c’era solo Brecht o il gioco del porcellino. La satira non esisteva in Italia, non è vero che è nata a sinistra. C’era solo Dario Fo. Noi tre da operatori culturali abbiamo fatto un lavoro politico e sperimentale». 

Francesco Nuti è su una carrozzella dal 2006, Athina è tornata da poco a parlare dopo un ictus che le ha tolto la parola per 15 anni. Che effetto le fa?

«Profondo dispiacere. Athina qualche volta l’ho sentita, invece sono anni che non ho più contatti con Francesco. È una storia che si è compiuta con grande dolore».

Avevate rotto in modo piuttosto traumatico dopo il film “Ad ovest di Paperino” del 1981.

«Con Francesco c’era già stato un riavvicinamento. Aveva prodotto il mio Benvenuti in casa Gori, sognavamo di fare Aspettando Godot insieme e resterà un sogno. Ma le cose non accadono per caso. Il modo di vivere modella il tuo dolore e il tuo pensiero». 

Che intende dire?

«La vita non si insegna a nessuno. Ci sono strade che uno imbocca più o meno coscientemente e gli altri non possono farci nulla. Il fisico dipende da come lo tratti. Si dice destino, ma in qualche modo questo destino dipende da noi». 

Cosa le resta?

«L’affetto per quel pezzo di strada fatto assieme. Valori e ricordi antichi, pesanti, buoni e negativi. Sono quel che sono grazie a loro. Athina e Francesco sono state le persone più importanti nella mia carriera. Athina è stata la mia prima musa, era l’uomo del trio. Francesco era senza briglie. Insieme eravamo impossibili.

Eravamo tre talebani, tre radicali sorretti solo dal nostro talento, senza nessun aiuto: anzi, ci misero un mese a convincerci ad andare in tv. La lavorazione del film fu soffertissima per motivi privati di Francesco. Io ero molto pignolo e questa carriera l’ho presa sul serio fin dall’inizio . Parlano chiaramente i fatti e i percorsi». 

La satira di oggi le piace?

«I politici sono così ridicoli che trovo tempo perso anche il riderne sopra. Sono bravissimi i comici che lo fanno, per carità. Io non ne sarei capace. Anche ai tempi dei Giancattivi non facevamo satira politica, era più una comicità surreale. Oggi mi interessa più la filosofia della satira, perché mi dà più spunti per rendere il linguaggio più moderno. Bisogna appozzare nell’antico per trovare la modernità: i moderni resistono secoli, gli attuali no». 

Le stanno stretti i panni del comico?

«Li allargo. Mia moglie dice che sono costretto a fare solo capolavori sennò non mi piglia nessuno, ma poi bisogna anche che se ne accorgano gli altri. Se pensano che io sia solo il bimbone anziano del BarLume e non mi danno ruoli drammatici, è anche colpa mia. Sono un asociale, un individualista nichilista e anche un po’ autistico. Non creo occasioni, non vado a cercare nessuno. Ho fama di orso, ma mi faccio trovare. Sono molto disponibile coi giovani autori, a volte anche gratis».

(...)

Estratto dell'articolo di Ilaria Ravarino per il Messaggero l’8 gennaio 2023. 

Dieci anni al Barlume.

Un'isola felice, ma anche un autoesilio da un mondo quello del cinema e della tv da cui si è sentito profondamente tradito. All'Isola d'Elba, dove dal 2014 interpreta il toscanaccio Emo nei gialli della serie I Delitti del Barlume - da domani alle 21.15 su Sky con la prima di tre nuove puntate - Alessandro Benvenuti si sente al sicuro. A 72 anni l'artista toscano, fondatore a fine anni Settanta del trio de I Giancattivi con Athina Cenci e Francesco Nuti, e regista di cult come A ovest di Paperino, ha appeso la macchina da presa al chiodo, preferendo il teatro in attesa di un ruolo che possa tornare a farlo sognare.

 A parte il Barlume, in tv non ci va da 15 anni. Perché?

«Mi sono trovato bene con la Rai, quando girai Un colpo al cuore (nel 2000, ndr). L'editor era una donna molto intelligente e di buon senso, a differenza della melliflua direttrice di produzione, che mi remava contro».

(...)

 Da 20 anni non dirige un film. Perché?

«Mi hanno fatto passare la voglia. L'ultimo film, Ti spiace se bacio mamma (del 2003, ndr), è l'unico che ho fatto con finanziamenti pubblici. Fui intortato dalla Rai: volevano solo avere un'ora e mezzo in più in palinsesto. Fui quasi costretto a girarlo e fu distribuito male. Quello precedente era I miei più cari amici (1988, ndr), una roba mal condotta dalla Cecchi Gori. Non fui aiutato nella scelta del protagonista: io non volevo recitarci, volevo Vincent Cassel. Un film maledetto. Fu difficile finirlo e ne soffrii così tanto che dissi: mai più un simile dolore. Fui sbeffeggiato, da allora non leggo più le recensioni. Dopo quel film scrissi un testo teatrale in cui un autore pensava al suicidio».

(...)

 Nel 2004 condusse Striscia La Notizia: perché solo 5 giorni?

«Perché ritenevo conclusa la mia avventura. Mi chiamarono per fare la rivoluzione: un'idea di Ricci, perché Striscia era in caduta libera con Bonolis che gli stava facendo le scarpe. Dopo una notte insonne scrissi 50 pagine per rivoltare il programma, senza più veline. Mi dissero: eh, ma così ci fai lavorare. In studio mi ritrovai con Luca Laurenti e pure Sconsolata (Anna Maria Barbera, ndr), che non era prevista. Fu un tradimento».

I Giancattivi si sciolsero nel 1985: potevano durare di più?

«No, eravamo al limite. Si muore da soli anche se partecipi a un suicidio collettivo. Il più coraggioso fu Francesco, che fece il primo passo».

 Siete rimasti in contatto? Nuti (vittima di un incidente domestico nel 2006, ndr) come sta?

«Con Francesco non è facile, non ci sentiamo da almeno cinque anni. Athina è la madrina della mia terza figlia, andiamo insieme a teatro».

 Le commedie italiane languono. Perché?

«Le grandi commedie di una volta erano intrise di temi sociali.

Adesso la maggior parte di quei film nascono per far riposare il cervello. Non c'è differenza nel vederli al cinema o in piattaforma. In rete vedo gente anche più brava dei Giancattivi. Quando poi arrivano al mercato, accettano regole che li smosciano. È tutto un accontentarsi».

Estratto dell’articolo di Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 2 luglio 2023.

La casa-studio di Alessandro Bergonzoni, un loft nel centro di Bologna, è pieno di cose […] 

[…] Papà aveva una fabbrica di viti. Avrebbe voluto un figlio imprenditore?

«Sì e fece di tutto per farmi studiare Economia. Feci Giurisprudenza e mi laureai a fatica.

Volevo fare l’attore, ma non quello classico, che interpreta testi di altri. All’Accademia dell’Antoniano se ne accorsero e mi bocciarono due volte. Non ero “tradizionale”, avevano ragione».

Però lei doveva pur mantenersi perché a un certo punto i suoi genitori la misero di fronte alle responsabilità.

«E infatti per un po’ di anni ho lavorato anche nell’azienda di famiglia, ho fatto il magazziniere. Mi interessava l’aspetto sociale della vita, più che quello estetico o politico. Non sapevo come conciliare il lavoro sulle parole e sull’attore con il lato umano. Così mi misi a lavorare con la Caritas e con la Croce Rossa. Ho trascorso mesi nei manicomi e nelle carceri, più che nelle sezioni di partito. Oggi Achille Occhetto mi invita alla Bolognina e mi racconta le sue rivoluzioni, ma io ho sempre cercato di essere politico a modo mio».

Com’era Bologna negli Anni Settanta?.

«Una volta sono scampato a un attentato». 

Racconti.

«Lavoravo al fianco di un’associazione che aiutava gli ex carcerati a reinserirsi nella società. […] Una volta siamo andati nell’appartamento occupato da uno di questi. Mi chinai per attizzare il fuoco, quando lui mi assestò un colpo di mannaia nella parte posteriore della testa, per fortuna senza colpire il collo. Scappai via in un lago di sangue.

Rividi quella persona molto tempo più tardi. Fu quasi uno shock. Anni dopo seppi che si era tolto la vita. Il mio insistere sulla pazzia, sulla morte e sull’accompagnamento alla morte nasce anche da una sensibilità maturata in quegli anni».

Non frequentava le sezioni di partito?

«Mai. Solo le osterie. L’Osteria da Vito, per dire, dove con Guccini ci ritrovavamo a cantare. All’Osteria delle Dame ci trovavo Vittorio Gassman. È stato in questi posti che ho conosciuto quello che mi permetto di considerare uno dei miei amici cari, Paolo Conte». 

Umberto Eco ha detto: «Se dovessi rinascere mi piacerebbe fare quello che fa Alessandro Bergonzoni».

«[…] Ci siamo frequentati, io avevo un rispetto quasi timoroso ma lui a tavola si metteva a raccontare le barzellette, ti faceva ridere. […]».

Maurizio Costanzo la voleva più spesso ospite da lui. E forse avrebbe preferito un Bergonzoni più comico?

«Lui, ma anche altri come Loretta Goggi, mi dicevano: fai più tv, ti aiuta a fare più facilmente teatro e libri. Ma in vent’anni di Costanzo Show ci sono andato solo venti volte. Poi ho smesso con la tv. Costanzo voleva che io facessi i cosiddetti sketch ma, mi dicevo, quando poi andrò in teatro non sarò più libero nelle scelte perché la gente vorrà rivedere quello che ho fatto in tv».

Non solo Umberto Eco. Ieri come oggi, lei ha numerosi estimatori trasversali: Nino Manfredi, per esempio.

«Voi giornalisti e questa mania dell’aneddoto. Va bene. Una volta Giorgio Gaber venne a un mio spettacolo. Lo invitai in camerino e mi disse: “Sarà difficile che il prossimo spettacolo possa essere all’altezza di questo”. Gufava un poco, ora che ci penso! (ride). Ovviamente scherzo, non scomodiamo i monumenti parlando di me». 

Anche Nanni Moretti viene a vederla?

«Ma adesso sembra che io sia un fenomeno […]».

Conosce Elly Schlein?

«Sì e ho anche preso parte a manifestazioni contro la guerra insieme a lei e a altri. Ecco perché non capisco come mai abbia cambiato idea sull’invio delle armi in Ucraina. Schlein mi piace ma la aspetto in terrazza, voglio vedere che cosa farà. […]». 

[…] Per chi ha votato alle scorse elezioni?

«Giuseppe Conte». 

[…] È vero che lei pratica regolarmente la meditazione?

«Sì, due volte al giorno. E, visto che stiamo tornando in zona “Intimissimi”, cioè al personale più spinto, le confesso anche che non mi sono mai ubriacato, che non ho mai assunto sostanze stupefacenti. Ho avuto solo un grande vizio nella mia vita, che è durato per anni». 

Quale?

«La velocità». 

In auto?

«Sì. Ho corso nelle gare specializzate, avevo anche buoni sponsor. Ma nessuno dice che la velocità arriva a essere un vizio, come il gioco d’azzardo. Non ne puoi fare a meno. Ho smesso da un pezzo». 

Incidenti?

«Un paio di costole rotte,una volta sono svenuto. Cose che succedono a quei livelli». […]

Alessandro Borghi rivela: «Ho la sindrome di Tourette e non c’è una cura». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023.

In un’intervista al podcast «Bsmt», l’attore, protagonista della serie tv «Rocco» (su Rocco Siffredi), ha raccontato come ha scoperto di essere affetto dalla malattia neuropsichiatrica e come ha imparato a conviverci 

Credeva che i suoi fossero solo dei banali tic, poi Alessandro Borghi ha conosciuto la sua attuale compagna — che fa la psicologa e che fra poco lo renderà padre — ed è stata lei a fargli scoprire la verità. Ovvero, che aveva la sindrome di Tourette (una malattia neuropsichiatrica caratterizzata dall'emissione, spesso combinata, di rumori e suoni involontari e incontrollati e da movimenti del volto e/o degli arti denominati tic, ndr) e da quel momento l’attore ha preso consapevolezza della sua condizione, perché dalla patologia di cui soffre non si può guarire.

Tic motori e non verbali

«Un giorno la mia compagna mi ha fatto una domanda a bruciapelo e mi ha chiesto da quanto tempo avessi questi tic — racconta Borghi a Bsmt, il podcast di Gianluca Gazzoli — . Le ho risposto un paio di cose e lei mi fa: «Tu non hai tic, tu hai la Tourette, ce l’hai motoria e non ce l’hai verbale. Il problema è questo, la Tourette famosa è quella delle parolacce, quella della gente che a un certo punto bestemmia, perché è quella che si conosce di più, perché è quella più aggressiva. C’è però tutto un mondo che riguarda la parte motoria, che sono tutti gli effetti dei tic. Solo che il tic viene dalla sindrome dello stress post traumatico, da una cosa che ti è successa e il tic è il tuo modo di rispondere a quella cosa. Da un tic si può guarire, dalla Tourette no, perché è una cosa neurologica. È come uno starnuto, quando ti viene da starnutire, devi starnutire».

Quando ci si sente a disagio

Nell’intervista l’attore ha poi spiegato come si manifesti la malattia. «Nel mio caso la Tourette corrisponde a dei picchi emotivi, mi può venire quando sono molto felice, molto stanco o molto stressato oppure quando sono in situazioni che mi mettono a disagio. Molto spesso però mi viene quando ho a che fare con il mio corpo. Molte cose di me non mi piacciono, ho ripreso 6 chili da quando ho finito di girare Rocco (la serie tv su Rocco Siffredi, ndr) e quando mi guardo allo specchio e sento di non essere a mio agio con me stesso, ho dei picchi di Tourette incredibili». Sebbene sappia che non c’è una cura, l’attore rivela di aver imparato a convivere con la malattia.

La condivisione

«È bellissimo sapere che non c’è una cura a una cosa che hai. Questa è una frase forte, ci sono persone che hanno cose brutte. Però quanto è brutto non avere una risposta, rispetto ad averla brutta?». Una dichiarazione decisamente impegnativa, che però alcuni follower che si trovano nella sua stessa situazione hanno mostrato di apprezzare, come confermano i commenti ai video postati su TikTok. «Soffro di sclerosi multipla da quando ho 29 anni, ora ne ho 36 ma non esiste ancora una cura. Speriamo la ricerca la trovi», scrive un utente. «La stessa cosa è per l’acufene, non esistono cure…ti capisco», sottolinea un secondo fan. «Grazie perché anche io ho questi tic e mi fai sentire meno sola», si legge in un terzo messaggio.

Sindrome di gilles de la tourette. Il Corriere della Sera il 23 marzo 2022.

Malattia ereditaria, caratterizzata da tic motori e vocali cronici, spesso associati a comportamenti ossessivo-compulsivi e a disturbi attenzionali, descritta per la prima volta da Gilles de la Tourette nel 1885, a probabile trasmissione autosomica dominante.La maggior parte dei casi è sporadica, sebbene vi sia occasionalmente un’anamnesi familiare, e l’espressione parziale del tratto può verificarsi nei fratelli o nei discendenti dei pazienti.Il DSM-IV ha incluso la sindrome nei disturbi da tic e ne ha stabilito i criteri diagnostici nel seguente modo:- esordio prima dei 18 anni - presenza di tic motori multipli e di uno o più tic vocali - durata dei sintomi >1 anno, con possibile periodo asintomatico non più lungo di 3 mesi - significativa compromissione del funzionamento del soggetto - primitività del disturbo, non dovuto dunque a condizione medica generale o all’effetto di una sostanza.L’età di esordio è compresa tra 2 e 17 anni, ma per lo più avviene nella fanciullezza o nella prima adolescenza (età media 7-8 anni)  l’evoluzione è fluttuante e cronica, solitamente con riduzione della frequenza e della gravità dei sintomi entro la prima età adulta  il disturbo dura, comunque, tutta la vita, sebbene possano verificarsi periodi di remissione di settimane o anni.Sono stati descritti casi con totale scomparsa dei sintomi entro la prima età adulta. La prevalenza del disturbo è stimata intorno allo 0,05%  è 1,5-3 volte più frequente nel sesso maschile. Il rischio familiare è più elevato nei parenti di primo grado rispetto alla popolazione generale e ciò vale soprattutto per i figli di madri affette.Studi condotti su coppie di gemelli omozigoti hanno rilevato una concordanza del 53%, contro l’8% per i dizigoti. Esistono dimostrazioni a favore di un’associazione genetica tra la sindrome e il disturbo ossessivo-compulsivo e forse con il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Nel 10% circa degli affetti non risulta però una familiarità evidente.

·  Cause

Le cause sono ancora oggi in parte oscura, anche se si ipotizza un’eziologia organica, contrariamente alle ormai superate ipotesi eziologiche psicodinamiche, che interpretavano la sindrome come espressione di conflitti inconsci e di aggressività repressa.Esiste attualmente un generale consenso sulla familiarità della sindrome, come comprovato da numerosi studi epidemiologici  la “vulnerabilità” al disturbo (intesa come base genetica e costituzionale per lo sviluppo di un disturbo da tic) verrebbe trasmessa secondo una modalità autosomica dominante a penetranza variabile: la penetranza del gene nelle portatrici di sesso femminile sarebbe del 70% circa, mentre nel sesso maschile del 99%.La diversa espressione fenotipica del gene giustificherebbe la concomitante presenza, in aggregati familiari, di soggetti affetti non solo dalla sindrome in questione, ma anche da disturbo con deficit di attenzione e iperattività, disturbo ossessivo-compulsivo e altri disturbi da tic. Da molti anni, l’indagine eziopatogenetica della malattia si è rivolta alle possibili alterazioni a livello del corpo striato e del sistema limbico  esami autoptici hanno messo in evidenza riduzione di volume a carico dello striato, soprattutto del pallido, mentre studi in pet avrebbero evidenziato ipofunzionalità dei neuroni in alcune aree striatali e corticolimbiche.Studi clinici e farmacologici hanno suggerito che le alterazioni geniche potrebbero tradursi in una disfunzione del sistema dopaminergico centrale, nei gangli della base e nel tronco: una esaltazione dell’attività dopaminergica (consistente in supersensitivizzazione dei recettori sinaptici con loro eccessiva stimolazione), sarebbe responsabile delle manifestazioni ticcose. Tale ipotesi sarebbe indirettamente comprovata dal miglioramento clinico in seguito a somministrazione di farmaci dopamino-bloccanti e dall’aggravamento ottenuto con la somministrazione di levodopa, amfetaminici e di altri dopamino-agonisti.

·  Sintomi

Inizialmente, graduale insorgenza di tic motori semplici, inizialmente localizzati al volto e al collo (strizzamento degli occhi, smorfie facciali, scuotimento del capo da un lato all’altro), ai quali possono aggiungersi in seguito tic vocali semplici (emissione compulsiva di suoni inarticolati, ad esempio grugniti latrati e sibili, lo schiarirsi la voce o tossire e simili) e tic complessi vocali, sotto forma di espressioni verbali inclusa la coprolalia (parole volgari o oscene) ecolalia (ripetizione delle parole altrui), e palilalia (ripetizione di parole o frasi).Anche tic motori complessi possono comparire, come toccare, accovacciarsi, inginocchiarsi, eseguire piroette durante la marcia, saltare sul posto e ipercinesie simil-coreiche e simil-miocloniche, ecoprassia (imitazione dei movimenti altrui). I tic variano nel tempo per gravità, carattere e gruppi muscolari coinvolti.Si verificano anche tic sensitivi consistenti in pressione, solletico e sensazioni di caldo e freddo. La coprolalia, caratteristicamente associata al disturbo, può essere tra i primi sintomi: è, però, presente soltanto nel 10% dei soggetti e non è ritenuta dunque essenziale ai fini diagnostici. I tic possono essere talvolta soppressi dalla volontà e accentuati dalle emozioni  Gilles de la Tourette, nella sua descrizione originale, notava che anche la temperatura del corpo poteva influenzare la severità dei sintomi, risultando questi meno marcati durante episodi febbrili. Essi compaiono di solito in modo accessuale, più volte al giorno quasi ogni giorno. Manifestazioni e disturbi associati comprendono più frequentemente ossessioni e compulsioni, iperattività, distraibilità (spesso precede l’esordio dei tic) e impulsività, la cui relazione con i tic è incerta, raramente automutilazioni, determinate da alcuni tic per attività quali l’onicofagia (mangiarsi le unghie) o la tricotillomania (strapparsi i capelli) o il mettersi le dita nel naso, o mordersi labbra e lingua.  concomitano spesso disagio sociale, vergogna e senso di umiliazione.Le persone colpite in maniera grave possono andare incontro a episodi depressivi maggiori. Il funzionamento sociale, scolastico e lavorativo può risultare compromesso per il rifiuto da parte degli altri o per l’ansia connessa al timore di andare soggetti a tic in situazioni sociali. L’esame obiettivo neurologico e il quoziente intellettivo risultano solitamente nella norma  tuttavia, studi selettivi delle funzioni cognitive hanno indicato spesso una non perfetta integrazione visuo-spaziale, permettendo quindi di ipotizzare una disfunzione a carico dell’emisfero destro e vi è una incidenza maggiore del previsto di mancinismo o ambidestrismo. È stata osservata una disorganizzazione dell’architettura del sonno, con incremento delle fasi III e IV e notevole riduzione della quota rem, associata a un aumento dei risvegli notturni. Sono state evidenziate anomalie aspecifiche alla TAC dell’encefalo nel 10% dei casi.

·  Terapia

I trattamenti farmacologici sono i più efficaci, mentre la psicoterapia, inefficace come trattamento primario, può aiutare il paziente a convivere con il disturbo, mentre dubbi e limitati sono i benefici ottenuti con la chirurgia (cingolotomia anteriore, criotalamectomia). Il farmaco più usato è l’aloperidolo che produce un relativo miglioramento nel 70% dei soggetti. In alternativa, sono risultati utili altri neurolettici grazie alla loro interazione con l’attività dopaminergica. Altri farmaci utilizzati sono la clonidina che agirebbe riducendo l’irritabilità, le compulsioni e i sintomi motori e fonici.

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Cattelan: «Non voglio andare nello spazio di Fazio. “Da Grande?” è andato meglio di quanto pensassi». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2023.

Il conduttore ospite del Festival della Tv: «Quando ho conosciuto mia moglie pensava che mi drogassi. Ho capito che il mio era un lavoro solo quando l’ho perso» 

Sulla carta d’identità, Alessandro Cattelan alla voce professione fino a qualche anno fa scriveva: calciatore. «Il fatto è che mi piace l’intrattenimento e provare a fare tutto: ci sono cose che mi vengono meglio, altre che è meglio se le lascio perdere... ad esempio ho scritto dei libri, ma non vale la pena leggerli». Il punto è che il conduttore, ammette, «non ho mai considerato il mio un lavoro fino a quando l’ho perso, cioè quando ha chiuso Mtv. Ma per i primi sette anni per me quello era solo divertimento. Il mio limite forse è che faccio in tv, ancora oggi, per me stesso, porto in scena quello che mi diverte».

Figlio unico, papà carabiniere («un giorno mi sono ammanettato a un tavolino, lui disse a mia madre: quando torno lo libero. Sono rimasto otto ore ammanettato. La cosa buona è che non l’ho più fatto»), mamma casalinga, ha iniziato la sua carriera nello spettacolo per una truffa: «A scuola ci avevano proposto un servizio fotografico, al costo di trecentomila lire, che ci avrebbe permesso poi di lavorare nella pubblicità, in tv, così io e i miei compagni abbiamo convinto i nostri genitori a portarci a fare queste foto. Ovviamente, i tizi di questa agenzia sparirono. Ma due anni dopo, sempre loro, mi proposero una pubblicità, che sarebbe andata in onda durante il Festivalbar, quello condotto da Fiorello e Alessia Marcuzzi. Facevo la pubblicità di un succo. L’anno dopo un autore si è ricordato di me e mi ha chiamato quando stava partendo Mtv».

I suoi genitori, non erano tutti coccole e attenzioni: «Erano anni un po’ diversi: oggi i genitori sono molto presenti nella vita dei figli, siamo tutti convinti di aver messo al mondo dei piccoli geni, ma ai miei tempi no. Quindi mia mamma, un giorno sì e un giorno no mi menava: era una sorta di rituale, una danza, una capoeira. Quando succedeva qualcosa di grave interveniva la voce del padre che tuonava e resettava tutto, come si fa con le caldaie».

Papà felice («ma mia figlia più grande si è arrabbiata quando ho mollato “X Factor” proprio quando iniziavano ad appassionarsi i suoi compagni. Mi ha detto: “Proprio nell’anno in cui mi servivi”» ), marito innamorato («al primo appuntamento mi toccavo il naso come faccio quando sono nervoso. Lei pensava: ecco, il classico della tv che si droga»), non si definisce credente ma ogni tanto prega: «Non direi che sono credente, prego ogni giorno ma più che altro perché mi piace avere un piccolo momento in cui mi auto dico delle cose... chiamiamola preghiera».

Non definisce «Da grande» un insuccesso ma un programma «raccontato come se fosse andato male. Ma su una rete che non mi conosceva, facevo due milioni e mezzo di spettatori, dentro di me mi aspettavo peggio. Quindi no, non l’ho vissuta male ma come un’esperienza positiva e anche utile, che mi ha aiutato a capire meglio la differenza di aspettative che c’è da un contesto all’altro. Ma se io mi sono divertito una parte di successo c’è già stato». Alla domanda su cosa ne pensi del caso Fazio, dice: «Ha fatto un’ottima cosa, ha creato un appuntamento fisso, che è un po’ una mia ambizione e ancora non sono riuscito a farlo. Penso sia un segno di grande personalità. Non mi ha pesato essere messo spesso in contrapposizione a lui: capisco che facciamo due programmi seduti dietro una scrivania, un elemento comune anche se abbiamo due stili enormemente diversi.

Sullo spoils system che vige in Rai, dice: «Tendo a interessarmi alle cose mie, non so come sia andata veramente con Fazio, ma di certo è successo in un momento in cui questo cambio si è prestato a molte interpretazioni. Sono abbastanza nuovo in Rai, sto cercando di prendere le misure ma non la sento come una cosa mi dovrebbe riguardare. Certo, mi faccio condizionare da quello che sento ma pare che sia una cosa con cui fare i conti. Da pseudo giovane, ingenuo, mi spiace che l’intrattenimento debba sottostare a questo tipo di dinamiche anche se mi pare di capre che è una cosa normale». E se gli offrissero lo spazio della domenica sera al momento libero? «È un bello spazio ma non credo sia il momento giusto per farlo per me. A me piace lo spazio dove sto e spero di andare avanti a fare quello che sto facendo, che sento più affine al mio modo di vivere».

Dagospia il 9 marzo 2023. Da La Zanzara – Radio 24

 Alessandro Cecchi Paone, in procinto di partire per l’Isola dei famosi insieme al compagno Simone Antolini, attacca a La Zanzara su Radio 24 il Presidente del Senato La Russa dopo le frasi sui figli omosessuali: “Fa male a dirlo, ci sono tanti figli gay e tanti padri che lo dicono ai figli e si dispiacciono. Non ha offeso i gay, ma ha addolorato i figli che vorrebbero essere accolti e abbracciati dai padri e dalle madri. E’ fascista? Si, nella Repubblica fondata sulla costituzione antifascista non è la persona adatta (a fare il Presidente del Senato ndr).

 Con Simone Antolini, attuale fidanzato di 34 anni più giovane, parteciperanno al reality “L’Isola dei Famosi” diventando così la prima coppia omosessuale a prenderne parte. “Noi speriamo che questo cambi il costume in meglio. Pannella ci insegna che se le cose non le fai la gente non ti crede. Andiamo per un messaggio di normalità. Troppa differenza di età? I miei studenti etero maschi - continua Cecchi Paone a La Zanzara su Radio 24 - sono deliziati dall’idea di avere una milf, quindi vale anche al contrario”. In passato Cecchi Paone fu attaccato per aver detto che di Simone gli piace il culo. “E’ la verità - afferma l’ex forzista - ho amato le donne tantissimo,  anche sessualmente,  ma uno poi passa dalla passera al piacere del culo. Ne ho avute una ventina, con molte ho convissuto perché sono stato quasi sempre monogamo. Io delle donne preferivo la parte inferiore, nei maschi invece il Lato B. Di solito sono sportivi, hanno una tenuta muscolare più prolungata e quindi dà più soddisfazione per chi ama quell’aspetto lì”.

Sodomia contro natura? Chi lo dice non l’ha mai provato”, dice Cecchi Paone a La Zanzara. “Io preferisco essere attivo. Ero cultore del culo anche di quello delle donne, ma poi mi sono accorto che quello dell’uomo è più sodo. Di dietro violato? Certo che sì, sono circondato di super sportivi poi… per quella cosa del muscolo”. Poi sul matrimonio con Simone Antolini: “Mi voglio sposare con lui, sono stato felicemente sposato con una donna. Non faccio altro che sposare coppie gay, perchè mi riconoscono di aver dato un contribututo. Ora basta, l’ho fatto con una donna voglio farlo con un ragazzo. Anche perchè all’Isola festeggiamo un anno”. Sugli eventuali celebranti, Cecchi Paone scherza: “Piantedosi? No, casomai Sala che è più sensibile. Il ministro non mi piace, ha il grugno. Imita Salvini senza riuscirci. Meloni? Faremo un appello dall’Isola dicendo “Giorgia sposaci”.

Durante una puntata del “Maurizio Costanzo Show” si era presentato con Antolini dopo i dissidi con la madre. Ora come stanno le cose, si è riconciliato? “Molto - dice Cecchi Paone - è stato Maurizio Costanzo con il suo appello televisivo a farla pensare, piano piano ha cambiato idea. Adesso abbiamo fatto le prime prove tecniche a Milano per l’Isola e l’ha accompagnato il papà dalle Marche”. In politica qualcosa è cambiato per Cecchi Paone: “Sono stato a votare alle primarie del Pd alla storica sezione di Berlinguer a Ponte Milvio. Ho votato Schlein. Qui c’è una destra estrema che non ha più nulla di liberale. Se resta segretaria la voterò sperando nell’apparentamento con i miei amici radicali di Più Europa”.

Sull’utero in affitto, invece, il divulgatore ha una posizione discordante dalla comunità LGBT: “Sempre stato contrario, non userei mai una donna come una incubatrice. Non posso proibirlo, ma non voglio avere un figlio sennò lo facevo con mia moglie. Però adotterei immediatamente un bambino, ma qui in Italia non si può fare. Non è giusto decidere chi deve adottare, secondo i suoi costumi, ci vuole un adulto che si pigli carico di un bambino abbandonato”. “Fascismo problema in Italia? No, la manifestazione di Firenze è stata una scelta di marketing. Lo abbiamo già sconfitto e torneremo a sconfiggerlo. Ci sono atteggiamenti fascisti - prosegue Cecchi Paone - come i pestaggi, il modo di parlare dei migranti.

Piantedosi ha atteggiamento fascista? Sì, perchè fascismo è non rispettare l’umanesimo laico cristiano che rispetta il singolo individuo. Sulle droghe Alessandro Cecchi Paone va all’attacco: “Cannabis legale? Subito. Ho fumato una volta sola perchè quando quando la mia ex fidanzata fumava scopava da Dio. Cocaina? Mai provata, io ci lavoro con la testa. Esagerare anche con la cannabis fa male ma vale anche quando esagero col whisky”. In chiusura poi, Cecchi Paone,  parla anche di Vittorio Feltri: “Lo considero in una deriva disperante - conclude a La Zanzara - distrugge così una bellissima carriera e una splendida storia. Fascista? No. Da quando l’ho sentito accusare Luxuria perchè trans ho detto che quest’uomo non è meritevole di attenzione”

Silvia Fumarola per la Repubblica - Estratti giovedì 9 novembre 2023.

Avremmo voluto incontrarlo tutti nella vita un professore così empatico, motivato, amorevole. Anche Alessandro Gassmann, che lo interpreta. «Il mio percorso scolastico, com’è noto, è stato una tragedia» dice l’attore ridendo, «sarebbe stato diverso se avessi trovato sulla mia strada un insegnante come Dante Balestra». Dal 16 novembre su Rai 1 (il 14 anteprima dei primi due episodi su RaiPlay) arriva su Rai 1 la seconda stagione di Un professore, la serie diretta da Alessandro Casale che racconta la vita di un insegnante di Filosofia di un liceo romano. 

Uno che va a recuperare gli alunni a casa, e ha svariati problemi privati. Sensibile e anticonformista, spiega come la complessità arricchisca, non deve fare paura. Mosca bianca in questi tempi veloci, in cui tutto è sbrigativo e meno si ragiona e meglio è. Nel cast Claudia Pandolfi, Nicolas Maupas, Damiano Gavino, Christiane Filangieri.

«Ha avuto successo perché utilizza la filosofia e la commedia per raccontare storie di genitori e figli in maniera, non voglio dire educativa, ma interessante, portando nel racconto valori e conoscenza. È la cosa che mi piace di più. Il mio personaggio, Dante Balestra, mi permette di trattare temi seri e fare la commedia. Gli voglio bene, è il professore che non ho avuto». 

Neanche un mentore nella sua vita di studente?

«Purtroppo no. Per questo la mia frequentazione scolastica non è stata brillante. Ho 58 anni, la mia generazione è cresciuta con l’idea di una scuola che faceva paura: interrogazioni e voti. Non ho avuto la fortuna di incontrare un professore come quello della serie. Sicuramente anche all’epoca esistevano maestri illuminati che ti facevano amare lo studio. Io non li ho trovati». 

Com’era negli anni del liceo?

«Timido, schivo, molto chiuso, un po’ complessato. Ero alto quasi 2 metri a quattordici anni, e poi, chiaramente, ero sempre molto osservato essendo il figlio di Vittorio Gassman. Non davo grandi soddisfazioni, a scuola e ci andavo poco». 

Visto quello che succede, sembra che i ragazzi abbiano bisogno anche di un’educazione sentimentale/ sessuale. Che idea si è fatto?

«Viviamo in una società in cui, sempre più spesso, si smette di fare il mestiere di madre e di padre, demandando tutto alla scuola. Ma sappiamo bene che non ci sono i mezzi e anche gli insegnanti più bendisposti non riescono a fare un lavoro appropriato. È una società in cui, se un prof dà un voto basso a un alunno, i genitori protestano, minacciano o alzano le mani. Il mondo capovolto. Ci vorrebbero tanti Dante Balestra e genitori che sappiano ascoltare i propri figli».

È diventato più difficile?

«Bisogna seguirli per farli diventare adulti nel modo migliore. Ok, stanno attaccati al telefonino, ai messaggi, ai social ma quel mondo non può essere sostitutivo della vita. Che vuol dire vedersi, abbracciarsi, magari mandarsi a quel paese. Ma dal vivo, con onestà, guardandosi negli occhi. Lo so, sono boomer». 

Suo figlio Leo, bravo musicista, è protagonista della fiction su Califano: alla fine recita anche lui. Che gli ha detto?

«Da due anni frequentava seminari con un coach di recitazione. Gli ho chiesto: perché lo fai? Mi ha risposto: sono curioso. Veniva sempre con me in teatro, ha il mito del nonno. Non ho seguito i suoi movimenti, poi ho scoperto che era stato preso per interpretare Califano da giovane. Mi ha fatto molto piacere, qualche qualità ce l’avrà, sarà una sorpresa anche per me». 

Non si confronta?

«Tende a fare tutto per conto suo, ma ha assorbito la passione di quello che faccio nella vita. Non credo nei geni, non necessariamente si eredita il talento ma la sensibilità sì, e lui ha grande sensibilità». 

Non gli dato consigli?

«Non ho letto la sceneggiatura, inizia con un personaggio molto famoso e amato, un triplo salto mortale. Leo è un grande fan di Califano, canta le sue canzoni. All’inizio ho pensato che c’entrasse poco fisicamente, ma ho visto le foto e gli somiglia abbastanza. Gli ho detto solo: “Dai il massimo”». 

È un papà amico o un padre padre?

«Ora sono un papà amico ma sono stato un padre molto fermo e severo, che faceva rispettare le regole. Poi a 18 anni ho mollato, gli ho spiegato: “Ora sei un uomo libero, cerca di farti valere nella vita, con onestà”. È la cosa più importante».

E suo papà com’era?

«Mio padre è stato severo con me ma molto affettuoso, giocoso, avevamo un rapporto fisico fatto di baci e di abbracci. Incuteva timore per la struttura fisica e la voce, ma era buono. Tornando alla scuola, lui prendeva dieci. Si arrabbiava perché non mi applicavo. Non aveva tempo e non andava a parlare con i professori; mamma non era portatissima. Mi è andata bene».

(…)

Estratto dell’articolo di Francesca Schianchi per “la Stampa” domenica 30 luglio 2023.

Sul suo account Twitter, accanto a nome e cognome, c'è un alberello. Tra gli ultimi tweet che ha pubblicato, la storia di una scuola dell'Arkansas capace di guadagnare oltre un milione di dollari rivendendo l'energia prodotta dai pannelli solari: «Si può e si deve fare». Attore e regista, Alessandro Gassmann è anche un attivista per il clima: da tempo predica dai suoi social la necessità di affrontare il cambiamento climatico […] «Chi studia da tempo questo fenomeno non è rimasto particolarmente stupito: molti scienziati, anche premi Nobel, ci avvertono da tempo. Ma purtroppo nel nostro Paese c'è molta disinformazione sul tema».

[…] Ha visto il video del ministro dell'Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, commosso davanti all'emozione di una ragazza che teme per il suo futuro?

«Mi ha fatto grandissima simpatia. Ha l'aria di uno che dice cose senza pensarle, poi quando si trova davanti una ragazza che potrebbe essere sua nipote non si tiene, è una cosa molto umana. Il problema è che il giorno prima aveva detto di non poter dire se questi fenomeni siano causati dall'attività umana. È lui che dovrebbe saperlo, e dovrebbe spingere per un cambiamento il più rapidamente possibile».

Che impressione le fanno i negazionisti del cambiamento climatico?

«Stiamo parlando di una rivoluzione che taglierebbe le gambe alla produzione di energia fossile, ci sono grandi interessi in ballo». 

Ma negano o sono scettiche molte persone comuni, non toccate da grandi interessi.

«Io credo che c'entrino i social: dove l'opinione del premio Nobel conta come quella dell'ultimo arrivato che magari ha più follower. Informarsi è complesso, serve tempo, bisogna approfondire. E poi c'è la responsabilità di una certa narrazione politica e di alcuni giornalisti di reti importanti». 

A chi si riferisce?

«A tutti quelli che fanno certe dichiarazioni. L'ultimo è stato il compagno della premier (Andrea Giambruno, ndr), ma non penso solo a lui. Ad esempio a Sgarbi, che continua a scagliarsi contro le pale eoliche perché dice che rovinano il territorio: ma, se continuiamo così, tra un po' non ci sarà più nessun territorio da difendere».

Sui suoi social ha invocato una «pacificazione climatica». Cosa intende?

«Sento gente che dice "perché devo rinunciare all'aria condizionata quando i cinesi inquinano più di me?". Servirebbe che qualche moderato riuscisse a rassicurarli sul fatto che le fonti rinnovabili possono creare nuovi posti di lavoro e che l'Italia, con il vento e il sole che ha, sarebbe avvantaggiata». 

[…] La sinistra di Elly Schlein non la convince?

«Sta dicendo cose di sinistra, ma serve un cambiamento radicale. Lei dovrebbe essere la più anziana di tutto il gruppo dirigente del suo partito. Serve gente nuova, che non abbia ancora sbagliato. Io, ad esempio, che sono benestante, vorrei pagare una patrimoniale, vorrei che un partito di sinistra la proponesse».

Diranno che è un radical chic.

«Non sono radical e tantomeno chic, vivo praticamente in ciabatte. Comunque non devo conquistare voti, ho la fortuna di poter dire quello che mi pare». 

Tra chi frena sulla riconversione ecologica, c'è chi pensa che sia una fissazione da ricchi.

«Io parlo così perché mi sono informato. I benestanti subiranno meno degli altri gli effetti del cambiamento climatico, saranno i più deboli ad andarci di mezzo. Sono convinto che bisognerebbe inserire una materia specifica a scuola, qualcosa tipo "ecoistruzione", dedicata alla sostenibilità».

Lei come si è appassionato del tema?

«Ho particolarmente approfondito negli ultimi dieci anni, ma ho cominciato quando è nato mio figlio: quando ho iniziato a pensare alla fine della sua vita, e non solo della mia». 

Suo figlio oggi ha 24 anni: la pensa come lei?

«È molto coinvolto, praticamente un purista. Non usa plastica, fa una vita molto ecosolidale». 

Tra i ragazzi della sua generazione, ci sono giovani che soffrono di "eco-ansia"…

«Il fenomeno pare sia molto diffuso tra i ragazzi, ma sbagliamo a dare un nome a qualunque cosa. Non chiamiamola eco-ansia: sono ragazzi preoccupati per il futuro del loro pianeta». 

Fanno bene alcuni di loro a protestare con la vernice sui monumenti?

«Amo alla follia quei ragazzi, se avessi vent'anni sarei uno di loro. Ma sconsiglio di usare la vernice sui monumenti, perché è controproducente. Rischiano di passare per ragazzi viziati che pensano di poter fare quel che vogliono, e non se lo meritano. Perché invece hanno ragione».

Morta Juliette Mayniel, madre di Alessandro Gassmann. Le parole del figlio su Twitter: «Non ci sei più e ci sarai sempre. Ti voglio bene, buon viaggio mamma». Il Corriere della Sera  il 21 luglio 2023.  

È morta la madre di Alessandro Gassmann Juliette Mayniel. A darne notizia il figlio, attraverso Twitter. «Non ci sei più e ci sarai sempre. Ti voglio bene, buon viaggio mamma». L’attrice francese aveva 87 anni.

Fino a metà degli anni 80, Juliette Mayniel è stata un'attrice di grande successo, protagonista di decine di film noti. Per la tv ha recitato come Circe per lo sceneggiato L'Odissea (del 1968) e Madame Bovary (del 1978). È stata vincitrice nel 1960 di un Orso d'argento per la migliore attrice al festival di Berlino per l'interpretazione nel film Storia di un disertore. Ha recitato tra l’altro in Occhi senza volto (1960), Peccati in famiglia (1975), I prosseneti (1976), Il maestro di violino (1976) e Di padre in figlio (1982).

Alessandro era nato dalla sua relazione con l'attore Vittorio Gassmann alla metà degli anni Sessanta. I genitori si separarono quando lui aveva solo tre anni ma ha sempre mantenuto un legame molto stretto con sua madre.

Estratto dell’articolo di rainews.it sabato 22 luglio 2023.

Juliette Mayniel è morta all'età di 87 anni. E’ stato Alessandro Gassman a darne l’annuncio sui social: “Non ci sei più e ci sarai sempre. Ti voglio bene. Buon viaggio mamma”, ha scritto Alessandro Gassmann. L'attrice francese, nata a Saint-Hippolyte il 22 gennaio del 1936, ebbe una relazione con Vittorio Gassman alla metà degli anni Sessanta dalla quale nacque Alessandro. 

I genitori si separarono quando lui aveva solo tre anni ma ha sempre mantenuto un legame molto stretto con sua madre. In un'intervista al Corriere della Sera  spiegava che grazie a lei aveva imparato a rispettare e difendere la natura e l’ambiente: "Era figlia di contadini francesi, che però non ho fatto in tempo a conoscere". 

"Non ho mai occasione di parlare di mia madre, mi chiedono sempre di mio padre – aveva detto l’attore – mia madre era di una bellezza fuori dal comune, uno dei volti della Nouvelle Vague, aveva vinto l’Orso d’oro alla Berlinale. Attrice cult ancora oggi, quando metto una sua foto sui social, spopola" 

Fino a metà degli anni 80, Juliette Mayniel è stata un'attrice di enorme successo, protagonista di numerosi film. Per la tv ha recitato come Circe per lo sceneggiato L'Odissea (del 1968) e Madame Bovary (del 1978).

Marco Giusti per Dagospia sabato 22 luglio 2023.

Se ne va la bellissima Juliette Mayniel, 87 anni, che noi conosciamo soprattutto come compagna di Vittorio Gassman nella prima metà degli anni ’60, madre di Alessandro Gassman, nonna di Leo Gassman. Ma è stata anche e soprattutto un’ottima attrice, soprattutto negli anni dei suoi esordi in Francia, adorata da maestri come Georges Franju e Claude Chabrol. 

E forse la presenza di Gassman e la maternità senza matrimonio, in un paese così cattolico, oscurarono la sua carriera che avrebbe potuto essere più importante. 

Nata nel 1936 a Saint-Hippolyte, nell’Aveyron, dopo una particina in “Festa di maggio” di Luis Saslansky con Yves Montand nel 1958, la troviamo ventenne tra le giovani promesse del cinema francese, lanciata assieme a Mylene Demongeot come nuova Bardot.

E’ protagonista di un capolavoro della Nouvelle Vague come “I cugini” di Claude Chabrol con Gerard Blain, Jean-Claude Brialy, Stéphane Audran, poi di “Pecheur d’Islande” di Pierre Schoendoerffer con Jean-Claude Pascal. 

Con degli occhi luminosi che si esalteranno con il Technicolor del tempo e un grande volto la troviamo protagonista di film anche importanti o innovativi, come “Un couple” di Jean-Pierre Mocky, “Storia di un disertore” di Wolfgang Staudte, “Colpo alla nuca” di Georges Lautner, ma soprattutto del meraviglioso fantasy “Occhi senza volto” di Georges Franju con Pierre Brasseur, Alida Valli e Edith Scob. 

Quando scendono in Italia tutti gli attori francesi per doveri di coproduzione la troviamo nel peplum “La guerra di Troia” di Giorgio Ferroni a fianco di Steve Reeves e John Drew Barrymore.

Nel 1960, a solo un anno di distanza dalle sue nozze con l’attore Robert Auboyneau, si fidanza con Vittorio Gassman e ha con lui una storia abbastanza tormentata, anche perché tutti e due sono sposati e in Italia non c’è il divorzio. Riempie le prime pagine un suo tentativo di suicidio per amore con la lametta a Buenos Aires nell’aprile del 1960. 

Seguita a lavorare in Francia, dove gira parecchi film di Claude Chabrol, “I bellimbusti”, “Ofelia”, Landru” con Charles Denner. Con la regia di Michel Deville gira l’ottimo “Il diavolo sotto le gonne” con Jacques Charrier.

Quando ottiene il divorzio dal primo marito nel 1964, torna in Italia in maniera più stabile, e nel 1965 nascerà Alessandro Gassman. La troviamo in film molto diversi, come l’episodio sperimentale “Il passo” diretto da Giulio Questi nel film a più episodi “Amori pericolosi”, dove recita assieme a Frank Wolff, la commedia “Scusi, facciamo l’amore?” di Vittorio Caprioli con Pierre Clementi, “Il gatto selvaggio” di Andrea Frezza, tipico film sessantottino, “L’alibi”, film girato a sei mani da Gassman, Luciano Lucignani e Adolfo Celi, una specie di autobiografia di amici dell’Accademia.

Ma sarà soprattutto l’“Odissea” televisiva di Franco Rossi, dove ha il ruolo della strega ammaliatrice Circe a darle vasta popolarità e a sfruttare al meglio i suoi occhi. Nel 1965 Gassman le intesta persino un piccolo teatro da 100 posti, il Teatro Mayniel a Roma, che aprirà la stagione con “Il gioco dell’amore e della morte” di Boris Vian. 

Ma la sua storia d’amore con Gassman finirà presto. Nel 1968, proprio quando avevano deciso di sposarsi, si lasciano. Dopo essersi lasciata con Gassman, accetta film di genere non sempre riusciti. La ricordiamo in “Quella piccola differenza” di Duccio Tessari, “Piedone lo sbirro” di Steno, le commedie sexy “Peccati in famiglia” di Bruno Gaburro e “Il vizio di famiglia” di Mariano Laurenti, dove si cerca di farne una Edwige Fenech, i più spinti “Bestialità” di Peter Skerl, “I prosseneti” di Brunello Rondi, una televisiva “Madame Bovary” di Daniela D’Anza, il thriller “Solamente no” di Antonio Bido.

Torna a recitare con Vittorio Gassman nel documentario girato in famiglia “Di padre in figlio” che unisce Vittorio al figlio Alessandro. Da vent’anni viveva in Messico, ormai lontana dal cinema.

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 2 maggio 2023. 

(...)

Nella realtà, che è sempre il contrario della fiction, Alessandro Gassmann - enfant terrible che faceva impazzire tate, baby sitter e insegnanti di ripetizioni quando era liceale ha cambiato dieci scuole private («Ma valle a cerca’ dove stanno dieci scuole private a Roma...»), sessualmente esuberante e scolasticamente passivo, pluribocciato che si fece persino cacciare dalla St. George’s, sulla Cassia, Roma Nord inoltrata, il paradiso dei ricchi, dove vanno i figli e le figlie di chi può pagare – to buy e la Buy– e la filosofia non l’ha mai studiata. Più che le giornate sul nooúmenon poterono le serate al Piper. 

Ma oggi Alessandro Gassmann è “il Professore”, docente dell’istituto Superiore di Moralità Pubblica, il Santone dei buonisti da prime time, il Torquemada laico del politicamente iper-corretto, Ethikà e ápeiron, il Gassmann moralista, da Mattatore a Moralizzatore, il motore immobile- ho o kinoúmenon kineî, «quello che si muove senza essere mosso» – della centrale del Bene Assoluto, un campo larghissimo e virtuoso che va dalle frociate dell’orgoglio Lgbtq ai seghini su Twitter di Luca Bizzarri (o Luca Bottura, è uguale), dalle prediche di padre Spadaro ai santini di Peppa Pig, da chi ritrae Salvini a testa in giù fino alle ricette immigrazioniste neanche di Gino Strada, no: della figlia di Gino Strada...

(...) 

Gauche a 30 all’ora, armocromia e «Ora e sempre Resistenza». Regola: «L’unico attore che vale, è l’attore impegnato». Le belle e buone cause per cui si batte l’acteur engagé Alessandro Gassmann, tappeto rosso e bandiera arcobaleno, tanto aperto al dialogo che blocca tutti senza motivo su Twitter e tanto inclusivo che se Dino Giarrusso entra nel Pd, «Io non lo voto più». 

Nell’ordine. La crociata ultrachiusurista - con spiata sulle feste dei vicini di casa - affrontata con un forte rispetto dei principi di libertà: «Chi non vuole farsi il vaccino non entra in ristoranti, bar, cinema, stadio, negozi, autobus, taxi, treni e tiene sempre la mascherina... poi vedi che lo fanno». La battaglia per l’ambiente, Green heroes e lotta dura ai cambiamenti climatici. Difesa strenua della comandante della Sea-Watch, Carola Rackete: «Speroniamoli tutti!».

Impegno infaticabile in favore dei rifugiati, tout court, che lo pone al secondo posto nella Top Ten immigrazionista nazionale, subito dopo Nicola Fratoianni, subito prima di Luca Casarini, ma a pari merito con Aboubakar Soumahoro. Ovviamente volontario sul fronte anti-Putin per l’emancipazione dal gas russo: il termostato di casa a 18 gradi come quinta colonna occidentale zelenskiana. E, ça va sans dire, di corsa a difendere l’orsa del Trentino, il peluche dei Vip, da Ornella Muti a Licia Colò. Ma soprattutto, naturalmente, agit-prop antimeloniano: «Con questo governo oggi in Italia la democrazia è in sofferenza». Padri costituenti della nuova carta «antifa»: Pierfrancesco Favino, Ambra Angiolini, Jasmine Trinca, le Rohrwacher, le nuove sorelle Bandiera, e Alessandro Gassmann (e anvedi sta burina della Meloni che tagliai fondi dati solo ai film di sinistra...).

Comunque, Gassmann è così buono, ma così buono, ma così buonista, che quando gli svaligiarono casa, invece che prendersela con i ladri, postò la foto del padre nel film I soliti ignoti. E poi quella volta che, con squisito paralogismo, twittò: «A chi dice no al DDL Zan ricordo le persecuzioni degli omosessuali durante il Terzo Reich». Aporie alla vaccinara. 

Domanda: ma cosa se ne fa Gassmann della spunta blu di Twitter dal momento che blocca tutti e nessuno può leggere quello che scrive? Non so, si meriterebbe un neologismo ancora da inventare.

Figlio di troppo padre, 58 anni, il vezzo della doppia «n» nel cognome alla ricerca delle origini ebraiche perdute (che però a sentire una sorellastra non esistono), una moglie-ombra alla quale è fedelissimo (l’attrice Sabrina Knaflitz, bellissima e bravissima), un calendario icona gay da un milione di copie quando era la versione maschile di Belén; alle spalle un repertorio come uomo del tonno per Rio Mare e troppi filmetti spazzatura, una bravura di regista teatrale nettamente superiore a quella di attore cinematografico, una casa romana dietro piazza Navona, il centro ma senza caos, via dei Coronari, dove, paladino dell’eco-green, si mise a spazzare la strada a favore di selfie, #RomasonoIo, un buen retiro per l’inverno in Austria e un casale a Magliano in Toscana, Maremma grossetana, entroterra snob della Capalbio vip, dove passò il lockdown, c’è chi può e chi no-vax, Alessandro Gassmann è persona squisita: rispettoso, educato, generoso, anche se diffidente, disponibile ma con un rapporto complicato con la stampa, introverso ma buono.

Sempre buono. Troppo buono. Anche nella finzione filmica. L’omosex piacione, il buon padre di famiglia di figlio Down, l’integerrimo chirurgo ebreo che impara a non odiare i neonazisti... E in fondo anche quelli di Pizzofalcone sono bastardi sì, ma dal cuore d’oro. (...) 

Tanto il padre Vittorio fu genio e sregolatezza, quanto il figlio Alessandro è modestia e prevedibilità. Dentro il sistema, filone allineato dei cinematografari romani, mai un pensiero spettinato, sempre col ditino alzato: metti la mascherina, raccogli le cartacce, abbassa i termosifoni, accogli il migrante, boicottala Meloni (però i contratti coni teatri gestiti dai meloniani si possono firmare). Invece che l’estetica della drammaturgia, pratica l’etica dell’ideologia. Basta il nome, che «fa cartellone».

Ricordiamo un immenso Macbeth di Vittorio Gassman, 1983. La scena in cui s’imbatte nel fantasma di Banquo: «Vattene, sparisci! Scendi sottoterra! Le tue ossa non hanno midollo, il tuo sangue è freddo...». Alessandro, più che da quello del padre, è perseguitato dallo spettro di due fratelli. Il primo è Jacopo, regista teatrale di cui il grande Vittorio diceva «È un genio»; il secondo è Emanuele Salce, figlio del regista Luciano e di Diletta D’Andrea, terza moglie di Gassman. Con entrambi ha un atteggiamento distaccato, e l’ansia che possano emergere eclissandolo. Sbagliando.

Ma fai l’attore, già sei fortunato Alessandro...

Leo Gassmann: «A Sanremo mi sento protetto da tanti angeli custodi, fra mia madre e il mio prof di filosofia». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

Il cantautore in gara al Festival con «Terzo cuore». E il 24 febbraio arriva «La strada per Agartha», «il mio primo disco da adulto»

Un «Terzo cuore», come si intitola la canzone con cui Leo Gassmann è in gara a Sanremo, riservato a «qualcuno di speciale, ai tanti angeli custodi che mi hanno salvato la vita e dato la forza per andare avanti». Il cantautore 24enne descrive così il brano con cui torna all’Ariston dopo la vittoria a Sanremo Giovani del 2020 e che segna una ripartenza «più consapevole», seguita dall’uscita, il 24 febbraio, de «La strada per Agartha», «il mio primo disco da adulto, per tornare a concepire la musica come un punto di aggregazione in cui si discute dei problemi del mondo».

I suoi angeli custodi chi sono? «Mia madre, la prima a credere in me e regalarmi uno strumento quando avevo 7 anni, ma anche il mio prof di filosofia e le tante guide che ho nella musica». Una fra tutte è Edoardo Bennato che duetta con lui in uno dei brani del disco e che, stando al suo sorriso rivelatore (ma manca l’ufficialità), potrebbe farlo anche al Festival. Un’altra è Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari che co-firma il brano sanremese e anche un’altra traccia del disco: «Riccardo è un maestro di vita. Mi dà speranza vedere che ce la si può fare anche se sei un bravo ragazzo e non salti la fila. È uno dei più forti in Italia e mi commuovo a pensare a quanto si sacrifica: per aiutarmi a preparare il brano prendeva un aereo mentre stava facendo il tour dei palazzetti, faceva tardi con me e poi riprendeva l’aereo».

Anche Leo è l’emblema del bravo ragazzo: «Cerco di essere ogni giorno una persona migliore, i miei mi hanno sempre detto di ricordarmi quanto sono fortunato e non riuscirei, dopo tutte queste fortune, a convivere con me stesso se fossi una brutta persona». A cosa si riferisce? «Ho la fortuna di vivere in un Paese dove non c’è la guerra, di avere privilegi, da ragazzo bianco, che non dovrebbero esistere. Penso si debba combattere per questo, per dividere il pane». A maggio ha fatto parlare di sé per avere soccorso una ragazza vittima di molestie: «Ne avevo scritto sui social per sensibilizzare la gente a muoversi, non per essere dipinto come un eroe, anche perché è stata una situazione anche potente, scomoda - racconta -. È un mondo in cui c’è bisogno di proteggere, io ci provo».

Il titolo del disco è ispirato al romanzo «Il Dio fumoso» di Willis George Emerson ed è un concept incentrato sulla ricerca della bellezza e sull’amore per la musica: «Ci ho lavorato con tante persone e loro sono la famiglia che ho scelto. È un lavoro collettivo con brani pop, uniti a una quota cantautorale più intima e dark». Dentro c’è un pezzo in inglese (con Will & the people), un altro in parte in indiano, ci sono collaborazioni con artisti di tante provenienze, con esordienti e con nomi noti come Giovanni Caccamo e Lodo Guenzi.

La pandemia aveva fermato la sua corsa dopo la vittoria del 2020: «Sono stati tre anni difficili per tutti nella musica, ho avuto porte in faccia, concerti che andavano malissimo, fatto tanta gavetta. Ma è stato bello avere tre anni per costruire un lavoro senza sapere come e quando avrebbe visto la luce, spero torni la voglia di fare le cose perché ci va di crearle e non per andare primi in classifica».

È un «figlio e nipote di» e non l’ha mai nascosto: «Quando hanno annunciato i nomi di Sanremo, ero con degli amici e abbiamo gridato come matti. Poi mi hanno chiamato i miei al telefono, mamma piangeva e papà (Alessandro, ndr.) mi ha detto “sono fiero di te” . A quel punto sono scoppiato a piangere anche io. Ho sempre fatto tutto da solo, per scelta loro sono rimasti fuori. Forse non viene percepita la gavetta, ma non mi pesa. Ci sta che un ragazzo col mio cognome venga criticato. Non ho niente da nascondere, sono Leo e sto inseguendo un sogno».

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” - Estratti venerdì 24 novembre 2023. 

«Questa è un’altra storia, vabbé...». La vita di Alessandro Haber sono tanti racconti insieme. E lui, così emotivo, istintivo, sensibile, selvaggio, è il maestro della digressione. Apre la porta di casa, ha la stampella, non più la sedia a rotelle, dopo l’intervento andato male per un’operazione alla schiena. Anzitutto come sta? «Meglio, della stampella non so se potrò liberarmi, ho 76 anni, i fisioterapisti mi hanno detto: non pensavamo di vederla in piedi. Per un anno e mezzo ho fatto tutti i giorni piscina e fisioterapia. È stata dura. Ero depresso. Una notte ho sognato di essere Tarzan che salva i migranti».

(…)

Ha fatto 150 film.

«Con Bellocchio, La Cina è vicina , il mio debutto, avevo 18 anni. Pupi Avati mi diede il primo ruolo da protagonista, poi Monicelli, Nanni Loy, Nuti, il mio amico Veronesi...

Con chi tornerei subito tra Pieraccioni e Moretti? Con Nanni. Lo amo. Mi ha voluto in Sogni d’oro. Faceva cinquanta ciak per una scena. Era venuto a vedermi a teatro in Dialogo di Natalia Ginzburg. 

Mi disse: ceniamo insieme, solo noi due, e non parliamo di donne e di calcio. Ho sofferto che non mi abbia più richiamato. Ha preso spesso Silvio Orlando, attore che adoro. Un giorno Nanni, quando gli ho detto ma perché non mi hai più chiamato, ha bofonchiato qualcosa che non ho capito. Passo per rompiscatole. Io le dico le cose. Poi torno, mi scuso, si ricomincia, mi piace inventare, mettermi in discussione. Si sparse ’sta voce perché sono esuberante. Sono un emotivo costruttivo, come avrei potuto fare 150 film e tanto teatro?». 

È vera la storia dei 70 schiaffi di Carmelo Bene?

«Me ne diede anche di più. Era La cena delle beffe , c’era un altro gigante, Gigi Proietti. Avevo scoperto Carmelo nel monologo del Faust di Marlowe, parlava per cinque minuti con un manichino dicendo: è bella.Tutto qui. È bella. E finiva: è bella il cazzo. Ma questo è un genio, mi dissi. Mi allontanai da lui perché sarei diventato suo vassallo. Due anni prima di morire mi propose Sancho Panza, lui doveva interpretare Don Chisciotte. Avrei pagato io per farlo. Non ci fu tempo». 

Questa cosa degli scherzi...

«Perché ci credo, ci casco. Sono un buon punching ball. Ve ne racconto uno. Squilla il telefono, risponde mia madre: ti vuole la segretaria di Luchino Visconti. Io, mai visto né conosciuto. Il maestro la vuol vedere domani per affidarle un ruolo importante, mi dice una voce femminile. Mi dà indirizzo e orario. Metto giù gongolando. Risquilla il telefono, era la mia amica attrice Antonella Squadrito. Non la faccio nemmeno parlare. Sai chi mi ha chiamato cinque minuti fa? E lei: la segretaria di Visconti». 

Veniamo all’episodio con Lucia Lavia. Anno 2011. Otello in prova. Il bacio con la lingua, lo spintone di Lucia, lei reagisce con una sberla, poi manda un messaggio per chiarirsi col padre, Gabriele Lavia, che non le risponde. Possiamo dire un episodio «haberrante»?

«Allora, Gabriele due anni dopo mi telefonò proponendomi un film... Con Lucia provavamo Otello, che è innamorato pazzo e dopo il tradimento nello spettacolo si trasformava, diventavo scimmiesco, parlavo con un linguaggio animalesco. Alle prove a Lucia avevo chiesto: quanto posso osare?

Quel giorno davanti a venti persone e non in camerino, tirai fuori mezza lingua perché era il personaggio che lo richiedeva. Lucia pianse, chiamò sua madre, Monica Guerritore. Scoppiò l’ira di Dio sul niente. Io non ho mai aggredito una donna in vita mia».  

La sua ex Giuliana De Sio le fu solidale. Com’è due ansiosi insieme?

«Però lei mi calmava. E adesso anche Giuliana si è molto calmata. Ricordo che a casa provavo Strindberg, c’erano sette ruoli femminili e lei li faceva tutti e sette». 

Perché la storia finì?

«Mi chiamò e disse che mi aveva tradito con un bacio a un uomo. Un giorno mi domandò: ma tu mi hai mai tradita? Sì, anche con delle tue amiche. Mi ero vendicato del bacio. Cominciò a star male. Non vorrei scendere nei particolari, sono cose brutte. Siamo rimasti amici». 

In tv con Veronesi, Rubini, Papaleo, avete fatto flop con uno spettacolo colto, di nicchia, un po’ misogino, pieno di testosterone. Lei a una puntata si calò i pantaloni e rimase col sedere di fuori.

«Era un programma fuori dai canoni. A teatro Maledetti amici miei aveva avuto una risposta forte. Io ero la vittima sacrificale, mi mettevano in mezzo. Il sedere scoperto era una provocazione, l’ho vissuto come un gioco. Ci sono state cose belle e meno belle, mi piace l’imperfezione, chi non sbaglia nella vita?».

Dietro la maschera dell’ansia, chi è davvero Alessandro Haber?

«Sono un libro aperto. E non sono un ipocrita. Mi ha salvato la dedizione al lavoro e mia figlia, un miracolo che ho avuto tardi, a 55 anni. Ha 19 anni, vive con la mamma. Ci vediamo, ci amiamo».

Alessandro Haber: «Ho sposato mia moglie 5 anni fa ma eravamo già separati: così le lascerò la pensione». Caterina Ruggi d'Aragona su Il Corriere della Sera domenica 12 novembre 2023.

Le confessioni di Alessandro Haber che porta alla Pergola di Firenze La coscienza di Zeno: «La carrozzina? Mi sono fatto il c…: fisioterapia e piscina tutti i giorni. Nessuno ci credeva: ce l’ho fatta»

Voce roca, tonalità indistinguibili, movenze nevrotiche stemperate dall’ironia: Alessandro Haber porta alla Pergola La coscienza di Zeno (da martedì a domenica). Un nuovo allestimento di Paolo Valerio che dopo il debutto a Trieste sta girando l’Italia nel centenario del romanzo di Italo Svevo. «Ho accettato questo ruolo d’istinto. Poi sono entrato in crisi», confessa l’attore.

Perché Zeno l’ha messa in crisi?

«Non riuscivo a capire chi è Zeno. Non trovavo i colori da dargli. Ho iniziato a sperare che accadesse qualcosa che impedisse la messa in scena. Poi mi sono messo dentro il personaggio e lui è entrato dentro di me. Ho capito che mi assomiglia molto, che può essere ciascuno di noi. È più facile caratterizzare che aderire al personaggio. Ma Paolo Valerio ha fatto una riduzione di un’ora e mezzo molto originale, magica: sembra un film in bianco e nero, senza un attimo di tregua».

Zeno Cosini ha 100 anni ma non li dimostra…

«Come tutte le cose belle, non ha tempo. Il testo è di grande contemporaneità; sembra addirittura veggente nel monologo finale in cui parla di una grande esplosione che riassetterà il mondo. Zeno è un uomo pieno di contraddizioni, che vive una vita né bella né brutta; ma originale. Un’originalità in cui ci sono tutti i sentimenti: cattiveria, bellezza, ironia, cinismo, cattiveria, bontà. È un malato immaginario; dallo psicoanalista scopre di avere nient’altro che il male di vivere. Fuma come forma di autodistruzione inconscia; ma se la cava sempre».

Oltre al fumo, cosa avete in comune?

«Il fumo sì; ma io non ho intenzione di fumare l’ultima sigaretta. Ci ho provato: ma è durata 24 ore. Ci accomuna anche l’amore per le donne, quello per la vita. Zeno riesce in un’ora a fare la dichiarazione d’amore a tre sorelle; sposerà la più brutta ma si troverà un’amante. Mi fa molta tenerezza».

Lei si è sposato 5 anni fa…

«È stata una festa fuori dal normale. Laura e io eravamo già separati: il matrimonio è stato un atto di generosità (così un giorno le lascerò la pensione). È come se avessi due figlie: Celeste (la figlia avuta nel 2004 dall’attrice Alessandra Bavaro, ndr) e lei. Ho avuto tante storie d’amore, alcune importanti altre meno… Ora ho una compagna che vedo ogni tanto: sono innamorato, funziona ancora tutto».

Ha mai provato il male di vivere?

«Nell’ultimo periodo sento di essere in lista d’attesa. Sono andati via tanti amici prima di me. Quando ci penso ho un po’ di paura. Allora mi butto nel lavoro e mi sento appagato. La vita mi ha dato tanto, non posso lamentarmi; ma visto che non so cosa ci sarà lì, sto meglio qua».

Recitare è come una seduta di psicoanalisi?

«Credo che se mi sedessi sul suo lettino, lo psicoanalista entrerebbe in crisi. Non voglio andarci; non mi interessa conoscermi. Mi trovo a mio agio sul palcoscenico o davanti a una macchina da presa: è lì che scavo dentro di me; lì faccio l’amore. Sono un uomo selvaggio che ragiona e ha una sensibilità. Nella vita recito poco, e mi tengo lontano dalle persone finte, o subdole».

Mamma Tommasina, che le raccomandava di comportarsi bene, sarebbe contenta?

«Qualche volta ho sbagliato (quelli perfetti non mi piacciono), ma non ho mai fatto cose di cui vergognarmi. Sono un artista fuori dagli schemi, ma generoso».

Due interventi e una lunga riabilitazione: ha finalmente lasciato la carrozzina.

«Mi sono fatto il c…: fisioterapia e piscina tutti i giorni. Nessuno ci credeva: ce l’ho fatta. Dovrò convivere con bastone e stampella. Ma l’ho superata».

Estratto da fanpage.it il 7 marzo 2023

Nevrotico, egocentrico e accentratore. Nello stesso tempo altruista, empatico e dotato di uno stile unico. Alessandro Haber è uno dei migliori attori della storia del cinema e del teatro. 

L’apprezzamento per Greta Thumberg e la repulsione per certi politici («Meloni, Salvini e La Russa mi stanno sul cazzo»), convinto che nella cultura «puoi essere di destra, di sinistra o di centro, basta esprimere qualità». Oggi ci confessa di essere innamorato e a 76 anni lo definisce miracolo. E mentre risponde si commuove soltanto quando parla di una persona: sua figlia Celeste, per la quale darebbe la sua vita.

Meglio, mi sto riprendendo. La carrozzina non la uso più, deambulo e lavoro. Come il pubblico ha potuto vedere nello spettacolo teatrale La signora del martedì, tratto da un romanzo di Massimo Carlotto e con la regia di Pierpaolo Sepe. A fine agosto inizio le prove de La coscienza di Zeno. E ho diversi progetti cinematografici in programma, anche in un film di Fabio De Luigi. 

(…)

Chi è oggi Alessandro Haber?

Ma sai, non vorrei arrivare a dichiarare un congedo. Già quando ho scritto l’autobiografia Volevo essere Marlon Brando poteva sembrarlo, ma ormai vedo che le scrivono anche i giovani. Quello è stato un resoconto, un tirare le somme, ma non è che non abbia più voglia di mettermi in gioco. Anzi, più gioco a questo mestiere, seriamente, e meno penso che sono in dirittura di arrivo. Io mi devo ubriacare di lavoro, mi distoglie dai pensieri di turbamento. 

(…)

Veniamo al cinema. Qualche tempo fa Piefrancesco Favino ha detto: «Vedo scemare il rispetto che c'è all'estero per il cinema italiano e per le sue professionalità».

Il problema dei film italiani è sempre stato la lingua. Quelli in inglese arrivano in tutto il mondo, non c’è verso. Il nostro cinema, invece, tranne qualche capolavoro, arriva al massimo entro il confine con la Svizzera. Credo che la lingua sia il nostro maggior limite. 

Nanni Moretti è tornato con un film, Il sol dell’avvenire, e ha ribadito che è stato pensato per le sale cinematografiche. È una forma di resistenza o di nostalgia?

Per chi dobbiamo lavorare se non per la sala cinematografica? I film sono fatti per le persone e le persone vanno al cinema. Il presupposto quando fai cinema è che poi si vada in sala. Nanni, con il quale ho avuto il piacere di lavorare in Sogni d’oro, è un regista fuori dal comune. Ha uno stile unico. Lo amo profondamente, nonostante il carattere non facile. Ha delle riflessioni molto interessanti e, a differenza di tanti registi che non hanno personalità, lui ce l’ha eccome. 

Tu che rapporto hai con le piattaforme streaming?

Non avevo mai visto una serie sulle piattaforme prima del lockdown. In quel periodo mi sono detto: sai che c’è? Vediamocele tutte! Mi facevo consigliare da amici esperti e devo dire che in quel periodo mi hanno aiutato. Nello stesso tempo, però, mi sto accorgendo che adesso ci hanno narcotizzato. C’è di tutto e di più e non è un male, solo che adesso sarà difficile recuperare la sala. Almeno per qualche anno rischiamo di perderle. 

Parallelamente al cinema non hai mai abbandonato il teatro. Ma anche quello è un settore in crisi?

Il teatro preferisco più farlo che vederlo. 

Sembra più difficile che tornino in sala o a teatro i giovani, che spesso ormai non ci hanno mai messo piede.

I giovani di oggi mi impressionano, hanno tutto sul cellulare, dal sesso alla letteratura. Non c’è più una ricerca come in passato, stanno diventando degli automi. Sono omologati. Infatti vedo in giro pochissima personalità, non la trovo una cosa positiva. La tecnologia ha aiutato, ma invece di andare su Marte adesso cercherei di ragionare più come Greta Thumberg, perché noi lasciamo una grande ferita a questi giovani. 

Alessandro Haber attivista per il clima, questa è una novità.

Ma perché sono convinto che un giorno la Terra si rivolterà. Io non avrò modo di vederla, altri più giovani di me sì. Ma ho paura di un cataclisma, qualcosa di imprevisto. Pensiamo agli interessi che ci ruotano intorno. Siamo tutti controllati, dei burattini in mano a delle persone che fanno il buono e il cattivo tempo. Non posso pensare che ci siano ancora nel 2023 persone che vivono di stenti e bambini che muoiono di fame. 

Ci sono dei giovani attori che ti hanno colpito ultimamente?

A parte Elio Germano, Pierfrancesco Favino e Claudio Santamaria, che però non sono più dei ragazzini, io credo molto in Alessandro Tedeschi. È di una bravura unica. L’ho conosciuto a teatro quando abbiamo recitato ne Il visitatore di Éric-Emmanuel Schmitt. Andatelo a vedere su RaiPlay e mi farete sapere. Ha una grande capacità mimetica ed è un attore che parla dal di dentro, insomma della scuola haberiana. 

Nella tua autobiografia, ma in generale da quello che si racconta di te, sembra che tu abbia sempre avuto una particolare attenzione per il talento altrui. 

È vero, come con Giuliana De Sio. L’ho aiutata all’inizio perché aiuto sempre dove c’è talento. Comunque, in generale, penso di essere una persona molto generosa e altruista. 

(...)

Hai ricevuto persino i complimenti di Francesco De Gregori sul tuo modo di cantare.

Perché reinterpreto le canzoni a modo mio. Ma non farmi fare le pippe da solo (ride, ndr) 

Senti, ma è vero che Carmelo Bene aveva un debole per te?

Sì e posso dire di aver avuto la fortuna di lavorarci insieme e conoscerlo. Carmelo aveva per me una predilezione particolare. Quando ho fatto con lui La cena delle beffe mi ha richiamato varie volte, solo che ho capito che se fossi rimasto con lui sarei diventato il suo schiavo, che non sarei mai cresciuto. Perché tendeva a sfruttarti, a usarti, a manipolarti e a doppiarti. Gli ho detto diversi no, con fatica perché l’ho amato molto. Comunque con Carmelo Bene e con Gigi Proietti è stata una esperienza fantastica che ricorderò per sempre. 

C’è un episodio che ricordo con affetto di Carmelo Bene?

Qualche anno prima di morire mi ha chiamato dicendo che dovevamo vederci. Ci troviamo da Camponeschi (un ristorante di Roma, nda) e a un certo punto tira fuori un libro ed è il Don Chisciotte. Lo avrebbe interpretato lui e aveva scelto me per il ruolo di Sancho Panza. Aveva già scritto un’opera a due per una tournée insieme. Io purtroppo declinai temporaneamente, perché avevo dei progetti già fissati, ma pensa te cosa sarebbe successo tra noi due insieme. 

(…)

Un altro punto di riferimento che sembra perso è nella politica. Come ti ci rapporti oggi?

Vedo che c’è sempre una parte di italiani che ha bisogno di sentirsi dominata, anche un po’ violentati, mentre la maggior parte vuole la democrazia. A me la Meloni e Salvini stanno veramente sul cazzo. Fanno l’occhiolino agli estremisti, con quelle dichiarazioni che poi subito dopo ribaltano. Non mi piacciono quel tipo di persone. Sento che sono pericolose, mi turbano. 

C’è qualcosa che ti ha turbato più di altre?

Per esempio quando la Meloni in Spagna ha tenuto quel comizio dove diceva: «Sono una donna, sono una madre, sono cristiana». Con quella faccia da matta che era molto vicina a quella di Hitler. Certo ha una forza che ti prende e ti ribalta come un calzino, ma a me piace gente come Letta o Gentiloni. Le persone pacate con capacità lessicale, che non sono esaltati. Chi ha piedi per terra, chi è propositivo. Gli estremismi li condanno. 

Però dopo mesi di governo Giorgia Meloni ti sembra così pericolosa?

Forse no, ha fatto meno paura di quel che sembrava. Lasciamola governare. Ma Matteo Salvini e Ignazio La Russa continuano a starmi sul cazzo, come altra gente che hanno attorno. Soggetti che cerco di tenere alla larga. Invece Elly Schlein mi piace, mi sembra una con le palle. Io rimango un uomo di sinistra, anche se ormai sinistra, destra e centro sono tutto un grande minestrone. Non c’è nessuno che mi eccita veramente. Gli argomenti sono i soliti, lavoro, migranti, economia, ognuno ha le sue teorie ma ho la percezione che sia difficile cambiare qualcosa con la politica.

Hai mai avuto problemi al cinema o a teatro per le tue idee politiche?

Guarda, se c’è un grande attore o un grande musicista di destra a me non me ne frega niente. Nel suo lavoro lo apprezzo, la cultura non deve avere colori politici. Se nel tuo campo riesci a dare emozioni e a esprimere qualità va bene. Lucio Battisti sembrava uno di destra, eppure ha fatto canzoni che ancora tutti cantano, compreso io. Comunque non sono mai stato penalizzato, forse avrà prevalso il mio talento. 

(…) 

Il filosofo Stefano Bonaga, che è anche tuo amico, un giorno mi ha raccontato, scherzando ma non troppo, che tra i suoi valori vengono prima Spinoza e poi le belle ragazze.

Le belle ragazze sono fondamentali. Ma nel mio caso sono sempre state loro a scegliermi. Mentre a Marlon Brando, senza fare un cazzo, gli saltavano addosso. A me è successo al massimo che mi dicessero: «Sai che mentre eri in scena ti avrei scopato?». Sarà stato il fascino dell’attore. Una volta però c’erano le minigonne, i reggipetti e le giarrettiere, invece oggi si mettono tutte questi calzoni… 

C’è meno femminilità?

Ma certo, si vestono come dei maschiacci. La magia del sex appeal si è persa, prima ce n’era di più. Gli uomini facevano gli uomini e le donne le donne. In generale li considero alla pari, anzi, le donne hanno più testa di noi, sono più razionali, fanno i figli, sono fortissime. Ma prima c’era il corteggiamento, senza alludere a cose scabrose. Era semplicemente il gioco dell’amore, della vita. Quella roba lì mi manca da tanto tempo. 

Siamo su un terreno scivoloso in epoca di catcalling, body shaming e simili.

Sono tutte definizioni che non conosco. Solo una volta nella mia vita mi è scappata una sberla a Giuliana De Sio, perché mi aveva esasperato. Poi con altre ci siamo tirati qualsiasi cosa, dai libri ai televisori, ma in generale non ho mai picchiato una donna. Quando è successo con Giuliana ero fuori di testa. Una sberla in 55 anni ce po’ sta, o no? Anche perché me ne sono fatte dare molte. 

L’ultima volta che hai detto «ti amo» quando è stato?

Ultimamente, visto che ho una storia con Francesca, una donna che mi piace molto in un rapporto tra alti e bassi. Sono innamorato e speriamo che duri, è un miracolo. Avevo accantonato quel sentimento due anni e mezzo fa ed ero rassegnato. Invece è successo di nuovo, mi aiuta a vivere meglio, ho ritrovato sensazioni che sembravano dimenticate. Non posso che essere grato alla vita che a 76 anni ancora qualcosa mi scuote.

Immagino ti scuota anche l’amore per tua figlia Celeste. Qual è il più grande insegnamento che pensi di averle dato?

Io non so fare il padre, interpreto un personaggio. Quello di cui sono certo è che per lei darei la vita. Adesso, in questo momento, mi sparerei per Celeste. Ma non farmi dire altro che mi commuovo. 

Ci hai mai pensato a come vorresti morire?

Sul palco sarebbe interessante. L’egocentrismo portato all’eccesso, che per un attore fa parte della vita. In questo caso anche della morte. Estremo, ma non male. Come un personaggio che finisce lì, per sempre. Ma in generale è importante per me, in qualunque modo arriverà, che sia in serenità.

Dagospia il 7 marzo 2023. Da “Un giorno da pecora”

Il divieto di fumo anche all’aperto proposto dal ministro Schillaci? “Queste sono delle cazzate immani, ci proibiscono di fare qualsiasi cosa, siamo in una situazione di costrizione, è un po’ fascista questa cosa. Se è fatta per la salute dei cittadini? Ognuno gestisce come vuole la propria salute, l’importante è non esser invasivi nei confronti degli altri”.

 A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è l’attore, e fumatore incallito, Alessandro Haber, che oggi è stato intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Se passerà questa legge non potrà più fumare nei ristoranti, anche se siederà all’aperto.

Di solito mi prendo la sigaretta elettronica che mi fanno fumare e nell’altra mano ho la sigaretta tradizionale, e ho tabacco di qua e di là. Trasgredisco,  mi piace trasgredire”. Fumare però fa male. “Si ma ci sono problemi più gravi ed importanti nella vita, questo mondo si sta distruggendo, la salute dell’ambiente è a rischio ma ci si accanisce sui tabagisti: mi sembra fuori luogo”.

Da ilnapolista.it il 6 febbraio 2023.

Su Repubblica un’intervista ad Alessandro Haber. E’ a teatro con “La signora del martedì”, un noir che lo vede interpretare un giornalista senza scrupoli alle prese con una misteriosa donna (Giuliana De Sio). Haber si racconta come una persona molto fragile, anche se passa per antipatico e sadico.

 «La mia fragilità che si confonde con antipatia, sadismo. Qui ringrazio tutti perché m’hanno coccolato giorno per giorno per farmi costruire follia, dolore e umiliazione. Come si fa a fare del male in un’epoca in cui la guerra è quasi un film quotidiano? Io, con le mie gambe immobilizzate dopo una disavventura chirurgica, avrei forse dovuto dare i pugni al muro, ubriacarmi, andare a mignotte? No! Ho avuto accanto veri amici e mia figlia Celeste. Poi penso a chi sta peggio, alle carezze che merita la gente da accogliere che arriva da paesi lontani, ai piatti da dare a chi ha fame».

Haber racconta il suo rapporto con le donne

«Le storie con me non sono facili. Sono troppo malato di me, accentratore e le donne vogliono giustamente sempre più uno spazio riconoscibile. E la ripetitività è nemica della sessualità. Veder invecchiare una persona accanto a me non è semplice. Ora ho una storia imprevista, con chi non appartiene al mio mondo artistico e non abita con me».

La fiction, la figlia e l'addio: la storia d'amore tra Vittoria Puccini e Alessandro Preziosi. Nata sul set della fiction "Elisa di Rivombrosa", la storia d'amore tra Vittoria Puccini e Alessandro Preziosi è durata circa dieci anni, terminando con un doloroso addio frutto di un tradimento. Novella Toloni il 18 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'incontro sul set

 La passione in Bulgaria

 La gravidanza

 Le voci sulle nozze

 Il tradimento di Preziosi

 La pace poi l'addio

 Vittoria Puccini e Alessandro Preziosi oggi

Il 18 novembre 1981 nasceva Vittoria Puccini. L'attrice fiorentina, che oggi compie 42 anni, è uno dei volti più amati del cinema italiano e deve il suo successo alla fiction "Elisa di Rivombrosa". Proprio sul set della popolare serie in costume Vittoria si innamorò del collega Alessandro Preziosi e la loro storia durò dieci anni, conquistando milioni di fan.

L'incontro sul set

È il 2002. Vittoria Puccini ha 21 anni ed è agli esordi della sua carriera. Nel curriculum dell'attrice ci sono solo due ruoli di rilievo nei film "Tutto l'amore che c'è" e "Paz!", quando viene scelta dalla regista Cinzia TH Torrini per interpretare il ruolo di Elisa Scalzi nella fiction in costume "Elisa di Rivombrosa". Il ruolo del conte Fabrizio Ristori, con il quale Elisa ha una travagliata storia d'amore, viene invece assegnato ad Alessandro Preziosi, 29 anni, già molto conosciuto in tv e al cinema. I due si conoscono sul set della serie e il feeling è immediato. Preziosi e Puccini trascorrono i mesi insieme sul set e l'amore da copione si trasforma in qualcosa di più forte durante le registrazioni della seconda stagione della serie, nel 2003. Ma i due attori negano ogni coinvolgimento.

La passione in Bulgaria

Aprile 2004. Alessandro Preziosi è impegnato nelle riprese di un'altra serie tv "Il Capitano". L'attore si trova a Plovdiv, in Bulgaria, e proprio durante la lavorazione della fiction viene raggiunto da Vittoria - che gli fa una sorpresa in occasione del suo compleanno - e i paparazzi del settimanale Chi li immortalano per la prima volta insieme tra baci ed effusioni amorose. I due non riescono più a negare l'attrazione che li lega ed escono definitivamente allo scoperto per la gioia dei fan della fiction, che li rivede protagonisti anche nel 2005.

La gravidanza

A dicembre 2005 inizia a circolare l'indiscrezione sulla presunta gravidanza di Vittoria Puccini. Alcune persone vicino all'attrice rivelano che è in dolce attesa, ma lei, da sempre molto riservata, si rifiuta di confermare la notizia ma non smentisce: "È una cosa così intima che voglio tenere per me. Non rilascio interviste in questo momento". Nonostante l'attesa, Vittoria continua a lavorare su diversi set di "Ma quando arrivano le ragazze?" e "Il destino di un principe". Nella primavera del 2006 nascondere le forme è impossibile e il 16 maggio Vittoria Puccini dà alla luce la piccola Elena in una clinica di Firenze. A dare la notizia ufficiale è "Tv Sorrisi e Canzoni". "La nascita di Elena è stata una esplosione di luce, e poiché il mondo, quello bello e sano, vive anche di luce riflessa, vi ringrazio di tutta l’energia umana, cristiana e generosa che mi avete regalato in questi nove mesi di gravidanza di Vittoria", dichiara Preziosi nella prima intervista rilasciata dopo la nascita della figlia.

Le voci sulle nozze

Nel 2008 Vittoria Puccini è all'apice della carriera e conquista il Premio Diamanti al Cinema come migliore attrice protagonista, alla Mostra del Cinema di Venezia 2008. Per l'attrice è un momento d'oro e l'amore per Alessandro Preziosi sembra essere destinato a arrivare all'altare. Il settimanale Eva3000 dedica alla coppia la copertina parlando di "nozze in vista". Per la rivista il matrimonio si terrà in estate a Capri, ma il sì, in realtà, non arriva. In compenso, nel 2009, la coppia vive un momento di forte crisi, che sembra essere rientrata nell'estate 2009, quando la coppia viene immortalata in barca.

Il tradimento di Preziosi

È il 2010. Alessandro Preziosi viene paparazzato mentre bacia una modella, Giorgia Pagliacci, dopo avere passato la notte insieme in un hotel a Cesena. Le foto finiscono su Chi ma la ragazza smentisce ogni coinvolgimento, parlando di semplice amicizia. La storia, però, crea una frattura con Vittoria e Preziosi, per recuperare il rapporto con la compagna, decide di fare un gesto estremo, chiedendo pubblicamente scusa alla Puccini proprio sulle pagine di Chi: "Non posso esimermi dal considerarmi un cretino, ho trasformato la leggerezza in superficialità, sono stato irresponsabile". Giorgia Pagliacci non ci sta e ospite di Barbara D'Urso rivela, che la relazione non è durata una notte ma bensì sei mesi.

La pace poi l'addio

Vittoria Puccini sembra essere disposta a perdonare il compagno e insieme si presentano sul red carpet di "Baciami Ancora" il film di Gabriele Muccino, che vede come protagonista femminile proprio Vittoria Puccini. Ma è l'ultima volta che la coppia appare in pubblico felice e sorridente. Pochi mesi dopo, è gennaio 2011, i paparazzi sorprendono Vittoria e Alessandro in un parco durante una furiosa lite. Preziosi afferra con forza la compagna durante la discussione e sembra fuori di sè. Poi se ne va lasciando la madre di sua figlia in lacrime da sola. Poche settimane dopo il settimanale Chi esce con la notizia esclusiva: "Si sono lasciati, lei è innamorata di un altro". La notizia non viene confermata, ma l'addio tra Preziosi e Vittoria Puccini sì. I motivi della rottura non vengono però resi noti.

Vittoria Puccini e Alessandro Preziosi oggi

Da circa dieci anni Vittoria Puccini ha una relazione con Fabrizio Lucci, direttore della fotografia, conosciuto sul set di "Anna Karenina". Alessandro Preziosi ha vissuto una serie di storie finite male e di recente è uscito allo scoperto con la designer Delfina Delettrez Fendi. I rapporti tra i due ex oggi sono sereni e cordiali. "Vivo il concetto di famiglia allargata con serenità e con Alessandro ho un buon rapporto, il male lentamente sparisce e rimane l’affetto perché abbiamo in comune una cosa molto importante, nostra figlia", ha rivelato a Grazia nel 2017, parlando anche dei motivi che portarono alla separazione: "Il nostro grande amore è finito per una questione di alchimia, di ingranaggio: io non tiravo fuori il meglio di lui e viceversa. Ho sofferto molto per la rottura. E poi avevo paura delle conseguenze su nostra figlia. Ma il tempo cure le cose".

Alessandro Preziosi compie 50 anni: tra carriera e vita privata. L'attore classe 1973 originario di Napoli è uno dei volti più amati della fiction italiana. Tra cinema, teatro e televisione, Preziosi celebra il mezzo secolo con fascino e professionalità. Novella Toloni il 19 Aprile 2023 su Il Giornale

Tabella dei contenuti

 L’esordio in televisione

 Il successo con Elisa di Rivombrosa

 I ruoli al cinema

 La vita privata

Alessandro Preziosi spegne cinquanta candeline. Al giro di boa del mezzo secolo, l'attore napoletano nato il 19 aprile 1973 festeggia con un nuovo amore - quello per Delfina Delettrez Fendi, erede della nota casa di moda - e il debutto alla regia in un film ancora top secret. Ma la sua carriera è lunga e ricca di successi a partire dalle fiction, che lo hanno reso uno degli attori italiani più popolari e amati dal pubblico.

L’esordio in televisione

Figlio di due avvocati, Alessandro Preziosi porta in tasca una laurea in Giurisprudenza, accantonata quasi subito per inseguire il sogno della recitazione. Nel 1996, a soli 23 anni, esordisce sul piccolo schermo nel programma "Beato tra le donne". L'esperienza alla corte di Bonolis gli permette di farsi notare e dopo una serie di provini, entra nel cast della soap opera "Vivere" di Canale 5 e successivamente ottiene un ruolo nella miniserie "Una donna per amico 2". Nel frattempo, Preziosi si diploma all'accademia dei Filodrammatici di Milano e porta avanti l'amore per il teatro, cimentandosi in alcune opere di spicco come l'Amleto e Coefore ed Euminidi. Come miglior attore teatrale Preziosi riceve il "Premio Gassman - Teatranti dell'anno 2010" e il "Premio Golden Graal" oltre al "Giffoni Festival Award".

Il successo con Elisa di Rivombrosa

A trent'anni Alessandro Preziosi raggiunge la definitiva consacrazione televisiva, ottenendo il ruolo di protagonista maschile Fabrizio Ristori nella seguitissima serie tv "Elisa di Rivombrosa", che gli consente di vincere il Telegatto. Per amore del teatro, al quale ritorna tra il 2004 e il 2005, rifiuta di prendere parte alla seconda stagione di "Elisa di Rivombrosa", ma nel 2007 si fa apprezzare nella fiction "Il capitano" in onda su Rai Due e un anno dopo è ancora protagonista di una miniserie tv "Il commissario De Luca", che gli fa vincere il premio l'Efebo d'Argento e il premio internazionale "Golden Chest". I ruoli per lui non mancano e tra le sue fiction più apprezzate ci sono "I Medici", "Sotto copertura, la cattura di Zagaria" e il più recente "La vita bugiarda degli adulti" e "Black out".

I ruoli al cinema

Per Alessandro Preziosi c'è spazio anche nel cinema con il debutto sul grande schermo ne "I Viceré" di Roberto Faenza e poi ne "La masseria delle allodole" di Paolo e Vittorio Taviani. Con Michele Placido è tra i protagonisti del film di Michele Soavi "Il sangue dei vinti", tratto al noto saggio di Giampaolo Pansa e che viene presentato addirittura alla Festa del Cinema di Roma. La chiamata di Ferzan Ozpetek arriva nel 2009 e l'attore recita insieme a Ennio Fantastichini e Riccardo Scamarcio nella commedia "Mine vaganti". Poi arrivano i ruoli in "Maschi contro femmine" e "Femmine contro maschi" per la regia di Fausto Brizzi e il film con Laura Chiatti "Il volto di un'altra". E poi ancora i più recenti film: "Nessuno come noi" di Volfango De Biasi, "Bla Bla Baby" per la regia di Fausto Brizzi e "La cura" di Francesco Patierno.

Vittoria Puccini: "Con Alessandro Preziosi tiravo fuori il peggio di me"

La vita privata

Da sempre molto corteggiato, Alessandro Preziosi ha avuto due relazioni importati dalle quali sono nati altrettanti figli. La prima, negli anni '90, con la collega Rossella Zito, che ha dato alla luce Andrea Eduardo. Sul set di Elisa di Rivombrosa Preziosi si innamora dell'attrice Vittoria Puccini e dal loro amore nasce Elena ma nel 2010 la relazione termina per un presunto tradimento. Oggi l'attore napoletano è fidanzato con la designer di moda Delfina Delettrez Fendi.

Estratto dell’articolo di Giulio Pinco Caracciolo per ilmessaggero.it

Nuove rivelazioni nel processo che vede imputato Fabrizio Cherubini per maltrattamenti ai danni della sua ex moglie, la showgirl Alessia Fabiani. Ieri in Tribunale si è seduto sul banco dei testimoni un amico di vecchia data di Cherubini. «Lo conosco da almeno vent’anni, siamo cresciuti insieme - ha spiegato in aula - e tra il 2009 e il 2016 ho frequentato molto spesso la coppia. […] ». […] Le accuse della soubrette sono molto precise. Pesanti incomprensioni che degenerano in continui litigi fino alle violenze, spesso davanti ai figli o in presenza di altre persone amiche della coppia.

«Ma quali incomprensioni? - rinnega l’amico di Cherubini, testimone chiave della difesa - Tutti sapevano, ma nessuno parlava. A volte ho detto a Fabrizio che era matto, che non poteva accettare quella situazione». Di fronte a questi non detti, il giudice ha sollecitato il teste: «Tutti sapevano che cosa? La prego di essere più preciso nel raccontare la sua versione dei fatti». E così l’imputato viene descritto dall’amico come un uomo innamoratissimo della «sua principessa» e per questo motivo «in grado di accettare e subire i continui tradimenti della compagna, una situazione - secondo il testimone - di dominio pubblico a Roma».

Ed effettivamente a sentire il racconto dell’uomo in aula sembra che la Fabiani in più occasioni non abbia fatto nulla per nascondere alcune sue presunte relazioni extraconiugali: «Un giorno Alessia si è presentata al pub di mio fratello, senza sapere che il locale fosse nostro. Non si trovava in compagnia di Cherubini ma di Berrettini, il suo maestro di tennis del circolo Due Ponti Sporting Club, dove lei andava a fare lezioni. Erano seduti a un tavolo che si baciavano, così ho scattato una foto e l’ho inviata a Fabrizio». Un episodio che non viene collocato in un lasso di tempo preciso, perché il testimone in aula ha ammesso di non ricordarne la data precisa. 

Ma la relazione tra Cherubini e Fabiani già nel 2016 è ormai ai ferri corti: convivono ancora nella stessa casa ma dormono in case separate. «Ma questo non è l’unico tradimento - ha proseguito l’uomo davanti al giudice - Tutti sapevano anche che Alessia aveva un rapporto intimo con un cameriere del ristorante di Fabrizio», episodio in seguito al quale Cherubini, secondo gli inquirenti, avrebbe fatto recapitare alla showgirl una busta con dentro tutti i suoi vestiti.

Ma è sulle violenze che il testimone ha ribaltato le accuse e descritto la Fabiani immotivatamente violenta con l’ex marito. «Non ho mai visto segni sul volto di Alessia – ha concluso il testimone – anzi mi capitava spesso di vedere segni sul volto di Fabrizio. In tanti anni ho assistito solo a un litigio. Una sera lui è a casa mia dopo la chiusura del ristorante. A un certo punto, intorno alle 3 del mattino, citofona la Fabiani. Cherubini scende e io mi affaccio alla finestra per controllare se la situazione fosse a posto. In quel momento ho visto lei sferragli un pugno in pieno volto senza dire nulla». […]

Gi. Pi. Ca. per “il Messaggero” - Estratti venerdì 10 novembre 2023.

«Scusate se piango ma sono otto anni che aspetto di parlare in tribunale». Non trattiene le lacrime durante la deposizione in aula l'imprenditore Fabrizio Cherubini, a processo per maltrattamenti ai danni della sua ex moglie, la showgirl Alessia Fabiani. Una storia di accuse reciproche sulla quale a piazzale Clodio vogliono vederci più chiaro. 

Una relazione quella tra Cherubini e l'ex letterina durata sette anni - dal 2008 al 2016 scandita da continui litigi e pesanti incomprensioni. L'imputato racconta al giudice tutti i retroscena di un rapporto burrascoso: «Avevo assunto due collaboratrici domestiche per badare ai nostri bambini che all'epoca avevano tre anni. Lei non c'era mai. Rientrava a casa nel cuore della notte e io non sapevo nemmeno dove fosse stata». 

La situazione degenera nel 2016, quando i due coniugi sono ormai ai ferri corti: convivono ancora nella stessa casa ma dormono in camere separate. «Avevo il sospetto che avesse una relazione extraconiugale, poi ho scoperto che mi stava tradendo con il suo maestro di tennis del circolo Due Ponti Sporting Club di Roma dove andava a fare lezioni al pomeriggio».

(...) 

«A volte rientrava alle 3 di notte con abiti succinti, completamente ubriaca e probabilmente sotto effetto di sostanze stupefacenti», prosegue Cherubini. Ma l'episodio chiave, ricostruito in aula, sarebbe avvenuto la sera del 6 aprile 2016, quando la Fabiani torna a casa a notte fonda e si giustifica dicendo di non averlo potuto avvisare a causa del cellulare scarico: «Lei è andata in bagno e io ho visto che il suo telefono aveva la batteria al 100%», spiega al giudice l'imputato.

Da qui sarebbe nata una violenta colluttazione nel corso della quale, secondo la denuncia della Fabiani, la donna sarebbe stata presa a schiaffi e pugni con i figli che stavano dormendo nella camera accanto. Lesioni che le avrebbero lasciato segni su tutto il corpo e che l'avrebbero costretta a truccarsi per non mostrare i lividi a una premiazione alla quale aveva partecipato solo due giorni dopo la lite. 

«Non è vero nulla, sono io che mi sono dovuto difendere, lei mi ha colpito al volto e ai testicoli con un calcio», si difende Cherubini, che nel frattempo ha presentato una denuncia per falsa testimonianza nei confronti della Fabiani.

Alessia Marcuzzi e Francesco Facchinetti sono stati insieme dal 2010 al 2012. La loro storia è stata breve ma intensa e ha portato alla nascita della figlia Mia. Novella Toloni l'11 Novembre 2023 su Il Giornale.

Alessia Marcuzzi e Francesco Facchinetti insieme alla festa di compleanno della figlia Mia (2016)

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 Galeotto fu Facebook

 La vacanza a Ibiza

 Le prime interviste

 La convivenza a Roma

 La gravidanza

 La nascita di Mia

 Il ritorno al Grande Fratello

 Le voci sulle nozze

 La crisi e il battesimo

 L’annuncio dell'addio

 Alessia Marcuzzi e Francesco Facchinetti oggi

Sono stati insieme solo due anni ma la storia d'amore tra Alessia Marcuzzi e Francesco Facchinetti ha fatto sognare il pubblico e gli amanti del gossip. Nel 2010, quando il loro amore esplose dopo una vacanza a Ibiza, Alessia e Francesco vennero soprannominati "la coppia dell’anno" e per mesi le riviste gli dedicarono copertine e servizi. Belli, giovani e di successo, Facchinetti e la Marcuzzi hanno bruciato tutte le tappe dell'amore, ma non sono riusciti a superare le divergenze caratteriali, che li ha portati all’addio nel 2012.

Galeotto fu Facebook

È il 2010 e Alessia Marcuzzi è alla conduzione del suo primo Grande fratello. Dal punto di vista professionale per la conduttrice è un momento d'oro - è protagonista in tv e torna a recitare nella sitcom "Così fan tutte" - ma nella vita privata è in un momento di transizione. Finita la relazione con il portiere Carlo Cudicini, la conduttrice vuole concentrarsi solo sul lavoro ma il destino è pronto a scombinare i suoi piani. Alessia conosce già Francesco, ma i due entrano in contatto grazie a un problema "social" della Marcuzzi. Il suo profilo Facebook è stato hackerato e, su suggerimento di alcuni amici, la conduttrice chiama Facchinetti per farsi aiutare. Alessia è subito travolta dalla simpatia di dj Francesco, ma i tempi non sono ancora maturi.

La vacanza a Ibiza

Francesco Facchinetti e Alessia Marcuzzi si rincontrano qualche mese dopo a Ibiza. È estate e entrambi si godono le vacanze sull'isola spagnola, destinazione preferita di calciatori e vip. L'incontro avviene in una villa di amici comuni, il dj indossa una maglia degli A-ah, di cui Alessia è fan sfegatata, e quel dettaglio li porta a trascorrere tutta la serata insieme. Nascondere l'attrazione è impossibile e una volta tornati in Italia la coppia è subito oggetto delle attenzioni dei paparazzi e finisce sulla copertina di Chi (agosto 2010). Agli amici Francesco racconta di avere portato Alessia a conoscere la madre, a Mariano Comense, ma per sfuggire alle attenzioni dei giornali la coppia si rifugia sul lago di Como nella villa di George Clooney e Elisabetta Canalis.

Le prime interviste

Dimenticata l'estate, Alessia Marcuzzi è pronta a tornare in tv alla guida del Grande Fratello, mentre Facchinetti è giudice a X Factor. Chi dava il loro come un semplice flirt, però, deve ricredersi. I due personaggi rilasciano interviste in occasione del loro ritorno in televisione e dichiarano apertamente i loro sentimenti. "Alessia e io siamo innamorati pazzi. Forse ci siamo sempre amati, ma non lo sapevamo. Forse in un'altra vita siamo stati anche insieme", dichiara dj Francesco alla rivista Chi, mentre la Marcuzzi conferma su Vanity Fair: "Ci stiamo ancora conoscendo, stiamo vivendo giorno per giorno, non facciamo ancora progetti. In ogni caso sono felice: siamo pazzi allo stesso modo, ma siamo sani".

La convivenza a Roma

Quattro mesi dopo l'inizio della loro relazione Alessia e Francesco decidono di andare a convivere e scelgono Roma, dove la conduttrice del Grande fratello abita, per vivere insieme. Il settimanale Vero sorprende Facchinetti mentre trasloca nell'appartamento capitolino della Marcuzzi. La coppia sembra volere bruciare le tappe e nonostante le voci di crisi, dovute ad alcune foto uscite sulle riviste di gossip nelle quali Alessia e Francesco discutono animatamente fuori da un locale, l'amore sembra essere solido.

La gravidanza

Novembre 2010. Il settimanale Diva e Donna è il primo a fare trapelare l'indiscrezione sulla gravidanza di Alessia Marcuzzi. Le voci si fanno sempre più insistenti ma la coppia non smentisce alimentando il gossip. A dicembre, però, Facchinetti rilascia una lunga intervista a Vanity Fair e con l'occasione svela: "Grazie ad Alessia ho tante cose da potere scrivere. Senza lei, non avrei nulla...presto avrò un bambino". La sua sembra essere più una dichiarazione di intenti, che un annuncio ma poche settimane dopo, quando Alessia Marcuzzi, è in pieno Grande Fratello, le voci di richieste particolari legate al cibo e i vestiti ampi, con i quali la conduttrice va in onda, sono una conferma della gravidanza. L'annuncio ufficiale arriva ad aprile durante una diretta del reality, dove Alessia confessa ai gieffini di essere in attesa di una bambina.

La nascita di Mia

Il 4 settembre 2011 nasce Mia Facchinetti. L'annuncio viene fatto su Facebook da Francesco Facchinetti, che dedica parole d'amore alla primogenita e alla compagna. "Non so quanto è alta, non so quanto pesa, so solo che al mondo niente è così grande. Amore, sei tutta Mia. Ps: Alessia è stata la mamma più brava del mondo. Pps: In sala parto stavo collassando. Poi grazie a Dio, ho preso in braccio mia figlia e sono rinato. Sono papà, papà Francesco!". Dopo una settimana, la famiglia Facchinetti torna a casa a Roma e Alessia condivide i primi scatti social della figlia: “Grazie a tutti, vi ho sentiti vicini”.

Il ritorno al Grande Fratello

Un mese dopo il parto Alessia Marcuzzi torna alla guida del Grande Fratello 12. La conduttrice è in forma smagliante e le fatiche della maternità non sembrano intaccare il suo spirito. Ad aiutarla con la piccola Mia ci sono Francesco e il figlio Tommaso, avuto dalla relazione con Simone Inzaghi. Il primo Natale in quattro è tutto social e la coppia condivide attimi di vita familiare sul web, tanto che si parla addirittura di matrimonio.

Le voci sulle nozze

Febbraio 2012. Nelle interviste Francesco Facchinetti chiama Alessia sua moglie e lei ironicamente gli replica appellandolo “mammo”. Per tutti è un chiaro segnale che la coppia è pronta a fare il grande passo verso l’altare. Le riviste di gossip danno per certe le nozze entro l’estate 2012. Tra la primavera e l’estate, però, la coppia mostra segni di tensione anche in pubblico e la crisi appare evidente a molti.

La crisi e il battesimo

Che qualcosa non vada nella coppia lo si capisce a luglio, quando durante una vacanza in montagna Alessia è parte da sola con la piccola Mia e Francesco la raggiunge per poi abbandonare la famiglia il giorno seguente dopo una lite ripresa da alcuni fotografi. A settembre 2012, Francesco Facchinetti e Alessia Marcuzzi celebrano il battesimo della piccola Mia a Mariano Cosmense. La conduttrice e il compagno non appaiono sereni e le voci di crisi sono così insistenti che, poche settimane dopo, il settimanale Chi li dà per separati in casa

L’annuncio dell'addio

Mentre le riviste parlano della fine della relazione, Alessia Marcuzzi affida a Facebook una breve nota con la quale, di fatto, conferma la rottura ma senza rancori: "Grazie a tutti per l’affetto che ci state dimostrando. Io e Francesco ci vogliamo bene e faremo di tutto per preservare la nostra famiglia”. Poche ore dopo l'annuncio della conduttrice anche Facchinetti pubblica lo stesso messaggio su Twitter. Per il settimanale Chi i due ex "mantengono un rapporto di profondo affetto. Nessun terzo incomodo e nessuna lite tra le cause dell'addio, che la coppia vive con riserbo".

Alessia Marcuzzi e Francesco Facchinetti oggi

Sui motivi della rottura la coppia non ha mai parlato apertamente - anche se si parla di incompatibilità caratteriale - ma loro la ricordano ancora come "una bellissima storia". Oggi Francesco e Alessia sono una grande famiglia allargata e i rapporti sono molto sereni. La figlia Mia è sempre stata il loro unico interesse. Facchinetti è sposato con Wilma Faisol conosciuta poco dopo la fine della relazione con la Marcuzzi, mentre quest'ultima è tornata single dopo il divorzio dal marito Paolo Calabresi.

Estratto dell'articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” venerdì 28 luglio 2023.

«Sono caduta sugli scogli, come i bambini o i vecchi, decida lei» dice ridendo Alessia Marcuzzi. Eterna ragazza, a 50 anni conserva un sorriso infantile, la voglia di scoprire la vita e il mondo. 

«Mi è sempre piaciuto esplorare luoghi nuovi» racconta la conduttrice che a Mediaset ha guidato successi come Colpo di fulmine, Festivalbar, Mai gire gol, Le iene, Il grande fratello. Dallo scorso anno è un volto Rai, anima di Boomerissima , che tornerà su Rai 2 dal 31 ottobre, sfida tra boomer e millennial. «Sono un’appassionata degli anni 80 e 90, in fondo sono una boomer. Il programma me lo sono inventato con Fabrizio Biggio, sposato con mia cugina, che è come se fosse una sorella, e Valerio Palmieri. Ho iniziato a scrivere, la parte più bella in tv è proprio quella della creazione». 

(...)

Il famoso calendario di “Max” del 1998, in cui apparve nuda, record di copie vendute, ha cambiato le cose?

«Ha cambiato tutto. Non mi veniva dietro nessuno, ero sproporzionata, alta, seno enorme. La classica brava ragazza, mai drogata in vita mia, con le amiche ho giocato con la Barbie fino ai 16 anni. Il calendario nacque ai tempi di Colpo di fulmine, quando me lo proposero pensai: “Ma allora sono bona”, ho avuto la percezione di me, prima ero più maschiaccio. Mi diverte piacere». 

Ha una grande famiglia allargata, quanto conta l’amore?

«Lo cerco e scelgo la felicità in tutto, che è fatta di un costante rapporto umano anche con le persone con cui sono stata insieme. Rapporti tossici mai. La libertà di amare è tutto e ho imparato che si può stare da soli: non si deve dipendere da un uomo». 

(...) 

È tirata spesso in ballo dal gossip: come lo vive?

«Mi ferisce. Escono notizie assurde, chi lavora con me mi proibisce di rispondere, sono passionale. Ho detto a Francesca Fagnani che mi aveva invitato a Belve : “Non vengo perché mi devo salvare da me stessa”. Faccio fatica a tenermi». 

Il calendario sexy, il figlio, la rottura: la storia d'amore tra Simone Inzaghi e Alessia Marcuzzi. Nel passato dell'allenatore del'Inter Simone Inzaghi c'è la storia d'amore con Alessia Marcuzzi, nata dopo l'uscita del sexy calendario di Max. Novella Toloni il 10 Giugno 2023 su Il Giornale.

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 Il grande amore e la nascita di Tommaso

 La crisi e l'addio nel 2006

"Io e Simone abbiamo fatto le cose troppo di corsa". Così, alcuni anni fa, Alessia Marcuzzi spiegò i motivi della fine della storia d'amore con l'allenatore dell'Inter, Simone Inzaghi. In effetti nel 1998, quando il calciatore (che aveva 27 anni) e la showgirl, 24 anni, si conobbero la passione li travolse e quella formata da Alessia Marcuzzi e Simone Inzaghi fu la prima coppia calciatore-showgirl della storia dello showbiz italiano. Lei era nel pieno della carriera televisiva grazie a Fuego!, lui stava per diventare un simbolo della Lazio.

Come si sono conosciuti Alessia Marcuzzi e Simone Inzaghi rimane un mistero. Sebbene la coppia fosse tallonata dai paparazzi, come sia scoccata la scintilla non è chiaro. Qualcuno parla di un incontro nel backstage di qualche programma televisivo, altri raccontano di una conoscenza nata per caso durante una serata in un locale milanese. Simone milita nelle fila del Piacenza mentre Alessia è uno degli astri nascenti di Mediaset e conquista la popolarità grazie al calendario di Max, il primo della sua carriera, nel quale si mostra bellissima e senza veli. A fare perdere la testa a Inzaghi sarebbe stato anche questo, oltre alla simpatia travolgente della showgirl che colpisce al cuore il calciatore.

Il grande amore e la nascita di Tommaso

La coppia inizia a frequentarsi al riparo da occhi indiscreti, ma con il passare dei mesi e con l'approdo di Simone Inzaghi alla Lazio, i riflettori si accendono sulla loro storia d'amore e le riviste li inseguono per tutto lo stivale. La Marcuzzi è impegnatissima in tv con Mai dire gol, poi viene scelta per sostituire Simona Ventura alla guida de Le Iene, ma ci sono anche Festivalbar e i Telegatti. La carriera non ruba tempo alla coppia e appena possibile Simone e Alessia si godono il loro amore alla luce del sole. Sono belli, giovani e ricchi e le copertine delle riviste di gossip su di loro si moltiplicano. Nel 2000, quando Alessia Marcuzzi approda in prima serata con Le Iene Show, la conduttrice rimane incinta del suo primo figlio. La coppia è solida e i progetti di vita insieme sono concreti, così nell'aprile 2001 nasce Tommaso, il loro primogenito.

La crisi e l'addio nel 2006

La showgirl torna al lavoro prestissimo e riprende da dove si era interrotta (con il Galà della pubblicità), mentre Simone Inzaghi consolida la sua carriera nella Lazio. Il rapporto tra il calciatore e Alessia Marcuzzi comincia, però, a incrinarsi intorno al 2004. I giornali scandalistici parlando di "allontanamento" tra i due, che insieme si vedono sempre meno se non per stare accanto al piccolo Tommaso. Complice la svolta professionale di Alessia, che diventa attrice protagonista della serie "Carabinieri" (tra il 2004 e il 2006), i due si allontanano inesorabilmente fino all'addio definitivo. È il 2006 e l'annuncio della separazione arriva per bocca dell'agente della showgirl, Beppe Caschetto: "È stata una grande storia d’amore che si è conclusa in maniera amichevole". I veri motivi della rottura non sono mai stati chiariti, ma Alessia Marcuzzi - anni dopo - ha ammesso che la coppia ha bruciato le tappe. Oggi Alessia Marcuzzi è single (con alle spalle il matrimonio fallito con Paolo Calabresi), mentre Simone Inzaghi è sposato con Gaia Lucariello, dalla quale ha avuto due figli.

Alessia Marcuzzi: «Riparto da Boomerissima dopo aver chiuso il mio matrimonio (e con Mediaset)». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

Dopo due anni di pausa, la conduttrice torna con un programma scritto anche da lei. Si chiama «Boomerissima» e va in onda sulla seconda rete

Se è vero che per cambiare ci vuole coraggio, ad Alessia Marcuzzi allora non manca. Dopo due anni di pausa, a 50 anni da poco compiuti, la conduttrice torna questa sera in tv con un programma, Boomerissima , scritto (anche) da lei e che rappresenta anche un nuovo inizio a partire dalla rete su cui andrà in onda: Rai2.

Come si sente?

«Ammetto che è una sensazione proprio strana, diversa da tutti gli altri debutti. Sono emozionata ma anche molto felice e serena, senza le ansie o paure che di solito prova chi fa il mio mestiere. Mi rendo conto che è un nuovo inizio ma, allo stesso tempo, un gradino in più che sono pronta a fare».

Ci è voluto coraggio per decidere di cambiare?

«L’arrivo in Rai è stata una cosa abbastanza inaspettata. La decisione era quella di prendermi una pausa dalla tv e quando l’ho fatto non sapevo cosa sarebbe successo. Volevo dedicarmi alle mie attività, alla mia linea di creme, alle borse. Non avevo chiara l’idea di tornare e forse non ne avevo neanche così tanta voglia. Poi, durante la pandemia, mi sono messa a parlare di diverse idee con alcuni amici autori (Fabrizio Biggio, Sabrina Giovannelli, Valerio Palmieri, ndr.) ed è nato questo progetto. Forse avevo bisogno di fare una cosa che mi somigliasse di più».

Torna nelle vesti non solo di conduttrice ma anche di performer

«È un varietà ma anche un game e un po’ una festa. Vengono messe a confronto generazioni diverse: la squadra dei boomer in senso lato, visto che tecnicamente sono gli over 56 (ma in pratica è il modo con cui i giovani etichettano tutti gli adulti, ndr.) e quella dei millennials. Io ballerò anche, guidata da Luca Tommasini, per me un genio».

La scelta di Rai2, rete spesso in difficoltà, non la preoccupa?

«Sono stata io a proporla a Coletta perché la sento proprio come la collocazione giusta. Ho 50 anni e credo che il mio pubblico abbracci proprio la fascia di quella rete. In più, mi volevo mettere alla prova. Non ho paura di rimboccarmi le maniche e non mi sento mai arrivata. A volte la mia insicurezza mi ha creato un po’ di fragilità, è per questo che mi butto. So benissimo che Rai 2 è una scommessa ma per me è una scommessa bellissima. Il mio obiettivo è migliorarmi».

Per farlo bisogna anche rischiare?

«Per me è più facile, visto che economicamente avevo le spalle coperte ed è una questione non da poco quando decidi di mollare tutto. In ogni caso, si tratta anche di non avere paura di prendere la strada più difficile in nome di quella ricerca della felicità che io, forse anche in modo bambinesco, continuo a ritenere troppo importante».

Vale anche per le sue scelte di vita? Da qualche mese è finito il suo matrimonio.

«Devo essere felice, sì. Poi quando ci sono dei figli bisogna che anche loro lo siano, sia chiaro: è vero che sono una sempre alla ricerca di emozioni, ma sono anche molto chioccia come mamma. Parlo con i miei figli delle mie scelte e la mia famiglia — mia mamma, mio papà — mi supporta e mi sostiene sempre, senza farmi sentire mai giudicata. Ci si deve provare nella vita ad essere felici, insomma. Poi non è sempre semplice. Ma oggi sono serena».

Si sente più millennial o boomerissima?

«Io sono boomerissima. Mia figlia me lo dice sempre. Anche se curo io i miei social, sono negata con la tecnologia. Però sull’apertura mentale mi sento un po’ meno boomer».

A novembre ha compiuto 50 anni: che effetto le fa?

«Per tutta la vita ho sentito i cinquantenni dire che in realtà dentro si sentivano dei ragazzini, quando per me erano solo dei boomer. Ora che li ho anche io, capisco cosa intendessero. Forse proprio per questo ho deciso di lanciarmi in questa avventura».

Lei ha segnato l’immaginario di molti di quei boomer, se ne rende conto?

«Vedo molta nostalgia verso programmi come Colpo di fulmine o il Festivalbar. Sono entrati nei cuori di una generazione, avevano un seguito enorme. Con Colpo di fulmine dovevo avere la scorta della polizia per via della gente che mi seguiva per strada. Oggi mi fa un po’ impressione pensare che i ragazzi si incontrano sui social e poi quando si vedono non si parlano».

Da Mediaset le hanno detto qualcosa circa questo suo ritorno? L’idea è che avrebbero ospitato volentieri un programma così, no?

«Sono riuscita a mantenere buoni rapporti con tutti, non ci sono state discussioni o litigi e sono andata via davvero per un’esigenza mia. Forse quando lavoravo lì non c’era lo spazio per un programma così ma sono dell’idea che le cose succedono quando devono succedere. Detto questo non ho un’esclusiva con la Rai, anche se ci sto lavorando bene. Ma le porte non sono chiuse».

Durante la sua pausa le mancava qualcosa della tv?

«Più che altro mi domandavo: posso dare ancora qualcosa? Se mi rendessi conto che non posso dare più niente sarei la prima a mettermi in discussione, non voglio esserci per forza. Se invece alla gente mancavo, allora ha senso continuare. Di certo questa cosa mi ha rimesso in circolo emozioni che non provavo da tempo».

Si vocifera di Fiorello ospite del suo show. E anche di una sua possibile partecipazione a Sanremo.

«Su Fiorello non posso dire niente, Sanremo lo vivo da fan, guardandolo da casa, non mi aspetto nulla».

Il suo è uno show sul tempo: tornasse indietro cambierebbe qualcosa?

«Il mio sogno era diventare un’attrice e da piccola volevo andare a studiare recitazione in America. Non scherzo se dico che ogni anno guardo la notte degli Oscar e piango perché vorrei essere lì io. Mia figlia mi prende in giro e dice che lo vincerà lei per me e me lo dedicherà. Però se lo avessi fatto, quando ne avevo l’opportunità, non sarebbe nato mio figlio Tommaso, quindi molto meglio così».

Non potrebbe farlo ora?

«Beh purtroppo per le donne più grandi i ruoli sono sempre meno, quindi la vedo dura. Ma oggi ho delle certezze che mi rendono serena e mi fanno dire che forse tutto quello che è successo aveva un senso».

Alessia Merz: «Con Fabio Bazzani bastò uno sguardo. Boncompagni? Fu infangato, bastava dirgli di no. Ambra? Mi faceva tenerezza». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera sabato 18 novembre 2023.

«Per il film Jolly Blu il regista scelse me invece di Angelina Jolie»

Il provino per «Non è la Rai»

«Sono partita da Trento tipo Heidi che scende dai monti a 17 anni. Ne dimostravo di meno, timida, non avevo ancora la faccia tosta che mi è venuta dopo. Ballai Please don’t go . Ricordo le terribili mamme delle altre concorrenti. “Questa viene qui a rubarci il lavoro”».

Bella accoglienza.

«E non avevo ancora visto niente, aspetti. Quando mi chiamarono per dirmi che mi avevano presa per un mese di prova — era il 25 agosto 1992 — scoppiai a piangere, terrorizzata di dovermi trasferire a Roma da sola. Viaggio in treno in piedi, con un valigione e l’animo di chi sta andando al patibolo. Cercai di consolarmi: “Sarà bello, mi farò tante amiche”. Uh, come no».

No?

«Peggio mi sento. Mi ritrovai in mezzo a 120/130 ragazzine che lottavano per conquistare la lucina rossa che ti inquadrava. Se per caso la telecamera si posava su di me, qualcuna mi passava davanti apposta. “Oh, scusa, non ti avevo visto”. Per caso trovai un posto libero in prima fila, ma non feci in tempo ad accomodarmi che mi tolsero la sedia da sotto al sedere. “Vai subito in fondo, sei l’ultima arrivata”. Dispetti continui, cattiverie».

E poi?

«Passati i trenta giorni, mi offrirono un contratto di un anno, privilegio per poche. Di colpo mi cambiò il mondo. Fissa in prima fila, le stesse ragazze che prima mi detestavano di colpo mi coccolavano, mi portavano l’acqua, mi lisciavano i capelli, mi facevano i massaggini sul collo, sperando di rubare un’inquadratura grazie a me».

Vi facevano rigare dritto.

«Per dare gli esami di maturità arrivai in ritardo di 45 minuti: per punizione mi mandarono a casa. Mi imposero di tagliare i capelli a caschetto, con la frangia, li odiavo, andai in onda piangendo. Sono stati tre anni di intensa selezione naturale».

Con Ambra tutto bene?

«All’inizio mi faceva tenerezza, diventava rossa ad ogni inquadratura. Bravissima. Una volta si è ammalata e l’ho sostituita per quattro giorni con l’auricolare nell’orecchio, sembra facile, non lo è».

Programma cult.

«Negavano, ma di nascosto lo guardavano tutti».

Calca fuori dagli studi, lettere, regali, foto, peluche.

«Mai come per Miriana Trevisan, inarrivabile».

Gianni Boncompagni.

«Geniale, ironico, era allo stesso tempo una persona molto sola. Lo hanno infangato, con me è sempre stato corretto. Magari ti invitava a casa sua, bastava dire di no, non è che cascassi dal pero».

Velina a »Striscia».

«Durante il provino entrò un tizio che si tirò giù i pantaloni, era una gag, fa capire il clima goliardico. Mi presero, anche se a ballare ero abbastanza negata. Antonio Ricci mi soprannominò “Pinocchio”, perché ero di legno».

Con Cristina Quaranta.

«I primi tempi non ci sopportavamo, eravamo come il diavolo e l’acqua santa. Cristina ha un carattere che non conta nemmeno fino a 1 ed esplode, poi però diventa la persona più carina al mondo. Io invece conto fino a 100 ma a 101 sei morta. Mi provocava. “Sei troppo moscia, reagisci”. Cambiava apposta la coreografia per farmi sbagliare. Alla prima intervista ufficiale si raccomandarono: “Fingete di andare d’accordo”».

Funzionò?

«Un giorno persi la pazienza e la attaccai al muro anche io. “Ah, allora vedi che se vuoi il carattere ce l’hai!”. Diventammo amiche per la pelle».

Inviata di »Quelli che il calcio».

«Tifosissima bianconera, da piccola ho detto prima “Juve” che “mamma”. Si raccomandavano: “Se segnano alzati ed esulta”. Dagli spalti me ne dicevano di tutti i colori».

Aveva il suo caratterino.

«Parlantina, battuta pronta, poco diplomatica, ribelle, rispondevo, forse l’ho pagata».

Samantha Fox non volle parlare con lei.

«Conducevo Meteore con Amadeus e Gene Gnocchi, incontrai un sacco di personaggi pazzeschi: Larry Hagman di Dallas, Arnold, Sandy Marton, tutti gentilissimi. Tranne lei: rifiutò di farsi intervistare da me, perché non si vedesse che ero molto più alta».

Capita.

«Se è per questo c’è stata una famosa attrice che non mi ha voluto in un film con lei perché avevamo gli occhi dello stesso colore. Pretendeva che mettessi delle lenti a contatto marroni».

Non andò sempre così.

«Nel film Jolly Blu sugli 883 il regista Stefano Salvati scelse me invece di Angelina Jolie. E non era nemmeno ubriaco».

Lo spot per Barilla con Gerard Depardieu.

«Diretto da David Lynch. Durante le riprese a piazza Navona passò a trovarci Roman Polanski. Tre mostri sacri. Ma la gente intorno gridava: “C’è Alessia di Non è la Rai”».

I calendari sexy.

«Non mi proponevo io, mi cercavano, all’epoca era un riconoscimento. Però non ho mai sostenuto che fossero foto artistiche, ero in topless».

Il bagno nel latte.

«Sfilata di Coveri a Milano. Nella vasca sembravo nuda ma avevo uno slip color carne. Faceva freddo, così accesero una stufa e saltò la luce ovunque, un disastro. Il giorno dopo mi venne 39 di febbre».

E la Velina sposò il calciatore (Fabio Bazzani, con cui, dopo 18 anni, va ancora d’amore e d’accorso).

«Giugno 2004, hotel a Porto Cervo. Avevo appena deciso: basta fidanzati. Ho visto lui ed è cambiato tutto. Ero con Simona Ventura, lui con Stefano Bettarini, compagni di squadra alla Samp. Bastò uno sguardo. Pensai: “Ah, però”».

E?

«Il mattino dopo abbiamo fatto colazione insieme leggendo la Gazzetta dello Sport. Dopo cinque giorni eravamo fidanzati. Poco dopo sono partita per l’Isola dei Famosi. Quando sono uscita temevo che mi avesse dimenticato, invece mi ha chiesto di sposarlo e ho detto sì. Ci ho messo un mese a spiegare ad amici e parenti che era solo amore folle e non ero incinta».

Ha mollato lo spettacolo.

«Sempre in hotel, con coperta e cuscino in macchina, una vita assurda. Dai 18 ai 31 mi sono divertita, ho fatto di tutto e di più. Volevo una famiglia. Dopo i primi no hanno smesso di chiamarmi. Ma non sono pentita, sono felice così, non sto mica chiusa in casa con Netflix. Ogni tanto faccio qualche cosetta per togliermi lo sfizio, non ci ho messo la croce sopra».

Potrebbe fare un fischio ad Amadeus per Sanremo.

«Ma no, la gente direbbe; “Che ci fa lì la Merz?”»

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” l'11 giugno 2023.

La prima battuta, seduti uno di fronte all'altro - in un ristorante di Trastevere con vista sulla strada - la fa lui, subito: «Sto passando un periodo fantastico, in cui mi diverto come non mi capitava da tempo. Sarà l'andropausa...». 

[…] Alex Britti, 55 anni […] 

Come se la passa?

«Benissimo. Negli ultimi sei anni, da quando è nato mio figlio Edoardo, non ho fatto dischi, ma solo concerti. Ho scelto di fare il padre». 

[…] Anni fa stava per amputarsi l'indice della mano sinistra con un frullatore. Per uno che vive in simbiosi con la chitarra, poteva essere un bel problema: ha recuperato?

«Tutto a posto. La punta del dito che stavo per perdere è meno sensibile di prima, ma per un chitarrista in fondo non è neanche tanto male».

[…] Dopo più di trent'anni è soddisfatto per come sono andate le cose?

«Sì. Faccio quello che voglio, ho il mio repertorio e il mio pubblico. Mi sono divertito e non ho mai avuto l'ansia da prestazione se non arrivavo in classifica. E soprattutto non sono uno che ha mai fatto la Rat Race, la gara dei topi, come cantava Bob Marley. Io mi sono sempre preso le mie pause e i miei spazi per suonare e vivere a modo mio». 

Cioè?

«Da quando ho 18 anni, fino alla nascita di Edoardo, ho sempre staccato per due, tre, sei mesi l'anno. Olanda, Spagna, Germania, Portogallo... L'Europa con la mia chitarra l'ho girata tutta». 

Ha sempre paura di volare?

«Sì. Non prendo un aereo dal 91. Non ce la faccio, mi vengono gli attacchi di panico. Mi blocca la claustrofobia più che l'altezza». 

L'ha pagato tanto questo limite?

«Non lo so, forse. Billy Preston (tastierista di Beatles, Rolling Stones, Eric Clapton, Red Hot CHili Peppers, Aretha Franklin etc., ndr) mi voleva nella sua band, idem Buddy Miles, il batterista di Jimi Hendrix. Dissi a entrambi di no. Ma se avessi accettato avrei fatto quello che poi ho fatto? Non lo saprò mai, ma sono sereno: ho avuto quello che meritavo». 

[…] Adesso è single?

«Sì, da quattro anni».

[…] Da ragazzo far passare le sue scelte di vita è stata dura?

«Sì. Papà era un macellaio molto particolare. Era bipolare di tipo 2: non depressivo ma maniacale e con un super io esagerato. Era il tipo che diceva: "Questa è casa mia e qui comando io". A 19 anni, dopo il servizio militare, affittai un box auto per andarci a vivere, perché suonando solo quello mi potevo permettere. Lontano da casa il rapporto migliorò: vedevo lui e mamma un paio di volte a settimana. E ogni volta scroccavo una bistecca, che da solo non avrei mai visto...». 

[…] Perché nel 1999 si rifiutò di cantare con Pavarotti?

«Mi vergognavo. Eravamo al suo Pavarotti & Friends e dissi che avrei soltanto suonato. Non avrei mai duettato con lui. La mia voce con la sua mi sembrava un'offesa. Alla fine lui e Joe Cocker fecero You are so beautiful, io suonai la chitarra».

Nel 2018 su Canale 5 ha fatto il giudice di "Amici" di Maria De Filippi: non era il suo habitat? Perché ha retto solo un anno?

«Mi sono divertito, e ogni tanto torno come ospite - Maria è un'amica - ma io suono a orecchio, non leggo e non scrivo la musica: giudicare non era il mio ruolo». 

Qual è il primo ricordo che ha del suo amico Maurizio Costanzo?

«Era una delle persone più divertenti e giocherellone che io abbia mai incontrato. Ci vedevamo spesso per cazzeggiare, e a volte anche per parlare di cose importanti. Nell'estate 2005 ad Ansedonia scrivemmo insieme il musical Lungomare. Andavo da lui una-due volte a settimana, e lui mi diceva sempre di restare a dormire, cosa che non feci mai. Poi un giorno mi lanciò un mazzo di chiavi: la vedi quella villa? L'ho affittata per te. Adesso voglio vedere se te ne vai....».

Come lavoravate?

«Lui cominciava all'alba, io a mezzogiorno. Aveva una piscina d'acqua salata dove non entrava mai, così dopo pochi giorni gli comprai un costume - che non aveva - e un paio di grandi tavole galleggianti per scrivere a mollo in piscina. Ci divertimmo come pazzi». 

È vero a che a 20 anni fu arrestato in Svizzera?

«Sì, per eccesso di velocità. Andavo a 120 kmh dentro il tunnel del San Gottardo. Mi portarono in cella per 4-5 ore. Mi rilasciarono solo dopo aver pagato l'equivalente di 500 mila lire di multa. Solo che io dovevo andare ad Amsterdam, e starci 40 giorni, e avevo un milione in tutto... Cominciò un bel periodo».

Alex Di Luca: “La pandemia mi ha messo la voglia di ripartire”. Nicola Santini su L’Identità il 24 Gennaio 2023

È un cantautore dalla lunga esperienza, Alex Di Luca. L’artista di origini abruzzesi, impegnato nel progetto Semplicementeamore, mi racconto a L’Identità.

Come nasce il tuo coinvolgimento all’interno del Progetto “semplicementeamore”?

Nasce nel 2018, in seguito alla costituzione dell’associazione “semplicementeamore”, nata con lo scopo di sostenere sia la ricerca nella lotta contro la sclerosi multipla sia le iniziative volte ad accompagnare le famiglie che vivono questa realtà difficile nel loro tortuoso cammino. Tutto questo divulgando la musica di Enrico Boccadoro, cantautore in nome del quale è nato il progetto. Ho deciso di dedicare un mio concerto ad Enrico e alla sua musica e devolvere l’intero ricavato all’associazione. Ed è da quella sera, carica di emozioni indimenticabili, che le nostre strade si sono unite per non dividersi.

Quale ricordo conservi di Enrico Boccadoro?

Quando penso ad Enrico la prima cosa che mi viene in mente è una faccina che sorride sul mio telefono, che io consideravo una sorta di codice che serviva per dirmi “sono qui, se ti va di scrivermi”. Ma al di là di questo ricordo semplice e affettuoso, conservo i momenti emozionanti legati alle sue canzoni, in particolare alla prima volta che lo ascoltai cantare a castrocaro nel 1991 e fui catturato da quella voce tanto simile alla mia. Negli anni successivi ho continuato a seguire il suo percorso con orgoglio in quanto “qualcuno come me ce la stava facendo”.

Parlami dell’ultimo progetto…

Si tratta di uno spettacolo dal titolo “Ci vuole amore” che è anche il titolo di un brano composto da Enrico Boccadoro, inciso sei anni fa dal gruppo vocale “fuori controllo”, e che poi è diventato sigla ufficiale di una realtà sempre più importante in Italia negli ultimi anni: “angeli in moto”. Per l’occasione il presidente dell’associazione “semplicementeamore”, Giorgio Boccadoro (fratello di Enrico) ha unito le forze con l’Aicab e collaborato con i signori Paola e Pierluigi Nicoletti. Questa unione ha generato un’energia pazzesca che ha coinvolto tutto il pubblico presente durante una serata condotta da Stefano Masciarelli, che ha visto avvicendarsi artisti del calibro di Franco Fasano, Nadia Natali con Alberto Laurenti, Anonimo Italiano, Cliò con David Giacomoni, Cinzia Leone, Bernardino De Bernardis ed Erminio Sinni. Non sono mancate le testimonianze importanti, tra le quali spicca quella del campione paralimpico di tennis Andrea Silvestrone, affetto da due malattie neuro generative. Condividere il palco, ma soprattutto il dietro le quinte con artisti tanto grandi e tanto sensibili è stato stimolante e mi ha dato la carica giusta per guardare avanti e progettare nuove cose insieme a questa grande famiglia, che ogni anno si arricchisce di splendide anime.

Progetti lavorativi futuri?

Diciamo che al momento sono in debito con tanti miei progetti, lasciati in sospeso durante la pandemia, dovendo per forza di cose convergere su altre priorità. La prima cosa che farò credo sarà incidere “è la tua vita”, canzone scritta da Enrico Boccadoro (ma mai pubblicata) che mi è stata affidata qualche anno fa da Giorgio con la promessa di “farla vivere” e che ho cantato per la prima volta in pubblico durante lo spettacolo “Ci vuole amore”.

C’è anche un progetto legato a Irene Fargo, scomparsa da poco…

Quando Irene Fargo ci ha lasciati qualche mese fa, istintivamente mi sono avvicinato ad altri ragazzi che, come me, negli anni si sono appassionati alla sua voce e hanno poi seguito il suo percorso artistico, fatto di momento gloriosi e momenti bui, dovuti principalmente ai suoi drammi familiari. Tra questi, c’era un ragazzo di nome Luigi, un artista delicato, sensibile, umile e dal cuore grande, che ci ha proposto di raccogliere tutto il nostro materiale video e fotografico in un sito web, per ripercorrere la carriera di Irene (idea che è piaciuta molto anche ai suoi genitori). Purtroppo anche Luigi ci ha lasciati troppo presto e oggi io e gli altri fan di Irene Fargo abbiamo deciso di portare avanti questo progetto anche in onore del nostro amico.

Cosa sogni per il tuo futuro artistico?

Vorrei solo rivivere ciò che ho vissuto prima della pandemia e ripartire da lì, perché sento di non aver ancora dato tutto. Oggi, sto finalmente assecondando la mia grande voglia di “tornare”.

Milano, Alexia in concerto: «Ero una star ma ora a Sanremo non mi vogliono. Con Seal sono quasi svenuta». Raffaella Oliva su Il Corriere della Sera l’8 Gennaio 2023.

Negli anni '90 è stata la regina dell'eurodance e nel 2003 ha vinto il Festival: «Oggi fare musica è una fatica: spero che le mie figlie non scelgano questo ambito». La gara d'altezza con Kylie Minogue 

«Summer is Crazy», «Uh La La La», «Happy», ma anche «Think About The Way» con Ice MC. Sono i successi in inglese che negli anni 90 fecero di Alessia Aquilani alias Alexia la regina dell’eurodance. Poi la svolta: il secondo posto a Sanremo nel 2002 con «Dimmi come…» e il trionfo nel 2003 con «Per dire di no» segnarono il passaggio alla melodia italiana. 

Dopo un album, il suo 13esimo, prodotto da Mario Lavezzi nel 2017, la cantante spezzina, milanese d’adozione, classe 1967, ha di recente pubblicato il disco natalizio «My Xmas», che presenterà oggi al Blue Note. «I dischi di Natale non sono ben visti, si crede si facciano solo se si è a fine carriera e a corto di idee. In realtà io qualche idea l’avrei, ma mi sento così lontana dal panorama musicale odierno che fatico a scrivere qualcosa di trendy. Ho avuto le treccine e l’ombelico di fuori, ma ora ho 55 anni, sono mamma, moglie. Però nel 2021, ascoltando la mia playlist di Natale, ho pensato che volevo fare un disco da interprete, e quindi perché non uno di cover natalizie?».

  Nell’album c’è un omaggio ad Amy Winehouse. 

«Straordinaria, lei. La ascoltai per la prima volta nel 2007, in clinica, avevo appena partorito la mia prima figlia, mentre nell’estate in cui è morta, nel 2011, era da poco nata la seconda: segnali». 

Oggi le sue figlie sono adolescenti: cosa ascoltano? 

«Una adora gli Arctic Monkeys, l’altra ha scoperto “Running Up That Hill” di Kate Bush. Ma vanno a fasi e non ho mai voluto indirizzarle. Però seguendomi in tour hanno capito che non sono brava solo a fare le uova sode. Spero solo non scelgano la musica come mestiere, non è più cosa. Non che 30 anni fa fosse facile, ma se ti ci mettevi potevi piazzare hit in tutto il mondo: io e il mio produttore Roberto Zanetti ci siamo riusciti. Oggi persino andare a Sanremo è complicato: dopo averlo vinto mi sono proposta più volte, ma nulla, e ci sono rimasta male; ora non ci bado più. Se poi hai una famiglia…». 

Non ci siamo emancipate dall’idea della famiglia come giogo? 

«In casa c’è chi mi aiuta, ma coordino tutto io. È sbagliato, ma sono vecchio stampo. In compenso adesso vivo la mia professione con più serenità, un tempo ero sempre angosciata dall’idea di fermarmi e perdermi dei pezzi. L’ho fatto da neo-mamma, dopo essermi legata a mio marito (Andrea Camerana, nipote di Giorgio Armani, ndr), mi sentivo giustificata. Ma avrei dovuto avere il coraggio di farlo anche prima. È che il successo è esploso di colpo: l’ho voluto e cercato, ma dopo ero sempre in viaggio, vivevo sugli aerei, non riuscivo neppure a godermi i soldi che guadagnavo e un giorno ho realizzato che attorno a me c’era il vuoto, che tutti volevano Alexia e non Alessia. Ho capito che dovevo fare un lavoro su me stessa e ora ho tutta un’altra consapevolezza». 

Incontri memorabili? 

«Quello con il mio idolo Seal in una radio spagnola: mi ha fatto il baciamano e sono quasi svenuta. Poi Lionel Richie a Londra per delle live session in studio e la brasiliana Daniela Mercury, che volle una foto con me e mi confidò di avere messo “Uh La La La” sul carro al Carnevale di Bahia. E Kylie Minogue a “Top of The Pops”, che andai a salutare nel suo camerino perché essendo entrambe minute volevo verificare chi fosse più alta: sono più alta io».

Dove e quando

Domenica 8 gennaio Alexia sarà al Blue Note con due set (via Borsieri 37, ore 20.30 e 22.30, € 25-30). Con questi concerti la cantante spezzina, milanese d’adozione, chiude il tour legato al suo disco natalizio «My Xmas» Regina della dance internazionale con hit come «Summer is Crazy» e «Uh La La La», Alessia Aquilani, questo il suo vero nome, ha anche vinto un Festival di Sanremo nel 2003

Alfonso Signorini: «Il primo uomo? A Cuba, ci andavo tre volte al mese». Giovanna Cavalli sul Il Corriere della Sera il 26 novembre 2023.

Il giornalista: «Amavo le donne, sono stato tradito. Conobbi Paolo in chat, stiamo insieme da vent’anni. Facevo il prof e persi la testa per la zia di un mio allievo»

«Il primo bacio vero l’ho dato a 23 anni, a una ragazza».

Una cotta sui banchi delle elementari l’avrà pur presa.

«No. Ero un bambino vecchio, i maschi mi prendevano in giro perché non mi piacevano il pallone e le biglie, preferivo giocare a campana».

Detestava pure l’Allegro chirurgo.

«Quando me l’hanno regalato per Natale mi sono fatto un pianto disperato. Fin da piccolo avevo il terrore delle malattie. Ogni sera, nel letto, stringevo forte i pugni. “Ci riesco, almeno stanotte non muoio”. La zia Ester per consolarmi mi comprò una tastiera Bontempi».

L’amore per Maria Callas scoppiò allora.

«Alle medie i miei compagni ascoltavano Ti amo di Umberto Tozzi, io collezionavo gli ellepì della Fabbri sui Grandi della Musica».

Il suo libro «Troppo fiera, troppo fragile. Il romanzo della Callas» vendette 1 milione e 800 mila copie. E lei ci si comprò casa.

«Successo pazzesco, tradotto in 15 lingue».

Ne ha appena firmato una riedizione per Mondadori, che il 12 dicembre presenta alla Scala. Prevede altri affari immobiliari?

«Non credo. Ci sono 100 pagine in più. Volevo omaggiarla nel centenario della nascita, la Divina è un personaggio che fa bene al cuore».

Al ginnasio ebbe la sua rivincita.

«Non prendevo medaglie nello sport, non fumavo sigarette, non avevo il motorino. Ai compiti in classe però li fregavo tutti. Finivo in un’ora. I compagni mi tiravano calci sotto la sedia perché suggerissi. E io davo risposte sbagliate. All’uscita sputavano nei palloncini e poi me li sgonfiavano in faccia».

I primi rudimenti amorosi.

«Ero un nerd sfigatissimo. A 13 anni vidi Gilda con Rita Hayworth. Ed ho provato il primo impulso sessuale. “Oddio, che succede? Muoio”. Non avevo capito bene come funzionava, però sull’amore tra Enea e Didone ci ho fantasticato mesi. E con i film di Carmen Villani».

Diventò professore di liceo.

«Mi laureai a 22 anni e mezzo alla Cattolica. Passati tre mesi già insegnavo al Leone XIII di Milano, istituto snob dei padri gesuiti».

Lo sfondone da 10 di un suo studente.

«Mi parlò di Nino Bi “per” io, alias Nino Bixio».

E torniamo a quel bacio tardivo.

«Presi una scuffia per la zia di un allievo, più grande di me, aveva 31 anni. Eravamo terrorizzati che scoprissero la tresca. Dovevamo sposarci a Sant’Ambrogio. Un giorno, davanti a un passaggio a livello, l’ho baciata. E ho scoperto l’attrazione fisica, quella vera».

Le nozze però furono cancellate.

«Vendeva condizionatori, mi tradì con un rappresentante egiziano. Mandammo indietro i regali, tra cui un corredo della Rinascente».

Ci restò male.

«Non volevo più saperne dell’amore. Dentro di me lo sentivo che i miei veri interessi erano altrove, ma i condizionamenti esterni erano troppo forti. Reprimevo. Quando c’era sciopero dei mezzi, andavo a piedi fino a Bruzzano. Sulla strada c’erano le prostitute. Mamma si raccomandava: “Non fermarti dalle donnacce”. Quel tratto, per paura, lo facevo di corsa».

Un altro incontro fatale.

«Quando avevo ormai deciso di chiudere per sempre quella porta, su un pullman per Moena incontrai Laura, ragazza stupenda, romana, diretta al mio stesso albergo. Fu amore. E con lei ho passato sette anni da dio. Ero innamorato pazzo. Intelligente, mi ha dato parecchio filo da torcere. Ogni weekend venivo a Roma in treno, con la gabbietta del gatto».

Non cercava distrazioni altrove.

«Mai avuto tentazioni. Se vedevo un bell’uomo lo guardavo e basta. Ero affettuoso, facevo i mestieri, la spesa, preparavo la cena».

Però alla fine vi siete lasciati.

«Il nostro rapporto entrò in crisi, io avevo mollato la scuola per fare il giornalista. A Laura quel mondo non piaceva. Ci siamo allontanati. Finché un giorno ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti con grande onestà che era meglio chiuderla lì per non farci del male».

Ci fu di mezzo un altro tradimento.

«Suo, con il maestro di tennis. Ci ho sofferto, ero preso anima e corpo. E forse anche per ripicca — cornificato due volte su due — ho fatto il salto della quaglia, tra mille turbamenti. Avevo trent’anni e passa, non ero mai stato con un uomo, pur convivendo con certi pensieri. Mi sono detto: “Se sono stato un fallimento come fidanzato è perché non ho voluto ascoltare quella voce dentro di me”. Però non sapevo come assecondarla, non ero pratico».

Come risolse il dilemma?

«Risposi ad un annuncio su Seconda mano di Robert, modello. Appuntamento in aeroporto. Bellissimo, ma truzzo. Jeans, canotta, cicca, valigia con adesivi. “Certo che Pariggi è sempre Pariggi”. In hotel si buttò sul divano a guardare le partite. “Se famo du spaghi?”. Mi crollò la libidine. Lo mandai alla tour Eiffel. Lasciai i soldi sul comodino e me ne andai».

Cambiò strategia.

«Ho scoperto Cuba, lì andavi a colpo sicuro. Avevo la tessera della Lauda Airways, partivo 2 o 3 volte al mese. Il mio primo uomo fu Ulisse, durò un anno. Voleva venire in Italia, col cavolo che ce lo portai. Era soltanto sesso».

Come ha conosciuto Paolo, suo compagno da oltre 20 anni?

«Su una chat di Tiscali, sezione incontri. Il mio nickname era Perlage, il suo Traveller68. Mi contattò lui. “L’unico perlage che amo è quello del Blanc de Blancs”. Mi incuriosì. Era il 2002, lavoravo con Chiambretti. Scoprimmo di abitare entrambi a Milano. Mi disse: “Ora sono in barca”. E io sfacciato: “Ma è tua?”. Sa, avevo certe aspirazioni. “E che auto hai?”. “Una Aston Martin”. “Ah”. Pensai mi prendesse in giro. “Rientro stasera, se ti va ci vediamo più tardi”, propose. Non potevo, ero ospite al Maurizio Costanzo Show. “Se ti va guardami in tv”».

E la guardò?

«Purtroppo sì. Portavo una giacca rosa, dissi una serie di scemenze. E lui sparì. Mi bloccò pure sul cellulare. Una settimana dopo si rifece vivo. “Scusami, sono stato maleducato, però mi hai un po’ scioccato, troppo esuberante. Eppure vorrei conoscerti”. Ci siamo visti e da allora non ci siamo mai più lasciati».

Tranne l’anno scorso, per qualche mese.

«Ero in un momento negativo ma non avevo il coraggio di parlargliene. In pratica l’ho lasciato con un’intervista al Corriere. Si è arrabbiato molto. Però poi mi ha perdonato e siamo di nuovo insieme, felicemente».

Prima o poi vi sposate?

«Paolo me lo aveva chiesto prima che ci lasciassimo, io ero contrario: “Non capisco perché noi omosessuali dobbiamo prendere il peggio degli etero”. Ora sono più possibilista. Se me lo proponesse lo prenderei seriamente in considerazione».

Ha tradito o viceversa?

«Quando è successo a uno dei due, abbiamo avuto l’onestà intellettuale di ammetterlo, ora ha un’importanza secondaria. L’ho fatto per esigenza fisiologica, non con il cuore o la testa. Certo, se lo fai, devi essere disposto a subirlo».

L’amicizia con Silvio Berlusconi.

«Quando morì mio papà, mi telefonò: “Da oggi avrai in me un altro padre”. Mi è stato vicino nei momenti belli e brutti. “Quello che conta è che quando spegni la luce tu sia sereno”. Ha provato a trascinarmi in politica ma gli inciuci di Palazzo non fanno per me. Di donne parlavamo men che meno. Mi voleva alle cene. “Però invita qualche calciatore del Milan”».

Al «Grande Fratello» si ritrova conteso tra Cesara Buonamici e Beatrice Luzzi.

«Confesso, Beatrice mi fa un certo effetto».

Non è che ricambia idea?

«No, basta, non si torna indietro. Però becco di più con le donne che con gli uomini e lo dico con dispiacere».

Fedez le ha dedicato una canzone.

«Una presa per i fondelli straordinaria. Credeva che mi fossi arrabbiato. Mi chiese: “Ma tu lo faresti il video vestito da supereroe?”. “Mi metto la tutina aderente, ma solo se posso imbottirmi là sotto”. Non sa quanto ho beccato».

Da direttore di «Chi» (ora solo editoriale), quanti matrimoni finiti ha sulla coscienza?

«Pochi, i più erano già senza ritorno. Di sicuro quello di Pavarotti, dopo che pubblicai le foto con Nicoletta Mantovani. Lo avvisai. “E tua moglie Adua che dirà?”. “Problemi suoi”».

L’affare Giambruno.

«Giorgia Meloni sapeva bene chi era Andrea. Ha dovuto scegliere tra sé stessa e quello che rappresenta. Se non fosse stata a Palazzo Chigi forse avrebbe agito diversamente».

Giambruno lo portò lei a Rete4.

«Era mio redattore a Kalispera. Identico a come è oggi. Un bauscia, diciamo qui, un ganassa, un guascone. In quattro giorni è andato fuori di casa, ha dovuto ripartire da zero. Certo ha fatto delle cavolate, ma se ne rende conto».

Torneranno insieme?

«Adesso no, poi chissà».

Tra Totti e Blasi lei con chi sta?

«A Ilary voglio un bene dell’anima, ma anche Francesco è una gran brava persona. Fatti l’uno per l’altra. Mai avrei immaginato questa fine. Qui una riconciliazione è impossibile».

Belen si risposa?

«Lei è loca, potrebbe farlo. Vive la passione senza protezioni. E spesso ci ha rimesso».

Concetto Vecchio per repubblica.it il 9 gennaio 2023.

 Alvaro Vitali, cosa faceva prima di diventare attore?

 “L’elettricista a Trastevere. Un giorno venne a trovarmi uno del mio quartiere, Pippo Spoletini, che di mestiere faceva il capogruppo sui set: reclutava le comparse per il cinema. Mi disse che Federico Fellini cercava un ragazzino magro come me. “Chi è Fellini?” gli chiesi”.

 Fellini era già una celebrità mondiale.

Sì, sì, ma capirai, io al cinema andavo a vedere i film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia”.

(...)

Disse soltanto, con voce stridula: “Chi di voi sa fare il fischio del merlo?” Fischiai a tutti i polmoni. La vocina disse: “Maurizio, prendi lui che l’altro sta ancora aspettando il merlo”.

 Non lo vide in faccia?

Non quel giorno. Era come una figura che stava nell’aldilà”.

Chi era Maurizio?

Maurizio Mei, l’assistente di Fellini. Non sapevo fischiare come il merlo, ma non importava, era un test su chi fosse più sveglio, più motivato. Vinsi io”.

 Che film era?

Satyricon. Ebbi una particina, dovevo fare un imperatore”.

 Qual era il suo compenso?

Settantamila lire al giorno, per sette giorni di lavoro”.

 Prendeva al giorno più di quello che guadagnava come elettricista in un mese.

Sì, ma dopo quella settimana tornai in bottega. Quando Fellini girò Roma Spoletini tornò in bottega e mi disse che stavolta avrei avuto una particina più importante: il ballerino di tip tap. “Ma io non so ballà!” obiettai. “Impari!”, rispose Pippo e mi spedì alla scuola di Gino Landi. Imparai in due settimane. Quando Fellini mi vide si complimentò”: “Sei un fenomeno, come hai fatto?”. “È la fame, dottò!”, risposi”.

 Era fatta?

Ci fu un terzo film, I clowns. Girammo a Parigi. Non ero mai uscito fuori da Roma, né preso un aereo. Fellini era divertito dal mio stupore di fronte a quel che vedevo. “Ti piace questa vita eh?”, diceva”.

 Eravate diversissimi.

Lo divertiva la mia indole popolare. Mi chiedeva: “Ti è piaciuto Giulietta degli spiriti?” “Sì”, mentivo. “E cosa ci hai capito?” “Un cazzo, dottore”. Fellini ne rideva”.

 Poi arrivò Amarcord.

Sì, girato interamente a Cinecittà. Era il 1973 e io avevo ormai 22 anni. Di fronte a quell’ennesima assenza dal lavoro Segarelli mi licenziò. Andai a dirlo a Fellini. “Ci parlo io”, disse”.

Lo fece?

No, anche perché ormai avevano assunto un altro garzone al posto mio. “Facciamo così - disse Fellini - tu mi serviresti per quindici giorni, ma vieni lo stesso sul set, ti vesti, ti trucchi, e così figuri presente. Così feci, per sette mesi, per l’intera durata delle riprese. Guadagnavo 150mila lire al giorno”.

 (...) 

 Come arriva alle commedie scollacciate?

Amarcord mi diede notorietà. Il regista Nando Cicero, che era stato l’aiuto di Francesco Rosi, stava preparando L’insegnante, con Edwige Fenech. Mi chiamò. Dovevo interpretare un alunno siciliano che le sbavava dietro. Non poteva chiedermi di meglio: mi ero sempre ispirato a Lando Buzzanca”.

 La prese come una retrocessione?

Dalle stelle alle stelle, eh (Vitali ride).

 Fu l’inizio di una serie interminabile di commedie soft-erotiche.

I cinema scoppiavano. La lavorazione durava tre settimane: costi all’osso e incassi mirabolanti. Una manna”.

 Quanti film ha fatto?

Circa centocinquanta”.

Ed è diventato ricco?

Cambiavo macchine ogni tre mesi. E donne”.

Ha avuto molti flirt?

Abbastanza”.

Era la spalla delle dottoresse, delle insegnanti.

Ho lavorato con le principali sex simbol degli anni Settanta. Ero invidiatissimo”.

 Com’era Edwige Fenech?

Una sorella. Veniva con noi in mensa. Aveva un bimbo piccolo, Edwin, che mangiava solo perché io lo facevo ridere. Da grande è diventato un produttore, purtroppo non mi ha mai chiamato”.

Gloria Guida?

Mi ricordo l’imbarazzo che provò la prima volta che si dovette togliere il reggiseno sul set”.

Michela Miti?

La scelsi per la serie di Pierino, perché era acqua e sapone mentre io ero un paraculetto”.

Nadia Cassini?

Aveva un marito molto geloso, che preferiva tenerla lontana dalla troupe”.

Lei ha lavorato anche con Sofia Loren.

Oh, Sofia, grandissima! Un’altra che non se la tirava”.

 Ma chi li vedeva quei film?

Il popolo! L’Italia profonda. Soprattutto comitive di ragazzetti. L’élite invece ci disprezzava”.

 Si stupisce?

Beh, oggi invece in tanti anche delle classi colte li guardano volentieri quando passano in tv.  Erano prodotti con tempi comici ben fatti. Piacciono molto ai preti”.

I preti?

Sì, me lo confessano loro stessi. Faccio ancora molte serate in provincia, talvolta sono organizzate dalle parrocchie. Spesso il sacerdote mi prende in disparte e mi confida la sua ammirazione”

 Le cito alcuni titoli: “La liceale nella classe dei ripetenti”; “La ripetente fa l’occhiolino al preside”; “La dottoressa del distretto militare”.

E La dottoressa sotto le lenzuola, con Karin Schubert. O Per amore di Poppea, con Maria Baxa” (Vitali ride e continua l’elenco dei tanti film che ha fatto).

 Recitava sempre una sola parte: quello del ragazzino imbranato turbato dalla bellona di turno.

In quell’Italia provinciale molti si identificavano in me: rappresentavamo un immaginario erotico”.

 Oggi non sarebbero politicamente scorretti?

Erano una presa in giro, a bene vedere, del maschio italiano: della sua doppia morale. Tutta casa e famiglia in apparenza, e fuori invece gran peccatore”.

 Denunciavano un’ipocrisia democristiana?

La presa in giro del latin lover nostrano”.

 Ha lavorato con Alberto Sordi?

In Polvere di stelle. Poi mi voleva in Un borghese piccolo piccolo. Ma poi il mio agente non si è messo d’accordo. Peccato, poteva essere l’inizio di una storia diversa”.

 Come ripensa a quell’Italia?

Con nostalgia. Mangiavano tutti. E noi abbiamo fatto ridere un’intera generazione”

 Erano anni di forte impegno.

Lo so bene. Io sono di sinistra, all’epoca votavo Pci”.

Sì, tutta la mia famiglia votava Pci. Ho più volte attaccato i manifesti, annunciato comizi, giravo con l’auto con l’altoparlante sul tetto e davo gli annunci: “Stasera parlerà l’onorevole Pajetta!”.

 In molti si sorprenderanno.

 “Avevo uno zio, Franco Vitali, che lavorava a Botteghe Oscure. Andava spesso a Mosca. Ma il Pci non mi ha mai invitato una sola volta alla festa dell’Unità: a me piaceva andarci,  ci sono sempre andato da privato”.

 Oggi vota Pd?

No, per me il Pd è la Dc. Volevo votare per i partiti minori della sinistra, ma poi mi sembrava una preferenza persa. Mi sono astenuto. Quando tornerà la vera sinistra tornerò al seggio”.

 È famoso più per i film di Pierino o per le commedie sexy?

Non so. Certo Pierino fece il botto. Pierino contro tutti frantumò tutti i record d’incassi. Era il 1981. E io avevo 31 anni”.

 E viveva ancora con la nonna.

Sì, sì. Viziato eh?” (Ride)

 Quanto era famoso?

Non potevo entrare in un ristorante. Non avevo vita privata. Il successo può diventare una prigione: devi stare attentissimo, essere sempre disponibile con la gente”.

 E poi a un certo punto lei è scomparso.

Sì, il telefono ha smesso di squillare”.

 Quando è successo?

Per Paulo Roberto Cotechino centravanti di sfondamento, nel 1983, presi cento milioni di lire di anticipo, ma il film incassò molto meno rispetto alle attese. Uscì di scena”.

 Un filone si era esaurito.

Non è vero. In quegli anni partì quello dei cinepanettone. Potevo entrarci. Invece niente. Nessuno mi ha fatto più lavorare”.

 Come mai?

Non me lo spiego. Ero popolarissimo. E lo sono ancora a 72 anni. Mi fermano per strada, mi chiedono i selfie. “Alvaro, tu sì che ce facevi divertì”, dicono”.

 Erano B-movie, cinema di serie B?

Ma se ho pure vinto il Leone d’Argento alla carriera”.

 Qual è il rimpianto?

Mi piacerebbe rifarli, ma non ci sono più gli attori di quel tempo, Renzo Montagnani, Mario Carotenuto, che è stato il mio maestro. Ho scritto due sceneggiature, ma non trovo un produttore che le finanzi. Il cinema l’ho salvato io”.

 Esagerato.

La commedia italiana sì, dai. Stava morendo negli anni Settanta”.

Chi le è rimasto amico dei vecchi sodali, Lino Banfi?

No, Banfi non mi ha più cercato. E ne provo dolore. Abbiamo recitato insieme in non so quanti film. Per Capodanno mi ha fatto gli auguri Carlo Verdone. Dovevamo fare un film insieme, ma poco prima di firmare il contratto mi sono rotto il malleolo, e non se ne è fatto nulla”.

 È vero che ha sofferto di depressione?

Sì. Non me annava de fa' gnente. Non volevo più vedere nessuno. Non rispondevo più nemmeno al telefono”.

 È stato doloroso?

Mi mancava l’aria. Un periodo terribile”.

Un attore è sempre precario?

È la sua dannazione”.

 Come ne è uscito?

Mi è stata vicina con pazienza mia moglie, Stefania Corona. Mi portava con sé alle sue serate, lei canta; era un modo per riportarmi nell’ambiente. E’ stata una ripresa lenta, faticosa”.

 La droga non l’ha mai tentata?

No, al massimo qualche spinelletto in compagnia”.

Ora che cosa fa esattamente?

Arrotondo facendo spettacoli, nei teatri, soprattutto al Sud. A Roma poco, non c'è il culto della serata”.

Quanto prende di pensione?

1200 euro”.

Non è tanto, visto quel che ha guadagnato.

Mi hanno fregato un sacco di contributi”.

 Com’è stato possibile?

Le case di produzione mi pagavano a giornata, ma su trenta me ne segnavano dieci al massimo. Così per anni. Non c’era internet, non c’erano i controlli di adesso, ed io mi sono fidato”.

 Quando si sta sulla cresta dell’onda non si bada al dopo?

Quello è stato il mio errore. Ogni sei mesi mi arriva però un assegno per i passaggi televisivi dei miei film, per il resto campo delle serate”.

 Le reti Fininvest li hanno passati per tutti gli anni Ottanta e Novanta.

La Rai quasi mai invece”.

Ha lavorato con Striscia la notizia.

Imitavo Jean Todt della Ferrari. Quando andavo davanti a Montecitorio, quelli di sinistra mi evitavano, invece Ignazio La Russa andava matto per me: “Intervistami tu!”, diceva” (fa l’imitazione di La Russa). "Ma io l’ho sempre pensata all’opposto”.

 Ha figli?

Uno, di trentun anni. Vive a Vercelli, purtroppo non lavora”.

È vero che ha fatto il volontario negli ospedali?

Nei reparti di oncologia per bambini. Raccontavo le barzellette in corsia. Ho aiutato il Bambin Gesù, con delle donazioni”.

Chi le piace dei comici di oggi?

Checco Zalone è il più bravo. Viene dal cabaret, è molto intelligente”.

 Insomma, pensa di avere avuto meno di quanto meritava?

No, quello no. Ho avuto tantissimo. Però è finito troppo presto”.

Ha un’ultima ambizione?

Vorrei fare un ultimo film, per fargliela vedere a chi non ha più creduto in me. Un’ultima opportunità. Solo questo”.

Il Bestiario, l'Amodingo. L’Amadingo è un animale leggendario, un semidio con il compito di distruggere la ragione per diffondere il pensiero dominante. Giovanni Zola il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.

L’Amadingo è un animale leggendario, un semidio con il compito di distruggere la ragione per diffondere il pensiero dominante.

L’Amadingo è un essere leggendario che si palesa nel suo massimo splendore una volta all’anno, una settimana fredda di febbraio, scatenando il suo potere distruttivo. La sua base operativa è una grotta arredata molto bene con grandi scale e luci scintillanti capaci di attirare l’attenzione dei più. L’Amadingo infatti è una sorta di sirena d’Ulisse che prima ammalia e poi porta alla pazzia. Ma esso non agisce da solo. E’ coadiuvato da ancelle immacolate, generalmente ricche, moralmente elevate, ideologicamente schierate e possibilmente col seno piccolo che fa tanto femminismo. Le ancelle chiamano amichevolmente il semidio “Amo” come fosse un nome di battaglia partigiano. Infatti Amo sta per scatenare una vera e propria guerra alla ragione.

La tecnica dell’Amadingo è quella di abbassare il livello culturale in modo da svuotare il cervello, annientando la capacità intellettiva dei suoi numerosi adepti, per poi riempirlo di concetti provenienti dalla scuola cirinnese-boldriniana del pensiero debole. La “pars destruens” (o svuota cervello), consiste nel bombardare gli inconsapevoli discepoli tramite 28 motivi musicali con leggerissime variazioni tra loro, accompagnati da parole incomprensibile e ripetuti da 28 cantori, per lo più eunuchi fotocopia uno dell’altro. Terminata questa prima fase inizia la “pars costruens” (o riempi cervello). L’Amadingo a questo punto chiama all’azione le sue valchirie che una alla volta lanciano messaggi di libertà di cui nessuno sente il bisogno, ma con la funzione di far sentire in colpa chi li ascolta. Per completare l’opera l’Amadingo propone, senza apparente motivo, immagini gratuitamente volgari per stravolgere definitivamente le capacità di giudizio delle menti più deboli ormai devastate.

A questo punto il gioco è fatto. Il discepolo che ora si sente smarrito e in grave difetto come tutti i suoi simili, comprende che per salvarsi non può fare altro che seguire i dogmi di fede incontrovertibili dell’Amadingo e degli dei che lo hanno forgiato.

Ciò che l’Amadingo ignora è che la maggior parte del popolo a cui si rivolge è sana e non si lascia abbindolare dai suoi messaggi che niente hanno a che fare con il paese reale. Il popolo sano infatti va nella direzione opposta. Anzi, più la strategia dell’Amadingo si fa prepotente, più gli spiriti veramente liberi si ribellano rivendicando la capacità di discernere il bene dal male.

Estratto dell'articolo di Maurizio Caverzan per la Verità il 14 gennaio 2023.

In realtà, i finti buoni sono tremendi. Furbetti, maliziosi, determinatissimi. Per un punto di share metterebbero il proprio figlio adolescente in prima fila all’Ariston a godersi la pomiciata tra un rapper che viene dai centri sociali e gira in Lamborghini e un ex graffitaro e modello di Gucci che canta vestito da donna.

 E se al ragazzo cresce la disforia di genere, pazienza. Quello che conta è il risultato. Bisogna sempre migliorare. Superarsi. Ama(poco)deus ex-machina lo sa bene. Un Festival dopo l’altro. Il terzo più del secondo e il quarto più del terzo. Purtroppo arriverà anche il quinto. E poi chissà.

 «Nella vita, al di là dei festival, dipende tutto dal risultato», ha teorizzato nella conferenza stampa di chiusura. «Se si ottengono questi risultati hai una forza. Se avessi fatto il 15-20% in meno sarei un allenatore esonerabile. Qualsiasi allenatore è forte finché la squadra vince, se la squadra perde anche i più grandi sono a rischio esonero. Ecco perché devo portare quello che sento, bisogna sbagliare con le proprie idee».

 Il pluridirettore artistico di Sanremo, con moglie perennemente al seguito, non si pone limiti. Colpa anche dei vertici Rai. Se dai troppo potere a un solo artista facile che si pensi un supereroe. Sembra preistoria la perculata di Checco Zalone: «Grazie a nome di tutti gli italiani, tu Amadeus ci fai sentire dei geni».

 Dopo che nel terzo è riuscito a emanciparsi da Fiorello, il quarto Festival di fila ha completato la metamorfosi. Da conduttore a condottiero. Quest’anno Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna, gavetta nelle radio locali e a DeeJay prima di sfiancarsi nella spola Mediaset-Rai, ha replicato senza giri di parole al vicepremier Matteo Salvini, al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ai politici di Fratelli d’Italia, autoinvestendosi di un compito che sarebbe toccato a qualche dirigente. Un cambio di ruolo. Un’autopromozione.

Sul palco, invece, nello spasmodico inseguimento dello share, ha confezionato un Sanremo grondante politica. Infarcito di messaggi obliqui. Come quello ordito la prima sera da Roberto Benigni alla presenza di Sergio Mattarella e indirizzato alla premier: cara Giorgia Meloni, se vuoi fare il presidenzialismo devi passare sul nostro corpo. E di altri più espliciti.

 Come quello che si è inverato nella soave slinguazzata di cui sopra. «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna: è normale, l’amore non ha etichette. E questo va portato ovunque, anche nello spettacolo», aveva argomentato nei panni di guru del Festival di Zan Remo.

 C’è la fascia protetta per proteggere i minori? Quella vale per impedire ai bambini dell’innocente coro di Mr. Rain di esibirsi dopo la mezzanotte. Non al pubblico infantile di assistere alla twerkata del rapper in abiti femminili sul pacco del marito di Chiara Ferragni.

In realtà, i finti buoni sanno andare al sodo. Le regole sono fatte per essere piegate a proprio piacimento. Se c’è da invitare il capo dello Stato all’Ariston la trattativa la conducono il pluridirettore artistico e il suo agente Lucio Presta (lo è anche di Benigni e Morandi, il prossimo è Mattarella?), scavalcando l’amministratore delegato Carlo Fuortes, la presidente Marinella Soldi, il direttore dell’Intrattenimento prime time Stefano Coletta e il cda al completo.

 Se c’è da lasciare Fedez prendere a pesci in faccia mezzo governo ci si trincera dietro il rispetto della libertà artistica. Infine, a forza di mitragliare Festival, Ama(poco)deus ex-machina ha disimparato anche a fare la scaletta, confinando dopo l’una di notte il monologo di Chiara Francini, il migliore e il più originale tra tutti quelli che, invece, hanno incantato il demi-monde di riferimento.

 (...)

In realtà, i buonisti sono spietati. Con gli altri, s’intende. Quelli che non li elogiano, non li lisciano. Avete presente Fabio Fazio? Più che Baudo, è lui il suo modello. Dietro la patina un po’ untuosa da bravi ragazzi, c’è gelido zinco. Intoccabili.

 Se si dissente, cliccano sulla consolle e parte la recita da martire. «Se mi mandano via me ne vado», ha detto sperando nella sollevazione popolare. Se se ne va, magari l’opposizione trova un leader, i telespettatori ridono, la moglie sempre al seguito piange e in Rai si devono mettere a lavorare. Perché in questi anni gli hanno appaltato mezzo palinsesto.

Estratto dell'articolo di Carlo Antonelli per gqitalia.it il 7 febbraio 2023.

Anzitutto lui: Amadeus. Con quel nome spaventoso, come se fosse una cosa normale. Concentriamoci subito su quest’uomo, sull’architrave di questa baracca. Gli altri verranno con calma.

 Porta tutto questo macigno sulla groppa da anni, eppure non si vede. Una forza equina (come le sue origini, in famiglia, cavalli da tutte le parti) e per questo leggiadra e potente insieme. Senza sforzo apparente. Lo intravedi ogni tanto, quando la faccia si contrae per la fatica di un’esitazione, di un imprevisto, poi torna perfettamente bidimensionale e fresca, per essere un 61enne.

 E qui iniziamo a capirci qualcosa. Amadeus in qualche modo è pura voce, e vagamente querula. Il corpo è irrilevante, non lo percepisci se non come gruccia alla quale sono appesi i vestiti da matrimonio che mette al Festival, con variazioni tra il sobrio vellutato e la lieve baracconata.

Cerco di capire -mentre arriva la prima sera di questa Via Crucis di cinque notti- se esistono sue foto in slip almeno, cerco di entrare nella sessualità di questa specie di lemure (parliamoci chiaro). Niente, poca roba. Un servizio al mare venduto in esclusiva a Oggi con la seconda moglie Giovanna Civitillo, carina (attenzione, una ballerina conosciuta in uno show Mediaset, sposata poi in chiesa in seconde nozze col primo matrimonio annullato dalla SACRA ROTA, wow wow wow). È con Fiorello dentro il solito villaggio vacanze, spazio-tempo cristallizzato negli anni Ottanta dal quale i due non si sono mai allontanati, un anfratto psichico eterno (come a San Junipero in quella puntata di Black Mirror) che è come una fonte magica medievale di energia infinita, di eterna giovinezza.

 Altra chiave della faccenda: la demografia reale del Paese. Parliamo di due grandi boomer – tecnicamente - che dimostrano di non sbiadire mai, specchio della maggioranza che hanno di fronte, nel migliore dei casi, e che la presenza anti-machista e mangiatrice di elementi organici sani di Gianni Morandi rafforza in modo identico, nella fascia più alta (“sta sempre bene” “sembra un ragazzino”.. Sanremo in fondo è tutto un grande check-up collettivo). Nelle stesse foto vacanziere Fiorello - che ovviamente è ovunque anche qui, perché di allucinante bromance si parla - ha inaspettatamente dei buoni pettorali, Amadeus ha persino delle cosce tornite. Ma l’energia erotica di entrambi è quasi pari a zero: a-fallica, estremamente sfumata, troppo giuggerellona. Le donne che hanno classicamente affiancato il nostro disk-jockey in questi anni – con il guizzo apparente di Drusilla ok, ma troppo bon ton, per nulla perturbante - sono potenti, dominatrici, se lo magnano, vedi la Fagnani ovviamente. Ferragni se lo potrebbe comprare, ad Amadeus, e portare a casa a intrattenere il figlio già entertainer, già messo sotto a lavorare coi post.

 “Ama” (interessante sub-soprannome, tra l’altro) è un maschio che recede. È una forza-cava. È apparentemente post-patriarcale, come quasi tutte le figure qui, a iniziare dagli avventori del remake di Blade Runner che sono i vari direttori d’orchestra delle singoli esibizioni.

 Ama sembra appunto amare tutti ma non ama nessuno: è e rimane un conduttore radiofonico sempre inizio Ottanta, a Verona, che con un simpatico gioco delle tre carte imbarca Claudio Cecchetto e da lì come un salmone risale il fiume milanese di Radio Deejay e poi il Festivalbar e quindi una sfilza di bestiali show con una tignazza e un entusiasmo da far paura, sempre mascherati dalla timbrica e dalla conduzione “up” da Superclassifica della settinana, “giovane”.

 (...)

  Per questo ci troviamo qui incollati.  E perché non abbiamo un cazzo da fare: abbiamo perso otto punti di potere d’acquisto negli ultimi mesi, che si sommano a quelli persi nel cinquennio precedente; abbiamo ridotto i consumi e le vacanze (tranne la fascia ultraricca, peraltro qui rappresentata). Ci son rimasti i mondiali in Qatar persino senza la nazionale e l’analoga eccitazione di vedere tutti insieme questa enorme messa cantata, lunghissima, e non ci sono spezzettamenti e reazioni da social da scrollare in differita che tengano. Il veneto Ama porta qui la resistenza flessibile ai cambiamenti del mondo della piccola e media impresa delle sue parti, che non molla mai e anzi esporta di più, anche dentro questa ennesima tempesta.

E poi un’ultima cosa ci dice della potenza post-sessuale del nostro: Amadeus è daltonico. La fantasmagoria messa in piedi con sforzo bestiale dai tecnici magnabranzini della Rai, la scenografia del genio assoluto di Castelli (la sua ventunesima per il Festival!) lui la vede tutta distorta, come fosse sotto acido. Ecco perché è tutto contento lì a Sanremo: te credo, sta di fuori.

Estratto dell'articolo di Gian Marco Merlo per “Nuovo” il 5 febbraio 2023.

Non sarà un anno qualunque il 2023 per Amadeus e Giovanna. I due festeggiano vent'anni d'amore e sono pronti a vivere un'altra stagione entusiasmante. Anche se lei, che non nasconde la sua gelosia, ha detto al marito: «Se tu mi tradissi, lo vorrei sapere. Con tanto amore e tanto dispiacere, ti preparerei le valigie e te le metterei fuori dalla porta». Tra qualche giorno vedremo di nuovo il conduttore alla guida dell'appuntamento più atteso della Tv: il Festival di Sanremo, in programma dal 7 all'11 febbraio. "Ama" sarà il timoniere per la quarta volta consecutiva - ha ancora un'altra edizione da fare, secondo il contratto firmato con la Rai - e la moglie sarà come sempre al suo fianco.

 Quel palco carico di storia è ormai casa sua. All'Ariston Amadeus è talmente a proprio agio che ha già scelto la Riviera ligure come luogo ideale per regalarsi con Giovanna una luna di miele a fine Festival. Vent'anni d'amore meritano di essere festeggiati alla grande, soprattutto perché nessuno ha mai bella osato dubitare della felicità della coppia. Se tra i vip dello spettacolo i divorzi sono all'ordine del giorno, loro vanno in controtendenza. E, insieme al figlio José Alberto, dimostrano che la famiglia è una cosa meravigliosa. «Nessuno scommetteva sulla riuscita della nostra unione e si sbagliavano», ripete spesso il presentatore di Soliti ignoti - Il ritorno.

 La Tv gli ha regalato tanto. Lui e Giovanna - che si sono sposati 11 luglio 2019, ma erano già uniti civilmente dieci anni prima - si sono conosciuti durante la trasmissione L'Eredità, dove lui era il conduttore e Giovanna la protagonista della "scossa", uno dei siparietti più amati dal pubblico, che prevedeva uno "stacchetto” sensuale della soubrette originaria di Vico Equense. Il presentatore aveva sposato Marisa Di Martino, madre della primogenita Alice, nel 1993.

Ufficialmente, il divorzio tra i due è arrivato nel 2007. L'attrazione tra il conduttore e la Civitillo si è trasformata ben presto in una relazione vera e propria, con tutte le conseguenze del caso. Era il 2003. «Mi ha stravolto la vita, ma in meglio», ha ammesso candidamente Giovanna. Non a caso, la showgirl ha scelto l'amore come priorità lasciando in secondo piano la carriera da ballerina.

 «Incontrare Amadeus è stata la fine del mio percorso televisivo, ma con lui ho realizzato il mio vero sogno, quello di costruire la famiglia e di avere un figlio meraviglioso», ha detto lei. 

 (...)

Alessio Poeta per “Chi” sabato 23 settembre 2023.

Non temere, nulla è sotto controllo e tutto accade per caso» , dice Amanda Lear mentre passeggia nel giardino della sua casa a Saint-Rémy-de-Provence, a due passi da Avignone, in Francia. «Guardi la mia vita: non ho pianificato nulla e mai mi sarei immaginata che un giorno avrei incontrato uomini incredibili come Salvador Dalí, Andy Warhol o David Bowie. Poi, vabbè, ho incontrato anche lei... succede». 

Ride, se la ride e fa ridere l’attrice (e pittrice, conduttrice, cantante da sempre senza tempo) in un momento di relax, in attesa di iniziare le riprese di Lace, serie internazionale sul mondo della moda per Apple Tv. «Vestirò i panni di una donna miliardaria, antipatica, al fianco di Lambert Wilson. E poi girerò un film impegnato con Victor Belmondo (nipote del grande Jean-Paul, ndr). Mi godo questi ultimi giorni di tranquillità».

Domanda. Che estate ha trascorso? 

Risposta. «Piuttosto impegnativa. Giugno e luglio non mi sono fermata un secondo poi, ad agosto, ho preteso qualche giorno di stop e sono tornata a Saint Tropez. Posto da evitare: papponi, burini e selvaggi. È finita un’era». 

D. E pensare che, qualche anno fa, voleva comprare la villa di Brigitte Bardot... 

«Un incubo! Avrei preso un bidone come pochi. L'unica cosa buona che ho fatto è stata quella di comprare questa casa, lontana dagli eccessi e dalla mondanità. I miei amici mi dicevano: "Amanda, ma sei impazzita che vai a vivere nel nulla?", mentre oggi sono tutti qui. Hanno comprato casa George Clooney, Brad Pitt, Gérard Depardieu».

D. Questa è la casa dove morì, a causa di un incendio, suo marito Alain-Philippe Malagnac d'Argens de Villèle?

R. «Esatto, una vera tragedia. Pensavo che sarei stata perseguitata dalle onde negative, invece ho scoperto che il fuoco, nella disgrazia, purifica. Qui mi sento protetta, al sicuro e, le dirò, sento ancora la sua presenza». 

D. I ricordi fanno male?

R. «Il dolore è inevitabile, ma la sofferenza è una scelta. Al mio analista chiesi quando sarei riuscita a voltare pagina e lui mi rispose, secco: "Mai". Eppure questa casa oggi rappresenta la felicità. Voglio vivere e morire qui».

D. E una casa grande per una donna sola come lei...

R. «Forse sì. Ho sei stanze, non so quanti bagni, una piscina, un giardino, ulivi, piante. Mantenerla mi costa un sacco, ma ho anche tanti amici che vengono a trovarmi durante l'anno. Poi, per lavoro, sono spesso a Pari-gi. Qualcuno mi suggerisce di comprare un appartamentino a Nizza: poverini (ride, ndr)». 

D. Potrebbe pensare alla nuda proprietà...

R. «Non avendo eredi, a buon bisogno, potrei farmi vedere in giro moribonda, mal ridotta e col bastone così da poter illudere qualcuno che sia arrivata a un passo dalla fossa». 

D. Lei è eterna.

R. «Speriamo di no!». 

D. La morte non la spaventa?

R. «Per nulla, al massimo mi spaventa la sofferenza. Per questo sono molto affascinata dal sistema svizzero sulla morte assistita: meglio una morte sana, senza dolore, che

soffrire e buttarsi sotto un vagone della metropolitana. Anche se, stia sereno, per il momento non sono abbastanza depressa». 

D. Parliamo di cose belle: l'amore?

R. «Quello vero? Da qualche giorno ho adottato un micio che ho già sputtanato sul mio Instagram. Ha due mesi e si chiama Sissy, come l'imperatrice. Qualche tempo fa ho perso la mia gatta preferita e sono stata malissimo. Aveva 23 anni, un solo dente ed era rimbambita come poche, ma dormiva con me tutte le notti». 

D. Ci parla?

R. «Con il gatto? Mica sono la Lambertucci!».

D. Patty Pravo dice di parlare con i gabbiani...

R. «Vabbè, ma lei parla anche con i sassi. Certo che in Italia ne avete di personaggi strani, eh? (ride, ndr) Ha visto Britney Spears e Madonna come son ridotte? Questo lavoro logora». 

D. Allora mi dica come è riuscita, lei, a restare integra.

R. «Mantenendo sempre i piedi per terra. Ho frequentato le grandi star circondate da assistenti, "yes men" e tuttologi. Li guardavo e, dentro di me, pensavo: "Se mai dovessi diventare famosa, non sarò mai come loro"». 

D. Lontana dai riflettori che cosa fa?

R. «La vita che fanno tutti. Esco, prendo la macchina, vado in edicola, faccio la spesa, spadello. Sono simpatica alla gente perché mi percepisce per quella che sono». 

D. Una creatura mitologica: metà donna, metà leggenda.

R. «Si figuri. Sono sola, non ho sottoposti, niente di niente». 

D. Come combatte la noia?

R. «Leggo copioni, libri, seri vo, dipingo nudi maschili, con muscoli, chiappe alte e sode, ma senza modelli: oramai vado solo a memoria». 

D. Non le credo.

R. «Lo sanno tutti: ho chiuso la boutique. Non mi faccia ripetere sempre le stesse cose». 

D. Che fine ha fatto l'Amanda del "sesso, droga e rock'n'roll""?

R. «Era un prodotto commerciale che, a conti fatti, visti anche i tanti dischi venduti, ha funzionato. Avevo una bella immagine: donna libera, aggressiva, ribelle, selvaggia. Piaceva, incuriosiva e divertiva».

D. Il sesso è sopravvalutato?

R. «Quello che ai miei tempi era rivoluzionario e trasgressivo, oggi è diventato terribilmente noioso». 

D. Si spieghi meglio.

R. «Se ne parla tanto, troppo e in realtà ho come l'impressione che se ne parli più di quanto, poi, venga messo in pratica. Una volta piaceva perché era proibito, mentre adesso si è persa la magia. Il sesso, se ci pensa, è uno scambio di energie. Oggi, invece, li vedo tutti annoiati davanti a Tinder con chissà quale speranza. A 10 anni, anziché uscire, sono già sui siti porno non capendo che il sesso non sarà mai quella roba li». 

D. Lei è mai stata corteggiata da una donna?

R. «È successo, anche più volte: solo che non sono mai stata interessata all'articolo. Oggi sono tutte fluide, le lascio fare, ma io resto fedele (ride, ndr)». 

D. Su Instagram si fa immortalare spesso con bei ragazzi.

R. «Le donne mi scrivono: "Amanda insegnaci la vita, tu sì che hai capito tutto". Vorrebbero essere al mio posto, le capisco». 

D. Però...

R. «Sarò libera di passare del tempo con chi voglio, o no? Detesto questa forma di ageismo che vuole che una donna, superata una certa età, debba restare chiusa in casa. All'immagine della ragazza per bene, composta, ho sempre preferito la libertà. Ho amici, viaggio e spendo tutto: non voglio di certo essere la più ricca del cimitero. C'è gente che dice che per avere successo bisogna andare a letto con qualcuno, ma io sono voluta diventare famosa proprio per andare a letto con qualcuno».

D. Lei non è una donna, è un cinema!

R. «Lei ci scherza, ma la popolarità aiuta. Uscivo dalle tournée italiane e avevo file e file di uomini che mi aspettavano. Potevo essere cicciotta, magra, alta, bassa. Bastava il mio nome. La fregatura è che poi volevano tutti la foto testimonianza, infatti la prima regola è: mai portare telefoni in camera». 

D. La sua musica continua a suonare. Follow Me è diventata la colonna sonora della nuova pubblicità Chanel.

R. «Grazie a Shazam è stata rilanciata la mia intera discografia. Qualcuno se ne era dimenticato: del resto parliamo di un brano del '78..».

D. Avrà ingrassato il porcelino 

R. «Intende il salvadanaio? Si figuri: i discografici sono tremendi. A mala pena prendo il 30 per cento. Se mi resta una borsa Chanel, una stretta di mano e un assegno da 5.000 euro, è già un miracolo». 

D. Il segreto di quel brano qual è?

R. «Le altre cantavano Voulez-vous coucher avec moi, ce soir?, mentre io, in quel brano, interpretavo il diavolo che cercava di corrompere le anime in cambio dell'eterna giovinezza. Poi, vabbè, io non posso parlare: ho cantato Tomorrow per una vita».

D. Il motto di questa vita?

R. «Come quello della regina Elisabetta II: "Never complain, never explain", vale a dire "Mai lamentarsi, mai dare spiegazioni'».

Amanda Lear è un’opera d’arte vivente, destinata a essere triste per natura. MARIA LUISA FRISA su Il Domani il 14 marzo 2023

Per il Saggiatore è uscita una nuova edizione de La mia vita con Dalí, libro scritto da Amanda Lear. È anche un modo per rileggere la sua vita, con tutte le sue contraddizioni e i punti di massima espressione artistica.

Amanda è un’opera d’arte vivente, in un senso che appartiene al nostro tempo, perché lei è riuscita a trasformare quel suo corpo dall’ambivalente identità, misterioso e ostentato allo stesso tempo, in un simulacro modellabile dall’immaginazione e dai desideri degli altri.

«Ho fatto di tutto: teatro, televisione e cinema… ma la cosa più personale è stata la pittura, perché quando dipingo sono sola davanti a una tela bianca», dice Amanda Lear

«E poi, gliel’ho sempre detto che lei non è né una ragazza né un ragazzo. Lei è an-ge-li-ca, un vero archetipo! Solo Dalí poteva scoprire la purezza della sua anima. E inoltre non suda mai, prova inoppugnabile del fatto che lei non è viscerale come le altre donne che producono embrioni. A volte dubito addirittura che lei sia un essere reale tanto è eterea». Salvador Dalí nel libro di Amanda Lear: La mia vita con Dalí

La conversazione, quella tra me e Amanda Lear, per presentare a Firenze all’interno del festival letterario Testo, il suo libro: La mia vita con Dalí pubblicato da Il Saggiatore (una edizione ampliata rispetto a quella pubblicata da Costa & Nolan negli anni Novanta) è cominciata così: «Amanda, sai che cosa ho pensato questa mattina mentre mi preparavo per incontrarti? Ho pensato che mi sarebbe piaciuto paragonarti a Orlando il/la protagonista del celebrato libro di Virginia Woolf». 

PELLE EMOZIONALE

Ammetto sinceramente che mi sembrava un modo intelligente per rompere il ghiaccio, per non cedere fin da subito a quell’entusiasmo che prende molti di noi davanti a chi riesce a trasformare, all’apparenza senza nessun sforzo, la sua vita in una sequenza continua di performance memorabili.

Nel risvolto del libro lei, Amanda Lear, viene definita nell’ordine pittrice, cantante, attrice, conduttrice televisiva. In sintesi performer. A matita mentre leggevo avevo aggiunto di seguito doppiatrice pensando a quanto il personaggio di Edna la designer de Gli Incredibili debba la popolarità a quella sua voce, bassa, profonda e potente, impastata dalle tante lingue parlate.

Però poi avevo annotato subito sotto in stampatello: opera d’arte vivente. La definizione che si era data la Marchesa Casati. Non la intendevo però nel senso che quell’espressione aveva per Casati che per tenere fede a quell’etichetta – Gabriele D’annunzio riferendosi a lei aveva detto: «L’unica che mi ha sbalordito» – orchestrava apparizioni spettacolari su fondali fantasmagorici, aveva dissipato patrimoni immensi.

Amanda è un’opera d’arte vivente, in un senso che appartiene al nostro tempo, perché lei è riuscita a trasformare quel suo corpo dall’ambivalente identità, misterioso e ostentato allo stesso tempo, in un simulacro modellabile dall’immaginazione e dai desideri degli altri.  

Non body modification inflitta alla carne, ma sorta di pelle emozionale capace di plasmare la complessità della superficie. «Dalí mi aveva spiegato che il sogno è la confusione dei sessi» ricorda Lear nel libro e questa frase mi aveva fatto pensare a quel lungo dormire di Orlando che poi si risveglia donna.

ANCORA VIVA

Quel vivere attraversando anni ed epoche diverse, con nel mezzo un sonno ristoratore e preparatorio a una vita completa, a una maturazione intima, a quel mutamento dall’essere uomo a ritrovarsi donna che è soprattutto cambiamento nella consapevolezza di sé. Una storia iniziata in un passato che terminava nel presente della scrittrice il 1928 e dedicata al suo grande amore Vita Sackville-West.  

Anche Amanda ha attraversato il tempo e le mode. Leggendo il resoconto, dettagliato e sfocato insieme, di quella parte dell’esistenza passata come musa accanto a Dalí, viene da pensare che quel periodo lungo 15, quasi 16 anni sia stato come il sonno di Orlando, un periodo di preparazione, di presa di coscienza, di gestazione di quell’esistenza senza limiti, iniziata in quegli anni Sessanta della Swinging London, che poi si sarebbe ritrovata a vivere.

Non era forse lei ad aver detto in una intervista: «Non importa quando sono nata, se nei Cinquanta/Sessanta/Settanta», spostandosi parecchio in avanti rispetto alla presunta data della sua nascita. «L’importante è che sono ancora viva».

UN ARCHETIPO

«Penso che lei sia triste per natura. Sarà difficile insegnarle a essere felice, perché le piace essere triste. Lei è come René Crevel. Gli assomiglia anche un po’, sa? È stata Gala a farmelo notare. La stessa fronte ampia, quasi fin troppo pronunciata, lo stesso naso arrotondato e le labbra carnose».

Questo è quello che Dalí aveva osservato e dice ad Amanda, studentessa di belle arti che fa la modella per mantenersi, quando, dopo essersi conosciuti a Parigi, lei arriva, come una predestinata, a Port Ligat. Il regno di uno dei protagonisti del surrealismo, piuttosto contestato dal gruppo, Avida Dollars era il soprannome datogli da André Breton. «Ero davvero così, un’altra volta mi aveva detto che assomigliavo a Mosè per quell’espressione misto di rabbia e tristezza. Poi sono cresciuta, sono cambiata».

«Vorrei tanto che fosse felice. Credo che lei sia un archetipo: lei è unica», aveva poi aggiunto prendendole la mano e guardandola negli occhi.

PROTAGONISTI DEL TEMPO

Amanda si abbandonata a quella trinità, il triangolo perfetto formato da lei, Dalí, Gala, che, come scrive, diventano quella famiglia che lei non ha mai avuto. Lei, comunque, nei triangoli si è sempre trovata bene, gelosissima ancora adesso per tutto quello che la riguarda, non aveva però problemi a trovare un suo spazio dentro le coppie imbastite attorno ad artisti geniali e fragili.

«Con Gala si comportava come un bambino con la madre» spiega Amanda. Per Gala, a cui è dedicato il libro, centro sempre e comunque della vita di Dalí, lei rappresentava la libertà di avere un suo spazio per dedicarsi agli amanti, ma anche per ritagliarsi del tempo tutto per lei.

Dalí era impotente e aveva pessimi rapporti con il sesso. Anche la relazione di cui si è parlato tanto con il poeta Federico García Lorca, se guardiamo meglio le magnetiche fotografie in bianco e nero che li ritraggono insieme, si rivela per quello che è. Dalí non era riuscito a sopportare la penetrazione e quello era diventato l’incontro di due giovani uomini ambiziosi, affascinanti, eleganti che si riconoscono nel desiderio di essere unici e speciali. Soprattutto protagonisti del loro tempo.

UNA DAVID BOWIE AL FEMMINILE

Anche per la moglie di David Bowie, Angie, lei, almeno per il primo periodo è complementare al ménage, l’altra di supporto: tanto che la moglie le compra gli abiti che sa che piacciono a David che le aveva detto: «Andrete d’accordo. Lei non è affatto gelosa, le basta sapere che sono felice».

Staranno insieme due anni in cui le farà prendere lezioni di canto, la farà apparire in alcuni suoi video e la farà mettere sotto contratto dalla sua casa discografica ponendo le basi per la sua consacrazione a regina della disco music. A Dalí, che preoccupato di perderla le chiedeva se aveva intenzione di fare cinema, risponde: «No, la cantante. Sarò la prima cantante rock decadente. Una specie di David Bowie al femminile».

IN TELEVISIONE

La prima canzone che Amanda scrive si intitola Blood and Honey da un quadro del maestro intitolato Il sangue è più dolce del miele, pensava infatti a Dalí mentre scriveva l’inquietante storia di una donna vampiro.

Da qui comincia l’altra vita di Amanda Lear in cui gli incontri con Dalí si fanno più rarefatti, a causa di tutti gli impegni e la grande celebrità che la travolgono, fino quasi ad interrompersi, nell’ultimo periodo quello della malattia, soprattutto dopo la morte di Gala.

Poi c’è tutta la vita che non è raccontata nel libro, quella in cui lei diventa un’icona globale, e che possiamo ritrovare e rivedere sulla rete. Per limitarci all’Italia c’è la televisione commerciale con Silvio Berlusconi che intuisce subito le sue grandi potenzialità e le lascia carta bianca.

Lei contribuisce a far crescere quel nuovo modo di fare televisione, ribaldo, sguaiato, vitalissimo. Per la rai conduce Ars Amanda, in cui conduce stando a letto: «Mi sono accorta che stando stesa nel letto con luce dei riflettore, venivo molto bene, ero molto telegenica». Così intervista personaggi come Federico Zeri, Achille Bonito Oliva che si spoglia davvero o Vittorio Sgarbi, l’unico che sotto le coperte allunga le mani. Partecipa a Bontà loro di Maurizio Costanzo a cui, come ricorda, deve molto. E che l’ha valorizzata.

MAGNETICA

«Ho fatto di tutto: teatro, televisione e cinema… ma la cosa più personale è stata la pittura, perché quando dipingo sono sola davanti a una tela bianca. Nessuno mi dice cosa fare, nessuno dice: “truccati, cerca la luce giusta”. È come quando scrivi un libro, sei sola. Tutte le altre cose che ho fatto erano sempre lavori di squadra. C’erano un regista, un produttore, un elettricista. Se lo spettacolo viene bene è grazie al contributo di tutti. Ma quando scrivo o dipingo sono completamente da sola. E io sono più felice e orgogliosa quando riesco a fare qualcosa di bello da sola».

«Lei ha proprio un bel cranio», aveva detto Dalí, richiamando l’attenzione della corte di cui si circondava sul  “meraviglioso scheletro di Amanda”. «Lo scheletro è importantissimo, perché la struttura è sempre la cosa essenziale ed è tutto ciò che resta dopo la morte».

Certo dal vero la presenza scenica di Amanda è ancora impressionante. Incute rispetto. Alta, dritta, magnetica. Soffermandomi, quando ci siamo sedute accanto, a osservare criticamente la sua pelle, come solo un’altra donna di una certa età come me può fare, mi sono lasciata andare a molti sinceri complimenti: «Sono molto disciplinata. Bevo solo acqua e mangio soprattutto frutta. Vado a letto molto presto. Mi godo la natura attorno alla mia casa in Provenza».

Il Metodo paranoico-critico di Dalí le ha insegnato a essere positiva. «Grazie a questo metodo ho un termostato, sono sempre contento, ho sempre lo stesso umore», diceva. A proposito Amanda mi ha fatto subito capire che il paragone con Orlando non era di suo gradimento. E io velocemente sono passata alle domande di rito.

MARIA LUISA FRISA. Professore ordinario, dirige il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali allo IUAV di Venezia e presiede la MISA Associazione Italiana degli Studi di Moda. Dirige inoltre la rivista internazionale Dune, dedicata a moda, design e cultura visuale, e la collana Mode di Marsilio. Oltre a scrivere di teoria e storia della moda in numerose pubblicazioni, come Le forme della moda (il Mulino, 2015), ha curato diverse mostre e i relativi cataloghi, tra cui i recenti Memos. A proposito della moda in questo millennio (2020) Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001 (2018) e Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945-1968 (2014).

Estratto dell’articolo di Fulvio Paloscia per repubblica.it il 19 febbraio 2023.

Quando si videro per la prima volta, era un altro mondo. Parigi, 1965. […] Amanda Lear aveva 26 anni. Magrissima, bellezza fuori dai canoni, faceva la modella, posava per le copertine dei Roxy Music, frequentava la swinging London. E dava del tu ai Rolling Stones.

 Salvador Dalì era invece un'attempata superstar della pittura. Animava salotti en travestì, i suoi baffi dettavano legge sul mercato, con prezzi direttamente proporzionali al loro sfidare la forza di gravità. La differenza d'età tra i due era tanta, "eppure - racconta lei - la scintilla scoccò. Non subito, perché all'inizio mi stava antipatico. Ma poi quel magnetismo speciale finì per catturarmi".

 La storia d'amore è tutta in un libro, La mia vita con Dalì, che ormai è un classico: pubblicato una trentina d'anni fa da Costa & Nolan, ora torna grazie al Saggiatore, che lo ha scelto come biglietto da visita da Testo.

 "[…] Su di lui si sono scritte montagne di balle, e invece io sono stata sincerissima. Come potevo mentire? Il libro uscì quando Dalì era ancora vivo. Lo lesse, lo approvò. È l'unico sguardo veritiero sulla sua intimità, quotidianità. Che per un artista vogliono dire molto".

Il rapporto con Dalì non risparmia colpi di scena. Il primo: lei non amava la sua pittura.

"Io ho studiato belle arti, adoro Gauguin, gli impressionisti, i fauve. […] non capivo niente di quei suoi quadri molli. Anzi, mi facevano paura. Poi, vivendo con Dalì, ho scoperto che era un grandissimo pittore. Ma per amore dei soldi cedeva volentieri alla faciloneria, al pasticcio dipinto in fretta e furia, ai fogli imbrattati a caso con gli acquerelli. Io lo criticavo per questo".

 E anche il carattere, quante ombre.

"Era come il Dottor Jekyll e Mister Hide. Insopportabile in società. Un pagliaccio. Lontano dai flash e dalla ribalta, si trasformava in una persona squisita. Pieno di attenzioni, pronto a trasmettere la sua cultura sterminata, a cullarti con i suoi racconti su Hollywood, Hitchcock, Sinatra. Poi arrivava la tivù... e alè con il circo".

 Altro colpo di scena: il libro è dedicato alla moglie di Dalì, Gala. Lei, signora Lear, era l'amante...

"La prima volta che me la presentò, lei mi osservò con certi occhietti. Poi siamo diventate amiche. Era innamoratissima, ma anche stanca di un uomo ingombrante, difficile da gestire, che non sopravviveva lontano da lei.

Il fatto che ci fossi anche io accanto a lui le concesse una boccata d'ossigeno. Finalmente potè distrarsi, viaggiare. Così mi dette le chiavi di casa, liberò una stanza tutta per me, mi accettò. Fu un menage à trois di cui si parlò molto, la gente pensava ci fosse un amore lesbico tra me e Gala. E Dalì non mi definì mai amante. E neanche modella".

 E come, allora?

"Musa. In lui c'era tanta ipocrisia cattolica mista ad un machismo tutto spagnolo: non ti do soldi, quindi non sei mia amante, mi diceva. Per lui tradire era insopportabile, odiava l'idea borghese del marito che di nascosto fa i regali ad un'amante. Era Gala che mi pagava i viaggi, gli alberghi. Quando ci sposeremo, sarà diverso, mi diceva lui. Ma come sposeremo? Tu hai già una moglie. E Dalì: ci sposeremo lo stesso. Credeva davvero nella bigamia. Il nostro amore durò perché non ci fu mai sesso. L'ardore fra i corpi finisce presto, l'intesa intellettuale è eterna".

Pensa di aver lasciato una traccia nella pittura di Dalì?

"Credo di sì. Ad un certo punto s'invaghì della stereoscopia. Fu dopo che lo trascinai ad una mostra, a Parigi, di Gerrit Dou".

 E lui ha influenzato la pittura di Amanda Lear?

"Purtroppo. All'accademia mi avevano insegnato la prospettiva, le proporzioni del corpo umano. Dalì cancellò tutto. Diceva: Van Gogh fa schifo, Rembrandt pure. Esistevano solo Vermeer, Velázquez e Raffaello. Era tirannico. Dopo la sua morte […] piano piano ho trovato la mia voce".

 E si è specializzata in nudi maschili.

"Le prime emozioni erotiche le ho avute davanti ai corpi virili delle statue classiche e di Rodin. Dipingo uomini di schiena (e poche donne, tutte in carne). Diciamolo, sono specializzata in chiappe, mi vengono molto bene[…]”

 […]  Cosa le fa paura?

"Quello che sta accadendo. Le pandemie. La terza guerra mondiale. I telegiornali, perché ti fanno pensare che non arriverai al giorno successivo. E il non rendermi conto di diventare ridicola con l'età. […]".

Estratto dell’articolo di Maurizio Di Fazio per il “Fatto quotidiano” il 3 Febbraio 2023.

Picasso al telefono. “Ma chi è questa Amanda?” gli chiede l’amico-rivale spagnolo: “Una ragazza che mi accompagna quando Gala non c’è”. “Ti si drizza ancora? Ne ero certo. Ma dimmi, te lo succhia bene?”.

 Il Viagra araldico: “Sa come sono fatto. I titoli, la nobiltà, su di me hanno un effetto smisurato. È risaputo che solo una duchessa può provocarmi un’erezione”.

Estratto dell’articolo di Terry Marocco per “Panorama” pubblicato da “la Verità” il 5 febbraio 2023.

Poteva diventare la signora Dalí, ma in fondo Amanda Lear, non lo ha mai veramente voluto. Nel suo libro La mia vita con Dalí, scritto 35 anni fa e appena ripubblicato da Il Saggiatore, racconta la complessità di un rapporto durato 17 anni, tra le luci sfavillanti del jet set internazionale e le ombre della decadenza crepuscolare del genio del surrealismo.

 «Oggi è cresciuto l’interesse intorno a Dalí», racconta dalla sua casa parigina. «Ho appena firmato con una produzione americana per un film basato sulla nostra storia d’amore. Ci vorranno anni, si parla di Margot Robbie per la mia parte e Al Pacino o forse Adrien Brody per quella di Dalí. Sono quasi sicura che ne faranno un pagliaccio, eppure recitava quella parte solo davanti al suo pubblico. In privato era colto, educato».

Davvero le ha dato del «lei» per tutta la vita?

«A lui piacevano l’aristocrazia, le contesse, le principesse. Parlava come vivesse in un tempo antico. Ci siamo sempre dati del lei, anche se eravamo intimi. Era religiosissimo, tradizionale: non eravamo sposati e non gli piaceva l’idea che si pensasse fossi la sua amante. Sapeva che non avevo soldi, ma mi diceva: “Piccola Amanda, vorrei aiutarla, ma non posso. Ho una moglie e sono cattolico”. Era il trionfo dell’ipocrisia. Un tipico macho spagnolo».

 Eppure, le chiese più volte di sposarlo, perché non volle accontentarlo?

«Intanto era già il marito di Gala. Lei mi aveva fatto giurare che se fosse morta, avrei preso il suo posto. Non potevo, avevo 25 anni e la mia musica. E allora, perfidamente, mi diceva che facevo schifo quando cantavo. Ci teneva che gli stessi accanto, ma io non volevo sposare un vecchio (c’era una differenza d’età di 35 anni, ndr)».

 Ci ha mai ripensato?

«Non mi piaceva diventare la signora Dalí. Però non volevo abbandonarlo, aveva fatto tanto per me. Come un padre, un fratello, un professore d’arte, un maestro di vita. E all’improvviso lo vedevo vecchio, debole, non poteva più dipingere per i tremori del Parkinson. Ma avevo davanti una carriera, avrei dovuto fargli da badante e infermiera? Non me la sono sentita, era troppo per me. Forse sono stata egoista».

 […] Ha dedicato il libro alla moglie, che rapporto ha avuto con Gala?

«L’ho ammirata. Io sono gelosissima e non avrei mai immaginato una signora che mi diceva: “Ti accolgo in casa mia, prendi pure il mio posto”. Per me era impensabile. Ma lei era una donna straordinaria, segreta. Mi faceva i tarocchi. Era russa e ogni giorno scriveva un misterioso diario in cirillico.Per Dalí era tutto».

 Da come ne scrive pare che avesse un carattere terribile.

«È stato difficile conquistarla. Era sempre arrabbiata, detestava la corte di approfittatori e parassiti che aveva intorno. Lo proteggeva: è stata infermiera e manager. Tutto, tranne che moglie».

Cosa significa?

«Non hanno mai fatto l’amore. Lui era impotente. Mi disse che non l’aveva mai penetrata. La sola idea del sesso femminile gli faceva orrore, paura. Mi fa ridere quando sento di un figlio nascosto. Mi raccontava che da giovane a Barcellona andava al bordello con Picasso. Era così spaventato che faceva sedere la ragazza a due metri di distanza e al massimo le chiedeva di aprire le gambe e lasciarlo guardare. Riversava la libido solo nella pittura».

 […] Tra di voi chi soffriva e chi faceva soffrire?

«Dalí era innamorato pazzo di me, pur sapendo che non mi poteva soddisfare. Io uscivo con bei ragazzi giovani e lui godeva della sua gelosia. Voleva che gli raccontassi tutto. Era una cosa masochista. Andavo a ballare tutte le sere, mi drogavo abbastanza, non ero certo una brava ragazza. Lui mi accompagnava fino alla porta di casa dei miei amanti e si crogiolava pensando a quello che avrei fatto».

Come veniva visto il vostro ménage à trois?

«A Parigi si facevano le supposizioni più strane. Immaginavano ogni perversione, per esempio che Gala fosse lesbica. Invece era tutto molto semplice. Lei amava viaggiare e sapeva che il marito non poteva stare da solo. Mi aiutava anche economicamente, mentre lui era avarissimo».

[…]

 Che coppia era?

«Molto egoisti. Si sentivano esseri divini e trattavano tutti male. Lei non aveva mai voluto vedere sua figlia. Vivevano solo per loro. Sono stata l’unica a essere accettata. Anche con gli animali erano senza cuore: avevano due ocelotti, ma li usavano solo per le foto. Si mangiarono anche il coniglietto di casa».

 Dalí diceva che se ami qualcuno lo vuoi mangiare.

«Era la sua teoria sul cannibalismo, ne era affascinato. Ingerire è un atto d’amore».

 Ha divorato anche lei?

«Sì, ho dovuto scrivere questo libro per non andare in psicoanalisi. Mi ossessionava, non riuscivo a sbarazzarmene, lo sentivo dietro le spalle anche mentre dipingevo. Era onnipresente anche quando non c’era più. La scrittura è stata una catarsi, dopo ho potuto fare la mia vita. Oggi mi dispiace quando continuano a chiamarmi la musa di Dalí. Ho fatto anche altre cose. Però per tutti resto sempre la musa. Che noia».

Bruno Ventavoli per “Tuttolibri – la Stampa” il 15 Gennaio 2023.

Si incontrarono per la prima volta nel 1965 un club parigino. Lei, Amanda Lear aveva 26 anni, era una ragazza bellissima, molto swinging London. Minigonne, amori rockettari, ma anche la passione per il disegno e l'arte. Lui, Salvador Dalí era il genio del surrealismo, 61 anni, troneggiava a capo tavola con la sua corte di personaggi estrosi e adoranti.

Ne nacque un amore fatto di arte, stravaganze, viaggi, feste, che durò 17 anni. E che la cantante, modella, attrice, pittrice a sua volta, ha raccontato in La mia vita con Dalí. 

Il libro scritto nell'84 (e tradotto da Costa & Nolan nell'87), arricchito di nuovi capitoli, viene riproposto dal Saggiatore, mentre in America è appena uscito il film Daliland, con la regia di Mary Harron. Dalí è interpretato da Ben Kingsley. Lei, Amanda Lear, da Andrea Peji, modella transessuale («non mi assomiglia per niente ma è molto bella; il film invece, pare, non è un granché. Il mio sarà molto meglio»). 

Il libro racconta l'asimmetrico amore che legò Amanda a Salvador. I tic, le ossessioni, la quotidianità nelle ville sontuose, l'ammirazione per il caudillo Franco, le feste, la vecchiaia del maestro che ormai era diventato un monumento di se stesso e sprecava l'antico talento in una vorticosa produzione di opere per fare cassa.

 Emblematico è il racconto di dodici acquerelli dipinti su commissione in meno di un quarto d'ora spremendo i colori sulla carta e passando poi i fogli sotto il rubinetto della vasca da bagno, ottenendo macchie e sbavature, che sembravano geniali, ma erano prodotti solo della fretta e del caso.

Ma al di là dell'artista, neppure troppo simpatico nel suo esasperato egotismo e nella sua ossessione di essere stravagante ad ogni costo, spicca il personaggio di Amanda Lear, personaggio iconico di fine millennio. Modella di perfezione androgina, cantante (dalla voce roca e ambigua), attrice, pittrice. Tante donne e infinito talento in un solo personaggio. E soprattutto il desiderio di vivere una vita di continua ricerca, tesa a conquistare più la felicità della norma, che l'euforia del successo. E così passando da New York alla Catalogna, da una visita al Prado a una cena con Pasolini, nasce un'autobiografia che si legge come un romanzo e fa un ironico falò di ogni vanità.

Perché Dalí l'ha affascinata così tanto?

«Perché era un genio. Avevo incontrato musicisti, attori, artisti. Ma mai nessuno come lui. Assetato di ogni conoscenza come Leonardo da Vinci. Comprava ogni mese Scientific American, per essere aggiornato sulle ultime scoperte scientifiche, dall'astronomia, alla genetica, all'elettronica. Il personaggio pubblico era odioso, non mi piaceva per niente, con 'sti baffi tinti, faceva il pagliaccio, parlava a voce alta, voleva colpire, provocare. In privato invece c'era un'altra persona, squisita, educata, meravigliosa, disarmata, fragile. Un dr. Jekyll e mr. Hyde di cui mi sono innamorata».

 Riusciva a tenere insieme le due anime?

«Era terrorizzato dalle cavallette, aveva paura di fallire, aveva fissazioni sia sessuali che mistiche o monarchiche. Aveva un sacco di angosce e difetti. Si costringeva a nascondere tutto dietro una gran boria, con una recita continua. Non gli era facile far coabitare le due anime. Mi ha insegnato a stare in pubblico. Ero una semplice modella che doveva mettersi in posa, muta, il più fotogenica possibile. Dalí è stato una scuola per capire come muoversi nel mondo dello spettacolo, dove tutto è apparenza, finzione, maschera».

Che cosa le ha insegnato?

«Aveva capito come si gestisce la fama. Lo guardavo come si comportava con la stampa, con il pubblico, con gli invitati delle feste famose, nei salotti aristocratici. Vivere al suo fianco era come fare l'apprendista nelle botteghe di pittura medievali. L'importante, come diceva anche Oscar Wilde, è far parlare di sé. Colpire, provocare, esibire».

Il migliore consiglio?

«Comportarsi come le vespe, che arrivano, pungono, volano via. E lasciano il dolore della puntura. Bisogna punzecchiare la gente in modo che si ricordino di te anche quando non ci sei più. Era molto furbo. Era catalano».

 Qual era l'origine della sua forza?

«Uno straordinario senso dell'umorismo. La bellezza, la fama, il potere, sono effimeri. La capacità di ridimensionare qualsiasi cosa con il sorriso, visto che siamo così minuscoli in questo universo, resta per sempre. È il migliore strumento per affrontare la vita. Se la possiedi ti rende quasi invincibile».

 Le piaceva la pittura di Dalí?

«Assolutamente no. A me piaceva Caravaggio, Picasso (che Dalí pativa), Magritte, De Chirico, Joachim Patinir, un meraviglioso fiammingo del XVI secolo, che scoprii al Prado e mi lasciò senza fiato per la minuzia dei particolari dei paesaggi e delle rocce».

Il vostro rapporto è durato tanto perché mancava il sesso?

«Assolutamente sì. La passione erotica è un potente strumento per unire le menti oltre ai corpi. Ma dura poco. Due anni? Tre anni? Magari anche meno. Dalí era impotente. Sublimava il desiderio sessuale nell'arte. La relazione con lui era esclusivamente cerebrale. Se fossi andata a letto con lui sarebbe finita dopo qualche settimana. Era circondato da modelle bellissime che andavano e venivano. Era assetato di bellezza. Io invece sono rimasta. E sono diventata la sua musa».

 Beh, c'era anche un'altra musa, la moglie Gala 

«Gala era anche manager, infermiera, consigliera. E Dalí aveva bisogno di tutto questo. Non gli bastava una bella donna da guardare per trarne ispirazione estetica. Aveva bisogno di un aiuto concreto, che lo riportasse con i piedi per terra».

 Gala era gelosa di lei?

«Sono arrivata nel momento in cui Gala non ne poteva più. Aveva 12 anni più di lui, era ormai una donna anziana. Stanca di quella vita frenetica di viaggi, feste, estranei, apparenza. Quando sono comparsa io ha tirato un sospiro di sollievo. "Che bello che mio marito si sia innamorato di lei!", mi ha detto. Mi ha fatto vedere la mia stanza, mi ha dato le chiavi di casa ed è partita con l'autista per un lungo viaggio in Italia e Grecia. All'inizio probabilmente un po' di gelosia c'è stata verso una ragazza più giovane, dal momento che Dalí esaltava la bellezza del mio corpo nudo davanti a lei. Poi siamo diventato amiche. Mi leggeva persino il futuro nei tarocchi. Un giorno mi prese da parte, "Sto per morire, giurami sulla Madonna nera di Kazan che lo sposerai e non lo lascerai solo"».

Ha giurato?

«Ovviamente no. Stavo iniziando la mia carriera da cantate. Lei perfida mi disse che avevo una voce pessima, avrei fatto meglio a lasciar perdere. Non l'ho ascoltata. E purtroppo non sono riuscita a stargli accanto nel momento della fine. Era solo, triste, in balia di avvoltoi. È un senso di colpa che mi porto ancora dentro, ma il mondo dello spettacolo chiamava: e io ho risposto, avevo bisogno di trovare la mia strada».

Quando lei ha cominciato ad aver successo, Dalí era geloso?

«Dalí era il sole, voleva essere il centro dell'attenzione. Come un re circondato dalla sua corte di ammiratori fedeli e adoranti. Non sopportava che un'altra persona gli togliesse luce. Quando ero con lui, stavo zitta. Facevo la musa e basta. Quando ho cominciato e vendere dischi e ad avere la foto sui giornali, si è preoccupato. Temeva che scappassi via.

Un giorno un ragazzo mi chiese l'autografo davanti a un ristorante di Parigi, ci rimase malissimo. Un misto di stupore e spavento, perché ero riconosciuta per strada più di lui.

Da quel momento ci siamo allontanati. Non potevo più essere accanto a lui dal mattino a sera e lì è cominciata la gelosia. Più che per le persone con cui andavo a letto, era geloso della vita che stavo conquistando».

Lei ha avuto una vita effervescente, ma c'è anche molta tristezza nel suo libro: cos' è che la rendeva infelice?

«Sono nata triste. Ho un temperamento solitario. Dalí diceva che assomigliavo alla Malinconia di Dürer. Fatico ad essere ottimista. Credo sia un retaggio di mia madre, che oltre ai tratti del viso, mi ha trasmesso il fatalismo degli orientali».

 È religiosa?

«Tanto. Sono devotissima di santa Rita da Cascia, protettrice della cause perse. Papa Francesco mi ha mandato un rosario benedetto».

 Prega?

«Certo. Prego ogni giorno, anzi ogni istante. Appena sveglia la mattina, ringrazio di essere viva, ringrazio per ciò che ho avuto. Non prego per chiedere, prego per gratitudine».

La gratitudine è un principio chiave del buddhismo «Il buddhismo mi ha interessato molto. Dice anche che la felicità è assenza di desiderio.

Quando non desideri più, sei felice».

Lo pensa anche lei?

«Certo. Una prova concreta è la degenerazione del "desiderio" collettivo. Tutti desiderano essere famosi, belli, visibili. I 15 minuti di celebrità che teorizzava Warhol oggi sono più esaltati che mai dal web. E questa forsennata rincorsa rende la gente molto infelice. Provoca rabbia e frustrazione».

 Lei di fama ne ha avuta parecchia: l'ha resa felice?

«Beh, la fama è gratificante. Però è anche assai fastidiosa. Il pubblico pretende che tu sia 24 ore al giorno disponibile, bella, felice, radiosa, truccata. Non puoi permetterti di essere normale, fare la spesa, piangere. Quando si è famosi bisogna nascondersi per trovare intimità. E io non ho mai voluto farlo».

 Le ha pesato la dicotomia tra la sua vera anima e i ruoli che doveva recitare?

«All'inizio è un divertimento. Poi diventi prigioniera del personaggio che hai creato. È una cosa mostruosa, come Frankenstein che fabbrica la creatura. Il "tuo" personaggio acquista una vita autonoma da te. Deve continuare a vivere con le sue battute, le sue provocazioni, la sua euforia. Anche in questo Dalí docet, era completamente schiavo dei suoi baffi, dei suoi occhi sbarrati, della sua eccentricità. Alla fine diceva "Datemi una pistola, voglio ammazzare Dalí, lo odio"».

Nel personaggio Amanda Lear il sesso è stato fondamentale.

«Darling, il sesso si sa, fa vendere».

 Nella sua vita vera, è stato altrettanto importante?

«Bah, come per tutti. Non ne sono stata ossessionata. L'ossessione per il sesso è solo italiana. Negli altri paesi si fa, ma non se ne parla così tanto. La cosa davvero importante è la salute. In questo momento della vita ho cambiato prospettiva. Me ne sono accorta l'anno scorso quando ho avuto un intervento al cuore».

 Pensa alla morte?

«Tutti i giorni». 

 La spaventa? 

«Assolutamente no. Non vedo l'ora. Deve arrivare per forza. Era Heidegger che parlava di essere-per-la morte per trovare un'esistenza più autentica. Se sei preparato, è un grande sollievo, finalmente la pace. L'inferno è adesso, non dopo. Lottare ogni giorno per sopravvivere, mangiare, non patire il freddo La morte non è una tragedia. Soprattutto alla mia età e quando hai avuto una vita bella e piena». 

Oltre a Dalí, quali sono stati i personaggi importanti della sua vita?

«Ho avuto la fortuna di incontrare uomini incredibili. Andy Warhol, David Bowie, i Rolling Stones, Onassis, Cardin, Mitterrand, Macron registi, stilisti. Mi hanno regalato tantissimo, anche se non sono stata intimamente legata a loro». 

 Com' erano quando li incontrava a tu per tu? 

«Più erano famosi, più erano umili. La semplicità di quei grandi personaggi contrasta con le odierne celebrità, nate in tv o sul web, che fanno dell'arroganza e dell'alterigia uno stile di comportamento». 

La fama di oggi è malata? 

«Sì, perché dipende solo dai "like" della rete, e non dal talento. Non importa se sai cantare, recitare, scrivere, dipingere. L'importante è piacere e apparire. Gli influencer sono famosi perché sono famosi. Una tautologia delirante».

  Usa i social? 

«Personalmente no, ma la mia casa discografica sì. C'è Amanda Lear su Instagram, su Facebook. Anzi ce ne sono tante. Perché spesso mi rubano l'identità. Ormai non sei neanche più proprietaria del tuo nome». 

 Che libro tiene sul comodino? 

«L'elogio della follia di Erasmo. Ho visto una nuova edizione in vetrina e l'ho ricomprato. Un tocco di follia è necessario per capire il mondo. Bisogna vivere di errori e profumi». 

 Un classico amato della sua biblioteca? 

«Agatha Christie. Sono un'accanita lettrice dei suoi delitti. Sapeva scoperchiare i peccati del mondo con perfidia e ironia. Poirot, un insopportabile vecchio egoista; Miss Marple, una zitella ficcanaso. Che meraviglia di coppia!». 

 Si è espressa attraverso vari linguaggi: qual è il più congeniale? 

«La pittura. Fin da bambina ho amato i colori, le matite, i pennelli. La pittura è un'arte molto solitaria che ti permette di esprimere ciò che hai dentro. La rabbia, i sogni, la libido. Il resto, è sempre frutto di un lavoro di squadra. Davanti alla tela sei da solo, come nella psicoanalisi. Dipingo tutti i giorni». 

 Che cosa dipinge? 

«Parecchi ritratti. Mick Jagger, Bowie, García Lorca... Mi chiedono anche nudi maschili di tipi muscolosi, con gran bicipiti, spallone possenti. E bei sederi. E devo dire che le chiappe mi vengono parecchio bene. Ma dipingo senza modelli. Vado di memoria».

Barbara Costa per Dagospia il 24 giugno 2023.

Ma insomma, per diventare una star su OnlyFans, e parecchio lì guadagnare, che bisogna fare? Fai vedere poppe e chiappe e oplà, diventi ricca? E, come ripetono le cosiddette starlette OnlyFans, “essere sé stessi!”. Tutto qui??? Ma se essere sé stessi si può fare, senza faticare, perché non tutti i sé stessi sfondano uguale? Dai, Max Felicitas fa benissimo a svelenare che il "compenso" medio di chi si mette a far porno su OnlyFans, è 180 euro, e nemmeno. Max è stato fin troppo generoso nei conti.

È impossibile che ogni OF creator arraffi il mucchio di soldi che vanta, per foto e video porno che posta. Aprono scuole e corsi ad hoc che ti insegnano a diventare creator, eppure… guardate quest’ultimo prodigio qui. La signorina si chiama Amara Rakhi Gill, ha 26 anni, è indiano-canadese, e su OF fa bei soldi. Panciona e c*lone all’incasso. Lei è una che per OF ha lasciato il posto da contabile in una azienda di elettrodomestici. E ti dichiara che ha fatto bene, e che, grazie ai suoi porno che immette a pagamento, fa più denaro di prima. Ed è più felice di prima.

Ma come si fa a acquisire una fan-base fedele e pagante te, solamente te, principalmente te? Amara te lo spiega come fan tutte: parti da una base congrua di follower su altri social non porno – lei è partita su Tik Tok e Instagram – e da lì, passi al porno. Sì, come se fosse semplice! Ti devi dotare di fan-base sostanziale, e di follower reali, non comprati: i follower fake mica pagano! Amara spiega che è stato su pressione dei suoi seguaci su Tik Tok – dove Amara si esibisce in clip sceme – che lei si è ingegnata prima in foto e video in lingerie, e poi in foto e video nuda, e poi a fare porno solista, poi lesbo, ora con donne e con uomini.

Che il porno attizzi sicché venda, è inconfutabile. Ma che il porno su OF e simili – come i siti personali, pornografici, mai passati di moda, e infatti Amara apre il suo sito a momenti – possa ottenere ricavi pari al porno professionale, io l’ho sempre messo sotto esame. Tranne chi è nel porno già superstar di suo, e in quanto tale può permettersi su OF di chiedere tariffe cospicue per le sue clip, dalla torma OF emerge una piccolissima élite che intasca alquanto dal suo porno fatto da sé.

Sono persone – ma pochissime – che su OF fanno porno e soldi, tanti, con chi su OF monetizza da par suo, e che in parallelo fanno porno "featuring" con performer porno professionisti, le cui clip hanno un mercato non indifferente. Sono creator che vengono anche presi a pornare sui set professionali, con registi di professione, e qui, è notevole la scrematura che il porno dei professionisti fa. Sono molto pochi i creator che riescono a fare porno sui set come si fa sui set. Per le grandi produzioni.

Vale a dire, per chi il porno lo finanzia e il porno lo governa. Prima e durante e dopo la sbornia OF. Sotto pandemia, ci si è illusi sulla fine del porno professionale, arci convinti di migrare in massa sulle hot piattaforme, piantando il porno sui set al suo tramontante destino. L’esodo c’è stato? No. Perché? Perché i soldi li fa chi i soldi li ha e li fa girare dando ad altri possibilità di farli. Il porno – sui set – va alla grandissima. Ma affatto sottovaluta la potenza dei social e i varchi che apre. Innegabilmente OF offre accessi pornografici insperati pre OF. Il suo è però un sistema "piramidale", dove sulla punta della fama e della ricchezza stanno le/i OF superstar (4 gatti) allargandosi sempre più man mano che si scende in fama, e in ricchezza.

Adriana Chechik, pornostar di risonanza mondiale, ferma per il gravissimo incidente alla schiena di ottobre, ha aperto "Creators University", mirante ad assistere i creator e gli aspiranti tali a costruirsi un brand, porno, che non dia esiti effimeri e che resisti alla prova del tempo. Costo: 25 dollari al mese. Corso base. Come stupirsi? La richiesta più richiesta è il "segreto" per costruirsi una fan-base munifica.

Non te lo dicono, ma non pochi creator stanno capendo che a far da soli non si consegue quanto sperato. Un numero non irrilevante si sta buttando su siti che aggregano sex creator, come "XGirlHub". Perché collocarsi su un sito del genere, invece di agguantare il creator trionfo da sé? Perché siti come XGirlHub ti valorizzano, ti danno luce, ossia ti becchi più traffico, cioè più clienti. Perlomeno, questo t’assicurano. Il futuro sta in community di sex creator che si… "supportano" in porno e spietata e via via maggior sudatissima concorrenza?  

Ambra Angiolini ricomincia da X Factor: «La mia vita fuori dalla comfort zone. E a 46 anni non voglio fare la giovane». Laura Vincenti su Il Corriere della Sera sabato 30 settembre 2023.

Milano, l'artista alla seconda stagione da giudice nel talent di Sky: «Ho coraggio e mi piacciono le sfide. Il talento è come l’amore: ognuno ha la sua definizione ma nessuna è giusta, però quando arriva te ne accorgi» 

Si preannuncia un’edizione «metereopatica», caratterizzata da tanta emotività e sbalzi di umore: «Ci vuole Giuliacci», scherza Ambra Angiolini parlando della nuova stagione di X Factor, il talent show in onda ogni giovedì su Sky e in streaming su Now. Venerdì pomeriggio, a Milano, l’artista ha incontrato i fan nel negozio Sky in corso Vercelli per raccontare la sua nuova avventura: dopo l’anno scorso, questa è la seconda volta che si mette alla prova come giudice. 

«Da un lato può essere un posto scomodo perché diciamo dei no — confessa la giudice — anche se io sono convinta che quelli bravi ce la fanno lo stesso. Dall’altro è una posizione privilegiata perché hai davanti tanti sogni, speranze, anche disagio. Ragazzi che, magari, per scappare da situazioni difficili si sono buttati nella musica come sfogo». Ambra parla anche da mamma: ha due figli, Jolanda e Leonardo, rispettivamente di 19 e 17 anni, avuti dall’ex compagno, il cantante Francesco Renga: «M’interessa vedere come sta quella generazione lì». 

Quest’anno insieme con Ambra seduti al tavolo dei giudici ci sono Morgan, Fedez e Dargen D’Amico, che nelle prossime settimane dovranno decidere le loro squadre: «Cerco talenti autentici — spiega l’artista — che escono dalle file e non seguono le mode. Che cos’è l’X Factor? Forse quella cosa che hai e che vedono tutti tranne te e va bene così perché se poi ne diventi consapevole cominci ad usarla e diventa di maniera».

Artista versatile e poliedrica, Ambra nel corso della sua trentennale carriera «iniziata a 14 anni, ora ne ho 46» è stata conduttrice televisiva e radiofonica, attrice di cinema e teatro, cantante: l’anno scorso ha infiammato la finale del talent riproponendo la sua hit «T’appartengo». «Sono le sfide che cercano me — racconta —, io sono a casa che lavo, stiro (sono bravissima), sogno (tanto), cresco i miei figli, e poi mi arrivano tante proposte diverse. Il mio talento? Ho coraggio, questo sì me lo riconosco: mi butto in nuovi progetti anche fuori dalla mia comfort zone, mi piacciono le sfide». Però non accetta ruoli fuori dalle sue corde «quando mi chiedono di abbassare l’età mi infastidisco: perché devo ambire a un ruolo da 35enne se ho 46 anni?». 

Ambra rivendica il fatto di non avere maschere: «Sono una persona trasparente, si vede quando sono felice come quando mi girano». E si commuove quando una piccolissima fan l’abbraccia e sembra non volerla più lasciare. L’incontro finisce con un bagno di selfie e autografi e una massima della giudice: «Il talento è come l’amore: ognuno ha la sua definizione ma nessuna è giusta, però quando arriva te ne accorgi».

Certi amori non finiscono. Sanremo, i figli, la rottura: la storia d'amore di Ambra Angiolini e Francesco Renga. Novella Toloni l'8 Luglio 2023 su Il Giornale. Undici anni d'amore, due figli e ancora tanta stima e affetto nonostante l'addio. La storia d'amore di Francesco Renga e Ambra Angiolini

I motivi della rottura

La storia d'amore tra Ambra Angiolini e Francesco Renga ha incantato il pubblico tra il 2005 e il 2015. Dieci anni vissuti intensamente tra successi, crisi personali e due figli, che hanno reso la coppia una vera famiglia. Nonostante l'addio, avvenuto nel 2015, la coppia è ancora unita da profondo affetto e stima reciproca per questo rimane una delle preferite del pubblico.

Galeotto fu Sanremo

L'incontro tra l'ex volto storico di Non è la Rai e il cantautore avviene nel 2001. Ambra Angiolini conduce il programma radiofonico Ambra & gli Imbranati insieme al Trio Medusa. Francesco Renga esordisce sul palco del festival di Sanremo nella sezione Giovani con il brano "Raccontami" e colpisce al cuore critica e pubblico. Durante un'ospitata in radio, il cantante rimane folgorato da Ambra e la corteggia per molto tempo. Il tempo passa e la Angiolini cede alle lusinghe ma la passione e l'amore con la "a" maiuscola esplodono nel 2003.

La nascita di Jolanda

La passione è così travolgente che Ambra rimane incinta della prima figlia pochi mesi dopo l'inizio della relazione con il cantante e nel gennaio 2004 nasce Jolanda. L'arrivo della bambina è una tempesta emotiva per la Angiolini - come ammetterà lei stessa anni dopo - ma non la tiene lontana dal lavoro. L'artista conduce il remake di "Speciale per voi" di Renzo Arbore su Rai 2 e il Cornetto Freemusic Festival, oltre a presentare le prefinali di Miss Italia a San Benedetto del Tronto. Nel 2005, Francesco Renga torna a Sanremo con il brano "Angelo" dedicata proprio alla figlia e vince il Festival. La foto di Ambra, che abbraccia il compagno dopo la proclamazione, è rimasta negli annali della storia della kermesse canora.

Ambra di nuovo incinta

La storia prosegue a gonfie vele mentre entrambi sono impegnati nelle rispettive carriere e così arriva l'annuncio della seconda gravidanza. Ambra sceglie di dare la notizia in modo singolare, mostrando il pancione in diretta tv nel corso della prima puntata del suo programma "Dammi il tempo", format della seconda serata di Rai 3. Le riviste di gossip fanno a gara ad accaparrarsi le foto di Ambra Angiolini in dolce attesa e la coppia è seguita con affetto dai fan. Leonardo, il secondogenito della coppia, viene alla luce alla fine del 2006 e sigilla l'amore tra i due.

La separazione e poi la bulimia. Ambra Angiolini senza filtri: "È un tumore dell'anima"

Ambra - Renga, la carriera decolla

Renga e Ambra scelgono di vivere a Brescia per crescere i loro figli lontani dal clamore e dal caos di città come Roma e Milano. La loro vita è come quella di tutti i genitori: scuola, attività sportive e impegni, tutto gravita attorno ai due bambini. Ma le loro carriere prendono comunque il volo. Ambra è richiestissima dai registi sia di fiction che di film per il cinema, mentre Renga pubblica nuovi album e gira l'Italia con tour e live. La coppia riesce a incastrare alla perfezione i propri impegni con la crescita dei figli e sui giornali non si accenna mai a una crisi, sebbene Ambra confessi di essere molto gelosa del suo compagno.

Le nozze mai celebrate

La stampa e i fan iniziano a chiedersi come mai, nonostante l'amore appaia solido e ci siano due figli, la coppia non annuncia il matrimonio. Ma sono loro stessi, durante un’intervista doppia rilasciata a Le Iene, a spiegare il perché delle mancate nozze. "Non c'è tempo", scherza il cantante, mentre Ambra replica: "Non me lo ha mai chiesto". In realtà, in più di una occasione, l'attrice ha ammesso di non avere mai sentito l'esigenza di mettersi un anello al dito per sentirsi realizzata come compagna.

La crisi nel 2012

Nel 2012 iniziano a circolare le prime voci di crisi. Secondo il settimanale Gente, Ambra e Francesco si sarebbero rivolti agli avvocati per accordarsi sull'affido dei figli e vivrebbero in due case separate. La smentita della coppia, però, arriva repentina. Attraverso i social network l'attrice commenta risentita la notizia, mentre Renga la butta sullo scherzo: "Che Gente! Ah ah ah... Ciao a tutti. Intanto lavoro, io".

"Come una Barbie, piangeva in camerino". La rivelazione su Ambra Angiolini

La separazione nel 2015

Due anni e mezzo dopo sono le foto dei paparazzi a raccontare della crisi in corso tra Ambra Angiolini e Francesco Renga. Il settimanale Chi sorprende l'attrice a piangere in strada mentre il cantautore è al suo fianco e le parla con il volto serio. È settembre e poche settimane dopo i fotografi fanno un nuovo scoop. Questa volta è il cantante a fare un gesto, che parla di crisi e pentimento, lasciando un biglietto sul cruscotto dell'auto della compagna: "Ogni tempesta lascia qualcosa per ricominciare. Ti voglio bene". E il segnale evidente che qualcosa si è rotto e l'annuncio dell'addio non tarda ad arrivare. A novembre 2015 la coppia annuncia la separazione.

I motivi della rottura

"C'era una ferita sanguinante e io ho deciso di prendere la medicina per curarla", ammette Ambra Angiolini poche settimane dopo l'addio, ma né lei né Francesco mettono in discussione quello che c'è stato. Il rispetto, la stima e l'affetto rimangono. "Sono piena di amore per Francesco: un sentimento gigantesco nei confronti di un uomo al quale non sono più costretta a piacere", dichiara Ambra nel 2015, ma questo non le evita di finire in una profonda depressione, che solo con il tempo e un nuovo amore riuscirà a superare. Oggi, a otto anni di distanza dall'addio, la coppia vive una relazione familiare serena, di stima e affetto. Lo testimoniano i video e le foto, che immortalano Ambra e Francesco insieme sui social felici e sorridenti. Per la gioia dei figli e dei loro tanti fan.

Ambra Angiolini: «Jolanda Renga? Coi miei figli preferisco avere paura ma vedere cosa scelgono. La bulimia, come un tumore all’anima». Jonathan Bazzi su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.

Intervista ad Ambra Angiolini, ex teen idol, oggi attrice rigorosa e pluripremiata: «Prima pensavo sempre a difendere me stessa e facevo casino. Ora indosso le mie ferite: sono più chic dei gioielli. Anch’io mi sono scontrata coi conformisti»

Avvicinarsi ad Ambra Angiolini significa intercettare qualcosa di molto diverso da ciò le è stato proiettato addosso. Ex teen idol venerata e presa di mira, oggi è attrice rigorosa e pluripremiata che rivendica scelte e ponderate metamorfosi. Ma diversa lo è soprattutto per l’inarginabile bisogno di concretezza che l’ha accompagnata sin dai tempi di Non è la Rai , sebbene pochi l’abbiano capito.

Forse da qui passa il balzo, o meglio la tenuta prodigiosa con la quale si è salvata dal destino difficile riservato a tante star adolescenti: alle semplici immagini, alla superficie delle cose, nonostante molti abbiano pensato che quello fosse il suo regno, Ambra non ha mai creduto. E le sue perlustrazioni nelle profondità di quel groviglio che alcuni chiamano “anima” tracciano una storia ben diversa da quella che il chiacchiericcio mediatico negli anni ha imbastito per lei. Una storia che ha al centro la vocazione al decidere da sé, il potere dei no e il gusto per le fortune che ti sei saputa meritare. Fino a fine aprile è in tournée con Il nodo , regia di Serena Sinigaglia, che racconta il bullismo.

«Ha un tono tragicomico che mi ha colpita: l’ambivalenza fa parte della vita eppure al cinema o a teatro c’è chi la trova disturbante. Spesso ci succede di ridere quando si dovrebbe piangere, e viceversa. Se anche l’arte viene costretta a dover rassicurare — censurare le parole, cambiarle nei libri — rischiamo di non sentire più niente. A teatro io mi sento normale: lì quello che sono non è un problema, e anche questo ha molto a che fare col giudizio e il bullismo».

Da adolescente presa di mira da critici e femministe ad attrice stimata.

«Ho iniziato senza capirci niente. Volevo ballare: i miei lavoravano tanto, la danza era un modo per non stare in strada. Quando il successo è esploso mi tormentava il fatto di essere famosa senza sapere perché. Non ero la più brava, né la più bella: non mi sentivo speciale. Desideravo un mestiere, qualcosa che avesse a che fare con una scelta mia. Sembravo incazzata con tutti, ma lo ero con me stessa. Quando la televisione mi ha voltato le spalle invece che disperarmi mi sono detta: “Ora posso cercarmi un lavoro”».

Da dove ha iniziato?

«Un programma notturno su Radio 2. Facevo interviste e sono stata trascinata nel vortice del teatro indipendente. Ho conosciuto così la mia maestra storica, Stefania De Santis: mi ha fatto incontrare i testi importanti, che ho scalato a fatica. Poi ho dovuto fare i conti con quello che gli altri vedevano di me, e c’è voluto tempo. Quando faccio date come quella di oggi a Carpi, col teatro pieno, piango».

Lei è stata una teen idol che si è salvata dalla sorte a cui tanti teen idol vanno incontro.

«Ho sempre avuto la sensazione di poter aggiustare le cose. Sono rimasta senza lavoro per anni ma non ho mai perso il bisogno di darmi da fare. Anche se ciò che mi aveva resa famosa all’inizio poi si era spento. Ho una famiglia solida alle spalle, che è rimasta sempre lì, col suo lavoro, l’azienda alimentare di papà. Le persone che si fanno il culo mi affascinano. Essere famosi non è un mestiere, dev’essere il risultato del lavoro che fai».

Come ha imparato a proteggersi dai risvolti dolorosi della fama?

«Da qualche anno metto in atto una scissione: ho capito l’importanza del silenzio quando sembra che parlino di me e invece stanno mettendo in piazza un’idea di me. Così come lo studente bullizzato a scuola non deve credere al motivo per cui viene bullizzato: se dai credito a quella roba perdi di vista te stesso, e a quel punto di te chiunque fa carne da macello».

Le critiche all’inizio furono violentissime.

«Della prima ricordo anche le virgole: “La ragazzina esce dalla porta tutta palme e piscina e, con mossa navigata, si siede sulla poltrona come la più risolta delle Lolite”. Io Lolita neanche l’avevo letto. Lì per lì piangi, sei inconsolabile: da piccola è normale. Poi ho recuperato il romanzo di Nabokov e ho detto: “Fermi tutti però: qua stanno dicendo un’altra cosa”. E quella cosa non era giusta, non ero io. In quegli attacchi c’era un problema di cultura, ignoranza».

L’hanno cambiata?

«Col tempo ho smesso di pensare solo a me stessa: ho cercato di fare delle scelte che smuovessero qualcosa nelle persone. Solo così ho capito che questo lavoro poteva andare avanti, crescere con me. Prima pensavo a difendere me stessa e facevo casino: replicare a una bugia non fa altro che amplificarla».

Un ruolo importante come attrice?

«Durante la separazione da Francesco (Renga, il cantante da cui Ambra ha avuto Jolanda e Leonardo, ndr ), un lutto vero, fu soprattutto Michele Placido a offrirmi la chiave: nel suo film Sette minuti ho potuto far vivere la mia rabbia. Sono fiera di quel personaggio, che ha la faccia disperata che avevo in quel periodo: per il nervoso mi venivano continui sfoghi cutanei».

In Saturno contro Ozpetek fa dire al suo personaggio: «Esagero sempre, è il mio unico pregio».

«Con me Ferzan ha girato più un documentario che un film: ha preso da me tutto quello che non avevo mai pensato di poter usare. Mi ha detto: “Ma tu con ‘sta roba devi lavorare, non con tutto il resto”. Ho imparato che potevo essere interessante usando ciò che avevo sempre pensato fosse da nascondere. Una svolta, e non per i premi: oggi so che posso trasformare cose che altrimenti resterebbero lì a mangiarmi viva».

Sin da Non è la Rai ha suscitato l’affetto della comunità LGBT.

«È la mia famiglia: non mi piace etichettare, ma nel tempo ho trovato lì i miei affetti più importanti. All’inizio ero piccola: parlavamo d’amore e mi sembrava normale. Poi ho iniziato a lavorare al Mario Mieli e ho visto i ragazzi rifiutati dalle famiglie, soli, senza una casa. Amare una persona non può costringerti all’esilio. In un modo molto diverso anch’io ho dovuto spesso scontrarmi col conformismo».

Un’alleanza che passa per l’esperienza del pregiudizio?

«Quando ero senza lavoro, ed ero attiva al Mario Mieli, mi capitò un provino in inglese per il ruolo di Maria, la madre di Gesù. Il regista non sapeva chi fossi: lo faccio e chiede di rivedermi. Poi annullano tutto: mi dicono che quel ruolo in Italia non potevo interpretarlo. Nella mia ingenuità non capii, ma di fatto mi stavano dando della poco di buono. Mi richiamarono di nuovo: “Ci dispiace, un ruolo te lo vogliamo dare lo stesso”. E mi hanno fatto fare Salomè».

Alcuni incontri di quegli anni sono diventati i suoi migliori amici.

«Con loro mi sento al sicuro: so che quando uso l’ironia per cantare T’appartengo vengo presa sul serio esattamente come quando sono in teatro coi testi importanti. Sono persone interessate ai vari livelli di umanità, non si fanno distrarre dai giudizi facili. Se essere queer vuol dire questo allora lo sono anch’io. Alle mie amiche drag queen — arte che amo — dico sempre che quando sono nata il primo vagito l’avrò fatto in playback».

In Italia le difficoltà sono ancora tante.

«L’omofobia non ha senso: è la cattiveria ad essere contro natura, è l’essere accaniti contro chi è felice che è sbagliato. Trovare il mostro quando il mostro non c’è è una forma di perversione. Detto questo faccio fatica con slogan e polemiche, così come vedo dei rischi in certe strumentalizzazioni della body positivity».

Cosa non la convince?

«Penso sia importante aver denunciato una realtà che proponeva un solo modello. Il pericolo adesso è che la questione diventi un fatto commerciale. Quando entrano gli interessi economici arriva l’obbligo a manifestarla sempre. Come stai in quel corpo? È la domanda che mi faccio e faccio agli altri. Restare incastrati a nostra volta nell’ossessione per l’immagine, anche se in modo rovesciato, non trasforma le cose. Vorrei che l’immagine fosse una parte del racconto, non ciò che ci definisce. Qualcosa che caratterizza ma non categorizza».

Torna spesso la diffidenza verso l’immagine.

«È distraente, ed è quella sulla quale si trovano talmente tante ferite che approfittarsene, per chi vuole speculare, è facilissimo».

Nel libro InFame ha raccontato dei problemi di bulimia.

«Da piccola vidi un film in cui c’era una ragazza a una festa in cui tutti erano benvestiti e si divertivano. Le veniva una crisi di panico: prendeva a mangiare qualsiasi cosa dal buffet, poi correva in bagno a vomitare tutto. Quella scena mi è entrata in testa e quando ho cominciato a non stare bene l’ho copiata. La bulimia ha reso il mio corpo colpevole di essere diventato diverso rispetto a quello con cui ero diventata famosa. Un giorno in aeroporto vedo una rivista con la mia faccia. Titolo: “Ambra scoppia di successo”, e “scoppia” era tra virgolette. Poi vado in autogrill e la signora delle pulizie mi dice: “Ma va, mica sei grassa”. Ho capito che gli effetti di questa situazione erano sotto gli occhi di tutti».

Come ha reagito?

«Alla gente interessava solo che tornassi magra, mentre io stavo facendo i conti con la voragine che avevo dentro. Allora ho chiuso gli occhi: non potevo farmi distrarre da quella roba, non potevo dare retta a loro prima di aver capito cosa mi stesse capitando».

Oggi è impegnata in prima persona nei centri specializzati.

«È come avere un tumore all’anima. Non c’è una cura immediata, uguale per tutti: è un processo personale che va attraversato fino in fondo. Se ti anestetizzi la malattia diventa te e non te la levi più di dosso. Alle ragazze dico: “Cominciate a sfilarvela e a tenervela accanto. Farà un pezzo di strada con voi ma a un certo punto le lascerete la mano e se ne andrà”».

Le famiglie che reazioni hanno?

«Sono tutte disperate: vogliono rendersi utili ma non sanno come».

I suoi come l’hanno aiutata?

«Mia madre mi lasciava bigliettini, Post-it ad altezza vomito. O delle canzoni. Lì per lì mi facevano sentire in colpa, poi è stato importante sentire che non c’era giudizio, che per lei io non ero la mia malattia. Ho cominciato a pensare che la bulimia fosse qualcosa da cui potevo allontanarmi».

La guarigione è passata anche per la nascita di sua figlia.

«Jolanda ha riempito un vuoto. Quando me lo sono trovata dentro la pancia ho sentito che quel pezzo d’amore che cercavo ovunque in realtà era dentro di me. Questa però è solo la mia storia: non è che fare figli salvi dai disturbi alimentari».

Qualche mese fa è diventato virale un video in cui Jolanda rispondeva agli hater.

«Ha fatto tutto da sola. Non le ho detto hai fatto bene o male, ma solo che, se il motivo di partenza per lei era giusto, doveva stare serena, qualunque fossero state le reazioni. Coi miei figli preferisco avere paura ma vedere cosa scelgono in libertà: così conosco davvero chi sono, e non solo quello che vogliono mostrarmi. Io, da figlia, quell’errore l’ho fatto».

Un’intuizione arrivata col tempo che consegnerebbe alla ragazzina degli anni ‘90?

«Non devo dirle niente perché non ho mai smesso di essere quella ragazzina. Anzi credo che molte delle mie intuizioni migliori siano merito suo. Non è che solo gli altri dicono: “Giura!”, ogni tanto me lo dico anche da sola. E adesso lo trovo liberatorio e tenerissimo. L’adolescente di T’appartengo è sempre qui, con tutte le cose giuste o sbagliate che sente. È come il Mini-Me di Austin Powers: mi rende sempre coi lavori in corso, ma sto in piedi così».

Un sogno professionale per il futuro?

«Vorrei riuscire a vivere delle mie idee. Essere d’aiuto a chi vuole iniziare questo lavoro. Mi piacerebbe anche dedicarmi alla regia teatrale e scrivere per la tv: rientrare nel mio mondo emancipandomi dal vincolo della faccia, del corpo. In un’età più matura spero che le mie idee prendano il sopravvento. Sto lavorando perché accada».

Un libro importante?

« La signorina Else di Schnitzler. Me lo regalò Peppi Nocera, mio autore storico, quando ero ancora piccola. Il monologo interiore della protagonista, l’ossessione del non macchiarsi, del decidere della propria dignità, mi ha acceso un enorme “no” nella testa. Un bisogno di iniziare a dire di no».

A cosa?

«Ai lavori sbagliati, a una storia che ti sta massacrando, ai ricatti morali. Il “no” è diventato il potere più grande per diventare me stessa. Un altro libro importante è stato Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, che ho regalato anche a mia figlia. È parte di un percorso che ho fatto di emancipazione e autodeterminazione».

A che punto è quel percorso?

«Sono una nata col graffio dell’orso: quella cosa non si rimargina. Ma le mie ferite le porto anche sui red carpet, le trovo più chic di tanti gioielli».

Amedeo Minghi: «Mia moglie Elena era l’unica che poteva vedermi piangere. Con Mietta e Trottolino amoroso fu un trionfo da 500 mila copie». Mario Luzzato Fegiz su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2023.

Intervista al cantautore: «Ho fatto innamorare io Pippo Baudo e Katia Ricciarelli, tra i miei fan avevo Wojtyla. Oggi i giovani propongono canzoni con testi incomprensibili, parole che non so cosa significhino. Con le rime forzate sfornano stupidaggini» 

Il pop italiano ha un campione d’enfasi e melodia di nome Amedeo Minghi. Da «Il profumo del tempo» (la canzone che fece innamorare a Sanremo Pippo Baudo e Katia Ricciarelli, che la cantava fuori gara) a «Decenni», da «1950» a quell’ameno tormentone che è tutt’ora «Vattene amore» (recentemente ripresa da Fiorello e Nina Zilli e pure da Stefano Bollani con Valentina Cenni), Minghi è un concentrato di romanticismo e internazionalità con solide radici nella tradizione. Fu il primo a realizzare e pubblicare una canzone su Papa Wojtyla intitolata «Un uomo venuto da lontano», brano davvero struggente sulla vita e il pontificato del vescovo di Roma: dalla gioventù in cui fu operaio e poeta, fino all’attentato, dai viaggi nei Paesi lontani alla lotta contro la povertà e la guerra, pellegrino di pace... «In Vaticano — ricorda l’artista — disponevano già di una canzone sul Papa scritta da Marcello Marrocchi, autore di «Perdere l’amore» (con cui Massimo Ranieri vinse Sanremo 1989, ndr), e cercavano un interprete. Venni invitato a cantare alla sala Nervi con l’orchestra e il coro diretti da monsignor Marco Frisina, nell’ambito di una celebrazione del sacerdozio del Papa. Che, cosa non frequente, seguì personalmente il concerto, nel quale avevo incluso, riarrangiata e riscritta, anche «Un uomo venuto da lontano». Alla fine il Papa mi fece un sacco di complimenti e mi chiese il testo del brano, perché non aveva capito bene tutte le parole». «Se Mozart fosse vivo oggi — aggiunge Minghi — lavorerebbe per la Disney e comporrebbe colonne sonore per i cartoni animati che sono la sfida più difficile per un musicista. All’epoca si lavorava di fino... qualità fin nei dettagli. Oggi non ne sarei più capace».

La canzone «Il profumo del tempo» fu galeotta e fece sbocciare un amore a prima vista fra Baudo e Ricciarelli...

«Di canzoni galeotte ne ho scritte molte. Tant’è che 5 membri della band e del mio staff hanno sposato fan conosciute durante i tour. Così oggi sono circondato dal frutto delle mie canzoni. Faccio musica a tutto campo alternando stili e atmosfere. E non manca “la musica da acchiappo” quella che favorisce il primo bacio...» Lei si è trovato al centro di un momento molto creativo per la musica italiana. «Ho lavorato con Bacalov, Morricone, Mogol, Pasquale Panella, Gaio Chiocchio, poeta straordinario, basti pensare a “1950”, “Quando l’estate verrà”, “Sognami”: sono canzoni che fanno emergere il lato positivo della vita, le cose belle vissute. Ennio Morricone era più che un amico. Per Mia Martini ho suonato la chitarra, sono stato più volte a casa di Bocelli a Forte dei Marmi (e sono coautore del brano “Per noi”). Ogni cosa lascia un segno duraturo. Morricone era uno attento al dettaglio. La realizzazione del brano “Il profumo del silenzio” lo divertiva e soprattutto la presenza di una grande orchestra sinfonica era una gioia per lui. Il dialogo fra classica e leggera era qualcosa di mai tentato. Io sono una anomalia nel mondo dello spettacolo». Che rapporto ha con la musica classica? «Forte. La ascolto spesso, è tutta bella, è l’arte per eccellenza».

Fu una sorpresa scoprire che Katia e Baudo...

«Sì. Katia ha un carattere forte molto deciso. Ha una perfetta voce verdiana. Ma il mio autore preferito resta Puccini».

Perché Puccini?

«Sa toccare note sensibili, sa commuovere, sa arrivare al cuore della gente».

Mietta?

«Fu un trionfo, il “Trottolino amoroso”: 500 mila copie vendute».

Califano?

«Ci ho lavorato in passato. E in qualche modo ci lavoro ancora. È uscito “Sarò franco” un album di inediti di Califano. Dove io ho composto la musica e cantato l’inedito “La mia eredità”».

Quando ha scoperto il Califano cantante?

«Io trovo fantastica la melanconia che c’è nel suo modo di cantare. Una sera dei primi assi Settanta eseguì il brano “Fijo mio” al club 84 di Roma e fu un trionfo. Fino a quella sera lui non era che un paroliere. Da quella sera fu cantautore... bell’uomo dalla voce speciale».

Ha lavorato anche con Rita Pavone.

«Sì, mi chiedevo come faceva ad avere tanta voce su questo corpo minimo. Quando mi chiamò mi fece molto piacere. Preparata e professionale a soli 15 anni. Lei ha cantato un mio brano bellissimo, “Ti perdo e non vorrei”, con cui ha vinto parecchi premi. In Italia il brano fu snobbato. Invece trionfò in Francia».

Lei ha lavorato spesso con Pasquale Panella, autore dei testi del Battisti post-Mogol.

«Un genio che sa manovrare le parole come nessun altro. Ha scritto cose meravigliose. Ci univa la voglia di sperimentare. Insieme abbiamo lavorato alla ricerca di sensazioni nuove, con dialoghi telefonici da 4 ore... in piena notte a sviscerare angoli segreti della creatività».

De Gregori, in relazione alla recente scomparsa della moglie Chicca ha detto «senza di lei mi annoierò molto» (Elena Palladino, moglie di Amedeo Minghi, è mancata il 7 gennaio 2014 dopo 40 anni di matrimonio, ndr).

«Ha ragione Francesco perché la solitudine è forte. Io non so per quanti anni Francesco abbia convissuto con sua moglie. Il mio è stato un rapporto importante... è difficile trovare le parole... Nell’album a cui sto lavorando, “Anima sbiadita”, c’è molto di me e di lei. Avevo bisogno di elaborare il lutto. Se non tiri fuori quel che senti dentro, questo marcisce... Tutte le canzoni d’amore che ho scritto sono dedicate a Elena. Era l’unica che poteva vedermi piangere (l’ho scritto nell’Immenso), ammessa alla vera intimità. La mia prima referente. Fare sentire le canzoni a lei per prima era importante per me».

Le due figlie Alma e Annesa?

«Sono un’altra cosa indescrivibile».

Lei è nonno?

«Di un ragazzo alto e bello di 20 anni, e di una nipotina di 5 anni. Una perla che mi adora. Non è il quadretto della Barilla, ma ci assomiglia».

I suoi rapporti con i giornalisti?

«Al 90% dei giornalisti rifiuto le interviste. Perché mi fido poco... C’è sempre una differenza fra quello che ho detto e quello che esce sulla carta stampata. Preferisco le dirette tv».

Come ha visto cambiare questo mondo?

«Ogni generazione ha il dovere di cambiare tutto. È sempre successo così. Se non lo fanno i giovani chi lo deve fare? Facemmo anche noi così. Quante cazzate... via il latino dalle scuole, partiti, confederazioni, in piazza per qualunque pretesto. E poi? Alla fine tutto era come prima o peggio. Non siamo riusciti a cambiare il mondo. Adesso i giovani propongono canzoni con testi incomprensibili, parole che non so cosa significano. Perché sono troppe. Noi veniamo da lontano, dalla poesia vera dove le parole contavano. Ma più aggiungi parole, meno dici. Con rime forzate riesci a sfornare stupidaggini incredibili. Il livello oggi è basso basso. Preoccupante».

Tecnologie?

«Quanto basta. Le canzoni le scrivo al pianoforte, sempre. Ho cominciato con la chitarra, poi dagli anni 80 sono passato al pianoforte. Quando poi mi trasferisco in studio sono obbligato dalla tecnologia. Ai giovani dico: non affidate il 90% del lavoro al computer. Non abbiate fretta. Il computer aiuta, ma non sostituisce. Non va bene andare a casaccio. Devi capire quel che sai e sei veramente. E raccontarlo al meglio».

Lei ha collaborato tra gli altri con Mariella Nava.

«Sì, ma voi critici avete stroncato il brano “Futuro come te” proprio in duetto con lei. Ci avete ribattezzato “Duo Novembre”».

Sì, è vero. Per noi ci voleva il pop, il rock o la canzone d’autore. Sul belcanto all’italiana eravamo spietati.

«Ma c’era del buono anche nel belcanto... Sottovalutarci non è stato intelligente. Quella canzone trattava argomenti nuovi come internet. Voi eravate un pochino indietro».

Altre collaborazioni?

«Con Marcella Bella, Anna Oxa, Marisa Sannia, Gianni Morandi, Andrea Bocelli».

E poi Bongusto, Di Capri, Bruno Martino. Cosa ne pensa?

«Io non mi rendevo conto di cosa fosse una canzone da atmosfera. Mi veniva e basta. “La vita mia” la cantano in chiesa ai matrimoni ma anche ai funerali... Un prete me la fece cantare per desiderio del defunto nonostante il brano parlasse di un amore che va male. Il pubblico fa un uso improprio delle mie canzoni? Va bene così».

I suoi modelli?

«In gioventù amavo Cat Stevens, una voce molto interessante. Il più grande orchestratore era Neil Diamond».

I ricordi più ameni?

«Anni fa vado nella beauty farm di Mességué. Lì incontro Gino Bramieri e leghiamo subito. Alla sera decidiamo di fare una partita a Scala 40. È durata tre giorni. Per ogni carta Gino raccontava una barzelletta diversa. Facevamo gli scemi e ridevamo per qualsiasi cazzata. Nelle pause nessuno toccava le carte. A ogni scarto lui inventava qualcosa. Quelle barzellette lampo che erano esilaranti. Credo di aver vissuto la settimana più divertente della mia vita. Mai riso così tanto».

E poi?

«Aggiungerei due situazioni incredibili. Un capodanno assurdo. Tornavo da una serata. Eravamo io e il mio autista. A mezzanotte ci siamo fermati. Area di servizio deserta. Rapido brindisi. In lontananza i botti di mezzanotte... Ripartiti sobri con un sorso di frizzante in corpo. Altro Capodanno: io e moglie. Io in smoking, lei in lungo. Pronti per uscire attesi a una festa. Ma il mio cane che si chiamava Totò, golden retriever cominciava già a guaire. E così abbiamo brindato insieme a Totò a casa nostra. Non volevamo lasciare solo il cane. Eppure eleganti truccati perfetti mi sentivo traboccare di affetto e gioia».

La barzelletta-lampo di Bramieri che ricorda meglio?

«Bagnino: ehi lei ma lo sa che non si può fare pipì nella piscina? Bagnante: “Ma lo fanno tutti!” Bagnino: sì, ma non dal trampolino».

Estratto dell’articolo di Massimo Calandri per genova.repubblica.it il 28 maggio 2023.

Con lui - anzi: con loro - all'inizio l'unico problema è l'uso del pronome. Perché Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma (Genova, 1949) parla sempre di sé al plurale. Quasi sempre. 

Nato e cresciuto - "Ci siamo incarnati", comincia così - nel centro storico. Asilo e scuola elementare Duca degli Abruzzi, a metà di via del Campo. Il primo ricordo è una donna, e un dispiacere. "Si chiamava Maria Fabris. Era la mia maestra. La adoravo. Non frequentavo gli altri bimbi, li trovavo banali. Parlavo solo coi grandi. In terza elementare è andata via, credo sia tornata in Sardegna, senza venire a salutarmi. Ho sofferto". 

(...) 

Ecco che il cuore batte a destra: da ragazzo era iscritto alla Giovane Italia, che si rifaceva al Msi.

"Studiavo al liceo classico Colombo. Sempre stato anticomunista, vero. Ma non mi sono mai iscritto al Msi: ero per il pluralismo delle idee. Avevo fondato il 'Columbus', il giornale della scuola che vendevamo per poche lire. Erano i tempi del Vietnam, ho titolato: 'Alla pace comunista preferiamo la guerra, alla pace senza libertà la guerra per la libertà'. Anche la nostra Resistenza la pensava così, o no? E poi mi sono inventato una lettera con 30 firme false per protestare contro la mia stessa pubblicazione: l'ho fatta arrivare alla redazione dell'Unità, che la messa in pagina senza verificare. Il senatore Giuseppe D'Alema (il padre di Massimo) ha fatto un'interpellanza in Parlamento, è scoppiato un putiferio e noi abbiamo fatto una ristampa. Un successone". 

Avrebbe dovuto fare il giornalista.

"Ho scritto a Indro Montanelli, stravedevo per lui. Mi ha detto di lasciar perdere perché non si guadagnava un centesimo. Nel frattempo mi ero laureato in Scienze Politiche, ho vinto una borsa di studio, sognavo una carriera da ambasciatore. Ero passato alla Democrazia Cristiana, presidente della sezione giovanile di piazza della Meridiana: consigliere per Pré-Molo-Maddalena, avevo chiesto di togliere il finanziamento pubblico ai partiti e il professor Lucifredi era d'accordo con me. Non mi hanno rieletto". 

E all'improvviso, come un tocco di bacchetta: la magìa.

"Fossi stato il figlio di Taviani, sarei finito a New York. Ma così, rischiavo un ufficetto nel Burundi. Già da bambino avevo il dono, la gente faceva la coda davanti alla casa dei miei genitori: mi bastava un tocco con la mano, per guarire o far star meglio le persone. A 5-6 anni sono rimasto folgorato dal Mago d'Olanda, un famoso taumaturgo. Poi ho conosciuto Tommaso Palamidessi, astrologo ed esoterista: mi ha detto che ero destinato a qualcosa di diverso. Un giorno, ho incontrato Ninotchka".

Chi era?

"Una straordinaria cartomante, zoppa. Mi invitò a fare le carte con lei a Radio Mediterraneo, che trasmetteva dall'ultimo piano di via dei Giustiniani. Fu un successo incredibile, arrivavano centinaia di telefonate. Un amico mi suggerì di provare con le televisioni private, mandai un sacco di lettere: mi risposte Alberto Monti, invitandomi negli studi di Telenord, a Serra Riccò. Dirette di astrologia e cartomanzia: un'esplosione. Mi piaceva il teatro, attori e cantanti volevo prevedessi loro il futuro: in cambio gli chiedevo di venire in trasmissione. Philippe Leroy, Alberto Lionello, Erika Blanc, Gino Bramieri, Gigi Proietti. Persino Julio Iglesias. Il resto della mia storia in televisione, lo sapete". 

Quante profezie spericolate.

"Non abbiamo mai fallito (ecco, ricomincia col plurale, ndr): abbiamo predetto la vittoria dell'Ulivo nel corso di un rito magico con Prodi, Bertinotti , Veltroni. E la sconfitta del Duce Puffo al referendum per la riforma costituzionale: la carriera politica del Duce Puffo (parla di Renzi) era destinata al fallimento. Infatti: dal 40 all'1,5%. Abbiamo naturalmente anticipato la vittoria di Meloni e il centro destra, con Letta che si sarebbe messo da parte". 

Le piace, la Meloni.

"Ci ha citato in un comizio a Palermo. Ci è molto simpatica. Noi pensiamo che il suo governo potrà durare a lungo, a una condizione precisa: non si deve slegare da Salvini ma procedere sinergicamente con lui, se si rompesse l'alleanza sarebbe un disastro. Non accadrà quest'anno, neppure il prossimo. Il quadro politico potrà muoversi successivamente - e Forza Italia imploderà, con tanti pezzettini dappertutto - quando Berlusconi non sarà più tra noi".

(...)

Estratto dell'articolo di Angelo Foletto per “la Repubblica” giovedì 10 agosto 2023.

Capelli neri lunghi, tatuaggi, costume damascato, unghie artiglianti, trucco marcato nelle foto di scena delle prove. Capelli neri lunghi, chiodo, anelli, piercing, trucco forte, tatuaggi vistosi, stile dark lady, unghie colorate. Come distinguere la vera Anastasia Bartoli?

Trentaduenne, fiorentina (padre) e veronese (madre), ex paracadutista acrobatica, Anastasia cantante nasce per vocazione tardiva (23 anni) ma risoluta. In vertiginosa ascesa grazie all’implacabile militanza didattica di una “maestra d’onore”, la mamma Cecilia Gasdia.

Primadonna per qualità e intelligenza musicale dagli anni 80, oggi sovrintendente dell’Arena di Verona. Venerdì 11, con Eduardo e Cristina , in coppia con Daniela Barcellona nello spettacolo di Stefano Poda (in diretta dalle 21,15 su Rai 5), il soprano Anastasia Bartoli inaugura il 43esimo Rossini opera festival di Pesaro. Debutto plurimo: al Rof , nel ruolo drammatico di Cristina, in un’opera in prima moderna e assoluta nell’edizione critica. 

Opera in prova da un mese.

«Condizione ideale, magari fosse sempre così — ma ci voleva, è inedita e molto difficile», dice Bartoli che interpreta la figlia del re di Svezia, sposa segreta di Eduardo, “duce delle armi” nella guerra contro i russi.

«Tra buttarsi col paracadute o entrare in palcoscenico non vedo differenza. L’anestesia da adrenalina è identica. Come la sensazione liberatoria quando fai il passo avanti», dice.

[…]

Un’opera che Cecilia Gasdia non avrebbe potuto cantare.

«Sì, la mia vocalità è differente. Però è lei che mi ha insegnato a familiarizzare in fase di studio con ogni repertorio in modo da affinare la voce e renderla duttile». 

Quanti mesi di lavoro per essere Cristina?

«Da due anni ci convivo». 

Da figlia di Cecilia Gasdia o allieva di Cecilia Gasdia?

«”Figlia di” me lo sento dire da anni, mi ci sono abituata. Anzi, ne sono fiera. È stato un privilegio. Fin da piccola a contatto con la bellezza della musica, le persone che la fanno, i Paesi in cui ho potuto viaggiare e conoscere».

E come allieva?

«Non è stata solo una maestra: è una vera guida spirituale e artistica. Lo scambio di opinioni è costante, e, se occorre, mi bacchetta a distanza come in questi giorni in cui è impegnata a Verona». 

la cantante d’opera […] Un bel mestiere […]

«Fino a un certo punto. C’è anche solitudine, studio e ascolto del proprio corpo che influisce su voce e umori […] Non siamo cantanti pop: se il fisico e la voce non rispondono nella maniera giusta non c’è playback».

Cosa l’ha convinta: diventare una star, essere al centro dell’attenzione?

«Per me è stata la scoperta di una passione: una fiammella che poi è diventata un incendio». 

E ha messo in ombra tutte le altre…

«Anch’esse “colpa” materna. Non avrei fatto paracadutismo acrobatico-agonistico se da bambina non mi avesse portato con lei nei corsi di pilota d’aereo». 

Belle esperienze…

«E tanti spaventi. Mi hanno temprato fisico e carattere».

[…]

Andrea Bocelli: «A cavallo i momenti più belli. Ho conosciuto mia moglie al compleanno di Sgarbi. Da allora non ci siamo più lasciati». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 5 Febbraio 2023.

Il cantante e il viaggio in sella lungo la via Francigena. La sua vita raccontata tra amori e fede in un libro, «In cammino» e in una docu-serie «The Journey»

Oltre 360 chilometri di via Francigena, da Roma fino a Lajatico, in Toscana, dove Andrea Bocelli è nato. L’ultima opera della voce italiana più famosa del mondo è un viaggio a cavallo, poi diventato anche un libro (In cammino, Sperling&Kupfer) e da poco una docu-serie Paramount+, The Journey con Andrea Bocelli.

Maestro, un viaggio fatto assieme a Veronica Berti, sua moglie, e nel corso del quale ha incontrato numerosi amici.

«All’inizio doveva essere poco più di una gita. Poi il progetto è cresciuto: dall’ipotesi di scattare qualche foto-ricordo del viaggio si è passati al coinvolgimento di un network statunitense e una troupe di circa 150 persone, sotto la guida di due cari amici registi, Paolo Sodi e Gaetano Morbioli. Ma la natura intima e fortemente spirituale di questa scommessa è rimasta integra».

Che cosa rappresenta per lei il cavallo?

«In sella ho trascorso alcuni tra i momenti più belli della mia vita, fin da quando, adolescente, mi fu donata la mia prima cavallina, Stella. Il cavallo sa essere un eccellente compagno di viaggio. Il cavallo è anche la mia bicicletta, la mia moto. Di più: è un essere vivente capace di esprimere affetto e complicità, un amico a suo modo. Ed a un amico penso, quando ricordo Giasir, un arabo che ho cavalcato per molti anni. Nel pellegrinaggio ho coinvolto alcuni tra i miei migliori andalusi».

Lei scrive che deve a Vittorio Sgarbi (tra i tanti amici che intervengono nel cammino) l’incontro con Veronica.

«Era il compleanno di Vittorio ed ero stato invitato alla sua festa. Pioveva a dirotto, confesso di esserci andato controvoglia. Veronica aveva ceduto alle preghiere di un’amica e l’aveva accompagnata. Pochi minuti dopo averla conosciuta, le ho dedicato una romanza, Occhi di fata. Lei sapeva distrattamente chi fossi. Ma la chimica ha parlato per noi. Le ho proposto un poco credibile passaggio in auto, se si può credere al fatto che Forte dei Marmi sia “sulla strada” verso le Marche, dove abitava. Poche ore dopo, nel cuore della notte, abbiamo passeggiato in riva al mare di Forte dei Marmi. Da allora non ci siamo più lasciati».

Tutto il viaggio è permeato dalla fede. Che lei ha più volte detto essere stata importantissima nella sua vita. È così?

«Potrei raccontare non uno ma molti eventi, apparentemente inspiegabili, di cui sono stato testimone talvolta diretto: espressioni tangibili della forza miracolosa della preghiera e della fede. Io credo ai miracoli, credo che il bene — e la sua meravigliosa energia — produca prodigi».

In questo racconto c’è anche il suo amore per i libri. Qualche esempio?

«Le Sacre Scritture, in primis. Poi le opere dei filosofi, dai colossi della Grecia antica al genio di Blaise Pascal fino a Schopenhauer. Fondamentali sono stati i giganti della letteratura, da Alessandro Manzoni a Lev Tolstoj. Ho amato molto Victor Hugo e il suo I Miserabili , con la straordinaria trattazione della lotta eterna tra bene e male; ho letto più volte libri di Antonio Fogazzaro, ma anche la poderosa opera della mistica italiana Maria Valtorta».

Nel libro e nella serie lei parla anche della sua gavetta e di quella volta che in un locale la rimandarono a casa perché non aveva un repertorio abbastanza consistente. È stata dura?

«Il successo è arrivato superati i 35 anni: si può ben immaginare quante siano state le occasioni perse, le porte in faccia. Soprattutto i primi anni 90 non hanno lesinato dispiaceri, ancor più brucianti poiché maturati a seguito di grandi speranze: in una parola distratta, in un rifiuto sbrigativo, un castello d’illusioni e speranze era spazzato via. La gente apprezzava il mio canto, era il mondo dello spettacolo a non considerarmi un “prodotto” commerciabile. Emblematico, il parere d’un potente personaggio romano che al tempo sovrintendeva una importante trasmissione televisiva. Gli avevo fatto avere, spendendo conoscenze e fatica, una serie di demo. Fu il suo addetto stampa a comunicarmi telefonicamente l’opinione maturata. Senza girarci intorno, disse: “È meglio che cambi mestiere”».

Lei ama la vita. Che cosa vorrebbe dire oggi a tanti ragazzi che cedono allo sconforto e provano persino a privarsi dell’esistenza?

«Nell’era della performance a tutti i costi, della competizione a scapito della cooperazione, del successo, della gioventù esibita, si sono radicati dei tabù, uno dei quali riguarda proprio la rimozione della morte. Gli antichi dicevano “ricordati che devi morire”, e così facendo festeggiavano la vita, sottolineavano la preziosità del tempo terreno, la sua bellezza e unicità. Un miracolo, appunto, la vita: da onorare ed amare, con gratitudine. Oggi, purtroppo, si finge che la nostra finitezza corporea non esista. I giovani e giovanissimi rischiano di non conoscere la priorità assoluta del valore della vita. Solo così posso spiegarmi certe morti assurde, frutto di sfide insane, di tragiche curiosità, oppure come reazione alle prime delusioni o dolori. Credo sia importante che ciascuno inneschi una rivoluzione interiore attraverso un nuovo sguardo sul mondo, attraverso la riflessione e l’ascolto della propria coscienza e la ricerca di valori solidi e reali».

Andrea Delogu rivela: «Sono in analisi da 10 anni e ho fatto i debiti per lo psicologo, ma era l’unica strada per salvarmi». Storia di Simona Marchetti su Corriere della Sera il 19 luglio 2023.  

Sono state giornate di festeggiamenti quelle appena trascorse per Andrea Delogu. L’11 luglio scorso la padrona di casa del Tim Summer Hits 2023 ha infatti celebrato i due anni d’amore con il 23enne modello Luigi Bruno, a cui ha dedicato foto e dedica romantica su Instagram. Una settimana più tardi è stato invece Twitter ad accogliere un altro anniversario importante per la 41enne conduttrice radiotelevisiva, quello dei «10 anni di analisi». Un percorso lungo e non sempre facile (ha cambiato vari specialisti prima di trovare quello giusto e si è pure indebitata per pagarli), ma grazie al quale si è salvata.

«In questi giorni "festeggio" 10 anni di analisi - ha scritto infatti la Delogu nel tweet - . Ho cambiato 3 psicologi, (sono umani, bisogna cercare quello/a giusto) e un paio di vite. All'inizio non potevo permettermelo e ho fatto i debiti, ma sentivo che era l'unica strada per salvarmi. Avevo ragione. Auguri a me!». Se la maggior parte degli utenti ha apprezzato la sua confessione e alcuni hanno anche voluto condividere con lei le loro esperienze con la terapia, altri l’hanno invece criticata, sottolineando che, essendo una sorta di privilegiata, non abbia motivo di ricorrere all’analisi e invitandola perciò a provare «la vita normale». Ecco perché la conduttrice si è sentita in dovere di replicare via social, sia su Twitter con un secondo messaggio («Quanta disinformazione sull'analisi. Molto bene, cioè, no, non molto bene») sia su Instagram.

In quest’ultimo caso la conduttrice ha scelto di pubblicare una pagina bianca dov’era riportata una sola parola, ovvero «analisi», di cui ne ha spiegato l’etimologia («Dal greco “anàlysis” cioè scioglimento, che deriva da “analýo”, che sta per “scompongo”. Lo scioglimento di nodi vecchi che ti legano al passato»), prima di lasciare i follower con una domanda, destinata a rimanere senza risposta, almeno per ora. «Ieri ho postato su twitter quella semplicissima frase sui miei 10 anni di analisi e 3 psicologi cambiati. Molti messaggi bellissimi di gente che è in pieno percorso o lo ha chiuso, ma anche messaggi di persone che non hanno un'idea di cosa sia e la paragonano alla cartomanzia. Alcuni che dicono che ogni 3 anni si dovrebbe chiudere, altri che è meglio parlare con un amico, altri che vanno dallo stesso psicologo fra parenti o coniugi. In quanti anni secondo voi l'analisi sarà utilizzata come un qualsiasi percorso per migliorarsi la vita?».

Andrea Delogu: «Amo un modello di 24 anni. Lui va a ballare, io a dormire». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'1 maggio 2023

La conduttrice: «De Martino? Un vero amico. Quando Arbore mi volle in tv non ci credevo» 

Non per niente la chiamano Furio (Verdone op. cit.).

«Perché ho la mania del controllo e organizzo la mia vita nei minimi dettagli. Al mattino devo sempre sapere cosa mangerò la sera, sennò mi sento male. Sul set arrivo all’alba, pure prima del trucco e parrucco. Lo so, ho dei seri problemi, ma sono fatta così».

Partire in vacanza con lei sarà impegnativo.

«Compilo una tabella mentale di ogni giornata, prevedo in anticipo a che ora ci sveglieremo, quando e dove si pranzerà, decido pure le fermate per andare in bagno».

Come per Antongiulio e Antonluca. Delogu, lei è Super-Furio, altro che la Andrea La Rossa di Instagram.

«È dura venire in ferie con me, lo ammetto, anche la mia migliore amica Ema Stokholma, se può, mi scarica. Tranne quando andiamo in Puglia, a Tuglie, a casa dei miei nonni: lì il mare è a 10 km e non c’è niente da fare, solo rilassarsi, mangiare e dormire». Il che, si intuisce, è troppo poco movimentato per l’iperattiva conduttrice radio e tv, attrice e scrittrice.

Ho quasi un brivido a chiederle come prepara i bagagli.

«Per fare la valigia prendo un foglio, segno i giorni, divido ogni pagina in due colonne, mattina e sera, e annoto i cambi d’abito e i turni di bucato. Però lo confesso subito al compagno/a di viaggio. Alla prima vacanza che ho fatto con il mio ragazzo, gli ho premesso: sappi che per me ogni giornata è programmata dall’inizio alla fine, mi lascio giusto quattro ore libere».

E lui?

«Ha riso come un pazzo però è venuto lo stesso. Questa estate torneremo in Giappone, ci sto lavorando da dicembre».

E ovviamente è anche puntualissima.

«Certo, rispetto gli orari, se mi fai aspettare mi offendo, l’attesa è tempo sprecato, ci sono così tante cose meravigliose da fare e da vedere».

Il paziente boyfriend di cui sopra è Luigi Bruno, fa il modello e ha 24 anni, lei 40.

«Ci siamo conosciuti due anni fa su Instagram, mi ha scritto lui per primo, ero single. Mi ha corteggiato molto, rispondevo gentile, niente di più, però lui non mollava. Ci scambiavamo messaggini. E abbiamo scoperto di essere tutti e due appassionati degli anni Ottanta».

E poi?

«Si è presentato a Roma a sorpresa, senza avvisarmi. “Ti voglio conoscere, sono qui, ci vediamo?”. Potevo dirgli di no? Abbiamo fatto una lunga passeggiata notturna e insomma… piano piano ho ceduto. Eppure insistevo: “Viviamo in due mondi troppo diversi, non può funzionare”. Finché Luigi non mi ha smontato: “Ma diversi cosa? Mi piaci e basta”».

Semplice.

«Per un po’ ho continuato a precisare che ci stavamo solo frequentando, finché un giorno Luigi mi ha corretto, guardandomi dritto negli occhi: “Noi stiamo insieme, tu sei la mia ragazza”. E io: “Hai ragione”».

Era preoccupata per i 16 anni di differenza?

«All’inizio sì, siamo strutturati per pensare in un certo modo. Per lui invece non è mai stato un problema e ora non lo è più nemmeno per me. Se mi fanno battute, ci rido. Quando ci hanno paparazzato insieme ed è uscita la notizia, qualcuno mi diceva: “Eh, ma attenta che poi finisce, vedrai che ti lascia”. E io: “Guarda che è finita pure con mio marito e avevamo la stessa età”. Ormai non mi accorgo nemmeno che è più piccolo, quando lo vivi è diverso, non ci fai più caso».

Una passione in comune.

«Lo so, fa ridere… la fissa per il film Dirty Dancing, a casa ho il poster originale, è stata la prima cosa che ci ha unito. E i videogiochi. Possediamo sia Nintendo che Playstation, se lo chiedi a Luigi ti dice che è più bravo lui, ma non è vero, ci so fare anch’io, in quelli in cui non si spara tipo Little Nightmares. Quando vinco lo faccio pesare, però sono capace di perdere».

Una invece che vi divide.

«Luigi ama andare in discoteca all’una e rientrare alle sei del mattino, io non più. Me ne vado a letto a un’ora decente ma va bene così, non bisogna per forza fare tutto insieme, ognuno deve avere la propria libertà».

Rewind. Al suo matrimonio con Francesco Montanari (il Libanese di Romanzo Criminale) gli cantò «T’appartengo» di Ambra. Lo sposo ha apprezzato?

«Era un flash mob al momento delle promesse nuziali. Francesco ha riso, l’abbiamo cantata tutti in coro. Volevo mettere allegria per non piangere di commozione. La torta era un profiterole, lo abbiamo mangiato con le mani, solo che lui, mentre cercava di imboccarmi, è scivolato e me lo ha spalmato in faccia».

Dopo cinque anni, nel 2021, vi siete lasciati.

«Restano bei ricordi, anche da ex siamo legati, sono felice di aver passato una parte di vita con lui e grata di averlo incontrato. Certo è stata dura ammettere che l’amore era finito, che non era per sempre. Sul momento pensi che il dolore sia troppo forte, che non ce la farai a superarlo, invece poi ritrovi un tuo equilibrio e riprendi a vivere».

È nata e cresciuta fino a 10 anni a San Patrignano. Il ricordo più vivo di quei giorni.

«La sensazione di sicurezza. Nessuno chiudeva mai a chiave la porta. E avevo sempre altri bambini con cui giocare, senza bisogno di essere accompagnata, erano già lì».

Quando lasciò la comunità scoprì la meraviglia dei supermercati e delle merendine.

«A Sanpa ci davano una merenda sana, pane fatto in casa e prosciutto. Dolci pochi, solo quando d’estate andavo dai nonni o per Natale. Al super invece potevo scegliere, ero impazzita di felicità, andavo matta per i Tuc, la Kinder Delice e il soldino di cioccolato».

A 14 anni salì sul suo primo palco.

«A Rimini, in piazza Malatesta, c’era un concerto di Cristina D’Avena. Cercavano qualcuno che annunciasse al microfono che lo show stava per cominciare. “Vengo io”, mi lanciai. Nell’istante in cui ho sentito rimbombare la mia voce ho provato un’emozione fortissima. E pensai: io voglio fare questa cosa qui».

Brad Pitt agli esordi si vestiva da pollo, Megan Fox da banana, lei da nacho gigante.

«Facevo pubblicità a una salsa rossa messicana con questo costume a triangolo giallo e un vassoio con gli assaggini. Avanti e indietro sul lungomare di Rimini, ad agosto. Era divertente ma sotto la gommapiuma si moriva di caldo e puzzava mortalmente di sudore, il mio».

Frequentò corsi di dizione per togliere l’accento romagnolo.

«Ai provini me lo facevano notare, così rimediai. Ci ho messo molto impegno, però ogni tanto la esse scivolata si sente ancora».

A 20 scoprì di essere dislessica.

«Non è un difetto ma una caratteristica, come gli occhi azzurri. I professori dicevano ai miei: è sveglia ma non si applica. Quando mi fecero la diagnosi ho pianto di felicità. Ai dislessici succede di confondere le parole, o che le lettere cambino mentre le leggi, perché il cervello è più veloce degli occhi. Però si impara a gestirlo».

Le meraviglie della gavetta.

«A una festa della birra su al nord, sotto un capannone, credevo di dover presentare una serata, mi ritrovai a scandire i numeri della tombola, in palio salami, prosciutti e funghi sott’olio».

Nel 2002 la presero a fare la Letteronza a «Mai dire Domenica» su Italia 1 con la Gialappa’s e il Mago Forest.

«Eravamo sei, nessuna sapeva ballare ma il bello era proprio quello».

Nel suo curriculum figura il non memorabile film tv «Pipì room» di e con Jerry Calà.

«Scherzaaa? Uno stracult. Jerry per me era un mito, cercava una comparsa, mi proposi, non so nemmeno se mi si vede o sono stata tagliata».

Stracult, come il programma che ha condotto per 6 anni con Marco Giusti su Raidue.

«Poi si è aggiunto Francesco Biggio. Andavamo in onda a braccio, senza scaletta».

Il suo B movie di riferimento.

«Non c’è gara: Viva la Foca con Lory Del Santo, la scena di lei che entra nel bar con la mini di pelle è mitica. Ho scoperto che molte parti del film erano avanzi di girato di altre pellicole, grande! Sono cresciuta con Attila flagello di Dio di Abatantuono e I Fichissimi, il top».

Diventò una pupilla di Arbore.

«Mi ha scoperto sul web, ero già molto social, gli serviva qualcuno per il suo Renzo Arbore Channel. Quando mi arrivò la telefonata mi prese un colpo. Per lui provo un affetto smisurato. Alle celebrazioni del trentennale di Indietro tutta! posso dire: io c’ero, ho visto lui e Gigi Proietti fare le prove in camerino. Renzo nei suoi programmi non taglia niente, nemmeno gli errori».

I suoi quanti erano?

«Pochi, sono un po’ la prima della classe. Però ben venga la papera, la perfezione è noiosa. Finito lo show, tutti si lanciarono sugli arredi originali per portarsi a casa un souvenir».

Lei che cimelio si è aggiudicata?

«Un orologio tarocco del Cacao Meravigliao».

Uno dei suoi migliori amici è Stefano De Martino.

«Persona stupenda, solare. Mi è stato vicino quando mi sono separata e avevo il cuore spezzato, mi ha aiutato a capire che comunque le cose vanno avanti. Non ci vediamo spesso, ma faccio il tifo per lui e lui per me».

In teatro porta lo show «40 e sto». Come si sta da quarantenni?

«Una bomba. L’energia dei 20 certo non c’è più, ma hai maggiore fiducia in te stessa perché ti conosci meglio. E sai che, nelle difficoltà, potrai starci male, ma non muori».

È cintura nera 2° dan di karate. Meglio darle sempre ragione?

«Tranquilli. Il karate è una filosofia di vita che predica calma e rispetto, più che una disciplina di combattimento. Ti insegna proprio a evitare di usare la forza. Ma in caso so difendermi bene anche a parole».

Estratto dell’articolo di Renato Franco per il “Corriere della Sera” sabato 18 novembre 2023.

«Io sono l’unico comico di destra». Di destra sicuro, sul comico forse c’è qualche dubbio. Perché certe battute di Andrea Pucci non rientrano nell’alveo del politicamente scorretto, ma del comicamente nullo. Tipo quelle rivolte a Elly Schlein di cui prende le foto venute così così e poi aggiunge: «Già che ci sei dentista e orecchie no? Ridicola». 

Oppure: «Alvaro Vitali e Pippo Franco insieme». Il ventaglio della sua «ironia» però è ampio. Spazia dal sessista all’omofobo come quando in un suo spettacolo si chiedeva se a Tommaso Zorzi (ex vincitore del Grande Fratello) il tampone per il Covid lo facessero «nel cu**». Tranquilli, ne ha anche per i neri: «Che vi fate a fare i tatuaggi? Tanto non si vedono».

Va detto che a teatro ha il suo seguito di fedelissimi, tante date sold out da Nord (soprattutto) a Sud con la sua comicità da maschio bianco eterosessuale. Qualcosa di vicino al boomer. Ma c’è a chi piace, come quando guarda il pubblico e si rivolge a una signora: «Chiuda le gambe che si vede la bustina del té». Gli spettatori ridono, ma magari è solo un esperimento sociale. 

Eccolo il comico che dà lustro alla città di Milano, tanto da essere premiato con l’Ambrogino d’oro («un onorificenza per me», ha scritto, senza apostrofo, su Instagram) grazie all’onorevole Silvia Sardone (quota Lega) che lo ha proposto secondo logiche di merito o forse clientelari (come sostiene il sindaco Beppe Sala). «Sono onorato, lusingato e fiero» ha detto Andrea Pucci […]: «Si crede che l’intellettualità della comicità (dice proprio così, ndr ) sia solo di sinistra, ma non credo sia giusto. La comicità è far ridere indipendentemente dal colore politico».

Premio di miglior artista del Festival dei Ruderi di Cirella 2023, Andrea Baccan (il suo vero nome) è nato a Milano il 23 agosto 1965. Prima tabaccaio nel negozio di famiglia, poi gioielliere, quindi la svolta da comico. I suoi numi tutelari sono la Valtur, Tiberio Timperi e Pippo Franco. La prima perché gli apre le porte come animatore dei viaggi turistici; il secondo perché lo nota a una cena e poi lo presenta a un autore della trasmissione La sai l’ultima? dove partecipa come barzellettiere; il terzo perché si inventa il cognome d’arte, Pucci, «il ganassa», uno dei personaggi milanesi delle sue barzellette.

[…] La scuola non era il suo, si è diplomato in Ragioneria ma ci ha messo 7 anni: «Ho ripetuto la terza e la quarta classe. In terza siccome facevo confusione la prof d’inglese mi rimproverò, lanciai il libro e mi sospesero». Un’esperienza che lui stesso ha definito così: «Ero uno scemo». E chi siamo noi per contraddirlo…

Milano, Sala e il caso dell'Ambrogino a Pucci dopo gli insulti a Schlein e le battute omofobe: «C'è stato clientelismo». Simona Buscaglia e Maurizio Giannattasio su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023

Lo sfogo del sindaco durante il Consiglio comunale: «Vengono proposte persone che fanno comodo a una parte politica perché hanno operato per screditare la giunta». Il comico: «Da 30 anni regalo leggerezza ai milanesi»

Da mercato delle vacche a «clientelismo» per favorire la propria parte politica. Scoppia il caso Ambrogini, la massima onorificenza cittadina concessa a chi ha dato lustro alla città. A finire nel mirino, prima dei social e di Selvaggia Lucarelli e poi dello stesso sindaco, Beppe Sala, sono state le assegnazioni di quest’anno. Tra cui quella avanzata dalla Lega al comico Andrea Pucci che in passato non ha risparmiato insulti alla segretaria del Pd, Elly Schlein («Alvaro Vitali e Pippo Franco insieme») e battute omofobe al concorrente del Grande Fratello, Tommaso Zorzi.

Sala non ha fatto nomi, ma quando è intervenuto in aula consigliare per difendere la sua assessora contro cui era stata presentata una mozione di sfiducia da parte del centrodestra, è sbottato: «È il momento di dividere le persone tra quelle per bene e quelle che non lo sono — è stato l’attacco durissimo del primo cittadino — tra quelle che lavorano, magari facendo degli errori, e quelli che non fanno molto. Dico solo che il Consiglio comunale, il giorno dopo la dimostrazione che ha dato sulla scelta clientelare degli Ambrogini si permetta di presentare una mozione del genere contro una persona che lavora, è vergognoso». Caos in aula. Seduta interrotta. Richiesta di scuse. 

Ma Sala è irremovibile e rincara la dose: «Se mi chiedete di dire che nella nomina degli Ambrogini non c’è stato clientelismo, io non posso dirlo. Se ognuno apre Google e cerca clientelismo, leggerà che è un sistema di rapporti tra persone basato sul favoritismo, soprattutto in campo politico, in nome di un reciproco interesse. Quello che io affermo è che a volte si dà l’Ambrogino a chi attacca la giunta. Io lo vedo così: ogni anno vengono proposte persone che fanno comodo a una parte politica, perché durante l’anno hanno operato per screditare la giunta».

Sotto accusa c’è il meccanismo delle assegnazioni, già duramente contestato in passato. Il passaggio cruciale è stato quando la delega è passata dalle mani del sindaco al Consiglio comunale, e quindi ai partiti. È sufficiente ricordare cosa successe quando il centrosinistra, con il via libera dell’allora sindaca, Letizia Moratti, propose il nome di Enzo Biagi per la grande medaglia d’oro alla memoria. Tutta la maggioranza di centrodestra votò contro. Le regole nel tempo sono cambiate, ma non le polemiche. 

Se in anni recenti le critiche ci sono state per l’Ambrogino a Chiara Ferragni e Fedez, bisogna ricordare anche i gran rifiuti: Dario Fo nel 1997, Robert De Niro nel 2004, Elio e le Storie Tese nel 2008 che però poi nel 2018, con una maggioranza di centrosinistra al governo, accettarono l’onorificenza. È proprio questo moto ondivago, determinato dalle maggioranze che governano e dalle opposizioni che vogliono un riconoscimento, a determinare malesseri e polemiche. 

Di solito, gli estremi e le provocazioni, vengono eliminati al termine delle interminabili sedute dove nomi e personaggi vengono radiografati ai raggi x. Succede che qualche nome scappi. Pucci, però non sembra avere nessuna intenzione di fare un passo indietro. Anzi. Intervistato dal nostro Nino Luca replica: «L’Ambrogino d’Oro? Perché da 30 anni regalo leggerezza ai milanesi». Rifarebbe le battute omofobe? «A parte che non me la ricordo... ma nella comicità il politically correct va messo da parte».

Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” - Estratti giovedì 16 novembre 2023

Sono letteralmente affascinata dalla lista dei candidati e dei premiati all’edizione 2023 dell’Ambrogino d’oro, ovvero il riconoscimento che la città di Milano conferisce alle persone o alle associazioni che hanno dato un contributo speciale alla città. 

Per la cronaca, i vincitori sono scelti dall’Ufficio di presidenza del consiglio comunale di Milano e il sindaco ha diritto di veto. Ed è davvero un peccato che proprio il sindaco Beppe Sala non abbia esercitato il suo diritto di veto per almeno uno dei vincitori più strombazzati. 

Non bastavano i borseggiatori, il caro affitti, le polveri sottili, gli allagamenti, no, ci meritavamo anche la medaglia d’oro al comico Andrea Pucci. In tutta Milano non si è trovato un cittadino più meritevole, capisco. Mi domando se sia stato premiato per i suoi raffinatissimi show o per i recenti meme sui suoi social con le foto più infelici di Elly Schlein e i commenti “Già che ci sei dentista e orecchie no? Ridicolaaaa!” o anche “Alvaro Vitali e Pippo Franco insieme”. 

Sarà davvero commovente assistere alla cerimonia di premiazione con Beppe Sala che si congratulerà, magari con i suoi calzini arcobaleno, consegnando il premio a colui che in un suo spettacolo si domandava se a Tommaso Zorzi il tampone per il Covid lo facessero “nel cul*”.

(...) Insomma, nella lista mancavano solo Idra e il Lupo Mannaro. Proposto sempre dalla Lega, verrà poi premiato Diego Calcaterra, “il tassista eroe” che aiutò un ragazzo inseguito da quattro rapinatori. Il contentino della Lega ai tassisti non poteva mancare.  

(...)

Il capogruppo della Lega Alessandro Verri aveva candidato Marco Mazzoli del programma radiofonico Lo zoo di 105, programma famoso anche per le bestemmie in diretta che ben si sposavano con un premio dedicato a Sant’ Ambrogio e anche il sito “Milano Segreta”, ma poi qualcuno deve avergli spiegato che il suo fondatore Angelo Mazzone sui social scrive cose tipo “Madre Teresa era una povera squilibrata , più che una santa una lurida!” e giustamente lo proporrà per il Nobel per la Pace.

Giulia Cazzaniga per la Verità - Estratti lunedì 6 novembre 2023.

Risponde al telefono e Andrea Roncato in pochi minuti sorprende citando Pablo Neruda. Racconta che ha appena visto online alcune terribili immagini dei bambini del Medio Oriente che gli mettono tristezza: «Le guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono», ricorda a memoria affrettandosi ad aggiungere: «Non sono un intellettuale, ma neanche un ignorantone. A inizio dell’anno prossimo uscirà un mio libro con alcuni versi. Amo molto la poesia, sa? E c’è chi si stupisce, perché come sono stato raccontato negli anni non ha molto a che fare con chi sono davvero». 

Auto di lusso, bella vita e molte donne, si è letto soprattutto.

«Dicerie». 

Proprio tutte?

«In gran parte. Ci ho anche scritto un libro, su questa discrepanza: Non solo Loris Batacchi, si intitola. Non sono solo quello. C’è stato un momento in cui avevo 10 Rolex e ne cambiavo uno al giorno, sì. E ho anche pensato a un certo punto che avere tre auto fosse davvero importante». 

Poi?

«Poi succede che con gli anni ci si rende conto che è una forma di insicurezza, tutto questo mostrare. Immaturità, anche. Quando si diventa sicuri di sé non c’è il problema di apparire. Che è un po’ il problema dei ragazzi di oggi: pensano di essere la foto che scattano per postarla sui social, con tutti quei filtri che non sono reali».

I social non c’erano, quando ha iniziato la sua carriera.

«Quarantadue anni orsono. Ne hanno dette di cotte e di crude su di me, anche senza social. Sarà che la gente vede quello che sei nei film e ti identifica con il personaggio». 

Nel suo caso, spesso quello del donnaiolo.

«Recitavo con le attrici più belle d’Italia, quelle belle sul serio perché vere e senza ritocchi. Ma mica le corteggiavo tutte. A me fan tristezza quando mi chiedono quante donne ho avuto. Chi dà i numeri spesso mente. Oggi ho una vita molto normale, invece. Sono sposato dal 2017 e sto con mia moglie Nicole da 12 anni, fidanzamento compreso. Sua figlia - l’attrice Giulia Elettra Gorietti - mi ha regalato una splendida nipotina che si chiama Violante. Mi hanno cambiato la vita, queste donne». 

Rimorsi per qualche errore, ne ha?

«Se uno non sbaglia non diventa grande. Gli errori servono a migliorare e chi non ne commette neanche uno resta una persona mediocre. Certo, non parlo di errori catastrofici, eh. Però penso che piuttosto che star fermi, vale la pena intraprendere una strada e poi nel caso tornare indietro a metà». 

Tempi bui ce ne sono stati?

«Come in tutte le vite. Il peggiore, quando morirono i miei genitori nell’arco di due anni.

Rimasi solo, da figlio unico. Anche le vicende sentimentali sono state non semplici, anche su questo fronte mi sono sentito lasciato solo. Ma sono sempre andato avanti, grazie all’amore e alla compagnia di chi restava. Animali compresi. Pure con la carriera non è stato sempre facile. Ho avuto anni in cui ho lavorato di meno… ma mi sono rimboccato le maniche senza chiedere favori a nessuno». 

Parla di raccomandazioni?

«Avrei potuto chiamare Berlusconi o chissà quanti politici che conosco, e di nomi non gliene farò. Ma ho sempre avuto un tale rispetto di me stesso che ho detto di no anche ai reality, anche se ci ho rimesso soldi». 

Com’è che la politica è così intrecciata alla tv, nel nostro Paese?

«Fosse per me, dovrebbero essere due mondi totalmente estranei. Se non per la satira e la caricatura. Ma da sempre funziona così, non cambierà tanto presto questa cosa. Fu Berlusconi con le sue tv, e ancora in Rai si cambia a ogni cambio di governo».

Preferenze politiche lei ne ha?

«Destra o sinistra, per me contano le persone in gamba.

Son contento anche che le donne si stiano rafforzando in ruoli di leadership. È giusto, finalmente succede. Compensano la crescente debolezza degli uomini, sempre più insicuri». 

Le sue aspirazioni oggi?

«Continuare a fare il mio lavoro con tutto il rispetto che ne ho. A breve comincerò le riprese del nuovo film di Pupi Avati, un horror dal titolo L’orto americano».

Una collaborazione di ferro, la sua con Avati.

«Contando le serie per la tv, mi ha diretto in 11 film». 

E in tutto quanti film ha fatto? Ha mai tenuto il conto?

«Più di 63 film e quasi 250 episodi di fiction, tra Carabinieri, Don Matteo, L’Ispettore Codiandro e molte altre».

Tutto ebbe inizio nei mitici anni Ottanta.

«1980 per la precisione. Sandra Mondaini ci portò - a me e Gigi (Sammarchi, ndr) - su Rai 1 dopo che avevamo lavorato con lei in giro per l’Italia». 

Che donna era?

«Irripetibile. Eravamo come figli per lei. Mi vanto spesso della sua amicizia, e pure delle sue sgridate». 

Un suo insegnamento su tutti?

«Ringraziare e rispettare il pubblico. Non ho mai rifiutato un autografo o una foto perché sono consapevole che senza il pubblico non sarei niente». 

Da Berlusconi invece cosa imparò?

«Berlusconi fu colui che mi diede i primi lavori più importanti. Ne ricordo la grande fantasia che fondò la sua forza imprenditoriale. Mi chiamava alle due di notte per dirmi che una certa battuta non gli era piaciuta, e che invece quella di qualche giorno prima funzionava di più. Ci vedeva lungo. Fu il primo in Italia a investire un mucchio di soldi in trasmissioni tv».

La sua preferita?

«Grazie a Grand Hotel, uno come me che era agli inizi di carriera riuscì a lavorare al fianco di persone come Massimo Ciavarro, gli Ingrassia, Paolo Villaggio… Ricordo la prima puntata con Alain Delon. E Tony Curtis che mi domandava con gentilezza se potevamo rifare una gag e io pensavo, onorato: “Questo signore ha fatto film con Marilyn Monroe e ora mi sta insegnando qualcosa”. I veri grandi sono grandi in tutto». 

Ne esistono ancora?

«Robert De Niro mi incontrò ai Telegatti e la volta successiva mi salutò e venne a bere un caffè con me. Se incontro oggi un tronista di Uomini e donne, fa fatica a salutarmi. Tanti giovani attori oggi sono convinti che basti esser belli per sfondare. Ma è un po’ come per le donne: conta di più farle ridere, degli addominali».

Quelli della sua generazione parlano degli anni degli inizi spesso con nostalgia.

«Credo abbiamo nostalgia soprattutto della voglia di divertirsi che c’era allora. Le persone amavano andare al cinema. Le discoteche erano piene sette giorni su sette, e agli spettacoli delle 23 assistevano 5.000 persone per volta». 

Poi abbiamo cominciato ad annoiarci?

«Un po’ c’entra il fatto che si avevano più mezzi, più soldi da spendere in divertimento e cultura, che erano pure più accessibili di oggi. E poi tutto questo voler apparire online rischia di rovinare le relazioni tra le persone. Sa cosa mi pare? Che si vogliano evitare le emozioni, specchiarsi in una realtà finta e non vivere davvero. Far emozionare la gente è invece il motivo per cui ho scelto questo lavoro».

Estratto dell’articolo di Gennaro Marco Duello per fanpage.it il 25 giugno 2023. 

Andrea Roncato e l'immagine che tutti hanno di lui, ovvero quella del vitellone seduttore, tutto sesso, droga e rock'n'roll: "E invece sono ambasciatore per la difesa dei bambini disabili nel mondo, mantengo canili, mi dò da fare per la fattoria degli ultimi, dove raccogliamo i maiali fisicamente distrutti dagli allevamenti intensivi o i cinghiali che vengono trovati per strada feriti". 

A Fanpage.it, l'attore si racconta e disinnesca la sua immagine fatale: "Mi hanno dipinto come Al Pacino in Scarface. Ancora oggi si parla della cocaina, quando l'ho provata solo due volte e nessuno scrive del mio impegno civile. Alla gente questo non interessa". 

Il personaggio di Loris Batacchi: "Potrebbe essere senz’altro additato come un omofobo e un sessista, un uomo contro le donne. Ma se vedi bene, quel personaggio non era l’esaltazione del vitellone, ma la sua critica. Era un uomo molto patetico e non lo esaltavamo, lo prendevamo in giro".  

Su Berlusconi: "Era quello che ti permetteva di telefonargli alle 2 di notte per risolvere problemi sui programmi. Ti chiamava anche lui, a tutte le ore, per darti consigli". Come è cambiato l'intrattenimento: "Non vorrei fare più televisione, perché si è molto abbassata". Il caso degli Youtuber: "Se noi gli insegniamo male, è inutile dire che bisogna fare leggi più severe” […] 

Anche Loris Batacchi, il seduttore della figlia di Fantozzi, era leggero?

Loris Batacchi, oggi, potrebbe essere senz’altro additato come un omofobo e un sessista, un uomo contro le donne. Ma se vedi bene, quel personaggio non era l’esaltazione del vitellone, ma la sua critica. Era un uomo molto patetico e non lo esaltavamo, lo prendevamo in giro. […] 

Parliamo di Berlusconi.

Non metto lingua sul Berlusconi politico, anche se ha vissuto un lungo periodo di sputtanamento da parte degli avversari senza precedenti. Certo, è criticabile, ma è sempre stato assolto. Processato per aver evaso tasse, ma lui ne ha pagate a centinaia di milioni. Quanto al Berlusconi imprenditore, è stato un genio. Ha investito tantissimo e le trasmissioni che faceva lui erano veramente ricche. 

Cominciai con Premiatissima e c’erano Johnny Dorelli, Miguel Bosé, Amanda Lear. Continuammo, io e Gigi, con Grand Hotel che tutte le settimane aveva ospiti di grande prestigio: Alain Delon, James Brown, i Jefferson, Tony Curtis, che aveva fatto film con Marilyn Monroe faceva gag con me. […] 

Avevate un rapporto stretto?

Più che altro, lui era quello che ti permetteva di telefonargli alle 2 di notte per risolvere problemi sui programmi. Ti chiamava anche lui, a tutte le ore, per darti consigli sugli sketch, su quello migliore, su quello da togliere. Era partecipe in prima persona. Se avevi qualcosa che non andava, non dovevi passare per venti uffici. Telefonavi a lui e glielo dicevi. 

Lei lo ha mai chiamato?

Sì, ma sempre per cose di spettacolo. Non l’ho mai chiamato, come invece hanno fatto tanti, per chiedergli altri soldi. O per andare ai Bunga Bunga, io a quelli non ho mai partecipato. 

Massimo Boldi ci ha raccontato di aver ricevuto un regalo di 50 milioni di lire alla firma del primo contratto.

Mah, “ti do 50 milioni in contanti” mi sembra una grande stronzata. E Boldi di stronzate ne dice, mi sembra una cosa detta per ridere perché poi per darti tutti quei soldi, bisogna fatturarli. Diciamo che Massimo ha una comicità innata, non sai mai se scherza oppure no. Comunque con Berlusconi abbiamo i ricordi di tante cene insieme e poco altro. 

Senta non voglio tirare fuori la solita storia di Stefania Orlando che l’ha lasciata perché lei era una specie di irregolare. Però quel periodo ha segnato un po’ la sua immagine.

Sì, mi hanno dipinto come Al Pacino in Scarface. Purtroppo, i giornalisti per un tozzo di pane mettono su gli scooppettini. Anche oggi, magari leggi: “Andrea Roncato in ospedale”. Entri, clicchi e leggi una sfilza di notizie biografiche, poi arrivi in fondo tra mille altre pubblicità e la notizia è che 

“Andrea Roncato è andato a trovare un amico in ospedale che ha aperto un bar”. Questo per dire che su Stefania Orlando, io avevo le spalle più larghe e allora cominciai a dire che ero stato io a lasciarla, perché ero un po’ farfallone. La verità è che se n’è andata lei, per cose sue. 

E la storia della cocaina?

Quando venni a Roma frequentavo gente che la usava e l’ho fatto anche io, ma solo due volte. Mi sono alzato una mattina e ho detto: ‘mai più frequento sta gente qua’. Quando andai in televisione dissi di averlo fatto, ma per dare un messaggio ai ragazzi, per dire non fatelo. 

Ma da quel momento mi hanno dipinto come l’uomo nel tunnel della droga. La gente vuole soldi, sesso, droga e rock’n’roll. Come quelli che continuano a parlare di me e di Moana Pozzi. 

La storiella del voto in pagella per l’ottimo sesso.

Ecco. Ma l’ha scritto lei sul suo libro. Non è che sono andato io a dire di essere stato con lei. Peraltro, l’ho sempre ringraziata perché mi ha gratificato sentire che parlava bene di me. Al tempo, quando siamo stati insieme, lei non era ancora un’attrice hard, ma tutto questo ha contribuito a creare un certo personaggio distorto di me stesso, ma sono un’altra persona. Tutta un’altra persona. […] 

Non parteciperebbe neanche a un reality?

No, mai. Vedo “L’Isola dei Famosi” e non c’è nessuno che conosco. Come anche al “Grande Fratello Vip”. È un mondo quello dei reality pieno di ragazzi e ragazze che si lasciano sfruttare, si sentono dei vip, che pensano che facendosi vedere per due mesi, sono arrivati. Molti, non tutti, pensano questo. A chi lo pensa direi: ok, sei bello, sei bella, ti sei fatto vedere, ma tu, cosa sai fare? È solo apparenza. […]

Angela Cavagna: «Come infermiera sexy a Striscia diventai un simbolo erotico. Guadagnavo 8 mila euro al mese con gli avocado». Giovanna Cavalli su Il Corriere Della Sera il 27 maggio 2023.

L’ex showgirl, 56 anni: «Vergine a 27 anni? Ci giocavo, ma era vero. Un giocatore del Milan mi tempestava di messaggi»

Angela Cavagna, 56 anni, volto tv anni ‘90

Medici e infermieri veri si offesero. Le intimarono: «Svergognata, rivestiti!».

«Esagerati, minacciarono di denunciarmi perché gli rovinavo l’immagine, ma io non volevo prendere in giro nessuno, anzi, avevo il massimo rispetto per la categoria, ci sono rimasta male, però dai, succedeva una vita fa», racconta lieve Angela Cavagna, 57 anni, ex showgirl, che tra il 1990 e il 1992, con camice bianco striminzito su scollatura da maggiorata, baschetto con crocetta rossa e reggicalze turbò i sonni e pure i dormiveglia degli italiani sintonizzati su Striscia la Notizia e la sua sexy infermiera bruna da 100-55-90, allora parlare di misure non era peccato. «In compenso fui difesa da tutti i pazienti del mondo: “Magari l’avessi io una così in corsia!”».

Aveva cominciato come ballerina classica. Scusi...

«Come facevo a ballare con queste forme? Fino ai 17 anni ero magrissima, piatta e anche bravina, a 13 mi presero all’accademia di danza Grace Kelly di Montecarlo. Poi sono cresciuta. All’inizio ho provato a nascondere il seno, a schiacciarlo qui e là, era una lotta persa e mi sono arresa».

E arrivò il provino per il tg satirico di Canale 5.

«Nel frattempo ero diventata molto famosa in Spagna, avevo inciso l’album Sex is movin’ e per due estati fui prima in classifica. E avevo lavorato su Telecinco con José Luis Moreno. Ricorda? Il ventriloquo amico di Pippo Baudo. Mi chiamò Antonio Ricci. “Cerchiamo una nuova infermiera dopo Sonia Grey, vieni”. Andai che era venerdì, lunedì ero già in onda».

Vista e presa.

«Mi dissero: “Sei perfetta”. Io scioccata. Un dono piovuto dal cielo. Ma avevo 24 anni ed ero incosciente, non tornai nemmeno a casa, rimasi in studio per la prova costume. Restai per due stagioni, che fortuna. Il secondo anno facevo l’Angela consolatrice, vestita di bianco, e l’Angela vendicatrice, in nero con la frusta».

Pasticci ne ha combinati?

«No, ero molto seria, puntuale, imparavo tutto a memoria, era una particina, eh. Cercavano miei errori per Paperissima, non ne hanno trovati. Che nostalgia, a Striscia erano tutti buoni e gentili».

Accusò Sabrina Salerno di essersi rifatta il seno, lei la denunciò e la vostra lite finì in tribunale.

«Ma era la verità, perché mentire? Siamo di Genova, la conosco da quando aveva 16 anni, bellissima ragazza, ma lì davanti non aveva granché».

Eravate amiche.

«Amiche... ci si frequentava, mi era simpatica, però non ho mai capito quelle che vanno dal chirurgo — e non c’è niente di male — ma poi dicono che è tutto naturale. O quelle che a 60 anni ne vogliono dimostrare 30. Invecchiare è una bella cosa, io ne vado orgogliosa, ovvio che non sono più quella di prima. Mi tengo i miei difetti, non metto nemmeno la crema sul corpo. Trovo giusto curare il proprio aspetto, ma senza paranoie».

Chi vinse la contesa?

«Nessuna delle due. Io chiesi che Sabrina si presentasse in aula per una prova pratica con un esperto. Non è venuta ed è finita così, a tarallucci e vino, non ne ho più saputo niente. Lei ha fatto la sua brillantissima carriera, io la mia, le mando un abbraccio».

Tanto per non farsi mancare nulla, dichiarò ai giornali che a 27 anni era ancora illibata. Un titolo del 1993: «Basta sesso, sono vergine».

«Ci giocavo però era vero. Ero un simbolo erotico e la gente pensava facessi chissà cosa, mi chiedevano sempre di parlare di sesso. Mi imbarazzavo e non sapevo che dire, tanto meno dare consigli».

Gigi Marzullo, a «Mezzanotte e dintorni», le fece coprire le grazie.

«Mi ero messa una tuta gialla lunga fino ai piedi, scollata sì, ma non ero mica nuda! E poi il seno si vedeva comunque. Mi disse: “Mia cara Angela, non può andare in onda così, siamo su Raiuno, non sta bene”. Ma era notte. E vestita così ci ero già stata su Raidue di primo pomeriggio e nessuno si era scandalizzato. Rifiutai. E l’intervista saltò».

Frotte di ammiratori le scrivevano lettere adoranti.

«Ci feci un libro: “Sei più bella della mia capra”».

E chi era il romanticone?

«Un pastore sardo».

Valletta di «Guida al campionato» con Sandro Piccinini e Maurizio Mosca. Ci provavano pure i calciatori?

«Tanti mi volevano conoscere e mi mandavano messaggi, in particolare uno del Milan, però non ricordo il nome. Non rispondevo».

E alle feste ci andava?

«Silvio Berlusconi mi invitava sempre, non ci sono mai andata. Preferivo restare a casa, ero riservata. Non l’ho mai nemmeno incontrato di persona, credo di essere l’unica al mondo che non l’ha visto nemmeno in cartolina».

Si propose come «il seno della destra» contro Alba Parietti, definita la «coscia lunga della sinistra».

«Ai tempi dichiararsi di destra era dura, tutti gli artisti erano schierati a sinistra — tranne Giorgio Albertazzi e Lando Buzzanca — altrimenti non lavoravi. Fui invitata da Michele Santoro a Il Rosso e il Nero con Fini e D’Alema. E venni citata in un editoriale sul Corriere perché avevo detto: “I politici si cambiano il cappotto ma mai le mutande”. Intendevo dire che si mostrano diversi fuori, ma sotto sotto restano sempre gli stessi».

E poi come andò?

«Mi cacciarono dalla Rai. “Qui non si fanno dichiarazioni politiche”. E ciao ciao».

Ora c’è Giorgia Meloni premier. L’ha votata?

«Certo e sono felicissima per lei. L’ho conosciuta da giovanissima, alle feste tricolori, era già brava, una di carattere, sapeva parlare».

Il matrimonio con Orlando Portento finì con lui che la accusava di avergli sottratto il forno a microonde.

«Mai usato, lo detesto. Abbiamo cause in corso, a 78 anni non capisce che non può andare in tv ad insultarmi».

Con il secondo marito Paolo, imprenditore ed ex pilota di rally, vive in pace e amore a Tenerife. Come va la piantagione di avocado?

«L’abbiamo venduta. Troppi furti. Venivano con i camion e rubavano 50 sacchi di raccolto. Peccato perché rendeva 8 mila euro al mese».

Le manca la tv?

«Per niente, sto bene così, ogni tanto mi invitano ma non vado. Ho una casa davanti al mare, tanti amici, sono in vacanza perenne, viaggio, mi diverto, colleziono Rolex».

Avrà mica uno di quelli spariti di Francesco Totti?

«Magari, mi sa che valgono parecchio».

Barbara Costa per Dagospia il 26 febbraio 2023.

Lei è marchio, di sesso, impetuoso. Lei è un business, col sesso, milionario. Lei è una taglia. Di seno. Straboccante! Lei è la diva porno Angela White, e quest’anno ha vinto 10 Oscar del Porno: 6 sono gli Oscar vinti votati dai fan, 4 sono gli Oscar conquistati perché decisi dalla critica. È un porno record: Angela White, nel suo mega attico di L. A. zeppo di libri, ha 64 statuette!!! Non c’è nessuna pornostar femminile più squillante di lei. Angela è nella Storia del Porno, sta marcando la Storia del Porno, e non ha intenzione di arrestare la sua tettonica sterminante avanzata.

Ma non è di questo che io voglio parlarvi. Io voglio parlarvi delle orge. Del sesso di gruppo che Angela White ci accende in video. Oltre all’Oscar per la Migliore Scena Anale, "It If Fells Good 3", girata con Manuel Ferrara (marito di Kayden Kross, la regista di tale scena) Angela, riguardo alle ammucchiate porno, ha ribadito che non ce n’è per nessuno. E per due lavori di casa Brazzers, "Gang Bang", e "Take Control", Angela White è Best Gang Bang 2023, e Best Orgia 2023.

Nessun’altra femmina riesce come lei a governare così tanti peni e insieme, dentro di lei, nel suo sesso e ano, nella sua bocca, in simultanea e plurima (doppia e triplica) penetrazione. Nessuna se la spassa come lei quando una frotta di uomini la apre e se la sbatacchia in tutte le maniere che Angela richiede. Perché, è evidente: non c’è sesso di gruppo dove Angela non comandi e sia padrona del suo corpo ma pure di ogni goccia di sperma, saliva, sudori e secrezioni e squirto che esce tra le sue gambe allargate… non c’è sospiro, grido, su e giù meccanico e no, né ghiottoneria sessuale di cui Angela non sia godente sovrana.

Ciò che fa Angela inimitabile superstar è la sua signoria su quei maschioni che la possiedono. Non c’è uomo che sovrasti Angela, non c’è uomo che non sia devoto attrezzo sudicio di Angela. Non c’è aspetto del sesso il più dissoluto che Angela non faccia suo, e dal quale non prenda orgasmico ma inesausto appagamento. Del quale non si abbeveri fino all’ultimo sorso. Leccandosi le labbra.

È ciò che l’ha promossa icona del porno contemporaneo sia agli occhi delle colleghe che la invidiano (ma che aspirano a diventare come lei) sia ai sessi gonfi del suo esercito mondiale di fan. E non è tutto qui. In una recente intervista, Angela Gabrielle White ha svelato che lei da pornostar usa il suo vero nome per evidenziare che il sesso che imprime in video è sì amplificato secondo regole di regia e a telecamere recitato, ma è il suo: rispecchia il suo io più intimo in quanto a fame, desiderio, scopi.

Angela White è in privato poliamorosa convinta, non crede nella coppia duale e pur monogama come finora imposta dalla società, e lei è promiscua e bisex fin dall’adolescenza. “La sessualità nella pornografia è lo spazio più sicuro per esplorare e superare i tuoi limiti, se è quello che vuoi”, afferma Angela White, “ma è importante circondarsi di persone che la pensano come te, e nel porno attori, registi, boss, siamo tutte persone sex positive e fierissime di ciò che facciamo”.

 Angela in ogni intervista chiarisce che “la pornostar realizzata è la pornostar che fa ciò che le piace”. Non esiste sfruttamento nel porno, tantomeno del corpo femminile, perché le attrici vogliono il sesso che decidono di fare. Chi non è così, ha pregressi casini esistenziali. Il porno non concede infantilismi. Chi fa la vittima è artefice della sua ghettizzazione e stigmatizzazione. Per Angela, “che alle donne, e alle pornoattrici, non piaccia il sesso e il sesso eccessivo, è stereotipo maschile raccolto dalle donne per troppo tempo”. La sua orgia premio Oscar "Take Control" è diretta dalla regista Lea Texis: potere alle donne? Dice Angela: “Take Control è un porno 5 vs. 1: e sono io che sc*po 5 uomini, non il contrario”.

Una persona è forte e sicura se ha pienezza e controllo della sua sessualità. È questo il nostro presente, non le lagne delle donne deboli e vittime degli uomini in quanto donne! Angela White, che gira moltissime scene all’anno, rifiuta quelle dove la performer è ritratta a vittima. Il suo NO è politico, e i suoi fan apprezzano. I risultati la premiano. Accetta tanti anali, accetta tante orge che son comunque meno di quelle a cui ambirebbe: “Amo girare sesso di gruppo perché ogni volta è una sfida fisica”, confessa Angela, “nel porno a orgia tutto è concentrato sulla donna, ed è la donna che comanda l’azione. Nel porno se ne girano poche, e il motivo è uno solo: i soldi!”.

È vero. Anche se il porno è pieno di soldi, le orge e il sesso di gruppo in generale sono le scene le più costose. Ogni pene prende non meno di 1000 dollari, molto ma molto di più se è il pene di un attore di grido. E, essendo orge e gang bang complicate da girare, i registi non chiamano novellini a farle. Per non parlare del compenso che va alla protagonista dell’orgia: di quanto esige, Angela White non si sbottona, ma sono bei soldoni. Su una cosa Angela White non transige: lei non accetta di girare orge e gang bang con meno di 5 uomini! E le vuole senza plot. Il porno che Angela ama di più, e che la rappresenta, è quello duro e crudo, senza fronzoli né dialogo che non sia afflato orgasmico.

Estratto dell’articolo di Elisa Lipsky-Karas per The Wall Street Journal pubblicato da “la Stampa” giovedì 7 dicembre 2023.

Angelina Jolie ha trovato la sua voce. Prima, invece, l'aveva persa, dice. È accaduto durante le ore di preparazione necessarie a interpretare la cantante lirica Maria Callas negli ultimi turbolenti giorni della sua vita in un film di prossima uscita in cui la voce di Jolie si fonderà con le arie d'opera cantate dalla diva. «Sono terrorizzata - dice Jolie, 48 anni - sono una che alle feste canta sottovoce ‘Tanti auguri'». Nel 2018, quando ha girato Maleficent 2, si è accorta che la sua voce aveva cambiato registro rispetto alla prima volta. «Il mio corpo reagisce intensamente allo stress. La mia glicemia va su e giù. All'improvviso, sei mesi prima del divorzio, ho avuto la paralisi di Bell».

Sono trascorsi sette anni dal divorzio da Brad Pitt […] Sette anni, dice ancora, in cui è rimasta perlopiù a casa, a riflettere, a evitare di lavorare per non doversi allontanare dalla famiglia. D'altronde «sono cresciuta a Hollywood, e di conseguenza lavorare nel cinema non mi ha mai colpito in modo particolare. Non ho mai creduto che fosse importante o apprezzabile».

Nei primi tempi si è sentita oppressa dalla celebrità. Ha sofferto di depressione e dice di aver avuto pensieri suicidi. Ha poi raggiunto l'apice della carriera nel periodo in cui sua madre stava morendo di cancro. «Avevo voglia di fuggire». 

Ha iniziato a lavorare ufficialmente con le Nazioni Unite l'anno dopo aver vinto l'Oscar.

Ha fatto visita ai campi profughi di Cambogia, Tanzania, Sierra Leone e Pakistan. Nel 2002 ha adottato Maddox in Cambogia, Paese che aveva visitato la prima volta per girare Lara Croft: Tomb Raider. […] A Los Angeles non ha una vita sociale. «Mi sono resa conto che i miei amici più cari sono rifugiati. Probabilmente, quattro donne su sei di quelle a cui sono più vicina hanno vissuto la guerra».

I suoi figli sono cresciuti. Il più grande ha terminato il college, il più giovane frequenta le superiori. «I miei figli sono le persone a me più vicine, i miei amici più cari. Siamo sette individui molto diversi, e questa è la nostra forza». Dopo così tanti anni di fama, si è rassegnata al fatto che non le è possibile accompagnarli in uscite o attività varie. «Devi farti da parte, in un certo senso, mentre ti sarebbe piaciuto esserci».

[…]

Angelina Jolie già adesso vive spesso nella sua casa in Cambogia e pensa di andarsene da Los Angeles: «Dopo il divorzio ho perso la capacità di vivere e viaggiare liberamente. Mi trasferirò, quando potrò. Sono cresciuta in un posto connotato dalla superficialità.

Hollywood non è certo una località sana. Di conseguenza, sono andata alla ricerca dell'autenticità». […] 

Sta producendo uno show a Broadway, The Outsiders , che andrà in scena nell'aprile prossimo: ha scoperto questa versione musical basata sul libro di S.E. Hinton grazie alla figlia minore Vivienne, che adesso lavora come assistente dello show. «Sono attiva su più piani» dice. Sta anche per inaugurare infatti la sua prima casa di moda indipendente, Atelier Jolie, che intende affrontare le questioni della sostenibilità, nel campo della moda in maniera sperimentale. «In vita mia non sono mai stata a una sfilata o al Met Gala - dice Jolie - invece di seguire da vicino la moda, amo le personalizzazioni e la libertà». Il suo primo atelier sarà nel cuore di NoHo a New York, nell'ex studio e casa di Jean-Michel Basquiat.

[…] Giorno dopo giorno, Jolie ammette di usare l'uniforme delle mamme indaffarate, più pratica che divertente: indossa un cappotto direttamente su morbide tute da casa per apparire elegante mentre fa le commissioni. «Mia figlia mi prende in giro perché indosso troppi cappotti - dice ridendo -. In pratica, nascondo quello che indosso sotto». Da quasi 22 anni, dice, «sono una mamma, ed esserlo ormai è tutt'uno con quella che sono». Angelina Jolie dice di sentirsi a suo agio nel suo corpo, oggi più che mai. «Guardo le mie cicatrici e il mio corpo e sento di aver vissuto. Ho vissuto alcune esperienze forti e porto impressa sulla pelle la mappa del mio corpo complesso, cambiato nel tempo. Sappiamo entrambi che una donna dalla vita piena è molto sexy».

Angelo Branduardi: «Grazie alla Fiera dell’Est mi sento un po’ immortale. Sono goloso. Per sbaglio una volta mangiai la pappa del cane». Elvira Serra su Il Corriere della Sera mercoledì 20 settembre 2023.

Il musicista: «Per due anni non ho toccato il violino. Faletti il mio migliore amico. Gli suggerii io di scrivere libri» 

Angelo Branduardi nel suo studio di registrazione

Preferisce essere considerato il «Cat Stevens italiano» o «Mick Jagger con il violino»?

«Cat Stevens italiano. Sono partito dalle sue canzoni 50 anni fa. È uno dei miei autori preferiti assieme a Bob Dylan, Donovan, Paolo Conte...».

«Mick Jagger con il violino» la definì Boncompagni.

«Ho fatto la rockstar per 20 anni girando il mondo e ho smesso nel 1980, dopo il concerto per la Fête de l’Humanité a Parigi. C’erano 120 mila paganti, il palco lo aveva disegnato Oscar Niemeyer. Ma era diventato tutto isterico».

Angelo Branduardi è un signore di 73 anni fragile e fortissimo. È condannato dal suo talento a vivere sulla lama del rasoio: da un lato la realtà, dall’altro come la vede lui; tornare indietro non sempre è facile. Risponde a tutto divertito nel suo studio di registrazione in legno a Bedero Valcuvia, a Nord di Varese.

Qual è l’accordo che la rappresenta meglio?

«Il Re Maggiore: è il più ampio, il più evocativo di un grande universo».

Quanti violini ha?

«Cinque o sei. Durante la pandemia siamo stati tutti male, ma io, che entro ed esco dalla depressione, ho avuto una reazione strana: per due anni non sono riuscito a toccare uno strumento o ad ascoltare Springsteen, Bach o Cat Stevens; mi veniva il vomito. Dopo mi sono rimesso a studiare. La memoria muscolare ora è inferiore, pure l’agilità, ma grazie all’età suono molto meglio di prima». 

Conserva il primo violino?

«No, purtroppo: sarebbe rarissimo, era grande così (allarga le mani di 20 centimetri, ndr). Man mano che crescevo, mio padre lo restituiva al liutaio e aggiungeva la differenza per uno più grande».

Però ha ancora quello che le fece un tranviere.

«Sì. È la copia di un Guadagnini che usai per il mio primo vero concerto, a 11 anni a Genova, quando vennero a vedermi tante filles de joie».

È più andato a rivedere i luoghi della sua infanzia, descritti così bene in «Confessioni di un malandrino», l’autobiografia pubblicata per Baldini+Castoldi?

«No... L’anno scorso, quando ho suonato a Genova, ho provato a rifare la cosiddetta via decumana: via della Maddalena dove abitavo io, via del Campo di De André e via Prè, la peggiore di tutte. Ma dopo 500 metri, quando ho visto una donna con il niqab, sono tornato indietro... Le prostitute ci sono ancora, ma adesso fuori hanno la luce rossa o verde, come ad Amsterdam».

I suoi genitori sono stati felici della sua carriera?

«Mia madre i primi due anni voleva buttarmi dalla finestra: il violino all’inizio è straziante. Di mio padre ricordo la gioia sul viso, ma anche un po’ di delusione: per me sognava un futuro da solista. Era melomane verdiano: a volte si chiudeva in sala, metteva sul disco e fingeva di dirigere l’orchestra. È un ricordo tenero».

Si è mai spiegato il talento?

«Sono dotato di un talento fisico che non capisco, perché io inciampo, non so cambiare una lampadina, non so fare nulla: è strano che abbia questa coordinazione su uno strumento così complesso».

Con sua moglie Luisa nel 2025 farete le nozze d’oro. Che marito è stato finora?

«È difficile vivere con un artista: nei momenti no, si fatica a rapportarsi. Il talento non è gratis: gli artisti di successo sono emarginati di lusso».

Con le sue due figlie, Sarah e Maddalena, che padre è?

«Loro stravedono per me, mi amano molto: nonostante fossi spesso via, facevo tutto quello che fa una madre».

Se gli alieni le chiedessero di presentarsi con una canzone, quale sceglierebbe?

«Il cantico delle creature: penso che passerebbe un senso spirituale di pace. Ci si dimentica che San Francesco è il primo poeta della letteratura italiana e il Cantico di Frate Sole è la prima poesia. Dante viene 100 anni dopo».

E «Alla fiera dell’Est»?

«Non è più mia, è patrimonio popolare. Significa un pizzico di immortalità».

Ha composto per San Francesco, San Filippo Neri e Santa Ildegarda: ne scelga uno.

«Filippo Neri, perché era matto. Quando già lo consideravano, faceva cose strane tipo rasarsi la barba a metà».

Come Gimbo Tamberi.

«Non lo conosco...».

E che effetto fa essere il personaggio di un romanzo come «Io uccido» di Faletti?

«Giorgio era il mio migliore amico. Ero stato io a suggerirgli di scrivere un libro. Non l’ho mai letto perché la trama me l’aveva raccontata lui, colpevole compreso. Ormai era un rito scaramantico che non leggessi mai i suoi libri. Prima o poi lo farò».

Ha suonato in tantissimi posti. Il più speciale?

«Uno dei punti più alti della mia carriera l’ho toccato alla National Gallery di Londra lo scorso giugno, davanti a 600 persone: dietro di me avevo un Guido Reni di 4 metri e dall’altra parte 2 Caravaggio».

È credente?

«Sì, ma non ho una fede a prova di bomba. D’altronde, chi non ha mai un dubbio non vale poi molto».

Contento quando finalmente a un concerto le hanno lanciato un reggiseno?

«Anche un paio di slip, ma avevano il cartellino attaccato: io li volevo usati! È successo a Liegi, dopo che mi ero lamentato a Bruxelles».

So che è goloso.

«Mi piace tutto. Una volta, senza saperlo, ho mangiato anche la pappa del cane di mia suocera: c’erano queste ali di tacchino bollite...».

Ha girato tutto il mondo. Il posto più bello?

«Piscinas, in Sardegna».

Mi fa felice!

«Io sono quello che ha fatto scoprire a livello europeo Luigi Lai e le launeddas. Ho lavorato con Maria Carta, con i tenores di Neoneli e di Bitti. Sono affascinato: è come se la Sardegna fosse un pezzo rimasto di Atlantide».

Scelga una città.

«Assisi. Quando l’abbiamo visitata la prima volta, alla Basilica inferiore mia moglie si è sentita male: era la sindrome di Stendhal».

Quale «collega» l’ha emozionata di più?

«Ennio Morricone. La prima volta che ho suonato con lui è stato per i suoi 70 anni: avevo il terrore».

Ha citato Springsteen. Suonerebbe con lui sul palco?

«Mi caccerebbe a pedate».

Vabbe’. Ma se potesse?

«Suonerei con gioia il violino in My Hometown».

E la storia del gambero che incontrò la trota salmonata?

«È lo Gnegno di David Riondino: la parodia mi ha divertito, infatti l’ho suonata con lui al Premio Tenco. Ma ho fatto anche una bellissima versione di Finché la barca va, solo violino e voce, con Orietta Berti: virtuosismo puro».

Se la invitassero a Sanremo da super ospite ci andrebbe?

«Non succederà mai: causerei il suicidio del pubblico».

Ma è matto? Immagino già un medley dei suoi successi: standing ovation assicurata.

«Va bene, allora ci andrei».

Estratto dell'articolo di Luigi Bolognini per “la Repubblica” il 16 maggio 2023.

[…] La voglia di guardare avanti anche superati i 70 anni, senza cullarsi sui soldi certi dei diritti d’autore. Se non ci fosse, Angelo Branduardi bisognerebbe inventarlo. Ma c’è, per fortuna. e basta parlargli e dare la stura ai ricordi, però precisando: «Niente bilanci di vita, li farò solo quando dirigerò Tristano e Isotta». 

Ah, si dà alla lirica?

«No, è per dire che non li farò mai». 

Ci resta la curiosità di immaginare un suo Wagner. Almeno ci faccia immaginare il bambino Branduardi.

«Sono nato a Cuggiono, campagna milanese, nella fattoria di mia nonna materna. Ma a tre mesi ero già a Genova, nei vicoli eternati da De André, zeppi di personaggi bizzarri e irregolari. Per farmi studiare musica, papà mi portò da un maestro di violino, Augusto Silvestri, che mi cambiò la vita aprendomi una magica scatola con uno strumento lucente, profumato di legno. Un’agnizione. Capii che avrei fatto il musicista da grande».

[…] 

Di poesia in poesia, lei ha musicato Esenin e Yeats.

«Esenin era un poeta contadino, come me. E i suoi versi erano strepitosi. Quanto a Yeats, sono stato l’unico ad avere il permesso del figlio Michael. Prima aveva detto no a tutti, compreso Val Morrison». 

Il disco dopo Esenin è vagamente ricordato tuttora per una certa canzone. Ne vuole parlare? tanti cantanti hanno amore-odio verso la loro canzone più celebre.

«Non scherzi. Mille e mille e mille vorrei averne scritte, di Alla fiera dell’Est !È il mio grano di immortalità: nessun bambino sa come mi chiamo, ma se gli dici del cane che morse il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò sa tutto e la canta. 

Sarei felicissimo se venissi identificato solo con questa canzone. Il bello è che puntavamo sul Lato A, Il dono del cervo, che non era per nulla male. Alla fiera dell’Est non piaceva ed era troppo lunga per le radio. Mi salvò la tv: mi invitarono, la cantai e fu una valanga».

All’epoca dei bambini dovettero farsi ricomprare il disco: lo avevano logorato a furia di ascolti. Non si logorò l’amore dell’Italia per lei: in seguito fece altri colpi tra pulci d’acqua e prime mele da cogliere. Pian piano però il successo l’ha perso. Le è restata la notorietà.

«Ma io sono un artista di nicchia che ogni tanto incontra il mainstream, se non capita è lo stesso. Sarei durato di più scrivendo pop e andando a Sanremo. Ma non sarei stato me stesso. E non sono finito né pensionando. I teatri li riempio sempre. Sono appena tornato da un tour europeo con il mio ultimo lavoro Il cammino dell’anima» […] 

Però all’estero i cantanti italiani sono belle voci pop. Lei che c’entra?

«Mi considerano profondamente un italiano del Rinascimento. Giocherà anche l’aspetto fisico, coltivato soloper esprimere la mia personalità, non per creare un personaggio: sono una persona e un artista, è ben diverso».

Ma è vero che all’Olimpia di Parigi le tiravano le rose?

«Tirano oggetti per manifestare entusiasmo. Ma il bello fu in Belgio: a Bruxelles mi lanciarono di tutto e io mi lamentai che non mi arrivava mai un reggiseno. Il giorno dopo a Liegi me lo tirarono davvero: non usato, aveva ancora il cartellino del prezzo». 

Insuccessi?

«Come tutti. Penso all’idea di andare al festival “Re nudo” a Parco Lambro di Milano, metà anni 70. Io e Maurizio Fabrizio suonammo Confessioni di un malandrino. Fine del brano: niente, l’indifferenza. La risuonammo: lo stesso» […] 

Lei fu il primo a vedere uno scrittore in Giorgio Faletti.

«Ne coglievo un lato poetico. Lo esortai a comporre testi di canzoni e facemmo due dischi. Quando scrisse Io uccidomi raccontò la trama per due ore e mezzo a tavola, svelandomi anche il colpevole. E non lo lessi. Da allora fu così per ogni romanzo: cena, spoiler, mancata lettura, successo». 

Lei è un’icona, e come tutte le icone può essere parodiata.

«E io ringrazio: è un omaggio, un segno di considerazione, e spesso c’è uno studio, una riflessione. La cosa migliore è Lo gnegno di quel genio di David Riondino, ma anche Lo struzzo e lo gnomo di Stefano Bollani, e Alla fiera della casa di Tony Tammaro. Lo gnegno l’ho cantata con Riondino addirittura sul palco del Club Tenco».

Angelo Duro, la cattiveria che fa ridere: chi è il comico voluto da Amadeus al Festival. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023

Palermitano, classe 1982 e con un passato da Iena, il comico ha fatto del cinismo e dell’irriverenza la chiave del suo successo: «Finalmente, dopo anni di soldi estorti ai cittadini con la bolletta della luce, ora c’è un motivo valido per aver pagato il canone»

Definirlo irriverente sarà anche una cosa banale ma è quello che è. Angelo Duro, 40 anni, ha fatto diventare la scorrettezza non solo molto più divertente, ma anche la chiave del suo successo. Sarà ospite del prossimo Sanremo, a rischio e pericolo di Amadeus. La premessa è buona, scritta sui social dove è pure è seguitissimo: «Sapevo che sarebbe successo. Sarebbe servito tempo, ma sarebbe successo. Era inevitabile, visto i numeri che faccio nei teatri. Ormai sono diventato una minaccia. E vogliono essere miei amici. Ed io col c...zo che ora divento amico». E ancora: «L’8 febbraio 2023, per la prima volta, sarò ospite alla seconda serata del Festival di Sanremo. È un segno epocale questo. Sono riuscito a cambiare il sistema. E ci sono riuscito da solo. A mio modo. Non me ne è mai fottuto di nessuno. Zero. Da tutti quelli che in questi anni hanno provato ad insegnarmi come si fa, ad ostacolare il mio cammino, me la sono sempre sentita sucare. Ho vinto io... Ci vediamo su Raiuno. E finalmente, dopo anni di soldi estorti ai cittadini con la bolletta della luce, ora c’è un motivo valido per aver pagato il canone. Vi saluto».

Il cinismo e la megalomania

Nessuna sacralità verso il Festival, come un Checco Zalone ma molto più arrabbiato e senza traccia di bonarietà. Però con la stessa megalomania con cui, commentando i sold out che ha registrato pressoché ovunque con la sua tournée, ha definito il suo successo un culto: «Le chiese vuote e i miei teatri pieni. E si paga pure. La religione che ho fondato io è molto più forte». Soldi ben spesi, sempre a suo avviso: «Vi capisco. Anch’io farei la fila per vedere uno come me». «Stasera ho conquistato pure Catania. Impara Putin». Politicamente scorretto è poco, arrogante è giusto, fuoriclasse del cinismo applicato alla comicità. Odia i cani ma la fidanzata l’ha convinto a prenderne uno e lo ha chiamato «cane di merda» per vendetta: «Lei poteva scegliere la razza, io il nome». Non ci sono temi troppo delicati: «Come fanno i genitori a non accorgersi che loro figlio si droga? Non lo vedono che è felice?». «Ognuno è libero di fare la vita che vuole, vuoi fare il barbone, fallo, però non chiedere soldi a me. Che lavoro è il barbone? Solo perché mi fai sentire in colpa ti devo pagare? Zero, non avrai un centesimo da me». «Scrivo libri e frequento musei, ma mi fingo ignorante per sembrare come voi». Insomma, il rischio di qualcuno che non capisca l’ironia del comico con un passato da Iena, è piuttosto alto. Ma la certezza è che, comunque vada, a lui non importerà niente.

Annalisa: «Tifo per Elodie e per Emma. Siamo poche cantanti donne e ci stanno sempre a rompere». Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera venerdì 3 novembre 2023

La cantante dei record si racconta alla vigilia del suo debutto al Forum di Assago, già sold out. La musica, l’immagine, i social. Storia di una diva pop rinata

Lo scorso 29 settembre è uscito il suo album E poi siamo finiti nel vortice e ha debuttato al numero 1, così come i singoli che lo hanno preceduto: Bellissima e Mon Amour . Quattro dischi di platino, prima donna a rimanere nella classifica dei dischi più venduti con un singolo per più di 1 anno. A breve inizia una nuova tournée, la prima nei palazzetti dello sport. Nel vortice, più che altro sembra esserci finita lei, Annalisa.

«È così. Per me l’uscita dell’album è una ripartenza, ho la sensazione di stare mettendo insieme tanti pezzi per costruire, un’altra volta, qualcosa di nuovo. La preparazione del tour mi ha dato grande energia. Questo momento però non è inaspettato, era stato preceduto dai singoli, dalla scrittura degli altri brani. In un certo senso lo avevo già immaginato».

Parla veloce, ma sembra pesare ogni singolo vocabolo Annalisa Scarrone, 38 anni, 20 trascorsi nella musica, 13 di notorietà dopo la partecipazione ad Amici di Maria De Filippi, uno di successi senza precedenti. Dal brano Bellissima in poi la sua vita professionale è cambiata: r egina delle classifiche, fenomeno di viralità con milioni di visualizzazioni e relativi balletti su TikTok.

La vita privata, sapientemente protetta, non è stata da meno. Lo scorso agosto, quando nemmeno si sapeva che fosse fidanzata, ha sposato il manager Francesco Muglia. A settembre divampava il gossip, smentito, di una gravidanza. Viso perfetto, incarnato di porcellana, Annalisa ha una sensualità raffinata, svelata poco a poco negli anni e esplosa di recente. È diventata una diva pop sulla soglia dei 40 anni, con una carriera solida alle spalle e un look sempre più sofisticato.

Domani, sabato 4 novembre, farà ballare il Forum di Assago, sold out, prima grande prova live. Riesce a goderselo un po’ questo successo? «Cerco di assaporarlo il più possibile, mi ritaglio dei momenti per guardarlo da fuori e prendere consapevolezza del fatto che sia arrivato con un percorso. È giusto concedersi un po’ di festa senza pensare a niente. Da un altro lato però non sono mai contenta al 100%, penso a quello che posso migliorare. Sono fatta così, non mi rilasso.Vorrei che la mia felicità fosse un carburante, uno spunto per i prossimi lavori. Il mondo della musica è complicato, si riparte sempre da zero, ne siamo consapevoli. Prima di questo momento ce ne sono stati tanti meno belli».

Parla al plurale. Si riferisce alla categoria dei cantanti o alla sua squadra?

«Alla mia squadra. Dietro un artista ci sono sempre più ruoli, non solo musicali, ognuno dà un apporto fondamentale nel suo campo. La parte creativa arriva da me, ma viene arricchita dai contributi esterni. Mi confronto con il mio management e con un gruppo di amiche d’infanzia con cui so di poter parlare a ruota libera. I consigli ottimizzano, smussano, aggiustano la traiettoria».

Bellissima è la canzone della svolta. Quando l’ha scritta si è resa conto del potenziale che aveva?

«Sì, ho sentito subito che aveva uno scatto diverso, ma quando l’ho portata in studio ne ho percepito davvero la forza. La genesi di Bellissima è l’esempio perfetto di quello che le dicevo prima. Nel momento in cui ognuno le ha dato qualcosa è sbocciata. Sono arrivata, come faccio sempre, con il testo e delle suggestioni scritte sulle note del cellulare, poi ci abbiamo messo sopra una melodia fortissima e lì ho pensato “tanta roba”».

È un brano pop, ballabile, eppure racconta la storia di una ragazza abbandonata. Non rispecchia la sua situazione sentimentale.

«L’ho scritto nell’agosto 2021, ma l’ispirazione mi era arrivata già da qualche anno. Le mie canzoni hanno sempre un piano temporale sfalsato, ci metto dentro tante emozioni e esperienze diverse. Parto dall’istinto e aggiungo in fase di scrittura. Bellissima ha una storia speciale perché è diventata davvero di tante persone, sentirla cantare nei concerti mi dà sempre un’emozione diversa».

In questa fase il look ha un ruolo innegabilmente importante. I tre singoli Bellissima , Mon Amour e Ragazza sola sono stati accompagnati da tre pettinature diverse: la lunga chioma rossa, un caschetto nero e un taglio corto biondo platino. Come ha lavorato alla metamorfosi?

«Ho sempre curato il mio aspetto, i miei abiti, ma ad un certo punto ho deciso di voler dare ancora più valore a quello al mio lavoro. Inutile girarci intorno, l’esteriorità è uno strumento molto potente per veicolare il proprio messaggio. Ho deciso di iniziare a fare l’esatto contrario di quello che avevo fatto fino a quel momento: aggiungere e non togliere».

Cioè?

«Ho sentito l’esigenza di costruire, di creare un mondo intorno a ogni canzone dopo un decennio passato a mostrarmi sempre e solo per quello che sono. Credo fosse anche il momento giusto per farlo, mi sono sentita pronta, a fuoco. Non voglio più essere semplicemente al meglio delle mie possibilità, ben pettinata e ben vestita, voglio raccontare una storia. Nella copertina di Bellissima sono sensuale, ma sembra che stia piangendo. Lascio immaginare un antefatto. Non sono solo una che si è messa giù da gara per una foto».

Poi è arrivato il caschetto nero di Mon Amour.

«Il brano è una seconda puntata, il riscatto dopo l’abbandono. C’è la rivalsa, ma anche la libertà sentimentale e sessuale “ Ho visto lei che bacia lui, che bacia lei, che bacia me “. Ho pensato a un immaginario da Blade Runner a Valentina di Crepax, da lì il caschetto nero».

Tante volte il nuovo corso artistico è stato etichettato come «svolta sexy» le ha dato fastidio?

«Non particolarmente. Faccio spettacolo e questo fa parte dello spettacolo. Se un’interpretazione mi riesce bene, mi diverte ed è nelle mie corde perché privarmene? A ogni azione corrisponde una reazione. Se gioco con l’immagine la canzone arriva più diretta».

Azione- reazione: la sua laurea in Fisica fa capolino pure quando parla della sua musica. Perché ha scelto questa facoltà?

«Cercavo qualcosa che mi aiutasse a darmi delle risposte, mi sono sempre fatta un sacco di domande, su tutto».

Allora avrebbe potuto fare Filosofia.

«Ho considerato anche questa strada, ma mio padre è un matematico e mi ha influenzata. La Fisica mi sembrava complementare al mio percorso musicale e in, un certo senso, mi ha aiutata, tutto si tiene».

Si è mai immaginata davvero insegnante o ricercatrice?

«No, mai. Ho sempre pensato solo alla musica, ma volevo darmi una possibilità in più e studiare mi è piaciuto. Sognavo di diventare cantautrice sin da quando ero piccola, lo dicevo a chiunque».

Che bambina è stata?

«Egocentrica, mi impuntavo sempre per fare tutto io: recite, balletti, disegni. Durante l’adolescenza sono implosa, mi sono chiusa in me stessa, dovevo conoscermi. Poi nell’età adulta è riemersa la parte istrionica».

Al successo di Bellissima ha contribuito la viralità di TikTok, il balletto è stato riproposto in migliaia di video con milioni di visualizzazioni. Oggi tanti artisti scrivono brani per inseguire questo tipo di riconoscimento. «Non è il mio caso, per me è stata una conseguenza bella e inaspettata di un lavoro fatto bene, non un obiettivo. Bellissima è finita in un coro da stadio. Mon Amour è diventata un inno del Pride. Quando le canzoni si prendono degli spazi vuol dire che sono state capaci di interpretare il loro tempo. Sono gioie grandissime per chi fa musica pop, le polemiche non contano».

Qualche mese fa, alla vigilia dell’uscita di E poi siamo finiti nel vortice , è circolata la notizia, smentita da lei, di una sua gravidanza.

«Ho già detto quanto sia stata indelicata. Aggiungo però che mi ha dato ancor più fastidio ritrovarmi a commentare un pettegolezzo nel momento in cui avrei dovuto parlare del mio lavoro, dopo un anno in cui avevo pure raggiunto grandi risultati. Credo sia una conseguenza della notorietà, ma pure dei tempi in cui viviamo, con un’attenzione morbosa sulle vite private».

C’è una responsabilità dei social?

«In parte. Io sono riservata, ma non nascondo in modo ossessivo la mia sfera intima, anche perché sono molto serena su questo argomento. Non voglio però che diventi un amplificatore del mio lavoro e viceversa. Tengo i piani separati, mischiarli vorrebbe dire anche togliere a ognuno la sua importanza. Sui social mi comporto in modo diverso a seconda della piattaforma che uso. Il feed di Instagram è dedicato solo al lavoro, ma nelle stories mostro anche la mia casa, i miei animali o le vacanze. Su Twitter, continuo a chiamarlo così perché mi fa strano dire X, mi piace fare qualche commento. TikTok mi diverte, ma sto ancora prendendo le misure. Continuo a postare su Facebook perché una parte importante del mio pubblico è ancora lì».

Alla festa di lancio del suo album a Milano c’era Elodie. Siete le cantanti pop del momento. State pensando a una collaborazione?

«E io sono stata alla festa di lancio del suo album. Per ora non abbiamo un progetto musicale insieme, ci stimiamo e penso sia importante sostenerci a vicenda. In Italia siamo poche cantanti donne e ci rompono parecchio, se ci spogliamo troppo, se non ci spogliamo, se cambiamo look... Non va mai bene niente. Anche se ognuna ha la sua strada, è bello fare squadra. Io tifo per Elodie, per Emma e per tante altre. Tutta questa solidarietà tra artisti uomini, invece, non la vedo. Ci sono ancora un bel po’ di passi avanti da fare».

C’è una giovane artista che le piace?

«Molte, le cerco su Spotify e le vedo nei talent come Amici o XFactor. Non credo a chi dice che non servano più a niente, sono un trampolino e una scuola. È un momento con una scena interessante, non c’è un unico nome che emerge».

Parteciperà a Sanremo 2024?

«Il Festival ormai è una vetrina importantissima e questo è il momento dell’anno in cui tutti noi artisti iniziamo a pensarci. Per quanto mi riguarda dipende dal brano: deve essere perfetto, se c’è solo un mezzo dubbio, mio o del team, meglio stare a casa».

Si era parlato di una sua possibile partecipazione come co-conduttrice. Se ricevesse un invito di Amadeus per questo ruolo lo accetterebbe? «Sarebbe bellissimo, anche in futuro. Mi permetterebbe di aggiungere un tassello importante al mio lavoro e sarebbe comunque una grande occasione per fare musica».

Questa intervista uscirà il giorno prima del suo debutto, il 4 novembre, al Forum di Assago, già sold out. Sarà l’inizio della sua prima tournée nei palasport. Come ci arriva?

«Con una preparazione artistica e fisica molto impegnativa. Ho lavorato su tutto: musica, coreografie, costumi, visual ».

Dormirà la notte prima del Forum?

«Lo spero. Conto di essere così stanca da crollare. Ci sarà grande tensione, ma vorrei godermi la magia».

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 9 ottobre 2023. 

È finita nel vortice ma domina molto bene la situazione. Annalisa Scarrone da Savona, per il mondo Annalisa, è la ragazza dei record: Bellissima è quattro volte disco di Platino, la prima donna al numero uno della classifica con un singolo da tre anni; intanto è uscito l’album E poi siamo finiti nel vortice di cui firma – con Paolo Antonacci e Davide Simonetta – i dodici brani. 

Ragazza sola è già il singolo più trasmesso dalle radio. Il 4 novembre la aspetta il Forum di Assago, già sold out, e l’anno prossimo il tour nei palasport in giro per l’Italia. Copertine, foto di moda, le nozze con Francesco Muglia: la nuova Annalisa è una trentottenne luminosa che coltiva l’autoironia. Con Bellissima ha raccontato milioni di donne che, proprio nel momento in cui sentivano irresistibili, sicure, hanno preso buca.

(...) 

“Quella volta non dovevi andare via/ ero bellissima”, recita un verso della canzone. Abbiamo notizie dell’incauto giovanotto che sparì?

Ride. «È capitato a tutte noi, bisogna imparare a voltare pagina». 

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Oggi osa look più audaci. Ha preso consapevolezza della sua bellezza e della sensualità?

«Ho un po’ di consapevolezza in più, sicuramente. Non del fatto che mi senta bella – ho dei momenti in cui mi sento terribile e sono anche numerosi – ma è la presa di coscienza dell’imperfezione che ti fa mettere il cuore in pace. Conosci la versione migliore di te, sai che non sei perfetta ma che puoi fare il tuo». 

L’ultima volta in cui è sentita bellissima?

«All’Arena di Verona. Merito delle persone che lavorano con me». 

Fa la cantautrice ma è laureata in Fisica, non è una facoltà che si sceglie a cuor leggero.

«Nella vita devi avere un obiettivo, io ne avevo due: la musica e l’università. L’istinto mi ha guidato anche nella laurea in Fisica, mi sono sempre chiesta il perché di tutto: mio padre è professore di Matematica, mia madre di Inglese, mio fratello è un chimico come mio cugino. Indago anche le ragioni per cui scrivo canzoni, indago me stessa chiedendo il perché di quello che provo. Mi guida la curiosità e l a scienza mi dà la chiave per rispondere ai miei interrogativi». 

(...)

Si aspettava il successo di “Mon amour”?

«Non ci speravo. Avevo anche una certa ansia da prestazione, perché riuscire a fare una canzone che potesse bissare il successo di Bellissima non era facile. Mi ha stupito la partenza immediata del pezzo, ma era un brano magico».

(...) 

Suo marito è un fan?

«Non lo era ma lo è diventato. Non mi conosceva così bene, sapeva della mia esistenza ma non era informato nel dettaglio. Il nostro è stato un incontro privo di filtri. Sono felice di questo, perché mi sembra di poter scrivere una storia senza pregiudizi». 

Le piacerebbe fare tv come conduttrice-primadonna?

«A me interessa la musica e l’istinto mi porta lì. La televisione è un mondo affascinante e se penso a me in una dimensione televisiva mi viene in mente un’orchestra. Comunque mi vedo conduttrice e cantante». 

Ma se le offrissero uno show tipo il glorioso “Milleluci”?

«Di corsa».

E il Festival di Sanremo?

«In questo momento Sanremo è trasversale, è più importante, non è più soltanto una gara. È sempre un’opportunità ma lo è diventato ancora di più con Amadeus. Per andarci, tutto dipende dalla canzone: deve essere perfetta».

Fa sempre shopping per rilassarsi?

«Sempre. Vestiti, non spendo fortune, o banalmente la spesa. Ma clicco e compro. Amo fare la spesa, la scorta di roba da mangiare e da bere mi pacifica se sono po’ stressata».

Stefano Mannucci per il Fatto Quotidiano – Estratti mercoledì 27 settembre 2023.

Da qualche parte nel mondo c’è un uomo che, con buona certezza, sta dando capocciate al muro. Da almeno un anno. Lui, il protagonista di Bellissima, l’hit che ha aperto l’autostrada del successo per Annalisa. Per lei, un due di picche terapeutico. “Tutto vero. Non potrei mai scrivere una storia altrui. 

È un episodio preciso. Lo aspettavo, ma niente. Ero in tiro, al mio massimo, mi sentivo sicura. Non si presentò. Però la canzone mi è servita per elaborare lo smacco”. Come racconta nel testo, per il suo outfit di quella sera aveva scelto una leggendaria griffe made in Paris. Non è che fosse uno sponsor? “No, per me quel marchio è un simbolo di eleganza, una proposta è arrivata dopo. C’è molta Francia nei miei pezzi, un altro brano racconta di un crollo personale a Saint Tropez, durante la pandemia”.

Però ora le cose girano a mille: il nuovo album E poi siamo finiti nel vortice è una riuscita collezione di pop contemporaneo estate-autunno, e l’appuntamento live al Forum di Assago del 4 novembre (replica in aprile, tour a seguire) bastano per tenere sulla corda la reginetta delle classifiche 2023. “Mi sveglio di notte con l’ansia, il cervello gira come una lavatrice”, ammette. In un’agenda che scoppia ha trovato il tempo di sposarsi con un signore che ascoltava Guccini: “Adesso ha allargato i suoi orizzonti musicali. Prima sapeva chi fossi, non era esattamente un mio fan”. Si è convinto sentendola sotto la doccia? “Non canto mai quando mi lavo”, giura Annalisa.

Come sia, le sue nozze hanno inevitabilmente scatenato i gossippari. “La storia che io sia incinta è inventata di sana pianta. Una frottola che mette tristezza: come se fossimo così all’antica da rendere automatica e immediata una gravidanza solo dopo il matrimonio. I bambini si possono fare senza la fede al dito, o mai. Questo è un tema delicato: prima di sparare sciocchezze simili bisognerebbe pensare a chi ha difficoltà a restare in dolce attesa. Non parlo di me”. 

Sono tempi oscuri: mentre in Mon Amour la savonese ha messo giù un giocoso racconto di baci fluidi (dopo aver dichiarato che sì, in adolescenza aveva avuto un flirt con un’altra ragazza), ci sono colleghi che urlano “frocio” dal palco a uno sconosciuto. “Stendiamo un velo pietoso. Certi atteggiamenti non si giustificano mai, men che meno sul piano artistico. Gentilezza ed empatia sono grandi forme di intelligenza. Il disprezzo è per definizione stupido”.

(...)

Intanto è nel frullatore, e da control freak soffre: “Sono girovaga, non so mai dove siano le mie cose. Se a Savona a casa dei miei, o nel mio appartamentino, nel mio appoggio-studio a Milano, a Genova da mio marito. Apro la valigia, non trovo i miei vestiti e li ricompro, finisce regolarmente così”. Di cambi d’abito potrebbe avere bisogno se le voci che la vogliono a Sanremo (come spalla di Amadeus fuori gara o da concorrente) dovessero diventare realtà. In estate ha incontrato il vate del rock nazionale. Chissà se… lei nicchia: “Per andare all’Ariston mi servirebbe la canzone perfetta”. Incontentabile Annalisa.

Da adnkronos.com 26 settembre 2023

Dopo un anno di successi clamorosi, il 29 settembre arriva l'album e poi il debutto al Forum e il tour nei palazzetti. Ma in mezzo, il pensiero va al festival: "Solo se trovo la canzone giusta da sottoporre ad Amadeus"  

"Oltre all'intuizione artistica, che è stata una luce fondamentale, credo che il successo dell'ultimo anno lo devo a un cambio di atteggiamento altrettanto importante: non ho avuto paura di essere ambiziosa. Prima facevo fatica, perché la mia educazione al rispetto degli altri mi frenava un po'". Annalisa arriva alla pubblicazione del nuovo album 'E poi siamo finiti nel vortice', in uscita il 29 settembre, sulle ali di un successo clamoroso ottenuto nell'ultimo anno con i primi due singoli che hanno anticipato il disco: 'Bellissima' e 'Mon Amour'. 

Due brani che l'hanno consacrata regina dell'airplay e delle vendite, regalandole anche il record di prima artista donna a rimanere più di un anno in classifica, e ai quali si è aggiunto, due settimane fa, un terzo singolo, 'Ragazza sola', che è entrato subito tra i brani più trasmessi in radio.

L'album conta 12 brani, di cui Annalisa è coautrice, scritti prevalentemente insieme a quelli che lei chiama i suoi "due compari": Paolo Antonacci e Davide Simonetta. "I brani del disco rappresentano le varie fasi della vita che si ripetono ciclicamente, tra alti e bassi, salite e discese e che insieme creano il vortice. Ogni brano è una rappresentazione emotiva di una di queste fasi, di questi vortici. Poi c'è un brano, 'Indaco Violento', che è un po' la sintesi di questo concetto. 

Del viaggio attraverso queste fasi, perché a volte mentre insegui un obiettivo il tuo viaggio diventa qualcosa di diverso, l'orizzonte diventa più ampio e finisci in posti dove non avresti mai immaginato. Che poi è un po' quello che è successo a me negli ultimi due anni", sorride.

Quando le si chiede di rintracciare il big bang da cui è nato tutto, Annalisa non ha esitazioni: "Quando sono entrata in studio ed è nata 'Bellissima'. Questo pezzo risale a fine agosto, inizio settembre 2021. È il primo nato di questo disco. Quel giorno ero molto positiva, avevo voglia di scrivere, di fare cose nuove. Era la prima volta che tornavo in studio dopo un bel po'. E con Paolo e Davide abbiamo pensato ad una cosa che ci ha aperto un mondo: unire due aspetti legati al mio percorso discografico. 

Da un lato la mia vocalità, le melodie e l'uso delle parole nella tradizione della musica italiana e delle icone femminili della musica italiana, e dall'altro lato le sonorità elettropop che riecheggiano gli Anni '80 e che sono le mie preferite. Nel fare questo esperimento, come d'incanto, è nata 'Bellissima', davvero in due ore. Abbiamo capito immediatamente che c'era qualcosa di magico. e che sarebbe stata una canzone importante", confessa.

Ma non si è fermato a 'Bellissima' l'anno d'oro (anzi multiplatino) di Annalisa. Perché pochi mesi dopo ha tenuto a battesimo un'altra superhit, 'Mon Amour': "Il successo di 'Mon Amour' è stato forse anche maggiore, perché eravamo già in corsa, illuminati, sotto i riflettori, mentre 'Bellissima' ha dovuto fare i conti con il principio di inerzia - dice Annalisa con una metafora che attinge alla sua laurea in fisica - 'Mon Amour' mi ha veramente stupito. Avevo anche una certa ansia da prestazione, perché riuscire a fare una canzone che potesse bissare il successo di 'Bellissima' non era facile, non ci speravo. Mi ha stupito sia la partenza immediata del pezzo che il fatto che sia durato tutta l'estate".

Un successo professionale che è andato di pari passo con un traguardo privato importante, perché Annalisa quest'estate ha anche sposato il suo compagno Francesco Muglia: "Un'estate da incorniciare", sorride. 

Ma dopo una breve pausa di festeggiamento, la cantautrice di Savona è tornata subito al lavoro: "Nemmeno un attimo per capire bene cos’è/perché poi siamo finiti dentro il vortice felici/ è così bello", proprio come canta nella title track. 

Ora il vortice la porterà in tour, con un'anteprima il 4 novembre che segnerà la sua prima volta al Forum di Assago ed è già sold out: "Ci stiamo già lavorando con grande passione e impegno. Abbiamo una gran voglia di essere già sul palco. Per me il 4 novembre sarà indimenticabile e sarà una sorta di antipasto di quello che poi succederà nei palasport ad aprile. Cosa devono aspettarsi i miei fan? Devono aspettarsi di ballare ma anche di emozionarsi. Che poi sono le mie due anime".

Infine, Annalisa non si sottrae all'immancabile domanda su Sanremo, che scaturisce da uno sguardo al calendario live, dove dall'anteprima di novembre si passa direttamente ad aprile. Hai lasciato un brano per Amadeus fuori dal disco che esce venerdì? "Ho scritto molto per questo disco e quindi qualcosa fuori è rimasto. Però bisogna mettere insieme le idee e capire se c'è la canzone giusta. Ovviamente un pensiero a Sanremo ce lo fanno tutti e ce lo faccio anche io, perché il festival è sempre più importante, però dipende tutto dalla canzone. Si vedrà", dice senza ipocrisie.

La “ragazza sola” Annalisa: «La mia vita tra musica e fisica si ispira al principio di Heisenberg».  ANNALIA VENEZIA su Il Domani il 27 settembre 2023

«È cambiata solo la mia consapevolezza, dentro sono la stessa», dice la cantante. Eppure la ragazza coi leggings maculati di quattro anni fa ha lasciato il passo a questa donna in giacca blu protagonista dell’estate, tra classifiche in cui primeggiava anche rispetto ai colleghi uomini (una rarità)

Quando incontro Annalisa Scarrone, 38 anni, all’ultimo piano del palazzo della casa discografica Warner, a Milano, percepisco tutta la sua concentrazione. Nulla a che vedere con le occasioni più disimpegnate in cui ci siamo incontrate nei mesi scorsi, come la festa del primo disco di Rose Villain e il brindisi di Tananai dopo un concerto. Venerdì esce il suo ottavo disco E poi siamo finiti nel vortice, dodici brani di cui tre già grandi successi come Bellissima (54 milioni di stream su Spotify), Mon Amour (60 milioni) e Ragazza Sola, uscito da pochi giorni e già in vetta alle classifiche.

Questa è la terza intervista che facciamo insieme, ma sento che c’è qualcosa di diverso rispetto al passato, anche se lei nega: «È cambiata solo la mia consapevolezza, dentro sono la stessa». Eppure la ragazza coi leggings maculati che avevo incontrato qui un inverno di quattro anni fa ha lasciato il passo a questa donna in giacca blu protagonista dell’estate, tra classifiche in cui primeggiava anche rispetto ai colleghi uomini (una rarità) e il matrimonio a luglio col manager Francesco Muglia.

Un aggettivo per questo periodo?

Intenso e bellissimo allo stesso tempo.

Che cos’ha imparato?

Odio le incertezze. Quando ho mille preoccupazioni e non so che cosa accadrà domani, rischio di impazzire. Così ho imparato ad anticipare gli imprevisti. Nel lavoro, e nella vita in generale.

E come si fa?

Non dormo la notte per riuscirci.

Controllare tutto è difficile. Per questo si è laureata a in Fisica?

I numeri mi danno tranquillità. Quando mi sento sopraffatta dalle circostanze cerco appiglio nelle statistiche. È come sentirmi più vicina alla verità.

I numeri di quest’estate sono stati tutti dalla tua parte. L’unica donna della musica ad arrivare così in alto nelle classifiche. Con due pezzi, Mon Amour e Disco Paradise con Fedez e J-Ax. Quale dei due l’ha resa più orgogliosa?

Chiaramente Mon Amour, è mia e scelgo lei. Non era nata come canzone dell’estate, era uscita a marzo e non mi aspettavo che sarebbe stata tanto in classifica. Ma Disco Paradise è una collaborazione amata e voluta.

Avrebbe potuto scegliere di collaborare con chiunque e ha scelto loro. Perché?

Seguo l’istinto. Avevo già fatto cose con J-Ax e Federico e mi ero trovata bene. Per me è fondamentale sentirmi bene nei progetti. E poi sono fan di J-Ax fin da bambina, quando cantavo Tranqi Funky.

Quindi la musica c’è da sempre?

Per me la musica è desiderio, passione, fuoco. Mi sono sempre immaginata a fare ciò che sto facendo oggi e mi sento tanto fortunata per esserci riuscita.

È l’unica artista che conosco laureata in Fisica però.

Mi piaceva studiare e ho scelto una laurea che mi affascinava.

Mi dica la sua legge della fisica preferita.

Sia in fisica sia in matematica ci sono princìpi che ritrovo nella vita. Mi piace il principio di indeterminazione di Heisenberg. Afferma che non è possibile determinare contemporaneamente e con precisione due variabili coniugate. Mettiamola così, nella vita non si può sapere con precisione quello che succede in un determinato momento se sei concentrato a fare altro.

Lei c’è riuscita. Quest’estate ci ha fatto cantare Mon Amour  – «Ho visto lei che bacia lui che bacia lei che bacia me» – e poi ha fatto contenta la ministra della Famiglia Roccella, sposandosi.

(Ride). Il matrimonio è un’esperienza che volevo fare. Non sono religiosa, ma per me ha un grande significato. Volevo vivere un momento intimo con le persone che amo. Per una volta tutti insieme.

C’è riuscita?

Sì. L’ho sempre immaginato così com’è stato.

Due anni e mezzo fa mi aveva detto che in una relazione a due conta essere liberi stando insieme.

(Ride) Brava. E in quel momento non era così (con l’ex, ndr).

E poi che il tratto che la caratterizzava fosse l’indipendenza.

Risposta sempre attuale, con alcune modifiche.

Per essere una che pondera tutto, che cosa l’ha spinta a dire sì?

(Incrocia le braccia). La sensazione di non essere né trainata, né trainante. Cioè di poter essere (con lui, Francesco Muglia il marito che non cita mai, ndr) esattamente come sono da sola. Libera, insieme.

È vero che Bellissima – da un anno ancora in classifica – è dedicata al suo attuale marito?

Bellissima è venuta molto prima di questa mia fase felice della vita. La svolta è stata provare a raccontarmi con meno filtri. E usare le frasi nel testo come quando parli, in modo più diretto. Cantare il parlato.

Quindi è stata propedeutica a ciò che sarebbe accaduto dopo.

(Ride, finalmente). Sì. Devi essere tu diverso perché succedano le cose. Devi essere più pronto e aver chiuso dei capitoli, essere più consapevole. Senza rinnegare il te del passato. Lo racconto in questo disco, quando a un certo punto sei pronto per un nuovo giro nel vortice.

È ancora insicura?

Sì, ho tante fragilità. E ho continuo bisogno del confronto.

Non sembrerebbe.

Ho messo la mia immagine al servizio delle canzoni e quello che mostro nella copertina di un singolo, o sul palco, non è ciò che sono nella vita.

Chi la rassicura?

Loro (guarda la manager e l’ufficio stampa). Mi serve la squadra. Ho tante idee ma ho bisogno di condividerle per crederci. Di sentire la fiducia negli occhi di chi lavora con me.

Un esempio?

La parrucca indossata nel video di Mon Amour. L’idea è stata mia ma ho avuto bisogno che uno di loro mi dicesse «che figata» per andare avanti.

Quali sono i commenti negativi che la feriscono?

Hanno tutti a che fare coi pregiudizi che riguardano le donne. Qualcuno ancora non comprende che dietro una canzone apparentemente divertente e leggera può esserci un messaggio.

Aveva detto: «Essere sexy e farsi prendere sul serio non sono concetti opposti, ma nel nostro mondo maschiocentrico, è ancora così».

Lo penso ancora.

Per un artista uomo è diverso?

Sì. Gli uomini non devono mai dimostrare di fare musica impegnata per essere considerati validi artisti. Se sei donna e fai musica leggera, che fa ballare e divertire, per molti ti fermi lì. Che poi, anche se fosse, anche se ti fermassi lì, può essere. Ma ti etichettano e ti puntano sempre un po’ il dito. Come donne abbiamo ancora tanta strada da fare. 

Come è accaduto ora a Elodie, che si è mostrata nuda nel suo ultimo video.

Esatto. Il mio look non deve distogliere l’attenzione da quello che dico. Eppure è ancora così.

Una qualità che le piace di Elodie?

La sua grande fiducia nello stare sul palco. L’ammiro da questo punto di vista.

Ha più donne o uomini collaboratori?

Entrambi, ma le donne sono la forza della mia squadra. Potersi confrontare, anche intimamente, è fondamentale.

Donne nella musica: che cosa le piace di Laura Pausini?

Vocalità incredibile.

Di Fiorella Mannoia?

È granitica. Quando canta parla. Ha un modo essenziale e profondissimo che coinvolge ed emoziona.

E della sua amica Alessandra Amoroso?

L’espressività anche mimica, dote rara.

Anche lei è uscita dal talent Amici molti anni fa. Come siete riuscite a essere ancora complici?

In superficie possiamo sembrare diverse ma siamo molto simili nel profondo. E siamo simili nelle relazioni, perché genuine. È davvero importante lei per me, nel mondo in cui ci muoviamo. Mi sento sempre sostenuta e spero di fare lo stesso con lei.

Qual è il regalo che si è fatta dopo tanto successo?

Io faccio shopping curativo, piccole cose, spesso. Quando sono stressata mi basta comprarmi una cosina, magari di notte sul sito di Asos, e non penso più ad altro. E poi amo tanto fare la spesa al mercato.

Non girano foto di lei.

A Genova, dove passo gran parte del mio tempo, tanti mi vedono ma pochi mi fermano. Ho fatto delle foto con quelli dei banchi del mercato. Però è vero, non ci sono foto di me mentre scelgo le mele. Noi liguri siamo fatti così, per fortuna. ANNALIA VENEZIA Giornalista.

Annalisa: «"Bellissima" nasce da un due di picche che ho preso. La laurea in fisica la mia marcia in più». Renato Franco su Il Corriere della Sera l’8 Aprile 2023

La cantante: «Una volta mi sedetti vicino a un noto cantante, ma lui si spostò per chiacchierare con qualcuno di più "interessante"». Esperienza: «Ho cantato a sagre, matrimoni, in localini piccolissimi con 4 gatti, in birrerie marce»

Bocciata due volte ai talent e poi seconda ad Amici, cinque Festival di Sanremo (con un terzo posto), sette album alle spalle, l’ultimo singolo (Bellissima) certificato doppio platino (e 25 milioni di streaming su Spotify), il primo Forum di Assago il prossimo 4 novembre. Per Annalisa (Scarrone, 37 anni) la musica è stata un obiettivo, la laurea in fisica un momento di passaggio.

Che se ne fa adesso della laurea?

«È una di quelle cose che rifarei subito, perché è stato un training di vita, una volta che raggiungi un traguardo così ti senti di poter fare qualunque cosa. Almeno io mi sono sentita così. E poi sono sempre stata curiosa, amante della scienza e degli esperimenti, anche un po’ nerd, quella vena un po’ pazza ce l’ho nel sangue».

Come è stata l’università?

«Alle superiori spiccavo, ma lì mi sono resa conto che c’era gente con cervelli mica da scherzare. Mi sono fatta un mazzo incredibile, è stata durissima, ma alla fine la sensazione è stata questa: adesso posso fare qualunque cosa. Quell’esperienza mi è servita per tornare ad avere il coraggio di tornare ai provini, di farmi vedere dopo le bocciature a X Factor e Amici (la prima volta). Presa la laurea ho detto ai miei: adesso mi date un anno e faccio solo quello che voglio io, vediamo come va a finire».

È finita bene, ma era cominciata male. Bocciata prima ai provini di «X Factor» e poi a quelli di «Amici».

«Quelle porte in faccia, quelle delusioni, le ho vissute come un appuntamento andato male, come la fine di una storia perché per me la musica è una compagna di vita. Mi sono lasciata andare, ho pianto, sono uscita a divertirmi, ho provato a cambiare qualcosa del mio stile e del mio aspetto. Ogni delusione ti trasporta in un limbo che ti aiuta alla ricerca di te stesso: provi a capire, poi ignori, poi te ne freghi, poi stai di nuovo male, un giorno ti svegli e sei pronta a riprovare».

È quello che canta anche nel brano appena uscito, «Mon Amour».

«Perché per ripartire ci vuole tempo, devi essere pronta e allora nell’attesa sospendi te stessa in una sorta di limbo, finché non ti ritrovi».

Parla di un amore finito.

«Sì, ma in tutte le mie canzoni ci sono diversi strati di profondità. Si può trattare della fine di una relazione e di quello che succede dopo una delusione sentimentale. Ma vale per tutto. Anche per la vita in generale, per un progetto in cui riponi energia, fiducia e volontà e poi le aspettative rimangono completamente deluse. Sono i cicli della vita. Fallimento. Ripartenza. Altra delusione. Cambiamento. Evoluzione. Un ciclo che si ripete».

È una canzone autobiografica?

«Sì. Come tutte le cose che faccio perché non sono in grado di cantare cose che non mi appartengono, che non raccontano il mio vissuto».

In amore è una che lascia?

«Mi è successo tante volte di essere io quella che abbandonava la relazione, quella che lasciava, ma io sono anche quello che ho raccontato in Bellissima, che considero il primo capitolo di questo film musicale. Quella canzone racconta il non essere compresa, l’essere ignorata. Racconto di questo appuntamento in cui riponevo speranze, in cui mi ero proposta al meglio delle mie possibilità e poi l’incontro non si è verificato. Il classico due di picche».

Chissà perché tendiamo sempre a immaginare che ai famosi non capiti...

«Quella volta proprio fu un due di picche a priori».

Neanche l’opportunità del primo appuntamento?

«Nemmeno quello. Fa parte forse del mio carattere, io faccio molta fatica ad aprirmi, a farmi comprendere, ma contemporaneamente è una cosa a cui tengo molto, però tendo a rimanere sempre indietro. Mentre ho voglia di essere compresa dal pubblico per la mia sfera musicale, molto spesso non ho voglia nel privato di farmi comprendere, a volte mi sembra ingiusto dover essere io a fare uno sforzo».

È realizzata professionalmente, ma a tutti manca sempre qualcosa: a lei?

«È così, mi manca sempre qualcosa; è una sensazione che mi accompagna di continuo, sono contenta dei traguardi ma quando arrivano è diverso da come me li aspettavo».

E dal punto di vista personale cosa le manca?

«Faccio fatica ad impormi. Ho sempre paura di ferire i sentimenti degli altri e poi succede che nel momento in cui non ce la faccio più è molto peggio. Vorrei essere più dritta in situazioni scomode, che poi sono io a far diventare ancora più scomode».

Sfoga le delusioni in acquisti compulsivi...

«Sì, ma siccome conosco questo mio tallone d’Achille faccio acquisti poveri, non sette borse da mille euro l’una, ma cose banali, vestiti da poco, la macchina per il caffè su Amazon... Anche fare la spesa mi fa sentire meglio, uscire e andare al supermercato mi piace tantissimo».

Il giorno da rivivere?

«Quando sono entrata ad Amici (la sua seconda occasione arrivò nel 2011), perché mi ricordo nitidamente che quello è stato un momento emblematico della mia vita. Ho vissuto una felicità incredibile e mi piacerebbe riviverla anche per ricordarmi quanto poco avevo prima».

Vinse Virginio, il televoto non capì molto a vederla con gli occhi di oggi...

«Il televoto va rispettato sempre. Guardandomi indietro penso che se avessi parlato un po’ di più magari le cose sarebbero andate diversamente».

È vegetariana ortodossa?

«Non ortodossa, mangio il pesce, ma ho via via eliminato la carne. I miei nonni avevano gli animali, eravamo circondati da conigli, e questo aspetto mi ha sempre tormentato fin da bambina. Poi a un certo punto ho capito e da lì è stata una tragedia totale, così pian piano ho eliminato la carne. Non ce la faccio, per me quella cosa lì non è da mangiare. Vedo tanto spreco e poco rispetto, gli allevamenti intensivi sono orribili. Ma vivo e lascio vivere, penso che il problema — come in tutte le cose — sia l’eccesso».

Una ferita?

«Una volta mi sono seduta in un posto, di fianco a un cantante — non dico nemmeno se uomo o donna — e questa persona si è spostata subito per andare da un altro con cui immagino fosse più piacevole chiacchierare. Quel gesto mi ha ferito. Non mi piace essere sottovalutata».

Nella sua gavetta ci sono anche i matrimoni.

«Fieramente ho cantato a matrimoni, a sagre, in localini piccolissimi con 4 gatti, in birrerie marce. Ho fatto tutto. Tutto serve e fa curriculum».

Estratto dell’articolo di Roberta Scorranese per corriere.it il 25 luglio 2023.  

Preferisce essere chiamata Anna o Linda?

«Oggi sono per tutti, il mio vero nome. Vivo a Castelnuovo Scrivia, provincia di Alessandria e in paese pochi sanno che negli Anni Ottanta sono stata Linda Lorenzi». 

Valletta de «Il pranzo è servito» con Corrado, co-conduttrice di «Colpo Grosso» con Smaila e di «Festivalbar». Popolarissima prima di lasciare la tv, nel 1992.

«Ricevevo migliaia di lettere, molte di queste le conservo ancora. Ce n’è una particolarmente tenera, è di un ammiratore di appena otto anni». 

(...)

Però poi nel 1979 arrivò la svolta: Tony Binarelli cercava una assistente «maga».

«L’incontro più importante della mia vita. Tony mi ha insegnato a stare sul palco e ha voluto trasmettermi anche nozioni di prestidigitazione, che poi ho messo in pratica in numerose serate, da sola».

Come capitò «Il pranzo è servito?»

«Corrado mi aveva notata e mi chiese di affiancarlo. Così si materializzò la popolarità vera. Lui era un uomo difficile ma di grande educazione, rispettava tutti. Mai uno sguardo fuori posto, al massimo battute sarcastiche. Una volta allungai i capelli con le extension e lui mi disse: “Linda, ma che concime te sei messa in testa?”». 

Perché Corrado aveva scelto lei?

«In verità, anni dopo, Silvio Berlusconi mi confessò che a scegliermi era stato Pier Silvio, all’epoca poco più di un bambino. A colpirlo, disse il dottor Berlusconi, era stata la mia grande umanità. Quel giorno al provino avevo la febbre, forse l’ho impietosito!» 

Anna, lei era bellissima, con un corpo perfetto. Negli Anni Ottanta c’erano tante forme di esibizione del corpo femminile, oggi molto meno scontate. Le hanno mai fatto offerte particolari?

«Mi proposero 200 milioni di vecchie lire per fare i fotoromanzi porno. Dissi di no».

Però accettò un nudo integrale su «Playboy».

«Prima mi accertai che non ci fossero pose particolarmente volgari. Quindi Tony mi rassicurò dicendo che le foto le avrebbe scattate suo fratello Alessandro, peraltro con uno pseudonimo poiché all’epoca collaborava con Famiglia Cristiana. Quindi lo dissi a papà, qualche giorno prima che il servizio uscisse. Fece una scenata tremenda, temeva il giudizio del paese. Poi gli lasciai la copia sul tavolo ma si rifiutò di sfogliarla. Anzi, per dirla tutta, quando vedeva me in televisione cambiava canale. Altri tempi». 

Anche perché lei sarà stata assediata dai corteggiatori. Vogliamo qualche nome.

«Maurizio Costanzo, una corte leggera. Ma sono passati tanti anni. Poi io mi fidanzai molto presto con quello che è ancora mio marito, Marco Foroni. Quando il dottor Berlusconi mi invitò a passare il Capodanno ad Arcore, ci andai con Marco. E ci tengo a dire che c’erano anche Veronica Lario e le mogli di Confalonieri, Pillitteri e di tutti i convitati. Berlusconi, per come l’ho conosciuto io, è stata una persona squisita».

È vero che anche Bettino Craxi, all’epoca Presidente del Consiglio, la invitò nella sua villa ad Hammamet?

«Sì e ad accogliere me e altri personaggi del mondo dello spettacolo c’era anche sua moglie, Anna. Il ricordo di quel fine settimana? Io, Bettino e altri amici della televisione e del cinema che sorseggiamo un tè alla menta nel centro storico della città». 

Perché lasciò «Il pranzo è servito»?

«Volevo tornare a Milano, ritagliarmi uno spazio più consistente. Mi misero al Gioco delle coppie, ma fu come sparire, perché dicevo due parole in croce. Io, nel corso degli anni, avevo studiato dizione, portamento. Volevo qualcosa di più. E pensare che l’occasione della vita me la sono lasciata scappare con leggerezza imperdonabile».

Racconti.

«Un giorno mi chiamò una donna presentandosi come l’assistente di Federico Fellini. “Il maestro desidera incontrarla”. Non era uno scherzo. Raggiunsi Fellini a Cinecittà e trascorremmo due ore abbondanti nella sua roulotte a parlare di magia. Lui era interessato a questi temi e mi invitò a partecipare ai casting, imminenti in quei mesi, del suo film La nave va. Io ci riflettei a lungo e mi dissi: non ho mai fatto cinema, sarei una macchietta. E così non partecipai. Tony Binarelli mi rimproverò, dicendo che il maestro avrebbe certamente trovato un ruolo anche per me. Pazienza». 

Poi il Festivalbar del 1992, con Gerry Scotti.

«Doveva essere un trampolino di lancio, ma finì tutto poco dopo. In tv non c’erano più parti per me, nessuno mi chiamava più. Con Marco decidemmo di aprire un ristorante a Ibiza, siamo rimasti lì per anni, è stato bellissimo riporre nell’armadio abiti aderenti e paillettes per indossare camicioni e gonne lunghe. Mi sono sentita libera e, poco alla volta, ho dimenticato la televisione. Oggi ho sessantadue anni, vivo nel paese dove sono nata, vado a messa ogni sera e recito il rosario tutti i giorni, anche più volte al giorno. Sono grata a Dio anche perché ho rischiato la vita ma mi sono salvata». 

(...) 

Molto in salute, visto il suo profilo Instagram e le decine di migliaia di follower.

«È bellissimo, sa? Grazie all’affetto di chi mi segue non sono una di quelle che farebbe di tutto per tornare in televisione. Oddio, se arrivasse una bella proposta... Sogno di trasferirmi in Salento con mio marito e di trascorrere lì la vecchiaia con i miei sei gatti e il mio cane. Il massimo, no?».

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “Il Messaggero” domenica 27 agosto 2023.

[…] Anna Falchi […] dall'ingresso al tavolino si guarda intorno, capisce subito che a 51 anni fa sempre un certo effetto, si siede, ordina un caffè e quando le chiedo di presentarsi per quella che è oggi, non perde tempo. «Sto vivendo una seconda giovinezza. Non sento l'età che ho e sono felicemente single da due mesi (il suo ultimo compagno era l'esperto di comunicazione Walter Rodinò, ndr), cosa che non mi succedeva da anni. Ma non parliamo di ex, per carità». 

Quale è la magagna? Cosa si inceppa nelle sue storie?

«Si spegne la fiamma. E allora meglio stare da soli. Quest'estate me la sono goduta con mia figlia Alyssa: abbiamo fatto una vacanza selvaggia a Palma di Mallorca, in Spagna, in mezzo alla natura e senza pensare a niente». 

Il tempo che passa la spaventa? Teme di perdere un po' del suo potere seduttivo?

«Per niente. Sono una continua seduttrice, solo con più consapevolezza, maturità e ingegno. Ci sarà qualcosa di positivo nell'invecchiare...».

Su Rai2 dal 18 settembre sarà per la terza stagione consecutiva alla guida del programma mattutino "I fatti vostri": diventare rassicurante è stato difficile per un personaggio supersexy come lei?

«Per me questo percorso è cominciato dopo il clamore del matrimonio con Stefano Ricucci, quando non mi hanno più fatto lavorare e, dal 2007 in poi, sono stata costretta a fare una seconda gavetta. Sono ripartita da zero». 

Come?

«Facendo le feste di piazza, esperienza che mi ha insegnato a gestire il palco davanti a migliaia di persone, e conducendo show nelle piccole tv locali, dove mi sono occupata anche di calcio e cucina. Oggi sono rassicurante perché sono me stessa: una donna normale. Un'antidiva». 

Forse oggi, per il passato non si direbbe.

«Ero troppo di tutto, è vero. Ma ero giovane, e questo deve aver colpito giganti come Federico Fellini, Dino Risi, Marco Risi... Si parla di me solo per i miei ex - Fiorello, Max Biaggi, Stefano Ricucci - ma io ho fatto film con maestri che forse erano attratti solo dal mio aspetto fisico ma qualcosa l'ho combinata. Ho un bel curriculum, io».

I suoi ex erano tutti molto esposti, doveva aspettarselo.

«Certo, ma è passato tanto tempo, è roba caduta in prescrizione.

E poi non li ho mai scelti perché importanti. Per Ricucci ho subito una gogna mediatica violentissima. Non l'ho scelto io di passare dalle cronache dello spettacolo a quelle della finanza e della giudiziaria». 

Il suo ex marito fu il promotore di manovre finanziarie spericolate con tanto di condanne, patteggiamenti e cancellazione della pena per indulto: non ha niente da rimproverarsi?

«Sì. In quel periodo, dopo una vita passata a lottare per lavorare e guadagnare, pensavo di aver trovato un uomo che finalmente mi proteggesse. Per lui ero disposta a tutto, anche a rinunciare alla carriera». 

Come Grace Kelly per Ranieri di Monaco...

«Mia madre quando mi accompagnò all'altare mi disse: "Finalmente non dovrai più combattere ". Si sbagliava lei, mi sbagliavo io». 

Voleva fare Lady Finanza?

«Mi dipinsero così in maniera assurda. Volevo soltanto stare vicino al mio uomo. Purtroppo dopo realizzai che voleva una compagna di rappresentanza». 

[…] 

Non è una di quelle che dice "oddio quanti problemi mi ha dato la bellezza", vero?

«Non scherziamo: mi ha dato tutto, compresi cinque calendari.

Forse troppi. Il primo, però, con le foto di Marco Glaviano era bellissimo. Era il 1996».

Perché solo un anno prima, nel 1995, si rifiutò di posare per il grande Helmut Newton?

«Per il mensile Max dovevo fare una foto a seno nudo per un poster a grandezza naturale. In studio a Monaco, però, lui mi vede e subito mi dice: "I want to see your pussy". Io per lo stesso motivo avevo già detto no a Tinto Brass, così me ne andai. Lui non la prese bene». 

D'istinto se le chiedo chi deve ringraziare che nomi fa?

«Federico Fellini e Marco Risi per il passato, Serena Bortone e Stefano Coletta per il presente. Lei mi ha presentato lui che nel 2020 mi ha fatto tornare a lavorare in Rai». 

A "I fatti vostri" quest'anno lavorerà con Tiberio Timperi. In Rai si dice che lui spingesse per avere al suo fianco la collega Ingrid Muccitelli, conferma?

«No comment. A me piace la sua ironia, così come piaceva molto Salvo Sottile. Certo, avrei voluto sapere prima che andava via». 

[…] Dalla lista delle rivincite ha iniziato a spuntare qualche nome?

«Certo, ma non le dirò quali. E non è finita, ce ne sono ancora un bel po'».

L'errore più grande che ha fatto?

«Il matrimonio. Avevo sempre detto che non mi sarei sposata e invece... A 33 anni pensavo di cambiare vita, ma il mio karma è combattere e sudarmi tutto ogni giorno». 

Il difetto che non è ancora riuscita a correggere?

«Sono una maniaca ossessivo-compulsiva della pulizia. È difficile stare con me. Per questo sono contraria alla convivenza». 

Lei e Pierluigi Diaco siete amici da tempo: è vero che - lui gay, lei single - nel 2009 avevate fatto un patto per avere un figlio? E poi, com'è andata?

«Eravamo entrambi soli e abbiamo avuto questa idea. Lo dicevamo sul serio». 

Ci avete provato?

«No. È rimasto un pensiero».

Diaco è molto amico del premier Meloni: lei la conosce?

«Sì. Me l'ha presentata Pierluigi». 

Durante le serate passate a cazzeggiare di cui ha parlato Diaco tempo fa?

«Sì. Serate molto divertenti. Da donna sono orgogliosa di lei: ha un'intelligenza superiore alla media e io l'ho sempre votata, anche quando si presentò per diventare sindaco di Roma». 

Ha sempre detto di usare il suo corpo come uno strumento di lavoro: il politically correct le ha fatto cambiare idea?

«Confermo tutto, detesto il politically correct. È una moda che aborro. Sono per la libertà di pensiero».

Ha scaricato il libro del generale Vannacci "Il mondo al contrario"?

«No, ma lo prenderò sicuramente di carta. Sono molto curiosa». 

Del suo ex marito si ricordano anche per una serie di battute molto colorite...

«Tutte intercettate al telefono, con il quale chiunque parla in maniera diversa dal solito, un po' da bestie a volte...».

Ce n'è una che conoscono tutti e parla di quelli che si fanno forti di azioni che poi pagheranno altri: ne ha incontrati tanti così?

«No. Ma di sicuro in quel periodo qualcuno di loro mi girava intorno e non me ne sono accorta».

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” lunedì 14 agosto 2023

Rimini d’estate è da sempre uno dei luoghi d’elezione perla musica leggera. Una capitale della musica estiva che quest’anno ha scelto la sua regina: Anna Falchi. L’attrice, romagnola doc, sarà la madrina e la conduttrice degli eventi di Rimini in Musica con una serata speciale, a fine agosto, dedicata all’elezione del miglior videoclip dell’anno con la giuria presieduta da Pupi Avati. 

«Sono sempre particolarmente felice di rimanere legata alla Romagna che rappresenta una parte delle mie origini e il territorio dove sono cresciuta», ci dice Anna Falchi. «Quest’anno poi ci tengo in maniera speciale ad aderire alle iniziative per promuovere la mia terra, in particolare dopo quello che ha subito e sta ancora subendo come conseguenza dell’alluvione. Abbiamo la casa di famiglia in Romagna, mio fratello è nato a Rimini e anche il papà di mia figlia è romagnolo».

Anna, la sua è una presenza che resta luminosa negli anni. Ma ce lo conceda, a parte l’anagrafe non si è accorto nessuno che lo scorso anno ha superato i 50. Dove li nasconde?

«Non penso mai all’età anagrafica. Come spirito, al di là dei complimenti su come uno se li possa portare, sono una persona molto giovanile dentro, forse anche per il fatto di avere una figlia giovane che mi fa restare, come dire, sul pezzo (sorride, ndr)». 

(…) 

A proposito di musica, parlando con lei è impossibile non citare Sanremo. Le piacerebbe tornare di nuovo all’Ariston?

«L’ho fatto in una delle edizioni condotte da Pippo Baudo. Fu semplicemente indimenticabile. Il Festival resta il mio primo grande amore. E certamente mi piacerebbe tornarci, perché negarlo?»

Quell’anno ha condiviso il palco di Sanremo con Fiorello all’epoca suo fidanzato. Nella stagione tv appena conclusa ha condiviso il palinsesto della mattina di RaiDue ancora con Rosario. Vi portate fortuna a vicenda?

«Ha trovato un parallelo particolare per farmi la domanda di sempre! (ride, ndr). Che dirle? Sono passati trent’anni, ognuno fa la propria vita. Io sono al terzo anno su RaiDue con I Fatti Vostri e non posso che essere felicissima della coincidenza fortunata che vede un artista così bravo e poliedrico sulla nostra rete. A livello professionale sono orgogliosa e mi fa piacere dirlo».

A proposito. È pronta a lavorare con un altro super bello come Tiberio Timperi a I Fatti Vostri. Cosa si aspetta?

«Con Tiberio ci conosciamo da tempo ma è la prima volta che lavoriamo insieme. Sarà tutto una sorpresa. A me le novità piacciono. Mi entusiasmano e mi incuriosiscono. Per cui sono assolutamente ottimista. Poi penso sia importante che in una trasmissione come la nostra nella quale ci occupiamo anche di cronaca e attualità, resti una figura autorevole, come era anche Salvo Sottile, che proviene dal mondo del giornalismo».

Lei invece viene dal cinema. Ha recitato in un cinepanettone dei fratelli Vanzina, SPQR, che ricordano tutti...

«È vero, è rimasto nell’immaginario collettivo e mi fa estremamente piacere. Quel tipo di commedie italiane molto pop mancano al cinema di oggi. Sono felice di averne fatto parte. Quando lo rimandano in onda ancora oggi mi scrivono sui social ed è molto piacevole». 

Alcune battute sul suo personaggio, Poppea, oggi sarebbero bloccate dal politically correct. Non trova?

«A me queste imposizioni del politically correct non piacciono. Le trovo molto forzate. Siamo arrivati al punto che non si può più dire nulla e mi sembra diventata più che altro una moda. Io poi, come le ho detto, sono anticonformista. Tutto quello che mi obbligano a fare non lo faccio». 

All’inizio le ho fatto una domanda sulla sua età. Sa che si parla anche di ageshaming?

«Sono tutte scuse per far parlare di sé e creare hashtag virali. Ma bisogna essere realisti. È come se io andassi a presentarmi a Miss Italia. Non me lo posso più permettere perché ho una certa... Però c’è una cosa che non mi piace: la discriminazione verso le donne che scelgono di stare con uomini molto più giovani. Tutti subito a parlare delle donne col toyboy. Peggio se poi fanno figli dopo i 40 anni. Mentre se un uomo di 80 anni si mette con una ragazza più giovane di 40/50 anni e fa figli, nessuno dice nulla. Quello è uno sugar daddy. Facciamolo girare un po’ di più anche questo termine....».

Cosa pensa, invece, della nuova Rai?

«Ne sono entusiasta perché mi pare questa nuova dirigenza abbia molta voglia di sperimentare anche volti e programmi inediti. Sono innesti che potranno fare solo bene alla tv pubblica rendendola più sperimentale e innovativa».

In questa estate di grandi cambiamenti. Qual è stato il colpo di “telemercato” che più l’ha colpita e perché?

«Beh sicuramente l’abbandono da parte di Fabio Fazio di quello che era un po’ il suo porto sicuro».

(…)

Anna Lupini per “la Repubblica” il 18 giugno 2023.

Dire che Anna Falchi è bella è una banalità. Vederla di persona, a 51 anni, in jeans e sneakers, permette di testimoniarlo ben oltre quello che si immagina. Ma colpiscono la personalità e la serenità che derivano dagli obiettivi realizzati, dall’amore con il compagno, dalla forza della famiglia. Sui vecchi amori non si sofferma. Meglio pensare al presente e al futuro, anche se dal passato emergono racconti inediti: come quando, arrivata a Roma, incontrava ogni pomeriggio Alberto Moravia. 

Prima di affrontare i ricordi parliamo d’amore, le va?

«Quello sempre, è il motore della vita». 

L’amore presente si chiama Walter Rodinò, esperto di comunicazione. Come le ha comunicato il suo interesse?

«In modo basico, attraverso gli sguardi. Incroci fatali agli incroci del quartiere. Per tanti anni ci siamo guardati, poi abbiamo iniziato a salutarci, poi un caffè... Tutto con calma, è bello per questo. Siamo insieme da un anno». 

(...)

Il suo primo bacio?

«Facevo la terza media, mia madre organizzò una festa. Iniziammo il gioco della bottiglia. Non sapevo nulla, il sesso era tabù. Primo bacio sulla guancia, secondo a stampo, terzo “la pomiciata”. Il ragazzino mi portò di là, chiusi gli occhi e sentii la lingua: mi fece molto schifo. Cos’era un bacio lo capii più in là... come si dice, “brava ma lenta”. Ero un po’ bigottina». 

Foto con Fiorello, in discoteca a 21 anni. Che storia è stata?

«Il primo amore. Ma non mi va di parlarne, per rispetto. Ogni volta ritirano fuori ‘sta storia, non è che rinnego: è stato un grande passione, ma difficile da vivere come personaggi pubblici».

Con Max Biaggi?

«Stiamo facendo un giro tra gli amori più famosi, ma sono completamente archiviati. Con Max ci sentiamo, è una cara persona». 

(...)

Stefano Ricucci quindi lo saltiamo...

«Vabbè, quello è mio marito. Si fanno sempre errori nella vita. Con lui sono passata dalle stelle alle stalle. Un vortice velocissimo». 

Ha sempre giocato con l’immagine, con il suo corpo. Ritiene di aver subito pressioni?

«Oggi non si può dire più niente. Mi rinfacciano di non essere politically correct, questo termine mi sta sul cavolo. Ho detto di aver usato il mio corpo come strumento di lavoro, e questo fa incazzare le donne. Ma a me non fa incazzare, faccio quello che mi pare. I calendari? Mi strapagavano, mi piaceva vedermi così, quando li rivedo dico “quanto stavo in forma”. Amen». 

Che mondo ha trovato quando ha iniziato la carriera?

«Arrivata a Roma ho conosciuto personaggi straordinari: Fellini, Risi, Vangelis, Irene Papas. E Moravia: facevamo delle riunioni negli uffici di una casa di produzione. C’erano lui, la moglie Carmen Llera e Tinto Brass. Avrei dovuto interpretare un film tratto da L’uomo che guarda. 

Ero una ragazzina venuta dalla provincia. Passavano i giorni, osai chiedere a Brass cosa avrei dovuto fare, non è che avessi questa gran cultura dei suoi film. Mi disse “metterò la macchina da presa sotto di te e tu ci farai la pipì sopra. L’ho fatto fare a tutte le grandi attrici”. Titubavo, e lui si arrabbiava, “l’ha fatto la Sandrelli”.

Se fossi nata con un film erotico sarei stata etichettata per sempre. Ho detto no, feci saltare in aria un progetto pensato su di me. E mangiavo tramezzini, per dire, avevo anche bisogno». 

Cinque calendari sono stati un buon investimento?

«Tornando indietro farei solo il primo, su Max, fotografato da Marco Glaviano». 

Molestie le ha mai subìte?

«Tutte le abbiamo subìte, e le subiamo ancora. Mai come in questo periodo mi capita di incontrare dei bei marpioni. La donna dello spettacolo è considerata effimera, ci sono donne disposte a tutto e altre no, l’uomo non riesce a distinguere».

Come affronta il passare del tempo?

«Non ci penso. Ricorrere al lifting? Ti scollano la pelle del viso, mi fa impressione solo l’idea. Invecchio? Pazienza, ce ne faremo una ragione. Se ti fai il lifting non sembri più giovane, sembri rifatta. È crudele quando ti dicono “sei ancora bella”, stanno facendo un paragone con quando avevi vent’anni. Ma chi te lo ha chiesto?».

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Dagospia il 3 Febbraio 2023. “Da Un Giorno da Pecora – Rai Radio 1”

La Meloni? “Sono una sua grandissima sostenitrice, l'ho votata, abbiamo degli amici in comune e quando eravamo entrambe single uscivamo spesso insieme a fare degli aperitivi. Se l’ho incontrata recentemente? No, sono solo pettegolezzi, da quando è premier non l’ho mai incontrata”. A parlare, ospite di Rai Radio1 a Un Giorno da Pecora, è la conduttrice Anna Falchi.

 Quand’è che con la leader di FdI uscivate insieme? “Quando nessuna delle due era fidanzata, ai tempi lei era ministra e ricordo che girava in scooter”. Avevate dei luoghi che frequentavate più spesso di altri? “Nessuno in particolare, andavamo a piazza Navona o a Campo de Fiori a bere vino bianco”. Che voto dà ai primi 100 giorni del governo Meloni? “Direi un otto e mezzo”.

A lei non hanno mai chiesto di scendere in politica? “In passato Marco Panella mi chiese di candidarmi coi Radicali, ma era moltissimo tempo fa, e io ero ‘ignorante’ per quanto riguardava la politica”. Parliamo di amore: da qualche tempo ha un nuovo fidanzato. “E’ un vicino di casa mio coetaneo, abitiamo nello stesso quartiere, lui è un poi’ il Dylan Dog del quartiere, in passato ci incontravamo casualmente al bar della nostra zona. Quando si dice che l’amore si trova dietro l’angolo”.

 E' innamorata? "Sì". Convivete? “No, viviamo in case separate, la convivenza ti distrugge, condividere lo stesso tetto, se ci si pensa, è un po’ contro natura…” Quindi non ha più intenzione di rifare quel passo…”Non credo, voglio esser libera dalle convivenze e non mi voglio risposare”.

Estratto dell’articolo di Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 13 febbraio 2023.

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Un altro amore della sua vita è poi la Lazio…

 «A volte giochiamo bene, altre volte perdiamo la “cazzimma”, come dicono a Napoli. Per me Sarri è un idolo. Ma restiamo sempre nella parte alta della classifica, eh».

 Per uno scudetto si rispoglierebbe?

«Diciamo che ormai ho dato. E poi mi sembra che puntiamo più alla Champions».

 Com’è che una ragazza con sangue mezzo finlandese e mezzo romagnolo finisce per tifare la Lazio?

«Tutto nasce da un episodio da ridere, in camerino a Luna Park. Mio fratello Sauro mi disse che sarebbero arrivati per un’intervista quelli “dell’anzianità”. Invece aveva sentito male, erano lì per la “lazialità”. Mi ritrovai con indosso una bandiera. I colori mi piacevano perché ricordavano la Finlandia. E poi c’era l’aquila, e io mi chiamo Falchi. Ma Sauro è romanista dalla nascita, è stato uno smacco per lui».

 Una donna, per giunta bionda, che parla con gli uomini di calcio…

«Ma no, mi rispettano. E poi mi destreggio abbastanza bene».

«Sexy», «hot», «bombastica»… così la definiscono, e la sua fisicità l’ha aiutata in carriera.

«Forse una forma di esibizionismo, sì, ma non rinnegherò mai nulla di quel che ho fatto. Ho giocato con il mio corpo, anche: uno strumento bellissimo che non dura per sempre. Poi mi sono evoluta. Non mi reputo una persona con intelligenza sopra la media, anzi, ma ho saputo sfruttare le altre capacità che ho acquisito, mi sono migliorata».

 Come si definirebbe?

«Posata. Nella vita quotidiana sono convenzionale, precisa e metodica. Una che ha saputo rimettersi in gioco».

 Come quando finì il suo matrimonio, dopo il famoso scandalo finanziario…

«Non sono il tipo da piangersi addosso e guardare al passato. Ma a tutti gli effetti fu quello un grosso stop per la mia carriera. Ho ricominciato veramente da zero. Ma la vita è così. Sono come tutte le persone del mondo».

 Prima viveva da star… oggi ha recuperato quel tenore di vita?

«No, no, io resto una che sfaccenda in casa in continuazione. Si figuri che a forza di mettere a posto mi sono rotta un tendine dell’anulare - stavo rifacendo il letto, non so come sia potuto succedere - e ho ancora la stecca al dito».

 Non ha una colf?

«Figuriamoci, pulirebbe sul pulito. Sono una maniaca della pulizia. È questo il mio equilibrio mentale: non sto mai ferma. Tranne ora che mi sono “divanata” per parlare con lei al telefono».

 Ha chiesto aiuto, per ricominciare dopo quello stop?

«No, non sono il tipo. C’è da dire che nessuno me ne ha offerto».

 Si è scritto che in questi mesi è però andata da Giorgia Meloni a chiederlo…

«Ho già smentito».

 Che siete amiche è vero.

«Sì, siamo amiche. Per un periodo ci siamo frequentate perché abbiamo amici in comune. Poi non abbiamo smesso di sentirci, ma lei era determinata ad arrivare e ha fatto la sua strada. Non avevo dubbi ci sarebbe riuscita. Lo dicevo in tempi non sospetti, che sarebbe diventata la prima premier donna. E sta facendo un ottimo lavoro».

 Cose che non si sanno di lei?

«Forse già si sanno, invece: per come la conosco io, non è proprio il tipo da montarsi la testa. Il giorno che è stata eletta, non so come, è riuscita a trovare il tempo di rispondermi».

 Si narra di vostre scorribande in motorino a fare aperitivi…

«Ah, sì, forse all’epoca aveva già lasciato Berlusconi. È una tipa “ganza”. L’ho sempre ammirata. Ha la forza e l’umiltà dei grandi».

Il successo rischia di far perdere la testa?

«Come dico sempre, pure il Papa va in bagno. Ma questo non lo scriva che è troppo osé».

 Sulle sue simpatie politiche non si era mai esposta…

«Negli anni però un po’ si era già capito, in base alle mie frequentazioni: si sceglie chi condivide le tue idee. Più o meno ho sempre votato per uno schieramento preciso in politica, anche se in fondo non ho mai scelto per il simbolo ma per le persone».

 Aspettative?

«Un governo che duri cinque anni, finalmente. E che si faccia sentire con un rapporto diretto con il popolo. Sarebbe bello si occupasse in primis di scuola e pure del welfare per le donne. Così che anche gli uomini siano coinvolti nella cura dei figli. Non mammi, ma papà. In Finlandia sanno come si fa».

È legata al paese di mamma, ne parla spesso. Parla il finlandese?

«Per niente, purtroppo. Ma ho grande rispetto per le origini».

 Papà si chiama Benito…

«È una pagina chiusa della mia vita. Non ho rapporti con lui».

 Ho notato che a ogni foto che pubblica su Instagram riceve un “like” da Matteo Salvini. «Deve essere il suo social media manager e non lui, figuriamoci. Una volta mi ha detto di essere un mio ammiratore».

 Il ministro dei Trasporti non lo conosce?

«L’ho conosciuto in tv quando era segretario della Lega. Un ragazzo con l’orecchino, esuberante, poi in ascesa. Ma l’ultima volta che ricordo di averlo sentito era quando gli feci i complimenti per la copertina di Oggi a petto nudo con la cravatta, qualche anno fa. Dissi che un uomo nudo era una buona notizia: perché sempre le donne?».

 Oggi lei conduce i Fatti Vostri con Salvo Sottile su Rai 2, tutti i giorni all’ora di pranzo.

«Siamo già stati confermati per la terza stagione. Abbiamo avuto un successo che nessuno si aspettava. Merito della squadra, e delle capacità di Giovanna Flora e Michele Guardì, che hanno avuto il coraggio di cambiare una trasmissione che compie 33 anni. Mi piace l’adrenalina della diretta di tutti i giorni».

 Progetti per il futuro?

«Un giorno, chissà, mi piacerebbe far qualcosa di solo mio. Una seconda serata, meno di un’ora, per tirare fuori le mie corde irriverenti… vedremo».

Anna Mazzamauro: "Tanti Fantozzi in politica. Meloni? Ecco cosa penso". Libero Quotidiano il 22 agosto 2023 

Anna Mazzamauro non è solo la Signorina Silvani. È una grande attrice «e uno spirito libero, come il vostro giornale di cui ho sempre amato il nome. Perché mi ci rispecchio». Indubbiamente il personaggio della Silvani l’ha resa riconoscibile al grande pubblico cinematografico dove ha imperversato dal 1975 al 1999, come coprotagonista dell’enorme successo che è stato la saga di Fantozzi, durata un quarto di secolo. Da anni ha ritrovato il teatro, la sua prima passione. Dove porta anche testi scritti da lei, come quest’ultima raccolta di memorie, pensieri, immagini, “creature” che è lo spettacolo Com’è ancora umano lei, caro Fantozzi, con il quale l’attrice romana, 85 anni il prossimo 1° dicembre, continua a girare l’Italia affascinando generazioni di spettatori di ogni età, senza distinzioni. «I personaggi di Fantozzi sono quasi dei cartoni animati con una loro fissità nel racconto». Sabato la Mazzamauro sarà ospite del Villammare Festival Film & Friends in Cilento. «Sarà un bel viaggio. La sera prima sarò con lo spettacolo a Salerno, poi torneremo a parlare di Fantozzi e della signorina Silvani a Villammare. I personaggi che sono stati per me e Paolo gioia, ma anche incubo».

La signorina Silvani per lei è stata più un’occasione o più una gabbia?

«Diciamo tutte e due. Se non fosse stata un’occasione non sarebbe diventata una gabbia. Con la Silvani ho coltivato una relazione strana di odio, amore, simpatia, antipatia maturati in oltre vent’anni di convivenza cinematografica. A teatro, ad esempio, mi ha impedito di fare la Medea. Se la immagina Medea che dice a Giasone: lei è una merdaccia schifosa? (ride, ndr)».

La signorina Silvani era un non bella che però piaceva. Lei come donna si sente bella, bruttina o un tipo?

«Io non uso mai il termine brutto, perché lo associo a qualcosa di volgare, sporco. Uso il termine atipica con l’alfa privativa alla greca. Io sono atipica».

Ma cosa pensa davvero Anna Mazzamauro del personaggio così tragicamente italiano di Fantozzi?

«Penso che Paolo abbia dato vita a una magia. Facendo sempre la commedia all’italiana ma con un’arguzia intelligente che lo ha contrapposto a certe pernacchie prodotte dal cinema italiano, non tutto per carità. E a degli attori barzellettari che pur di avere qualche risata in più devono scomodare ogni volta, maldestramente, il sesso. Poi per lavoro anche io ho partecipato ad alcune di quelle pernacchie e mi sono trovata a confronto con persone totalmente ignoranti che pensavano al cinema solo come mezzo di riconoscibilità e mai come arte».

Villaggio a parte che, lo ha detto lei più volte, non le è stato amico. Nel cast di Fantozzi ha coltivato qualche amicizia vera?

«Con Paolo non eravamo amici ma ottimi compagni di strada. Da parte sua ho avuto sempre un rispetto intelligente e recitare con lui, come spero anche per lui recitare con me, è stata una gioia che poi si è vista. Tanto che molto spesso andavamo a ruota libera, come nella commedia dell’arte. Quanto agli altri, che dirle, le sembrerà un paradosso, ma io credo che le vere amicizie non sono quelle delle persone che frequenti per tanti anni...».

Quanto c’è dell’Italia di Fantozzi nell’Italia di oggi?

«C’è ancora molto perché esistono ancora i ministeri. Glielo dico da figlia di una mamma che lavorava ai piani alti del Ministero delle Finanze. Una donna intelligentissima da cui ho raccolto molti elementi per raccontare la Silvani».

Il politico più fantozziano?

«C’è una bella concorrenza. Ma io non mi occupo di politica per scelta. Non amo la politica che si divide in destra e sinistra. A me piace osservare le persone. Non è che a destra ci sono gli imbecilli e a sinistra gli intelligenti o viceversa. Così i fantozziani stannno sia destra sia sinistra. Ma non è colpa loro. Quanto del meccanismo della politica che porta a un logorante inseguimento del potere».

Paolo Villaggio invece era più comunista col rolex o più semplicemente un radical chic senza partito?

«Ma sa che non abbiamo mai parlato di queste cose? Non so nemmeno se fosse davvero di sinistra. Di certo aveva il senso della misura nel giudicare gli altri. Gli piaceva non giudicare ma raccontare attraverso il giudizio».

Pochi lo sanno, ma lei è stata l’unica donna a interpretare a teatro Cyrano de Bergerac. Come le è venuto in mente?

«Io credo che il personaggio, a partire dalla parola stessa, possa andar sempre bene sia per un’attrice che per un attore. Per cui io non ho scelto ma io sono Cyrano. Non solo perché ho il naso lungo ma perché ho amato come Cyrano, ho combattuto, ho la spada, a volte sono ferita, a volte canto come Cyrano e allora ho pensato che bastasse indossare gli abiti teatrali di Cyrano per potermi muovere agevolmente. Anche il pubblico dopo i primi cinque minuti, superato lo stordimento nel vedere la Mazzamauro in abiti maschili, accettava tutto: me, i miei racconti e io mi appropriavo delle parole di Rostand come se fossero mie in maniera ancora più credibile di un attore che semplicemente interpretava la parte».

Giorgia Meloni, prima premier donna in Italia, ce la vedrebbe nei panni del romantico scrittore spadaccino?

«Anche lei è indubbiamente Cyrano. Molto spesso, nel vedere come si comporta, ho proprio pensato a lei come Cyrano. Con la spada tutti i giorni contro gli imbecilli. Questa donna che ha osato essere la prima nel suo campo, dicendo la verità e anche sbagliando. Cyrano sbagliava anche. È bello sbagliare ma sempre con la spada in man per massacrare la perfidia e l’inutilità politica. Per me la Meloni è Cyrano e a me piace molto. Non me ne frega che sia di destra odi sinistra. Mi piace lei come creatura». La cosa che oggi le manca di più? «La vita delle persone che ho amato. Chiamiamola nostalgia. Il concetto di morte non riesce a entrare ancora nella mia testa. Dico per la morte quello che Prevert diceva per la guerra: è proprio una coglionata. Mi consola solo che non c’è un’età precisa in cui si muore. Chi le dice che io non possa morire a 200 anni?».

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 10 luglio 2023.

Una vita da signorina Silvani, con ironia. «Sono talmente innamorata di lei che la porto a teatro» racconta Anna Mazzamauro, che in autunno porterà lo spettacolo Come è ancora umano lei caro Fantozzi in giro per l’Italia. «È anche un omaggio per l’unico uomo che mi abbia veramente amato». Autoironica, travolgente, a 84 anni è piena di energia: «Il lavoro è la mia vita, pensare alla mia età, è una pugnalata […]».

Come definirebbe la sua eroina?

«Atipica. La signorina Silvani ha detto a tutte le donne atipiche: siate convinte di fare innamorare un uomo, le ha incoraggiate. […] La Silvani è la mia dannazione e la mia felicità».

Come nasce?

«È stata inventata da Villaggio in scrittura, con il “rosso-sesso” dei suoi vestiti. Ho sviluppato il personaggio pensando a come era vestita mia madre […]». […] «Ha segnato tutta la mia carriera. La odio e la amo… La possibilità di considerare le donne stronze esiste, ce ne sono, specie nel nostro ambiente. […]».

Com’era Paolo Villaggio?

«Ironico, uno splendido compagno di viaggio. Si preoccupava quando Salce girava le nostre scene: “Luciano, hai ripreso bene Anna?”. Ma in tanti anni non siamo mai diventati amici. Mi spiegò: “Frequento solo attori ricchi e famosi”. Oggi gli avrei detto: “Ma vaff…”, allora, rispettosa, ho taciuto».

Le dispiaceva?

«Sì, soffrivo di questa mancanza di amicizia. Sembravamo due attori della commedia dell’arte, inventavamo… […] Lo vedevo frequentare Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, forse soffrivo un po’ di invidia: perché loro sì e io no?». 

È vero che all’inizio avrebbe dovuto interpretare la signora Pina?

«Quando Salce, con cui avevo già lavorato in teatro con Giorgio Albertazzi, tra le attrici bravine ma bruttarelle si ricordò di me, pensai: evvai, mi hanno chiamato ai fasti del cinema. E mi presentai cotonata, truccata, con le calze a rete. Aprì la porta: “Perdonami Anna, ma ti ricordavo più brutta”. Paolo risolse tutto, parlò con Luciano: “Guarda che è brutta”. Poi decise che dovevo fare l’oggetto del desiderio del ragioniere Ugo».

Alla fine è un personaggio che l’ha fatta amare per sempre, no?

«La gente mi chiede ancora: “La prego, mi dica che sono una merdaccia, grazie”. Meraviglioso […]». 

Quando ha deciso di fare l’attrice?

«[…] Di notte, recitavo di nascosto in bagno. […] papà era un uomo di destra, diceva no e basta […] per lui una figlia che desiderasse recitare era in nuce una prostituta». […]

Michela Tamburrino per “la Stampa” - Estratti martedì 14 novembre 2023. 

Se Anna Valle dovesse rispettare una sua filosofia di lavoro, di certo non accetterebbe le seconde serie. Perché di solito non fanno sostanziali passi avanti rispetto alla storia iniziale. Persino con Commesse, che le regalò notorietà e che considera come la sua fiction più amata, si fermò al primo enorme successo. 

In quel caso, ci vide lungo come pure ad accettare il prosieguo di Lea i nostri figli, che la vede infermiera buona, felice di tornare in corsia: domenica sera su Rai1 il debutto della seconda stagione è stato visto da 3.040.000 telespettatori per uno share di 15,9%. In questa coproduzione di Rai Fiction e Banijay Studios Italy, accanto ad Anna Valle ci sono Giorgio Pasotti e Mehmet Günsür. Regia di Fabrizio Costa. 

Anna, che cosa rende Lea così familiare?

«La sua empatia e la capacità di compenetrarsi con i dolori altrui».

Una volta Argentero disse che i medical piacciono perché tutti vorremmo avere accanto quei dottori e quelle infermiere mentre normalmente ci si scontra con la malasanità.

«In parte è vero. Nella serie siamo un gruppo di infermiere molto presente. Vero è che si parla di un reparto pediatrico e di un piccolo centro, Ferrara, dove gli ospedali non sono presi d'assalto. A me è successo di essere accudita a Vicenza dove vivo con i miei figli. Roma è alienata, il lavoro convulso, ci si riesce solo se hai passione e pazienza. Da madre so che significa avere a che fare con le ansie dei genitori». 

Come mai ha scelto di vivere a Vicenza?

«Per questioni logistiche. Mio marito lavora lì e ho Leonardo e Ginevra che prima venivano con me sui set ma ora con la scuola hanno bisogno di stabilità e sono io a fare la pendolare». 

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Anche le sue convinzioni appaiono nette. A Silvia Toffanin disse di essere contro la maternità surrogata e favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere. Giusto?

«La maternità surrogata purtroppo viene regolata dal denaro e viene utilizzata in modo sbagliato e spesso sfruttata. Io sarei favorevole se regolarizzata, allora diventerebbe positiva per la donna. Anche per le droghe leggere, la legalizzazione potrebbe essere un deterrente. I ragazzi subiscono il fascino del proibito, se fossero permesse forse i figli ne parlerebbero con i genitori senza paura di confessare un peccato». 

Lei a sua volta è stata vittima del web.

«Sì, avevano scritto che ero malata mentre stavo benissimo. Mi ero presa un anno sabbatico, ero andata a Parigi per conoscere quel mercato. L'assenza ha fatto pensare che ci fosse qualcosa sotto. Anche i produttori non mi chiamavano più. Io non sapevo che fare, ho sofferto molto per la mia famiglia. Quando mio figlio tornò da scuola in lacrime perché qualcuno gli aveva detto che ero molto malata, allora mi sono molto infastidita e ho posto rimedio». 

I suoi figli le parlano?

«Sì, spero di tutto. Siamo molto attenti a Internet che viene utilizzato dagli odiatori. Lì dentro c'è il far west. Ginevra ha 15 anni e con i social ha già un approccio. Per questo noi genitori cerchiamo di strutturare un dialogo per far capire loro che quella non è la realtà di un rapporto». 

Fate qualcosa insieme?

«Immersione e pugilato. La pugilistica è un allenamento bellissimo, una disciplina che richiede testa e concentrazione». 

Tanta strada dopo l'elezione di Miss Italia. Ci ripensa mai?

«Certo, tante volte. Fui contattata per la prima volta che ero ragazzina, dissi di no per due volte poi a 16 anni dissi di sì. Mi ricordo la telefonata ai miei genitori la sera prima delle elezioni. Avevo la fascia di Miss Eleganza. Dissi ai miei di non venire, che sarei tornata io il giorno dopo a Lentini in Sicilia dove vivevo con mia mamma e i miei fratelli. Invece non sono più tornata. Mi dispiacque molto per mia sorella, vivevamo in simbiosi».

Miss Italia era un programma molto seguito che poteva essere in trampolino di lancio. Oggi lo hanno tolto dai palinsesti. Perché?

«L'avvento dei social lo ha fatto diventare vecchio. Se cerchi una vetrina niente ti dà visibilità più del web. Per me è stata una fantastica gavetta. Lungo 15 mesi sei proprietà degli organizzatori e degli sponsor, la disciplina è ferrea. Ho viaggiato in tutto il mondo. Io ero inesperta, la mia famiglia peggio di me e di questo qualcuno si approfittava sfruttandoci a ritmo continuato. C'era ancora il vecchio patron Mirigliani, mi diceva sempre che così si impara, pure a farsi rispettare».

(…)

Estratto dell'articolo Maria Elena Barnabi per "Gente" domenica 3 dicembre 2023. 

Quando ho compiuto i 50 è stata una tragedia, Madonna come sono vecchia, mi dicevo. Immagini come sto ora che ne compio altri, di “anta”». Sono le 9 del mattino e la risata squillante di Antonella Clerici ci fa capire che la tragedia non è proprio vera. Eppure lei insiste, ma ride: «Uno shock!», e si vede che dice la cosa come la diremmo noi. [...] 

Ha avuto sua figlia Maelle, ha fatto i due Festival di Sanremo…

«Esatto: per il lavoro, un successo. Per l’amore, insomma. C’è stata la storia con Eddy (Martens, il papà di sua figlia, ndr) che poi è finita, però è stata bella, piena. Poi a 52 ho conosciuto Vittorio (Garrone, industriale erede della famiglia proprietaria della Erg, ndr) e ho ritrovato l’amore».

E adesso come va?

«Tutto benissimo. Però ha presente il metro? Lo guardo e calcolo quante tempo mi è rimasto. Quanti anni buoni avrò? Dieci, venti? Arrivo agli 80? Sono calcoli che una comincia a fare. Se vado in un posto, non penso “magari ci torno”. Mi dico: “Ora vado da un’altra parte”». 

È cambiato qualcosa nella sua routine da quando è diventata “grande”?

«Faccio molto più sport. Soprattutto i pesi, sono fondamentali per tenere su tutto. Sono stati la mia salvezza durante la menopausa: la cura con gli ormoni mi faceva stare male. Andavo in onda con il ventaglio, avevo delle vampate pazzesche». 

[...] Corna, menopausa, figli... In tv ha parlato davvero di tutto.

«È un patto che ho fatto con il pubblico. Io sono cosi, dentro e fuori lo schermo». 

E ha lodato Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, la ragazza uccisa.

«È una donna straordinaria, lucida. Non starà mai zitta, ed è un bene». 

Perché ci ha colpito questo ennesimo femminicidio?

«Perché erano due ragazzi “normali”. Due figli nostri». 

Il compito di noi genitori?

«Dobbiamo educare i ragazzi ai no, ai rifiuti. La crescita avviene anche attraverso le difficoltà».

Siamo iperprotettivi?

«Vorremmo proteggere i nostri bambini, ma così gli facciamo male. Spesso vedo i padri che alle partite di calcio dei figli si arrabbiano con gli avversari, mamme che danno la colpa dei brutti voti ai professori. Se Maelle torna a casa con un 4, c’è una sola responsabile: lei. Se non li abituiamo ai rifiuti, poi non accetteranno i no della fidanzata. E la scuola deve aiutare: un’ora o più di educazione affettiva alla settimana sarebbe molto importante». 

Cosa insegna a sua figlia?

«Ad andare per il mondo. Ad aiutare i maschi, che sono comunque più indietro delle femmine alla sua età. A essere se stessa. Sa già che dagli uomini possessivi bisogna girare alla larga. E le raccomando di stare attenta quando esce da sola. Alle ragazze dico: occhio ai narcisisti. Dicono che se li lasciate si ammazzano, ma quelli non si ammazzano mai. Piuttosto accoltellano la fidanzata».

[...] In passato ha dichiarato di aver fatto qualche ritocchino.

«Sempre stata favorevole. Li fanno le persone che fanno altri lavori, figurarsi noi che stiamo in tv. È una specie di tagliando dal dentista. Senza esagerare però eh». 

Ci vuole dire cosa fa lei?

«I dettagli sono faccende private. Non sono favorevole ai filler: ti danno tutto quel gonfiore... Ti dicono che si assorbe, ma mica è vero. Vedo in giro certi mostri. A quel punto meglio una blefaro fatta bene o piccoli ritocchi. Il laser funziona. E poi c’è la cura di tutti i giorni». 

[...] Del resto lei con le sue trasmissioni è una colonna della Rai. 

«Lo studio di Rai Mecenate 2000 è tutto mio, da 4 anni: in una metà faccio Mezzogiorno, nell’altra The Voice». 

Fa un bell’effetto sentire una donna potente che dice “è tutto mio”.

«Anche a me piace da morire. Mezzogiorno volevo farlo in diretta da casa mia, un posto in mezzo al bosco, bellissimo. Ma poi Stefano Coletta (l’allora direttore di Raiuno, ndr) mi disse che voleva ridarmi l’intera fascia, un’ora e mezza. E così mi sono figurata le truppe cammellate che occupano la mia cucina e mi sono detta: rischio il divorzio senza neppure essere sposata, meglio lo studio». 

Quanti soldi fa fare alla Rai?

«Tanti credo (e ride, ndr). È dal 1986 che lavoro in Rai, tra un po’ festeggio i 40 anni. Sono una fedele, sentimentale. Come Carlo Conti, Amadeus, Milly Carlucci... Prima o poi arriveranno dei giovani al nostro posto, è giusto così». 

A dire la verità in Rai sta funzionando solo la “vecchia guardia”.

«È vero, manca un ricambio generazionale. I giovani si muovono su più piattaforme, hanno i social, i podcast, il Web. Avessi 30 anni farei così anch’io, credo».

[...] Lei e Conti vi sentite sempre?

«Carlo è mio fratello. Qualsiasi problema io abbia, chiamo lui. Vorrei riuscire a sentire così spesso anche l’altro del nostro trio, Paolo Bonolis, ma è la persona meno tecnologica del mondo. Da poco ha messo Whatsapp ma non risponde mai». 

Fu lui a chiamarla al primo Sanremo del 2005.

«Paolo mi ha dato la prima occasione di avere successo con il grande pubblico. Fare Sanremo è come fare il militare, saremo sempre uniti. Gli sono riconoscente e gli voglio proprio bene».

[...] Così zen anche quando le tolsero la Prova del cuoco?

«Buona sì, ma mica Biancaneve. So puntare i piedi quando serve: mi fecero fuori perché rimasi incinta, e quando tornai pretesi la mia fascia e il mio programma». 

Siamo arrivate alla fine. Lo sa vero che domanda devo farle?

«Sì, lo so. E no, non mi sposo. Cosa avete tutti da chiedermelo?». 

Lo dice lei di amare i lieto fine…

«A me il matrimonio un po’ mi porta sfiga. Magari faremo una festa per i nostri dieci anni. Le faccio sapere».

Estratto dell’articolo di Francesca D'Angelo per “la Stampa” venerdì 17 novembre 2023.

[…] Antonella Clerici conquista ancora tutti con È sempre mezzogiorno: un programma popolare, conosciutissimo, alla mano. Dopo oltre 500 puntate, perché tante ne ha condotte Clerici all'ora di pranzo, la Signora del Mezzogiorno inanella persino dei record: l'ultimo è di questa settimana, quando ha toccato il 17,7% di share su Rai1. 

Piace perché è semplice?

«Sì. Non faccio gare, non propongo ricette strane, ricreo semplicemente l'atmosfera che, da piccola, respiravo a casa quando vivevo in provincia». 

Per qualcuno essere provinciali non sarebbe un vanto…

«In realtà la provincia è la vera forza dell'Italia: non è un caso se molti volti della tv, come me, arrivano dai piccoli paesini perché è qui che si impara a crescere e a lottare per i propri sogni […] ». 

Tra gli ospiti vanta molti chef stellati. Posso aggiungere «alla faccia dei gastrofighetti»?

«Certo, certo! Da me non c'è spazio per i gastrofighetti, e nemmeno per i fighetti in generale: non amo le persone radical chic, che fanno comunella.

Comunque, anche fuori dalla tv, si sta tornando alla cucina pop: quella semplice, radicata nel territorio. Ci stiamo lasciando alle spalle l'epoca della cucina molecolare che, francamente, è stata un'inutile sperimentazione […]».

Tra i suoi amici storici c'è Fabio Fazio. Cosa pensa del suo addio alla Rai?

«Se lui percepiva un disagio, ha fatto bene a cercare altre strade. Il suo successo sul canale Nove non mi ha sorpreso affatto: è un fuoriclasse, che si è spostato su un'altra rete generalista, non certo su un canale di nicchia, facendo il medesimo format. E il pubblico l'ha seguito». 

È vero che anche lei è stata corteggiata, ma da Mediaset?

«Esplicitamente non ho mai ricevuto proposte, ma so di avere degli estimatori a Mediaset. Questo mi fa piacere ma ormai ho una certa età… a meno di proposte pazzesche, resto in Rai». 

Non soffre quindi TeleMeloni?

«Ho sempre lavorato con qualsiasi governo. Magari ho avuto problemi personali, ma mai politici, anche perché faccio intrattenimento».

Da venerdì prossimo sarà anche in prime time, con The Voice Kids. Non si rischia il doppione con Io canto Generation, in onda il giorno prima su Canale 5?

«Purtroppo è la solita storia: anche quando feci Ti lascio una canzone, Mediaset programmò Io canto. Speravamo che, almeno stavolta, non si accodassero invece… Al venerdì avrò inoltre contro Bonolis e il suo Ciao Darwin: sono accerchiata, più che controprogrammata! Però vuol dire che siamo forti, che ci temono. Mi sento un po' come Sinner (ride, ndr). Sarà difficile fare alti ascolti ma noi ce la giochiamo». 

[…] La verità prima di tutto?

«Sempre. È questo il mio patto con il pubblico: essere vera».

Al punto da discettare di menopausa all'ora di pranzo?

«Sì, certo. È ora di abbattere questo tabù. Se in tv ho una botta di calore, perché devo inventarmi una scusa? Prendo un ventaglio e spiego cos'ho». 

Com'è stata la sua menopausa?

«Dura. Non potevo fare la cura ormonale e quindi, sotto supervisione medica, ho provato strade alternative ma è stato un calvario. A momenti ci lasciavo la pelle con gli ormoni bio identici. Mi sarebbe piaciuto confrontarmi con altre donne, ma niente: erano tutte sfuggenti. Ho anche avuto problemi di peso, di gonfiore. Quanto all'intimità, la menopausa non è la morte del desiderio però bisogna un po' "ingegnarsi"…».

Tra poco compie 60 anni. Ansia?

«Un po'. Anche perché chi, come me, lavora in tv ha una pressione in più: non ci è concesso invecchiare. Per lo meno, non a noi donne. A un uomo infatti non si chiede mai l'età, nessuno osa dire "si è piallato" se fa qualche ritocchino, e li fanno eccome. […]». 

Si dice che lei sia gelosissima in amore…

«Lo sono stata e, a volte, ne avevo ben donde! (ride, ndr). Da quando però è nata mia figlia, ho fatto il fioretto di non essere più così controllante. Devo dire che si vive molto meglio: prima mi alzavo con il chiodo fisso di guardare il cellulare al mio ex e sono arrivata addirittura a pedinarlo. Ora no, anche perché, alla mia età, mica posso stare lì ancora a patire, piuttosto sto da sola».

[…]

Anticipazione da “Oggi” il 22 marzo 2023.

L’amore con Vittorio Garrone, vicepresidente del gruppo energetico Erg, che dura da sette anni: «Mi ha confidato che dopo il primo incontro voleva rincorrere il mio taxi mentre me ne andavo». La famiglia allargata con sua figlia Maelle e i figli di lui: «Durante la pandemia abbiamo imparato a stare insieme a volerci bene».

 Il successo ritrovato: «Ho imparato a non prendere più troppi impegni per non sentirmi schiacciata dal lavoro». Il patto di lealtà con il suo pubblico: «Se sto male non lo nascondo. Ho parlato delle corna quando mi hanno soffrire, della menopausa e dei chili di troppo».

 Antonella Clerici apre le porte della sua casa nel bosco di Arquata Scrivia a Oggi, in edicola da domani. «Sono come l’Araba Fenice: quando pensano che io sia finita, risorgo dal nulla e il destino mette sulla mia strada qualcosa di bello», racconta quando parla dei suoi alti e bassi professionali e sentimentali.

«Quando una storia d’amore non funziona più o fa male, la chiudo. Quando un lavoro non è più adatto a me, cambio», dice ricordando i suoi mille traslochi. E dell’ultimo, qui, nel suo buen retiro. «Nel 2018 ero prosciugata dagli impegni e sentivo che volevo vivere sino in fondo la storia con Vittorio. È l’uomo più solare, simpatico e protettivo che abbia mai incontrato. Se potessi esprimere un desiderio chiederei di invecchiare con lui». Le nozze, però, per Antonella, possono aspettare. «E io so aspettare», aggiunge Garrone. «Glielo chiederò quando so che mi dirà di sì».

Antonella Clerici, le feste fra tradizioni e magia. «E basta cattiveria». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 2 Gennaio 2023.

La conduttrice e i suoi «punti fermi» per le festività. Al primo posto la famiglia e l’ospitalità: «Penso agli anziani, nessuno deve restare solo. Il mio augurio al mondo? La fine dell’arroganza»

Basta conoscere un po’ Antonella Clerici per sapere che non c’è persona sulla terra che ami il Natale più di lei. La sua anima, il suo viso emanano allegria, magia e fantasia soprattutto nei giorni delle feste.

Antonella c’è una festa che ama di più?

«No! Adoro Natale e se fosse per me terrei sempre fisso a casa l’albero di Natale con gli addobbi. Ma è un po’ troppo. Però le luci sugli alberi nel bosco le tengo tutto l’anno. Chissà, sarà perché sono nata a dicembre, perché non amo il caldo ma questo periodo lo trovo magico».

È sempre stato magico?

«Sì, è sempre stato magico e sempre uguale a se stesso. Quando ero piccola nella mia casa a Legnano ricordo che mio papà si vestiva da Babbo Natale. Lui e la mia mamma andavano a prendere i regali che avevano nascosto in cantina e li mettevano sotto l’albero senza che noi ci accorgessimo (questo ovviamente me lo hanno raccontato quando ero un po’ più grande). Quello che ricordo con nettezza è la magia del risveglio la mattina di Natale quando ci alzavamo, io e mia sorella, e trovavamo tutte quelle sorprese».

Ha trasmesso tutto ciò a sua figlia Maelle, che oggi ha 13 anni?

«Certo. Anche a lei piace questa atmosfera e alla storia dei doni ha finto di continuare crederci anche quando era già grandicella».

Come vive l’attesa della festa?

«Io da fine novembre comincio a vedere i film di Natale. Tutti quelli scemi e vecchi che ci sono in giro con l’happy end, i taglialegna, le storie d’amore tra compagni di liceo, ambientate a Natale. C’è anche Christmas Channel su Sky e non perdo un colpo».

Con lei come non possiamo non parlare di cibi… Pranzi, cene, tradizioni nuove e vecchie?

«Allora quand’ero ragazza, in famiglia festeggiavamo il 25 a pranzo e il menù era sempre lo stesso: pollo in gelatina, tortellini in brodo, vitello tonnato, tacchino ripieno. Poi mi sono trasferita a Roma (dove ho vissuto 29 anni) e le cose sono cambiate parecchio. Lì si festeggia la cena del 24 e per la Vigilia ho imparato a cucinare gli spaghetti col tonno e la ventresca. E preparavo pure il baccalà fritto con la pastella, ma mi è sempre venuto una schifezza. Ricordo anche che il giorno di Natale capitava che venissero amici soli, anche amici di amici, perché a Natale nessuno deve restare solo e la mia casa è sempre stata aperta».

Parliamo di oggi: la mitica casa nel bosco in Piemonte, con il suo compagno Vittorio Garrone e sua figlia Maelle. Come celebrate il Natale in famiglia?

«Il 24 sera andiamo dalla mamma di Vittorio e siamo circa una cinquantina. Vittorio ha 5 fratelli, tutti sposati, con figli e nipoti ed è una festosa baraonda. Il 25 a pranzo vengono da noi, mio papà con sua moglie, mia sorella e Maelle. E loro pretendono il nostro “vecchio” pranzo natalizio.. Li accontento su quasi tutto: antipasti, paté, il mio vitello tonnato che posso fare solo io, salmone, tortellini in brodo. Ma non faccio il tacchino ripieno. Troppa roba. Anche perché poi ci sono i dolci…».

Apparecchiature sontuose?

«No, non fighette. Le mie sono anche un po’ trash, ma tutte rosse e oro».

Riesce a portare un po’ di Natale anche in televisione?

«Ah sì, i miei studi televisivi da novembre in avanti sono tutti decorati a festa. E poi mi vanto di avere insistito, anni fa, per spostare la maratona di Telethon nel periodo di Natale: la gente è più portata alla solidarietà».

C’è anche un velo di malinconia nel Natale se si pensa alle tante persone sole, agli anziani, ai malati..

«Sì, io ho nel cuore soprattutto gli anziani. I bambini inteneriscono, ma hanno tutta la vita davanti: gli anziani no e la solitudine è pesantissima. Quando ero ragazza portavo i pacchi nelle Rsa, che allora si chiamavano ospizi. Del resto io ho iniziato la mia carriera grazie alle Rsa. Mentre ero lì a trovare gli anziani c’era anche una telecronista e così mi sono avviata verso la tv».

Uno dei regali più belli ricevuti?

«Vittorio mi fa sempre bellissimi regali. Le sue lettere soprattutto sono meravigliose. Io quest’anno gli ho regalato un cavallo da passeggio. Mi sono messa d’accordo con Natalia Estrada che vive nel mondo dei cavalli e me l’ha procurato».

Cosa si augura?

«La fine dell’arroganza. Non è vero che il Covid ci ha migliorato, c’è un tasso di odio incredibile. È tutto troppo».

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per repubblica.it il 25 luglio 2023.  

Ride: «Lo so, lo so, la gente si chiede sempre se ci sono o ci faccio. È il destino delle bionde, che per definizione sono senza cervello. Ma io in realtà sono mora». 

Antonella Elia, una vita in tv — al fianco di Corrado, Mike Bongiorno, Raimondo Vianello — due volte all’Isola dei famosi, una da vincitrice nel 2012 e una passata alla storia per la rissa con Aida Yespica, è molto simpatica. Gioca a fare la svampita e le riesce benissimo. «Ho fatto l’ultima Isola in onda sulla Rai e Aida era tra i finalisti, sembrava diventata santa, santa Aida, una trasfigurazione come nei quadri di Raffaello». 

Però nel 2004 vi siete prese per i capelli, non bellissimo.

«Sì, ma a riguardare quel filmato fa ridere. Anche perché lei era il doppio di me, mi poteva sbriciolare».

Da settembre sarà presenza fissa su Rai 2: con Diaco a “BellaMa’” e con la coppia Perego- Ventura a “Citofonare Rai 2”.

«Pierluigi è una persona colta, libera. Con Paola e Simona mi trovo benissimo, sono donne generose, amorevoli, mi sostengono. In tutti gli ambienti deve prevalere l’umanità».

A novembre compirà 60 anni: Dna, ginnastica, dieta?

«Tengo molto al fisico, amo fare sport, mi muovo per produrre le endorfine è importantissimo. Poi ho la paranoia dei rumori, se sento Pietro (Delle Piane, il fidanzato ndr) respirare, mi disturba. Sto diventando isterica». 

(...)

Corrado la scelse per “La corrida”. Cosa lo colpì?

«Al provino scoppiò a ridere. Corrado era un essere umano con valori profondi, affettuoso, ci davamo del lei è diventato un punto di riferimento nella mia vita. Non avevo nessuno, mi accompagnava anche dal dottore. Era un papà». 

Raimondo Vianello la strapazzava, e Sandra Mondaini?

«Mi volevano bene, Sandra con me era materna, dolce. Raimondo mi prendeva in giro. Siccome facevamo Pressing e io di sport sapevo poco, gli chiesi: studio le squadre? “Per carità non perda tempo”. Lasciava tutto all’improvvisazione, e il gioco era quello. Ripeteva: “Lei non si preoccupi, si faccia le unghie”. E infatti avevo mani perfette». 

Mike si arrabbiò davvero con lei per la pelliccia?

«Eccome. Anche lui è stato una figura paterna, quando applaudii la signora che aveva rifiutato la pelliccia fu un gesto spontaneo. Mike mi asfaltò: anche se sei animalista, lo sponsor è sacro. Me ne disse di tutti i colori e mi misi a piangere. Poi mi abbracciò: “Non fare così solo perché ti ho detto che sei rincoglionita”». 

Allora: lei fa l’oca e poi si è trovata comoda nel ruolo? Spieghi.

«Io c’ero: stordita svampita oca distratta. Alla fine mi fa gioco, mi trovo bene a fare la scema, sono fuori dal mondo, il mio è “il favoloso mondo di Antonellie”. Corrado mi disse: “Continui a fare la scema che sarà il suo successo”». 

Ma questo nasconde altro.

«Un’enorme malinconia, una voragine di dolore e solitudine. Sono inadeguata, c’è un mondo che non voglio esternare e magari esce fuori in un’intervista. Odio fare pena».

Rimpianti?

«Sul lavoro è andata come doveva andare, mi sono pentita di aver lasciato la tv per fare La bella e la bestia, forse se fossi stata più coerente oggi sarei una conduttrice canonica. Nel privato, ho il rimpianto di non avere avuto un figlio, con Pietro mi sarebbe piaciuto. Non ho grande istinto materno ma una cosa l’ho capita: le donne scelgono il compagno per costruirsi una famiglia».

Antonella Elia: «Io, svampita per professione, in tv non potevo essere seria. Pietro Delle Piane? Non ci sposeremo». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 04 Giugno 2023.

La showgirl: «Mike Bongiorno mi fece piangere, per Raimondo Vianello non dovevo sapere nulla di calcio, ma solo farmi le unghie. Dopo Non è la Rai mi pagavano 4 milioni per firmare autografi in discoteca, e mi chiedevo perché. Il mio fidanzato? Non riesco ad accettare l’idea che il mio uomo mi veda brutta e vecchia» 

Ride spesso, ma poi si commuove fino a piangere. Antonella Elia è spiritosa, anche autoironica, incarna quella leggerezza che ha sempre portato in televisione e che è stata la sua fortuna. Il lato giocoso, da oca (parole sue). Per indole o per contratto, alimentando il dubbio. Infanzia e adolescenza sono state, a dir poco, in salita: «Mia mamma è morta quando avevo un anno e sono cresciuta con i nonni fino ai sei anni, poi mio papà — che per me era un perfetto estraneo, mi veniva a trovare ogni tanto — ha deciso di portarmi a vivere con lui, forse per gelosia nei confronti di chi mi cresceva, ed è stato un grande strappo. La nonna era mia mamma per me. Mi ha portato in una casa che era bella, ma allo stesso tempo triste e buia, dove si sentiva il vuoto della perdita di mia madre». 

Poi suo padre è morto in un incidente d’auto quando lei aveva 15 anni. Tornò dai nonni?

«No. Lui aveva litigato selvaggiamente con loro e non li ho visti per anni. Nel frattempo si era risposato e ho vissuto con sua moglie, ma i rapporti con lei, senza la presenza di mio papà, si sono rovinati subito... a 18 anni la prima cosa che ho fatto è stata andarmene di casa». 

Via di casa a 18 anni. Che ha fatto?

«La modella. Un po’ perché avevo bisogno di lavorare, un po’ forse per egocentrismo. Facevo pubblicità per la tv e intanto mi dedicavo alle mie grandi passioni: studiavo recitazione, canto e danza». 

Il primo lavoro in tv è subito un botto: «La Corrida» di Corrado.

«Il mio sogno era fare l’attrice, facevo continui provini per il cinema, ma non mi prendevano. Invece Corrado mi ha preso al volo». 

Come colpì Corrado?

«Lo facevo ridere, amava molto le mie gaffe naturali, puntava molto sull’improvvisazione e usava la mia goffaggine per fare spettacolo come poi è successo anche con Raimondo e Mike». 

All’epoca faceva teatro, sognava il cinema, ma finì in serie B, la tv...

«La tv per me era terrorizzante, avevo paura di apparire, quando scendevo le scale morivo dalla vergogna. Però rispetto alla tournée teatrali a cui ero abituata la tv era un mondo privilegiato. Quando lavoravo per il teatro dividevo la camera con tre ragazze». 

La tv era ricca...

«Infatti è quello che mi ha fregato. Mi dicevo, sai che c’è? Chi se ne frega del teatro... Le uniche tournée fighe che ricordo erano quelle dei musical, perché cantanti e ballerini sono simpaticissimi, gli attori di prosa invece sono un po’ pesanti, di una pesantezza infinita, due palle proprio. Ora se la prenderanno, permalosi come sono... ma lo devono sapere». 

Arrivò a «Non è la Rai», ma era «vecchia».

«Avevo 27 anni, le altre ragazze 15-16. Stavo facendo un programma con Jocelyn e mi hanno tolto a metà dalla sua trasmissione per andare a Non è la Rai. Jocelyn non la prese benissimo, se la legò al dito... Boncompagni mi scelse perché lo facevo ridere». 

Come visse quell’anno di popolarità accesa, violenta?

«Io la popolarità l’ho sempre vissuta un po’ male, non ho mai pensato che fosse una figata, anzi mi innervosiva questo marasma di ragazzini in delirio che ci aspettavano fuori dagli studi. Facevo anche tante serate in discoteca, ma mi sentivo strana ad andare in un locale a firmare autografi ed essere pagata per questo. Mi chiedevo: ma come è possibile? Vado lì, non faccio niente per un’ora, e mi pagano». 

Quanto la pagavano?

«Tantissimo, anche cinque milioni, o forse quattro. Cifre esorbitanti... Ero piccola, avevo 27 anni e lei dirà, mica tanto piccola, ma io ho avuto uno sviluppo non regolare, ho sempre avuto 20 anni di meno dell’età biologica. Ero sovrastata da tutta questa popolarità, mi destabilizzava. Ti fai delle domande: ma veramente merito, valgo tutto questo? La stessa follia mi accadde dopo la prima Isola dei famosi, con paparazzi e persone comuni che mi inseguivano». 

Ha fatto anche tre anni di «Pressing» con Vianello. Una trasmissione di calcio senza sapere niente di calcio. La famosa competenza...

(Sorride) «Quella che io ritengo di non avere mai, lì era l’apoteosi. Raimondo voleva assolutamente che io non sapessi nulla di calcio, io andavo a vedere le partite di domenica con Raimondo e il gruppo di autori, e lui mi diceva: si faccia le unghie, non si preoccupi del pallone. La sera ero disperata, andavo in onda e cercavo di dire qualcosa, ma qualsiasi cosa dicessi Rimondo la usava per far ridere». 

Quindi svampita per professione o per Dna?

«Dovete dirlo voi. Svampita per professione sicuramente, perché tutti quelli con cui ho lavorato chiedevano che io fossi goffa e facessi ridere, nessuno mi istruiva per essere seria, compita e professionale». 

Lei nemmeno ci provava...

«Io ci marciavo, mi faceva comodo e mi era richiesto. Se avessi detto cose sensate Raimondo mi avrebbe cacciato. Certo rivedendomi adesso, mi dico: ammazza quanto ero oca, mi imbarazzo vedendomi, mamma mia; va beh che ero ragazzina, ma avevo già 30 anni». 

Che per lei sono dieci però.

«Anche questo è vero. Sento un certo imbarazzo rivedendomi, sembro una 30enne adolescente. Sì, ero proprio oca». 

Ora non è più oca?

(Ride) «Me la sono cercata... diciamo che oggi riesco a reggere i ruoli un pochino più seri, quindi sempre oca resto, ma c’è più professionalità e pelo sullo stomaco». 

Gli anni Novanta per lei furono strepitosi: Corrado, Vianello e pure Mike Bongiorno, che la chiamò alla «Ruota della fortuna». Lo stregò sempre grazie all’ocaggine?

«Sì, assolutamente. In realtà io non volevo fare La ruota, ero all’apice della carriera e andare e girare le caselle mi sembrava tornare indietro. Tutti pensano che io sia rimasta lì dieci anni, ma fu un solo anno. Di fuoco. Successe di tutto». 

Perché accettò nonostante pensasse fosse un passo indietro?

«Mike mi chiamava tutti i giorni e cercava di convincermi, alla fine ho ceduto, mi sembrava scortese rifiutare». 

Oggi diventerebbe virale la scena in cui lei si complimentò con la concorrente animalista che rifiutò la pelliccia vinta grazie allo sponsor... Mike la insultò e la invitò ad andarsene, lei rispose piccata: «Certo che me ne vado».

«Mike si arrabbiò da pazzi, me ne disse due o tre, io mi misi a piangere e lui mi fece chiamare in camerino: “Ma perché te la prendi tanto? Ti ho solo detto che sei rincoglionita”. E mi abbracciò. Mike mi voleva bene, come Raimondo e Corrado».

 Era all’apice e decise di andare a fare teatro.

«Errore fatale lasciare la tv per andare a fare La bella e la bestia a teatro, un schifezza di spettacolo, perché purtroppo io cantavo e non sono brava a cantare. Fu un disastro, lì ho distrutto la mia carriera». 

Anche perché nel frattempo accettò di andare anche a Telemontecarlo.

«Quel genio del mio agente, Lele Mora, mi mandò a fare una trasmissione stupidissima, quel genio sosteneva che Tmc sarebbe stata il nuovo polo, ma io avevo l’esclusiva con Canale 5. Così Mediaset mi strappò il contratto in faccia, Mike era arrabbiatissimo: ti ho lasciata libera per andare a fare teatro e tu vai con la concorrenza. Tu con noi hai chiuso!». 

Che ha fatto quindi?

«Sono andata a Los Angeles a vivere tre anni per studiare recitazione, con il solido obiettivo di fare l’attrice. Ma anche lì ho fallito». 

In effetti Pupi Avati le disse che non sapeva recitare. Aveva ragione?

«No, ma quando mai... Il provino andò da schifo, lui mi aprì in due e solo quando mi misi a piangere mi disse: vedi adesso sei credibile». 

Ma non servì, non la prese...

«Ovvio che no, con lui recitano solo i grandi e io ero troppo piccola e cagna per lavorare con lui. Che poi, era una fiction che ho anche visto, niente di che, poteva pure prendermi senza farla tanto lunga». 

È fidanzata con l’attore Pietro Delle Piane. Vi sposate?

«Ho deciso di no. Per ora. Poi si vedrà». 

Lui però gliel’ha chiesto due volte.

«Ho detto sempre sì, perché è scortese dire di no. E poi nei sogni sarebbe bellissimo sposarsi». 

Lui ha 10 in meno. Pesa la differenza di età?

«Sì. Non riesco ad accettare l’idea che il mio uomo improvvisamente mi veda brutta e vecchia. Io tra dieci anni ne avrò 70, lui 60, sarà nel fiore... mi viene da piangere». 

Non pianga, che mi commuovo anche io, lui la amerà comunque.

«Dieci anni sono tantissimi, invecchiare mi fa molta paura, è inaccettabile che mi veda crollare a pezzi... Io ho sempre vissuto randagia, non ho avuto una famiglia, e forse proprio per questo non l’ho ricreata». 

Torniamo alla tv. Ha vinto un’«Isola dei Famosi» nel 2012, ma tutti si ricordano quella del 2004. La lite con Aida Yespica fu un cult.

«Due spintoni e due tirate di capelli, ma per fortuna me l’hanno tolta di dosso, se no mi faceva nera. Faceva paura: si è trasformata, le è uscita anche la voce diversa, si è rivelata». 

Lei è manesca?

«Vorrei. Ma non si può, non è socialmente corretto. Però due sberle le darei con gran piacere quando litigo con qualcuno». 

Che ricordi ha dell’«Isola»?

«Io adoro l’Isola dei Famosi. C’è passione, divertimento. La farei tutta la vita. Cosa fai di professione? L’Isola dei Famosi. Io adoro stare nella natura selvaggia. E poi io sono nata per condurre l’Isola, sarei la regina. Quando la guardo mi chiedo: ma perché non la conduco io?». 

Sarebbe più brava di Ilary Blasi?

(Ride) «Beh certo, non c’è il minimo dubbio. Scherzo, dai. Forse sarei talmente caotica che non si capirebbe niente, quindi non sarei adatta a fare la conduttrice, troppo casinara». 

Quindi lei cosa è brava a fare?

(Scoppia a ridere) «Niente».

Estratto dell’articolo di E.N. per “la Repubblica” il 16 gennaio 2023.

[…] Antonella Marino si è tirata fuori dall'industria dello spettacolo […] «Molti registi importanti hanno delle modalità particolari e tutte loro: toccatine amichevoli e battutine, come se fosse un linguaggio accettato. Infatti all'alba di un ingaggio l'unica altra donna presente mi disse: "Conoscerai dei tipi particolari ma simpatici, scherzano molto tra colleghi". Penso volesse prepararmi».

 A cosa?

«Al fatto che già alla prima pausa il regista mi ha circondata con un braccio e per dirmi che ero bella e burrosa come piacciono a lui e che avrebbe fatto sesso con me».

Ha replicato?

«Mi scostai, dissi che ero fidanzata ma rispose che non era geloso. L'indomani indossavo una lunga gonna di lana e appena mi vide disse "te l'alzerei questa gonnella", e così fino alla fine delle riprese: battute e riferimenti sessuali espliciti nonostante io non dessi segni di condiscendenza. Ero a mio agio solo quando parlava con altri, è stato un inferno». […] «[…] Volevo anche denunciare ma ero appena arrivata a Roma, volevo fare questo mestiere e forse alzare un polverone non era la prima cosa da fare. […]»

Pellegrinaggi Antonino l’antidivo. Anna Prandoni su L’Inkiesta il 23 Febbraio 2023

Il cuoco più conosciuto d’Italia è una sorpresa da scoprire nel suo ristorante al lago d’Orta, meta gourmet e abbraccio caloroso, esperienza che sfata i pregiudizi sugli star chef. O, almeno, su di lui

Quando immagini di andare a cena da Cannavacciuolo, lo chef più mediatico d’Italia, pensi di incontrare un personaggio un po’ burbero, di sicuro non tanto disponibile al dialogo, con un atteggiamento da star. E, alla fine, ti andrebbe anche bene così: il suo successo è clamoroso, gode di indiscussa fama, e la terza stella Michelin conquistata l’anno scorso è un ulteriore tassello di una carriera piena di conquiste. Insomma, tra tutti gli chef italiani, è quello che più si può permettere di essere un divo.

Quando arrivi a Villa Crespi, sulle sponde del lago d’Orta, l’imponente struttura cesellata da mani artigiane a fine ’800 ti conferma decisamente la tua sensazione: sei in un luogo di indubbio fascino, regalato alla piccola cittadina lacustre da un visionario industriale tessile, lo stesso che ha fondato la cittadina a misura d’uomo di Crespi d’Adda, patrimonio Unesco. Innamorato dell’oriente, il signor Benigno Crespi ha fatto costruire da Angelo Colla questo merletto in forma di villa con torretta-minareto in stile moresco per omaggiarla alla moglie, come casa vacanza in ricordo dei loro viaggi: e ha fatto un capolavoro di dettagli e di altezze, di particolari e nicchie, di scale e soffitti decorati. Un gioiello prezioso, che da allora ha cambiato funzione e dal 1998 accoglie le 14 camere e il ristorante dello chef.

Se il luogo non è mai un dettaglio, qui la villa, il parco, gli uccellini che cinguettano e il lago placido che si scorge in lontananza sono un altro punto a favore dell’eccezionalità dell’esperienza che ti appresti a vivere. Siamo in un posto dove il lusso sta nei dettagli, e ogni più piccolo particolare è lì a ricordartelo.

Ma quando poi lo chef lo incontri, e ti accoglie come se fossi entrato nel salotto di casa sua, e lo guardi nella sua prestanza fisica imponente, un gigante che riempie tutta quella dimora meravigliosa e ne è il perfetto contraltare, le tue granitiche certezze su di lui iniziano a crollare. È verace, spontaneo, mai affettato, ma soprattutto non ha alcun atteggiamento da star incontrastata. Anzi. È a tratti un patron accogliente, a volte gioca a fare il suo personaggio, altre è un ristoratore consapevole, preoccupato della situazione contingente. Ma è anche un amorevole protettore della sua brigata, e un custode fedele dei suoi collaboratori. È un imprenditore accorto, che sa quello che ha in mano, e che vuole preservarlo. Ma ha anche l’umiltà tipica dei grandi personaggi, in grado di capire i propri limiti e di conoscere la relatività del suo posto nel mondo. È un anfitrione, un comico, ma anche un attento osservatore della situazione contingente, e ha un costante occhio puntato sui conti, sulla sostenibilità della sua impresa, e sulla sua responsabilità rispetto alle trecento persone che lavorano con e per lui.

È curioso, dote che lo accomuna a tanti grandi geni, e cerca sempre di capire il perché delle cose, anche delle più apparentemente insignificanti. È estremamente gentile, con chiunque decida di passare qualche ora a trovarlo: saluta ogni tavolo, a fine pasto, si presta a chiacchiere più o meno sempre uguali con la stessa freschezza e la stessa spontaneità della prima volta. Nonostante da qui passino cinquecento (500!!!) persone a settimana. Prova a essere sempre lì, quando se ne vanno: perché se è vero che qui si viene per mangiare i suoi piatti, è altrettanto vero che andare via senza una foto con lui è come perdersi un po’ dell’esperienza. Guardarlo dialogare con le persone che sono venute a trovarlo è un bellissimo esercizio: si capiscono molte cose sui clienti, ma si percepisce un suo autentico desiderio di restituire la fortuna che ha ricevuto in dono. È consapevole dell’importanza che ha un suo sorriso e un suo saluto per le persone e non si nega, non si atteggia, non si scosta. Anzi, si offre a piene mani, si dona, si mette a disposizione per ringraziare, forse non solo le persone ma il fato, come se fosse in debito rispetto alla fortuna e alla fama che ha conquistato.

È altrettanto generoso nei piatti che serve alla sua tavola: ricca, piena, dal gusto deciso e dritto, con i sapori netti che non lasciano dubbi al palato. Qui si sta semplicemente bene: si mangia di gusto, si gode a ogni forchettata. Senza remore, senza dubbi, e soprattutto senza retropensieri e senza aver bisogno di ragionamenti ulteriori. I piatti sono complessissimi nella preparazione, ma immediati nella comprensione. E alcuni sono proprio perfetti e vanno dritti allo scopo: farti sospirare di averli terminati, e desiderarne un altro all’istante, ancora, per replicare quel perfetto istante di bontà che quando lo raggiungi arrivi al paradiso sensoriale. Sopra a tutto, per noi, le paste e le rane: apoteosi di piacere e di consistenze, di caramellizzazione e di rotondità, di equilibrio e pienezza. Quel buono puro, comprensibile, efficace, eterno e trasversale.

Il tutto, con un servizio inappuntabile: la danza delle parole, mai una di troppo, sempre al momento giusto e con pertinenza, si unisce alla danza delle persone che nel tempo si occupano dei commensali in un modo unico. Solare, accogliente, iper professionale ma allo stesso tempo mai affettato. Hanno lo stile della casa, l’imprinting di Massimo Raugi, che governa con disinvoltura giovani preparatissimi, precisi, sorridenti e disponibili. Non andate via senza aver assaggiato il formaggio, che qui col suo carrello imponente occupa un posto speciale: solo il servizio del Comté con la tisana preparata con le erbe dell’orto di casa vale il quarto d’ora di pura poesia che passerete a gustarvi ogni boccone.

Varcare la soglia del ristorante al contrario, per andar via, è come scendere dalla carrozza dorata che per magia si ritrasforma in zucca. Ma quei sorrisi, quelle chiacchiere, quei bocconi perfetti e quell’atmosfera di enorme coccola che abbraccia con possenza, rimarranno con noi ancora a lungo. A farci riflettere sui pregiudizi e sui luoghi comuni che, spesso, accompagnano le persone celebri. «Cosa mi piace fare di più? Stare in cucina, a rompere le scatole ai ragazzi della brigata, per farli lavorare sempre meglio»: in fondo, la grandezza di un divo suo malgrado, è tutta, semplicemente, qui.

Antonino Cannavacciuolo: «Ho vissuto senza un padre, la terza stella ha dato senso agli ultimi 25 anni. Vorrei fermarmi, non lo farò». Angela Frenda su Il Corriere della Sera il 2 Gennaio 2023.

Lo “chef del popolo”: «Ho vissuto senza un padre: lui al mattino aveva la scuola, al pomeriggio il ristorante. “Masterchef”? Dicevano che mi avrebbe danneggiato. E invece...»

Antonino Cannavacciuolo, 47 anni, ha appena ottenuto la terza stella Michelin: in tutta la sua carriera, cominciata a metà degli Anni 90, ne ha collezionate 7

Lo “chef del popolo”, come è stato soprannominato dopo il trionfo alla Guida Michelin 2023, è nel suo giorno di riposo. Antonino Cannavacciuolo, arrivato ragazzo in Piemonte da Vico Equense, paesino della costiera sorrentina dove il tempo sembra essersi fermato agli Anni 50, a 47 anni può dire di aver conquistato davvero tutto. E proclamarsi fiero, più che altro, di aver vinto una scommessa fatta al padre: «Riuscirò a diventare un grande cuoco». Ma soprattutto, possiamo aggiungere oggi, riuscire anche a essere felice. Che il 2022 sia stato il suo anno non lo dice soltanto la terza stella Michelin arrivata al suo ristorante Villa Crespi, adagiato sul lago d’Orta. Ma è la sua voce pacata e soddisfatta che rivela quanto sia arrivato a un punto di grande equilibrio tra la sua vita lavorativa e quella (anche) personale. «Diciamo che è stato davvero l’anno in cui ho avuto la conferma che i 25 anni spesi a fare questo mestiere hanno un senso».

«MAI FATTA UNA VACANZA: ANCHE QUANDO VADO FUORI PER DIVERTIMENTO MI PORTO SEMPRE IL MIO LAVORO. IL SOGNO? STARMENE SU UNA BARCA, IN SILENZIO. SOLI IO E IL PESCE

Aveva dubbi?

«No, ma non si può mai essere sicuri... Anche perché su di noi non si è mai sentito nulla di nulla. Mai una sbavatura, un errore. Abbiamo sempre lavorato a testa bassa per costruire un progetto concreto. Solido. E sì, forse la terza stella che abbiamo ricevuto è solo la conferma di questo impegno».

E una scommessa che ha vinto con suo padre...

«Sa, io ho vissuto senza mio padre. Dico sul serio. Lui aveva la scuola al mattino. E poi il lavoro al ristorante, parliamo di lavori davvero difficili e usuranti. Lavori per i quali non si riesce a fare una vita normale. Ecco perché lui non voleva assolutamente che io facessi il cuoco. Sognava che avessi un’esistenza diversa. E invece io sentivo che quella era la mia strada. La mia passione vera. Quando glielo spiegai, parlandogli col cuore aperto, mi disse solo: se vuoi fare questo lavoro fallo, ma devi essere sicuro che sei spinto da una passione vera. Altrimenti soffrirai tanto».

Ma lei la passione l’aveva, giusto?

«Direi proprio di sì. Non mi sono mai fermato nemmeno un attimo, da allora. È stato un lungo, lunghissimo percorso, nel quale però non ho mai smesso di costruire e di mettermi alla prova. Perché la verità è che questo non è un lavoro ma è la mia vita. Anzi, non so più dove comincia l’uno e dove finisce l’altra. E poi devo ammettere che in questi anni mi sento profondamente maturato».

Credo sia normale, non trova?

«Sì, ma è anche vero che molti pensavano che Masterchef mi avrebbe danneggiato. Il luogo comune era: ah, adesso si è messo a fare televisione. Smetterà di lavorare. Smetterà di stare in cucina.... E invece io non ho mai abbandonato il mio lavoro. E vuole sapere anche un’altra cosa? Masterchef mi ha dato tantissimo. Anche gli stessi ospiti. Sono proprio fatto in un modo per cui cerco di prendere sempre il massimo da quello che avviene nella mia vita. E nulla mi passa accanto per caso».

Chef Cannavacciuolo, che anno è stato se dovesse fare un bilancio personale?

«Emozionante. Strepitoso. Unico. Racchiude tutti i cerchi aperti del mio mondo. E la premiazione è stata un momento indimenticabile. Eravamo tutti davvero emozionati. D’altronde, credo si sia visto. Io, la mia famiglia, e tutto il mio gruppo storico siamo stati travolti da un’ondata di sentimenti pazzeschi quando abbiamo sentito l’annuncio della terza stella. E poi non potrò mai dimenticare quando i miei colleghi si sono alzati in piedi e mi hanno abbracciato. Quegli abbracci, davvero, non potevano essere più sinceri. E non è cosa da nulla, credetemi».

Ma dica la verità, lei se l’aspettava questa terza stella?

«Niente arriva per caso. Sia chiaro. Io lavoro duramente da anni per questo obiettivo. E con questo obiettivo. Il mio primo ristorante tristellato è stato Don Alfonso ed era il 1996. E da allora ne ho girati davvero tanti. Certo non per divertirmi, ma per imparare. Per conoscere. Per progredire. Perché non mi bastava saper cucinare. Io volevo farlo al massimo della capacità. E per riuscire in qualcosa del genere devi impegnarti duramente. Non ci sono mezze misure, scuse o scorciatoie».

Mai una distrazione?

«Mai. Mai, direi, una vacanza in senso stretto. Anche quando vado fuori per divertimento so che poi mi porto sempre dietro il mio lavoro. E poi, questo lo dico soprattutto ai più giovani, secondo me la differenza la fa il cercare sempre di migliorare e migliorarsi».

Come ha costruito il successo di Villa Crespi?

«Con lo stesso spirito: cercare di fare meglio. Di proporre il meglio. Anche a costo di non essere capito subito, qualche volta. Ma capita quando si cerca di essere sempre fedeli a sé stessi. Faccio un esempio. Quando sono arrivato sul lago d’Orta conoscevano pochissimi pesci, e per lo più congelati. Io ho deciso di portare invece il mio patrimonio gastronomico. Ma anche i miei produttori. Adesso è facile, tutti parlano delle uova di Paolo Parisi. Ma io sono anni che lo propongo. Così come la burrata. Adesso la mettono ovunque, anche sul cappuccino. Ma io l’ho portata quando davvero pensavano che fosse un tipo di burro! E poi un’altra cosa di cui vado particolarmente fiero è quella di aver introdotto la pasta secca in un ristorante d’alta cucina. Sembrava un’eresia. Nel 1999 non veniva messa da nessuno in un menu che aspirasse a prendere una stella. Almeno non da Napoli in su. E io invece sai cosa decisi di fare? Di mettere le penne nel mio menu. Una follia, per quei tempi, ma significava essere fedele alla mia filosofia di cucina e di vita».

Diciamo quindi che il bilancio del 2022 è decisamente positivo per lei. Ma cosa sogna invece per l’anno che viene, il 2023, che mantiene tutti con il fiato sospeso?

«Bollono sicuramente tante cose in pentola. E Cinzia, mia moglie, sta programmando tutta una serie di aperture nuove per i bistrò Antonino, il Banco di Cannavacciuolo. Io ovviamente le starò al fianco. Io e lei siamo una grande coppia, nella vita ma soprattutto sul lavoro. È la mia valvola di sfogo. E devo a lei tante cose, come quella di avermi regalato la tranquillità di potermi dedicare al mio lavoro. Lei è anche una grandissima mamma, in senso allargato. Fa da “mamma” al nostro gruppo di lavoro, ad esempio, realizzando un’opera pazzesca. E poi è una bravissima mamma per i nostri due ragazzi. Non è una cosa così scontata...».

Qualcosa di personale che programma per sé stesso nel 2023?

«Mah, spero anche di riuscire a prendermi un anno per poter studiare e stare un po’ tranquillo finalmente. Prendermi del tempo per me, cosa che non faccio quasi mai. Un 2023 di riflessione e approfondimento. Vengo da un periodo davvero intenso. Dico soltanto che abbiamo fatto quattro nuove aperture in una fase di chiusura completa. E non è stato sicuramente facile. Certo, adesso è ancora più difficile. Basta vedere come sono saliti i tassi dei mutui bancari».

Quindi 2022 anno di costruzione, 2023 anno di riflessione. Ma ce l’avrà almeno un sogno nel cassetto. Un desiderio nascosto... Anche magari non legato al suo lavoro...

«Ah no, io nasco cuoco e morirò cuoco. Non vedo nulla se non il mio lavoro. Tanto che a volte mi dico che sono fissato. Che vivo tutto questo quasi come una malattia... Non conosco davvero distrazioni».

Insomma, dobbiamo provare a insegnarle l’arte della distrazione... Rifletta, qualcosa che davvero si augura per sé stesso nell’anno che verrà. Se dovesse scrivere una letterina a Babbo Natale vorrebbe...

«Riuscire a starmene su una barca a pescare in santa pace. In silenzio. E attenzione: senza mettere nulla sull’amo, è questa la mia filosofia della pesca...Io e il pesce da pescare. Soli io e lui. Si imparano tante cose praticando questo sport».

Sa che è molto simile, il suo sogno, alla trama di un romanzo di Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare?

«Non l’ho mai letto, ma adesso lo compro. Se racconta di questo rapporto così forte col mare e con la natura mi piacerà sicuramente. Perché solo chi ama la pesca può capire quanto insegni sulla vita. E, posso dire? Insegna anche a sognare».

Antonio Banderas.

Antonio Banderas, 7 curiosità sul celebre attore spagnolo che compie 63 anni. Storia di Eva Cabras Corriere della Sera 10 agosto 2023.

Origini José Antonio Domínguez Banderas è nato a Malaga, in Spagna, il 10 agosto 1960. Il padre era commissario di polizia, mentre la madre un’insegnante. A 19 anni si trasferisce a Madrid, dove lavora come modello e cameriere, oltre a giare per il paese con compagnie teatrali itineranti.

Carriera mancata Prima di immergersi completamente nella recitazione, Banderas aveva un brillante futuro come giovane calciatore, ma un brutto infortunio mai sanato del tutto a un piede gli negò l’accesso allo sport professionista all’età di 14 anni.

Carcere Durante le numerose tournée in giro per la Spagna, l’attore affrontò la deprimente realtà dei primi anni successivi al regime di Francisco Franco, nei quali la censura non risparmiava neanche le opere più affermate. In seguito a una performance dal repertorio di Bertolt Brecht, Banderas fu infatti arrestato e trascorse la notte in galera.

Almodóvar Il debutto cinematografico di Banderas avvenne nel 1982 con il film “Labirinto di passioni”, diretto da Pedro Almodóvar. Il regista spagnolo lo notò durante uno spettacolo teatrale e diventò suo assiduo collaboratore lungo tutta la sua carriera, coinvolgendolo in “Matador”, “La legge del desiderio”, “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, “Légami!”, “La pelle che abito” e Dolor y gloria”.

Hollywood L’accesso a Hollywood per Banderas è marchiato anni ’90. Prima di interpretare lo spadaccino in “La maschera di Zorro” nel 1998, l’attore aveva infatti partecipato ad alcuni dei titoli più amati del decennio, come “Philadelphia”, “Intervista col Vampiro” ed “Evita”.

Doppiatore La voce di Banderas ha dato vita anche a un altro personaggio cinematografico armato di spada, ovvero il Gatto con gli Stivali nella saga animata di “Shrek”.

Relazioni Nel 1987 Banderas ha un colpo di fulmine e dopo appena sei mesi dal primo incontro sposa la collega Ana Leza, con la quale rimane fino al 1995. Una volta traferito negli Stati Uniti, Antonio incontra Melanie Griffith, creando una delle coppie più amate e gossippate della Hollywood degli anni ’90. I due si sposano nel 1996 e quello stesso anno danno il benvenuto alla figlia Stella, comparsa anche nel debutto registico del padre “Pazzi in Alabama” del 1999. La coppia rimane insieme fino al divorzio nel 2015, e da allora Banderas è legato all’olandese Nicole Kimpel.

Diodato: «Tutti rincorriamo qualcosa cercando di soddisfare un algoritmo. Il mio futuro? Sogno una comune che cresca i miei figli». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera venerdì 4 agosto 2023.

«La musica mi ha aiutato a superare i traumi», racconta il vincitore di Sanremo 2020. Ma oggi la musica ha bisogno di spazi diversi: «Abbiamo capito cosa permette di generare numeri, come funzionano le playlist e quali logiche guidino lo streaming... Non è giusto convivere tutti nello stesso tipo di piattaforma»

Antonio Diodato è in pace con se stesso . Per quanto possa esserlo un artista che si trova ogni giorno a fare i conti con la propria sensibilità e con un mondo dello spettacolo che vede solo numeri e ostenta record. «I 30 anni sono stato uno scalino traumatico» ricorda. «A 20 anni sei un ragazzo e vivi con tranquillità, soprattutto in Italia dove sei considerato giovane a lungo; a 30 ho sentito che era il momento di prendersi delle responsabilità e dare una spinta a ciò che stavo facendo. A 40 il tempo vola e non te ne accorgi. Però vivo con tranquillità in uno stato di conoscenza di me stesso sempre più profonda».

A 80 anni sarà ancora sul palco come Mick?

«Se ci arrivassi non mi dispiacerebbe, sempre che senta di aver bisogno di dire ancora qualcosa. Però mi vedo con la barba lunga e bianca, con l’aspetto di un uomo maturo che non rincorre una giovinezza passata. Tanto il ragazzino è sempre dentro».

Andiamo a ricercarlo quel ragazzino. Scelga una foto che racconta la sua vita prima della carriera musicale...

«Ce n’è una che mia mamma tiene ancora in quella che era la mia cameretta: sono io nel passeggino. Non mi riconosco fisicamente, mi fa strano vedere quasi un altro essere umano: biondino, guance paffute. È l’orgoglio di mamma: dice che tutti le facevano i complimenti per la mia bellezza e una volta la fermò pure un fotografo che fece quello scatto. Un’altra foto che mi piace mi ritrae con cappellino da mare e sigaretta, spenta ovviamente, quelle foto che facevano per strada: mi dà sensazione di libertà».

Era quello il bambino che stava in cameretta e «aveva paura del mondo» cui ha dedicato la vittoria di Sanremo 2020?

«Quello è arrivato più avanti, alle medie. Mi facevo domande, sentivo un’inquietudine interiore».

«MIO PADRE APRIVA TEMPORARY SHOP IN GIRO E CAMBIAVAMO CITTÀ OGNI VOLTA DOVEVO LASCIARE GLI AMICI... SOFFRIVO. LA MUSICA MI HA RIMESSO IN CONNESSIONE CON IL NUCLEO EMOTIVO CHE NASCONDEVO DENTRO»

Si è chiesto da dove venisse?

«Credo di averlo capito. A parte il fatto che sono nato ad Aosta perché eravamo lì in vacanza, ho vissuto a Santa Croce sull’Arno, a Noicattaro in provincia di Bari, Padova, Brindisi, Montecatini, Roma, a lungo a Taranto, e poi dopo le scuole da solo a Roma e ora a Milano. Papà faceva il commerciante di abbigliamento e apriva temporary shop dove capiva che c’era una buona opportunità. Da piccolo mi ha fatto soffrire, dovevo lasciare ogni volta degli amici, e per provare a tutelarmi ho iniziato a mettere dei filtri che mi aiutassero a non sentire più niente. La conseguenza è che vivo il cambiamento più facilmente, ma che ho anche qualche difficoltà a creare rapporti duraturi e intensi. La musica mi ha rimesso in connessione con il nucleo emotivo che nascondevo dentro. Era un rifugio, una compagna che sapevo non mi avrebbe mai tradito. E poi girando l’Italia con i concerti mi ha rimesso in contatto con tutti quegli amici che avevo lasciato».

Sfogliamo l’album fotografico della carriera. Quale immagine sceglie?

«Una del 2006-7 in cui sono sul palco e ho il volto trasfigurato da un urlo. Anche quella sta a casa dei miei, e compensa tutte quelle tremende di matrimoni e altre occasioni... Temo però che mamma voglia rimpiazzarla, come le altre, con quelle della nipotina. Fra le cose che conservo con più piacere c’è anche un video girato da mio cugino al momento della proclamazione del vincitore di Sanremo 2020: ha messo il telefono dove tutta la famiglia stava seguendo la finale per registrare la reaction. Rivederlo mi aiuta a dare il giusto peso specifico a tutto. È una cosa bella che è successa a me, ma anche agli altri, a chi mi è stato vicino e ha sofferto».

La raccolta che ancora non c’è: una foto che arriva dal futuro?

«Sicuramente collettiva. Il mio futuro me lo immagino in condivisione di spazi e luoghi con le persone che mi vogliono bene. Mi piace l’idea della comune, che ho sperimentato da studente a Roma, anche se suona un po’ hippy. È una situazione che ti aiuta a ridimensionare, a stare con i piedi per terra».

«OGNI MUSICISTA DEVE AVERE IL SUO SPAZIO: ALTRI TEMPI, ALTRI CIRCUITI... ALTRIMENTI IL SISTEMA PORTA ALL’APPIATTIMENTO DEI GUSTI DEL PUBBLICO E A INUTILI FRUSTRAZIONI CHE DA ARTISTA È SBAGLIATO AVERE»

Niente bambini? Che poi sua mamma si preoccupa perché lei non si sistema, come canta in ‘Occhiali da sole’...

«Anche quelli, magari cresciuti da quella collettività... Penso alle gioie della mia vita sempre in relazione ad altri. La vittoria al Festival è quel momento in famiglia o vedere l’esultanza dei miei discografici. Il concerto all’Arena di Verona è mio padre in prima fila che piange. L’uomo dietro il campione mi riporta all’emozione che ho visto in Baggio quando l’ha sentita».

La musica però oggi sembra più muscoli e numeri, egotrip più che condivisione...

«Anche se provo a starne fuori è brutto pensare che tutto si sia ridotto a quello. Attenzione, sarei felicissimo di fare San Siro ma non può esserci solo quello. Abbiamo capito cosa permette di generare numeri, come funzionano le playlist e quali logiche guidino lo streaming. Sono giunto alla conclusione che non è giusto convivere tutti nello stesso tipo di piattaforma. C’è una musica che ha bisogno di altri tempi, altri circuiti. Altrimenti il sistema porta all’appiattimento dei gusti del pubblico e a inutili frustrazioni che da artista è sbagliato avere. La sensazione è che tutti rincorriamo qualcosa cercando di soddisfare un algoritmo e che se non fai un record sia un fallimento».

Connessione è una parola che usa spesso... quella con Amadeus? Tornerebbe in gara al Festival?

«Quando è uscito questo disco Amadeus mi ha sempre fatto capire che sarei stato il benvenuto. Lo ha fatto senza mai pressione, senza tirarmi la giacca consapevole del non volermi creare dei tentennamenti. Avevo in mente un percorso diverso, pur consapevole che Sanremo avrebbe aiutato la visibilità del disco. Avessi qualcosa di bello l’anno prossimo ci tornerei anche perché Amadeus è molto attento a tutelare le proprie scelte artistiche».

Prima del tour estivo nei festival italiani, ha fatto concerti in Europa (Madrid, Berlino, Parigi, Amsterdam e Praga) e in Cina (Pechino e Zhailiaoxi): che sensazioni la accompagnano in valigia?

«Faccio musica per incontrare la gente e le canzoni sono il ponte verso gli altri: sul palco gli incontri prendono vita».

All’estero che pubblico incontra?

«Mi ha sorpreso trovarmi di fronte gente del luogo. Mi fa pensare che ho avuto ragione a credere in una musica capace di abbattere le barriere, anche quelle linguistiche. Sono cresciuto ascoltando canzoni di cui non capivo le parole, ma che mi davano emozioni forti. Vedere che le mie hanno lo stesso effetto, sentire frasi come “non capisco cosa dici, ma sento quello che vuoi comunicare”, è una soddisfazione. A chi mi dice che sta imparando l’italiano con le mie canzoni rispondo che poteva andargli meglio (ride)...».

Da ragazzo le è capitato lo stesso con l’inglese?

«Alle superiori stavo fra il 4 e il 5... ma avevo già una band. Il giorno della consegna dei diplomi Cambridge la scuola ci chiamò a suonare di fronte ai compagni, ai docenti inglesi e alla mia prof. Facevamo pezzi degli U2, dei Radiohead, dei Red Hot Chili Peppers. Vedevo che la prof mi guardava in modo strano. Il giorno dopo mi fece i complimenti e da allora il mio voto fu 7».

Così speciale , il suo quinto album, è uscito a febbraio. Come lo ha sentito cambiare in questi mesi di rapporto con il pubblico?

«Nei concerti siamo in nove sul palco e suoniamo tutto, senza sequenze o basi: ci sono quindi incognite e variabili diverse che non ti fanno capire fino in fondo perché quella particolare sera una certa canzone è protagonista. Sono brani con i quali il rapporto è ancora aperto, raccontano cose recenti».

«NOI ITALIANI. CI AFFIDIAMO ALL’INERZIA, AL QUALUNQUISMO IMPERANTE. LA REAZIONE, INVECE, DEVE VENIRE DA NOI, DALLE NOSTRE SCELTE, DAL NOSTRO METTERSI NEI PANNI DELL’ALTRO. SE VOLTIAMO LA TESTA DALL’ALTRA PARTE»

Ci vorrebbe un miracolo , singolo in uscita a fine settembre, è attualissima: è un ritratto di una società guidata dal populismo e da istinti che non sentono ragioni...

«In questo tour europeo ho respirato un’aria e una proiezione diverse da quelle che si respirano da noi ormai da anni. L’Italia mi sembra un Paese frustrato e infelice, che non crede più nel futuro. La gente grida, si sfoga e non capisce perché non sta bene: mi sembra che si sia sfaldato il tessuto sociale, che non ci sia tutela nei confronti di chi si sforza per creare una società equilibrata. Non sappiamo ascoltare, non sappiamo metterci nei panni dell’altro: mi fa ancora più male pensare che queste erano doti spiccatamente italiane una volta».

Nel testo dice “vienimi a salvare, vienici a salvare”. A chi si rivolge?

«La richiesta di aiuto a qualcosa di più alto, che sia la politica o qualcosa che viene dal cielo, è uno stereotipo di noi italiani. Ci affidiamo all’inerzia, al qualunquismo imperante. La reazione, invece, deve venire da noi, dalle nostre scelte, dal nostro mettersi nei panni dell’altro. Se voltiamo la testa dall’altra parte e diamo voce a chi urla slogan non ne usciremo».

«NELLA MIA TARANTO NON CAMBIA NULLA, C’È ANCORA L’IDEA CHE SI POSSA BARATTARE LA SALUTE CON IL LAVORO. È SPAVENTOSO»

Chi salva la sua Taranto? Dopo 10 anni di Uno Maggio libero e pensante, la manifestazione di cui lei è direttore artistico, i problemi sono ancora lì...

«Il progetto è nato da me, Roy Paci, Michele Riondino, e da un gruppo di operai, disoccupati e semplici cittadini. Dopo il disastro meteo che ci ha fatto sospendere la maratona di quest’anno abbiamo pensato di mollare. Economicamente si fatica a stare in piedi in un mondo che va in un’altra direzione. Ho ricevuto messaggi di affetto che mi hanno fatto ricredere. A Taranto però non cambia nulla. C’è ancora l’idea che si possa scambiare lavoro e salute. Trovo spaventoso vedere chi è rassegnato all’idea che la vita umana valga meno delle priorità economiche. Sembra che si dica “gli operai muoiono, che ci possiamo fare?”. Mi sembra la stessa indifferenza che ci fa vedere una distanza abissale fra noi e chi arriva qui a bordo di una barca. Non ha senso, sulla barca ci siamo tutti e ci dobbiamo rimboccare le maniche».

CHI E’ DIODATO

LA VITA - Antonio Diodato è nato ad Aosta (i genitori erano in vacanza) il 30 agosto 1981. Ha cambiato casa molte volte perché il padre vendeva abbigliamento nei temporary shop.

LA CARRIERA - I primi lavori artistici sono stati realizzati in Svezia. Tornato in Italia si è laureato al DAMS di Roma in Cinema, televisione e nuovi media. Il primo album, E forse sono pazzo, è uscito nel 2013. Nello stesso anno ha partecipato alla colonna sonora del film Anni felici di Daniele Luchetti reinterpretando Amore che vieni, amore che va di Fabrizio De André.

SANREMO - La prima partecipazione al Festival di Sanremo è datata 2018 quando partecipa con il brano Adesso. Nel 2020, torna al festival sanremese per la terza volta e vince con il brano Fai rumore

Antonio Albanese racconta ‘Cento Domeniche’: “Che miseria l’Italia avida che frega i lavoratori”. L’attore e regista rimette al centro la classe operaia in un film che ricorda il cinema di Loach. “Ricordo i tempi in cui si usciva dalla fabbrica con l’Unità sotto braccio. Torniamo a parlare degli ultimi e a dare loro il supporto che meritano: sono spariti dal dibattito”.  Chiara Nicoletti su L'Unità il 26 Ottobre 2023

“È un racconto del mondo operaio, un pianeta che dobbiamo cominciare a notare e guardare, ci dobbiamo aiutare”. Commenta così Antonio Albanese la necessità sua e del collega attore Michele Riondino divenuto regista con Palazzina Laf, di fare un film sul mondo del lavoro e denunciarne le ingiustizie, i tradimenti. Alla 18esima Festa del Cinema di Roma e dal 23 novembre al cinema, Cento Domeniche, quarto lungometraggio e quinta regia dell’eclettico attore Albanese, narra di Antonio, ex operaio di un cantiere nautico, la cui vita tranquilla da giocatore di bocce, figlio devoto di madre novantenne e padre orgoglioso di un’unica e amatissima figlia, viene sconvolta da un crac bancario che gli impedisce di realizzare il sogno più semplice di tutti: regalare alla figlia il ricevimento di nozze che voleva da sempre.

Le cento domeniche sono quelle in cui si narra che un altro operaio abbia costruito pazientemente la propria casa con i propri risparmi e l’impegno costante di una vita tranquilla, faticosa ma onesta. Da ex operaio metalmeccanico, Antonio Albanese racconta una storia ambientata in un mondo di cui ha fatto orgogliosamente parte, nei luoghi che gli hanno dato i natali per mostrarne un’amara universalità e per mettere in luce quelle che lui stesso ha definito “storie di ordinaria avidità, che hanno travolto le esistenze di centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori su e giù per la penisola”.

“Quello che Antonio subisce è un tradimento. In quella provincia operosa dove è cresciuto, della banca del paese ci si è sempre fidati. Per tutti la banca è sempre stata il confessionale. Per questo, alla scoperta del raggiro, la prima reazione di Antonio è di incredulità. Poi subentra lo smarrimento e l’angoscia di chi è stato tradito proprio da chi si fidava, la vergogna di non aver intuito quanto stava accadendo”. Il sentimento portante del suo protagonista, che interpreta, è proprio la vergogna che culmina in quella che potremmo definire, facilmente, disperazione. Con pochi altri giornalisti, a poche ore dai primi applausi al film, alla proiezione per la stampa, incontriamo Antonio Albanese che, a cuore aperto, ci confessa genesi, svolgimento e speranze del suo Cento Domeniche.

Un film il cui protagonista poteva essere lei, visto il suo passato di operaio.

Vengo da quel mondo, ho fatto il metalmeccanico per sei anni e non sono pochi, lo dico con orgoglio. Poi ho scoperto il mondo del teatro che mi ha colpito. Ho lasciato il certo per l’incerto e con l’arrivo a Milano ho avuto la fortuna di entrare in accademia. Poi la passione e anche il bisogno mi hanno avvicinato alla comicità, una forma d’arte tra le più elevate in assoluto e ho cominciato così. Ma non ho mai dimenticato il mio mondo, il mio paesello (Olginate, ndr) che continuo a frequentare e dove ho cari amici. Con Piero Guerrera, mio co-sceneggiatore che sa quanto amo quel mondo, ci siamo avvicinati a queste storie. E sì, potevo essere io il protagonista, poiché per età, per crisi del lavoro, sarei potuto andare in prepensionamento e trovarmi anche io nella situazione di Antonio nel film. Non perché io sia ingenuo ma perché mi fido degli altri. Volevo rappresentare questa tragedia e un tema poco rappresentato soprattutto nel mondo operaio, che ci sostiene da sempre. Da spettatore mi sono detto che desideravo vedere questa storia. Con grandi attori, tecnici stupendi e grande impegno, ci siamo convinti di poter raccontare una verità. Questo è un film necessario perché racconta un’ingiustizia che non va dimenticata.

Oltre che una necessità, da artista, attore e regista, sente una responsabilità nel suo lavoro?

40 anni fa circa, l’Unità sosteneva quel mondo operaio che io tratto nel film e loro si sentivano meno soli. Gli operai uscivano dalle fabbriche con l’Unità sotto il braccio. Poi non ci siete stati più e adesso anche l’Unità ancora se ne occupa poco. Ma, io sento questa responsabilità da regista, le cose cambieranno e grazie a voi giornalisti, al vostro appoggio e alla vostra considerazione, so che gli operai potranno abbandonare questa solitudine perché sosterremo nuovamente la realtà operaia che raccontiamo nel film e insieme daremo visibilità alla miriade di persone che sostengono questo paese.

Il suo protagonista vive nel film un crescendo di emozioni, pacate seppur potenti: incredulità, angoscia, vergogna. Poi, però, alla fine, Antonio non ce la fa più.

Io reputo Antonio nel film una persona sana, intelligente e profondamente onesta. A un certo punto però ringrazia, si scusa con la figlia, il suo grande amore, e non riesce più a trattenere questa vergogna, questo tradimento. Come lui stesso dice: è arrivato nel confessionale, in quel luogo che era la banca, dove lui poteva fidarsi e invece si ritrova tradito completamente. Io ho raccontato una persona che condivide cose semplici la cui serenità all’improvviso viene rotta e scompare. In persone così tranquille, questo si può trasformare nell’opposto assoluto. Io ho raccontato la verità fino in fondo, non volevo accompagnare il pubblico verso casa con le speranze, le speranze sono altre.

Come si descriverebbe da regista? Nel suo film si intravedono riferimenti al cinema del lavoro e di denuncia di Mike Leigh, Ken Loach e anche Cristian Mungiu.

Io mi chiamo Antonio Albanese, sono nato a Lecco e vivo a Milano. Sono uno spettatore, amo il cinema e ci vado spessissimo grazie alle poche sale che sono rimaste. Ha citato tre divinità. Per me Segreti e Bugie di Mike Leigh rimane uno dei miei 10 film preferiti in assoluto. Conosco benissimo anche Ken Loach però i loro sono tempi e linguaggi diversi e io forse, a differenza loro, quel mondo l’ho vissuto. Arrivo da una provincia industriale che però conosco e volevo rappresentare a modo mio, non c’è la Thatcher, non ci sono miniere di carbone, disoccupazioni. L’unico tatuaggio che ho è un’incisione di un truciolatore che ho avuto a 22 anni. È un tema ben preciso quello di Cento Domeniche, le ingiustizie bancarie che hanno colpito soprattutto l’Italia. Ad ogni modo, se trovate nel mio cinema riferimenti così nobili, io me li abbraccio.

L’Antonio Albanese attore come si distacca dai personaggi, anche molto comici, recitati in passato?

È sempre una questione di lavoro, devi lavorare, non puoi improvvisare per raccontare una cosa con uno stile diverso. Qualunquemente, anche se ufficialmente un film comico, per me è una delle cose più drammatiche che abbia mai fatto. I topi, a mio avviso tra le mie opere più riuscite, è un modo molto efficace di rappresentare queste merde umane, questi mafiosi schifosi. È uno stile diverso. Io mi annoio facilmente e mi piace sorprendere e farmi sorprendere. Abbiamo lavorato anni a Cento Domeniche, non è che sia arrivato così. Anche Come un gatto in tangenziale è un’altra cosa non tanto facile, mantenere quella sorpresa continua, scena per scena e capire come interagire con chi ci sta vicino. Ora mi piacerebbe interpretare un soldato, perché non ne ho mai fatto uno.

Chiara Nicoletti 26 Ottobre 2023

Antonio Albanese: «Fare l’attore comico è uno dei mestieri più difficili». In molti lo conoscono per Cetto La Qualunque e altri personaggi inconfondibili. Adesso una nuova folgorazione: la regia di opere liriche. «È stato un colpo di fulmine. Trovo il melodramma una forma d’arte all’avanguardia». Aisha Cerami su L’Espresso il 16 Gennaio 2023.

Antonio Albanese è uno dei pochissimi attori in Italia, forse l’unico, ad avere così tante vene artistiche. È un comico straordinario, creatore di personaggi senza tempo. È un raffinato attore drammatico, un talentuoso regista cinematografico e teatrale, un ballerino sopraffino e uno scrittore (sì, ha scritto anche dei libri). Com’è possibile avere tutte queste abilità?

Sa fare tutto, gli dico appena me lo vedo apparire in videochiamata.

«Io non faccio tutto. Semplicemente faccio il mio lavoro. Sono un attore, e per fare l’attore bisogna pensare, osservare. E questo vuol dire scrivere. Fare l’attore implica la conoscenza del proprio corpo, il sapersi muovere, essere in grado anche di ballare, e ballare è musica. Fare l’attore vuol dire comunicare, immaginare, prendere delle decisioni: dunque anche dirigere».

Non mi stupirei se mi dicesse che sa anche disegnare.

«No, sono negato, e ci soffro perché sono un vero appassionato di pittura, di disegni in particolare. Mi piace credere di essere uno dei massimi esperti di George Grosz».

Lei è anche un motivo di speranza per chi crede che la vita non sia già scritta nelle pagine di un destino. Figlio di operai, a quindici anni entra in una piccola azienda come tornitore. A ventidue anni lascia il certo per l’incerto e fa delle scelte che la porteranno al successo.

«Da bambino nessuno mi ha aperto delle finestre per farmi scrutare un universo al di fuori di quello che conoscevo, familiare, piccolo. Eppure, grazie a un gruppo di amici, grazie a una passione debordante, a molti sacrifici e rinunce, sono riuscito a costruire un solido trampolino di lancio. Una volta a Milano, città alla quale devo tutto, ho seguito dei corsi serali di teatro. Poi ho fatto la “Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi” e da lì ho cominciato a fare cabaret… mi pagavano subito, e visto le mie condizioni economiche di allora mi faceva molto comodo».

Chi è stato a scoprirla?

«Giampiero Solari insieme a Paolo Rossi, mi notarono una sera in un locale. Rossi aveva bisogno di aiutanti, di una spalla nel suo programma televisivo “Su la testa”, e così mi chiese di lavorare con lui. Eravamo a Baggio, dentro un tendone, in un quartiere periferico di Milano. La ricordo come un’esperienza illuminante, capii che mi trovavo nel posto giusto. Da lì poi c’è stato l’incontro con la Gialappa’s Band, che mi chiamò per “Mai dire gol”, quindi mi ha visto Mazzacurati per il cinema e così via, ora non mi pare il caso di declamare il curriculum (ride)».

Se dovessi scrivere qui tutto quello che ha fatto l’elenco sarebbe lunghissimo. Parliamo invece di quello che accadrà nel 2023, che mi pare già tanto.

«Si apre un anno molto particolare per me. Un anno dove farò tutto quello che amo fare. Le spiego: ora esce al cinema un bellissimo film di Riccardo Milani, “Grazie ragazzi”, dove interpreto un regista squattrinato che si ritrova a dirigere un corso di teatro all’interno di un carcere di sicurezza. Allo stesso tempo dovrò spostarmi in Sardegna per realizzare la regia di “Gloria”, un’opera lirica semi-sconosciuta di Francesco Cilea, che il 10 febbraio inaugurerà la stagione del Teatro Lirico di Cagliari. Poi, dal 23 al 26 febbraio, sarò al Teatro degli Arcimboldi di Milano con tutti i miei personaggi. Maschere che ho costruito nel tempo, con minuzia, attenzione ossessiva, precisione, osservazione…non sa quanto ci tengo ai miei personaggi! Io sono molto più protettivo nei loro confronti che nei confronti della mia immagine. Le faccio un esempio: io non ho social. Non ho tempo. Anni fa c’era uno che aveva aperto un canale con la faccia di Cetto La Qualunque, il mio imprenditore-politico calabrese depravato e corrotto; ci guadagnava addirittura qualche soldino. Mi sono arrabbiato e l’ho fatto chiudere. I miei personaggi non si toccano! Adesso, sempre su Instagram, c’è un tizio che usa la mia di faccia, con più di centomila contatti. Beh, non mi importa. Mi dispiace solo per chi crede che sia io».

In effetti è strano, ci si aspetterebbe il contrario! Vorrei però tornare all’Opera lirica, che mi incuriosisce molto. Come ha cominciato a fare il regista per i maggiori teatri lirici d’Italia?

«Fare l’attore comico è uno dei mestieri più difficili. Prevede istinto, tecnica, scrittura, abilità motorie, forte espressività, senso del ritmo, ascolto. Se ho tutte queste capacità, come credo di avere, perché non dovrei essere capace di dirigere dei cantanti lirici? E mi ci diverto parecchio. A loro spesso dico: meglio non fare nulla che troppo. Non dovete essere eccessivamente entusiasti! Eliminate la fisicità barricata».

Barricata?

«Sì, come il vino barricato, vecchio! Ho cominciato grazie a Stéphane Lissner, che a quei tempi era il sovrintendente e direttore artistico del Teatro alla Scala di Milano. È stato lui ha propormi la regia di “Le convenienze ed inconvenienze teatrali” di Donizetti. Da lì l’occasione con l’Arena di Verona, per la quale misi in scena, sempre di Donizetti, il Don Pasquale. Quello con la lirica è stato un incontro folgorante. Trovo il melodramma una forma d’arte all’avanguardia. E poi, non sai che meraviglia stare in mezzo a un’orchestra. Travolto dalla musica, da voci splendide. Questa sulla quale sto lavorando ormai da mesi è una sfida meravigliosa. È stata rappresentata per la prima volta nel 1907 alla Scala di Milano diretta da Arturo Toscanini, poi a Napoli nel 1938, e poi se ne sono perse le tracce fino al 1969, quando venne trasmessa alla radio per la prima volta. Insomma, nessuno oggi può dire di aver mai visto “Gloria” in teatro. E io sarò il primo a metterla in scena dopo oltre ottant’anni».

E tra le tante cose ha in programma anche la regia di un suo film?

«Assolutamente sì. Dopo l’estate uscirà un lungometraggio che si intitola “Cento domeniche”. Mi sta molto a cuore; l’ho girato nella fabbrica dove ho lavorato da bimbo. Ma non dico di più, è ancora presto».

Mi sta raccontando una vita in discesa. Non ha mai avuto momenti difficili, ripensamenti, paure?

«Le rispondo con un poco di imbarazzo. La verità è che da quando ho cominciato a lavorare non ho avuto momenti difficili da affrontare. Certo, ho rinunciato a molti progetti anche importanti, ma non mi sono mai pentito. Sono un perfezionista, ogni mia scelta è stata ponderata con estrema attenzione. Ho avuto anche la fortuna di incontrare artisti di valore che mi hanno dato tanto, tra i quali Vincenzo Cerami, Michele Serra, Stefano Benni, Giampiero Solari e tanti altri. Diciamolo, sono un uomo anche molto fortunato».

Cosa pensa del nuovo governo?

«Io sto alla politica come Polifemo sta allo strabismo, quindi difficilmente ne parlo, ma di certo una cosa posso dirla: durante queste ultime elezioni politiche non ho mai sentito pronunciare la parola cultura. E questo è vergognoso».

Antonio Albanese e l’arte di fare di una storia una reale emozione. Nicola Santini su L’Identità il 13 Gennaio 2023.

Di fronte alla mancanza di offerte di lavoro, Antonio, attore appassionato ma spesso disoccupato, accetta un lavoro offertogli da un vecchio amico e collega, assai più smaliziato di lui, come insegnante di un laboratorio teatrale all’interno di un istituto penitenziario. All’inizio titubante, scopre del talento nell’ improbabile compagnia di detenuti e questo riaccende in lui la passione e la voglia di fare teatro, al punto da convincere la severa direttrice del carcere a valicare le mura della prigione e mettere in scena la famosa commedia di Samuel Beckett “Aspettando Godot” su un vero palcoscenico teatrale. Giorno dopo giorno i detenuti si arrendono alla risolutezza di Antonio e si lasciano andare scoprendo il potere liberatorio dell’arte e la sua capacità di dare uno scopo e una speranza oltre l’attesa.

Così quando arriva il definitivo via libera, inizia un tour trionfale. Questa, in sintesi, la trama di “Grazie Ragazzi”, il nuovo film diretto da Riccardo Milani, che vede protagonista Antonio Albanese e che ha esordito sul grande schermo proprio ieri. La pellicola, tratta dal film “Un Triomphe” scritto da Emmanuel Courcol e Thierry de Carbonnières diretto da Emmanuel Courcol liberamente ispirato alla vera storia di Jan Jonson, era una delle più attese dell’annata cinematografica in corso e a quanto pare, almeno stando ai primi riscontri, non sembra affatto deludere le aspettative. A presentare “Grazie Ragazzi” a L’Identità è il protagonista Antonio Albanese.

Antonio, come nasce il tuo coinvolgimento in questo film?

Tutto è nato dal produttore Carlo Degli Esposti, che ha realizzato “Grazie ragazzi” con la sua Palomar insieme alla Wildside di Mario Gianani, mi ha proposto di essere il protagonista di questo film ispirato a una storia vera che non conoscevo e che aveva già ispirato una versione francese di grande successo.

Dopo, quando sei passato alla lettura del copione, quali sensazioni hai provato?

Ho capito subito il valore di questo film sin dalla prima lettura del copione, visto che nel corso del racconto si assiste a una vera e propria ascesa verso la gioia e la felicità, ho trovato molto stimolante l’opportunità di poter parlare di come l’arte possa migliorare le persone e creare pace e serenità.

Ho in qualche modo riconosciuto il mio personaggio, e mi sono ritrovato subito in sintonia con quelle dinamiche. Ho valutato quindi importante e necessaria l’occasione di confrontarmi con un testo così attuale che portava in scena la possibilità di coinvolgere persone meno fortunate in un incontro tra umanità diverse. Questi detenuti, lavorando insieme al loro insegnante all’allestimento di uno spettacolo, riescono a trarre dall’arte del teatro la gioia, la voglia di vivere e un nuovo equilibrio, ed è questo il punto di forza di un racconto pieno di umanità che nobilita il teatro: l’arte non solo può educare le persone, ma anche guarirle.

Com’è stato raccontare in scena una storia realmente accaduta?

Sì, questa storia è accaduta circa quarant’anni fa in Svezia, a una persona che ha tenuto un corso di teatro a un gruppo di detenuti. Io ho cercato di immaginare che cosa potesse succedere all’epoca in un contesto come quello, mentre oggi un evento simile è più all’ordine del giorno, c’è stata un’evoluzione: chi ha un ruolo istituzionale non è poi così sorpreso, come accade nel nostro film alla direttrice impersonata da Sonia Bergamasco, che in un primo tempo appare scettica e poi invece col tempo scopre e rivaluta questa esperienza come positiva, inoltre se i detenuti si vedono proporre all’improvviso un testo per loro sconosciuto come “Aspettando Godot” di Beckett la loro reazione non può essere che comica. In un primo tempo magari accettano l’esperienza insolita per stare un po’ di tempo fuori dalla loro cella, ma poi nascono le motivazioni più profonde, scoprono che la lettura e il rapporto con la recitazione può diventare un’avventura magnifica, liberatoria e salvifica, come l’amico del protagonista, Fabrizio Bentivoglio, direttore di un teatro che si aggrega al progetto solo quando scopre che arrivano i riconoscimenti e le soddisfazioni: quando si scopre che qualcosa può fare del bene, tutti stanno bene.

Fulvia Caprara per “la Stampa” il 10 gennaio 2023.

La precisazione non è marginale: «Sono uno dei pochi attori cresciuti in fabbrica, mi hanno assunto a 15 anni e ne sono uscito a 22, dal teatro ero ben lontano». Sarà anche per questo che Antonio Albanese non ha mai separato il mestiere d'attore dal suo modo di pensare, anzi, ha trovato il modo per tradurre le opinioni in personaggi amatissimi, scegliendo storie, anche molto comiche, che raccontassero un pezzo d'Italia:

 «Nel '97, con Michele Serra, abbiamo scritto lo spettacolo Giù al Nord, si parlava di Eternit, ebbe un gran successo. Un sindaco, dopo averlo visto, decise di levare l'Eternit dai tetti delle scuole del paese». La cultura, il cinema, il teatro, dove è tornato per interpretare il nuovo film di Riccardo Milani Grazie ragazzi (in sala da giovedì), sono, secondo Albanese, modi per «raccontare verità, soprattutto alle ultime generazioni, per far capire loro che viviamo in un mondo ridicolo. Si può sorridere anche affrontando temi importanti».

 Nella saga di Come un gatto in tangenziale ha preso in giro i radical chic senza contatto con la realtà. Come vede oggi quella classe politica?

«Siamo messi abbastanza male. Abbiamo una sinistra democratica che si è cullata nelle ideologie, per poi ritrovarsi in ritardo rispetto a quello che accade nel quotidiano. È una battutaccia, ma mi viene di dirla, io alla politica sto come Polifemo allo strabismo, nel senso che per me la politica è tutto, anche il modo con cui si alza un bicchiere, per questo continuo a impegnarmi al massimo nel mestiere che faccio».

 In Grazie ragazzi è un attore che fa scoprire il teatro ai detenuti. La cultura salva?

«Certo, sviluppare la cultura fa sempre bene, crea un vortice positivo, migliora la vita. Ho notato con molto dispiacere che, alle ultime elezioni, nessun politico abbia citato, nei suoi discorsi, la parola cultura, lo trovo vergognoso».

 Secondo lei che cosa è importante raccontare oggi?

«Mi pare urgente ironizzare su una strana forma di militarismo che stiamo iniziando a subire, ho visto le immagini dal Brasile, mi hanno spaventato moltissimo. La cosa fondamentale è capirsi, parlare del bisogno di solidarietà, amare il territorio in cui viviamo, rispettare le regole, tutte, da quelle che riguardano la differenziata e i parcheggi, e poi stare attenti nell'uso delle parole, coltivare il senso civico, il rispetto degli altri. Dove questo si realizza c'è più serenità. Bisogna iniziare dalle piccole cose, capendo che è un momento storico molto difficile da gestire».

 Nel quadro politico attuale c'è ancora spazio per Cetto La Qualunque?

«Cetto c'è, c'è stato, e ci sarà ancora. Vado a passi lenti, ogni periodo ha il suo linguaggio, però ricordiamoci che la commedia dell'arte l'abbiamo inventata noi, e un motivo ci sarà... un po' di tolleranza può esserci, anche se a tutto c'è un limite».

 Che ne dice delle polemiche scoppiate sull'aumento della soglia del contante?

«Quella è una decisione sbagliata, così si stimolano le piccole rapine. In certi Paesi, quelli dove il contante non esiste, le rapine non ci sono. Chi propone questi provvedimenti dovrebbe contemporaneamente proporre il rispetto dell'evasione fiscale, così le cose vanno di pari passo».

 Il suo prossimo film da regista, 100 domeniche, tocca il tema banche ed economia. Un'altra denuncia in forma di commedia.

«Racconto la storia di un uomo modesto, che ha fatto l'operaio tutta la vita e che, da sempre, ha messo da parte i soldi per far sposare l'unica figlia. A un passo dalla realizzazione del sogno scopre che i suoi risparmi, raccolti con il Tfr e il pre-pensionamento e custoditi in banca, non esistono più.

 È una cosa successa sul serio a migliaia di persone che si sono fidate delle loro banche, ho scritto il film con l'aiuto di consulenti ed esperti di economia, in particolare di questo tipo di crack finanziari».

 In Contromano, del 2018, immaginava di aiutare i migranti riportandoli nel loro Paese, in Senegal, secondo la formula «aiutiamoli a casa loro». Nella realtà gli sbarchi continuano e i drammi si moltiplicano. Che impressione le fa?

«Nel film provavo a offrire una soluzione dando ai migranti la possibilità di imparare un mestiere e di valorizzare il territorio meraviglioso da cui provenivano, facendolo diventare talmente ricco da spingere noi ad andare da loro.

 Era il mio piccolo messaggio, quelle persone non vengono via volentieri dai luoghi in cui sono nate, c'è una disperazione terribile nella loro scelta di andarsene. Contromano era una specie di provocazione, qualcuno, penso ai tentativi di Slow Food, ha provato a trattenere commercianti e coltivatori. Poteva essere una strada interessante da seguire. Invece non è successo niente, i centri di accoglienza sono strapieni, oggi le persone che arrivano in Italia sono costrette a vivere trascinandosi sotto i portici delle nostre città. Servirebbe un movimento europeo capace di fornire delle possibilità diverse da queste».

Antonio Albanese, risate in carcere: «Un mondo dimenticato». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.

Diretta da Riccardo Milani, «Grazie ragazzi» è una commedia su un laboratorio teatrale grazie a cui i detenuti scoprono il potere liberatorio dell’arte. «Il palcoscenico mi ha reso felice»

La storia è vera. Successe in Svezia nel 1985, quando un attore, Jan Jönson, mise in scena con cinque detenuti del penitenziario di massima sicurezza di Kumla «Aspettando Godot» di Beckett. Un inizio di tournée trionfale seguito da un disastro: l’evasione di tutti gli attori prima della replica a Göteborg. Una storia già raccontata al cinema da Emmanuel Corcol in «Un triomphe», che Riccardo Milani (con Michele Astori) ha cucito addosso ad Antonio Albanese, trasferendo la vicenda nel carcere di Velletri, in «Grazie ragazzi» (da mercoledì 11 gennaio in sala con Vision in 450 copie). «Antonio è un attore di scarso successo — campa doppiando film porno, ndr — che viene spinto dall’amico Michele, Fabrizio Bentivoglio, ad accettare di tenere un piccolo laboratorio in carcere. Grazie al contatto con questi ragazzi recupererà la passione per il suo mestiere e riuscirà a convincere la direttrice del carcere, Sonia Bergamasco, a concedergli tempo e modo di mettere in scena il loro Godot».

La quarta volta insieme per Albanese e Milani (dopo «Un Gatto in tangenziale» 1 e 2 e «Mamma o papà?»). «Commedie che raccontano il nostro tempo e sanno andare nel profondo dei personaggi», sottolinea l’attore. A cominciare dal suo, che riscopre la passione per il mestiere dopo «decenni di orgasmi e gemiti», come gli ricorda Michele. «Nei panni del regista mi è sembrato di rivivere la stessa sorpresa dei miei inizi. Posso dire di essere stato salvato dal teatro, in un certo modo. L’ho scoperto tardi, a 22, 23 anni, e mi ha reso un uomo più felice. Il personaggio riscopre insieme ai suoi attori quell’attimo fuggente in cui le emozioni inespresse trovano la via per emergere in scena. Credo sia stato lo stesso per i miei colleghi che hanno interpretato i detenuti — Vinicio Marchioni, Giacomo Ferrara, Giorgio Montanini, Andrea Lattanzi e Bogdan Iordachioiu — , tutti molto bravi a tatuarsi addosso la disperazione di quel contesto».

La cultura, dice, può fare la differenza. «È importantissima ma interessa sempre meno. Nelle ultime elezioni la parola cultura non è stata detta da nessuno. Vergognoso». Come, insistono tutti, lo è il disinteresse generale verso il mondo del carcere. «Se ne parla troppo poco e male — dice Albanese —, solo di fronte a conseguenze tragiche come è successo al Beccaria. Abbiamo girato a Velletri e a Rebibbia e ci siamo confrontati con ragazzi che lavorano, imparano a costruire delle cose, e tante persone che si occupano di loro nel modo giusto».

L’idea di «Grazie ragazzi», rilancia Milani, è offrire una «chiave semplice per trattare temi complicati, anche ostili. Antonio si ostina a cercare l’umanità di tutti — detenuti, agenti di custodia, attori — in un luogo dove è schiacciata. Mi era già capitato di girare in carcere, c’è molta volontà di aprirsi, tante persone impegnate per combattere il disagio, un lavoro che va riconosciuto». Una commedia su tante storie vere. «Come la figura della direttrice, ho incontrato quasi sempre donne in quel ruolo. Lì c’è lo Stato: lei riesce a forzare le cose, rompe meccanismi. Cerca spazi non di libertà ma di possibilità».

Michele Masneri per il Foglio - Estratti lunedì 4 dicembre 2023.

Come nome, “Drive In” ai più giovani ricorderà forse quegli accrocchi per vaccinarsi in macchina che si vedevano durante l’era Covid, ma per noi boomer degli anni Ottanta è una cosa molto molto importante. La trasmissione debutta il 4 ottobre 1983 alle 20:30 su Italia 1 alla stessa ora in cui su Canale 5 va in onda Dallas. 

“Italia 1 non la guardava nessuno”, racconta al Foglio Antonio Ricci, inventore di quello e di tanti programmi che hanno fatto la storia, a margine di un workshop proprio sul quarantennale del Drive In tenutosi ieri all’università Cattolica di Milano per il master dei Media e audiovisivi, che si è trasformato in una reunion tra post millennial occhialuti e volti che forse loro non hanno mai visto: Enrico Beruschi, Carmen Russo, Nino Formicola alias Gaspare del duo Zuzzurro e Gaspare. E poi Carlo Freccero e Barbara Palombelli per un applaudito “dibbbattito”.

Tutto parte dall’equivoco-Drive In. Come i film dei Vanzina, il programma nasceva come satira, ed è stato preso invece alla lettera, come inno, di quegli anni. “Prendevamo in giro gli anni Ottanta, la Milano da bere, gli anni reaganiani, l’inizio della finanza”, dice Ricci. “Avevamo l’americano vestito da Dallas, e venne pure il vero piccolo Arnold”. 

“Era il nostro American Graffiti, col richiamo ai vecchi cinema statunitensi all’aperto, ma i personaggi erano quanto di più contemporaneo esistesse”, dice Freccero, che all’epoca era capo del palinsesto di Canale 5 e Italia 1 (“e siccome sono masochista mettevo Dallas contro il suo simmetrico”).

“Nell’81 avevo visto Indiana Jones al festival di Venezia e capii che era cambiata per sempre la velocità dell’audiovisivo”, dice ancora Freccero. “Drive In andava in quella direzione. Velocità. Tagliare. Flusso narrativo senza stacchi. No liturgia del bravo presentatore. Il tormentone come ritornello. Drive In è il tipico prodotto postmoderno”, teorizza Freccero. “Usa gli archivi per inserirli nella contemporaneità. Penso a Memphis e al design e alla moda di quegli anni, quando l’Italia si apre al mondo ma il mondo apre all’Italia”. 

Il richiamo al movimento di design Memphis sembra assurdo ma invece è giustissimo. Perché alla base di Drive In e della tv ricciana ci sono i colori. “Volevo tinte molto sature, volevamo la morte del grigio e il trionfo dei colori a contrasto. Un’estetica da cartone animato, da Topolino. E pensavo di esserci riuscito, ma non riguardandolo mai, solo dopo due anni mi accorsi che invece la tv abbassava la gradazione; mi spiegarono che quando usavi dei colori così estremi l’esposimetro automaticamente li spegne, li riporta alla normalità dell’emissione”. 

Che sembra una grande metafora di qualcosa. “Poi dopo sono riuscito a superare questo problema”, e infatti il mondo successivo di Ricci tra satira e saturazione è un mondo di colori densissimi, Striscia sembra Roy Lichtenstein e il sito del programma, in cui c’è moltissimo materiale eterogeneo, dalle ricette di cucina al documentario sul Drive In, sembra un appartamento disegnato da Sottsass, magari quello di Karl Lagerfeld a Montecarlo (località dove risiede Ezio Greggio).

E poi la velocità. “Più che velocità è ritmo”, dice Ricci. “Volevo un programma solo di comici. Pativo i balletti e gli ospiti del varietà classico” dice lui, che si dichiara seguace di Enzo Trapani, leggendario regista ribelle Rai, l’anti-Antonello Falqui. A Drive In invece “sketch da 15, 20, 30 secondi. 

Lo spettatore non si era mai trovato davanti a un bombardamento del genere. Tutto era compresso. Tutto condensato in un ritmo infernale. Per fortuna ogni 12 minuti c’era la pubblicità, a cui si arrivava con un blocchetto di alleggerimento. Se uno guardava lo show senza le interruzioni pubblicitarie stava male. Abbiamo anche provato a fare dei finti spot tra quelli veri, ma non funzionavano”. Drive In e Italia 1 diventano la corsia di sorpasso della tv commerciale. Per tenere quel ritmo indiavolato “cinquanta situazioni diverse, per una durata di un’ora e mezza”, dice Ricci.

“Con due piani, uno schermo su cui scorrevano finti film fatti però alla perfezione, girati da Mariano Laurenti, finte pubblicità, finti telegiornali e telenovelas o vere comiche, e Benny Hill. Sotto, gli sketch ‘dal vivo’. Li registravamo durante tutta la settimana, mica come oggi che in una giornata porti a casa il programma”. 

A me han sempre colpito quei ragazzi bellocci un po’ tutti uguali, dall’aria vagamente americana e stralunata, che ridono a caso, tipo personaggi di Bret Easton Ellis, e facevano folla a incorniciare gli sketch. 

“Il pubblico era un vero e proprio personaggio”, dice Ricci. “Erano i ragazzi ridenti degli anni Ottanta. La risata era molto importante. Ce n’erano diversi tipi. Quella a testa indietro, quella a testa in avanti, il regista Beppe Recchia diceva: ‘testa in dietro!’ e tutti eseguivano. Poi c’era la risata registrata, fortissima, su tutto, specialmente con battute che non facevano ridere. Simboleggiava la falsità del momento, la Milano da bere. Avevo messo in giro l’idea che m’ero procurato delle vere risate americane dagli anni Quaranta, quindi risate di gente morta, i morti ridevano dei vivi e i vivi ridevano di loro stessi”.

Per realizzare tutti gli sketch c’è una redazione, una cosa mai vista prima. Composta da vignettisti, comici, pubblicitari. Una factory. Che agisce generalmente in posti impropri, in camerini o in residence a tarda notte. Curioso che uno dei programmi più milanesi dell’epoca fosse registrato a Roma. “Alla Dear, ma solo per il primo anno”, dice Ricci. 

E come andò a Roma? “Stavamo tutti in un residence”. Depressione, come tutti i nordici televisivi che finiscono nei residence romani? Dai pezzi grossi Rai al caso limite di Dino Risi, suicida ai Parioli. “No, niente depressione, anzi. A me i residence piacciono, anche a Milano vivo in residence, nella ridente Milano 2; mai preso casa. Ai tempi si lavorava dalle 11 alle 20, poi si andava a cena, e poi dopo cena a manetta, si scriveva fino a notte fonda”. Pare di vederli, a Milano 2.

Perché Drive In è anche e soprattutto una carrellata di silhouette della comédie humaine milanese. Il brodo di coltura del Drive In nasce negli stessi anni e pesca nello stesso bacino dei comici milanesi che poi finirà negli “Yuppies” dei Vanzina: Boldi, Greggio, Vastano. 

Alcune figure potrebbero essere tranquillamente di oggi: come il bocconiano parcheggiato a Milano interpretato proprio da Vastano. “Studente-calabrese-di-famiglia-benestante-al-quinto-Anno-fuoricorso-della… sospiro e aspirazione di Vibo Valentia… Bocchhhhhoni. 

Si informi di come ci trattano all’Università di Arcavacata!”. Il bocconiano frequenta corsi come “Storia dell’economia medievale del leasing”, e oggi potrebbe essere uno degli studenti che vanno a sciabolare nelle sciampagnerie, o altri “mostri” del nuovo corso di Milano. Gli influencer, gli immobiliaristi-influencer, i cuochi influencer… “Ma anche gli archistar, i trapper”, dice Ricci.

A Roma invece ci sono i grandi nemici, la Rai e la politica. “Davanti a viale Mazzini, Trapani mi disse: ‘Vedi Antonio, qui dentro ci sono ventimila persone che lavoreranno contro di te’”. La satira politica raggiunge livelli mai visti prima. “Era a tutto tondo, non c’erano schieramenti”, ricorda Freccero. “Fu un allentamento notevole delle briglia della censura”, dice Ricci. 

Era quasi sempre Gianfranco D’Angelo, il mattatore del Drive In (tanto che a Cologno ora c’è una piazzetta intitolata a lui, e una teca in cui è, di spalle, esposto uno di quei suoi gilet di lustrini che facevano tanto, altro tocco assurdo, Michael Jackson). D’Angelo, mancato nel 2021, impersonava una serie infinita di personaggi: dal Tenerone, una specie di pre-Gabibbo, ma buono, di peluche rosa. “Era falsamente buono, era ipocrita in realtà”, dice Ricci. “Era di una razza che avevamo inventato, un batuffoloide, aveva la testa che si infossava nel collo quando si emozionava, diceva come intercalare Pippo! Pippo! Che era stata un’idea di Gino e Michele, di ritorno da una vacanza in Grecia, dove per chiamare le galline dicevano appunto Pippo! Pippo!”.

D’Angelo si sbizzarriva poi coi politici. Ecco Ciriaco De Mita nella meta-imitazione, vestito da antico filosofo, con la toga, “sono Giriago De Mida, indelledduale della magna Grecia” (era la definizione che gli aveva affibbiato Gianni Agnelli). Ecco De Michelis in tutte le salse, con la parlata veneta e il ciuffo ribelle (e non ne era per niente contento. D’Angelo raccontò che De Michelis si lamentò con Berlusconi, che come spesso accadeva non faceva niente, ma poi De Michelis chiese a D’Angelo di andare a chiudere una sua campagna elettorale, e lui non ci andò, che pare un bel gesto).

Spadolini che tubava al telefono con Reagan; “taca tu taca tu taca tu” in telefonate romantiche, mentre i politici più intelligenti e “di area” apparivano in persona, a un certo punto proprio Spadolini-D’Angelo fa un duetto col vero Marco Pannella (ma del resto pochi anni prima il presidente del partito radicale italiano, Bruno Zevi, nella sua villa sulla Nomentana aveva fondato TeleRoma56, sensibile al mezzo e ai tempi). Un vero politico insieme al suo imitatore non s’era mai visto. “Spadolini fece il diavolo a quattro”. La vittima preferita delle imitazioni di Gianfranco D’Angelo era però Pippo Baudo, che viene ossessivamente preso in giro. 

Baudo, intervistato nel documentario “L’origine del male”, di Luca Martera, sul Drive In, è livido, dice che alcune cose erano da denuncia. Ai tempi del matrimonio con Katia Ricciarelli, ecco la soprano (interpretata da D’Angelo) che con la frusta fa saltare una serie di parrucchini (“è proprio un amore, me li addestra lei”, dice Baudo che è sempre D’Angelo). “Trasgredimmo a una sua regola, che permette di parlar male di lui, ma solo nelle sue trasmissioni”, dice Antonio Ricci. “Il tutore Pippo si mette a fianco al comico per significare: te la lascio dire, te lo permetto.

Non è facile recitare con quel pennellone a fianco. Guai, in una trasmissione non presentata da lui, rompere quel codice d’onore. Baudo usciva di testa”, racconta oggi Ricci. “Noi sapevamo tutto di lui, conoscevamo anche il suo road manager che aveva l’incarico di andare a fare gli shampoo ai parrucchini”. Però Baudo si è prestato al documentario. “Sì, non si è sottratto, ma quelli così basta che gli accendi una telecamera e fanno qualunque cosa”. 

Un altro equivoco è che Drive In sia stato un esempio di televisione berlusconiana, anzi l’apice del berlusconismo, l’origine del male appunto, per gli intellettuali di sinistra. “Adesso si sono pentiti, ma per un po’ è stato così”. Nel documentario vengono fatti sfilare i meglio nomi delle patrie lettere, è tutto uno sfumare di tweed in tweed passando a una camicia-sahariana di lino di Gad Lerner, e tutti in una specie di Norimberga televisiva ammettono che Drive In era fichissimo; Guglielmi, l’inventore di Rai 3 con l’occhiale tondo, ammette che lo guardava e lo invidiava. C’è pure Veltroni.

Qualcuno l’ha vituperato, qualcuno l’ha confuso con “Colpo grosso”. E a chi dice che le “ragazze Fast Food” (si era in tempi di paninari), molto scollacciate, fossero puro patriarcato Ricci ribatte così: “Non avevamo mai avuto proteste da parte delle femministe. 

Era la prima volta, in un varietà, che le ballerine di fila prendevano la parola e facevano battute, tra l’altro le Fast Food interpretavano testi di ElleKappa, la vignettista di ‘Repubblica’. Non erano donne sottomesse, recitavano la parte di quelle toste, schiaffeggiando chi le importunava e schiavizzando i loro colleghi maschi. Mai si era vista, prima di allora, una concentrazione così vasta di donne comiche”. Certo, oggi si potrebbe obiettare che le Fast Food erano nude, e i paninari vestiti, ma erano altri tempi.

Il volto principale era Tinì Cansino, pseudonimo di Photina Lappa, greca naturalizzata italiana. Nata a Volos, studi di danza classica, a diciannove anni, durante una vacanza in Italia, era stata notata da Alberto Tarallo, aruspice del camp nostrano (“L’onore e il rispetto”, “Il Bello delle donne”, “Il Peccato e la Vergogna”). Lui le suggerì di adottare il nome d’arte di Tinì Cansino, notando una sua somiglianza con Rita Hayworth, il cui vero cognome era appunto Cansino.

L’effetto surreale con Tinì Cansino era ottenuto facendole pronunciare piccole frasi di politica estera: “certo che senza una patria è difficile vivere”. Le risponde un’altra ragazza: “Soprattutto se gli israeliani continuano ad ammazzarli”, il tutto seminude tra le macchine. “Eravamo anti americani, filo palestinesi, anti nuclearisti, pacifisti, libertari”, ha ricordato ancora Ricci, e davvero sembra incredibile che ex post Drive In sia diventato il manifesto del berlusconismo.

“A Berlusconi poi non piaceva Drive In”, dice Ricci. “Non lo capiva, Berlusconi puntava tutto su Canale 5, la rete ammiraglia, quella coi grandi nomi”. Anche l’estetica, del Drive In, non è un’estetica berlusconiana. A un certo punto però il Cav., una volta capito che è un successo pazzesco, ne vuole fare una versione “sua”. Nasce così “Grand Hotel”, che pochissimi ricordano, perché invece è un flop totale, è una versione deluxe del Drive In, tirata a lucido come una confezione di Ferrero Rocher. All’originale rubano il regista Giancarlo Nicotra, le soubrette Cristina Moffa e Carmen Russo ma rinforzano il tutto con grandi firme, Alain Delon, Sidney Rome, Eleonora Giorgi. “Manca lo spirito corsaro”, dirà Ricci.

Invece a un certo punto a Drive In irrompe Pier Silvio (momento cult che TikTok ripropone di tanto in tanto). Giovane, palestrato, biondissimo, spalline da mezzo metro, erano quegli anni. Ma come andò? Era stato lei Ricci a chiederlo, o lui a proporsi? “Io? Ma scherza? Persi una scommessa. Berlusconi, per fare il ganassa, mi dice: ti mando Sylvester Stallone, che viene a Milano a fare il Telegatto. Io dico: va bene, ma se non viene mi mandi tuo figlio. Così va a finire. Arriva Pier Silvio, anche se Confalonieri era contrarissimo. Pier Silvio fa uno sketch in cui fa finta di non essere lui, bensì un fan del Drive In, e fa firmare una serie di fogli alle ragazze, fingendo che siano autografi.

Poi telefona al padre da un telefono a gettoni e rivela di aver strappato con l’inganno contratti a stipendi ridotti. Il tutto è costellato da battute figlie dei tempi, Berlusconi è alle prese con la creazione dell’impero; appena comprata Italia 1 da Rusconi, non si è ancora accaparrata Rete 4. “Non avrò la diretta ma il diretto ce l’ho”, dice il rampollo. “Pier Silvio lì farà quello che poi sarebbe stato destinato a fare anni dopo, far quadrare i conti”, dice Ricci.

Le confessioni di Antonio Ricci: «Mai fatto un’avance, le facevano a me. Da sempre vivo in un residence (a Milano)». Renato Franco su Il Corriere della Sera sabato 11 novembre 2023.

L’autore più irriverente della tv si racconta, all’indomani dell’ultimo «colpo» di «Striscia»: i fuorionda di Andrea Giambruno. «A 50 anni volevo smettere. Pensavo: ho vinto più Telegatti di Mike, mi osannano e mi maledicono, la parte che preferisco. Mi ha dissuaso il buon geometra Renzo Piano: tu sei matto, noi restiamo in cantiere fino alla fine»

Fedele Confalonieri l’ha definita «l’imperatore dei rompicoglioni».

«Io sono democratico, quindi mi stanno sui maroni le figure apicali, me compreso».

Va orgoglioso di essere un rompiscatole?

«È nel Dna. Ho apprezzato la promozione, prima mi ha definito re, poi imperatore. Ha ragione, io nasco così fin da bambino, con un’inclinazione che ha avuto anche effetti paradossali: per farmi studiare i miei genitori mi dicevano di non studiare. Ho sempre avuto quest’animo bastian contrario, sempre a fare e a rigirare frittate. Non lo sento come un merito, ma con il tempo gli ho dato delle coperture ideologiche e professionali. Mi ha procurato centinaia e centinaia di cause legali, ma non riesco a smettere. Mi hanno denunciato tutti: da Craxi che voleva 5 miliardi di lire, a esponenti di Forza Italia fino a Fratoianni».

«VENDICATIVO? NO È UNA PERDITA DI TEMPO. RICORDO TUTTI I TORTI CHE HANNO FATTO: NON A ME, MA ALLA VERITÀ, QUELLA CHE UNA VOLTA SI DEFINIVA RIVOLUZIONARIA»

Antonio Ricci ha un pizzetto imbiancato che gli conferisce una certa aura da guru, ma anche da paraguru, perché lo sberleffo è la cifra della tv che oltre 40 anni porta in scena. Il suo quartier generale a Cologno Monzese si distingue dagli altri: una piazza verde con un immenso tapiro a ingranaggi con le facce di tutti i conduttori di Striscia la notizia; di fianco una palazzina addobbata come un circo con la scritta «Hic sunt Gabibbi»; sulla scrivania ha una Madonna che ha i baffi di Mario Bros., l’idraulico dei videogiochi. Ateo e miscredente, si diverte a cercare quello che gli altri non raccontano. Due i suoi punti cardinali: il dubbio e non prendersi mai sul serio.

Non ha mai paura di niente?

«Ho paura che mi venga paura».

Quando se l’è vista brutta?

«Forse quando mi è arrivata una bomba sulla scrivania, credo fosse per una storia di truffe legata alle slot machine, ma è solo un sospetto. Eravamo ancora a Milano 2 e una segretaria mi portò un pacco, ma siccome sono un radicaletto scicchettino mi ha fatto schifo la carta in cui era confezionato - una roba da sfigatelli, violettina con dei fiorellini - così mi sono insospettito. Fecero brillare la bomba oltre il lago dei Cigni, tremarono tutti i vetri. Certo se fosse stata una confezione di dolci (l’unica cosa a cui non resiste, ndr ) esplodevo di sicuro».

È vendicativo?

«No. È una perdita di tempo. Ma ho una memoria lunghissima; metto tutto in un cassetto del cervello e quando succede qualcosa mi viene in mente il pregresso. Divento fantasioso. Ricordo tutti i torti che hanno fatto: non a me, ma alla Verità, quella che una volta si definiva rivoluzionaria».

Lei è la Verità?

«Ci mancherebbe altro, non offenda. Ho sempre cercato di dare voce all’altra parte, di scoprire l’altra verità, quella spesso sottaciuta. Ricordo che l’Italia è al 41° posto per libertà di stampa».

Il torto più grande?

«Ogni torto è un’occasione per rispondere, azzuffarsi, con l’intenzione di far ragionare».

La zuffa le piace però...

«Quando dico che sono bipolare, lo faccio per semplificare. Di natura sono molto pacifico, ma non sopporto l’ipocrisia, anche se so che è una battaglia persa; le forze sono soverchianti, ma mi piace provare a combatterla, anche come esercizio di stile per vedere l’effetto che fa. Non di nascosto, ma mettendoci la faccia».

«MI HANNO DENUNCIATO TUTTI: DA CRAXI CHE VOLEVA 5 MILIARDI DI LIRE A ESPONENTI DI FORZA ITALIA FINO A FRATOIANNI»

Non ha mai preso casa a Milano e vive in un residence.

«Sì, nel triste residence dove non vivo, svengo».

Forse è per questo che ha spesso il dente avvelenato?

«Con quel che mangio nel residence di avvelenato non ho solo il dente».

«DA MOLTO-MOLTO TEMPO NON VOTO PIÙ. HO UNA NATURALE E SANA INTOLLERANZA PER I PARTITI CARISMATICI»

Per chi vota?

«Ho votato a gauche. Ho fatto anche lo scrutatore per il Psiup, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, ribattezzato da quel giorno il “Partito Sciolto In Un Pomeriggio”. Nel settembre del ‘97 non a caso proprio a Livorno, fondammo il PdG (Partito del Gabibbo). Il simbolo del partito rappresentava il Gabibbo nascente, il Gabibbo dell’avvenire. Dopo alcuni comizi tenuti in Toscana (erano le suppletive del Mugello) la candidatura venne ritirata quando, dopo il terremoto in Umbria e nelle Marche, il Gabibbo fu chiamato dalle popolazioni colpite dal sisma per aiutarle. Da molto-molto tempo non voto più. Ho una naturale e sana intolleranza per i partiti carismatici. Non ho mai creduto ai Pupazzi della Provvidenza».

Beppe Grillo l’ha votato?

«Non mi permetterei mai. Prima di lui nel 2006 avevo fondato il movimento delle 5S. Si può essere di Sinistra Senza Sembrare Stronzi. Adesioni nella base, ma non ho sfondato. Eppure, non chiedevo di non essere stronzi, solo di non sembrarlo».

Il 4 ottobre 1983 su Italia 1 andò in onda la prima puntata di «Drive In» : successo incredibile, punte di otto/dieci milioni di spettatori, un programma di culto, entrato nella storia della tv. Nel tempo molti hanno accusato lei - di sinistra - di essere l’alfiere del berlusconismo televisivo. Come si è sentito?

«Mi sono sentito in dovere di ringraziare. Una macchinetta del fango. Una strumentale boffata, ormai nettamente scemata, che ha prodotto sul pubblico maggiore affetto per una trasmissione già amatissima. Non puoi prenderti le lodi di Beniamino Placido, Umberto Eco, Raboni, Fellini, Angelo Guglielmi e poi 20 anni dopo arrivano dei personaggetti rampanti - dei quali non sono giunte però ancora le opere - e dicono che non è vero, che era un abbaglio di una sinistra ottusa e succube».

«SIAMO STATI I PRIMI A PORTARE A RECITARE UN VERO POLITICO, MARCO PANNELLA, CHE SI SCONTRAVA CON IL FINTO SPADOLINI GIANFRANCO D’ANGELO. ANNI DOPO CI SIAMO RITROVATI I POLITICI IN OGNI PROGRAMMA POSSIBILE»

«Drive In» era di sinistra?

«Era alternativa, rivoluzionaria. Gli autori tutti di sinistra. Satira politica come non se ne era mai vista e sentita. Era un programma contro l’ establishment di Pippo Baudo che era l’uomo più potente d’Italia, vero e malvagio segretario occulto della Dc; a un certo punto doveva diventare anche Presidente della Repubblica. Tutto quello che all’epoca era un’evidente parodia, un’esagerazione, visto con occhi di adesso può sembrare neorealismo».

I testi di Elle Kappa erano recitati dalle ragazze fast food...

«Era la prima volta che le ballerine prendevano parola in una trasmissione, anche questo un fatto rivoluzionario; prima ballavano e basta».

Tra le tante, di cosa va orgoglioso?

«L’idea che il capo dei truffatori poi saliva sul palco a fare la morale a tutti. E siamo stati i primi a portare a recitare in scena un politico: Pannella. Il vero Pannella, si scontrava con il finto Spadolini interpretato da Gianfranco D’Angelo. Anni dopo ci siamo ritrovati i politici in ogni programma possibile».

Fu un successo travolgente.

«Non per tirarmela, ma ero abituato, venivo dai tre anni di Fantastico su Rai1; gli altri invece non erano abituati, sembravano degli scappati di casa, ma con energia e tanta bravura. Andavamo in onda su una rete sconosciuta; mia moglie stava ad Alassio e non ci vedeva, non sapeva nemmeno cosa stessimo facendo».

Gianfranco D’Angelo in un lampo?

«Una faccia di bronzo e un talento a livelli disumani».

Più di Greggio?

«Messi insieme erano una macchina da guerra, i maghi delle truffe, dentro e fuori dal Drive In ; ho assistito a una continuità tra scena e fuori scena che non è paragonabile con nient’altro che abbia fatto».

Giorgio Faletti?

«Lo conoscevo dai tempi del Derby : io, lui e Francesco Salvi lavoravamo lì e abbiamo fatto subito comunella, perché eravamo quelli che venivano da fuori; i milanesi non ci calcolavano, finivano lo spettacolo e andavano a casa. Così noi rimanevamo lì come tre piccioni alle tre di notte e andavamo a mangiare in posti terrificanti dove ti ritrovavi a fianco la malavita milanese, Francis Turatello e i suoi amici. Va detto che anche noi avevamo certe facce... Io e Francesco avevamo i capelli lunghi, il più ordinato era il signorino Giorgio, che alla fine non voleva più girare con noi perché la polizia ci fermava sempre».

Beruschi?

«Sono molto affezionato a lui. L’anno scorso ha sostituito Iacchetti ammalato di Covid ed è stato bravissimo».

Il comico a cui è più legato?

«Son legato al clima fantastico di quel periodo. Alla factory, agli autori. Da quella fucina è venuto fuori un tipo di comicità che è ancora presente in tv dopo 40 anni».

Al «Drive In » c’erano le ragazze fast food, a «Striscia» ci sono le Veline: non è che vengono fuori dei vecchi fuorionda e anche lei fa la fine di Giambruno?

«Sarebbero già stati tirati fuori. Poi non frequento la Grande Meretrice: la tv. Non vado nei talk per dimostrarmi la mia esistenza. Mai stato oggetto di gossip».

Mai una sbandata per una delle «sue» ragazze?

«”Sue” non lo accetto neppure tra virgolette. Non son tipo da brividini e ho un forte senso del ridicolo. Il rispetto viene prima di tutto. Del resto non ho mai fatto un’avance in vita mia, perché le facevano a me. Ero il classico fighetto, che suonava la chitarra e giocava a calcio, un poliatleta; quindi non ho mai avuto problemi di rivalsa a differenza di certa gente allupata che si ritrova ad avere un “poterino”».

E le ragazze non le hanno mai fatto nessuna avance ?

«Ogni tanto leggo di qualcuna di loro che dice che era innamorata di me, ma sono contento che non sia successo niente. Soprattutto per loro...».

«BERLUSCONI DICEVA: “ALLA FINE IL BENE TRIONFA SEMPRE, TRANNE NEL CASO DI RICCI“. ECO SOSTENEVA CHE HO UNA MENTE CRIMINALE»

La cosa più cattiva che ha fatto?

«Berlusconi diceva: “Alla fine il bene trionfa sempre sul male. Tranne nel caso di Antonio Ricci”. Umberto Eco sosteneva che ho una mente criminale. Io mi considero buono, ma non riesco a far passare questo concetto. Sono un incompreso. Siamo sempre dalla parte dei più deboli, abbiamo sventato truffe, risolto un sacco di problemi. Cos’è la colpa? Fare da 35 anni servizio pubblico su una tv commerciale, mentre in Rai trasmettono il gioco d’azzardo?».

Alla pensione ci pensa?

«A 50 anni volevo smettere. Pensavo: ho più Telegatti di Mike Bongiorno, mi osannano e mi maledicono, la parte che preferisco, perché se mi fanno dei complimenti sono in imbarazzo e non so cosa rispondere. Dall’idea mi ha dissuaso il buon geometra Renzo Piano: tu sei matto, noi dobbiamo morire in cantiere».

Si è detto misantropo, misogino, omofobo.

«Le ho tutte».

«CHI MI STA SULLE SCATOLE NEL MONDO TV? NESSUNO. ABBIAMO DIFESO ANCHE PIPPO BAUDO QUANDO È STATO NECESSARIO»

Odia il genere umano?

«Certo, me stesso per primo».

Chi le sta sulle scatole nel mondo tv?

«Nessuno. Abbiamo difeso anche Pippo Baudo quando è stato necessario. Necessario per proteggere la nostra fonte di cibo, non puoi avvelenarti il pozzo fino a seccarlo».

Non odia nessuno, ma punge spesso Fabio Fazio.

«Siamo di un’altra pasta, appartiene al mellifluo tipo pretesco e curiale che io contrasto. Però quest’anno ha compiuto un gesto laico. Ha lasciato l’ecclesia della Rai ed è stato giustamente premiato».

Anche Bruno Vespa la infastidisce, è lui il vero «mostro» che ha ispirato «Striscia» (che il 7 novembre ha festeggiato i 35 anni).

«Volevamo battere la sua comicità ma non ci siamo riusciti... Striscia fa il controcanto ai Bruni Vespa da quando è nata. L’idea mi venne quando Vespa diede al tg la notizia che il mostro di Piazza Fontana era Valpreda. Pensavo che forse non potesse essere lui. E pensai che mi sarebbe piaciuto che una volta finito il tg ci fosse una trasmissione che con un occhio diverso leggesse le notizie che il tg aveva dato in modo così assertivo».

Chi detesta?

«I piangina».

Andrà all’Inferno o in Paradiso?

«Essendo ateo devo sfogarmi adesso in questo terreno Inferno-Paradiso. E poi lo dico sempre... Son già morto da almeno 5 anni. Quello che vedete è un deepfake».

CHI È ANTONIO RICCI

LA VITA - Nato ad Albenga il 26 giugno 1950, Antonio Ricci dopo la laurea in Lettere comincia a lavorare come autore di programmi tv. Nella foto sopra, è ritratto in un teatro di burattini, di cui tiene in mano i fili. La foto è stata scattata nel 1992 negli studi di Cologno Monzese

L’ESORDIO - A 29 anni firma il programma della prima serata del sabato di Rai,1, Fantastico (edizioni del ‘79, ‘81 e ‘82) per poi proseguire con i programmi di Beppe Grillo Te la do io l’America (1981) e Te lo do io il Brasile

DRIVE IN - Nel 1983 crea Drive In, varietà comico-satirico andato in onda fino al 1988 su Italia1. Proprio in quell’anno crea il telegiornale satirico Striscia la notizia

FAMIGLIA - È sposato con Silvia Arnaud, storica dell’arte ed esperta di beni culturali. Hanno tre figlie: Vittoria, Alessandra e Francesca

Antonio Ricci: «I fuorionda di Giambruno? Coerenti con le cose che diceva in tv. Pier Silvio Berlusconi non l’ho sentito». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 28 ottobre 2023.

L’ideatore di «Striscia la notizia»: «Ho fatto un favore a Giorgia Meloni: semplificando il cattivo è lui, la vittima stravince sempre. Il suo messaggio è stato efficace, ma non ha speso una parola per le ragazze coinvolte. Marina Berlusconi? Mai sentita al telefono»

«Sono padrone e mandante di me stesso. Non ho mai avuto un’esclusiva con nessuno. Ai tempi di Drive In tenevo appesa sul muro una vignetta di Altan: v orrei sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio». Antonio Ricci si è costruito nel tempo una fama da cane sciolto o lupo solitario (come da titolo di un suo vecchio programma).

I fuorionda di Giambruno sono diventati un caso, ognuno dà una sua lettura: complotto a favore o contro Giorgia Meloni? Comunque sia: complotto . «Vedo tanti opinionisti che dibattono, tutti esperti in ventriloquia e paranormale; sento giornalisti che sostengono che prima di scrivere un articolo devono confabulare con l’editore: possibile che non ci sia nessuno che dice che uno può prendere un’iniziativa di sua volontà? Mi pare una cosa oscena. Qui viene messa in discussione la libertà di stampa, mi chiedo come mai Mattarella non abbia ancora detto niente. La satira deve essere riverente o irriverente?».

Non è la sola cosa che colpisce l’ideatore di Striscia la notizia.

«Tutto questo stupore mi stupisce, non ho scoperto niente di che. Trovo assolutamente coerenti i fuorionda di Giambruno con le cose dette da lui in onda. E poi quel che è successo è banalmente capitato a tutti i grandi leader europei: Re Carlo, Merkel, Pompidou, Giscard d’Estaing...».

Giorgia Meloni però sarebbe furiosa.

«Io credo che la premier soprattutto non abbia sopportato la chiusa sulla mia versione dei fatti: la pioggia che si può trasformare in arcobaleno. Il significato è che certe posizioni così rigide, da pietra, potrebbero anche in maniera positiva trasformarsi in un’apertura verso un mondo che ha bisogno di diritti, certezze e anche regolamentazione».

Ricci sostiene però di aver fatto un favore alla premier.

« Semplificando il cattivo è lui. La vittima stravince sempre. Il suo messaggio dal punto di vista della comunicazione nell’immediato è stato molto efficace. Ma è importante anche la parte mancante: non ha speso neppure una parola per le ragazze coinvolte».

Cosa la stupisce ancora?

«Il primo messaggio ufficiale di lui con foto: mi sono tagliato i capelli. Forse un minaccioso significato biblico. Dopo l’età dei sepolcri imbiancati, posso, come Sansone, aver perso la potenza, ma me ne resta abbastanza perché muoia Sansone con tutti i Filistei! Comunque anche lui è destinato ad avere il suo bel codazzo di fan».

Protagonista indiscusso della tv italiana (il 10 novembre su 7 l’intervista-omaggio ai 40 anni di Drive In) spiega così perché ha tenuto per due mesi i fuorionda «in frigo».

«Risalivano a giugno, la data è facilmente deducibile dall’immagine che si vede dell’incidente di Casal Palocco. Striscia però era in vacanza. Solo a fine settembre li ho visti. Nel mio cuore fanciullo, anche un po’ gitano, mi sono detto: il soggetto potrebbe fornire qualche altra chicca. Quindi ho deciso di aspettare che facesse qualcosa di peggio. Ma da allora non ha fatto più niente, non si è espresso...».

A questo punto Ricci sfoglia Chi, indugia sulla foto di Giambruno nel campo di grano.

«Quando mi sono ritrovato questo davanti e ho letto la sua celebrazione mi sono tornati in mente i filmati, ancora freschi come uno yogurt».

Nessuno è intervenuto nemmeno tra un fuorionda e l’altro per provare a fermarlo.

«Ma come potevano? Nessun dirigente Mediaset mi chiama perché hanno paura che li registri. Si buttavano in mezzo alla regia? Chiamavano i Carabinieri? Io poi, per evitare eventuali intercettazioni e rotture di scatole, avevo preparato — come altre volte — un finto copione, che poi all’ultimo ho sostituito con quello vero».

Nessun dirigente l’ha chiamato e lui assicura di non aver avvisato Pier Silvio Berlusconi.

«E perché? Non lo vedo mai, forse una volta all’anno. Adesso ho saputo che vorrebbe chiamarmi, vediamo se succede, lunedì. È sempre molto indaffarato. E non è stato un gioco delle parti, sarebbe infantile e crollerebbe in un secondo. Pier Silvio è come il padre, vuol piacere a tutti».

Se uno lo vede una volta all’anno, l’altra non la vede mai: con Marina Berlusconi i rapporti sono inesistenti.

«Non l’ho mai sentita al telefono in vita mia e non la vedo da non so quanti anni. Penso sia sempre impegnata giorno e notte a lavorare sui testi degli scrittori Einaudi e Mondadori: lei li corregge tutti e a volte li riscrive completamente. Ma loro, gli scrittori, vigliaccamente non lo dicono».

Nella «narrazione del trappolone» Mediaset ha perso in Borsa però. La battuta è fulminea.

«È il momento di comprare allora».

Il frigo del resto ora è vuoto.

«Giuro, l’ho detto subito, ma nessuno, anche a Mediaset, ci crede. A questo punto mi farò dei finti Giambruni con il deepfake visto che c’è richiesta di mercato... Tengo soprattutto a sottolineare che non ho fatto niente di illegale: trasmettere i fuorionda non è reato, ho una sentenza del Tribunale Europeo dei diritti dell’uomo che lo sancisce e dice che sono un bravo ragazzo».

Alla fine in questa storia trova due lezioni.

« C’è sempre qualcosa da imparare, ad esempio non sapevo che esistesse il Blu Estoril. L’altra lezione è che i parrucchieri sono la vera potenza di questa Italia, sanno tutto, sono il cuore e la colonna vertebrale del Paese; solo un passo dietro rispetto all’armocromista che risalta di più solo per via del nome buffo».

Intanto ha raccontato che Fedele Confalonieri l’ha definito «l’imperatore dei rompicoglioni».

« Io sono democratico, quindi mi stanno sui maroni le figure apicali, me compreso. Essere rompicoglioni è nel mio Dna. Ho apprezzato anche la promozione, prima mi ha definito re, poi imperatore. Ha ragione, io nasco così fin da bambino, con un’inclinazione che ha avuto anche effetti paradossali: per farmi studiare i miei genitori mi dicevano di non studiare. Ho sempre avuto quest’animo bastian contrario, sempre a fare e a rigirare frittate. Non lo sento come un merito, ma con il tempo gli ho dato delle coperture ideologiche e professionali. Mi ha procurato centinaia e centinaia di cause legali, ma non riesco a smettere».

La percentuale di verità in questa intervista?

«Il 100 per 100. Per natura io non vengo creduto, quindi posso dire la verità senza che mi succeda niente».Estratto dell’articolo di Andrea Minuz per “il Foglio” sabato 21 ottobre 2023. 

Per festeggiare i suoi trentacinque anni, “Striscia la notizia” si regala un fuorionda che spazza via anche Hamas e Israele dalle prime pagine dei giornali […] Di fronte alla creatura di Antonio Ricci nessuno può dirsi innocente. Non è questione di arte cospirativa, di ricatti, truffalderie, dossieraggi, ma di sintonia, empatia e piena complicità con il paese.

E così il fuorionda tricologico, squalliduccio e piacione di Giambruno è anche, prima ancora che terremoto politico, “sogno delle italiane”: liberarsi di un gran fanfarone dentro casa, incassando una standing ovation […] Tutti ora cercano Antonio Ricci. La legge di “Striscia” non perdona. Ma dei suoi colpi da maestro lui non parla. 

Del resto, “Striscia” è diventato “Striscia” dopo lo scoop di Sanremo ’90. Conduttori: Johnny Dorelli e Gabriella Carlucci. Il Tg di Ricci svelò il podio prima della serata finale (i Pooh, Toto Cutugno, Minghi-Mietta con “Trottolino amoroso”, e anche Masini, vincitore di “Sanremo giovani”). Fu la svolta. Il pubblicò da lì iniziò a fidarsi più di “Striscia” che di tutto il resto. 

[…] Ricci vive in un residence, non ha mai preso casa a Milano, registra le puntate e torna sempre ad Alassio […] C’è un rotolo di carta igienica con la faccia di Fratoianni stampata sopra, souvenir della querelle sul caso Soumahoro, quando “Striscia” rivelò che Fratoianni sapeva tutto della Lega Braccianti. “Avevo letto una sentenza in cui un rotolo di carta igienica con la faccia di Renzi sbandierato da Travaglio era stato archiviato come ‘diritto di satira’, e allora ho fatto anche Fratoianni”. 

Ricci è davvero molto cortese, gentile, e mi regala un rotolo, non si sa mai. Da qualche anno ha trasformato gli studi di “Striscia” in un parco a tema: stanze e corridoi colorati con disegni e citazioni varie, un Gabibbo coi baffi alla Dalì in un paesaggio liquefatto e altre cose così. 

“Striscia” è il sogno erotico di ogni vero telegiornale. […] Centocinquanta persone tra redazione, ufficio stampa, autori, tecnici, trucco, parrucco, sartoria, e poi naturalmente il gruppo di inviati, una trentina circa, ognuno con la sua squadra di operatori. […]Si lavora tanto, ma poi ci sono vacanze estive di tre mesi, e ferie a Natale e Pasqua. Come a scuola.

[…] Al piano terra c’è anche un museo. Il museo di “Striscia la notizia”. Nessuna trasmissione ha un museo tutto per sé. Un muro di piccoli schermi manda in loop trentacinque anni di “Striscia”, un po’ installazione alla Triennale di Milano, un po’ acquario aziendale dei dipendenti. E poi oggetti, documenti, foto, bozzetti, gadget. 

L’universo di “Striscia” è la nostra Marvel, coi supereroi che stanano i cattivi. Invece dei superpoteri hanno una sturacessi in testa, come Capitan Ventosa. Gli inviati sono i “martiri della notizia”. 

E nel museo ci sono le reliquie: tapiri sfasciati, stampelle, referti ospedalieri, la maschera di protezione di Staffelli dopo la rottura del setto nasale, quando Fabrizio Del Noce gli scaraventò il microfono in faccia. E’ l’ossario di “Striscia”.

Antonio Ricci ha da poco ricevuto il “diploma di Patafisico”, che è lì, in bella mostra ai piedi della scrivania. Gliel’ha consegnato Ugo Nespolo. […] tutto è doppio: due conduttori, due veline, due soli, sotto la scrivania un’onda a forma di punto interrogativo, una simbologia che coltiva e celebra il dubbio”.

Non importa che il pubblico di “Striscia” ci faccia caso (ovviamente no). E prima che dalla patafisica, “Striscia” scaturisce dal trash di fine anni Ottanta: Sgarbi, Funari, le risse e le urla in tv. “Si trattava di fare controinformazione e spettacolo”, dice Ricci, con questo verbo anni Settanta che suona un po’ strano appiccicato sul Gabibbo. 

Ma a “piazza Gianfranco D’Angelo”, su un tapiro sta scritto che bisogna “rovesciare l’utopia pedagogica delle Brigate Rosse, bisogna colpirne cento per educarne uno… forse” (Antonio Ricci si è laureato con una tesi su “Francesco Jovine e la figura dell’intellettuale da Gramsci e Croce”, il relatore era Enrico Fenzi, dantista e petrarchista, poi brigatista nella colonna genovese delle Br, indicato come unico intellettuale passato alla lotta armata). Il guru, il maestro di Antonio Ricci è stato Enzo Trapani.

“Io sono l’allievo. Trapani era un genio. Uno che ha reinventato la televisione, però era anche abbastanza matto”. Si dice che Trapani arrivasse in studio con la pistola e la tirasse fuori durante le prove. “Non lo so, mi hanno detto però di averlo visto più volte pettinarsi con la pistola”. 

La stessa con cui si sparò in bocca, morendo dopo nove giorni di coma, il 6 novembre del 1989. “L’idea di Striscia mi è venuta sotto la doccia, ragionando sul fatto che Vespa aveva detto che la colpa dell’attentato di Piazza Fontana fosse di Valpreda… ecco questo non andava bene, ci voleva uno spazio dopo il Tg che desse un’idea diversa, che gettasse quantomeno un dubbio”.

Ma il dubbio oggi è la norma. Davanti a un’immagine non diciamo più “potrebbe essere falsa” ma “potrebbe essere anche vera”. […] “[…] i nostri hater più radicali sono proprio quelli: il complottista, per definizione, non è ironico, e di fronte allo scherzo, alla boutade, all’ironia, si blocca, non capisce”. 

E ancora: “Noi siamo stati i primi a fare i deep-fake. Il deep-fake serviva per gettare il dubbio. […]”. I deep-fake che ballano e cantano li fanno Highlander Dj e sua moglie e hanno un gran successo. […]

[…] è vero che De André voleva venire a “Striscia” e travestirsi da Gabibbo? “Sì sì, De André amava le canzoni del Gabibbo, però era troppo grosso per il costume, me l’avrebbe rotto”.  E’ incalcolabile il numero di segnalazioni ricevute da “Striscia la notizia” in questi trentacinque anni, la media di tremila a settimana. 

C’è di tutto: quello col vicino di casa molesto, chi denuncia l’abusino edilizio del cognato, il mitomane, il matto, e specie all’inizio, quando le segnalazioni arrivavano sulla segreteria telefonica, non pochi aspiranti suicidi. Invece di chiamare un parente, un amico o i carabinieri chiamavano “Striscia”. “Ne abbiamo salvati parecchi, però non lo raccontavamo sennò scattava l’emulazione. Poi quando siamo passati alle mail la cosa è scemata. Ti dovresti sedere, aprire il computer, scrivere, ‘Caro Striscia la notizia mi sto per suicidare, eccetera’”.

Trentacinque anni o quasi di mail a “Striscia la notizia” sono un’autobiografia della nazione. Da conservare per quegli storici del futuro che vorranno farsi un’idea di come eravamo (ma nel museo c’è una torre di plexiglas che raccoglie e ammassa tutte le querele, le denunce, le cause di Ricci. Una bella installazione anche per un museo interattivo del Tar del Lazio).

Sempre quest’anno ecco anche i quarant’anni di “Drive In”. “Una trasmissione in cui mescolavamo alto e basso in senso gramsciano”, dice Ricci. […] 

Mentre era in onda, “Drive In” incassa gli elogi di Umberto Eco, Beniamino Placido, Giovanni Raboni, Angelo Guglielmi. “Piacevamo a tutta la sinistra, eravamo la trasmissione della sinistra libertaria che rovesciava il cliché della vecchia comicità romana parastatale. Oreste Del Buono ci definiva ‘la trasmissione di satira più libera che si sia vista sin qui; piacevamo anche a Veltroni, e quindi poi tanto di sinistra forse non eravamo”. 

“Drive In” era l’antibagaglino. Difficile da credere oggi. Da anni va di moda dire che “Drive In” è stato un incubatore del berlusconismo […] Ricci ha una sua teoria, la teoria di Onna: “Secondo me tutto inizia col discorso di Berlusconi a Onna nel 2009, quello sul 25 aprile. Un discorso da statista, parole storiche, la richiesta di una pacificazione nazionale, eccetera. Un discorso che mette in difficoltà la sinistra.

Lì c’è un salto dell’antiberlusconismo che diventa astio puro. Bisogna dimostrare che tutto l’immaginario di Berlusconi è malvagio, che siamo stati plagiati dalla sua tv. Drive In era caduto nel dimenticatoio, ma ora spuntavano articoli come ‘La tv ha cambiato il paese’; ‘Quel Drive In intorno a Villa Certosa’. Se la sono presa con Drive In perché era l’unica trasmissione che ricordavano, e avendola vista da bambini non ricordavano l’ironia, il gioco, i livelli di lettura. E poi c’è anche un altro motivo”.

Cioè? “Nel 2009 nasce il Fatto Quotidiano. Dopo Onna, a Repubblica sapevano che a settembre sarebbe arrivato Il Fatto. E che li avrebbero scavalcati a sinistra, picchiando duro sull’antiberlusconismo. Bisognava correre ai ripari. Altro che pacificazione nazionale”. 

Qui parte la storia di Drive In, dell’immaginario delle tv commerciali come “immaginario fascista”. L’antiberlusconismo era un target editoriale troppo importante. “Repubblica poi è riuscita a farci credere che De Benedetti è un compagno, questa sì che è potenza dell’immaginario”. Berlusconi invece ha due colpe, dice Ricci: “aver creato i berlusconiani, ma soprattutto gli antiberlusconiani”.

[…] Di sicuro, a Berlusconi “Drive In” non piaceva proprio. Stava a cuore semmai a Freccero. “Per Berlusconi la tv era un affare non un immaginario”, dice Ricci. “Il suo sogno era rifare la Rai, una Rai più ricca, con più ritmo, più lustrini, una Rai più americana. Ecco perché ingaggiava Baudo, Corrado e insieme pezzi di cinema popolare, la Fenech, o Alain Delon. Se andava dagli inserzionisti si giocava quei nomi lì, spiegava che avrebbe fatto una tv di classe, ricca, popolare, non si giocava mica Enrico Beruschi o Ezio Greggio”.Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” domenica 15 ottobre 2023.

Quarant’anni dal “Drive In”. Scherzi, battute, comici, politica, polemiche e storia della tv. Questa è la seconda parte dell’intervista ad Antonio Ricci (la prima è sul fattoquotidiano.it). E ricomincia con l’attacco della sinistra alla trasmissione, “un attacco partito dopo Onna, quando Berlusconi pronuncia quel discorso... 

Quindi Onna...

Esiste, o esisteva, un manipolo repubblichino di sedicente sinistra, molto attivo sulla demonizzazione dell’avversario, ignorando Gramsci. Io non penso che Repubblica, come credono in molti, sia l’origine di tutti i mali della sinistra e quindi dell’Italia, però già l’aver accreditato come compagno Carlo De Benedetti rivela una certa spregiudicatezza. 

Nei fatti...

Il 7 giugno 2009, in prima pagina titolarono “Quel Drive In a bordo piscina che Silvio non può nascondere. La matrioska di Villa Certosa”. Cercavano di sostenere che gli scandali di Berlusconi erano originati dalle mie trasmissioni di più di vent’anni prima. 

Tutto questo perché?

Per i soldi. Sapevano che a settembre sarebbe uscito il Fatto col quale avrebbero dovuto spartirsi il ruolo di antiberlusconiani. Bisognava avvantaggiarsi. Fu un’emergenza economica, non un’emergenza democratica. Il passo falso fu che se la presero col Drive In, la trasmissione più distante dai progetti di Berlusconi. 

Berlusconi era vostro fan.

Se non fosse stato per le pressioni di Carlo Freccero, penso che non saremmo mai andati in onda; (pausa, ci ripensa) dal gruppo L’Espresso cominciarono a fare disinformazione sul Drive In. 

Classificato in “coppia” con Colpo Grosso.

A volte alcuni li sovrapponevano; ricordo Fuksas, inferocito con noi in tv: “In Germania tutti a vederlo!”. Allora lo chiamo: “Lì non è stato mai trasmesso, non è che ti confondi con Colpo Grosso?”. “Hai ragione”. 

Le belle donne in costume hanno fatto scopa con il Bunga Bunga...

Questo è l’aggancio, ma per crearlo sono nati dei falsi clamorosi: strumentalmente c’è chi ha confuso le acque come Marco Damilano.

Cioè?

Drive In finisce nel 1988, Berlusconi entra in politica nel gennaio del 1994, eppure sull’Espresso scrive che il Drive In dura fino al ’94. 

[…] Le donne erano oggetto.

Erano ragazze del Fast Food che picchiavano se molestate, poi parlavano su testi di Ellekappa; aggiungo: in tv le comiche erano pochissime, mentre da noi c’erano Syusy Blady, Caterina Sylos Labini, Margherita Fumero, Antonia Dell’Atte, Luciana Turina, Olga Durano; tant’è che se ne accorgono l’Unità e Guglielmi, che poi farà nascere La tv delle ragazze.

Però sono rimaste più le bellone alla Carmen Russo o Lory Del Santo.

Carmen è stata con noi un anno ed è tutt’altro che una stupida. 

L’ha definita “caterpillar”.

Non ha paura di nulla. È caduta da un elefante, si è rialzata senza frignare e ha ricominciato. 

Lory Del Santo.

Prima del Drive In girava senza mutande in una trasmissione di Arbore e De Crescenzo; i due sbirciavano quando saliva le scale; (sorride) di me ha detto: “A Drive In Ricci nemmeno mi guardava. Non si lasciava contaminare dalla carne. È un visionario”. Descrizione accettabile purché sia percepita da tutti la differenza tra “visionario” e “guardone”.

Sul lavoro è ascetico.

Sennò il casino è assicurato.

[…] “Erano pieni di serate”. Ha cambiato la vita a molti.

A tutti loro. 

Pronti o spiazzati?

No finché c’è stato il Drive In, alcuni poi si sono un po’ persi, soprattutto quando il riflettore è diventato meno forte; (pausa) mi sono salvato perché non ho creduto all’evidenza. 

Tradotto?

Il successo era tale che potevo chiedere e ottenere qualunque cosa. Era potere. Per fortuna non ci ho voluto credere altrimenti avrei perso la testa. 

Bisogna essere solidi.

Chiunque fa televisione, appena entra in studio, gli danno da bere, lo pettinano, gli tolgono la forfora, lo accudiscono in tutto; quando torna a casa e la moglie gli dice: “perché hai schiacciato il dentifricio nel mezzo” scoppia una rissa.

Rapporti con la politica? C’era D’Angelo che imitava De Michelis...

Gianfranco racconta che Berlusconi lo chiamò per chiedergli meno accanimento. Senza successo.

 Giorgio Faletti.

Un fuoriclasse, ma a lui mi legava un’amicizia pre Drive In; uscivamo insieme a Francesco Salvi, altro mito: tutti e tre lavoravamo al Derby, e dopo lo spettacolo che finiva tardissimo cercavamo di andare a cena e sistematicamente ci fermava la polizia. 

Perché?

Io e Francesco eravamo capelloni e con le chitarre rappresentavamo lo stereotipo dei soggetti pericolosi: ci aprivano le custodie alla ricerca di armi e ci perquisivano, con Faletti che protestava: “Con voi non esco più”; (sorride) spesso frequentavamo un ristorante dove c’erano i veri pericolosi, gente alla Turatello.

Salvi narra che sul palco le usciva sangue dal naso.

Avevo una forma di allergia che mi provocava epistassi, le utilizzavo come chiusura per certe performance (ride); ai tempi delle superiori ero in grado di procurarmele a comando, ed erano perfette durante le interrogazioni, così il professore mi mandava in bagno e le evitavo. 

[…]

Berlusconi veniva al Drive In?

Mai, solo alla fine di una cena a Roma, insieme a Jimmy il Fenomeno. 

Però nel 1987 ha partecipato Pier Silvio.

In una puntata, per uno sketch dove truffava il cast del Drive In: otteneva la firma sui contratti con la scusa dell’autografo, poi fingeva di picchiare due molestatori che in realtà erano al suo soldo. Tutto poi si è avverato. 

Cosa?

Mentre il papà era napoleonico, il figlio è stato molto più attento ai conti e ai tagli. 

Teo Teocoli è uno dei pochi del gruppo non esaltati dal Drive In.

È di suo così. È ciclico. Ma è il suo bello. 

Qual è il suo podio rispetto al Drive In?

Ci devo pensare; (pausa) al primo posto la “Missione Bontà”: mille lire per un piccone. 

Che missione?

Liberare il figlio della foca, cioè Adriano Celentano, prigioniero della sua villa; a quel tempo chiedeva mille lire per costruire in Africa un villaggio con Dash, mentre noi volevamo mille lire per un piccone e salvare il figlio della foca. 

E...

I soldi arrivarono realmente quindi siamo andati fuori dalla sua villa, in elicottero, e davanti al muro di Celentano, con un gruppo di figuranti, abbiamo iniziato a picconare. 

Per finta?

Noi sì, avevamo piazzato dei gommini sulle punte, solo che si sono unite delle altre persone del posto, odiatori di Celentano, che menavano sul serio; tutto questo mentre la nostra finta polizia controllava la situazione e mentre è arrivata la polizia vera. Un bordello.

Celentano?

Blindato dentro con la moglie furibonda che chiama Bernasconi, allora responsabile dei film Medusa e lo stesso Bernasconi poi mi contatta: “La Mori è incazzata, rimediate”. Allora nella notte è partito il produttore dell’epoca, insieme a un gruppo di muratori, e hanno stuccato il muro ferito. 

Non l’hanno chiesto a lei?

Sono un infame, avrei picconato ancora. 

Altre critiche arrivano da Pippo Baudo: “Berlusconi chiedeva ‘nudo, nudo, nudo’ e Ricci eseguiva”.

Lo dice per infamarmi; c’era più nudo in Rai che su Italia1. In quegli anni l’unico casino da Berlusconi l’ho avuto per il casto nudo di Moana. 

Cosa è successo?

Al 5° anno di Drive In lanciamo Matrioska, dove il presentatore era marocchino e in trasmissione si alternavano vari cori, da quello dei socialisti a Comunione e Liberazione. Poi c’erano le matrioske. Appariva come un programma multietnico. 

Eppure...

Alla conferenza stampa commetto una serie di errori: tutto era giocato su registri contrapposti, come il coro di CL composto da brufolosi che intonavano Il popolo canta la sua liberazione, poi c’era Daniele Piombi che declamava le più belle poesie del 900. La suora-Guzzanti e Moana. Peccato che uno dell’ufficio stampa Fininvest fosse di CL. 

Ahia.

Infatti lancia l’allarme; poi un giornalista scrive su Il Sabato che mentre il coro di CL canta, c’è una suora con delle estasi non proprio mistiche, Moana si aggira nuda e vogliosa e lo Scrondo che vomita. 

Perfetto.

Scoppia un casino; ingenuamente pensavo che questi di CL arrivassero da Rimini con il pullman e accompagnati da un parroco. Col cavolo. Erano tutti figli di giudici e avvocati, persone di Milano molto potenti. Pronte a bloccare tutto. 

E lei?

Convocato da Berlusconi: “Antonio, hai la liberatoria di quella roba lì”. “No, figurati”. “Non puoi rubare e pretendere che io sia lì a reggerti il sacco... preferisco bloccare la trasmissione piuttosto che farmi bloccare”; (pausa) aggiungo: credevo che un giornale democratico come Repubblica stigmatizzasse la censura e uscisse con l’immagine dei brufolosi di CL e invece piazzano in prima pagina Moana nuda e lo Scrondo.

Moana vinceva.

Da lì si sono scatenati altri, compreso Vittorio Feltri; a quel punto dico: “va bene, niente coro di CL”, ma Berlusconi insiste: “Tutti pensano che il problema siano Moana, lo Scrondo e la suora. Devi toglierli”. 

Risposta.

Ho rifiutato e bloccato pure Drive In. 

Sciopero del Drive In?

Ho mandato solo un’edizione ridotta con un pezzo dove Sandro Milo-D’Angelo prendeva a schiaffi il piccolo fan di Formigoni e quello di Berlusconi. 

Contento Berlusconi.

Aveva un pregio: non era vendicativo.

Mai.

Una volta siamo arrivati al duello rusticano. Sempre per Matrioska, alla fine, mi convoca ad Arcore, mi chiude nel suo studiolo settecentesco, poi prende in mano un ferma porte e sibillino: “Voglio vedere cos’hai in quella testa”. E lo brandisce. A quel punto, usando termini della malavita, afferro dalla scrivania un tagliacarte appuntito: “Vieni qua che ti faccio il vestito da prete”. 

Serio?

Sì! Grazie a una scuola di vita di alcuni amici corsi, sapevo impugnare correttamente le lame; ci siamo guardati, fermi e silenti per mezzo minuto, poi siamo scoppiati a ridere. […]

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per "Il Fatto Quotidiano" del 5 novembre 2017

Beppe Grillo seminudo mentre si finge samurai e spaventa i clienti giapponesi di un albergo a Tokyo; l’angoscia di Paolo Villaggio durante l’addio a Fabrizio De André: “Sono molto invidioso di questo funerale”. Gli anni di Drive in (“Vivevamo quasi tutti dentro un residence, la notte non dormivamo. Ogni tanto qualche cliente ignaro si univa alla nostra baraonda”); il periodo del Derby di Milano (“Il più sveglio di noi era Gianfranco Funari, un giorno scopro il suo cachet, il triplo del mio, e gli domando come era riuscito a ottenerlo: ‘Mi sono presentato al locale con una macchina cabrio, vestito in un certo modo, una sventola bionda al mio fianco e ho ordinato champagne.

Hanno capito quale era il mio stile di vita’”); i sei lustri di Striscia la notizia, tra accuse, scoop, polemiche e picchi dell’Auditel. Gli scontri con Pippo Baudo, quelli con Repubblica (“Hanno goffamente indicato il Drive in come matrice, come primo grimaldello del berlusconismo, e solo per ragioni commerciali, per guadagnare dei lettori”); o il finto licenziamento di Johnny Dorelli nel 1989, ancora a causa di Grillo.

[…] 

Per un decennio ho declinato gli inviti a cena a casa di amici: temevo di offenderli; per anni ho nascosto un formaggino in tasca da consumare al ristorante e a volte sono svenuto sul lavoro perché da due giorni avevo dimenticato di mangiare.

Quale valore dà al suo tempo?

A volte mi infilo in alcune situazioni solo per la curiosità e non la sostanza oggettiva; anche le questioni che in apparenza sembrano una perdita di tempo, poi sbocciano con modalità inaspettate.

Un esempio…

So per esperienza che quando sono per strada i comici vengono fermati da persone, da fan inebriati dal desiderio di raccontare a loro una barzelletta; nel mio caso il coinvolgimento da parte del prossimo tocca i loro problemi, e alcune storie poi si tramutano in spunti importanti per la trasmissione. Insomma, ascolto.

Non sono sempre vicende interessanti…

Mi raccontano pure delle briciole cadute dal balcone del vicino. Una volta una signora ha protestato: “Iacchetti è scorbutico, ha rifiutato un selfie”. 

Non si fa.

Vado da Enzo: “Che combini?”. E lui: “Ma Antonio, era il funerale di mia zia!”

Iachetti ha dichiarato al “Fatto”: “Con Ricci subisco la sudditanza intellettuale”.

Metto soggezione, questo lo so. Da sempre. Pure alle elementari ero così. 

A tutti?

Anche a mia suocera.

[…] Iachetti aggiungeva: “Non so mai se è serio o se mi prende in giro”.

Dopo anni e anni neanche mia moglie lo intuisce, ma non è un atteggiamento studiato. Quando da giovane ero un professore, ed entravo in aula, i ragazzi smettevano immediatamente di vociare o lanciarsi oggetti. Zitti. Fermi. 

Allora il suo è carisma.

Se lo dice così, mi fa schifo. Sembra una malattia.

Nel libro definisce Giorgio Faletti come “uno in grado di raggiungere qualsiasi obiettivo”.

Che soggetto… (si azzittisce qualche secondo). Con le sue battute era in grado di portarti alle lacrime, in alcune serate ci ha regalato la versione francese di Vito Catozzo (uno dei suoi personaggi celebri), ho visto la gente singhiozzare per le risate; il giorno dopo si svegliava e magari ti teneva mezz’ora ad asfissiarti sui rally, come si prendono le curve, il motore dell’auto (Faletti era un grande appassionato).

Imprevedibile.

Andava avanti, non si poneva la domanda se il suo interlocutore fosse interessato.

E a lei di auto…

Non me ne frega nulla: ho preso la patente a 23 anni e solo perché mi hanno scambiato per il figlio del pediatra di Albenga. 

Com’è possibile?

All’orale di guida mi domandano quale acqua si inserisce nella batteria; rispondo: “Una speciale, tipo quella di Lourdes”. Silenzio. Poi l’esaminatore si riprende e sibilla: “Vada pure e ringrazi suo papà: ha curato bene mio figlio”.

Suo padre non è pediatra.

No. Un’omonimia, ma sono rimasto zitto e non ho svelato l’errore perché spesso mi ero beccato le insufficienze della figlia del pediatra: eravamo in classe insieme e i professori sbagliavano a segnare i voti sul registro. 

Bruno Voglino ha raccontato della fragilità di chi vive nello spettacolo.

Mi ricordo Faletti, per la tensione gli veniva qualunque male, era oltre ogni idea d’ipocondria e di valore psicosomatico: poco prima del debutto a Striscia gli esplose un ascesso con la guancia tramutata in ganascia. Si è quasi del tutto sgonfiata poco prima della diretta.

Oltre a Faletti?

Gigi Sabani prendeva delle scosse elettriche devastanti, saltava sulla sedia. Peccato che la struttura era in legno.

Sempre nel libro loda Francesco Salvi…

Un pazzo! Ai tempi del Derby, io, lui e Giorgio (Faletti) finito lo spettacolo uscivamo verso le due di notte e sistematicamente ci fermava la polizia solo perché io e Salvi portavamo i capelli lunghi fino alle spalle e a giravamo con la chitarra dentro la custodia.

Quindi?

Ci scambiavano per terroristi con il mitra nascosto. Così una sera Faletti sbotta: “Basta, non ne posso più, o vi tagliate i capelli o non esco con voi”. Non è più uscito. 

Salvi, “un pazzo”.

Senza limiti. Andavamo al ristorante, afferrava le fiamminghe di verdura e le scolava come fossero un frullato, con tutto l’olio che gli colava addosso; finita la cena saliva in piedi sul tavolo, risucchiava col labbro superiore il bicchiere da vodka in modo che gli rimanesse appiccicato come la proboscide di una mosca e cominciava, ronzando, a svolazzare sui piatti dei commensali.

[…]

Anni fa si è definito “filopalestinese, antinuclearista e ambientalista”. Lo è ancora?

Sono nato così, piuttosto sono cambiati gli altri attorno a me. Però ci sono argomenti che mi danno fastidio a prescindere dalla sostanza: per ridurre tutto a Laura Boldrini, lei a volte esprime concetti che pure condivido, ma detti da lei non li sopporto. 

Grillo vestito da samurai mentre spaventa gli americani in Giappone…

Tutto vero; era talmente felice della sua performance da arrivare alla febbre: vestito con un solo asciugamano correva mezzo nudo per i corridoi di un albergo di Tokyo, ma l’aria condizionata ha poi punito il suo intenso sudare. 

Con Grillo lei ha licenziato Dorelli…

Dorelli conduceva Finalmente venerdì, ma non andava benissimo. Così con Beppe ci presentammo ai piani alti dell’allora Fininvest sostenendo che nella notte Berlusconi aveva deciso l’avvicendamento con Grillo. Ovvio, era una bufala. Il bello è che alcuni dirigenti ci risposero: “Sì, lo sappiamo, il presidente ce ne aveva parlato”; oppure “sì, ho dato il mio benestare, sono felice della scelta”.

Dorelli felice.

Imbufalito. Voleva lasciare il programma.

Lei dedica ampi capitoli alle donne, definite “tostissime”.

Lorella Cuccarini arrivò a Mediaset perché abbandonata da Pippo Baudo e nonostante le sue caratteristiche fisiche non rientrassero esattamente nelle grazie di Berlusconi: troppo poco formosa… 

La Cuccarini la ringrazia, ma dice pure che lei l’ha destrutturata.

Da sola ballerina, le ho dato il passo comico e da conduttrice, senza troppi regali, fronzoli o sconti: uomini e donne li tratto nello stesso modo, con me non ci sono scuse, facili fughe o giornate negative.

Carmen Russo.

È un uomo. L’ho vista cadere a terra, farsi malissimo, rialzarsi e ripartire senza alcun lamento. 

Le Veline.

Ragazze con carattere, preparate, chi le immagina come solo “cosce” non ha capito nulla. Una volta ho salvato un giornalista di Repubblica dalle botte…

Cosa aveva scritto?

Dentro un articolo-vocabolario, titolato Alfabeto del potere, Francesco Merlo aveva sintetizzato in questo modo la lettera “E”: “Escort (vedi Veline)”; e sotto la “V”: “Veline (vedi Escort)”. Costanza Caracciolo e Federica Nargi erano decise: “Ci dia il permesso, vogliamo andare a Roma, assistere a una sua presentazione, e poi picchiarlo”. Le ho calmate. 

Paolo Villaggio e il “suo” funerale…

Con lui ci siamo conosciuti quando ero un ragazzo, una testa rarissima. Il giorno dell’addio a De Andrè lo vedo in un angolo, solo; mi avvicino. E lui: “Sono molto invidioso di questa cerimonia. Io non ne avrò mai una così”. Ho cercato di rassicurarlo, ma da quel giorno ha iniziato a inscenare la sua morte, ciclicamente ripeteva l’annuncio, poi consegnava la smentita alle agenzie di stampa.

Lei ha definito Berlusconi come “femmineo: porta i tacchi, usa il trucco e ha i capelli tinti”.

Confermo. 

È il suo editore.

E allora? Se lo penso lo dico.

Berlusconi ne sarà lieto.

Si professa come un campione del pensiero liberale. Ah, sia ben chiaro: io non ho l’esclusiva con nessuno, se non va bene sono sempre libero.

I ricavati del suo libro finiscono al gruppo Abele.

Perché da anni conosco bene Don Ciotti e il suo impegno.

Quante bugie ci sono in “Me Tapiro”?

È tutto vero, per cui so già che non sarò creduto.

DAGOREPORT l'8 maggio 2023.

Tra i misteri di cui l'Italia è ghiotta c'è vispo il fenomeno Romana Liuzzo, una signora nota come la nipote predi-Letta, nel senso dell'Eminenza Azzurrina, del defunto governatore di Bankitalia, Guido Carli. E' solo grazie al supporto di Gianni Letta, legatissimo a suo tempo a Carli, che la Liuzzo è a capo di una Fondazione che ogni anno attovaglia il "chi è" del potere romanizzato, da Cairo a Descalzi (quest'anno perfino Pinault); quindi ecco arrivare la lettera-benedizione del Papa, il telegramma di Mattarella e, colpo di scena, Antonio Ricci in persona, accompagnato da moglie e figlia. 

Bene, che ci azzecca in tale consesso di potentoni e negoziatori di influenze economiche e finanziarie, un tipino noto per aver sfanculato, via "Striscia la notizia", Lor Signori? Essì, ci vuole la faccia come il culo di Ricci per scendere nella città di Andreotti & Totti e affrontare l'Eminenza Azzurrina che ai tempi gloriosi del programma "Matrioska" venne sistemato così per le feste: "Preferisco lo Scrondo a Gianni Letta".

All'epoca il braccio destro di Berlusconi replicò a Ricci andando a ripescare un anarchico del primo Novecento e lo liquidò come "Bonnot e la sua banda". Ma Ricci è fatto così: quando intravvede la minima possibilità di rompere i cojoni, non sa resistere: "Sono andato alla premiazione della Fondazione Guido Carli s-c-i-e-n-te-mente", scandisce al telefono a Dagospia. 

Oscurato dalla simpatica Liuzzo che non l'ha manco annunciato tra i vincitori del premio ("sarà una sorpresa"), il bombarolo di Cologno Monzese, una volta salito sul palco dove l'attendeva quello che resta di Fedele Confalonieri con la targhetta in mano, si è scatenato, a partire dal suo tema preferito, Claudio Baglioni, che gli ha fatto sequestrare il libro di "Striscia" che ha osato perculare il divino gorgheggiatore di Centocelle.

Da striscialanotizia.mediaset.it l'8 maggio 2023.

«Ho affrontato più di 350 denunce. Potrei redigere la Guida Michelin dei tribunali d’Italia. Baglioni non si può toccare. Quale armocromista avrà consigliato a Schlein di andare alla sua festicciola?» 

Antonio Ricci ha ricevuto a Roma il Premio Guido Carli, che va a “talenti che danno lustro all’Italia nel mondo”. Questo il suo intervento.

«Non è banale né scontato premiare un autore satirico. La satira satura, la caricatura carica. Spesso è mal sopportata, spesso strumentalizzata, ma è, insieme allo spirito critico, il sale della democrazia e del viver civile. 

Io in questi anni ho dovuto affrontare oltre 350 denunce, ormai passo metà della mia giornata con gli avvocati e metà a fare la trasmissione. Ho visitato i tribunali di mezza nazione, potrei redigere una guida Michelin dei tribunali d’Italia.

Mi sono reso conto di quanto strutturalmente sia complicato il funzionamento della giustizia: sia per i cittadini che per i magistrati. Io ne sono sempre uscito bene, per cui non posso certo lamentarmi, però ho vissuto paradossi incredibili. 

Un anno fa il democratico e forse libertario Claudio Baglioni ha fatto sequestrare dal Tribunale di Monza il libro di Striscia ''Tutti poeti con Claudio''. Il sequestro di un libro è un atto di violenza inaudita, eppure è avvenuto nel silenzio dei media. Il libro conteneva da una parte frasi tratte da canzoni di Baglioni, dall’altra frasi di scrittori e poeti che le avevano scritte precedentemente. Tutto vero.

Adesso ci sarà un processo. Baglioni non si può toccare. Curioso che la libertaria Schlein si sia recata nella sua tana a fare una bella festicciola. Non so quale armocromista può averle consigliato una cosa simile. Certo è un colore stonato, come è spesso Baglioni».

Estratto da ilsussidiario.net l'8 maggio 2023. 

Premio Guido Carli ad Antonio Ricci: è tra i 14 talenti di economia, sport, musica e giornalismo, «eccellenze italiane, campioni di ingegno e realizzazioni in campi diversi ma uniti dai valori che Carli professava». […]

L’autore e ideatore di Striscia la notizia ha ricevuto il premio […] a Roma, dove è intervenuto rimarcando innanzitutto che «non è banale né scontato premiare un autore satirico». Questo perché «la satira satura, la caricatura carica», quindi «spesso è mal sopportata, spesso strumentalizzata».

D’altra parte, per Antonio Ricci è «insieme allo spirito critico, il sale della democrazia e del viver civile». Il “papà” del tg satirico ha spiegato di aver dovuto affrontare in questi anni «oltre 350 denunce, ormai passo metà della mia giornata con gli avvocati e metà a fare la trasmissione». Ad un certo punto, gli è scappata la sua proverbiale ironia: «Ho visitato i tribunali di mezza nazione, potrei redigere una guida Michelin dei tribunali d’Italia». 

[…] «Io ne sono sempre uscito bene, per cui non posso certo lamentarmi, però ho vissuto paradossi incredibili», ha raccontato il fondatore di Striscia la notizia.

A tal proposito, ha fatto riferimento a quanto accaduto un anno fa, quando Claudio Baglioni, definito sarcasticamente «democratico e forse libertario», fece «sequestrare dal Tribunale di Monza il libro di Striscia “Tutti poeti con Claudio”».

Antonio Ricci ha evidenziato che il sequestro di un libro «è un atto di violenza inaudita, eppure è avvenuto nel silenzio dei media...." 

La vicenda è ancora aperta, infatti ci sarà un processo. «Baglioni non si può toccare. Curioso che la libertaria Schlein si sia recata nella sua tana a fare una bella festicciola. Non so quale armocromista può averle consigliato una cosa simile. Certo è un colore stonato, come è spesso Baglioni», ha concluso Antonio Ricci.

"Io in gara cantando i miei 'squali'. Il festival? Finalmente è per tutti". La ventenne romana è una delle grandi scommesse di Amadeus. Icona della Generazione Zeta, deve conquistare l'"altro" pubblico. Paolo Giordano il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ariete, ma qual è il Mare di guai che canterà al Festival di Sanremo?

«Sono le insicurezze di una ragazza di 20 anni».

Il verso è chiaro: «Non so nuotare in questa vasca piena di squali».

«Spesso sono squali autogenerati, sono paure che mi vengono. Ad esempio penso spesso che tra due settimane la mia faccia sarà in prima serata di fronte a un pubblico che in gran parte non mi conosce. Lo squalo più grande forse è la paura di perdere».

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio, romana e minuta, papà giornalista, ha vent'anni tondi tondi ed è la cantautrice tipica di questo periodo: strafamosa tra i coetanei, praticamente sconosciuta tra gli altri. È una delle grandi scommesse del Festival e, a dirla tutta, la qualità del brano legittima ogni aspettativa: scritto con Calcutta e prodotto da quel geniaccio di Dardust, è un passepartout generazionale perché può piacere davvero a tutti.

Però lei non è un fenomeno usa e getta. Ha una passione sincera e, soprattutto, una bella ispirazione. L'anno scorso il suo primo disco Specchio è stato finalista al Premio Tenco e il tour ha avuto un pubblico da star: 10mila al Rock in Roma, 7mila al Carroponte di Milano. Dovendo puntare sul futuro, lei è un nome giusto.

Dicono che sia la portavoce del «bedroom pop», il pop da cameretta.

«È la mia comfort zone, il posto nel quale mi sento protetta».

Però Sanremo è il suo contrario.

«Sanremo è la più grande opportunità per tutti, anche per me. Sono contenta che nel corso degli anni anche i miei coetanei si siano avvicinati al Festival, che ora è il festival della musica vera».

Ossia?

«Io ne sono la conferma. Se ci sono Anna Oxa e i Modà, ci può essere anche Ariete, facciamo tutti musica».

Spera di vincere?

«In realtà non penso alla gara. Ma sono in eterna competizione con me stessa».

L'hanno simbolicamente eletta come portavoce della Generazione Z, quella dei ragazzi nati tra il 1997 e il 2012.

«Ne parlo e me ne sento parte».

Facciamo il punto della situazione.

«Per i ragazzi tra i 15 e i 17/18 anni il periodo della pandemia non è stato di certo facile. Io sono fortunata perché sono tra le poche che durante il lockdown ha trovato un lavoro, invece di perderlo. Ma nel complesso è stato disastroso».

Perché?

«Al di là del fatto che i social ci siano un po' sfuggiti di mano, abbiamo perso il concetto di impegno».

Politico?

«Ma se ci manca l'impegno politico è perché nessuno ce lo ha insegnato».

Ma non può essere sempre colpa degli altri.

«Però non può anche essere vero che i giovani sbagliano sempre. Di certo dobbiamo un po' reinventarci e abbiamo bisogno dell'aiuto dello Stato che spesso non c'è. Per me, ad esempio, togliere il bonus cultura è stato una caz...».

Ad agosto, durante il concerto a Gallipoli, ha criticato Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia.

«Non ho nulla contro Giorgia Meloni. Credo che da donna italiana e cristiana non le dia fastidio se uno è gay oppure senegalese».

Tanti ragazzi la prendono come spunto per fare coming out.

«Ma io non voglio essere un riferimento generazionale».

L'altro giorno ha fatto le prove all'Ariston con l'orchestra.

«Entusiasmante. L'effetto dell'Ariston è incredibile. L'orchestra ti avvolge. Quando me lo dicevano, io non ci credevo. Ma poi, quando sei lì dentro, scopri davvero che è un piccolo teatro che sembra gigantesco».

Sarà la sua prima volta, ma avrebbe potuto esserci anche l'anno scorso.

«Sì abbiamo presentato un brano, ma è roba passata. Ora sono qui e tutto sommato è meglio così».

Sanremo secondo Ariete.

«Porto sul palco una parte così sincera di me e lo faccio davanti a una gran parte di italiani che non mi conoscono».

Allora qual è l'obiettivo di Ariete al Festival?

«Non sentirmi più dire: ah, pensavo fosse un maschio».

Estratto del libro “Renditi utile” di Arnold Schwarzenegger pubblicato da “la Repubblica” il 10 ottobre 2023.

Nessuno di noi può scegliere da dove viene. Io sono cresciuto in un piccolo villaggio in Austria all’inizio della guerra fredda. Mia madre era molto affettuosa. Mio padre era severo, e poteva essere fisicamente violento, ma lo amavo molto. Era complicato. Penso spesso a come avrebbe potuto essere diversa la mia vita se non fossi stato una persona positiva, se avessi reagito in modo diverso alla mia educazione a Thal. Non avevo mai fatto una doccia calda o mangiato regolarmente carne finché da adolescente non partii per entrare nell’esercito. 

La mia routine mattutina comprendeva andare a prendere l’acqua e spaccare la legna per il fuoco, cosa che in inverno era atroce e attirava zero compassione da parte di mio padre, che da bambino aveva subito ben di peggio. In casa di Gustav Schwarzenegger non c’era niente di gratuito. Nemmeno i pasti. Ogni mattina dovevo fare duecento piegamenti sulle ginocchia solo per “guadagnare” la colazione. Niente stimola l’appetito quanto andare su e giù come un trampolo a molla a stomaco vuoto.

Tutto quello sgobbare, quei disagi e quell’ingrata fatica avrebbero potuto fiaccare il mio spirito o farmi apparire irraggiungibili le immagini dell’America che vedevo sulle riviste e nei cinegiornali. Avrebbero potuto privarmi dell’istinto di guardare oltre l’orizzonte. Di certo, a casa nessuno mi incoraggiava a immaginare la vita al di là dei monti dell’Austria sudorientale. Tornato dal servizio di leva, ci sarebbe stato un buon posto nella polizia che mi aspettava. 

Non tutti erano così fortunati, pensava mio padre. Inoltre, lui non capiva né approvava il mio interesse per il culturismo. Pensava che fosse qualcosa di egocentrico ed egoista. «Perché invece non spacchi un po’ di legna», mi diceva, «così puoi diventare grande e forte e almeno avrai fatto qualcosa per gli altri». Poi c’erano le volte in cui tornava a casa ubriaco e ci picchiava.

Quelle notti erano molto dure. Sarebbe stato molto facile rimanere imprigionato in tutto quello, ma scelsi di guardare il lato positivo. Ho sempre fatto questa scelta: riconoscere che per la grande maggioranza del tempo mio padre era un bravo papà e mia madre era la migliore delle mamme. Quella vita non era entusiasmante o particolarmente comoda, almeno non secondo gli standard moderni, ma era una buona vita. Una vita in cui imparai molto e trovai la mia passione, il mio scopo, e i miei primi mentori. 

Anche nel caso delle cose innegabilmente brutte, scelgo di ricordarle come una parte importante di ciò che mi ha spinto a scappare, ad avere successo, a diventare la persona che sono oggi. Se la mia infanzia fosse stata appena un po’ migliore, ora potresti non avere questo libro tra le mani. E anche se fosse stata un po’ peggiore, perché avrei potuto precipitare nello stesso pozzo dell’alcolismo in cui precipitò mio fratello, che gli causò nel 1971 un incidente mortale per guida in stato di ebbrezza. Devo molto al modo in cui sono stato tirato su. Ero nato per affrontarlo e affrontarlo mi ha plasmato.

Estratto dell’articolo di Roberto Croci per “il venerdì di Repubblica” l'8 agosto 2023.

«Ladies & Gentlemen, Arnold Schwarzenegger» annuncia Benedikt Taschen mentre invita la "Quercia austriaca" sul palcoscenico dell'Academy Museum, e io non posso che tornare indietro nel tempo, esattamente come il cyborg assassino in Terminator, inviato nel passato per uccidere Sarah Connor, e pensare ai nostri gradi di separazione, che sono assai meno di sei. 

[…] E io c'ero. E ci sono stato moltissime volte. Perché prima di darmi al giornalismo, sono stato l'interprete in America di Dino De Laurentiis per quasi 20 anni. Dino è stato il nonno che non ho avuto, perché se n'era andato poco prima di poterlo incontrare. Il nostro rapporto era paterno, amichevole, burbero, a volte anche duro, ma mai noioso.

[…]  Io c'ero. Al primo incontro tra Arnold Schwarzenegger e Dino. Per organizzare questo incontro l'agente di Arnold lavorò per mesi, nella speranza che il suo protetto potesse ottenere il ruolo di protagonista in Flash Gordon. L'incontro durò 1 minuto e 40 secondi. Quando Arnold arrivò nell'ufficio di Dino, vide un uomo piccolo, seduto dietro un'enorme scrivania, e ridendo disse: «Perché un uomo piccolo come lei ha bisogno di una scrivania così grande?». «Arnold, ammazza... c'hai n'accento», fu la risposta di Dino. «Anche tu hai un accento!», ribatté il gigante. «Fuori, fuori di qui, nu'o puoi fa' sto film, non sei adatto». E così fu.

C'ero quando Dino scelse Arnold per il ruolo in Conan il Barbaro e Codice Magnum. C'ero anche quando convinse Arnold a fare «un piccolo cameo, 'n paio di scene, Arnold» in Red Sonja (Yado in Italia) solo per poi girargli attorno tutto il film a sua insaputa. Così come c'ero, camicia e cravatta rossa, suo colore preferito, il 15 novembre 2010, l'ultima volta che vidi Dino de Laurentiis ai suoi funerali a LA, quando, a uno uno, i più grossi produttori, attori e studio executive di Hollywood, compreso Arnold, che allora era Governatore della California, salivano sul palco, raccontando i loro tête-à-tête con Dino. 

E c'ero anche adesso, insieme ad altri giornalisti arrivati da tutto il mondo, per celebrare ARNOLD, libro fotografico in due volumi pubblicato da Taschen al modico prezzo di 1.250 euro, in cui Schwarzenegger, 75 anni, ripercorre la propria vita, self made uomo nato in Austria ed emblema dell'American Dream, attraverso centinaia di fotografie – iconiche quelle di Mapplethorpe, Leibovitz, Ritts, Warhol e Scavullo – ed interviste a registi, amici, leggende del culturismo e politici. 

[…]

Ha avuto una vita intensa. È mai stato in pace con se stesso?

«La vita è una questione di equilibrio. È importante lavorare sodo con il cervello e con il corpo. Ma soprattutto, bisogna concentrarsi su una cosa alla volta, una regola aurea che ho imparato quando da bodybuilder mi accingevo a trasformarmi in attore, e lavoravo al mio primo ruolo importante nel film Il gigante della strada, di Bob Rafelson. 

All'epoca, non ero impegnato solo sul culturismo: avevo anche un'attività di vendita per corrispondenza che stava esplodendo, e facevo investimenti immobiliari. Cercavo di star dietro a tutto, ma mi sentivo sopraffatto. Come ne sono uscito? Con la meditazione trascendentale, che mi ha insegnato a concentrarmi completamente, e ad affrontare un problema alla volta». 

Medita ancora?

«Ho cominciato nel 1975 e non ho mai smesso. Anche oggi, se decido di fare qualcosa, mi dedico solo a quella e poi passo ad altro. Il mio team può confermarvi che se, per esempio, mi sto preparando per una riunione dell'USC Schwarzenegger Institute (l'istituto da lui fondato per la ricerca in campo politico nazionale e internazionale, ndr) non mi lascerò mai coinvolgere in altre discussioni. […] Il tempo che passo in palestra ad esempio è pura meditazione, le partite a scacchi sono il mio modo preferito per resettare e liberare la mente in momenti di crisi. 

Recitare le piace ancora?

«Certo. Ho smesso solo di prepararmi all'attività di funzionario pubblico dello Stato della California, la sesta economia al mondo. Mi ha fatto perdere soldi perché non ho fatto film in quel periodo, ma ho voluto farlo perché mi sento in debito per tutto quello che ho ottenuto dall'America. E se fossi nato americano, chissà: magari sarei diventato Presidente». 

[…]

Un aneddoto che ricorda con piacere?

«Quando sono andato in Brasile con James Cameron a una conferenza internazionale con leader indigeni ed esperti ambientali. Mentre scendiamo dall'aereo, Cameron mi dice: "Arnold, non rimanerci male se qui nessuno sa chi sei". Gli risposi di non preoccuparsi, non ho problemi con il mio ego. Avvicinandoci al villaggio, sentiamo un brusio di voci che intonano... "Arnold, Arnold, Arnold, Arnold!" fino a quando non ci portano in una capanna e vediamo un mio poster sul muro. Per la prima volta ho visto James Cameron senza parole». 

Il suo rapporto con la fama?

«La accetto. Non capisco quando le persone famose si lamentano che non hanno privacy. Ma di cosa stiamo parlando? Se sei un personaggio pubblico, devi aspettarti che la gente ti si avvicini e chieda selfie e autografi. Altrimenti stai in casa. Non credo che tu possa essere famoso e rincorso da tutti e allo stesso tempo volere che nessuno ti parli. Il mio momento di solitudine è quando sono a casa, con i miei animali, davanti al camino, quando leggo o guardo la tv o fumo un sigaro dentro alla Jacuzzi».

Che cosa prevede per il futuro?

«Non ne ho idea, ma cerco di mantenere la mia sanità mentale grazie alla mia routine. Mi alzo alle sei. Preparo il caffè, do da mangiare a Whisky e Lulu (cavallino e asina), pulisco la stalla. Poi prendo la e-bike per una corsa di tre miglia fino alla Gold's Gym, dove faccio pesi da più di 50 anni. E per quanto riguarda l'umanità, penso che le soluzioni vadano cercate a livello globale, rischiando anche di sbagliare. Forse, tutti dovrebbero adottare il mantra di Samuel Beckett, "Hai mai provato? Hai mai fallito? Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio"».

Estratto da repubblica.it il 27 aprile 2023.

L'attore di origine austriaca ed ex governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha ricordato il passato nazista della sua famiglia, che spera possa servire da esempio nella lotta all'antisemitismo, un fenomeno che sembra essere in crescita negli Stati Uniti. In un'intervista alla CNN, la star di Terminator ha fatto riferimento a suo padre, Gustav Schwarzenegger, che era un membro del partito nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. 

"Mio padre, e milioni di altri uomini, sono stati risucchiati in un sistema di odio attraverso bugie e inganni. E abbiamo visto dove porta", ha detto l'attore. "Ho visto di persona quanto quest'uomo fosse distrutto", ha continuato, "il tipo di atrocità che sono accadute. Quanti milioni di persone sono dovute morire e poi sono finite perdenti". Questo "non funziona. Voglio dire, andiamo e andiamo d'accordo. E l'amore è più potente dell'odio", ha detto al network. […]

Estratto dell'articolo di Andrea Palazzo per “il Messaggero” il 18 luglio 2023.

Arnold Schwarzenegger […] celebra la sua carriera a stelle e strisce tra culturismo, cinema e politica con una monografia fotografica in due volumi (dal 19 luglio, edita da Taschen), che arriva dopo una docuserie online su Netflix da pochi giorni. Entrambi i progetti si intitolano semplicemente Arnold, l'uomo che ce l'ha fatta nonostante il cognome impronunciabile. «A Hollywood hanno imparato Lollobrigida, impareranno anche il mio», commentava. Nell'imponente biografia per immagini di 800 pagine, con tante foto d'archivio e i ritratti firmati dai giganti della fotografia che lo hanno immortalato negli anni: Avedon, Leibovitz, Erwitt, Ritts e Warhol.

 «Con il curatore Dian Hanson ho messo dieci anni per realizzare l'opera - racconta Schwarzenegger - che abbiamo diviso in quattro sezioni: l'atleta, l'attore, l'americano e l'attivista. È stato più semplice diventare Mr. Universo». Viene venduta in tre versioni deluxe, la più economica è stata tirata in 1,947 copie (l'anno di nascita di Arnold) e costa 1.250 euro. La seconda è corredata da un leggìo a forma di capitello corinzio, in omaggio all'ideale greco incarnato dal suo fisico (prezzo 2.500 euro), mentre la più esclusiva ha la copertina di Annie Leibovitz stampata su lastra di alluminio e viene 12.500 euro. […]

«Avevo deciso che il bodybuilding mi avrebbe portato in America, lontano dall'Austria brutalizzata dalla guerra dove vedevo solo uomini distrutti». Così commenta le foto dei primi allenamenti, quando da giovane appendeva i poster di Steve Reeves - l'Ercole di Cinecittà - in cameretta.

«Mia madre chiamò un dottore, pensava fossi gay», ricorda. Dopo essere diventato il più giovane Mister Universo a 20 anni, finalmente realizzò il suo sogno e nel 68 si stabilì in California[…]

«Arnold aveva capito l'importanza dell'immagine nella promozione del bodybuilding», ricorda uno dei suoi primi fotografi, Jimmy Caruso. […] Andy Warhol, per primo, lo invitò alla Factory e lo ritrasse con la polaroid (cover del libro), oltre a farlo posare per la sua rivista, Interview; mentre Francesco Scavullo lo volle nudo ma non full frontal - per il paginone di Cosmopolitan: «Ero diventato un sex symbol», commenta Schwarzenegger. Un altro a consacrare il suo mito fu Robert Mapplethorpe nel 76 (le foto non sono incluse nel volume), che ha donato plasticità alla sua pelle, animandola come in una scultura di Rodin.

Nella parte dedicata ai successi cinematografici, ci sono gli Anni '80 dell'ottimismo reaganiano e degli action movie, da Conan il barbaro di John Milius fino a Terminator e all'incontro con James Cameron: «Con il suo accento tedesco parlava già come una macchina», rivela il regista. […] 

Con le cover di Vanity Fair degli Anni '90, realizzate da Annie Leibovitz, maestra dell'ambientazione, Schwarzenegger raggiunge i vertici del ritratto. In uno è ripreso su uno sfondo alpino, in omaggio all'iconografia del Terzo Reich di Leni Riefenstahl, in un altro galoppa a torso nudo su un cavallo bianco, con un tocco di ironia che fa capolino anche nei film, da True Lies alla commedia I Gemelli.

Gli ultimi capitoli sono dedicati alla vita politica e alle battaglie in difesa dell'ambiente (è fotografato anche con Greta Thunberg). C'è il periodo da governatore della California e il matrimonio dell'86 con Maria Shriver, erede Kennedy che lo ha mollato nel 2011, dopo l'adulterio consumato con la governante. Ma qui con la retorica delle foto patriottiche di Nigel Parry si rischia il monumento al brand Schwarzenegger, che è anche il limite del progetto Netflix, sembrato a molti critici troppo autocelebrativo. […]

"Non siamo vecchi, siamo classici". La band parla del nuovo brano: "Torniamo a essere arrabbiati. Presto anche un disco". Paolo Giordano l'1 Novembre 2023 su Il Giornale.

J-Ax e Articolo 31, siete in giro da oltre trent'anni.

«C'è chi invecchia e chi diventa un classico».

Classico è il titolo del vostro nuovo brano.

«Parla degli stereotipi di tanti boomer che si avvicinano ai giovani ma restano ancorati alla nostalgia di un passato idealizzato».

Avete nostalgia?

«È normale ricordare con affetto quando eravamo giovani, ma è anche importante capire che non era meglio il mondo, eravamo meglio noi».

Bella storia quella degli Articolo 31 di J-Ax e Dj Jad, che oggi hanno 51 e 57 anni, si sono separati dopo un lungo successo e si sono ritrovati sulla stessa strada. Prima i concerti, poi il Festival di Sanremo, un tormentone con Fedez e Annalisa (Disco Paradise) e adesso questo brano che ha la forza degli esordi e la consapevolezza di chi dà più profondità alla propria protesta: «Ma siamo soprattutto orgogliosi di aver fatto una tournée come quella appena finita, con il pubblico di tante età diverse». «Ormai riuniamo più generazioni di Pupo», scherza Dj Jad. La forza di Alessandro Aleotti, che si chiama J-Ax per le iniziali di Joker e l'abbreviazione del soprannome Alex, e di Vito Luca Perrini, detto Dj Jad, è di essere sempre stati «altro». Facevano rap quando il rap era roba per pochissimi e poi sono riusciti meglio di tanti altri a renderlo popolare nel senso di pop, cioè comprensibile a tutti. Gli Articolo 31 li ascolti e li puoi cantare, scatenano applausi o critiche e comunque riempiono il Forum di Assago con pubblico e brani straconosciuti come Ohi Maria o L'italiano medio. Hanno insomma i carati per valutare costume e cronaca di questi ultimi trent'anni di italianità e lo fanno con il pedigree di chi arriva dalla periferia, ha riempito classifiche e palasport ma con il cuore ci è rimasto, in periferia.

J-Ax, l'hanno sempre considerato di sinistra.

«In realtà sono un libertario. Su certe cose penso quasi che la destra sia moderata, su altre mi sembra che la sinistra sia fascista».

La politica oggi?

«Sembra più che altro cosmesi».

Ossia?

«La politica non è al potere, altrimenti il primo ministro, qualsiasi primo ministro, potrebbe andare da Apple a chiedere di pagare più di una percentuale irrisoria di tasse. Ma se Apple se ne va dall'Italia, si porta via anche dei punti di Pil».

Senza via di uscita.

«Sarei per il capitalismo darwiniano per distinguere i capaci dagli incapaci, i corrotti dai capaci».

Pochi artisti oggi si schierano in modo deciso su questi temi.

«La paura più grande di quasi tutti è di alienarsi una parte di pubblico».

Da che parte stanno gli Articolo 31?

«Siamo nella working class che mantiene un pensiero critico. Siamo quelli che cantano Tranqi funky ma anche 2030 con tutti i riferimenti al conformismo e alle tensioni sociali».

Nel testo di Classico c'è un riferimento a «prosciutto e meloni» e pure a Vasco Rossi.

«Vasco ha aperto le porte al di fuori della tradizione del bel canto e ha scritto brani che tutti sentiamo nostri».

A proposito, farete un disco?

«Certo che sì».

Quando?

«Ci sono due modi per non bruciarsi con i fan. Il primo è quello di pubblicare un disco e poi integrarlo con le nuove canzoni».

E l'altro?

«Pubblicare un po' di singoli e fare uscire il disco con l'ultimo. Noi faremo così».

Quando?

«Non abbiamo ancora la data, lavoriamo ai brani, quando sarà, sarà. Intanto è uscito questo Classico, che mostra un altro volto degli Articolo 31».

Ossia?

«A Sanremo abbiamo cantato una sorta di brano biografico. Poi questa estate siamo stati in giro e per le radio con Disco Paradise che ci ha divertito e fatto divertire. Ora torniamo arrabbiati come siamo sempre stati cercando non essere come tanti boomer che scrivono tutto solo su Facebook».

Paolo Giordano

Estratto dell’articolo di Barbara Visentin per il “Corriere della Sera” lunedì 14 agosto 2023

Tra il successo del tormentone «Disco paradise» e i concerti degli Articolo 31, l’estate di J-Ax è più affollata che mai, tanto che anche i suoi 51 anni, compiuti il 5 agosto, li ha festeggiati sul palco. […]

Partiamo dal suo litigio con Paolo Meneguzzi: lui ha detto che «Disco paradise» è una marchetta e l’estate pop 2023 è deprimente.

«All’inizio mi ha fatto molto ridere rispondere alla provocazione, ma è un argomento caldo: negli ultimi anni c’è risentimento verso la musica che va e penso che anche altri siano stanchi di sentirsi dare del fallito quando non azzecchi il pezzo e del marchettaro quando imbrocchi la hit. Ho sempre l’impressione che ci siano i vecchi che dicono ai giovani che la loro musica fa schifo, penso anche a Samuele Bersani».

Lui ha sostenuto che tanti trapper senza autotune non sanno cantare. È così?

«Bersani per me è uno dei più grandi, però partire dal fatto che si è staccato l’autotune a Sfera Ebbasta per dire che fa schifo è un discorso ignorante perché l’autotune nella trap è un effetto che va usato in un certo modo. Tecnicamente, per renderlo bene, bisogna stonare apposta. Sfera è uno dei più bravi a usarlo e Bersani queste cose le dovrebbe sapere». 

Non esistono successi decisi a tavolino?

«Non penso mai che quel che funziona nel pop venga deciso dall’alto, la scelta viene dal basso e il pubblico è sovrano. […] 

È vero però che nelle ultime estati c’è una corsa alla hit.

«[…] l’urban si è preso il 90% dello spazio nella musica, da quando la Fimi stabilisce le classifiche in base agli streaming. E quindi per chi non fa urban sono rimasti due momenti in cui trovare spazio: Sanremo e l’estate. Ecco perché c’è sovraffollamento». 

«Disco paradise» ha contribuito al boom di Annalisa: è felice del suo trionfo?

«[…]aveva successo anche prima, un conto è il successo, un conto è diventare mainstream, quando ti conosce anche chi non segue la musica. Adesso è imprescindibile, fa pop sapendo di fare pop e senza essere la paladina di nulla».

[…]

Con qualche mese di distanza, che ricordi le ha lasciato Sanremo?

«Un po’ in stile Fantozzi ci sono andato con un unico desiderio: non cannare l’esibizione. È stata un’emozione bellissima, ma poi mi sono rotto, è un circo stressante. Jad invece si è divertito molto, io di base sono andato perché voleva andarci lui e perché Amadeus ha fatto un lavoro straordinario. All’opposto dei suoi detrattori, penso che dovrebbero fargli una statua in Rai».

Jad e Fedez sono amici con cui ha ripreso i rapporti dopo dei litigi. L’età insegna a fare pace?

«È una roba che ti insegna la vita, ci pensi a mente fredda, quando passa del tempo. Ma con Jad quel che è successo è stato che a un certo punto non ci sopportavamo più, dopo una decina d’anni con gli Articolo31 avevamo passato troppo tempo chiusi insieme in un furgone. Con Fede forse non avevamo abbastanza empatia per vedere due punti di vista diversi, entrambi feriti. Ancora adesso io penso di aver avuto ragione e così lui, ma ci siamo visti con gli occhi dell’altro».

Come mai Fedez litiga con così tanti amici?

«Premesso che non sono sempre d’accordo con le scelte che fa, voglio spezzare una lancia in suo favore: a volte è molto frainteso e provocato. […]Sembra che tutto quel che fa non vada bene, ma il fatto è che in Italia ti perdonano tutto tranne il successo». 

Cosa le piace del carattere di Fedez?

«È molto estremo: estremamente cattivo, estremamente buono, affettuoso o scostante. E a me queste robe piacciono. È una persona che vive secondo le sue regole, un po’ un anarchico, ma anche un imprenditore molto intelligente».

Estratto da corriere.it sabato 29 luglio 2023

Terzo round. Sono giorni di botta e risposta tra J-Ax e Paolo Meneguzzi che tramite il loro profilo Instagram se le cantano e suonano di santa ragione, attirando sempre di più l'attenzione. Dopo le parole del cantante che giudicava triste "gente tutta tatuata che va su un palco a cantare la "disco paradise”, ed il riferimento era ai due cantanti del tormentone estivo cioè Fedez e J-Ax. «Appuntamento telefonico ore 18.00 oggi» scrive Paolo Menguzzi che, puntuale come un orologio svizzero, pubblica un video. 

L'ennesimo video di risposta contro J-Ax in cui finge di chiamare: «Pronto? pronto J-Ax? Ah sei il segretario di Fedez? Senti me lo passi? Dai fammi parlare con chi è serio..» continua a ripetere Paolo ridendo. [...] Poco prima di pubblicare il video, inoltre, Meneguzzi scrive nelle sue stories: «Visto che per me il pop è una cosa seria, non mi svenderò per avere un passaggio in radio..» riferendosi al brano che J-Ax ha scritto e pubblicato 3 ore fa per screditare il collega. 

[...]

La hit

ll cantante degli Articolo 31, ha inciso addirittura un brano per raccontare della polemica a distanza social tra i due. Si chiama "invidia del peneguzzi", [...] un attacco velenoso per rime al cantante: "togliti il mio nome dalla tua ca..o di bocca e stai tranquillo che io ti lascio stare" canta in una strofa J-Ax, che invita Meneguzzi a rispondere con una canzone.

Da ansa.it venerdì 28 luglio 2023.

È abbastanza America Latina questa base? Sai, vorrei alzarmi al tuo livello. 

Mettiamo questa cosa in prospettiva, per me non è dissing, è beneficenza estiva". 

A sorpresa, J-Ax pubblica il singolo L'invidia del Peneguzzi, dedicato senza mezzi termini a Paolo Meneguzzi.   

I due nei giorni scorsi sono stati protagonisti di un duro scontro via social. Al centro della questione il pop contemporaneo, svilito nei contenuti secondo quanto dichiarato da Meneguzzi in un'intervista a MowMag. Come esempio, veniva citato uno dei tormentoni di questa estate ovvero Disco Paradise di J-Ax, Fedez e Annalisa. Alle critiche J-Ax ha risposto con una serie di storie Instagram diventate subito virali. A sua volte Meneguzzi ha risposto con un lungo post.

Ora l'attacco in musica del rapper che non lascia adito a fraintendimenti: "Con una story del cazzo ti ho ridato la vita, sapendo bene come sarebbe finita", stuzzica J-Ax nelle sue rime.   

E poi ancora: "Sali sulla barca e poi t'attacchi al cazzo come prima. Salmo e Luché che sfida epica, a me tocca Meneguzzi è una vita che la sfiga mi perseguita".   

Meneguzzi lo aveva accusato di parlare, a 50 anni ancora di canne, e lui risponde così: "io parlo di cannoni, tu come Giorgia Meloni". Ma il botta e risposta continua anche sui successi dell'uno e dell'altro: "io ho detto che gli streaming sono meglio di quando il tuo produttore faceva giochini da gioppini e si comprava i tuoi dischi truccando la classifica Fimi".   

J-Ax lancia anche il guanto di sfida: "Adesso non fare il piangina: 'io non sono un rapper, non posso rispondere', se sei così bravo, piglia la penna e scrivi un pezzo tipo L'Avvelenata. 

    La prossima volta togliti il mio nome dalla tua cazzo di bocca e stai tranquillo che io ti lascio stare. Adios Pablo".

TESTO DEL BRANO "L'INVIDIA DEL PENEGUZZI" 

Il testo di Invidia del Peneguzzi, la canzone-dissing di J-Ax contro Meneguzzi 

Hola Pablo, è abbastanza America Latina questa base? Va bene? Sai vorrei alzarmi al tuo livello, vamosss, chico! Mettiamo questa cosa in prospettiva, per me questo non è un dissing, è beneficenza estiva. Con una story del cazzo, io ti ho ridato la vita, sapendo bene come sarebbe finita. Ti sei attaccato come un naufrago alla cima, sali sulla barca e poi t’attacchi al cazzo come prima.

Salmo e Luchè, che sfida epica, a me tocca Meneguzzi, è una vita che la sfiga mi perseguita . e tu mi fai la predica per una gloria breve come la tua fama in Sudamerica. E mo’ su Instagram ti insultano, su Facebook ce l’hai fatta. Nel regno dei coglioni, complottisti e terra piatta. Tra giornalisti, Iene, Cucchi e chi tiene i gruppi coi membri brutti, e poi più dire Cazzo Meneguzzi ma ti voglio bene pussy, ti auguro successo, così che poi ti insulta chi ti da ragione adesso. 

Ideali, famiglia, valori, io parlo cannoni tu come Giorgia Meloni. Hai detto che ho i follower non i fan, quando mai, io sui social metto solo le foto dei live, tu quelle di tuo figlio per acchiappare due like. 

Poi vieni a farmi la morale per la Disco Paradise. Dai, che al tuo confronto sembra scritta da Guccini, e dici che faccio il pappone con i ragazzini. No, nini, io ho detto che gli streaming sono meglio di quando il tuo produttore faceva giochini da gioppini e si comprava i tuoi dischi truccando la classifica Fimi.  

Uuuu, che hai detto? Saresti diventato Justin Bieber con il giusto investimento? E Madonna in Cile era al tuo livello? Ma in Italia eri Tiziano Ferro senza la voce e il talento. Non lo faresti un pezzo con Annalisa e Fedez? O con Jannacci o Pino Daniele? Io non sono un grande ma li ho conosciuti i grandi, e una cosa che non fanno mai è mortificare gli altri. Torna a Montevideo che qui t’han lasciato a piedi pure Pio e Amedeo. È vero, ho fatto tele come Cleme, Agnelli e pure Guè.  

Anche Sanremo perché Amadeus ha fatto fuori quelli come te. E son felice per i soldi che hanno dato a Salmo, ed ho goduto per i calci ai fiori che ha tirato Blanco, che ha fatto incazzare quelli che mo’ ti fanno l’applauso, che tra due giorni ti riscorderanno. 

È vero sono vecchio, ma pure tu sei vecchio e io ci sta che parlo d’erba come Willie Nelson, tu invece non puoi più vendere sesso nei pezzi d’amore alle bambine che aspettano il primo mestruo. Entrambi siamo escort, io quella d’altro bordo, tu quella cessa che uno dice non me la ricordo. Mettiamole ste cose al loro posto: tu fai le marchette, io al limite ho gli sponsor. Intiende, Pablo?  

Ok, adesso non fare il piangina, io non sono un rapper, non posso rispondere, invece se sei cosi bravo, sei un cantante pop così completo, piglia la penna e scrivimi un pezzo tipo l’avvelenata. 

Che poi c’hai pure provato a fare il rapper, facevi cagare ma c’hai provato. E comunque sei più bravo come rapper che come cantante. Quindi la prossima volta togliti il mio nome dalla tua cazzo di bocca e stai tranquillo che io ti lascio stare. Adios, Pablo 

Dagospia 25 luglio 2023. Dall’account Instagram di Paolo Meneguzzi.

Caro J-Ax,

ma chi verrebbe dietro a te (voi) se non seguissi il sistema che hai sempre criticato? Fai il portavoce che il sistema è marcio, che rinneghi Sanremo, the Voice e poi fai le pubblicità del “panettone”. 

Parli di papponi ma fai il pappone che sta attaccato ai ragazzini per non cadere nell’oblio che probabilmente tanto ti spaventa e per fare i fighi ci urlate ancora “legalizzala”. Ma anche basta.

Io ho una scuola artistica, produco film, dischi di ragazzi e ho una famiglia. Questa è la mia musica. Non ho il successo di prima? Pazienza… 

Io credo negli ideali e tu nelle canne. 

Io ero una realtà pop in America Latina nel 1996 (Tiziano credo avesse 16 anni...). Faccio un plauso alla tua ignoranza che si allinea a quello che proponete e a quella di molti superficiali che fuori dall’Italia non sanno andarci. 

Perché ti ricordo che a qualche chilometro dalla frontiera italiana tu musicalmente non sei nessuno. 

Ma torniamo a ‘Disco paradise’ targata 2023, canzone che poteva uscire anche nel 1974!… 

Fate i duri con i tatuaggi dei dragoni e mi cantate le bolle di sapone? Non lo trovate un po’ trash e un testo un tanto non credibile per l’età che avete? 

C’è proprio bisogno di dire ‘alza il finestrino’ e scomodare… Battisti? Non sapete cantare, ma gridate, parlate e storpiate linguaggi nel microfono con volgarità, parolacce e messaggi nelle canzoni veramente discutibili o incomprensibili! Ripeto, ce n’è veramente bisogno? 

Il pop è una cosa seria. Si cerca di creare un’identità, un suono collegato a un’emozione, la perfezione della melodia e del mix, dei testi. Si cerca di mandare un messaggio, che si possa avvicinare a un’arte e soprattutto c’è un’ imprescindibile etica nei messaggi. 

Ma dimmi un po’.

Quale cavolo è il vostro messaggio? 

A me pare solo che il messaggio sia “dai facciamo soldi”! Creiamo un sistema costruendo standard di scarsa qualità, perchè è più facile; perché la qualità è molto più difficile da sostenere. 

Forse la qualità te la sei dimenticata o perché meglio attaccarsi al treno del trash o di chi ha i follower? Attento… non ho parlato di fan, ma di follower. 

Con il cuore ?

Pablo 

Estratto da rollingstone.it 24 luglio 2023.

L’estate caldissima sta portando con sé anche una buona dose di bollori nell’universo della musica italiana. Dopo la telenovela Salmo vs Luchè, questa volta ad attaccarsi sono stati Paolo Meneguzzi e J-Ax. Il motivo? Una dichiarazione del cantante di Verofalso che in un’intervista a MowMag ha apertamente criticato il pop italiano contemporaneo e, in particolare, Disco paradise, il tormentone estivo di Fedez, J-Ax e Annalisa. «L’estate pop 2023 è deprimente. Il medium pop mi pare svilito», ha detto l’artista svizzero, aggiungendo: «Vedere gente tutta tatuata che va sul palco a cantare la Disco Paradise di turno mi fa tristezza. Quelle sono marchette».

La risposta di J-Ax non si è fatta attendere e sulle sue storie Instagram è apparso uno screenshot dell’intervista con il commento: «Eh, sei sicuro che TU, vuoi parlare di marchette? Comunque ciao, io ti ricorderò sempre come la versione ordinata su Wish di Tiziano». 

Il rapper degli Articolo 31 ha poi continuato: «Non c’è niente di più triste dei cantanti falliti che danno la colpa al “pubblico che oggi non capisce più un c…o”. A tutti capita di fare canzoni che non “connettono” col mercato, con la moda o con i gusti delle nuove generazioni. 

Se quando succede vi ritrovate con in mano un pugno di mosche vuol dire che non avete una fan base che vi supporta anche nei momenti in cui non siete mainstream. Significa che avete fatto musica superficiale che non è entrata nel cuore della gente ma solo nelle orecchie, per poi uscirne dopo una stagione». 

J-Ax qui si riferisce ad un altro momento dell’intervista di Meneguzzi in cui parla di Miami, il suo album del 2010 a cui il cantante è rimasto molto affezionato: «Era un disco coraggioso, avanti di circa 20 anni. Però essere “avanti”, soprattutto nello scacchiere pop italiano non è sempre un bene. Rischi di essere equivocato».

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Estratto da mowmag.com 26 luglio 2023.

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Marco Castoldi in arte Morgan, ci ha spiegato perché "il pop è la musica moderna più alta che ci sia". 

È scoppiata una polemica inaspettata fra Paolo Meneguzzi e J-Ax che, a parte le questioni personali, ha aperto il dibattito su cosa sia e cosa non sia pop. Da esperto cosa ne pensi?

Ha perfettamente ragione Paolo Meneguzzi, perché il pop è una forma d'arte. Noi italiani la chiamiamo "musica leggera", ma abbiamo inventato una definizione che non c'è nel mondo, quando in realtà il concetto di "musica leggera" io lo userei per definire “il pop è scadente”. In pratica la musica leggera si può tradurre in “voglio imitare il pop esclusivamente per delle ragioni commerciali”, quindi ne imita la patina, l'esteriorità, ma non certo l'essenza artistica.

E quindi cos'è il pop?

Il pop è la musica moderna più alta che ci sia. È proprio la rottura tra l'arte alta e l’arte bassa. Il pop sono i Beatles, per fare un esempio d'eccellenza, è David Bowie, è Franco Battiato. Il pop è la musica che sperimenta, che inventa e che utilizza tutti i mezzi che la modernità mette a disposizione. Non è una cazzata, la "musica leggera" è una musica priva di contenuti, mentre il pop è la musica più importante che c'è. 

Il discorso che fa Meneguzzi è molto serio, molto importante, perché in realtà denuncia una problematica vera che io da anni rilevo e denuncio a mia volta. Ma l'Italia ha un gravissimo problema, che non è soltanto nella musica, ma è proprio culturale. Fondamentalmente non c'è una capacità di agire delle proposte alternative e di farlo associandosi, unendosi, mettendo insieme le forze. Si è tutti dei singoli individui, che anche in questo momento, nella protesta, sono dei singoli uomini che dicono quello che pensano, ma non si riesce a usare questa indignazione per costruire.

Sembri avere poche speranze di cambiamento. Perché il sistema va avanti imperterrito come uno schiacciasassi e il sistema italiano sfrutta proprio il fatto che il popolo sia totalmente privo di capacità di emergere e di reagire ai soprusi. Il popolo italiano è veramente un popolo bue per eccellenza, composto da pecoroni. Come su Amadeus direttore artistico di Sanremo, sono l'unico che lo contesta, ma in realtà è un fenomeno che ha devastato culturalmente l'Italia da un punto di vista artistico e di qualità della canzone e continua a farlo, ma rimangono tutti zitti. 

Dagospia 24 luglio 2023.Estratto da mowmag.com

A contrastare la verve rock di Simone Tomassini, stasera, all’Eat Sound Festival di Vertemate (Como) ci sarà Paolo Meneguzzi. Una sola band per due artisti che incarneranno una sfida: musica rock (Tomassini) contro musica pop (Meneguzzi). Un palco, due amici, una battaglia. Anche due solide carriere ben diverse per tempi e sviluppi. Se ieri Tomassini ci raccontava della sua idea di musica, degli esordi con Vasco e dei suoi momenti bui, oggi tocca a Paolo Meneguzzi fare avanti e indietro fra tempo e canzoni. 

(…)

Il mercato. Lo conosci bene e ti ha fatto qualche strano scherzo. Com’è andata?

La mia storia è iniziata prestissimo. In Italia nel 2003, ma già nel 1996, in Sudamerica, avevo un successo spaventoso con un repertorio molto diverso da quello con cui mi sarei accreditato qui in Italia. Da metà anni ’90, e per quasi un decennio, sono stato un autentico king in Sudamerica: successi da classifica, uno via l’altro, che però non hanno mai viaggiato oltre quella – pur vasta – area geografica. Il mio percorso assunse poi tinte paradossali quando i discografici italiani mi dissero che, per sfondare in Italia, ero “troppo latino-americano”.

Anch’io, forse, a quel punto, sbagliai qualche mossa. Avrei dovuto “accontentarmi” del regno sudamericano senza farmi troppe paranoie rispetto al mercato italiano, che è comunque molto più ristretto. 

(…)

Nel 2010 uscì Miami, un album a cui sei rimasto affezionato. Perché?

Perché era un disco coraggioso, avanti di circa 20 anni. Un album che ho scritto proprio là, quando vivevo a Miami. Però essere “avanti”, soprattutto nello scacchiere pop italiano, non è sempre un bene. Rischi di essere equivocato. Ma devo dire che anche alcune cose fatte in Sudamerica hanno anticipato sonorità che oggi sono moneta corrente: l’elettronica, l’R&B minimale. Oggi l’autotune o le basi pop utilizzate per fare le melodie nei pezzi trap sono pratica abituale.

Prego.

L’estate pop 2023 è deprimente. Il medium pop mi pare svilito. Vedere gente tutta tatuata che va su un palco a cantare la Disco paradise di turno mi fa tristezza. Quelle sono marchette. Il pop dev’essere anche visionario, evoluto, curato ai massimi livelli. Se fai i dovuti confronti tra un prodotto e l’altro, te ne accorgi della differenza. Il pop migliore non è dozzinale, affatto. Blanco, ad esempio, se fosse prodotto ancora meglio, potrebbe tranquillamente sfondare porte internazionali perché ha tutto ciò che serve. Su uno come lui io investirei molto di più.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 9 ottobre 2023.

Arturo Brachetti ha una casa magica. Esci dall’ascensore e ti trovi in vicolo dei Bordelli. Un raggio di sole entra da una feritoia e illumina la porta di mattoni, oltre la quale si apre il più grande tempio dedicato alla divinità locale: il proprietario e il suo ego. Niente è come sembra: quello che pare vero non lo è, e viceversa. Due tigri in peluche a grandezza naturale si annoiano sui divani, mentre una terza prepara un’imboscata ai visitatori. 

Dei tre bagni, uno sembra una cappella medioevale con tanto di icona dedicata al santo Francessus protettore degli stitici; uno si ispira a Keith Haring e dal rubinetto esce acqua di colore diverso se è calda o fredda; il terzo è magrittiano, con il cielo in una stanza e una riproduzione di Le Grand Siècle che mostra Brachetti di spalle. Il padrone di casa compare anche sotto forma di marionetta, trompe-l’œil, sotto una campana di vetro. Per non dire dei manifesti degli spettacoli che tappezzano lo studio. Dalla vetrata in cucina si apre la meraviglia di Torino: la Cupola del Guarini con la Sindone, Palazzo Reale, la Mole, la Chiesa dei Cappuccini, Palazzo Madama e la Chiesa di San Lorenzo. 

Trasformista, illusionista, attore, regista. Dove tiene i costumi?

«In un magazzino fuori Torino: sono 450, ogni tanto vado a respirare la storia che hanno catturato. Alcuni li ho indossati una volta sola. Li conservo tutti perché sono pieni di trucchi».

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E il costume da prete?

«Grazie a quello un brigadiere non mi fece la multa mentre andavo a 70 all’ora su una strada da 50. Un’altra volta, con la complicità dei miei fratelli, andai a trovare mia zia per l’estrema unzione; lei aveva gli occhiali sul comodino, non mi riconobbe e cominciò a gridare: “Non sono ancora morta!». 

(...) 

Pensa di essere apprezzato più all’estero che in Italia?

«Ma no, mi sento molto appagato. L’unica cosa che mi fa un po’ di tristezza è che la televisione italiana, tutta, al di là di grandi complimenti non mi ha mai proposto un One Man Show ». 

E se glielo offrisse una piattaforma a pagamento?

«Bello! Però, anche lì... Ci sono colleghi che hanno fatto molto meno di me, venduto molti meno biglietti in Europa, e hanno i loro speciali».

Della sua vita sentimentale non si sa nulla. Perché?

«Per i miei spettatori io non ho sesso, sono come il personaggio di un popup». 

È innamorato?

«Sì, da tredici anni». 

Di un uomo o una donna?

«Non glielo dico, altrimenti lo scrive. Negli anni ‘70-’80 la sessualità era molto più libera di adesso e tutti abbiamo sperimentato un po’ tutto, quindi anche io ho avuto delle relazioni sia di qua che di là».

L’Aids stava arrivando.

«Per fortuna mia quando a Parigi vivevamo quella libertà sessuale sfrenata, non ho mai partecipato alle mega serate di orge: l’angelo custode mi ha evitato questo pegno».

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Il primo film?

« Mary Poppins . Confesso che quando lo riguardo, la scena della vecchietta davanti alla cattedrale mi frega sempre e mi commuovo». 

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Dario Argento: «Mentre finivo Suspiria volevo buttarmi dalla finestra. Di cosa ho paura? Non vedere più le mie figlie Asia e Fiore». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 12 maggio 2023.

Il regista: «Da bimbo sbirciavo mia mamma che fotografava Sophia Loren e Claudia Cardinale»

Per arrivare a casa di Dario Argento, devi addentrarti nel quartiere Coppedè di Roma, fra altorilievi e affreschi di leoni alati e di grifoni, e passare sotto l’arco col simbolo del sacro Graal messo lì per scacciare il maligno. Se piove, sembra di rivedere una giovanissima Eleonora Giorgi in una scena di Inferno, che scende da un taxi, di notte, un dito che sanguina e lei che si lascia ingoiare dalla bocca di uno di questi bizzarri palazzi con architetture dai rimandi esoterici. Il maestro dell’horror abita qui da tempo immemore (lui: «Neanche mi ricordo più perché»). Da novembre, è stato in casa per via di un intervento al femore, ma ora è in piedi e oggi è atteso a Londra al British Film Institute , dov’è in corso una retrospettiva con 17 suoi film restaurati in 4K, titolo Doors into Darkness, porte nell’oscurità. Di retrospettive gliene hanno tributate in Cina, Russia, Stati Uniti e in tutta Europa. Lui: «Mi ritrovo sempre in una folla di giovani, cosa che mi sorprende, ma non sono ancora riuscito a darmi una spiegazione».

Ha mai paura di quello che scrive mentre lo scrive?

«Per evitare distrazioni, scrissi Profondo Rosso in una casa che avevo in campagna vicino Roma. Era praticamente diroccata, non c’erano né luce né acqua... Arrivavo alle otto e me ne andavo la sera. E, quando cominciava a imbrunire, iniziavo ad avere paura delle cose che scrivevo e che vedevo riempire il foglio bianco nella macchina da scrivere: ogni volta che creo, è come se vedessi il film davanti agli occhi e scrivo quello che vedo. Vedo lui che attraversa la piazza, vedo una donna scaraventata contro il vetro di una finestra...».

E lì aveva paura dei suoi pensieri o perché avvertiva rumori, presenze?

«Forse perché i personaggi erano proiezione della mia immaginazione, ma era come se avessero una vita propria».

A 82 anni, immobile per cinque mesi, si è dato una spiegazione sul perché porta al cinema la paura?

«Ho fatto un lungo pensiero sul cinema horror in generale, dagli inizi a oggi. Sono partito dai primi film di Val Lewton, che era il responsabile del “reparto B” della Rko Pictures che produceva film da proiettare dopo quelli che oggi chiameremmo blockbuster. Quella “B” indicava film piccoli, semplici, ma non di seconda scelta. Lewton era geniale e fece una serie di horror bellissimi. Io li scoprii a Parigi. Mio padre mi ci aveva mandato sperando che studiassi, ma io passavo i pomeriggi alla Cinémathèque française. E quando diventai regista, dopo tre film più polizieschi, pensai che volevo tornare a quei momenti bellissimi passati a Parigi vedendo i film di Lewton».

Che cosa aveva trovato di «bellissimo» negli horror?

«Felicità, come aprire la porta e vedere un mondo mai incontrato, strano, coi fantasmi, i mostri. Ai tempi, il cinema era quello impegnato e, per me, l’horror era novità, libertà, era uno studio delle mie profondità. Mi ricordava Edgar Allan Poe, che lessi da ragazzino: un’emozione tale che, a scuola, scrivevo temi ispirati ai suoi libri e perciò bisticciavo coi professori».

In principio, fece il giornalista, poi scrisse e girò «L’uccello dalle piume di cristallo», «Il gatto a nove code» e «4 mosche di velluto grigio».

«Sono un solitario e pensavo che stare da solo con la macchina da scrivere fosse la mia condizione ideale. Poi, Sergio Leone chiamò me e Bernardo Bertolucci a scrivere C’era una volta il West. Scoprii che fare cinema mi piaceva. Scrissi L’uccello dalle piume di cristallo e non lo voleva nessuno, ma lo produsse mio padre: l’avevo fatto penare non finendo la scuola ma produsse tutti i miei film».

Che cosa serve per scrivere film che fanno paura?

«Avere un buon dialogo con la nostra metà cattiva. Non tutti sanno d’averla. Ma io la riconosco e ci parlo».

Una volta, ha detto: vorrei tanto incontrare questo Dario Argento, chiedergli perché nei suoi film ci sono sempre tante scale, tante tende, tanti animali, tante donne. Qual è la risposta?

«Le scale, credo, perché raccontano la paura di un incontro. Le tende mi riportano a quando, da ragazzo, andavo a letto passando da un lungo corridoio dove si muovevano tante tende, come fossero vive. Gli animali perché siamo uomini e siamo animali».

Le donne?

«Perché non erano molto raccontate e anche perché mamma era una fotografa famosa, specializzata in ritratti femminili. Il pomeriggio andavo a fare i compiti nel suo studio, potevo sbirciare donne meravigliose come Sophia Loren o Claudia Cardinale. Dopo, quando ho fatto cinema, è stato naturale ricordare il modo di mia madre di muovere e illuminare quei volti celestiali. E mi sembrò giusto raccontare di donne, ragazze, bambine, come la tredicenne di Phenomena o le ballerine di Suspiria».

Dunque nei suoi film ci sono tante donne ammazzate perché lei ama le donne, non perché le odia?

«Sono uno che le donne le ama, le ascolta, le capisce. Anzi, gli attori maschi mi imbarazzano, hanno sempre paura di esprimere qualcosa di sbagliato».

L’horror puro inizia con «Suspiria», primo film della trilogia delle tre madri. Come se ne spiega il successo?

«William Friedkin aveva fatto L’esorcista, ma era tratto da un libro. Suspiria è nato dal mio pensiero e la differenza con tutto quello che c’era stato prima è che non era solo una storia, ma era basato sulla psicologia. Perciò è diventato famosissimo e registi come Guillermo del Toro e John Carpenter si dichiarano miei seguaci. E poi, prima di Suspiria, un film sulle streghe non era mai stato fatto». 

Il sovrannaturale esiste?

«Ho girato l’Europa in macchina cercando le streghe. Ho trovato qualche donna che si professava tale, parlava, parlava, ma non ho mai assistito a fenomeni inspiegabili».

E sono mai capitati fenomeni strani mentre girava?

«Molti con Suspiria e anche con Opera, tanto che incaricai il direttore di produzione di fare la lista, ma andò perduta. Peccato. Arrivati a Monaco per Suspiria, trovammo strade e chiese imbandierate di nero: era morto un cardinale, l’impressione fu forte. Poi, impazzirono gli orologi di molti di noi. Una notte, eravamo io, il direttore di produzione, il direttore della fotografia, tornavamo in albergo. Uno dei due nota una vetrina di Mercedes e dice: accompagnatemi a guardarla. Attraversiamo e sentiamo un boato: era una bomba, un attentato terroristico della Raf. Se fossimo rimasti dall’altro lato della strada, saremmo morti».

Altre esperienze inspiegabili?

«Mentre finivo Suspiria a Roma, mi ero da poco separato e abitavo all’Hotel Flora. Il film andava benissimo, ero felice, ma non ho mai capito perché, quando tornavo in albergo, mi veniva la follia di buttarmi dalla finestra. Poi, un amico medico mi suggerì di spostare un armadio davanti alla finestra. Mi spiegò: l’idea del suicidio sparisce in fretta e, se quando ti viene devi spostare l’armadio, ci metti abbastanza da fartela passare. Aveva ragione».

Per un po’, dopo le separazioni dalle mamme, le sue figlie Asia e Fiore sono state con lei. Fiore, all’«Isola dei famosi», l’ha definita «un papà dolcissimo». Si riconosce?

«Ho ricordi stupendi del periodo in cui siamo stati tutti e tre, di vacanze, serate a teatro, passeggiate. Una cosa che mi fa paura è l’idea di non vedere più le mie figlie». 

Da ilnapolista.it il 7 gennaio 2023.

La Stampa intervista Asia Argento. Il 10 gennaio presenterà al cinema Massimo di Torino il suo film “Incompresa”, un film autobiografico.

 «Non mi ha aiutata a capire meglio me stessa, anzi, mi ha incasinato ulteriormente le idee. Mi ha creato un senso di colpa per gli inevitabili aggiustamenti alla mia vita che la finzione cinematografica aveva richiesto, uniti alle cose non dette per pudore. Da quell’incompiutezza è nata l’esigenza di scrivere la mia autobiografia, “Anatomia di un cuore selvaggio”».

Chi conosce l’Asia più nascosta?

«La parte più preziosa e fragile di me, quella che chiamo il mio giardino segreto, credo di averla rivelata veramente a pochi. Forse solo ai miei figli».

 Alla Argento viene chiesto com’è il rapporto con suo padre.

«Bellissimo. Più da amici che da padre e figlia, anche se i ruoli rimangono in certi atteggiamenti di accudimento reciproco. Ci sono stati alti e bassi com’è inevitabile, ma ci lega l’amore per il cinema e un certo punto di vista sulle cose, che lui ha ispirato e io ho seguito».

 Sul set avete mai avuto dissapori?

«Mai. Quella è sempre stata la nostra zona franca».

Qual è il primo film suo che ha visto? La Argento risponde:

«“Profondo rosso”. Avevo cinque anni e mi fece molta paura, però con il mestiere che facevano i miei genitori non potevo permettermi di rimanere scioccata a lungo. Quel film mi terrorizza ancora oggi. Lo conosco inquadratura per inquadratura, eppure i suoi meccanismi che toccano l’inconscio sfuggono a ogni tentativo di razionalizzazione».

 Com’è stato conoscere Alda Merini?

«Un’esperienza breve ma indimenticabile. Mi dettò delle poesie dedicate a me, che purtroppo nei vari traslochi sono andate perdute. Da lei mi sentivo vista, capita, come due outsider che si conoscevano da sempre. E avremmo fumato insieme cento sigarette».

 Ad Asia Argento viene chiesto un bilancio dei primi cinque anni di MeToo.

«Premetto che il movimento non l’ho lanciato io, a me interessava solo che quell’uomo andasse in galera e così è stato. Quello che è successo dopo è molto importante, è l’inizio di qualcosa, anche se per i diritti delle donne mi pare ci sia ancora molta strada da fare. E comunque cinque anni sono pochi per capire se mia figlia teenager avrà una vita migliore rispetto alle donne della mia generazione».

 A giugno aveva celebrato su Instagram il suo primo anno di sobrietà.

«Il 9 gennaio saranno 19 mesi».

 Tornasse indietro c’è qualcosa che non rifarebbe?

«No. E comunque non tornerei indietro. Non è stato semplice, meglio andare avanti

Estratto dell’articolo di today.it il 13 maggio 2023.

Anna Lou Castoldi non è la classica "figlia di". 21 anni, con l'arte nel dna - papà Morgan da sempre le parla di cultura, mamma Asia Argento le fa incontrare artisti di grande spessore - non si appoggia sulla loro notorietà per seguire la propria strada. 

Dipinge, scrive, recita […], suona e lavora come rider. "Consegno le pizze, ma ho lavorato come cameriera, ho fatto persino il manovale, ho dipinto case e i traslochi. Un po' di tutto" racconta a Fanpage, e spiega: "Vivo con la mia ragazza e ci manteniamo da sole in un piccolo borgo. Sto facendo molti lavori in questo periodo, anche perché con l'arte non riesco ancora a camparci. Quindi cerco di darmi da fare".

Un'indipendenza arrivata presto e incentivata da sua madre, Asia Argento: "Ormai ho 21 anni e non posso chiedere i soldi ai genitori - sostiene - A parte che mia madre me l'ha detto subito. Quando ho guadagnato i primi soldi con la serie Baby, a 18-19 anni, mi ha chiarito che me la dovevo cavare da sola. Mi sto arrangiando e sto imparando tantissime cose. È vero che è stressante, ma è parte della vita". 

Fidanzata da tempo, vive a Roma con la compagna e ha progetti seri che probabilmente vorrà realizzare in un altro Paese: "Sono molto felice con […] Dora, non abbiamo bisogno di sposarci in chiesa, però per l'adozione e il costruire una famiglia è piuttosto complicato nel nostro Paese. Noi abitiamo insieme, abbiamo tanti progetti ed è una storia seria, ma l'Italia sembra spingere i giovani, le minoranze e i 'diversi' ad andare altrove". […] 

Il post contro il “victim blaming”. Asia Argento, gli insulti dopo le denunce di violenza e la nuova vita: “Ho trasformato il veleno in medicina”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 21 Dicembre 2022

Oggi sono una donna serena, una sopravvissuta”. Scrive così su instagram in un lungo post, uno sfogo, in cui racconta una parte dolorosissima della sua vita e quello che ne conseguì. Era il 2017 quando Asia Argento fu tra le prime a denunciare gli abusi subiti dal produttore dando vita al movimento MeToo. Una vicenda che ha profondamente segnato la sua vita e da cui ora si sta liberando.

Nel 2017, dopo che io ed altre donne liberammo la parola rendendo pubbliche le violenze sessuali subite da Harvey Weinstein – racconta l’attrice – ci fu un vero e proprio tsunami mediatico, e subii da parte dei media e degli haters quello che viene chiamato ‘victim blaming’. Vennero dette e scritte frasi come ‘se l’era cercata, poteva dire no, l’ha fatto per farsi pubblicità’… perché la colpa del predatore in qualche strana maniera ricade sempre sulla donna, sulla vittima, anche se detesto questa parola. La vittima di stupro, di molestie, viene sempre, prima di tutto, giudicata. Prima ancora dello stupratore”.

E continua raccontando l’inferno vissuto intimamente: “E purtroppo anche la vittima per prima cosa interroga se stessa. Questo dovrebbe far capire com’è tutt’ora montata la nostra società. Anch’io mi chiesi come mai non fossi riuscita a scappare, perché non gli avessi dato un calcio nelle palle come mi aveva insegnato mia madre, perché non avessi urlato e chiamato le forze dell’ordine. M’incolpavo dicendomi che davo troppa confidenza agli uomini. O che forse era colpa dei ruoli che interpretavo, le pose sexy sulle copertine dei giornali. Se qualcosa di irrisolto dentro di me non mi aveva mai permesso di amarmi completamente, dopo essere stata violentata iniziai a disprezzarmi. Continuavo a ripetermi che ero una puttana e che me l’ero cercata. Non riuscivo a fuggire da questi pensieri”.

Allora ero ventenne- continua il post – non avevo gli strumenti per capire cosa mi era successo. Ci sono volute due decadi e 16 anni di analisi per liberarmi di questo critico interiore, e per imparare a farmi scivolare sopra le insinuazioni dei detrattori, che facevano ancora più male perché ero stata io la prima a incolparmi. Ieri Weinstein è stato condannato (dopo la sentenza di 23 anni a New York) a Los Angeles per stupro e violenze sessuali, potrebbe scontare 47 anni in carcere”. Harvey Weinstein è già stato condannato dal tribunale di Los Angeles per altri tre reati: uno stupro e due aggressioni sessuali. Il produttore era stato già condannato a New York per violenza sessuale e sta scontando 23 anni di carcere, a cui si aggiunge l’ultima condanna di 24 che potrebbero aumentare quando la corte emetterà la sentenza sulle aggravanti.

Asia Argento conclude il suo post: “Quarantasette anni è la mia età. Oggi sono una donna serena, una sopravvissuta, amo la vita, amo me stessa, ho trasformato il veleno in medicina, e so che la mia esperienza ha aiutato innumerevoli donne in tutto il mondo ad uscire dallo stigma delle violenze sessuali, a liberarsi di questo enorme fardello. E per questo sono e sarò sempre profondamente grata”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell'articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” martedì 15 agosto 2023.

Di film tra Italia e Stati Uniti Barbara Bouchet finora ne ha girati centoventi - più decine di pubblicità, serie e programmi tv - ma a sentirla parlare il più avvincente è quello che prima o poi si girerà sulla sua vita: espulsa con la famiglia dalla Repubblica Ceca nel 1948, ha passato due anni in un campo profughi in Germania, è emigrata in California dove ha lavorato nei campi di cotone, ha posato come modella, è finita per caso sul set con Marlon Brando, ha vissuto con un ghepardo, nel 1969 si è trasferita in Italia per evitare guai seri, e qui è diventata la superstar della commedia sexy all'italiana. Ora è nelle sale con Next, regia di Giulietta Ravel, con Corinne Clery, Alessandro Haber e Debora Caprioglio, film che parla di sesso e opportunità. 

Il suo vero nome, da tedesca qual è (naturalizzata italiana), è Bärbel Gutscher, e il 15 agosto compirà 79 anni: «In Rete c'è scritto che sono del 43, ma non è vero. Per gli 80 c'è tempo». 

È vero che ha un'idea per una serie su un gruppo di amiche di una certa età che vogliono ancora divertirsi?

«Sì. Mi piace tanto quella di Jane Fonda, per me una garanzia, Grace and Frankie e vorrei tanto recitare in un progetto simile. Per noi ragazze diversamente giovani, che ormai siamo in maggioranza e non siamo tutte zitelle annoiate davanti alla tv, si fa troppo poco». 

Come si divertono le ragazze di una certa età?

«Ci incontriamo, giochiamo a carte, viaggiamo...». 

Ho letto che non è stufa del sesso, che fa bene ed è bello a ogni età: conferma?

«Se si trova la persona giusta». 

Anche un toy boy?

«Non sono il tipo. Ho troppo rispetto per me stessa. E poi i miei figli sono giovani, per carità». 

(...)

Se nel 1975 lei non avesse rifiutato il ruolo di protagonista dello scandaloso "Histoire d'O", Corinne Clery non l'avrebbe mai girato: perché disse di no?

«Avevo già un figlio (lo chef Alessandro Borghese, 46 anni, ndr), quel film era troppo spinto per me. Per lo stesso motivo nel 1983 rinunciai anche a quello di Tinto Brass, La chiave, che poi fece Stefania Sandrelli. Le mie commedie sexy erano allegre e con trame esili. Io facevo sempre la stessa parte». 

Quella delle bellona sotto la doccia?

«No, quella di solito era Edwige Fenech. Io facevo il bagno nella vasca e avevo sempre qualcuno che mi spiava dal buco della serratura.

Coinvolgimento zero, incassi miliardari». 

Per questo nel 1969 lasciò l'America?

«No. Accettai di fare Colpo rovente di Piero Zuffi, che uscì nel 1970, perché a Los Angeles avevo problemi seri con un avvocato potentissimo, più grande di me, che mi voleva a tutti costi. Io lo rifiutai, e lui minacciò di distruggermi la carriera. Mi terrorizzò. Era un avvocato della Paramount, che aveva rapporti con la mafia. Scappai. E così trovai l'America in Italia». 

In quella vera, però, fino ad allora fece una vita pazzesca.

«Ero giovane». 

A Los Angeles viveva con un ghepardo in giardino?

«Sì. A metà degli Anni 60 ero fidanzata con l'attore Gardner McKay, bellissimo protagonista della serie Avventure in paradiso. Vivevamo insieme in una villa. Lui aveva un leone in gabbia, io una gheparda di nome Kenya. Dopo sei mesi, però, ci lasciammo. Lui mi tradiva». 

A una festa ammanettò Warren Beatty e se lo portò via.

«È vero. Sbucarono all'improvviso, non so come, le presi al volo e gliele misi ai polsi. "Adesso sei mio", gli dissi. Lui era uno spettacolo. Durò pochi giorni, però. Era un donnaiolo accanitissimo. Andò meglio con Steve McQueen. Prendemmo una casa a Malibu: all'inizio tutto bene, poi cominciarono a venire per colazione i suoi amici motoclisti. Cucina uova fritte e pancetta oggi, cucina domani... dopo un po' mi stufai e lo mollai. Non poteva durare». 

È vero che sul set litigò con Marlon Brando?

«Neanche sapevo chi fosse, il suo profumo mi dava alla testa e mi lamentai. "Qual è il problema?", disse lui infastidito. "Mi fa star male", risposi. Si allontanò imprecando. Comunque in piccoli ruoli recitai anche con Robert Mitchum, Tony Curtis, Jack Lemmon...». 

Mai molestata?

«In Italia, mai. Solo una volta il produttore Carlo Ponti ci provò in maniera maldestra, ma lo gelai. Era il 1966, io vivevo negli Usa, e andai a Cannes per il Festival. Lui mi invitò nella sua villa di Cap Ferrat, dove andai tranquilla: pensavo di trovare Sophia Loren, sua moglie, che era presidente di giuria. Invece solo io e lui. "Com'è il suo corpo?", mi disse buttandola lì. E io: "Magnifico, grazie. Arrivederci"». 

E in America?

«Dell'avvocato le ho detto. Fu molto sgradevole Jerry Lewis. Andai da lui per un incontro. Mi disse di sdraiarmi sul divano e di prepararmi. Io risposi: "Non ho capito, che cosa devo fare?". E lui: "No, hai capito bene". Me ne andai di corsa».

Perché in Italia si ritirò a 39 anni?

«Ero stata un sex symbol per anni, meglio lasciare in tempo. Così mi sono messa a fare ginnastica e ad aprire palestre. Un successo pazzesco». Berlusconi nel 1982 le fece fare su Italia 1 il programma "Beauty Center Show": come andò? «Bene. Dopo la prima puntata mi disse che avrei dovuto far vedere di più le tette, io gli dissi che già c'erano quelle delle altre e finì lì. Mai avuto problemi». 

(...) 

Barbara Bouchet compie 80 anni: musa di Quentin Tarantino, il ruolo in «Gangs of New York», 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera martedì 15 agosto 2023.

L’attrice, icona della commedia sexy all’italiana, compie gli anni il 15 agosto

Gli inizi come ballerina

Festeggia oggi il suo compleanno Barbara Bouchet (di anni ne compie 80). È nata a Reichenberg - oggi Cechia - ed è cresciuta in California, dove la sua famiglia si è trasferita negli anni Cinquanta. Ha mosso i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo come ballerina, mentre risale al 1964 il debutto cinematografico, nel film «I guai di papà» di Jack Arnold (proprio in quel periodo l’attrice ha cambiato nome, adattando il suo all’anagrafe - Barbara Gutscher - in Barbara Bouchet).

Il successo in Italia

A Hollywood Barbara Bouchet ha lavorato in diverse produzioni importanti - ad esempio è apparsa in «Star Trek», ma ha anche recitato nel film di James Bond «Casino Royale» -, ma il vero successo lo ha conosciuto in Italia negli anni Settanta (nel solo 1972 ha girato 11 film), grazie soprattutto al filone della commedia sexy all’italiana. «I film per me volgari o morbosi, però, li rifiutavo - ha detto intervistata da Candida Morvillo sul Corriere -. Rifiutai La chiave di Tinto Brass, che fece Stefania Sandrelli e Histoire d’O che fece Corinne Clery».

Il matrimonio con Luigi Borghese

Barbara Bouchet, che in passato è stata legata a Steve McQueen e Omar Sharif, è stata sposata dal 1974 al 2006 con l'imprenditore napoletano Luigi Borghese, con il quale ha avuto due figli: Massimiliano e lo chef e conduttore televisivo Alessandro Borghese. Dopo il divorzio non si è più innamorata: «Credevo che avrei avuto la fila alla porta, ma non c’era nessuno - ha raccontato al Corriere -. I corteggiatori mi considerano un trofeo e a me non piace fare il trofeo. Non capiscono che dietro Bouchet c’è Barbara».

L’addio al cinema

L’attrice ha lasciato il cinema molto presto, prima dei 40 anni: «Mi ero sposata, io e mio marito Gigi Borghese siamo stati insieme 36 anni, mi aveva conquistata con la simpatia. Nel ’76 era nato Alessandro e io, prima dei 40 anni, ho smesso perché non volevo che fossero gli altri a mandarmi via. Ho pensato: torno fra dieci anni. Facevo la mamma e ho importato in Italia l’aerobica alla Jane Fonda, con corsi, Vhs. Poi, per il rientro al cinema, di anni ne sono serviti venti».

Il ritorno in «Gangs of New York»

Nei primi anni Duemila Barbara Bouchet è tornata al cinema: dopo «Mari del sud» di Marcello Cesena (2001) è entrata nel cast di «Gangs of New York» di Martin Scorsese (2002, era la signora Schermerhorn). Il suo film più recente è «Una famiglia mostruosa» di Volfango De Biasi (2021).

Sulla pista di Ballando

Nel 2020 Barbara Bouchet ha preso parte a Ballando con le stelle, in coppia con il ballerino professionista Stefano Oradei. È stata eliminata provvisoriamente nella seconda puntata e definitivamente in semifinale.

Musa di Quentin Tarantino

Amatissima da Quentin Tarantino Barbara Bouchet ha raccontato al Corriere, a proposito del primo incontro con il regista anni fa al Festival di Venezia: «Lo chiese al direttore, vado, mi vede e strilla: yeah. Passiamo due giorni insieme, poi mi dà un appuntamento e non si presenta. Penso: chi si crede di essere? Tempo dopo, mi chiama il regista Francesco Vezzoli, dice che deve girare un corto su Caligola e che Quentin farà Caligola solo se io faccio la moglie. Vado a Los Angeles, provo trucco, costumi e, il giorno prima del ciak, Quentin lo chiama e dice che non viene perché è troppo ingrassato. Insomma, un maleducato. Ma fa niente: grazie a lui, pure a una certa età, ho guadagnato un sacco di fan in tutto il mondo».

Estratto dell’articolo di Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 23 luglio 2023.

Prima dei 25 anni, Barbara Bouchet aveva già girato una ventina di film a Hollywood «di quelli dove stai in bikini o fai la bella ragazza», minimizza lei, però la bella ragazza vicino a divi come Marlon Brando e, comunque, aveva fatto una parte anche in James Bond 007 Casino Royal e una in Star Trek. 

(…)

Da sola a Hollywood che pericoli ha corso?

«Pochi. Qualche corteggiatore. Sa il famoso MeToo? Ma basta che dici no ed è no. Poi, a Hollywood ho iniziato abbastanza bene, ho fatto 007, What a way to go con Shirley MacLaine, Paul Newman, Robert Micthum, Bedtime Story con Marlon Brando e David Niven, Kelinda in Star Trek , Sweet Charity... Avevo possibilità di carriera, ma c’era un signore grande che mi corteggiava. 

Al primo appuntamento, si presenta con una parure di zaffiri e io: questa roba non la metterei mai. E rifiuto. La seconda volta, porta rubini. E io, di nuovo: questa roba non mi piace. Cercava di comprarmi, non ci è riuscito. Finché si è incavolato di brutto e ha detto che mi rovinava la carriera. 

Solo che l’amico che me lo aveva presentato aveva omesso di dirmi che era l’avvocato della mafia. Ho fatto la valigia in quattro e quattr’otto e sono scappata a New York. Lì, non c’era cinema, solo moda ma degli italiani di passaggio cercavano un’americana per un film: chiesi solo quando si partiva, sarei andata anche se si fosse trattato di Mickey Mouse». 

In Italia, esplose.

«Pensi che nel ‘72 girai undici film».

Non la imbarazzavano le scene sexy?

«Sono cresciuta in una famiglia in cui noi figli stavamo tutti nudi nella stessa stanza, non ho quel senso del pudore. E poi erano ruoli, era come dire: non ti dà fastidio fare l’assassina? I film per me volgari o morbosi, però, li rifiutavo: rifiutai La chiave di Tinto Brass, che fece Stefania Sandrelli e Histoire d’O che fece Corinne Clery». 

Altri no decisivi?

«Il mio ruolo più importante fu nel ’65 nella Prima Vittoria di Otto Preminger, moglie di Kirk Douglas. Ma Preminger mi scritturò nella sua scuderia e poi mi disse che per due anni non ci sarebbero stati ruoli per me e si rifiutò anche di darmi in prestito al produttore Charles K. Feldman. Me ne andai, a costo di pagare la penale e ritrovarmi senza lavoro. Destino vuole che capiti al Festival di Cannes. 

Un produttore italiano mi invita a parlare di lavoro nella sua villa. Sapevo che aveva una compagna, quindi non fiuto pericoli e vado. Ma la signora non c’era. Lui mi chiede: come sta il fisico? E io: benissimo, grazie. Si aspettava che aprissi la camicetta. Al che mi fa: sarà il regista a decidere. Mi congeda e mi manda a Londra da Michelangelo Antonioni». 

Non ci avrà provato anche Antonioni?

«Gli chiedo di che ruolo si tratta, lui mi guarda con il tic che aveva, muovendo sempre la testa, e dice: sono molto stanco ora. Arrivederci e grazie. Però in aeroporto, ero stata avvicinata proprio da Feldman, il produttore al quale Preminger mi aveva negata. Be’ l’ho chiamato e ho fatto Moneypenny, la segretaria di 007, con Niven, Peter Sellers, Woody Allen. Ci abbiamo messo un anno e mezzo a girarlo». 

Cosa ricorda di quel set?

«I soldi buttati dalla finestra. Le scene venivano fatte, riscritte, rifatte. E Niven: l’attore con cui ho lavorato meglio, un gentleman, divertente da morire. Sono diventata amica anche della moglie. Stavo benissimo. Giravamo a Londra, mi mancava solo il sole. Ma il giorno in cui è spuntato, mi sono sdraiata in costume a Hyde Park e sono stata arrestata». 

Chi l’ha corteggiata dei compagni di set?

«Ma no, nessuno. William Shatner, il capitano Kirk di Star Trek, ma quando me lo trovai fuori dalla roulotte senza toupet non lo riconobbi. Ci sono andata a cena, niente di che».

I giornali di fine anni ‘60 la davano fidanzata con Omar Sharif.

«Mi ero scordata, ha ragione! Vado a vivere da lui a Parigi e dice: mi raccomando, devi curare la casa, non voglio quadri, oggetti, niente in giro. E io: e che è? Un ospedale? Ho retto poco perché lui stava sempre a giocare al casino e io a casa. In Italia, iniziava la mia carriera, al che ho lasciato un biglietto e me ne sono andata». 

Ha lasciato altri uomini in modo così netto?

«Steve McQueen. Ho vissuto con lui a Malibu, tutte le mattine arrivavano amici in moto per fare colazione a casa nostra e io in cucina a fare uova, bacon, patate. Mi dissi: non è la mia vita».

Pure con Steve McQueen un biglietto e via?

«Certo. A me piace recitare, non cucinare».

Altri sedotti e abbandonati?

«Vabbè... Il Tarzan della serie tv, Ron Ely. Lo incontro sul set in Messico, alto quasi due metri, seminudo, un fisico bello come il sole. Finché siamo stati ad Acapulco, mi piaceva, poi l’ho visto vestito a Los Angeles ed è passato l’incanto». 

L’ italiano più bello con cui ha lavorato?

«Marcello Mastroianni. Era appena finita la storia con Catherine Deneuve, era triste. La mattina, veniva sul set di Per le antiche scale di Mauro Bolognini, accendeva il giradischi e sentiva Bella senza’anima. Tutte le mattine».

Il più simpatico?

«Ugo Tognazzi. Sul set di Anatra all’arancia con Monica Vitti, mi usava per farle gli scherzi, mi chiedeva di cambiare le battute per coglierla di sorpresa». 

Perché a un certo punto lascia il cinema?

«Mi ero sposata, io e mio marito Gigi Borghese siamo stati insieme 36 anni, mi aveva conquistata con la simpatia. Nel ’76 era nato Alessandro e io, prima dei 40 anni, ho smesso perché non volevo che fossero gli altri a mandarmi via. Ho pensato: torno fra dieci anni. Facevo la mamma e ho importato in Italia l’aerobica alla Jane Fonda, con corsi, Vhs. Poi, per il rientro al cinema, di anni ne sono serviti venti. Però il rientro l’ho fatto con Martin Scorsese in Gangs of New York. Lui fece anche un Natale a casa mia con la moglie e la mia famiglia».

Diceva che non sa cucinare, ma Alessandro da chi ha preso la passione per i fornelli?

«Dal padre. Io non amo nemmeno mangiare: ho sempre avuto scarso appetito. Per mio figlio, non è piacevole: lascio sempre metà piatto». 

(...)

Una decina d’anni fa, Quentin Tarantino volle incontrarla al Festival di Venezia.

«Lo chiese al direttore, vado, mi vede e strilla: yeah. Passiamo due giorni insieme, poi mi dà un appuntamento e non si presenta. Penso: chi si crede di essere? Tempo dopo, mi chiama il regista Francesco Vezzoli, dice che deve girare un corto su Caligola e che Quentin farà Caligola solo se io faccio la moglie. Vado a Los Angeles, provo trucco, costumi e, il giorno prima del ciak, Quentin lo chiama e dice che non viene perché è troppo ingrassato. Insomma, un maleducato. Ma fa niente: grazie a lui, pure a una certa età, ho guadagnato un sacco di fan in tutto il mondo».

Barbara Bouchet al figlio: «Non hai un secondo ma vieni a vedere la tua pazza mamma al cinema». Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023 

L'attrice, mamma dello chef Alessandro Borghese, torna al cinema con la commedia Next: «Di alcuni film non sono fiera ma li ho dovuti fare perché la produzione mi ricattava»

Nino Luca / CorriereTv

Barbara Bouchet torna al cinema con un cameo nella commedia «Next», commedia d’esordio di Giulietta Revel. Presentato giovedì al cinema Anteo di Milano, l’attrice spiega di non aver voglia di stare a casa a guardare la tv. «Mi piace stare sul set. Accetto qualsiasi ruolo anche piccolo. Purtroppo in Italia ce ne sono pochi. Si fa di più in Francia». Poi l’appello al figlio, lo chef Alessandro Borghese: «Mio figlio? Tra tv e ristoranti non ha mai un secondo ma gli dico: “Alessandro, vieni a vedere la tua pazza mamma al cinema”».

In carriera più di 120 film. «Ci sono diversi film che ho fatto perché la produzione mi ricattava. Se non fai questo non ti facciamo fare quell'altro. Non sono fiera di aver accettato però fanno parte della mia storia. Che posso fare?». Poi il solito argomento delle commedie sexy su cui Bouchet risponde con sincerità. «Sono le commedie sexy che mi hanno fatto conoscere agli italiani e per le quali ricevo complimenti. Non solo dagli uomini, ma devo dire che sono molto fiera che le donne mi ammirano. Si vede che qualcosa di buono l'ho fatta, anche se ero nuda». E conclude con una battuta sul fatto che li rifarebbe (facendo finta di intendere il riferimento al passato. «No, oggi no, tesoro mio, oggi no!». E conclude ridendo di cuore come aveva iniziato.

Estratto dell'articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” l'8 maggio 2023.

Di film tra Italia e Stati Uniti Barbara Bouchet finora ne ha girati centoventi - più decine di pubblicità, serie e programmi tv - ma a sentirla parlare il più avvincente è quello che prima o poi si girerà sulla sua vita: espulsa con la famiglia dalla Repubblica Ceca nel 1948, ha passato due anni in un campo profughi in Germania, è emigrata in California dove ha lavorato nei campi di cotone, ha posato come modella, è finita per caso sul set con Marlon Brando, ha vissuto con un ghepardo, nel 1969 si è trasferita in Italia per evitare guai seri, e qui è diventata la superstar della commedia sexy all'italiana. Ora è nelle sale con Next, regia di Giulietta Ravel, con Corinne Clery, Alessandro Haber e Debora Caprioglio, film che parla di sesso e opportunità. 

Il suo vero nome, da tedesca qual è (naturalizzata italiana), è Bärbel Gutscher, e il 15 agosto compirà 79 anni: «In Rete c'è scritto che sono del 43, ma non è vero. Per gli 80 c'è tempo». 

È vero che ha un'idea per una serie su un gruppo di amiche di una certa età che vogliono ancora divertirsi?

«Sì. Mi piace tanto quella di Jane Fonda, per me una garanzia, Grace and Frankie e vorrei tanto recitare in un progetto simile. Per noi ragazze diversamente giovani, che ormai siamo in maggioranza e non siamo tutte zitelle annoiate davanti alla tv, si fa troppo poco». 

Come si divertono le ragazze di una certa età?

«Ci incontriamo, giochiamo a carte, viaggiamo...». 

Ho letto che non è stufa del sesso, che fa bene ed è bello a ogni età: conferma?

«Se si trova la persona giusta». 

Anche un toy boy?

«Non sono il tipo. Ho troppo rispetto per me stessa. E poi i miei figli sono giovani, per carità».

(...)

Se nel 1975 lei non avesse rifiutato il ruolo di protagonista dello scandaloso "Histoire d'O", Corinne Clery non l'avrebbe mai girato: perché disse di no?

«Avevo già un figlio (lo chef Alessandro Borghese, 46 anni, ndr), quel film era troppo spinto per me. Per lo stesso motivo nel 1983 rinunciai anche a quello di Tinto Brass, La chiave, che poi fece Stefania Sandrelli. Le mie commedie sexy erano allegre e con trame esili. Io facevo sempre la stessa parte». 

Quella delle bellona sotto la doccia?

«No, quella di solito era Edwige Fenech. Io facevo il bagno nella vasca e avevo sempre qualcuno che mi spiava dal buco della serratura.

Coinvolgimento zero, incassi miliardari». 

Per questo nel 1969 lasciò l'America?

«No. Accettai di fare Colpo rovente di Piero Zuffi, che uscì nel 1970, perché a Los Angeles avevo problemi seri con un avvocato potentissimo, più grande di me, che mi voleva a tutti costi. Io lo rifiutai, e lui minacciò di distruggermi la carriera. Mi terrorizzò. Era un avvocato della Paramount, che aveva rapporti con la mafia. Scappai. E così trovai l'America in Italia». 

In quella vera, però, fino ad allora fece una vita pazzesca.

«Ero giovane». 

A Los Angeles viveva con un ghepardo in giardino?

«Sì. A metà degli Anni 60 ero fidanzata con l'attore Gardner McKay, bellissimo protagonista della serie Avventure in paradiso. Vivevamo insieme in una villa. Lui aveva un leone in gabbia, io una gheparda di nome Kenya. Dopo sei mesi, però, ci lasciammo. Lui mi tradiva». 

A una festa ammanettò Warren Beatty e se lo portò via.

«È vero. Sbucarono all'improvviso, non so come, le presi al volo e gliele misi ai polsi. "Adesso sei mio", gli dissi. Lui era uno spettacolo. Durò pochi giorni, però. Era un donnaiolo accanitissimo. Andò meglio con Steve McQueen. Prendemmo una casa a Malibu: all'inizio tutto bene, poi cominciarono a venire per colazione i suoi amici motociclisti. Cucina uova fritte e pancetta oggi, cucina domani... dopo un po' mi stufai e lo mollai. Non poteva durare». 

È vero che sul set litigò con Marlon Brando?

«Neanche sapevo chi fosse, il suo profumo mi dava alla testa e mi lamentai. "Qual è il problema?", disse lui infastidito. "Mi fa star male", risposi. Si allontanò imprecando. Comunque in piccoli ruoli recitai anche con Robert Mitchum, Tony Curtis, Jack Lemmon...». 

Mai molestata?

«In Italia, mai. Solo una volta il produttore Carlo Ponti ci provò in maniera maldestra, ma lo gelai. Era il 1966, io vivevo negli Usa, e andai a Cannes per il Festival. Lui mi invitò nella sua villa di Cap Ferrat, dove andai tranquilla: pensavo di trovare Sophia Loren, sua moglie, che era presidente di giuria. Invece solo io e lui. "Com'è il suo corpo?", mi disse buttandola lì. E io: "Magnifico, grazie. Arrivederci"». 

E in America?

«Dell'avvocato le ho detto. Fu molto sgradevole Jerry Lewis. Andai da lui per un incontro. Mi disse di sdraiarmi sul divano e di prepararmi. Io risposi: "Non ho capito, che cosa devo fare?". E lui: "No, hai capito bene". Me ne andai di corsa».

Perché in Italia si ritirò a 39 anni?

«Ero stata un sex symbol per anni, meglio lasciare in tempo. Così mi sono messa a fare ginnastica e ad aprire palestre. Un successo pazzesco». Berlusconi nel 1982 le fece fare su Italia 1 il programma "Beauty Center Show": come andò? «Bene. Dopo la prima puntata mi disse che avrei dovuto far vedere di più le tette, io gli dissi che già c'erano quelle delle altre e finì lì. Mai avuto problemi». 

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Estratto dell’articolo di Simonetta Sciandivasci per La Stampa il 23 aprile 2023.

A nessuno è ancora venuto in mente di dare a Barbara Bouchet un ruolo da cattiva. Lei non aspetta altro. Ha alle spalle 120 film e quasi le sembrano pochi. Intanto, lavora. E sogna: «Mi chiedo perché in Italia non ci sia una serie come Grace and Frankie. A nessuno viene in mente di raccontare quanto si divertono le amiche di una certa età» dice. Ha già il concept e le attrici protagoniste: lei e Corinne Clery, la sua «amica del cinema». Le manca il produttore, lancia un appello: «Sono disposta anche a scrivere tutto io».

(...)

Vive a Roma, circondata dalle amiche, e i suoi figli li vede molto poco, specie Alessandro Borghese, che vive a Milano ed è «sempre occupato con i suoi ristoranti». Lei odia cucinare, mangia poco, una volta ha detto che in frigo ci tiene i vestiti. Compirà 79 anni a Ferragosto e dal 27 aprile sarà al cinema con un film che parla di sesso, Next, regia di Giulietta Revel (nel cast ci sono anche Alessandro Haber, Deborah Caprioglio e Corinne Clery).

Credevo si fosse stufata del sesso.

«E perché. Fa bene ed è bello».

Non lo fa più nessuno.

«Forse i ragazzi preferiscono TikTok».

Forse è stato sopravvalutato.

«Io dico che se incontri qualcuno con cui c’è chimica, non c’è niente di più bello. Chimica e gentilezza: perché privarsene?».

(...)

Neanche di Monica Vitti?

«Abbiamo lavorato insieme sul set di Anatra all’Arancia di Salce. Lei non mi voleva perché ero bionda: voleva essere l’unica bionda. E allora io mi presentai al provino con una parrucca nera e andò tutto bene. Mi è sempre piaciuto cambiare il mio aspetto. Quei capelli neri mi aiutarono a uscire fuori me ed entrare meglio nel personaggio». 

Una volta ha detto che ci sono pochi ruoli per donne della sua età.

«Ed è vero. Io ho dovuto faticare pure per avere quelli, perché nell’immaginario di tutti ero rimasta l’icona sexy. Qualche anno fa, mi proposero di fare la nonna in una commedia deliziosa, Metti la nonna in freezer. Facevo la salma per quasi tutto il tempo. Sono grata ai registi, Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana, perché grazie a quel film sono stata sdoganata ».

(...)

Stronza?

«Mai. Non è da me. Aspetti, chiedo alla mia amica Elvira che è qui con me. Conferma: no. In Next faccio la mamma pazza e mi piace tantissimo».

Lei è circondata da amiche.

«E certo. Ne ho un gruppo a Roma, ma non sono tutte romane: è un gruppo internazionale! E uno a Milano. E molte altre sparse in tutto il mondo. Mi viziano. Elvira mi prepara sempre la pasta al pomodoro». 

(...)

Che ne pensa degli Intimacy coordinator, i supervisori delle scene di sesso sul set?

«Penso che sul set si è circondati da trenta persone ed è un po’ difficile venire forzati a fare qualcosa che non si vuole fare. Io, almeno, ho sempre fatto solo quello che volevo. E poi non mi piace l’idea che un terzo soggetto mi dica come devo recitare: c’è il regista, voglio ascoltare lui».

Non tutte le attrici sono assertive e sicure come lei.

«Ho imparato a cavarmela da sola».

Non tutte riescono a tenere a bada i molestatori.

«E chi le dice che io lo abbia fatto? Sono stata molestata anche io. È passato molto tempo, l’ho superata. Cosa avrei dovuto fare, parlarne trent’anni dopo?» .

Serve a fare in modo che non accada più.

«Non ci credo, mi dispiace. Accadrà sempre».

Lei è femminista?

«Certo».

Che significa?

«Che sto dalla parte delle donne». 

Le piace Giorgia Meloni?

«Per adesso, sì. E mi godo che ci sia, finalmente, una donna a guidare il Paese.

So che sostiene con convinzione le battaglie Lgbtqia+.

«E sa perché? Perché a me interessano le persone, del genere mi importa poco».

Lei è di destra o di sinistra?

«Centrale!». 

(...)

Chi l’ha corteggiata di più?

«Mio marito. E non ho mai permesso ad altri di avvicinarsi».

Un uomo che l’ha commossa?

«Il mio più grande ammiratore. Si chiama Giacomo, vive in Germania ed è siciliano. Un volta mi si è presentato con una valigia piena di mie foto, locandine, video da firmare. In spiaggia, al mare. Era insieme a sua moglie».

E?

«Gli lascerò, quando sarà il momento, tutti i miei premi».

Come fa a essere sempre così allegra?

«Sono bravissima a rimuovere i brutti ricordi e le cose che mi fanno male e non mi piacciono. Caccio tutto via».

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” il 12 luglio 2023.  

Le mani giunte, il vestito di pizzo nero, l’aria teatrale da prefica salentina, quel profetico posto a sedere tra i banchi della chiesa, accanto a Myrta Merlino: il funerale di Silvio Berlusconi verrà ricordato come il metaforico funerale professionale di Barbara D’Urso. Era difficile sbagliarle tutte, in quei giorni di lutto, ma lei è riuscita nell’impresa.

Un’intervista a La Stampa in cui […] ha ricordato come Berlusconi ci avesse provato con lei, un’intervista fuori dalla chiesa in cui ha ricordato come Berlusconi la chiamasse al telefono sottolineando che era la […] più brava di tutte e poi […] la foto che ha scatenato comunicati e minacce legali: Barbara D’Urso che al compleanno della giornalista Annalia Venezia posa assieme a una ventina di invitati, tra cui il suo amico scrittore Jonathan Bazzi. Tutti, divertiti, scimmiottano la posa a mani giunte al funerale di Berlusconi.

Non proprio una dimostrazione di eleganza tanto più che, come prevedibile, alcuni invitati fanno girare quella foto nelle chat e nelle storie di Instagram, finché la foto non finisce su Dagospia ripresa da Davide Maggio e altre testate. Proprio Dagospia lascia intendere che ai piani alti di Mediaset, nel decidere l’esclusione dai nuovi palinsesti, quella foto di dubbio gusto abbia avuto un peso. 

Apriti cielo. Barbara D’Urso rilascia un comunicato in cui annuncia che lo scatto era privato, non è stata liquidata da Mediaset per questo e denuncerà i giornalisti che lo hanno pubblicato. Ora, a parte che lo scatto era così privato che ritraeva un personaggio pubblico per strada con 20 persone intente a mimare la sua posa al funerale di una delle figure italiane più note al mondo, la vera questione è: non è forse arrivato il momento per Barbara D’Urso di farsi due domande? 

Di chiedersi come mai, nel giro di una manciata di anni, è passata dal condurre addirittura quattro programmi contemporaneamente in Mediaset a essere accompagnata alla porta come uno dei tanti esclusi dai suoi reality?

Perché i motivi sono abbastanza chiari a tutti tranne che a lei, probabilmente, e il fatto che nessun nome di peso la stia difendendo dovrebbe suggerirle qualche indizio. Barbara D’Urso, allontanata in maniera senz’altro sbrigativa dalla sua azienda, si ritrova per la prima volta sola, a fare i conti con quello che ha seminato in questi anni. 

L’ultimo a essersi speso per lei forse è stato Nicola Zingaretti, e questo forse spiega la parabola di entrambi. E quando parlo di semina e raccolta parlo di quel terreno sterminato in cui ha seminato cattivi rapporti con quasi tutte le sue colleghe conduttrici, per esempio.  Salvo poi negare sempre qualsiasi screzio in interviste mielose in cui augurava pace, bene e tanta luce a tutti.

E poi anni di comunicati stampa Mediaset in cui si cercava di far passare per successi anche i suoi tonfi, anni di suoi post in cui parlava di picchi d’ascolti e si vantava di battere la concorrenza, concorrenza che alla fine ha (dalle torto) salutato il suo cadavere dalla riva del fiume. 

Anni di programmi che non erano solo trash, erano spietati. Perché quando Barbara D’Urso dice, in questi giorni, che il trash in Mediaset non lo fa solo lei, ha anche ragione. Quello che le sfugge però è la differenza tra il trash variopinto, popolato da personaggi naïf, rumorosi, sopra le righe e sotto la terza media e quello cattivo, che affonda le radici nelle disgrazie personali, nelle faide familiari, nelle liti per eredità, separazioni, corna, malattie, violenza.

La spietatezza di Barbara D’Urso, in questi anni di sua televisione feroce, in cui valeva tutto, dall’invitare un Francesco Nuti mostrato con cinismo impietoso quando la malattia lo aveva già divorato allo sguazzare nella squallida vicenda Moric-Corona e il sofferente figlio Carlos, fino alle preghiere in diretta con Salvini. 

Ed è impossibile dimenticare quando […] invitò l’ex fidanzato violento di Barbara De Rossi e di altre donne, che si difendeva dalle accuse di stalking dando delle pazze e delle bugiarde alle ex (con la D’Urso in modalità “mi dissocio”), quando invitava i dottor Lemme della situazione per ridurre i problemi di peso a gag in cui volavano insulti e bodyshaming, ma anche gli insulti di Sgarbi a Luxuria a Live - Non è la D’Urso (Facevi la prostituta, hai il cazzo o no?) e un’infinità di altri momenti non solo squallidi ma, come dicevo prima, cattivi. Spietati.

[…] Lei, quella che invoca la privacy per una foto a un compleanno, ha sguazzato per anni nella vita degli altri. Questa, per quel che conta, è la mia esperienza personale: circa 12 anni fa sono andata da lei ospite per l’ultima volta. Vivevo un momento personale molto difficile per la mia separazione. Lei sapeva tutto, perché qualche volta ci eravamo viste anche fuori dal programma.

Le spiegai fin da subito che non avrei mai parlato in tv di mio figlio e della mia separazione. Poi accadde che un suo programma concorrente iniziò a rovistare nella mia vita privata, a dare informazioni false su mio figlio che era piccolissimo. All’ennesima puntata in cui si parlò di me in mia assenza nonostante le diffide, telefonai in diretta per chiedere che si smettesse di parlare in tv di mio figlio minore. Il giorno dopo ero ospite di Barbara D’Urso su altri temi. Prima dell’inizio del programma lei si fece trovare in corridoio e mi chiamò con aria di rimprovero “Ehi tu!”. 

[…] mi rimproverò duramente perché ero intervenuta nel programma concorrente e minacciò di invitare da lei la mia controparte. Le spiegai che stava parlando della mia vita, non di show. Non andai mai più ospite nei suoi programmi. Negli anni l’ho osservata  […] camuffare il suo cinismo con la finta melassa dei “col cuore” e “le mie spettatrici che stirano”, scomodare i figli ogni volta che doveva difendersi da accuse di ogni tipo, filtrare in maniera ridicola ogni sua foto per sembrare sempre più giovane e allontanarsi sempre di più dalla realtà.

La realtà di una professionista di rara bravura che stava diventando sempre più sola, più feroce, più presuntuosa, convinta com’era che per l’azienda fosse insostituibile. E che il lavoro contasse più delle persone. E invece, quella che l’ha sostituita era accanto a lei, al funerale di Silvio Berlusconi. Composta, senza mani giunte. Non so se col cuore, ma sicuramente con più lungimiranza.

Libero Quotidiano il 06 luglio 2023. È stata definita “trash” e “trash”, ossia “volgare”, è stato chiamato anche il suo modo di fare televisione. Eppure Barbara D’Urso è una stacanovista infaticabile che è in grado di portare a casa il risultato perché la sua tv, per quanto faccia storcere il naso a chi cerca di darsi un tono nonché agli invidiosi, sempre troppi quando si è bravi, funziona, piace, intrattiene, diverte, ma altresì informa, racconta la società, il costume, la cronaca, la vita degli ultimi, i quali vengono spesso dimenticati persino dai giornali, impegnati a rincorrere il politico di turno e più concentrati su sterili polemiche di tipo ideologico. In questa maniera Barbara, con il suo programma pomeridiano e non soltanto quello, è stata spesso utile alla gente a cui ha dato voce, che per questo la ama. Il suo pubblico è suo personale, non è semplicemente il pubblico di Mediaset. Ecco perché difficilmente il Biscione riuscirà a rimpiazzarla, almeno non nei cuori di quelli che da quindici anni la seguivano più o meno quotidianamente. 

Barbara ha instaurato una vera e propria relazione d’amore con gli italiani, che soffriranno tale perdita. Come ringraziamento per la dedizione, la costanza, l’impegno, Mediaset le dà un calcio sul posteriore e se ne libera in tutta fretta, addirittura prima della scadenza naturale del contratto, che sarebbe a dicembre. È dunque questo il nuovo corso che si accinge ad inaugurare l’azienda fondata da Silvio Berlusconi a pochi giorni dalla scomparsa di quest’ultimo? A mio avviso, è una pessima scelta dal momento che riservare codesto trattamento a qualsiasi lavoratore abbia servito con passione qualsiasi tipo di azienda non produce mai buoni frutti. Si configura, infatti, una ingiustizia che determina una ferita in chi la subisce, una spaccatura interiore, una mortificazione. Meglio sarebbe, se proprio un rapporto professionale deve interrompersi, farlo civilmente, con rispetto, sensibilità, gratitudine per il cammino percorso insieme. Del resto, pure i matrimoni finiscono. Ci si separa. Ci si lascia. Si prendono strade diverse. Tuttavia, quanto più la rottura è brusca, apparentemente immotivata, gelida, tanto più diventa dolorosa per colui che la patisce e - è inevitabile - maturerà un desiderio umano di rivalsa. 

Personalmente mi colpisce che ci sia questa volontà da parte di Mediaset come di ripulirsi, di ricostruirsi una reputazione, ora che il Cavaliere non c’è più, di fare una tv pettinata, composta, abbottonata, probabilmente già vista, noiosa, forse più simile alla Rai, magari una pessima copia, o caricatura, della tv pubblica. E mi colpisce ancora di più che per centrare questo obiettivo sia stato ritenuto necessario licenziare, anzi scaricare, una come Barbara D’Urso, la regina della tv popolare, da lustri al suo posto, una che non lascia gli studi neppure in caso di cataclisma. 

LA FINE DEL “POPOLARE”

E “popolare” - si badi bene non è una parolaccia, un insulto, un marchio di infamia. “Popolare” era quel giornalismo che funzionava e che oggi è defunto, almeno da quando “popolo”, “popolare” e tutti i termini contenenti tale radice o etimo sono diventati parole vergognose, insomma, da quando il popolo ci fa schifo. La nostra insofferenza verso ciò che etichettiamo come “trash” denuncia e testimonia nient’altro che una sorta di grave complesso di inferiorità, una insicurezza, un bisogno di apparire per quello che non si è, di aderire a quel club di progressisti che in pubblico affermano di non seguire programmi come quelli condotti da Barbara D’Urso allo scopo di risultare chic. Mi auguro che Canale 5 non si trasformi in Raitre, che non si spersonalizzi, che non si rivoluzioni tanto da divenire qualcosa che i telespettatori non riconoscono più, telespettatori già in gran parte delusi in quanto a settembre non rivedranno più sul piccolo schermo la loro Barbarella, pronta ad entrare nelle loro case per bere insieme il famoso “caffeuccio”. Ella può piacere o non piacere, può stare simpatica o antipatica, ma quello che conta sono i numeri, in questo caso gli ascolti. È di questi che dovrebbe tenere conto un’azienda. 

Chissà come e chissà perché Mediaset si è improvvisamente accorta- dopo la bellezza di quasi due decenni di dirette pomeridiane e serali che Barbara è “trash”, ovvero “grottesca”, quindi non adeguata alla linea che si intende imprimere. Noto che D’Urso si è impegnata, soprattutto a partire dalla scorsa stagione, ad abbattere questo pregiudizio di cui è stata vittima, ovvero la diceria che i suoi sarebbero programmi spazzatura, ricchi di cafonerie. Invece avrebbe dovuto essere orgogliosa del suo stile, del suo metodo collaudato, della sua tv. Francamente sono stanco della diffusa tendenza a criminalizzare e disprezzare tutto ciò che piace alla gente, ossia che risulta popolare, dal politico al presentatore. Dal mio punto di vista, quello che incontra il gusto degli italiani non è da scartare ma da valorizzare. Il nostro compito non è quello di educare, o moralizzare, o nobilitare. Forse sarebbe opportuno scendere da quel piedistallo sul quale ci siamo messi da soli. E dal quale primo o poi crolleremo. Anzi siamo già crollati. Il problema non è la tv popolare di Barbara che sa interpretare alla perfezione gli umori della gente, ma quella dello spettacolo, basti pensare a Ballando con le stelle e a quella di certi talk show sostitutivi della morfina. O a quella di Report versione moderna della lapidazione amata e sponsorizzata dalla sinistra. Perfino i telegiornali sono noiosi come il rosario e incapaci di rappresentare la realtà del Paese. Però ce la prendiamo con la D’Urso, tardivo capro espiatorio. Una donna di successo accusata di volgarità dopo dieci anni che conduce un programma tra gli applausi. Intendiamoci io non l’ho mai amata perché ogni volta che mi ha invitato al suo programma mi ha irritato dando spago ai miei avversari, tipo la Argento, quella che limonava col cane. Per cui questa mia non è una difesa d’ufficio, ma è il disegno della realtà.  

Estratto dell'articolo di Andrea Malaguti per “la Stampa” Dagospia il 13 giugno 2023. 

Barbara D'Urso, chi era per lei Silvio Berlusconi?

«Una mente geniale, che ha avuto il coraggio di creare la prima tv privata in Italia e l'ardire di dare un'opportunità anche a me». 

TeleMilano58, anni Settanta, lei era poco più che maggiorenne.

«Eravamo io, Massimo Boldi, Teo Teocoli, Diego Abatantuono, Claudio Lippi e Patricia Pilcher. Un'avventura meravigliosa. A Milano 2, sotto l'Hotel Jolly. Berlusconi veniva tutte le sere. Voleva sapere che cosa stavamo facendo e che cosa avremmo detto. Aveva un'energia incredibile. E la trasmetteva a tutti. Eravamo orgogliosi di far parte di quel progetto». 

Era un ambiente sessista?

«No. Sono passati 45 anni, ma ricordo ancora perfettamente l'entusiasmo spettacolare di quei giorni».

Qual era il suo ruolo?

«Eravamo agli inizi di una tv sperimentale. Partecipavo a una trasmissione con Claudio Lippi, ero nel cast di Goal e facevo anche l'annunciatrice». 

Pagava bene, Berlusconi?

«Sinceramente non lo so più. Certamente non era quello il punto. Nessuno di noi lavorava per il denaro. Eravamo dentro a un'avventura che avrebbe portato alla nascita di Mediaset». 

Torna a casa in tutta fretta, c'è il Biscione che ti aspetta.

«Era il nostro slogan. Silvio lo aveva fatto stampare sul pullman che usava come ufficio e col quale andava sempre in giro. Noi non lo sapevamo, ma Silvio aveva visto il futuro».

Lei però tradì per andare in Rai. 

«Nessun tradimento. In Rai c'ero già stata per partecipare a Concertazione, una trasmissione in bianco e nero super cool di Enzo Trapani. Quando Baudo mi chiamò decisi di fare un'altra esperienza. È durata fino a quando Piersilvio mi ha riportato a Milano. Sono 23 anni che lavoro in esclusiva per Mediaset». 

Che cosa le ha insegnato Berlusconi?

«La dedizione assoluta per il lavoro. L'attenzione per i dettagli. Io sono una maniaca del controllo. Proprio come lo era Silvio. Innamorato pazzo del suo lavoro, da sempre e per sempre. Anche negli ultimi mesi gli capitava di chiamare se durante un programma in prima serata vedeva qualcuno che gli sembrava vestito in maniera poco adatta». 

La voce del padrone?

«Ma si figuri. La voce della passione. Era una persona gentile. Quando arrivava in studio stringeva ogni mano. Conosceva chiunque personalmente, dai cameramen ai conduttori, dagli elettricisti ai cantanti. Era disponibile con tutti allo stesso modo». 

In studio da lei, nel 2013, annunciò la sua nuova candidatura alla presidenza del Consiglio.

«Lo fece prima di andare da Santoro. Ricorda la famosa sera in cui pulì la sedia con un fazzoletto a Servizio Pubblico?».

Chi non lo ricorda.

«Comunque, da me, nel corso di quell'intervista politica annunciò anche il fidanzamento con Francesca Pascale. Esattamente come ha fatto pochi mesi fa, l'ultima volta che è venuto in studio, quando ha raccontato la forza del suo legame con Marta Fascina». 

Si sono sposati davvero?

«Non lo so. Ma so quanto Marta, donna stupenda, fosse importante per lui».

L'attenzione del Cavaliere per le donne è piuttosto nota.

«Io parlo del mio percepito.

Quello che pensano gli altri non mi interessa».

Berlusconi ha raccontato di averla corteggiata molto.

«Anche questo lo ha fatto in diretta da me. Ne parlo solo per questo. Aggiunse anche che io avevo rifiutato». 

Perché non accettò?

«Non capisco perché avrei dovuto dire di sì». 

Scusi, domanda stupida.

«Con Berlusconi ho avuto un rapporto professionale, limpido, pulito e di grande affetto. Qualunque altro tipo di coinvolgimento avrebbe cambiato le cose». 

Cosa fece per cercare di conquistarla?

«Sono passati mille anni. Manco mi ricordo».

Era vanitoso?

«Beh sì, come tutti gli uomini. È noto che amava l'eleganza. Ma la vanità è diversa dal narcisismo. Difetto che certamente non aveva. Bastava vedere come parlava di figli e nipoti». 

Lei che rapporti ha con la famiglia?

«Ottimo. Con Marina e Piersilvio ci vogliamo bene. E il lavoro non c'entra nulla».

Che cosa cambia, adesso, per Mediaset?

 «Non lo so. Non ne ho proprio idea. Non me la sono chiesta. La notizia della morte di Silvio è stata violenta e improvvisa. Sapevo ovviamente del ricovero, ma non potevo immaginare quello che è successo». 

Si è chiusa un'era. «Si è chiusa un'era e siamo tutti molto tristi. Per me è venuto a mancare un punto di riferimento fondamentale».

(...)

Barbara D’Urso: «Esco con Briatore, avevo un pregiudizio, invece ho scoperto un uomo interessante, un ottimo padre». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 06 Febbraio 2023.

La conduttrice: le mie albe con il personal trainer e le lezioni agli studenti su nutrizione e salute

Barbara D’Urso è appena uscita dagli studi Mediaset di Milano, ma avrei potuto incontrarla anche nel Metaverso. Anzi, nel suo nuovo Metadurso, magari vestita da regina Maria Antonietta o, a scelta, in stile Liza Minelli. Invece, sono le otto di sera e Carmelita – come pure si fa chiamare – è in carne e ossa, a casa, che ripete le battute da tassista in vista del suo ritorno a teatro.

L’ultima volta che l’avevo intervistata, un anno e mezzo fa, passava da tre programmi a uno, lasciava i due della domenica e teneva Pomeriggio 5. Le avevo chiesto che ne avrebbe fatto del tempo libero e aveva risposto che, finalmente, sarebbe partita per il weekend. Ora, i weekend, li passerà in teatro. A riprova che, fra chi la ama da impazzire e chi la critica al punto da preconizzarne di continuo il tramonto, lei, più che arrendersi, rilancia.

La prima di Taxi a due piazze è al Nazionale di Milano il 14 febbraio, poi, in giro sino al 19 aprile, tappe a Bari, Bologna, Verona… Ray Cooney ha riscritto la commedia al femminile e Barbara sarà la prima, in Europa, a portarla in scena. L’ultima volta sul palco era stata quindici anni fa, col Letto Ovale, accanto a Maurizio Micheli. Prima ancora, c’era stato il successo al Sistina del remake del musical Mrs Doubtfire, diretta da Pietro Garinei e con Enrico Montesano.

Ha un programma quotidiano e 65 anni, perché accollarsi una tournée teatrale?

«Semplice: perché sono una pazza. E perché ho liberi il sabato e la domenica, oltre che le sere per provare. A dire il vero, la sera esco sempre a cena o vado in balera. Da Natale, però, non esco: la mattina, fino alle 13,30 provo con il cast, poi entro nel loop della diretta, dell’informazione e, dopo, vado a casa e recupero, da sola, le prove che mi sono persa nel pomeriggio. Mi muove la passione: quella di stupire gli altri e me stessa. Ogni giorno, io mi devo sfidare».

Qual è, adesso, nello specifico, la sfida più grande?

«Intanto, la voce: il teatro Nazionale ha 1.450 posti e devo lanciarla sino in fondo alla sala, l’impostazione del diaframma è diversa rispetto a quando reciti nelle fiction o fai televisione. Poi, perché vado avanti e indietro sul palco, perdo un chilo a sera. La regista Chiara Noschese mi ha detto: hai scelto la commedia più difficile che si poteva trovare. È difficile anche perché è tutta basata sugli equivoci: le battute sono un ping pong rapidissimo e, se sbaglio una solo parola, non do agli altri la possibilità di rispondere a tono».

Farà la parte che fu di Johnny Dorelli nel 1984.

«Un genio, io non valgo il suo mignolo del piede. Tra le tante proposte, ho scelto questa anche perché, ora, il tassista bigamo che si divide tra due mogli in due appartamenti di Roma, è una tassista con due mariti: sono avanti anche in questo. Mi sto divertendo tanto, ho accanto a me Rosalia Porcaro, una comica pazzesca, i due mariti sono Franco Oppini, che Chiara ha trasformato in un hippy zen con attacchi d’ansia, e Giampaolo Gambi, anche lui attore straordinario, che invece è un marito molto sessuale, molto erotico».

Già che avevo tempo, si è presa anche la direzione artistica.

«Ci tenevo a scegliere gli attori con Chiara e sono felice di questo gruppo. A volte, durante le prove, dobbiamo fermarci perché stiamo morendo dal ridere».

Qual è la differenza tra un bigamo e una bigama?

«Negli anni ’80, la bigama non sarebbe stata credibile, oggi sì. Ma la pièce è ambientata comunque in quegli anni e i cambiamenti di costume li abbiamo avvertiti anche in altri passaggi: per esempio, quando mi fingo omosessuale ne scaturiscono gag sulle quali, oggi, è più difficile sorridere. Alla fine, vorremmo far passare il messaggio che ognuno può amare chi vuole e fare quello che vuole. Sempre che non faccia male a nessuno e qui le due mogli, come ieri i due mariti, in fondo, sono felici».

Lei si è mai trovata in stato di «bigamia», ovvero con lui che aveva un’altra o lei che aveva due uomini?

«Io non pratico quel tipo di amore, anche se non giudico chi lo fa. Poi, se scoprissi di essere tradita da un uomo, gli taglierei tutti i vestiti. Quando è successo, però, l’ho saputo dai giornali e non ci siamo più rivisti, se non in tribunale».

Adesso, sta uscendo con Flavio Briatore, come scrivono i settimanali rosa?

«Siamo usciti un po’ di volte con altri amici».

Da soli mai?

«Non me lo ricordo».

Se la mette così, mi sta dicendo che ha davvero una storia con Briatore.

«L’ho conosciuto. Avevo un pregiudizio, non credevo mi stesse simpatico. Invece, ho scoperto un uomo interessante, un ottimo padre, che segue tantissimo Nathan. Ma sto dicendo questo, non altro».

Siete entrambi o molto amati o addirittura odiati. Sareste la coppia dell’anno.

«Io ho detrattori a prescindere che detraggono anche se dico che c’è il sole; ho detrattori che detraggono perché gli sto antipatica ed è giusto così; e ho detrattori che detraggono inutilmente e che, quando l’anno scorso è uscita la notizia del teatro, hanno scritto “cacciata a calci da Mediaset” e, invece, come vedete, sono a Mediaset».

Le mancano le interviste domenicali ai politici?

«Le ho rifatte il pomeriggio prima delle ultime elezioni ed è stato piacevole. In realtà, stiamo pensando di riservare uno spazio alla politica anche a Pomeriggio 5».

Ha paura del debutto?

«Muoio dalla paura».

La notte dorme?

«Nooo. Prendo delle goccine naturali, mi addormento, poi alle due mi sveglio, ripeto le battute. Mi riaddormento. Mi risveglio alle quattro, ripasso i movimenti di scena: sul palco, c’è un divano che fa parte di due case; mentre stai seduto sul cuscino di destra, succede altro sul cuscino di sinistra e devi far finta che non succede… Poi, alle sei e mezzo mi alzo, faccio ginnastica e mi riprendo».

Pure ginnastica?

«Mezz’ora o 45 minuti col personal trainer. Non lo scriva che Chiara non vuole: con quello che faccio sul palco, dice che poi mi stanco e dimagrisco troppo. Ma io, per evitare di dimagrire, sto mangiando tantissimo. Sono anche stata a fare una lezione allo Iulm su nutrizione e salute: due ore davanti a 400 studenti».

Per dire che cosa?

«Che bisogna mangiare pulito. Ingrassi non perché mangi tanto, ma perché non mangi sano. Io stasera mi faccio una pasta integrale con zucchine, olio crudo e parmigiano. La matriciana è la trasgressione da concedersi ogni tanto».

Perché il teatro è importante per lei?

«Perché capisci subito se hai sbagliato, senti se la gente ride quando deve ridere. È emozionante. Senti anche la gente che respira».

Estratto dell’articolo di Simona Siri per “la Stampa” venerdì 10 novembre 2023.

Prevista per il 2017, poi slittata al 2019 e oggi finalmente nelle librerie, My Name Is Barbra, la monumentale biografia di Barbra Streisand è un misto di tante cose – orgoglio Jewish, pettegolezzo Hollywoodiano, politica, mariti, riconoscimenti e sì, anche cani clonati – ma è soprattutto la prova che la ragazza ebrea senza padre nata e cresciuta a Brooklyn sarebbe potuta diventare qualsiasi cosa, tranne che una diva. Se lo è diventata, è perché lo ha voluto. Tutto parte dalle unghie: quando Streisand è un'attrice alle prime armi, la madre le suggerisce di prendere lezioni di dattilografia per diventare segretaria nel sistema scolastico di New York.

In segno di rifiuto, invece di tagliarsele per poter battere a macchina, se le fa crescere, lunghissime. Il resto è storia […]  «Ho avuto una visione», scrive a un certo punto «e a volte penso di averla voluta così tanto da averla fatta diventare realtà». Non importa di cosa stia parlando.

Forse di quando convince Robert Redford ad accettare il ruolo di Hubbell in Come Eravamo, dopo che lui l'ha rifiutato tre volte, convinto che la parte sia troppo superficiale, una specie di toy boy. «Volevo che Robert fosse felice, quindi ho detto a Sydney (Pollack, il regista, ndr): "Dagli tutto ciò che vuole. Scrivi più scene per rafforzare il suo personaggio. Rendiamo i due ruoli equi"». Il risultato lo sappiamo.

Oppure quando racconta della storia d'amore – breve, ma paparazzatissima – con Pierre Trudeau, ex primo ministro del Canada e padre dell'attuale, Justin. Il primo incontro avviene nel 1968 alla premiere di Funny Girl. Lei però lo conosce già, perché mesi prima ha letto un articolo su di lui. «All'epoca avevo persino detto a un amico: "Questo è il tipo di uomo con cui mi piacerebbe uscire"».

[…] L'identità ebraica è il vero filo conduttore in My Name Is Barbra: la aiuta a trovare un terreno comune con un candidato politico (Bella Abzug, femminista ebrea americana eletta al Congresso nel 1970, una delle prime a battersi per i diritti dei gay), un marito (Elliot Gould, sposato nel 1963, divorziato nel 1971, padre del suo unico figlio, Jason) e il ruolo di carriera, tanto che di Fanny Brice, protagonista di Funny Girl scrive: «Entrambe avevamo madri ebree la cui unica preoccupazione era che mangiassimo e che trovassimo marito».

«Streisand ha padroneggiato l'arte di essere ebrea. Ha preso la sua ebraicità e l'ha trasformata in una metafora, che è la metafora dell'alterità», ha scritto lo storico del cinema Neal Gabler nel suo libro Barbra Streisand: Redefining Beauty, Femininity, and Power. Il primo incontro con Yentl the Yeshiva Boy dello scrittore americano di origine polacca vincitore del Premio Nobel Isaac Bashevis Singer è nel 1968 quando Streisand legge per la prima volta il libro, rimanendo incantata dalla storia di una giovane donna ebrea nella Polonia del diciannovesimo secolo che finge di essere un uomo per sfuggire al matrimonio e perseguire lo studio della Torah. 

«Dopo aver letto l'incipit "dopo la morte del padre…" non mi sono più fermata. Mi sono identificata con Yentl». Dieci anni dopo incomincia a proporlo agli Studios di Hollywood, ricevendo zero interesse. Per lei Yentl è una storia «su una donna che vuole di più dalla vita che rammendare calzini e pulire casa», ma per i produttori con cui parla Yentl è solo una storia ebrea, troppo ebrea. «Anche se molti di loro erano ebrei, non volevano rivedersi sullo schermo.

A quell'epoca, a Hollywood, raramente i dirigenti ebrei degli Studios sposavano donne ebree: per loro l'importante era assimilarsi. Ancora oggi, in qualche modo, gli ebrei sono sempre "l'altro", il capro espiatorio, incolpati continuamente dei mali del mondo. Quando i dirigenti di Hollywood non sono stati capaci ad andare oltre al tema Jewish di Yentl e a comprendere il tema più generale della equità di genere (…) la loro vera preoccupazione era inespressa, ma potevo intuirla. Non volevano attrarre attenzione sugli ebrei e sul loro mondo. Gli ebrei erano ancora considerati troppo diversi, alieni, soprattutto oggi, come ieri e come sarà sempre. (…)

Sono sempre stata orgogliosa della mia eredità ebraica. Non ho mai tentato di nasconderla quando sono diventata attrice. È essenziale per quello che sono. E volevo realizzare questo film su una donna ebrea intelligente che rappresenta così tante delle qualità che ammiro». Yentl vede finalmente la luce nel 1983, dopo che Streisand acconsente alla cosa che aveva giurato di non voler fare in questo film: cantare. Vende la sua voce per realizzare un progetto a cui tiene. 

Lo produce, lo scrive, lo dirige e lo interpreta. Non è un capolavoro, le critiche ancora oggi sono più negative che positive, e molte hanno a che fare con l'eccessivo perfezionismo di alcune inquadrature. Eppure nel 1984, oltre alle quattro candidature per miglior attrice, miglior attore, migliore colonna sonora originale e migliore canzone originale, Barbra Streisand diventa la prima donna a essere nominata e a vincere un Golden Globe come miglior regista. La seconda, nel 2021, sarà Chloé Zhao per Nomadland. Trentasette anni dopo.

Francesca D’Angelo per “La Stampa” il 13 Gennaio 2023.

La carriera di un attore è fatta di sliding doors: quanti artisti, con il senno del poi, si sono domandati cosa sarebbe successo se avessero fatto quel film, o se avessero malauguratamente rifiutato quel ruolo.

 Scelte, personaggi, rischi: ciascuno prende una decisione e se ne assume la responsabilità Purtroppo però, soprattutto se sei donna, alcuni «what if» non dipendono dalla propria volontà.

Ci sono dei compromessi che non hanno nulla a che vedere con l'arte e che possono aprire delle porte o chiuderle per sempre: scorciatoie da attraversare tutto d'un fiato, tappandosi naso, cuore e occhi, o da evitare come la peste.

 In entrambi i casi il prezzo è molto alto. Ce lo ha spiegato molto bene il #metoo con le sue storie di abusi e ricatti sessuali, ma anche molti aneddoti rilasciati dalle star italiane. Da noi, a differenza che in America, nessuno osa fare nomi ma le storie sono comunque inquietanti sia quando si tratta di veri e propri stupri, come quello di Asia Argento, o di avance respinte in gioventù, come nel caso di Pamela Villoresi o Manuela Arcuri.

A raccogliere dati e testimonianze ci sta provando l'associazione internazionale Amleta. La sfida è rompere il muro di omertà: un obiettivo impegnativo perché l'impressione è che «alla fine non cambi mai nulla», come lamenta l'attrice Beatrice Fazi, famosa per il ruolo della tata Melina in Medico in famiglia e, dal 7 febbraio, al teatro Cometa Off con lo spettacolo Il più bell'addio. Fazi non è stata vittima di abusi ma, di certo, ha vissuto sulla propria pelle una sgradita avance da un potente nome del cinema. Che, guarda caso, da allora non l'ha mai provinata…

 Partiamo dall'inizio. Quanti anni aveva?

«Diciotto. Ero appena arrivata a Roma, sognando di sfondare nel mondo del cinema. Vivevo in un appartamento insieme ad altre ragazze che frequentavano l'Istituto Europeo di Design. Una sera decidiamo di uscire, per scoprire Roma: ci acchittiamo e gironzolando ci imbattiamo in un set sull'Isola Tiberina. Preferisco non dire quale, né fare nomi».

 Arrivata lì, chi trova?

«Una star famosissima! Era po' più grande di noi e noi l'adoravamo! Già all'epoca era molto famoso: oggi è diventato un importante attore, regista e produttore. Tra un ciak e l'altro, con la faccia di tolla che mi ritrovo, sono andata a chiedergli un autografo.

Ci mettiamo quindi a parlare, gli dico del mio sogno di fare l'attrice e lui allora mi chiede il numero di telefono: "Così poi ti faccio chiamare dal responsabile delle comparse: magari da cosa nasce cosa" Io gli lascio il numero fisso di casa. Pochi giorni dopo mi chiama e mi invita per un caffe».

 Accetta?

«Si. Mi viene a prendere in macchina e io già mi immaginavo che mi portasse in un posto frequentato dai suoi amici. Per tutto il tragitto gli racconto della mia famiglia, delle mie aspirazioni... finché non mi rendo conto che ci siamo fermati in un posto squallidissimo, sperduto. A quel punto lui prova a baciarmi. Io lo respingo, imbarazzata. Per fortuna non insiste però mi dice: "Guarda, scendo un attimo perché devo andare al bar a comprare il latte per il bambino". Aveva un figlio piccolo e una moglie a casa! Non sono scappata dalla macchina solo perché non sapevo dove eravamo. Dopodiché mi scarica alla prima metro».

 L'ha mai poi rivisto?

«Ci sono stati dei casting, ai quali ero stata proposta, ma lui non mi ha mai fatto fare manco un provino. Non so se mi abbia rifiutato consapevolmente: voglio credere che non sia così...»

Nessuno in Italia osa fare nomi: perché?

«Chi fa certe cose è gente intoccabile contro cui non c'è partita. Purtroppo viviamo ancora in una società fortemente patriarcale e noi donne ci siamo giocate male le nostre carte: questa è una parità apparente. Il femminismo è stato sradicato: noi non volevamo diventare "come" gli uomini. Alla fine siamo quasi peggio di loro».

 Si può contare almeno sulla solidarietà tra donne?

«Non sempre. Il male non ha un gender. Alcune donne sono complici di questo sistema».

 Il precedente di Brizzi docet?

«È stata una caccia alle streghe, anzi una caccia al capro espiatorio: si è alzato un polverone attorno a uno solo affinché tutto il resto non venisse intaccato. Infatti non è cambiato nulla».

Beatrice Rana: «Scoprii i Måneskin anni fa a Roma. Se fosse stato per l’Italia io non sarei mai diventata una pianista». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023.

La pianista: «Nel nostro Paese c’è una forte inclinazione alla critica di un connazionale e francamente non capisco perché»

Solo trent’anni e già parlano di lei come una delle migliori pianiste.

«Ma non ho solo trent’anni, ho già trent’anni. Siamo abituati a meravigliarci quando qualcuno al di sotto dei quaranta raggiunge successi ragguardevoli, ma dimentichiamo che i trentenni sono adulti. E poi sono una pianista: ci si consuma presto».

È faticoso?

«Le tournée certo, sono sfiancanti. Io faccio una novantina di date all’anno senza contare i festival, le esecuzioni singole o le registrazioni. La settimana scorsa ho scoperto di essere nella top ten dei musicisti più attivi e dunque tra quelli più “in viaggio”. Anche se sto cercando di ridurre, rallentare, passare più tempo a casa».

Nata in provincia di Lecce in una famiglia di pianisti. Lei, dunque, ascoltava le ballate di Chopin come ninna nanna?

«Ma anche Saint-Saëns o la Patetica di Beethoven. Mamma e papà, poi, sono due musicisti complementari: lei insegna teoria e solfeggio, lui lettura della partitura, dunque è spesso in teatro. Io e mia sorella Ludovica, che tra l’altro è una straordinaria violoncellista, siamo cresciute tra prove, retropalco, registrazioni, esecuzioni, costumi. Dunque per me è stato normale, a cinque anni, cominciare a suonare».

Esibizioni con orchestre prestigiose come i Wiener e la Chicago Symphony Orchestra, palcoscenici come la Scala o la Konzerthaus di Vienna, pubblicazioni molto apprezzate come le Variazioni Goldberg di Bach firmate a 24 anni: la carriera di Beatrice Rana è luminosa come il suo sorriso e come la sua schiettezza. In questa conversazione si avvicenderanno Mozart e i Negramaro, Chopin e i Måneskin, a riprova che la musica è sempre musica se è «viva», che sia stata composta secoli fa o la settimana scorsa.

Nella classica non ci sono tanti settanta-ottantenni che fanno ombra ai trentenni?

«Però anche loro sono stati giovani. Certo, quando affronto una tournée che mi sfinisce, tra aeroporti, prove, alberghi, cene saltate, qualche volta mi chiedo come facciano quelli più grandi. E poi, bisogna dirlo, alcuni colleghi hanno una grazia quasi magica che l’età te la scordi».

Se le dico Sokolov?

«Penso all’astrazione. Non sempre sono d’accordo con quello che fa ma non si può non rimanere ammirati di fronte a quel talento».

Che cos’è il talento per un pianista?

«È conoscere alla perfezione la musica e poi ripetere la stessa cosa sperando ogni volta in un risultato diverso. Qualche volta ho la sensazione di fare un lavoro folle, che è composto di prove e prove e prove dello stesso pezzo. Ma so anche che la musica deve entrarti nel corpo per poterne uscire trasformata. Il corpo diventa un’appendice del pianoforte. Ma attenzione a parlare di “allenamento”, è una parola che non amo».

Uto Ughi la sottolinea sempre.

«È giusto, però io cerco sempre di non separare la prova fisica dallo studio intellettuale della musica. Studiare un pezzo, cercare di comprenderlo nelle sue sfumature va di pari passo con l’esercizio quotidiano. Perché di questo si parla: uno studio disciplinato tutti i giorni».

Come si sceglie un pezzo da suonare?

«È la cosa più difficile. I promotori, giustamente, vogliono il programma con un anticipo di due o tre anni, ma io tra qualche anno non sarò la stessa Beatrice. Magari vorrò cose diverse, avrò cambiato opinione su più temi e allora magari sentirò più affine un altro pezzo o un altro compositore. La musica non è fredda esecuzione, ma deve rispecchiare quello che sei in quel preciso momento, altrimenti tutto sa di falso».

Dica la verità: qualche volta l’essere donna è stato difficile nel suo campo?

«No. Però una cosa va detta: purtroppo per noi artiste resta ancora ben salda la valutazione, vecchissima, del “bella e brava”. Cioè, accanto al giudizio sull’esecuzione di un brano affiora sempre anche un giudizio estetico, che raddoppia l’ansia. Lei non sa quante volte, salendo su un palcoscenico prestigioso, capita di sentirsi inadeguati, non per la preparazione bensì per l’abito, il trucco, i capelli. Questa tensione aggiuntiva non esiste per un pianista uomo».

«Bella e brava» nel 2023 non si può sentire.

«Ma infatti. Esempio: qualche tempo fa Yuja Wang ha fatto una cosa pazzesca alla Carnegie Hall, cioè ha eseguito le cinque le opere di Rachmaninov per piano e orchestra. Bene, ma lei lo sa qual è stata la cosa più commentata sia dai critici che sui social? Il suo cambio d’abito».

È vero, in alcune c’è una compiaciuta attenzione all’estetica, ma questo non può far passare in secondo piano l’esecuzione, è così?

«È così. È questo il punto. Inoltre, non tutti sanno che l’esecuzione dal vivo è un continuo e faticoso svuotarsi. Nel concerto, specie se parliamo di un recital, dai tutto. E sei solo davanti a una platea che sceglie di applaudire o fischiare. E vorrei aggiungere una cosa: se fosse stato per l’Italia io non sarei mai diventata una pianista. Perché nel nostro Paese c’è una forte inclinazione alla critica di un connazionale e francamente non capisco perché. Viaggiando molto in tutto il mondo, non ho riscontrato questo atteggiamento in tanti altri Paesi. È un peccato, perché in Italia abbiamo musicisti straordinari».

E non solo di musica classica: ha guardato Sanremo?

«No, ero a Chicago».

Però i Måneskin li conosce.

«Altroché. Senta questa. Sei o sette anni fa io uscivo da una delle sedi dell’Accademia di Santa Cecilia, in via del Corso a Roma. Proprio lì davanti notai questo gruppo che si esibiva per strada. Mi fermai ad ascoltarli e pensai: ma guarda quanto sono bravi questi. Anni dopo li ho rivisti a Sanremo, erano i Måneskin».

In giro si dice che lei ami molto i Negramaro, salentini come lei.

«Eccome. Adoro i Negramaro e qualche giorno fa ho incontrato Andrea Mariano, il tastierista. Gli ho detto: guarda che ho già preso i biglietti per il concerto a Caracalla».

E se le dico Ludovico Einaudi?

«Mi viene in mente il ghiaccio».

Beatrice...

«Ma no, dico il ghiaccio dell’Oceano Artico dove ha suonato qualche tempo fa».

Tutto qui?

«Guardi, farò una confessione: io, ma penso di essere come molti altri miei colleghi, non ascolto molta musica. È la verità: quando passi la vita a suonare dal vivo, a registrare dischi, a provare o a studiare suonando, al di fuori del lavoro non puoi più nemmeno accendere il televisore, devi “ripulire le orecchie”. Oggi c’è troppa produzione, troppa richiesta, troppa scelta con le piattaforme di musica, troppi artisti, troppo tutto».

Alla fine quello che è il motore di tutta una carriera, l’amore per la musica, scivola in secondo piano, è così?

«Io faccio di tutto per preservarlo».

Ma non è che si fanno troppi concerti?

«Ma certo. Ci si sposta rapidamente. Prima per andare in America occorrevano settimane di navigazione, oggi ci si arriva in otto ore. Ci si muove da una parte all’altra e tutto si consuma in una serata, però la musica è altro. La musica è riflessione, studio, attenzione, anche errore, perché no. E c’è un altro paradosso: oggi la qualità tecnica di un concerto e soprattutto di una registrazione deve essere perfetta, altrimenti non passa i test del mercato. C’è una tecnologia raffinatissima che ci permette di avere un suono impensabile nel secolo scorso. E poi che succede? Se in quindici secondi — perché questo è il tempo di un reel sui social — non colpisci, ecco che scattano le critiche, le campagne denigratorie. Tanta maniacale ricerca della perfezione per un giudizio che oggi si formula in pochi attimi».

Basta un tweet per affossare una carriera?

«Sì, o un post su Instagram. O una foto sbagliata che diventa virale».

Se la ricorda la sua prima esibizione alla Carnegie Hall di New York?

«Passai insonne la notte prima».

Lei si emoziona facilmente?

«Mai. Però alla Carnegie mi scappò una lacrima. E vogliamo parlare della Scala di Milano? Nella mia carriera ci sono dei momenti luminosi ai quali ripenso con gioia. Come quando, a diciotto anni, vinsi il concorso pianistico internazionale di Montréal. Il mio maestro al conservatorio, Benedetto Lupo, mi convinse a partecipare e io e mamma partimmo, pensi, con i libri di scuola in valigia: non vincerò mai, pensavo, almeno ripasserò le lezioni per la maturità. Quando annunciarono il mio nome come vincitrice mamma fece cadere la macchina fotografica per l’emozione e dunque di quel momento glorioso non resta traccia. Quindi corremmo a comprare un abito da sera nel negozio accanto all’albergo, figuriamoci se ne avevo portato uno».

Nel gennaio scorso lei ha affiancato il direttore Lahav Shani nell’inaugurazione della nuova stagione della Filarmonica della Scala.

«Ho esordito con la Filarmonica nel 2015 e ogni volta è un’emozione. Vede, negli anni ho incontrato persone straordinarie dalle quali cerco sempre di imparare. Non dimenticherò mai quando, nella mia prima registrazione per Warner, il maestro Pappano mi disse: “Beatrice, con il microfono non devi parlare, lo devi sedurre”. Cambiai del tutto l’ approccio, capii che la musica è un gioco di relazioni con gli strumenti».

Quanto è alto il rischio narcisismo per un pianista?

«Altissimo. Gli applausi lusingano, la popolarità anche. Il punto è che non te ne rendi conto. Quando siamo entrati in lockdown mi sembrava di impazzire: la mia vita era sempre altrove, poi mi sono ritrovata a casa. Ma è servito: ho studiato, ho cercato nuove forme di concerto».

Lei ha sempre detto a sé stessa: mai un fidanzato pianista.

«E invece».

E invece sta con Massimo Spada, suo collega. Come vi siete conosciuti?

«Lui mi girava le pagine degli spartiti».

Galeotto fu il libro.

«E chi lo sfogliò».

"Pensavo solo a suonare bene. E poi è arrivato il successo". La pianista rappresenta (con Pollini) l'Italia nel mondo. "Ma il nostro Paese offre poche possibilità ai concertisti". Piera Anna Franini il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Beatrice Rana è la pianista italiana più autorevole, la sola - assieme a Maurizio Pollini, ma con uno stacco di due generazioni - a rappresentarci nelle sale di punta. Ha compiuto trent'anni domenica venendo alla ribalta che ne aveva 18 con la vittoria del concorso di Montreal dove si portò a casa tutto, medaglia d'oro e premi speciali. Tempo due anni e arrivava l'argento al texano Van Cliburn. Decollo assicurato.

Ieri sera (lunedì 23) ha aperto la stagione dell'Orchestra Filarmonica della Scala diretta da Lahav Shani, il 29 sarà a Roma e il 3 febbraio nel bel mezzo della sua tournée statunitense uscirà un cd con i concerti di Clara Wieck e del marito Robert Schumann, sul podio della Chamber Orchestra of Europe c'è Yannick-Nézet-Séguin, il direttore al Metropolitan di New York.

Clara Wieck è stata la concertista-fenomeno dell'Ottocento, così famosa da fare del consorte il «Signor Wieck», ruoli rovesciati in seguito poiché Schumann è eternato dalle sue composizioni mentre non v'è traccia dell'interpretazione pre-grammofono.

Perché un cd dedicato a Clara Wieck?

«Ho sempre ammirato questa donna, concertista in una fase storica in cui le donne non toccavano il palcoscenico, madre di 8 figli, moglie di un genio. Quando mi è stato chiesto di eseguire il suo Concerto ho accettato subito, scoprendo che è un vibrano notevole, anzi sono sorpresa che non sia in repertorio».

Aumentano le direttrici d'orchestra, le orchestrali, le soliste. Questo cd vuole anche essere un segnale?

«Mi piace l'idea di dare dignità alla musica bella a prescindere da chi l'abbia prodotta. Penso però che questa sia anche un'operazione culturale dovuta, vi sono compositrici che andrebbero suonate, non basta parlarne».

Il cd esce in contemporanea al film «Tar» con Cate Blanchett nei panni di una direttrice d'orchestra che abusa del proprio potere. Le direttrici americane hanno bocciato il film. Lei che dice?

«Premesso che non ho ancora visto il film, non mi piace quando si ricalcano i soliti stereotipi, in questo caso l'equazione podio-strapotere, che io non ho sperimentato ma forse sono stata solo fortunata. Si tratta di cliché che hanno preso sul pubblico. Il film Shine, dove il pianista impazzisce con Rac 3, ha influenzato molto la percezione del pianista, e mi spiace perché noi non siamo così».

Una provocazione dunque?

«Sì, tipico di questi nostri tempi in cui si gareggia a chi provoca di più. Anche le quote rosa in musica sono una provocazione perché non è pensabile giudicare il merito in base al sesso. Preferisco vederle come iperboli usate per rompere gli schemi, gli effetti sono nel lungo termine».

Quanto è faticoso essere un riferimento nazionale per il proprio mestiere?

«Sento il peso della responsabilità verso me stessa nei confronti del pubblico e di chi mi invita. Però sono soddisfatta di come si sta sviluppando la mia attività. Certo, dall'esterno si vede il 10% di tutto ciò che si muove dietro. L'altro 90% di cosa è fatto? Ore di studio, concentrazione, voli cancellati, hotel rumorosi, valigie perse. Cose che accadono ma che il pubblico non sa e non deve sapere perché la sala da concerto rimane un luogo magico, un qualcosa di diverso rispetto alla vita reale».

La fatica delle fatiche?

«Trovare il cibo, il ristorante giusto dove nutrirsi senza fare danni allo stomaco. Io mangio sempre fuori».

È cresciuta in un paesino del Leccese. Giuseppe Gibboni, il violinista vincitore del Paganini, è nato nei dintorni di Eboli. Incarnate la «questione meridionale» al rovescio.

«Il talento fiorisce ovunque ed è una buona base di partenza. Poi entrano in campo tanti altri fattori. Venire dal Sud implica avere minore accesso a tante cose, ai concerti per dire, allo stesso tempo però sono cresciuta in un luogo senza tante distrazioni e questo ha fatto sì che spostassi il focus sul mio mondo, sono sempre stata concentrata su cosa potevo trarre dal pianoforte. I social non imperavano, non c'era la frenesia del voler essere persone di successo. Non me ne è fregato mai niente del successo, io volevo solo suonare bene il pianoforte».

Il suo management ed etichetta discografica sono francesi. L'Italia non offre opportunità ai concertisti di alta gamma?

«Io sono dovuta andare in Canada per farmi conoscere...».

Estratto dell’articolo di Andrea Malaguti per “La Stampa” domenica 6 agosto 2023.

[…] Beatrice Venezi, quando ha deciso di fare il direttore d'orchestra?

«Presto. Come se avessi sentito il richiamo fin da bambina. A 4 anni danzavo. La musica è arrivata poco dopo». 

E la bacchetta?

«A 19 anni. Stavo concludendo gli studi di pianoforte, decisi di frequentare i corsi di direzione d'orchestra di Piero Bellugi». 

Uno bravo?

«Bravissimo. Avrebbe potuto fare una carriera molto superiore. Ma sulla carriera degli artisti incide anche il dato caratteriale». 

[…] Non le disse: non è un lavoro per donne?

«Non nominò mai la differenza di genere. Ero una anomalia, ma mi sentivo perfettamente nella norma […]. […] Nella direzione d'orchestra c'è una componente umana decisiva, perché suoni moltissimi strumenti attraverso la capacità di altri musicisti».

[…] Maestro, che cosa vuole dire essere di destra a 33 anni?

«Vuole sapere se sono fascista?».

Molto più di questo, in verità.

«Può andare a rileggere quello che ho detto e scritto nella mia vita, non troverà niente che si avvicini anche solo vagamente alla prevaricazione sull'altro, all'omofobia o al fascismo». 

Il passato non la riguarda?

«Eccome se mi riguarda. Così come mi riguarda la memoria storica, che però non ha nulla a che vedere con il presente. Oggi essere di destra significa essere conservatori». 

Dio, patria e famiglia?

«Dio, patria e famiglia. Era anche uno slogan della Dc, ricorda? Eppure, tanti fanno finta di indignarsi. In ogni caso sono valori in cui io mi riconosco».

Proviamo a scomporli. Dio. Lei ci crede?

«Sì». 

Prega?

«Per mia formazione. Vado a messa. Sono praticante. Nei secoli il cristianesimo ha prodotto anche tanti guai, ma oggi è una delle religioni più tolleranti e accoglienti». 

Francesco o Ratzinger?

«Di Ratzinger ammiravo la caratura intellettuale, di filosofo, di grande amante delle arti e della musica». 

La Chiesa originaria.

«La Chiesa originaria. Quella in cui anche il rituale musicale era diverso».

E Francesco?

«Sono cattolica, Francesco è il mio Papa». 

[…] Dura riportare i giovani in chiesa suonando l'organo.

«È dura anche usando una chitarrina scordata e un coro stonato». 

Valore numero due: Patria.

«È un concetto di cui dobbiamo tornare ad appropriarci. Significa amore per la nostra terra e le nostre radici, per la nostra tradizione e la nostra cultura. Tutto il mondo ci invidia, noi ci denigriamo». 

[…] Disoccupazione, stipendi bassi, potere d'acquisto in picchiata, giovani in difficoltà. Anche questa è retorica?

«Questi sono problemi oggettivi. Potremmo discutere per ore di quelli del mio settore». 

In sintesi?

«Un contratto nazionale non rinnovato da 20 anni e modelli pensionistici da rivedere: ad esempio professori d'orchestra e artisti del coro dipendenti di enti che si sono generalmente stabilizzati tardi e che quindi contabilizzano pochi contributi. Per non parlare poi dei liberi professionisti (cantanti lirici, solisti o direttori d'orchestra) che di fronte a un lavoro per sua natura discontinuo presentano dei buchi contributivi che spesso non permettono pensioni dignitose».

Parla come una leader di sinistra.

«Parlo come una persona di buonsenso convinta che finalmente ci sia la volontà di sistemare le cose. […]». 

[…] Che effetto le fa una premier che a Catania definisce le tasse "pizzo di Stato"?

«Suppongo volesse dire che le tasse sono troppo alte». 

Ma ha detto pizzo di Stato. Possiamo convenire che è stata una frase a dir poco infelice?

«In ogni caso ha colpito nel segno». 

Sulla patria mi resta una cosa velenosetta da chiederle.

«Prego». 

Lei vive in Svizzera.

«Solo perché il mio fidanzato lavora lì. Diversamente non riusciremmo mai a vederci». 

[…] Maestro, lei finisce spesso in mezzo alle polemiche. Le cerca?

«Ma si figuri. Le trovo. Anche senza fare niente. C'è gente che paga per stare sui giornali continuamente. Io ci vengo trascinata». 

Diciamo che quando capita non porge cristianamente l'altra guancia.

«Parliamo di Nizza? Confesso che ho peccato». 

Si ricorda come ha definito il gruppetto che l'ha contestata accusandola di essere fascista?

«No». 

Quattro sfigati.

«Perché non lo erano? Oltretutto io ho scoperto di essere finita al centro di questa storia dai giornali. Non è bizzarro? Un attacco politico, personale, fatto con dei mezzucci».

La sua risposta è stata l'Inno a Roma di Puccini.

«Nel nostro Paese dovremmo imparare a scindere l'arte e la cultura dalla politica. Perché dovrei astenermi dal dirigere un brano di Puccini non eseguito per decenni perché bollato ingiustamente come produzione di regime?». 

L'Inno a Roma era la colonna sonora dei comizi di Almirante.

«Lo so. E allora? Se facciamo passare il principio che chiunque si appropri di un'opera ne distrugge il valore artistico non facciamo più nulla». 

[…] Crede anche lei, come il ministro Sangiuliano, che Dante sia stato il capostipite della cultura di destra?

«Non possiamo non riconoscere il valore identitario di Dante rispetto alla lingua e alla cultura italiana». 

[…] Lo show di Sgarbi e Morgan al Maxxi lo ha visto?

«No. Ma ho letto». 

Impressione?

«Che devo dire? Ammesso che i resoconti siano veritieri, se fossi stata tra gli spettatori mi sarei sentita in imbarazzo». 

Ci crede al pensiero unico?

«Il pensiero unico dilaga non solo in Italia, ma in tutta Europa».

Il pensiero unico progressista? Davvero?

«Mi piacerebbe dire che è progressista ma non so quanto lo sia nel promuovere certe cose. Penso all'utero in affitto». 

[…] L'offesa peggiore?

«Fascistella. Mi rovesciano addosso presunte colpe di mio padre. Che oltretutto mio padre non ha. Gli devo la maggior parte di quello che so e di quello che sono». 

[…] Un giudizio su Elly Schlein?

«La verità è che non l'ho ancora capita, è difficile da decifrare. Ma quali idee porta avanti?». 

La premier la stima?

«È noto». 

In Spagna avrebbe votato per Vox?

«No, per il Ppe».

L'ala estrema del melonismo la infastidisce?

«In Italia non la vedo. Anzi, mi pare piuttosto conciliante». 

Punti di vista. Aborto sì o no?

«Credo che sia una questione che afferisce alla morale e all'etica personale. Il diritto all'aborto non si può mettere in discussione. Poi ognuno lo gestisce a seconda della sua morale». 

Maestro, giusto mandare armi in Ucraina?

«C'è stata un'aggressione. Chi è aggredito ha diritto di difendersi e di cercare tutti gli aiuti internazionali possibili. Quello che non accetto però è lo squallido tentativo […] di cancellare la cultura russa e di impedire la sua rappresentazione attraverso i suoi artisti». 

[…]. Niente musica pop nella sua vita? «

Figuriamoci, io ascolto tutto. Anche il rock progressive. Sono degli anni Novanta. C'erano i Backstreet Boys e le Spyce Girls». 

 Vasco Rossi o Ultimo, chi preferisce?

«Vasco». 

Muti o Piovani?

«Muti». 

Taylor Swift o Elodie?

«Taylor Swift». 

Esterofila.

 «No, mi sembra che Elodie, con il suo atteggiamento, dia una rappresentazione poco elegante del corpo della donna. Posso dirlo?». 

L'ha detto. Il #MeToo ha ancora senso?

«Le molestie ci sono». 

Lei ne ha mai subite?

«No. Al massimo marpionaggio. Ma ho sempre mandato messaggi chiari. All'ultimo invito a cena che ho ricevuto ho risposto: bella idea, aspetta che chiamo il resto del cast».

Beatrice Venezi dirige l’Inno nazionale al Concerto di Natale in Senato. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Dicembre 2022

"Questo concerto lo possiamo dedicare a tutti coloro che in Italia e nel mondo, penso alle guerre, sono in difficoltà e soffrono. Sia per tutti un Natale di pace, d’amicizia e d’amore", ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa a margine del tradizionale appuntamento.

Il tradizionale concerto di Natale al Senato si è svolto (vedi qui) domenica 18 dicembre con l’esecuzione dell’inno di Mameli. A dirigere l’orchestra Haydn di Trento e Bolzano il maestro Beatrice Venezi, in un elegante abito Kiton, che ha eseguito musiche di Giuseppe Verdi, Giuseppe Martucci, Giacomo Puccini e Pietro Mascagni. In programma anche l'”Omaggio a Mogol” del compositore Salvatore Frega, eseguito per la prima volta.

È stato il primo concerto di Natale da presidente del Senato per Senato Ignazio La Russa che ha fatto il suo ingresso nell’Aula insieme al presidente del Consiglio Giorgia Meloni.  Per loro la standing ovation del pubblico. Dopo l’inno nazionale e l’inno europeo, il Presidente del Senato ha preso la parola per un breve indirizzo di saluto.

Anche quest’anno la tradizione del concerto di Natale al Senato viene rispettata oltretutto col maestro Beatrice Venezi che ci onora della sua presenza e che dirigerà l’orchestra di Bolzano e Trento. Questo concerto lo possiamo dedicare a tutti coloro che in Italia e nel mondo, penso alle guerre, sono in difficoltà e soffrono. Sia per tutti un Natale di pace, d’amicizia e d’amore“, ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa a margine del tradizionale appuntamento.  Come è tradizione, spiega una nota di palazzo Madama, l’intero incasso dei biglietti verrà devoluto in beneficenza.

Lettera di Franco Piersanti a “Il Foglio” il 12 Dicembre 2022

Al direttore - Assistendo alla replica su YouTube del concerto natalizio offerto dalla presidenza del Senato al popolo italiano che vedeva l’Orchestra Haydn di Bolzano sotto la guida di Beatrice Venezi ho avuto la conferma di quello che ho sempre più pensato guardando le tante esibizioni in rete di questa musicista. 

A parte il cattivo gusto di presentarsi a capo di un’orchestra proprio lei, neoeletta consigliera per la musica del ministro, la cosa che trovo seriamente preoccupante, che intendo sottolineare, è la totale assenza di percezione musicale nella direzione e quindi di talento musicale necessario per muovere e rendere espressivi nell’aria i suoni di quella meravigliosa macchina terrestre che è una orchestra sinfonica.

 La sconcertante – è proprio il caso di dirlo – esibizione induce e favorisce l’ottundimento del gusto musicale e veicola un livello d’ascolto paurosamente basso confondendo e intimidendo chi, pur amando la musica, non ne possiede sufficiente competenza nel giudizio. Decisamente di pessimo livello gli arrangiamenti delle belle canzoni di Battisti, senza un minimo progetto né capacità interpretativa e con un’orchestrazione insensata e sciatta. 

Un tristissimo e cupo regalo di Natale che afferma soltanto il basso livello e la concezione musicale che si fa circolare con incuranza e irresponsabilità spacciandola per “grande arte”. Questo mio giudizio personale non è un partito preso verso la Venezi, ma il giudizio di un musicista che ha alle spalle 50 anni di vissuto musicale come compositore (www.francopiersanti.com) e ha avuto la fortuna di avere Maestri come Armando Renzi, Nino Rota e Franco Ferrara. E a tutt’oggi ha composto le musiche per 160 film e una cinquantina di spettacoli teatrali, oltre a una cospicua produzione di musica assoluta.

Ed è di fronte al dilagare dell’incompetenza e della più pericolosa sottocultura il motivo di questa mia lettera invettiva, contro chi dallo scranno del potere favorisce e promuove eventi del genere. Sfido la Venezi alla concertazione pubblica con l’Orchestra Haydn di un brano sinfonico del secondo 900. A sua scelta, che non sia l’“Adagio per archi” di Barber ma un pezzo mai da lei e da me eseguito prima. 

Risposta di Claudio Cerasa:

Facciamo nostra la sua magnifica proposta. Cara Venezi, che ne dice, ci sta?

Barbara Costa per Dagospia sabato 15 luglio 2023.

“Mai drogarsi. È troppo pericoloso. Diventi una prugna secca!”. Diamo retta a Bebe Buell, lei non l’ha fatto, e i risultati parlano chiaro: la signora festeggia 70 anni, e mica se li porta male! Gran bella donna, ceeeeerto, a guardarla non ti casca la mascella come quando da ragazza questa super top model si spogliò nuda per "Playboy", pose da infarto, adorabilissimo sesso peloso in primo piano… e contratti nella moda stracciati! Ma come ragionavano in passato ????? Non come oggi, che mostrarsi più che discinte è imprescindibile per una influencer di rispetto.

E invece la super top model Bebe Buell nel 1974 si denuda per Hefner, e la moda la mette quasi alla porta… Mah, ai tempi fumavano roba strana, mi sa, ma è affatto strana la nomea che Bebe Buell si è meritata, "la fidanzata delle rockstar", perché Bebe Buell ha un palmarès amoroso pazzesco, però guai a chiamarla groupie! No, no, no, che groupie, lei coi musicisti rock ci sc*pava “per orgasmi spirituali” (qualunque cosa siano) e Bebe a 19 anni ha dato il suo imene a Todd Rundgren, suo primo amore rockstar. 

Se Bebe Buell del suo carnet di rocchettari vi ha riempito due autobiografie, il motivo è semplice: lei ha gravemente sofferto di solitudine, sicché, quando Todd Rundgren era in tournée o in studio a incidere, Bebe, per non soccombere al dispiacere, lo ha cornificato con… cioè, lei non le chiama corna, spiega che era poliamorosa, e comunque, Bebe, una sera, a un concerto di Eric Clapton, s’imbatte in Mick Jagger (coniugato con Bianca) e ci va a cena in uno chiccoso ristorante giapponese, e poi al Dakota Building, a salutare John Lennon.

Dopo aver "sedotto" Bebe, Mick torna dalla moglie Bianca (e da tutte le altre) e Bebe ci rimane anche male: “Mick Jagger causa gravi problemi alle donne, ma è questo ciò che amo in lui, la sua sfacciataggine. Mick è implacabile”. Per rifarsi di Jagger, e con Todd Rundgren ripartito in tour, Bebe fa sesso con David Bowie (“2 volte!”), per non aver rimpianti pure con Iggy Pop (“tenero ma le droghe gli davano crisi di panico”), e vola a Londra da Jimmy Page (“uno votato al male, mi ha fatto perdere la testa, ma non è vero che alle amanti fa lo scalpo!!!”).

A un certo punto, la storia d’amore tra Bebe Buell e Todd Rundgren si interrompe (chissà perché) e lei si fidanza con Rod Stewart: “È stato un errore. Rod è uno che preferirei dimenticare. Esageratamente selvaggio”. Per non stare oltremodo sola, Bebe si accoda al tour degli Aerosmith, si innamora di Steven Tyler, e ci rimane incinta. Siccome Steven Tyler era in fase cocainamente pazzoide, Bebe non gli dice che è incinta. Lo dice a Todd, con cui torna insieme, al sesto mese di gravidanza. Todd accetta di crescere la bambina – battezzata Liv – come fosse sua, le dà il suo cognome, e le fa da padre. Ma lascia Bebe per sposare una certa Karen (ex di Bruce Springsteen). 

Bebe una sera, a L.A., va al concerto di Elvis Costello, ed è colpo di fulmine. Costello è sposato e padre, ma molla la moglie per Bebe. Si amano per un anno, e Bebe ce lo giura: “Elvis non è un c*glione. È il successo che l’ha reso confuso e turbato. Complicato starci”. Quando Costello la lascia per tornare dalla moglie, Bebe, dopo aver meditato di tagliarsi le vene, non lo fa, e esce con Stiv Bators dei Dead Boys. Ma ritorna Costello, e si riamano un po’. Bebe è in ambasce perché proprio in quel frangente la figlia Liv, 11enne, scopre che Todd Rundgren non è suo padre, e scappa di casa per andare da quello suo vero, Steven Tyler, sposatosi con Cyrinda e reso padre di Mia.

Tyler è contento. Finisce bene. Bebe diventa amica di Cyrinda. Poi Bebe si sposa con Coyote Shivers, “mio toy boy rock!”. Dopo 6 anni divorzia. Liv Tyler gira "Io ballo da sola", di Bernardo Bertolucci, ed è un trionfo. Mamma Bebe le fa da manager. Fino a che ha tempo, ovvero fino a che Bebe si scopre cantante. Canta pure dal vivo. Precisa Bebe Buell: “Io mi sono innamorata, e sul serio, 4 volte”. Se Todd Rungren è stato il primo, Steven Tyler il secondo, e Elvis Costello l’indimenticato terzo, il quarto, chi è? Il chitarrista Jim Wallerstein? Mi arrendo.

Belén a «Domenica In»: «Dopo i tradimenti di De Martino sono crollata. Ero depressa, sono finita in clinica». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023.

La showgirl ha scelto di raccontarsi da Mara Venier dopo le voci che avevano parlato anche di una sua presunta malattia. «Lui non ha saputo essere un marito. E’ stato il mio anno più difficile»

Dalla genesi all’apocalisse. Così Belén Rodriguez ha definito il suo racconto a «Domenica In». Un ritorno in tv, dopo che tanto si è detto, dopo che il suo matrimonio con Stefano De Martino è finito di nuovo ed è arrivato un nuovo amore. Si era parlato di un suo forte dimagrimento, alluso a una malattia. La showgirl ha scelto di raccontare questo suo periodo e lo ha fatto da Mara Venier, un’amica. «Ho bisogno di protezione — ha spiegato — me ne sono resa conto e ho ammesso a me stessa di averne bisogno». Nel definirsi, la showgirl ha detto: «Sono sempre stata una donna molto caparbia, mi sono occupata di me per tanti anni. Quando stavo in Argentina se ne occupavano i miei genitori, ho avuto una infanzia meravigliosa piena di amore». Con fatica, poi, ha detto di aver deciso «di lasciare la mia famiglia. Sono arrivata in Italia con 180 euro in tasca, mi piace sempre ricordarlo. Ero arrivata a Bologna e sono andata a Riccione e facevo la ragazza immagine in discoteca inizialmente e facevo dei casting per fare la modella... ero una sognatrice e lo sono anche oggi. Non riescono a spegnere i miei sogni, ci provano ma non ce la fanno».

Nel descriversi da piccola, si dice «molto simile a come sono adesso. Papà era un musicista e un’anima gentile. Lui ha saputo guardare il dolore in faccia, gli ha detto grazie per l’insegnamento e adesso con questo dolore ci faccio una bella ricetta. Mamma? Una donna forte, pragmatica. Sono una ragazza veramente fortunata perchè avere una famiglia così unita alle spalle è l’ancora di salvezza ogni volta che uno cade. Se non ci fossero stati loro sarebbe stato complicato. Loro stanno insieme da 41 anni e per questo che insisto e persisto, perché io ci credo. Sarò in sedia a rotelle e con il catetere e ancora ci proverò. Io ho bisogno di amore: per me al primo posto viene l’amore e al secondo il lavoro».

Il suo rifiuto a due programmi, «Tu sì que vales» e «Le Iene»: «Se avessi continuato a lavorare sarei stata una irresponsabile avrei creato problemi alla produzione, quindi ho preferito in quel momento lì in cui non c’ero, ero completamente smarrita, dire di no. È stato l’anno più difficile della mia vita e non lo avrei mai messo in conto. Sono caduta proprio in basso, che più in basso di così non si poteva». Il riferimento è al capitolo amoroso. L’amore l’ha fatta crollare: «È stato proprio così, non so neanche cosa sto per dire». Quindi le parole diventano più esplicite su De Martino con cui era tornata dopo un lungo periodo di separazione: «Io ci sono sempre stata per tutti non mi sono mai risparmiata». Ride ironicamente quando Venier, dice: «Tutti abbiamo pensato che lui fosse entrato in modo molto carino nella tua vita, con una bambina piccola». Le sua versione, a grandi linee, però è diversa: «Il matrimonio è in salute e malattia, penso di essere stata sempre abbastanza in salute poi quando è arrivata la malattia, perchè la depressione lo è, una brutta malattia, non hanno saputo farlo, non hanno saputo accompagnarmi, mi sono sentita sola, tradita sia letteralmente che nella fiducia». «Il nostro rapporto non è finito per un tradimento è iniziato con un tradimento e ne sono sicura, ho chiacchierato anche con le diverse signorine, hanno ammesso subito tutto... con tutte quante. Una decina. Sono arrivata a dodici poi ho smesso di chiamare. Io avevo il sesto senso».

Quindi ha svelato che De Martino non era al corrente di tutte le chiamate: «Lo sta scoprendo ora. Gli ho parlato solo dell’ultima. Ma dopo tutto questo è arrivata la depressione. Ho iniziato a non respirare più, ora peso 57 chili, ero arrivata a pesare 49 chili. Non mi alzavo più, non aprivo le finestre. Aprirle non è stato facile, in una stanza con tanti pianti, tante delusioni ma la luce piano piano è tornata. All’inizio stavamo assieme ma lui lavorava a Napoli. Non ha saputo essere un marito. Io se ti vedo cadere ti prendo la mano e ti aiuto a rialzarti. Per me non mi amava». In tutto questo, il pensiero era anche per i figli: «Due giorni fa abbiamo fatto un giro in macchina e le ho chiesto scusa». «Sono finita in una clinica, mi sono autoconsegnata perchè non riuscivo più ad aumentare di peso. Mi sono guardata e mi sono detta: stai morendo. In un momento di lucidità mi sono accorta, la depressione non te lo fa vedere. Ho cancellato delle mie foto da Instagram perché non me ne sono resa conto». La fine del matrimonio è avvenuta con una lettera: «Lui mi aveva lasciata con un whatsapp l’ultima volta, quindi sono stata anche elegante». La showgirl ha spiegato di aver passato una intera estate a letto. «Sono una capocciona, dovevo capire in questo modo qua. E ora vedo il mio futuro radioso, luminoso, pieno di consapevolezza». Un futuro che ha un nome: Elio Lorenzoni, il nuovo fidanzato: «Eravamo amici, ci conoscevamo da dodici anni, ma era tanto per bene e non riconoscevo l’amore nel suo essere così per bene. Oggi ho una persona per bene accanto e non mi sembra vero. Ha fatto per me quello che non ha mai fatto nessuno: mi ha tenuto la mano nei momenti più brutti e non era neanche piacevole starmi vicino in quei momenti. Mi fa sentire piccola». All’inizio, quando mi riempiva di attenzioni, dicevo: «Basta, mi arrangio da sola. Non ero abituata. Ora sto vivendo un sogno. Questo non lo mollo più».

Quindi, ha svelato di aver ricevuto una proposta di matrimonio. O meglio: «Mi sono auto proposta. Stavamo andando alle Maldive e gli ho detto: hai portato l’anello? Mi devi chiederti di sposarti. Poi allo scalo di Dubai si è assentato un attimo ed è tornato con un anello e mi ha detto: questo è simbolico e tu sei ancora sposata. Ma mi vuoi sposare?».

Alberto Dandolo per “OGGI” - Estratti sabato 18 novembre 2023.

Belén Rodriguez è volata alle Maldive con l’imprenditore bresciano Elio Lorenzoni con cui dice di essere fidanzata da 5 mesi. La stessa destinazione in cui era stata con due suoi ex: Stefano De Martino e Antonino Spinalbese. Un copione, insomma, che si ripete. Ma c’è di più: la showgirl posta sui suoi social persino una foto con un anello prezioso al dito accompagnata da un inequivocabile “Sì”. Quasi a voler far intendere che l’ufficialità dell’unione sia il preludio alla sua legalizzazione. Una scelta, che qualora non fosse dettata da interessi mediatici ed economici, darebbe il senso del suo stato di fragilità. 

«Va tutto bene, grazie. Sono davvero serena. La vita mi ha regalato Elio (Lorenzoni, ndr), è un uomo speciale. Con lui ho riscoperto la gioia nelle piccole cose, quelle semplici. Il futuro non mi spaventa più perché sto imparando a godere della vita giorno per giorno. A vivere di presente». È questo quello che Belén rispondeva fino a qualche giorno fa alle pochissime persone che sente ancora vicine. Una risposta che stride con ciò che sta comunicando da quelle spiagge lontane. Dove non risparmia al “pubblico” le intenzioni, vere o presunte, del suo cuore. Cuore che in questi ultimi mesi è stato messo a dura prova, che si è scontrato con le aspettative, le trappole e le malìe di una vita sotto i riflettori.

La storia di Belén è anche la storia del peso e della insostenibilità del suo clamoroso successo. I pochi affetti con cui si relaziona in questo ultimo periodo parlano di una donna che sta cercando di fare i conti con la vita, di guardare finalmente a quel «bilancio che non ha quadrato mai».  

(...) 

E invece, dopo il secondo addio con Stefano De Martino, sono di colpo uscite fuori tutte le sue fragilità. La fine, se fine è, di questo amore ha aumentato quelle paure. È stata solo l'ultima goccia, quella che l'ha spinta a desiderare di spegnere le luci dei riflettori.

Di fatto ha rinunciato a Tú sí que vales e non ha retto alla conduzione delle Iene. Non è facile diventare Belén quando si arriva a 20 anni in Italia e si è una tra le tante che aspirano a un posto al sole. Atterrò a Milano con 180 euro in tasca, dormiva su una brandina nella cucina di una casa in centro che condivideva con altre dieci modelle. Poi l'incontro con Lele Mora, la storia con il calciatore Marco Borriello, L'isola dei famosi, il successo fulminante, Corona, De Martino, lannone, Spinalbese, due figli meravigliosi e una intera famiglia portata in Italia e da mantenere. 

E quasi scontato che il conto da pagare fosse salato, soprattutto se non si ha avuto modo e tempo di maturare strumenti emotivi, culturali e menta li per sostenerlo. I primi segnali d'insofferenza al mondo che aveva scelto li ha iniziati a dare già da un po’. In una nostra intervista di qualche anno fa diceva: «Sono una persona diretta, schietta, passionale. Sono fatta di bianchi e di neri. E soprattutto detesto mentire. Nel mio mondo esiste tantissima ipocrisia. In tanti indossano maschere senza volto. Io non voglio vivere mentendo a me stessa e agli altri. Lo vivrei come una sconfitta morale».

Chissà se ora, seppur nel sincero bisogno di essere serena, non stia invece mentendo a se stessa. Chi le vuole bene non crede che questo amore possa durare lungo perché nasce dalle macerie di quello che lo ha preceduto e dal crollo emotivo che ne è seguito.

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Massimo Murianni per Novella 2000 - Estratti giovedì 16 novembre 2023

Belen non è donna che si fa frenare dalla paura. La passione è la sua cifra, la sua guida, la sua forza. «Voglio un figlio da Elio», chi le sta vicino e le vuole bene l’ha sentita sussurrare la frase quasi stupita dalle sue stesse parole, tanto è travolgente il rapporto che si è instaurato in breve tempo con Elio Lorenzoni, suo amico da anni, suo fidanzato da qualche mese. 

Quanti? «Lo conosco da quando avevo 22 anni», ha scritto lei sui social, «ma non c’è mai stato nulla tra noi. Era solo un amico, ma un amico speciale, che mi ha sempre fatto sentire bene. Poi, sai com’è, a volte da un’amicizia profonda può nascere l’amore». Più complicato avere una data precisa del momento in cui l’amicizia è diventata amore.

Diciamo che ufficialmente il rapporto è iniziato dopo che Belen e Stefano De Martino si sono lasciati, per la seconda volta (definitiva?), all’inizio dell’estate 2023. Ma i più attenti hanno evidenziato qualche incongruenza: probabile che la Rodriguez e De Martino avessere rotto ben prima di darne annuncio, e nel frattempo con Elio qualcosa fosse già successo. Poco cambia. Quello che conta, ora, è Belen ed Elio fanno sul serio. 

Un paio di settimane fa, in occasione del compleanno di lui, Belen aveva pubblicato su Instagram foto e video della festicciola in famiglia (di lei!), con dedica ispirata da una canzone di Eros Ramazzotti: «A te che sei l’immenso per me». Le canzoni sanno sempre dare parole ai sentimenti.

Le parole del cuore

«Voglio un figlio da lui» è invece una frase che non nasce da versi di altri, ma direttamente dal cuore di Belen. Ci raccontano di averla sentita dire dalla Rodriguez qualche giorno prima della sua partenza per le Maldive con Elio. C’è chi ha già definito il viaggio la loro “luna di miele”. 

Di certo è la situazione ideale per trasformare in un progetto concreto l’istinto di mettere su famiglia con l’uomo che la rende felice. Perché Belen, dicevamo, non è donna da razionalizzare i sentimenti, da creare distinguo tra innamoramento e amore, da frenare il cuore con il pensiero: quando ama, ama e basta. 

La storia si ripete?

In passato ha già vissuto situazioni simili. Con Stefano De Martino. Conosciuto dietro le quinte di Amici quando lui era impegnato con Emma Marrone. La passione fu incontenibile: nel giro di un anno sono arrivati il figlio, Santiago, e il matrimonio. Poi una serie di prendi e lascia, terminati appunto all’inizio dell’estate 2023. In mezzo, nel 2021 c’è la storia con Antonino Spinalbese, parrucchiere conosciuto durante la pandemia. Anche con Antonino la passione ha avuto il sopravvento, e ha portato alla nascita di Luna Marì. 

C’è chi rimprovera a Belen di “fare un figlio con ogni uomo di cui si innamora”. Ma un figlio non è mai una colpa da rinfacciare, è sempre un dono, e Belen può avere tanti difetti, ma non quello di trascurare Santiago e Luna Marì. Li ha già presentati a Elio, insieme hanno trascorso un weekend in montagna poco prima della partenza per le Maldive

(…)

Stefano De Martino a “Belve”: «Il mio matrimonio con Belen? Non è finito per un tradimento». Federica Bandirali per corriere.it il 26 settembre 2023.

L’ex marito di Belen Rodriguez si racconta a Francesca Fagnani in un’intervista a 360 gradi che tocca tanti temi della vita del conduttore. Tra cui il suo stato civile 

Stefano De Martino ospite di “Belve”: l’ex marito di Belen Rodriguez si racconta a Francesca Fagnani in un’intervista a 360 gradi che tocca tanti temi della vita del conduttore. Tra cui la sua vita privata e, più nello specifico, il suo stato civile.

«Non sono uno stinco di santo»

Innanzitutto sul destino del suo matrimonio: «Non è finito per un tradimento». E quando la Fagnani incalza ricordandogli che Belén in più occasioni ha sottolineato una sua tendenza al tradimento, confessa: «io non sono uno stinco di santo ma credo molto nell’esclusività dei sentimenti».

«Sono ri-divorziato»

Ed è proprio sullo stato civile di Stefano che Francesca Fagnani incalza con la domanda: "Ha capito se è divorziato?" chiede la giornalista- come si evince in una clip postata su Instagram. "Secondo me è ri-divorziare..." commenta Stefano che, alla considerazione della giornalista secondo la quale lui non sarebbe divorziato, aggiunge : "E toccherà divorziare", afferma. Ma l’intervista prosegue, sempre sul tema. "Voi fate domanda di divorzio, poi vi rimettete insieme e decade" afferma ancora la conduttrice; "Sì, decade e tocca rifare tutto è anche dispendiosa come cosa...". Alla fine, la domanda secca di Fagnani: "Qual è il suo stato civile?"; "Non so al momento" risponde Stefano. Una serata che promette novità e scintille.

Estratto da today.it mercoledì 27 settembre 2023.

C'è un momento della trasmissione Belve che è iconica. Stiamo parlando del backstage. Un breve video che viene mandato in onda alla fine della puntata, in cui la conduttrice si mostra nei siparietti avvenuti dietro le quinte insieme ai suoi ospiti. Tra questi, anche quello accaduto con Stefano De Martino. 

Nel video, in particolare, vediamo De Martino rivolgersi alla giornalista e dire: "Abbiamo parlato di mio nonno che è morto venti secondi fa, questa ride. Che caz*o ridi?", gli chiede il ballerino sorridendo. La presentatrice, completamente rossa di imbarazzo, replica con tono ironico: "Sono bionda" (il riferimento è al luogo comune secondo cui le bionde sarebbero stupide, ndr). 

(...)

Da today.it - Estratti mercoledì 27 settembre 2023. 

L'anno scorso Stefano De Martino sarebbe dovuto andare come ospite a Belve, poi però non ha presenziato. Al suo posto è stato chiamato Rocco Siffredi. "Un degno sostituto", commentò all'epoca il conduttore. E oggi che Stefano ha accettato l'invito di Francesca Fagnani nella trasmissione di Rai Due, lei gli domanda maliziosa che cosa intendesse. "Beh", scherza De Martino, "io e Rocco abbiamo in comune... l'autoironia. Purtroppo non posso dire altro perché la natura non è stata con me così generosa come con Rocco". 

(...) De Martino dice di avere un buon rapporto con la chirurgia estetica, ma dice di farne poco uso "altrimenti diventa controproducente". Impossibile però strappargli confessioni circa gli interventi a cui si è sottoposto. È rifatto? "Mi sono rifatto anche gli occhi, venendo qui stasera", dice il conduttore, facendo una battuta provocante alla giornalista. Lei gli domanda se è un seduttore, se si sente sexy, lui resta umile e ammette che "prova a esserlo". In ultimo, Fagnani chiede a De Martino se si sente grato alla vita. "Grato del fatto di essere qua stasera con lei, ad esempio", risponde lui, facendo ancora un'opera di lusinga a Fagnani. Lei - compagna del giornalista Enrico Mentana - arrossisce e sorride, ma non risponde.

"La rottura con Belen? Ci ho fatto il callo". Stefano De Martino sull'addio a Belen. Ospite di Belve, Stefano De Martino ha risposto alle domande più personali sulla recente separazione da Belen: "Il mio matrimonio non è finito per un tradimento". Novella Toloni il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 "L'addio non è stato traumatico"

 I gossip sui tradimenti

Stefano De Martino a "Belve" ha rotto il silenzio sulla separazione da Belen Rodriguez. L'ex ballerino di "Amici" non si è dilungato nei dettagli ma almeno non si è sottratto alle domande di Francesca Fagnani. De Martino ha confermato la rottura con la showgirl argentina senza dare mai l'idea, però, di qualcosa di definitivo. Del resto, i precedenti sono tanti. Stefano e Belen si sono lasciati e ripresi più di una volta nella loro decennale storia d'amore, ma questa volta l'addio potrebbe essere risolutivo.

Nella lunga intervista rilasciata a "Belve" Stefano De Martino ha parlato del suo passato, della voglia di arrivare in alto e della sua carriera oggi. "Sto facendo il mio percorso verso la fama, ora mi riconoscono perché faccio delle cose non perché sono il marito di", si è tolto un sassolino dalla scarpa il conduttore. Ma l'attenzione del pubblico era tutta concentrata sulle domande relative a Belen Rodriguez e alla chiacchierata fine del loro matrimonio. Addio mai ufficializzato e confermato proprio alla Fagnani.

"Ho perso sette chili". Belen parla dell'addio a Stefano

"L'addio non è stato traumatico"

La separazione c'è stata ma non è stata traumatica come in altre occasioni, ha assicurato De Martino che alla domanda diretta della giornalista - se l'addio è stato doloroso o meno - ha ironizzato: "Quale dei tanti addii? L'ultimo non lo è stato. Non ci sono mai chiusure felici, speri sempre nel 'per sempre', quindi è sempre doloroso ma ci si fa l'abitudine. Nel mio caso ci si fa il callo". I motivi dell'ennesima rottura li ha detti tra le righe: "Il carattere e le affinità sono quelle che hanno pesato". Di sicuro essere costantemente sotto i riflettori non ha giovato alla relazione tra il napoletano e la showgirl argentina e De Martino lo ha confermato: "Quando si è molto esposti si vive male".

"Il patto tra gli ex di Belen". Stefano e Antonino sempre più amici

I gossip sui tradimenti

Da anni si parla dei presunti tradimenti consumatisi in seno alla coppia, ma alla domanda diretta della Fagnani ("Lei ha una tendenza al tradimento?"), Stefano ha chiarito: "Il mio matrimonio non è finito per un tradimento, ma io non sono uno stinco di santo". Poi, parlando dell'amore e del tradimento, ha aggiunto: "Credo nell'esclusività dei rapporti. Non credo nelle amanti, sai che fatica a gestire tutto. Però mi è capitato di tradire quando una relazione era alla fine". Prima di cambiare argomento il conduttore ha ironizzato sul suo attuale stato civile. "Non so se sono già divorziato o dobbiamo rifare tutto da capo", ha concluso Stefano De Martino.

Certi amori non finiscono. Amici, Emma, tradimenti e ritorni di fiamma: la storia d'amore tra Belen Rodriguez e Stefano De Martino. Tra alti e bassi, storie parallele e grandi appassionati ritorni, la storia d'amore tra Belen e Stefano De Martino è durata dal 2012 al 2023. Novella Toloni il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il colpo di fulmine ad Amici

 L'incedente in moto, l'intervento di Maria

 La passione travolgente, la gravidanza

 Il matrimonio

 La prima crisi

 I sospetti sulla seconda gravidanza

 La separazione ufficiale

 Flirt e riavvicinamenti

 La storia con Andrea Iannone

 Separazione legale, l'addio a Iannone

 Il ritorno di fiamma

 La crisi post Covid

 La storia con Antonio Spinalbese

 Il ritorno con De Martino

 L'ultima crisi e l'addio

Sebbene l'annuncio ufficiale di divorzio manchi, il matrimonio tra Belen Rodriguez e Stefano De Martino sembra essere ormai finito (almeno per ora). La loro storia d'amore, però, rimarrà una delle più passionali e chiacchierate di sempre.

Il colpo di fulmine ad Amici

È il 2012. La fase Serale della trasmissione Amici 11 prende ufficialmente il via su Canale 5. Belen Rodriguez è ospite fissa del talent di Maria de Filippi e Stefano De Martino è uno dei ballerini professionisti. Belen viene coinvolta in alcune coreografie e lavora a stretto contatto con il corpo di ballo. Il colpo di fulmine con Stefano è inevitabile. L'argentina, però, è legata a Fabrizio Corona, mentre De Martino è fidanzato con Emma Marrone. Quest'ultima è nel programma tra i Big, ma non si accorge del feeling nato tra Belen e Stefano. Intanto il gossip esplode sul web.

L'incedente in moto, l'intervento di Maria

Sui social e in rete non si parla d'altro che del flirt nato tra Belen e Stefano. L'argentina e De Martino non confermano né smentiscono ma, quando hanno un incidente in moto insieme, la loro frequentazione viene a galla. I due finiscono in ospedale e sulle copertine di tutte le riviste di gossip e spettacolo e il colpo per Emma è durissimo. È maggio e Maria De Filippi interviene per capire cosa sta succedendo tra i suoi tre pupilli. La conduttrice parla con Belen e Stefano, che confessano di essersi innamorati, e decide di informare lei stessa Emma, come fa una mamma con la figlia tradita. Poi, per dare un freno ai pettegolezzi, la conduttrice invita Belen e Stefano nel day time di Amici - subito dopo l'incidente - ma i due vengono fischiati. Così Maria interviene: "Il pubblico deve dimostrare la sua maturità perché va bene che il gossip distragga in questo momento di crisi ma i fischi vanno riservati alle cose importanti".

La passione travolgente, la gravidanza

De Martino e la showgirl iniziano la loro relazione alla luce del sole tra vacanze e uscite nei locali e davanti agli obiettivi dei fotografi non nascondono gesti passionali e grandissima intesa. E l’argentina rimane subito incinta. È ottobre 2012. Belen annuncia di essere al terzo mese di gestazione sulle pagine del settimanale Chi: "Questo bambino è frutto dell’amore e le critiche non mi sfiorano. Tanto chi lo fa, poi, è il primo che ci ferma per strada per chiederci l’autografo. Forse abbiamo sbagliato i tempi con i nostri ex, ma non ce l’abbiamo proprio fatta". Il 9 aprile 2013 nasce Santiago. Alla clinica Mangiagalli la showgirl e il ballerino accolgono il loro primo figlio.

Belèn è mamma: nato Santiago

Il matrimonio

Il 20 settembre 2013 Belen Rodriguez e Stefano De Martino si sposano a Comignago, piccolo comune novarese a due passi dal Lago Maggiore. I due si dicono sì nella cappella privata di villa Giannone e poi festeggiano con circa trecento invitati. I paparazzi sono appostati ovunque e sui social ci sono decine di foto e video dell'evento più chiacchierato dell'anno. Belen indossa due abiti differenti nel corso della giornata disegnati per lei dallo stilista emergente Daniele Carlotta. Per loro, però, niente luna di miele ma una fuga romantica a Londra.

La prima crisi

Febbraio 2015. Le voci di crisi impazzano sul web. Dagospia parla di "maretta" tra Belen e Stefano e gli indizi sembrano confermarlo. Il settimanale Chi svela i retroscena della separazione: "Stefano si è trasferito all’hotel Bulgari". La coppia ha deciso di comune accordo di vivere separatamente per provare a risolvere la crisi matrimoniale. Ma l'addio dura poche settimane. A fine marzo la showgirl e il ballerino vengono paparazzati alle Maldive insieme più innamorati che mai. “Mi sento in Paradiso. Stefano è l’unico che sa tenermi testa. Da sempre", rivela la Rodriguez.

I sospetti sulla seconda gravidanza

È settembre 2015. La crisi è alle spalle e si vocifera che la coppia sia in cerca di una seconda gravidanza. Le foto che Belen pubblica su Instagram e i servizi, che escono sulle riviste, mostrano forme rotonde sospette, ma quando i rumor diventano notizia, la Rodriguez sbotta. "Ma quale pancino sospetto? Avevo il ciclo e le mani in tasca", afferma in un'intervista a IoDonna.

Belen: "Io incinta? Non è vero, vi dico perché avevo la pancia gonfia"

La separazione ufficiale

Il secondo figlio non arriva ma l'addio sì. Belen e Stefano vengono sorpresi dai fotografi mentre litigano violentemente in un ristorante. Le lacrime dell'argentina parlano di una ferita profonda e la situazione precipita. È Natale 2015, quando esce il comunicato stampa del legale di Belen Rodriguez: "Resteranno immutati la stima e l'affetto reciproci e la comune volontà di mantenere un rapporto sereno, anche nell'interesse del figlio". Il matrimonio è finito, la coppia si separa.

Flirt e riavvicinamenti

Lontana da Stefano Belen si riavvicina a Marco Borriello. In due vengono paparazzati in montagna e poi a Capodanno insieme ma a febbraio l'argentina viene pizzicata in un locale in atteggiamenti intimi con l'attore Fabio Troiano, conosciuto sul set di "Non c'è due senza te". La primavera del 2016 è caldissima per la showgirl, che viene avvistata anche in compagnia del rapper Fedez. Insieme a cena l'uno accanto all'altra e poi in altre tre occasioni e le voci di un flirt si fanno insistenti. In occasione del compleanno di Santiago, però, Stefano e Belen si riavvicinano e i fan sperano in un ritorno di fiamma.

La storia con Andrea Iannone

Estate 2016. Belen e Marco Borriello si frequentano. Loro si dicono solo amici ma i fotografi di Chi li immortalano i atteggiamenti intimi, tra coccole e baci, nella loro vacanza a Ibiza. Durante i mesi caldi, però, la Rodriguez conosce Andrea Iannone, il pilota di motociclismo, e tra i due esplode la passione. "È una ragazza semplice, ci divertiamo assieme", conferma lo sportivo e la storia si fa seria. Belen assiste al Gp d'Austria portando fortuna al nuovo fidanzato e ufficializza su Chi la relazione. L'amore tra Belen e Andrea Iannone procede a gonfie vele tra copertine sulle riviste e foto social, che documentano la relazione. I fan la criticano per avere voltato pagina ma lei, su Instagram, si sfoga: “Il divorzio è il fallimento più brutto della mia vita, ma è andata così. La vita va avanti". Iannone la fa sentire sicura, è un uomo "libero e forte" - rivela Belen - e la passione è forte. I rapporti con De Martino, forzati per via di Santiago, però sono tesi.

"Il divorzio da Stefano il fallimento più brutto"

Separazione legale, l'addio a Iannone

A gennaio 2017 Belen Rodriguez e Stefano De Martino legalizzano la loro separazione. Il giudice affidato Santiago alla showgirl e stabilisce un mantenimento mensile di 1000 euro per le spese del figlio e dell'ex compagna. Nel frattempo, Belen e Iannone cercano casa a Milano e si vocifera che i due siano pronti a sposarsi, ma a giugno 2018 arriva l'annuncio della crisi con Andrea Iannone dopo due anni d'amore. Ai giornali la Rodriguez ammette "Con Andrea ci siamo presi una pausa e sono certa che ne valga la pena". L'addio diventa definito a settembre.

Il ritorno di fiamma

Siamo a febbraio 2019. Ci sono segnali di riavvicinano tra i due ex coniugi. Stefano a Domenica In, guardando una foto di famiglia, dice che il suo posto è tra le braccia di Belen e Santiago; lei ospite in radio scherza: "Stefano ti aspetto a casa". Pochi giorni dopo l'argentina e il napoletano vengono fotografi insieme abbracciati, che si baciano. I paparazzi li immortalano sempre più spesso insieme e innamoratissimi e ad aprile Stefano torna a indossare la fede, segnale inequivocabile di un ritorno di fiamma. L'ufficialità arriva attraverso i social, dove la coppia pubblica le foto di un viaggio in Marocco. "Resta un po' o meglio per sempre", scrive Belen su Instagram. A giugno dello stesso anno De Martino smentisce una nuova gravidanza della moglie ma rivela: "Ci stiamo lavorando". Confessa di avere faticato per riconquistarla e si parla addirittura di nozze bis.

La crisi post Covid

Maggio 2020. Dopo avere trascorso il lockdown insieme, Belen e Stefano sono di nuovo ai ferri corti. Le voci parlano dei numerosi tradimenti di De Martino e Belen, per la prima volta, appare suo social in un video nel quale parla di momento difficile non dipeso da lei. Il gossip su una scappatella tra Stefano e Alessia Marcuzzi si fa strada con insistenza, si parla di SMS compromettenti, e la coppia si allontana irrimediabilmente, tanto che Belen si consola tra le braccia di Gianmaria Antinolfi. Ma la relazione è brevissima.

Belen brucia di passione in barca C'è il bacio con la nuova fiamma

La storia con Antonio Spinalbese

È agosto 2020 e la rivista Chi dedica la copertina alla nuova coppia dell'estate: Belen e Antonino Spinalbese. Lui è l'hair stylist, amico di Patrizia Griffini, che ha fatto perdere la testa all'argentina ma la coppia esce allo scoperto solo a novembre. La passione con il bel Antonino, più giovane di lei, è travolgente tanto che la showgirl rimane subito incinta, ma perde il figlio tanto desiderato. Tre mesi dopo ecco arrivare, però, la notizia bomba. "Sono incinta", rivela Belen al settimanale Chi e il 12 luglio viena alla luce la piccola Luna Marì. Nonostante il parto fosse programmato al Mangiagalli, la Rodriguez è costretta a partorire in una clinica di Padova mentre era fuori per un weekend in famiglia. L'idillio familiare dura pochissimo. In autunno Belen e Antonino sono già ai ferri corti e l'hair stylist lascia la casa, dove vive con Belen e Luna Marì.

Il ritorno con De Martino

L'inizio del 2022 è nel segno dell'amore ritrovato per Belen e Stefano. I due vengono paparazzati mentre si abbracciano e si baciano a Malpensa, poi i fotografi sorprendono De Martino a casa della moglie, dove vi trascorre tutta la notte e per i fan non ci sono dubbi sulla ritrovata sintonia. La loro storia riprende da dove si era interrotta, come se Antonino e gli altri fossero solo parentesi, tra fughe romantiche a Ponza e cene in locali romantici. Belen, però, aspetta l'ospitata a Verissimo per svelare che lei e De Martino sono di nuovo una coppia: "Rientrare nella mia vita comprendeva accettare questa bambina che non è sua. Provo tanta stima per questo atteggiamento. Per me è una cosa incredibile quella che lui è riuscito a fare. Siamo stati molto attenti per timore che non funzionasse. Quindi con molta cautela abbiamo iniziato a rifrequentarci". Ma l'idillio non dura a lungo.

L'ultima crisi e l'addio

Dopo un anno nuove voci di crisi si fanno insistenti. In occasione del compleanno di Santiago, ad aprile 2023, De Martino è assente e sui social la coppia si fa vedere sempre di meno. Il ritorno sui social in occasione della festa scudetto del Napoli e la vacanza in barca alle isole Pontine a luglio sembrano scacciare gli spettri di una crisi, che invece diventa concreta a settembre, quando De Martino si presenta alla serata dei palinsesti Rai senza fede e siede vicino alla Marcuzzi. Si parla di un ritorno di fiamma tra i due e nuovi tradimenti. Corona conferma che Belen e Stefano si sono lasciati a maggio e i due fanno vite separate nonostante manchi l'annuncio di addio definitivo. Oggi Belen si frequenta con Elio Lorenzoni, mentre Stefano De Martino è concentrato sul lavoro. Se si diranno addio definitivamente o se torneranno insieme non è possibile saperlo, ma la loro storia - comunque - rimarrà una delle più chiacchierate.

Belen è stata tradita (di nuovo): ecco perché dovrebbe farsene una ragione. Ennesima separazione tra Belen Rodriguez e Stefano De Martino, ennesimo annuncio di corna subite per l'argentina, che da anni insiste a stare con l'ex ballerino. Francesca Galici il 14 Agosto 2023 su Il Giornale.

E ci risiamo. In tutti questi anni, se c'è una cosa che abbiamo capito, è che Belen Rodriguez porta le corna. E che lei ci tiene a farcelo sapere. Al pubblico interessa? Non è rilevante nei piani della showgirl, che ciclicamente ripropone la stessa scenetta: i cervi, i video e le foto in cui lascia intendere ma non dice eccetera eccetera. Tuttavia, tra le diverse cose che il pubblico ha capito ma Belen ancora no, è che la sua relazione, o forse è il caso di parlare al plurale, con Stefano De Martino non può avere lunga vita.

Le "corna" sulla testa, il video dei cervi: così Belen spiazza tutti sui social

Che se ne faccia una ragione la showgirl. Ormai si è perso il conto di quante volte si sono messi insieme, per poi lasciarsi, per poi riprendersi, per riallontanarsi, per tornare, in un ciclo infinito che non è nemmeno più una notizia dopo tutto. Non c'è più l'effetto novità, non c'è più quella cosa che suscita curiosità. Quella barca è partita ormai molte lune fa. De Martino non riesce a essere fedele alla sua donna? E vabbé, vuol dire che non è fatto per stare in coppia, come milioni di altri uomini.

Non che questo lo sollevi dalle sue responsabilità, ci mancherebbe. Ma Belen è una donna intelligente e avrebbe dovuto capirlo almeno due o tre separazioni fa. Insomma, i proverbi ci sono per un motivo: chi nasce tondo non muore quadrato, il lupo perde il pelo ma non il vizio e così via. E se esistono addirittura le frasi fatte ci sarà un motivo, no? E invece niente, lei ci prova e ci riprova. E ogni volta finisce sempre nello stesso modo: con un annuncio di corna.

Nonostante le attenzioni cercate dalla showgirl, anche il pubblico sembra non voler più riservare a questo infinito tira e molla. Va bene, Stefano l'ha tradita. Ma dopo la terza volta che accade, uno preferisce interessarsi ai video Asmr di gente a caso che pulisce i tappeti o taglia le verdure. C'è chi pensa che sia solo una trovata per far parlare di sé in un momento professionale poco brillante dopo l'uscita da Mediaset e il futuro incerto. Noi pensiamo di no, più che altro lo speriamo visto che ci sono anche due bambini piccoli che ogni volta ci vanno di mezzo. Ora però basta: cari Belen e Stefano, provate a essere solo amici, non è poi così male e la cervicale della showgirl ringrazierebbe.

Da leggo.it il 4 gennaio 2023.

Belen e Stefano De Martino sono tornati ad amarsi, dopo un lungo periodo in cui i due avevano preso due strade diverse si sono ritrovati e adesso il loro amore è più forte che mai. A confermarlo è stata la stessa showgirl argentina in una lunga intervista rilasciata al settimanale F in cui a ruota libera ha parlato della sua relazione con l'ex ballerino di Amici e ha analizzato le fasi più complesse del loro matrimonio, non sempre rose e fiori. 

L'intervista di Belen

Come già la Rodriguez aveva svelato in precedenza ai riflettori, non è stata lei a interrompere il loro matrimonio per un periodo, anzi non ha mai smesso di ammettere di aver sofferto parecchio per il loro allontanamento: «Quando ci siamo messi insieme la prima volta lui aveva 22 anni e io 26: eravamo due pischelli, per giunta famosi. Non eravamo due nella coppia, eravamo migliaia: i paparazzi sotto casa ogni giorno, la morbosità della gente che voleva sapere. Esserci lasciati credo sia stata la cosa più naturale che potesse succedere», ha confessato la conduttrice de Le Iene, sottolineando che agli inizi il loro amore era immaturo. 

«In certi momenti potrebbe essere successo, per esempio quando è nato Santiago mi sono fatta aiutare tanto da mia madre. Ma se parliamo di pranzi e cene, a mio marito piace tantissimo stare insieme: Stefano è di Napoli. Per il resto ognuno sta a casa sua, loro sono sempre stati molto rispettosi della mia vita. Non si sono mai intromessi nelle mie scelte sentimentali. Naturalmente, avendo con mia madre un certo dialogo, anche profondo e passionale, ci siamo detti delle cose», Belen ha preso la palla al balzo per sdoganare determinati pettegolezzi relativi alle presunte ingerenze della famiglia della showghirl nel loro matrimonio.

«Se cerchi di scappare da qualcuno che ami, non ce la fai: te lo ritrovi sempre davanti. Quando ci siamo lasciati ero ancora innamorata ma non volevo più soffrire. Io ho sofferto tantissimo per Stefano. Non sono stata io a mollarlo. Sembro forte perché in questo mondo devi farti una corazza altrimenti ti mangiano, ma nel mio privato sono molto cucciola, molto generosa. Mi chiedi una cosa e te ne do mille. Però pretendo altrettanto», ha chiosato Belen sottolineando che il loro avvicinamento è avvenuto anche grazie al figlio Santiago.

Beppe Convertini, collezionista di storie di terra e di mare d’amare. Nicola Santini su L'Identità il 25 Agosto 2023

Ha archiviato con una media d’ascolti record la sua ultima edizione di “Linea Verde” mentre attualmente, ogni domenica alle 9.40 su Rai1, continua a raccogliere straordinari consensi con “Azzurro. Storie di mare”. E’ un periodo d’oro per Beppe Convertini, che ogni week-end da settembre accompagnerà Monica Setta e Ingrid Muccitelli alla guida di “UnoMattina in famiglia”.

Beppe, anche la terza edizione di “Azzurro. Storie di mare” è un successo. Te lo aspettavi?

Più che aspettarmelo, vado fiero di questa bella conferma. Ancora una volta abbiamo toccato il 20% di share, catturando l’attenzione di più di un milione di telespettatori che ogni domenica, alle 9.40, continuano a sintonizzarsi su Raiuno per assistere alle nuove puntate del programma. Un successo che, oltre che con il pubblico, non posso non condividere con il mio team. Il viaggio di Azzurro mi sta permettendo di proseguire il mio viaggio lunghe le coste, in lungo e in largo, della nostra Italia, permettendomi di raccontare al pubblico tradizioni e tradizioni, usi, costumi, gente, storie, processioni e la cucina che rendono grande il nostro Paese nel mondo.

Tra tutti gli incontri fatti finora, di quali ti resta un ricordo più profondo?

Tutti gli incontri fatti durante questo viaggio si sono rivelati affascinanti. Tra questi, non posso non menzionare quattro sorelle, ormai ottantenni, appartenenti a una famiglia che, dopo aver inaugurato il primo lido nel 1883, hanno proseguito questa attività omaggiando la cultura e la tradizione napoletana. Ma mi ha colpito anche, per esempio, l’incontro con un cozzarolo di Taranto, che ci ha raccontato le difficoltà del settore e allo stesso tempo di quella passione per l’allevamento delle cozze che continua ad andare avanti.

E per quanto riguarda i luoghi?

Anche in questo caso, sono tutti nel mio cuore. Ho amato, in particolare, le acque di Ponza o la città medievale di Cariati. Ma non posso non nominare la mia Taranto, che rappresenta uno scrigno ancora da scoprire.

Sei reduce dal successo di Linea Verde. Che cosa hanno rappresentato, all’interno della tua carriera, questi anni legati allo storico programma di Rai1?

E’ stato emozionante scoprire i borghi più belli al mondo, così come è stato un privilegio raccontare le storie di uomini che fanno si che il Made in Italy sia amato in tutto il mondo. Per questa bellissima opportunità, non posso che ringraziare il pubblico che mi ha seguito e tutta la squadra della Rai, capitanata dal direttore del daytime Angelo Mellone.

Da settembre ti vedremo nel cast di UnoMattina in famiglia. Come vivi questa nuova avventura in arrivo?

Sono emozionato, perché lavorerò con un grande Maestro della televisione come Michele Guardì, che da anni guida una squadra collaudatissima. E poi lavorerò con due colleghe che, oltre che amiche, sono due professioniste straordinarie: Monica Setta e Ingrid Muccitelli.

Ultimamente hai ottenuto un grande successo in libreria con il volume “Paesi miei” edito da Rai Eri…

Non è stato facile scegliere i luoghi da raccontare in questo libro, così come tutte le emozioni che ho potuto provare nei vari borghi che ho visitato in quattro anni. Diciamo che neanche una enciclopedia sarebbe bastata per inserire tutto quello che avevo appuntato sul mio diario di bordo (sorride, ndr).

Sempre di recente, sei tornato sul set per vestire i panni dell’attore. Qualche anticipazione?

E’ stato stimolante tornare sul set in questo bel progetto cinematografico, diretto da Luciano Luminelli, che s’intitola “72 ore”. Accanto a me ci saranno Kaspar Capparoni, Debora Caprioglio, Sebastiano Somma e Corrinne Clery. Per il momento posso solo svelarvi che il mio ruolo sarà quello di un bancario.

In futuro, a livello lavorativo e personale, quali altri traguardi ti piacerebbe raggiungere?

Al di là della mia carriera, che spero continui ad andare avanti regalandomi nuovi stimoli e opportunità, per quanto riguarda il futuro mi piace l’idea di poter andare a vivere un giorno in riva al mare, in assoluto il mio elemento.

Televisione, Borsa, mattone. Beppe Convertini: “Sogno un agriturismo in Puglia”. Il conduttore televisivo racconta il suo rapporto con il denaro a IlGiornale.it e ci confida che, come per molti italiani, anche per lui il miglior investimento è il “mattone”. Dario Murri il 14 Agosto 2023 su Il Giornale. 

Attore, modello, conduttore radio e tv, Beppe Convertini ha spaziato, nel corso della sua carriera, dal cinema al teatro ai programmi televisivi, passando per la radio, fino ad approdare alla conduzione di Linea Verde su Raiuno, programma particolarmente apprezzato dal pubblico, anche per il suo stile garbato e familiare. Terminato l'attuale impegno con Azzurro. Storie di mare, in onda sempre su Raiuno, dalla prossima stagione televisiva sarà uno dei volti di Unomattina In Famiglia, insieme a Ingrid Muccitelli e Monica Setta. Ha di recente pubblicato il libro Paesi miei. In viaggio con Linea Verde alla scoperta delle tradizioni d'Italia, edito da Rai Libri, in cui ripercorre alcune delle esperienze più significative del programma. Questa volta però, lo incontriamo non per parlare di eccellenze culturali, ambientali ed enogastronomiche del nostro Paese, ma del suo rapporto con l’economia. Argomento che peraltro conosce bene, visto che ha conseguito la laurea proprio in questa disciplina.

Finanza ed economia sono temi che l'appassionano?

"Mi appassionano perché fin da bambino guardavo tutti i telegiornali: mi piaceva confrontarli e mi piaceva in particolare seguire Tg Economia, ed era per me affascinante conoscere i valori della Borsa di Milano, di quelle europee, di Wall Street e delle borse asiatiche naturalmente, anche se non investo in Borsa. Mi piace però tenermi informato sui temi legati all’economia italiana, sul suo andamento, così come più in generale su quella mondiale".

In questo riaffiorano i suoi studi economici…

"Sì, ho studiato Economia e Commercio, forse anche per quello mi è rimasto l’interesse per questi argomenti, che mi hanno comunque sempre affascinato sin da bambino".

C’è qualcuno in ambito familiare più orientato agli investimenti?

"Provengo da una famiglia in cui sia i nonni materni che paterni erano contadini. Ho perso mio padre nel 1990 avevo 17 anni e mia madre impiegò due anni per ottenere la pensione di reversibilità perché non si trovavano tutti i contributi versati, anche perché i datori di lavoro di mio padre, lui era un camionista, non li avevano versati, per cui direi proprio che per gli affari siamo negati!"

Si occupa direttamente dell'amministrazione o la delega ad altri?

"Io seguo interamente tutto quello che mi riguarda, anche se non ho particolari affari o investimenti da curare. L’unica cosa che ho ritenuto importante per me come investimento è stato l’acquisto della mia casa. Perché comunque vengo dal Sud Italia, dalla provincia pugliese, dove possedere un’abitazione propria è ancora uno dei valori fondamentali, pagando anche un mutuo per lungo tempo, ma almeno sai che rimarrà a te e che può aumentare di valore nel tempo".

Una lunga gavetta, la popolarità con Linea Verde e ora l'approdo a Unomattina In Famiglia. Come vive il successo?

"In effetti ho fatto una lunga gavetta. Sono partito, non dico con la "valigia di cartone", ma quasi. Studiavo all’Università e già da ragazzo avevo fatto le prime esperienze nel mondo dello spettacolo, partecipando come comparsa agli spettacoli del Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, la mia città, poi ho fatto il modello per tanti anni, inseguendo sempre la mia passione, quella di fare l’attore e il conduttore. Continuo a fare questo lavoro con grande piacere. Ho avuto l’onore e la fortuna di condurre un programma visto da milioni di italiane e italiani, di girare il nostro Paese per raccontarne le bellezze artistiche, storiche, culturali e paesaggistiche, e le eccellenze enogastronomiche. Poi, naturalmente, la provincia: laboriosa, autentica e generosa; insomma quel Made in Italy apprezzato dappertutto. L’Italia è davvero il posto più bello del mondo. Quanto alla popolarità, penso che quando si riesce a raggiungerla debba essere messa al servizio degli altri, facendo quindi delle cose che possono essere utili agli altri. Io mi spendo in tante campagne per il sociale e credo che altrimenti non avrebbe senso essere popolare".

Che rapporto ha con il denaro?

"Ricordo che per pagare le bollette, mancando papà che manteneva la famiglia, abbiamo dovuto rompere il salvadanaio e quindi in generale cerco di fare attenzione. Quando si vivono momenti in cui è difficile mettere insieme il pranzo con la cena, si è portati a dare sicuramente valore al denaro. Del resto noi abbiamo sempre lavorato: anche da ragazzino, d’estate, andavo a lavorare, per guadagnare i soldi per poi comprare i libri per la scuola. L’infanzia come l’ho vissuta nella mia famiglia mi ha dato l’imprinting per dare un valore reale alle cose, non solo al denaro, ma alle cose importanti della vita in generale".

Il denaro dà la felicità?

"Ci sono stati momenti molto complicati, come accade nella vita di tutti noi. Poi facendo un lavoro molto particolare come il mio, non sempre si lavora, e dovendo occuparsi della famiglia, perché io ho mia madre cui badare, due sorelle, nove fra nipoti e pronipoti, insomma ci si deve occupare di tutta la famiglia, ed è in quei momenti che ti rendi conto del valore del denaro, anche se poi la cosa più importante in assoluto per me resta la salute, perché quando tu stai bene riesci a lavorare e puoi occuparti dei tuoi cari. Il denaro ha un valore relativo, perché poi tutti ci si può aiutare. In famiglia c’è un certo senso di solidarietà, che è fondamentale, che poi è alla base dell’economia italiana: non dimentichiamo il ruolo delle nonne e dei nonni, che riescono con le loro pensioni a sostenere tante famiglie".

Più generoso o parsimonioso?

"Direi più generoso, anche perché mi piace fare in modo che gli altri siano felici, mi piace godere della felicità altrui. E comunque credo di essere più generoso con gli altri che con me stesso".

Ricorda cosa ha fatto con i primi guadagni legati ad un contratto importante?

"In realtà ho sempre pensato a mettere dei soldi da parte per comprare casa, è stato quello il mio obiettivo primario".

Quali sono stati i suoi investimenti?

"In effetti non ho preso in considerazione nessun investimento in particolare, perché il mio obiettivo era appunto quello di comprare casa, e poi dovendo pagare un mutuo che mi avrebbe impegnato molti anni. Come tanti italiani l’investimento principale, alla fine è stato il classico 'mattone' ".

Se invece dovesse pensare ad altro tipo di investimento, quale sarebbe?

"Mi piacerebbe realizzare un piccolo agriturismo, magari in Puglia, recuperando dei trulli dove io occuperei una parte con i miei animali, i miei cani, il mio orto. Sarebbe un sogno molto bello da realizzare, un modo per vivere immerso nella natura, cercando di ricavarne anche un profitto".

Che cosa pensa delle Criptovalute?

"Devo dire che non conosco molto il mondo delle criptovalute, anche se ho cercato di approfondire l’argomento. Tutto ciò che non è tangibile, almeno per il mio carattere e il mio modo di essere, non lo trovo una forma di investimento che mi attrae, anche se sono in molti a ritenerlo interessante. Io non sono propenso, ma perché magari non amo il rischio".

Circa gli Nft, le opere d’arte virtuali?

"Direi che un’opera d’arte preferisco andarmela a vedere in un museo. Non è un genere di investimento che fa per me, anche se noto che sono in molti ad apprezzare questa forma di investimento, sicuramente per ragioni ben precise".

Shopping fisico o online?

"Fisico. Lo shopping online non mi interessa molto perché io sono per il contatto diretto. Anche nella scelta di un oggetto che devo regalare (o regalarmi), che sia un capo di abbigliamento o altro, preferisco toccare con le mie mani".

Bene rifugio?

"La casa. So di sembrare un po’ monotono e forse anche “antico” in questo, ma credo che infondo faccia parte di un certo retaggio culturale. E comunque non mi dispiace in questo caso di essere “antico”. Trovo bello portare avanti quelli che sono i valori della nostra terra, della nostra cultura. So però che tanti sono riusciti a diventare anche molto ricchi, investendo su vari fronti. Perché poi nel campo degli investimenti bisogna si ragionare, ma anche avere fiuto e saper riconoscere ciò che può poi portare un giusto ritorno economico. Ci sono grandi donne e grandi uomini, a capo oggi di importanti aziende o di multinazionali partiti dal nulla: esempi straordinari, ma si tratta appunto di menti con particolari peculiarità in questo campo".

Si considera soddisfatto rispetto alla sua situazione economica personale?

"Sono contento perché riesco a vivere e far vivere la mia famiglia in maniera serena. E questo è l’obiettivo che ho sempre avuto".

Estratto dell'articolo di Arcangelo Rociola per “La Stampa” giovedì 24 agosto 2023.

«Beppe Vessicchio ha indossato i panni del capo ribelle. La sua vittoria contro la Rai è un fatto storico. Ha avuto il coraggio che nessuno prima di lui ha avuto. Ora stanno emergendo altri di casi simili al suo. 15 artisti si sono già rivolti a noi». Sergio Cerruti non ha dubbi: la sentenza del Tribunale di Roma, che due settimane fa ha imposto alla Rai di riconoscere i diritti per le registrazioni delle musiche composte dal maestro, ha già scatenato un effetto domino. 

Cerruti, dal 2018 presidente dell'Afi, l'associazione dei fonografici italiani, è convinto che questa sentenza sia solo l'inizio: «Vessicchio ha avuto la forza di andare fino in fondo nella sua battaglia. La sua è anche una vittoria morale perché per vedersi riconosciuto un diritto è stato isolato dall'azienda, che per anni non lo ha più fatto lavorare. Il maestro si è messo a capo di una rivoluzione. E ha mosso un esercito di altri Beppe Vessicchio che ora sono pronti a reclamare i loro diritti». 

(...)

Perché la convinzione di Cerruti e Vessicchio ora è sostenuta da una sentenza: per decenni la Rai non ha riconosciuto a compositori e produttori tutti i diritti delle loro opere. Oltre al diritto d'autore - spiegano dall'Afi - una musica ha altri diritti che prendono vita una volta che viene diffusa, che remunera anche l'esecutore e il produttore. Diritti che riguardano la proprietà dei master, l'originale, la prima incisione di quanto è stato prodotto in sala. La Rai ha versato regolarmente il diritto d'autore, ma non avrebbe mai comprato i master, né pagato i diritti per trasmetterne le musiche. 

Vessicchio per anni ha chiesto che questi diritti venissero riconosciuti per le sigle de La prova del cuoco. La causa contro la Rai è arrivata davanti al diniego dell'azienda di riconoscere anche questi diritti connessi. 

«Il diritto connesso in Rai vale circa 20 euro al minuto. Difficile fare un calcolo, ma si tratta di riconoscere milioni agli artisti. Solo per Vessicchio siamo nell'ordine di centinaia di migliaia di euro, ma la stima esatta è così difficile da stabilire che lo stesso tribunale si affiderà a dei tecnici», spiega Cerruti.

(...) «La Rai ha perso il primo di tre gradi di giudizio. Può decidere di impugnare la sentenza. E se Vessicchio dovesse vincere anche appello e Cassazione, dovrebbe sborsare molti più soldi. Conviene? L'azienda mette già a bilancio 64 milioni l'anno in contese legali. Dopo la sentenza del 5 agosto la Rai è un leone ferito. Credo che la cosa migliore per tutti sia smettere di fare guerre e trovare un accordo col dialogo. Oggi a Viale Mazzini c'è una nuova dirigenza. Sarebbe meglio iniziare un nuovo corso e smetterla di usare il denaro dei contribuenti in cause e tribunali», conclude il presidente dei discografici.

Vessicchio vince la causa contro la Rai: “Verdetto storico per i diritti di tutti”. Il maestro d’orchestra racconta la sua lunga battaglia in tribunale: “Finalmente giustizia per me, ma anche una vera rivoluzione per l’equo compenso”. Il Dubbio il 16 agosto 2023

“Veder rimbalzare sui social la notizia della vittoria nella causa che ho intentato contro Rai e Rai Com, in maniera così virale, segnala quanto interesse (per me affettuoso) abbia suscitato questa vicenda. Ma per evitare letture suggestive o errate, ritengo opportuno rilasciare una mia dichiarazione sulla vicenda e sulla sentenza emessa dal Tribunale di Roma, della quale naturalmente, e non lo nascondo, sono molto contento”. Comincia così una lunga nota che il maestro d'orchestra Beppe Vessicchio ha affidato all'Agi per commentare e ricostruire il contenzioso con Viale Mazzini.

“Il verdetto emesso dalla Sez. XVII in materia di Impresa del Tribunale di Roma - scrive Vessicchio - al di là della personale soddisfazione, rappresenta una decisione importantissima per l'intera industria discografica. L'oggetto della valutazione del Tribunale di Roma, a differenza di quanto riportato da alcuni titoli giornalistici, non attiene ai diritti di ‘autore’ delle musiche da me composte e utilizzate nel programma La Prova del Cuoco, bensì ai ‘diritti connessi’, cioè quelli relativi alle registrazioni discografiche degli stessi brani che, come lo stesso Tribunale di Roma ha accertato, spettavano a me attraverso la mia società Ciaosette che ne è proprietaria esclusiva. Non ho mai ceduto a Rai Com (neppure quando la stessa si chiamava Rai Trade) la proprietà di quelle registrazioni, e ho sempre cercato, al contrario, il legittimo riconoscimento economico per gli utilizzi che ne effettuava Rai come emittente televisiva facendo riferimento al cosiddetto ‘equo compenso’, spettante per legge (come stabilito dall'art. 73 della Legge sul diritto d'autore) per metà al produttore fonografico e per l'altra metà agli artisti interpreti ed esecutori”.

“La sentenza, quindi, non solo ristabilisce la verità sui fatti accaduti e la legittimità dei diritti da me richiesti ma riafferma un principio fondamentale per tutto il settore e in particolare per i piccoli produttori musicali indipendenti: i proprietari delle registrazioni discografiche utilizzate nelle trasmissioni televisive (di Rai come di altre emittenti), hanno diritto a ricevere, unitamente agli artisti partecipanti alle registrazioni, l'equa remunerazione di legge anche se le registrazioni in questione risultassero utilizzate per la prima volta proprio nella specifica trasmissione, senza essere state in precedenza poste in commercio in modalità tradizionali (ad es. CD, streaming digitale etc.)”, si legge ancora nell'intervento del popolare direttore d'orchestra, volto noto della tv pubblica.

“Difatti alla mia richiesta di pagamento dei diritti, la contestazione opposta da Rai era proprio che le registrazioni delle mie musiche per "La Prova del Cuoco" non fossero state in precedenza poste in commercio. Nel mio caso però la verità era più complessa: quell'equo compenso a me spettante era stato in realtà già liquidato da Rai a favore di altro soggetto che, al mio posto, si era dichiarato (illegittimamente) proprietario delle registrazioni. Sapete chi? Rai Com, cioè la società interna che gestisce i diritti delle opere dell'ingegno appartenenti all'intero gruppo Rai. Ricapitolando: Rai da un lato negava che io avessi diritto all'equo compenso perché le mie registrazioni non erano state in precedenza commercializzate; dall'altro, contestando persino la mia proprietà delle registrazioni arbitrariamente attribuita a Rai Com (al tempo ancora denominata Rai Trade), liquidava quello stesso equo compenso a tale società, per le stesse registrazioni ritenute ‘non meritevoli’. Ciliegina sulla torta: poiché in qualità di artista avevo incassato parte di quell'equa remunerazione - pagata da Rai Com che aveva incassato il 100% -, RAI chiedeva che restituissi anche quelle somme (oltre al danno, la beffa), ritenendo fossero state pagate per errore, proprio perché quel diritto non esisteva. Per me no, per loro si, davvero incredibile”.

Prosegue la memoria del musicista: “Il Tribunale quindi, aderendo alla mia interpretazione della norma, ha accertato come RAI sia tenuta a pagare al sottoscritto l'equo compenso e, come artista interprete, io non debba restituire nulla, perché quelle somme mi erano dovute. Quindi finalmente giustizia per me, ma anche una vera rivoluzione per tutti coloro che, proprietari di registrazioni musicali utilizzate da Rai, si erano visti incredibilmente negare (non tutti in verità, altra torbida incongruenza) il riconoscimento di questo benedetto equo compenso. Preciso che si tratta di una sentenza parziale, poiché il Tribunale ha demandato a una consulenza tecnica d'ufficio, il compito di determinare il compenso che RAI dovrà liquidarmi e che dovrà essere calcolato sugli introiti incassati da RAI per il programma”.

“Tutto è bene quel che finisce bene? Si certo. Ma quello descritto è solo l'ultimo atto di un contenzioso lungo e preceduto da una fase stragiudiziale avviata già nel 2014. Il procedimento, infatti, è stato avviato solo nel dicembre 2018: ho quindi impiegato più di 4 anni per cercare, sempre con il dialogo, una via conciliante per il risanamento degli ammanchi che mi risultavano. Quando ebbi modo di confrontarmi con i dirigenti di Rai e Rai Com (trovatisi ad affrontare situazioni, in verità, generate in anni precedenti), mi veniva inizialmente risposto: ‘E' assurdo che sia potuto accadere’; oppure ‘Ogni maltolto sarà restituito’. Nonostante ciò, nulla si è mai mosso, e nel 2016 mi trovai costretto a contestare formalmente il mancato pagamento dei diritti connessi; dopo alcuni mesi di attesa, RAI mi rispose che non avevo diritto ad alcun pagamento, né fossi autorizzato a sfruttare le mie stesse registrazioni”.

“Fu allora - prosegue - che compresi che non avrei avuto altra scelta, se non quella di far causa alla Rai. E fu solo in quel momento che mi rivolsi al mio legale, l'Avv. Dario De Cicco, con il quale ho condiviso il percorso, le scelte e le strategie di questo difficile contenzioso così come condivido questo straordinario risultato”. “Per molti anni sono rimasto da solo, insieme ai miei legali, a dover fronteggiare le tesi (a mio avviso davvero incomprensibili) della RAI che negava, come ho detto, addirittura che io fossi il proprietario delle registrazioni. Udienze su udienze, rinvii su rinvii; poi la lunga pausa del Covid che ha dilatato molto i tempi di giustizia. Un periodo che mi ha portato non pochi dispiaceri, in primis non poter più lavorare in trasmissioni Rai (a meno che non transitassi tramite società in appalto che realizzavano per Rai: che ipocrisia): per motivi di opportunità, infatti, Rai non stipula contratti con soggetti in contenzioso con l'azienda. E per tali ragioni ho dovuto addirittura rinunciare alla co-conduzione di Sanremo 2019 propostami da Baglioni al fianco di Virginia Raffaele e Claudio Bisio”.

“Ma nel 2022, una parte dell'industria discografica decise di ascoltarmi. Si presentò da me l'indomito Sergio Cerruti, presidente dell'AFI, dicendomi di conoscere il mio caso e di volerlo sostenere con un intervento nel giudizio pendente, in adesione alla tesi giuridica sostenuta da me e dai miei avvocati. Grazie al sostegno - anche in dichiarazioni pubbliche - di Afi e del suo Presidente, cominciai a sentirmi meno solo: fondamentale è stato il lavoro di convincimento, graduale e costante (quasi ossessivo) nei confronti anche delle altre collecting rispetto alla fondatezza delle mie posizioni. Uno sforzo infine ripagato, visto che insieme ad Afi si univano ad adiuvandum nel giudizio altre collecting prestigiose come Audiocoop, Getsound, poi ancora Evolution e infine il Nuovo Imaie a tutela della parte artisti interpreti ed esecutori. Sino a quel momento nessuno si era schierato dalla mia parte, finalmente le cose erano cambiate”.

“E poi arriva, finalmente, questa incredibile sentenza: puntuale, precisa, completa (ben 39 pagine), oserei dire ineccepibile, frutto di un evidente approfondimento da parte del Collegio Giudicante chiamato a pronunciarsi su argomenti anche nuovi e di non semplice soluzione. Un provvedimento che non solo è conferma delle mie ragioni, ma che mi ripaga della fiducia che da sempre ripongo nella magistratura. Probabilmente la Rai, a seguito della sentenza definitiva (che dovrebbe arrivare nel 2024) proporrà appello: è un loro diritto. Ma come ho detto, ora mi sento meno solo. Ho dalla mia notevoli forze. Prima tra tutte l'essere convinto fermamente delle mie ragioni: in tanti mi avevano invitato a ‘lasciar perdere’, ma io anche nei momenti più difficili ci ho creduto, sostenuto prima di tutto da mia moglie e dalla mia famiglia. Ho dalla mia parte la professionalità e la competenza del mio avvocato, Dario De Cicco, e di tutto il mio staff legale che mi ha supportato in questi anni, sia nelle aule di tribunale che fuori; le associazioni di categoria, prima tra tutte l'AFI e il presidente Cerruti, che sono certo ritroverei al mio fianco anche per eventuali fasi successive del giudizio”. 

“Quello che però mi auguro più di ogni cosa - conclude Vessicchio - è che la Rai possa fare tesoro di quanto disposto con la sentenza del Tribunale di Roma, per porre rimedio a una situazione generalizzata che ha colpito me, e come me, tanti altri compositori-produttori meno conosciuti dal pubblico, vittime di pratiche da troppo tempo diffuse. Ecco, quello che vorrei è che questa sentenza inducesse la Rai a rispettare i diritti di quelle persone che hanno meno voce di me per fronteggiare entità così potenti; solo allora potrò dire che i miei sforzi saranno serviti a qualcosa. Solo in questo modo i miei colleghi, che ringrazio per i messaggi di solidarietà, potranno realmente beneficiare di questo verdetto maturato con fatica attraverso un contenzioso annoso e oneroso”.

"Si usa il pop come amo: funziona se abboccano. Sanremo? Baglioni mi voleva, la Rai disse no". Intervista al maestro Peppe Vessicchio: "In gara a Castrocaro molti talenti. Orta lavoro alla colonna sonora di Bille August". Paolo Giordano il 5 Agosto 2023 su Il Giornale.

Ascolta ora: ""Si usa il pop come amo: funziona se abboccano. Sanremo? Baglioni mi voleva, la Rai disse no""

Sanremo sì, Sanremo no?

«E chi lo sa se dirigerò al Festival anche nella prossima edizione».

Da che cosa dipende, caro maestro?

«Dipende da chi ci va. Se è un amico mi chiama, altrimenti no. Ad esempio Mario Biondi mi chiamerebbe».

Quindi Biondi sarà in gara?

«Ma no, non so nulla, ho fatto solo un esempio».

Giuseppe detto Peppe ha 67 anni, tutti gli italiani lo conoscono come «dirige l`orchestra il maestro Vessicchio» ma per gli artisti è un punto di riferimento da molti decenni, mica solo Sanremo. Napoletano pieno di ironia napoletana, coltissimo di una cultura che non esibisce, Vessicchio vive «nell`Antica Sabina tra Rieti e Terni» e ha appena presieduto la giuria del Festival di Castrocaro, che il 22 settembre sceglierà il vincitore tra i dieci finalisti (conduce un altro napoletano doc: Clementino). «I ragazzi vogliono colpirti al primo colpo con verbi, ripetizioni, cacofonie varie. Nel complesso c`è gente di talento ma, come capita adesso, non approfondisce. Anche Lucio Battisti scriveva musica magari di getto. Ma poi ci rifletteva su sei mesi prima di pubblicarla. Ora no».

Ora?

«Ora si pubblicala canzone come se fosse un amo. Se qualcuno abbocca, allora si inizia ad approfondire».

Risultato?

«L`asticella non si alza mai. E gli artisti si sentono poco invogliati ad alzarla».

Fuori i nomi.

«Prenda Lazza. Ha capito una formula e la sa fare bene. Dentro di sé è molto di più, solo che non è incentivato. Anche Salmo è uno che musicalmente secondo me è molto di più di quel che si sente. J-Ax invece è uno che viene dalla gavetta ed è migliorato molto».

E Sanremo?

«Si è adeguato, in questa fase mette poco alla prova gli artisti».

Mai pensato di diventare conduttore?

«Ci aveva pensato Claudio Baglioni all`epoca di Claudio Bisio e Virginia Raffaele. Aveva pensato un ruolo per me e anche il vicedirettore Fasulo era d`accordo».

Poi?

«Lo bloccò l`ufficio scritture della Rai. C`è un procedimento che mi riguarda per una questione di diritti connessi. Non s`è più fatto niente. Al momento non posso ancora avere contratti con Rai (ieri il Tribunale di Roma gli ha dato ragione, ma è solo il promo round - ndr). Visto quanto in media durano processi e appelli in Italia, penso che la mia storia con la Rai sia finita».

Allora niente Festival.

«Ma no, quella è un`altra cosa. Lì ti chiamano i cantanti o le casa discografiche, mica Viale Mazzini».

Anche a Sanremo si usa l`autotune. Ha seguito la polemica Bersani-Sfera?

«L`autotune è come il T9, è comodo ma non aiuta lo stile. Diciamo che allarga la possibilità di partecipare (fa cantare tutti - ndr), ma è una maschera. Io credo che il suono della propria voce sia inalienabile, è un elemento della nostra identità».

A proposito di identità: com`è Peppe Vessicchio senza barba?

«E che ne so? Non la taglio da quando avevo 16 o 17 anni. Avevo una produzione pilifera spaventosa e non avevo voglia di stare dietro alla barba che cresceva ogni giorno a dismisura».

Neanche a militare?

«Ero terrorizzato all`idea, ma fui esonerato e non ci andai. Oggi se mi tagliassi la barba, non mi riconoscerebbero neanche mia moglie e i miei figli».

Lei si riconosce nel film Giggi il bullo del 1982?

«Con Alvaro Vitali. Esperienza drammatica, c`era un casino come sempre sul set, a me cascavano pure i pantaloni e c`è una scena in cui si vede che me li tengo su. Mi toccò il ruolo del beccamorto, non proprio il massimo».

Era nel gruppo comico Trettrè.

«Sì ma poco dopo li lasciai perché avevo iniziato a lavorare con Gino Paoli e al mio posto arrivò Gino Cogliandro. Mi sentivo in colpa, poi per fortuna ebbero successo a Drive In...».

Vessicchio ora?

«Ho riallacciato i rapporti con la musica colta, alla Scala i solisti hanno suonato una mia composizione. Poi sto lavorando alla colonna sonora del film di Bille August, premio Oscar e due volte Palma d`Oro a Cannes. E continuo a studiare la polifonia in acqua».

Prego?

«Le frequenze acute passano in acqua più velocemente di quelle gravi. Uno studio che aiuta a capire cosa succede nell`aria e con il nostro corpo. La musica non dialoga solo con il cervello, potrebbe farlo anche direttamente con le nostre cellule».

Spesso la musica popolare oggi si ferma alla superficie.

«I giovani hanno pochi stimoli a migliorare. Prenda Pino Daniele, era chitarrista, poi 'Na tazzulella 'e cafè l`ha fatto diventare popolare in radio, poi è cresciuto ancora, non si è mai fermato. Oggi si cerca l`attimo, se c`è. Altrimenti ciao». Paolo Giordano

Estratto da open.online il 5 Agosto 2023. 

[…] Beppe Vessicchio vince la causa contro la Rai per vedersi riconosciuti i diritti di utilizzo di musiche da lui composte e interpretate per il programma tv La Prova del Cuoco. 

La sentenza, pronunciata ieri dal Tribunale di Roma viene definita «un verdetto storico per il futuro e la tutela dei diritti di produttori musicali e artisti interpreti esecutori» dal Nuovo Imaie, l’istituto mutualistico per gli artisti.

Il musicista […] litigava per i cosiddetti diritti connessi.  Ovvero quelli che scattano a favore del produttore e dell’interprete quando si diffonde la registrazione di un brano. Vessicchio aveva chiesto il pagamento ma la tv pubblica non gliel’aveva accordato. E per colpa del contenzioso legale il maestro non aveva potuto partecipare al Festival come direttore d’orchestra.

Striscia la Notizia ad alzo zero, Rai ko: "Fuori i soldi per Beppe Vessicchio”. Libero Quotidiano il 05 agosto 2023

Beppe Vessicchio non aveva più lavorato in Rai dopo il contenzioso che aveva aperto con i vertici di viale Mazzini, ma alla fine ha avuto ragione lui. Striscia la Notizia ha seguito l’intera vicenda passo per passo tramite le inchieste di Pinuccio. Partiamo dalla fine: Vessicchio ha vinto la causa contro la Rai, ciò significa che gli verranno riconosciuti i diritti per i brani usati per La Prova del Cuoco. 

Striscia si è occupata in diverse occasioni del caso della Rai che non paga i diritti connessi ai musicisti: “Si tratta dei diritti che tutelano chi offre l’opera alla fruizione del pubblico - si legge sul sito del tg satirico di Canale 5 - cioè principalmente gli interpreti e i produttori e arrangiatori, come in questo caso Vessicchio. In questo servizio del 20 aprile, lo stesso maestro d’orchestra ha raccontato che dopo aver denunciato la Rai quest’ultima non l’ha più chiamato per lavorare nei suoi programmi”.  

Grande soddisfazione per la sentenza che dà ragione a Vessicchio da parte dell’Imaie, l’istituto mutualistico per la tutela degli artisti: “È un verdetto storico per il futuro e la tutela dei diritti di produttori musicali e artisti, interpreti, esecutori. La sentenza ha ribadito con chiarezza che anche per questo tipo di utilizzazioni è doveroso da parte dell’emittente il pagamento dei diritti che spettano ai produttori di registrazioni e agli artisti interpreti esecutori”. 

Estratto da fanpage.it il 9 giugno 2023.  

Beppe Vessicchio è stato ospite della puntata del 3 giugno di Verissimo. Nel salotto di Silvia Toffanin, il direttore d'Orchestra più famoso d'Italia ha parlato anche della sua vita privata 

(...) 

Oggi Beppe Vessicchio è felicemente bisnonno e vive in una famiglia tutta al femminile: la moglie Enrica, la figlia Angelica, mamma di Teresa che, a sua volta, ha avuto due bambine. Il direttore d'Orchestra ha descritto così la sua esperienza da nonno: "È una cosa particolarissima, auguro a tutti di arrivare perché è una seconda paternità in effetti, con un grado di maturità diversa. Non è facile stare tra tutte queste donne, hanno i loro codici"

Per chi Beppe Vessicchio taglierebbe la barba

Per Vessicchio, la barba è diventata un vero e proprio tratto distintivo, tanto che persino le donne della sua vita non l'hanno mia visto senza. In studio, Silvia Toffanin ha mostrato al pubblico una rara foto del direttore d'Orchestra durante l'adolescenza, a 17 anni, quando ancora non l'aveva. La moglie Enrica, invece, l'ha conosciuto già con la barba: "Non mi conosce senza, quindi evitiamo traumi. C'è stato un momento in cui presentarmi a casa senza barba, mi avrebbero visto come un estraneo". Tuttavia, il direttore d'Orchestra ha confessato che se fossero le sue nipotine a chiederglielo, allora cederebbe: "Lo farei, certo poi dovrei chiudermi in casa per un pò…"

Beppe Vessicchio, bufera sulla Rai: "Perché non mi fa più lavorare". Daniele Priori su Libero Quotidiano il 27 aprile 2023

Il maestro Beppe Vessicchio esiliato di fatto dalla Rai per un contenzioso legale in corso su diritti non pagati al maestro, è una notizia che scotta. A Sanremo, però, potremmo comunque rivederlo e questo ci tranquillizza. «In quel caso l’agibilità ai direttori la fanno le case discografiche. Sono andato anche quest’anno, gratuitamente, a dirigere il duetto Grignani-Arisa. Quello era un tributo a un amico e al suo progetto, oltre al fatto che frutta- va pure 25 punti al Fantasanremo!». Sorride Vessicchio, da anni ormai anche idolo sui social. Venerdì mattina al Lucca Classica Music Festival sarà l’ospite d’onore in un contesto aperto agli studenti del conservatorio.

Maestro, ci racconti anzitutto del contenzioso con la Rai: ci mette tristezza.

«Dispiace anche me il fatto che questo problema sia capitato proprio con la Rai che è un’azienda di Stato. Sono quasi dieci anni che lotto per vedere riconosciuti dei diritti su alcuni materiali di mia proprietà, dei nastri con musiche suonate da musicisti che ho ingaggiato e pagato io e per i quali mi sono accorto che la Rai non mi ha mai pagato. Ho fatto di tutto pur di non aprire il contenzioso.

Sono andato a bussare di persona perché l’ufficio legale non rispondeva nemmeno alle raccomandate ma ho trovato un muro di gomma.

Questa è la realtà». 

Ma sono tanti o pochi questi soldi?

«Tanti o pochi lo deciderà la perizia. Ma più della quantità deve pensare che adesso per il contenzioso in corso l’ufficio scritture blocca le mie eventuali richieste di assunzione da parte di programmi prodotti dalla Rai. Fortunatamente non vivo solo del lavoro con la Rai. La musica mi interessa a 360 gradi e ho tante possibilità. Se vivessi solo di quello sarebbe drammatico».

Ha tenuto a battesimo anche le prime edizioni di Amici. Negli ultimi anni di immensi successi ha riparlato con Maria De Filippi, le piacerebbe tornare da quelle parti?

«Il programma una volta aveva un’orchestra che accompagnava i ragazzi. Siamo arrivati a fare una finale all’Arena di Verona. Annidi lavoro bellissimo e intenso, apoteosi di un meccanismo che prevedeva l’utilizzo di musicisti. Il programma poi ha cambiato pelle. Gran parte dei materiali che usano oggi sono prodotti dagli stessi ragazzi. La musica pop di oggi è casalinga, popolare nel vero senso della parola cioè prodotta in casa con sequenze e plug-in. La creatività è diventata in un certo senso molto più democratica...».

Eh ma allora ha ragione Renato Zero quando canta: «Le chitarre tacciono e il computer va». Non è poi così bello...

«È vero soprattutto per chi le chitarre le suona! Però è anche vero che non dobbiamo dimenticare che siamo in un’era in cui anche la pandemia ha rafforzato il concetto di capacità autonome. Possiamo dire che l’isolamento ha trovato la sua via di realizzazione. Detto ciò mi auguro che le persone si incontrino. La musica d’insieme resta il grande valore».

Il Festival di Amadeus le piace?

«Conosco Amadeus dagli Anni 90 quando facemmo Grease con la Cuccarini e Mal in teatro.

Apprezzo molto il suo lavoro. Il Festival di Sanremo è un programma tv. Se il programma va bene, lui ha fatto quello che è preposto a fare. In questo momento per avere un uditorio largo bisogna invitare quei personaggi e la tipologia di musica cui quel mondo si sente più vicino».

Baudo è stato il direttore artistico con cui ha lavorato di più...

«A tutti quelli che si sono avvicendati ho sempre detto che Baudo resta l’esempio, non solo per le scelte ma per la passione che dedicava al Festival. Ho visto Pippo spostare da solo le fioriere all’Ariston per far capire quanto ci tenesse. Era presente fin dalle prime letture delle musiche. Pensi che a Bocelli fece cambiare il finale di Con te partirò. Sul disco è rimasto il finale di Pippo!».

Lei stesso però ha vinto con brani e personaggi non scontati: dagli Avion Travel a Alexia che veniva dalla disco, Scanu dai talent...

«Ho riascoltato Sentimento da poco e mi sono meravigliato io stesso. Aggiunga 3, Cammariere che per ¡ me è un vittorioso. Tutto quello che un uomo mi è rimasta come Stefano Di Battista con Nicky Nicolai. Al di là della vittoria è il tempo a dirci quello che rimane davvero...».

L’artista che più le è rimasto nel cuore?

«Ho un ricordo estremamente tenero della vittoria di Vecchioni con Chiamami ancora amore: ha rovesciato qualsiasi tipo di pronostico con una canzone bella, semplice, non scontata».

Il giovane con cui collaborerebbe?

«Ce ne sono di estremamente affascinanti. Madame ha un mondo assolutamente suo. Mr.Rain mi diverte guardarlo. Perché sembra un gigante buono contornato dai bambini. Mi piacerebbe lavorare con lui».

Estratto dell’articolo di Luca Dondoni per “La Stampa” il 22 gennaio 2023.

[…]  Dopo anni in cui occupava il minutaggio del festival quasi più dei presentatori, quest'anno Vessicchio (Beppe o Peppe, ma lui, napoletano, si firma "Peppe") non dirigerà nessuno. «Non ci sarò, dichiaro ufficialmente che non ho nessuna direzione in gara per nessuno degli artisti in gara né nei giovani né nei big. Successe già nel 2016, l'anno dell'accoppiata Carlo Conti/Maria De Filippi ma l'anno scorso ho compiuto ventisei presenze come direttore e posso fare delle pause».

Non ci sarà, ma ci sarà comunque: Italians do Hits better è il format di Amazon Music che celebra la musica sanremese in compagnia degli artisti in gara al Festival e due maestri di cerimonia inaspettati: il primo è appunto l'ormai iconico Beppe Vessicchio, l'altro è Shinhai Ventura, conosciuto nella bolla dei creator da social e super TikToker. Vessicchio incontrerà e intervisterà i cantanti in gara all'interno di un classico set da talk e queste chiacchierate saranno ospitate sui social di Amazon Music.

[...]«I cantanti si racconteranno a me e io racconterò a loro il festival che ho vissuto con gli aneddoti e ricordi dei miei momenti più speciali. Inoltre, ho curato personalmente la playlist "Dirige l'orchestra il maestro Vessicchio" che sarà disponibile su Amazon Music».

 Di ventotto artisti nessuno l'ha contattata? Sembra irreale.

«Non frequento più il mondo della produzione discografica e non è capitato. L'anno scorso ero con Le Vibrazioni anche perché con Francesco Sarcina c'è un legame di lunga data, così come il feeling e la stima che ho con Elio e le Storie Tese, ma no, quest'anno non è capitato».

[…] Ma veniamo agli aneddoti che la riguardano e che promette di raccontare. C'è qualche ricordo che le è più caro di questa lunga "militanza" sanremese?

«E secondo lei i miei ricordi più cari a che cosa possono essere legati se non agli Elii? Ogni esibizione è stata un parto, ogni gag studiata momento per momento e quello che succedeva sul palco dell'Ariston diventava (e non c'erano i social) immediatamente virale.

 Dal mio palchetto di maestro d'orchestra vedevo tutto ma soprattutto vedevo le facce dei miei musicisti sgranare gli occhi. Emozioni difficilmente ripetibili».

 Si ricorda la prima volta a Sanremo?

«Fu nel '90 quando a causa delle modifiche per il restauro e l'ampliamento del Teatro Ariston il festival si spostò al Palafiori e diressi Mia Martini con La nevicata del '56, che conquistò il premio della critica e Mango con Tu...sì. Pensandoci mi vengono i brividi perché di anno in anno quel ricordo prende sempre più forza e le esibizioni di quei magnifici artisti un regalo della vita».

 Dopo tutti questi anni di festival, può rivelare qual è il presentatore che ha apprezzato di più?

«Raimondo Vianello e non ho dubbi. Per l'amor di Dio, Pippo Baudo è sul piedistallo perché provo grande stima, ma Raimondo Vianello ha presentato un festival dove ho diretto più artisti. […] Ricordo che la prima sera Raimondo mi guardò e disse: …ancora lei? […]

"Posso fare delle pause". Vessicchio non sarà a Sanremo. Il celebre maestro non sarà direttore d'orchestra al prossimo Festival: "Ho compiuto 26 presenze, quest'anno non è capitato". Ma avrà comunque una veste nuova. Luca Sablone il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

"Dirige l'orchestra il maestro Beppe Vessicchio". La famosissima frase non verrà pronunciata in occasione del prossimo Festival di Sanremo, che non vedrà la presenza del direttore d'orchestra per i cantanti in gara. Ad annunciare la mancata partecipazione alla kermesse canora è stato lo stesso Vessicchio che, nell'intervista rilasciata a La Stampa, ha confermato l'assenza nella 73esima edizione del Festival della musica italiana. Avrà comunque a che fare con l'atteso appuntamento, anche se indosserà un abito del tutto nuovo rispetto al passato.

Vessicchio assente a Sanremo 2023

Lo storico direttore d'orchestra ha fatto sapere in via ufficiale che non sarà a Sanremo 2023: non avrà alcuna direzione per nessuno degli artisti, né tra i big né tra coloro che provengono dalla sezione giovani. "Successe già nel 2016, l'anno dell'accoppiata Carlo Conti-Maria De Filippi ma l'anno scorso ho compiuto 26 presenze come direttore e posso fare delle pause", ha dichiarato il maestro.

Vessicchio ha annotato che ormai non frequenta più il mondo della produzione discografica e che "non è capitato". Lo scorso anno ha vantato la presenza con Le Vibrazioni, anche perché con Francesco Sarcina (cantautore del gruppo) "c'è un legame di lunga data". "Così come il feeling e la stima che ho con Elio e le Storie Tese, ma no, quest'anno non è capitato", ha aggiunto.

Una nuova esperienza

Tuttavia per il maestro ci sarà un'esperienza che, anche se non lo vedrà protagonista come direttore d'orchestra, riguarderà proprio Sanremo. Infatti la sua assenza sarà compensata con una novità: poserà la bacchetta e prenderà in mano il microfono come intervistatore per un podcast che si potrà ascoltare durante la settimana del Festival e che sarà ospitato sui social di Amazon Music. Al centro ci saranno racconti e retroscena: "I cantanti si racconteranno a me e io racconterò a loro il Festival che ho vissuto con gli aneddoti e ricordi dei miei momenti più speciali".

La nuova avventura sarà fatta di parole piuttosto che di note. Il tutto si muoverà su un binario ben preciso: offrire agli utenti sul web ulteriori interpretazioni e punti di vista dei brani in gara. "Mi è arrivata la proposta di fare una chiacchierata con tutti i partecipanti e cercare di analizzare le loro canzoni. Mi è sembrata una cosa interessante poiché quando accompagni da maestro d'orchestra uno, due, tre, quattro artisti (come a volte mi è successo) sei legato agli orari, agli entourage e difficilmente ti capita di scambiare opinioni con altri", ha spiegato.

Biagio Antonacci: «Pausini e Ramazzotti i miei amici veri. Ho avuto un grande senso di colpa legato ai miei figli dopo che mi lasciai con Marianna Morandi». Renato Franco su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

Il cantautore: «Ero geometra, spiavo Ramazzotti dalla finestra» 

«La più grande soddisfazione della mia vita è stata quando ho visto mio padre parcheggiare la macchina in un garage vero, nel box sotto casa: mi sono sentito Springsteen. Ho pensato: ma allora sono un figo anche io». Biagio Antonacci è cresciuto a Rozzano, periferia mica semplice di Milano, posto (anche, non solo) da cronaca nera, sparatorie e risse, baby gang e spaccio, che l’hanno fatta salire al rango di Rozzangeles. È cresciuto in un quartiere popolare e con il successo «la prima cosa che ho fatto è stata comprare casa ai miei genitori, una villetta a schiera, fuori dal quartiere con i palazzoni dove sono nato».

Il garage come riscatto sociale...

«Era uno choc parcheggiare nei quartieri popolari, c’era tutta una strategia perché il parcheggio era una costruzione architettonica fantasiosa: bisognava spostare le altre auto a mano, far uscire quello a lisca di pesce, d’inverno poi spesso le macchine non partivano e c’erano i cavi in comune, la batteria per tutti. Quando ho visto mio padre nel box ero felicissimo».

Che infanzia è stata la sua?

«La vita era in cortile, ma i sogni erano più grandi dei palazzi, più potenti di quello che ci circondava. Io non volevo diventare un cantante, sognavo di fare il batterista. Compravo cassette pirata alla fiera di Sinigaglia, lì c’erano i nostri spacciatori di sogni, nel quartiere invece gli spacciatori di tutt’altro. Io sapevo che la musica sarebbe stata la mia grande salvezza e il mio grande rifugio. Il rifugio dalla timidezza e dall’incomprensione, perché la musica è la protezione da qualcosa che non potrei affrontare da solo se non scrivessi canzoni».

Timido lei? Uno che sta sul palco davanti a migliaia di persone?

«Ogni musicista è vittima di una personalità che riesce a esprimere solo attraverso la musica, un cantautore è di base uno che ha delle timidezze, dei lati irrisolti della vita. Vasco mi diceva che faceva rock perché aveva paura di cantare una ballad. Io suonavo la batteria, alzavo il volume e me ne fregavo della timidezza».

Da chi ha ereditato questa passione?

«Sono autodidatta, mai studiato musica. Fino a 10 anni ascoltavo solo Julio Iglesias in tutte le lingue. Era geniale, mi sono innamorato di lui, aveva una voce che portava serenità in famiglia: quando sentivo i miei che litigavano, gridavano e discutevano, io mettevo le sue canzoni e tutto finiva».

Gli spacciatori di tutt’altro non sono mai stati una tentazione?

«Avevo un padre che mi terrorizzava, mi metteva ansia solo all’idea di avvicinarmi alle droghe. Avevo 15 anni e c’erano quelli che si facevano le canne, giravano le prime metanfetamine, era pieno di eroinomani, spuntavano i primi casi di Aids. Per l’Aids ho perso due amici. Ad Adriano ho dedicato una canzone, Dove il cielo è più sereno».

I suoi l’hanno ostacolata?

«No. Quando ero ragazzino erano contenti perché la musica mi portava via dall’attrazione per la delinquenza diffusa che mi circondava. A 19 anni mi sono messo a cercare lavoro come geometra. Dissi loro: non voglio un lira da voi, ma non ostacolate il mio sogno. Per nove anni ho fatto il doppio lavoro: il geometra in cantiere e nel frattempo i dischi. I primi due passarono sotto silenzio, poi nel 1992 ho avuto successo con Liberatemi. Il mio capo, mi chiamava Biagioski, mi disse: lascia il lavoro e continua come artista, che guadagni di più. Io ero sicuro che sarebbe finito tutto, lui mi rispose: tu provaci e in caso un domani ne riparliamo».

Cosa ricorda con piacere e con terrore di quegli anni di doppio lavoro?

«Con terrore ricordo i no dalle discografiche, giravo con queste cassette che proponevo a tutti, ricordo la paura e la fatica. Come geometra guadagnavo un milione e due al mese e pregavo per guadagnare la stessa cifra ma con la musica. Non pensavo al successo, a diventare famoso, pensavo solo a fare quello che mi piaceva, a vivere con il mio sogno».

Pregava?

«Ho pregato due volte veramente in vita mia. Quando mia mamma era incinta e aspettava mio fratello Graziano; aveva avuto la rosolia e si pensava potesse nascere con delle complicazioni. La seconda volta di fronte a una Madonnina tra Rozzano e Binasco. La guardavo e chiedevo: fammi vivere di musica».

Crede in Dio?

«Come tanti, a modo mio. Non credo in tutta la fantasia e alle sproporzioni della narrazione cattolica, ma credo in un Dio creatore».

La prima svolta è stata come «stalker» di Ron.

«Facevo il servizio di leva come carabiniere e fui mandato a Garlasco dove sapevo che viveva Ron. Un giorno lo vidi in macchina e lo fermammo con il mio collega che gli spiegò che io volevo fare il cantante. Ron mi disse di portare le mie canzoni a sua madre e io mi presentai da lei, a casa Cellamare, con la cassetta e un mazzo di fiori perché mio padre mi ha sempre insegnato che se ti presenti da qualche parte non devi andarci mai a mani vuote. Ron mi chiamò, mi disse che avevo talento e produsse il mio primo album».

I primi live li fece proprio con Ron.

«Suonavo due canzoni in apertura dei suoi concerti: mi tiravano monetine, sassi, bottiglie vuote perché il pubblico voleva lui sul palco. Sono stati anni bellissimi. Bella la gavetta, ormai una parola estinta. Arrivavi alle cose con un percorso; anche per l’amore, per le conquiste, per le ragazze, era così; era un viaggio».

Il rischio del successo è l’ipertrofia dell’ego: ci è cascato?

«Quando la gente ti ferma per strada, quando le ragazze piangono al solo vederti, diventa tutto assurdo. Per tre/quattro anni ho faticato a contenere l’ego, ho avuto la tentazione di pensare di esser il migliore. Mi ero montato la testa, ero stronzo con me stesso, mi sentivo superiore, sentivo che qualcuno dovesse restituirmi quello che non avevo avuto durante la gavetta, ma era una grande cazzata. Poi con la paternità e la famiglia, torni a camminare con i piedi per terra».

Non aiuta avere gente intorno che dice sempre sì, che compiace...

«Sì. C’è tanta gente che ti lecca il culo, ma vale anche per i parenti. Quando diventi famoso tutti si fanno vivi, sei più simpatico a tutti».

Chi sono i suoi amici veri nel mondo della musica?

«Laura Pausini. Non solo perché è la voce che ha cambiato come autore la mia carriera, mi ha aperto all’estero grazie a brani come Vivimi e Tra te e il mare. È l’unica donna amica tra gli artisti, con lei vado anche in vacanza, è una a cui piace divertirsi».

Solo lei?

«Il mio amico maschio è Eros Ramazzotti. Siamo simili. È nato nel ‘63 come me, viene dai borghi di periferia come me. La vita poi ha coincidenze assurde. Lavoravo come geometra e l’ufficio era in corso di Porta Vittoria, Ramazzotti aveva l’avvocato lì, nello stesso palazzo, era già una star. Un giorno lo vidi arrivare, lo spiavo dalla finestra, ma non ebbi il coraggio di dirgli che il mio sogno era la musica. Lo vedevo spavaldo ma umile, in Ferrari ma disponibile con tutti. Sempre lì, al 54, Alberto Fortis aveva lo zio dentista. Gli portai una mia cassetta, disse che ero bravo ma finì lì. Anni dopo, quando ci siamo rivisti, si ricordava ancora il titolo della mia canzone. Incredibile».

Cos’è la musica per lei?

«Sul palco mi sento libero e sono liberi anche i fan. Ho visto donne, ma anche uomini, desiderosi di incontrarmi, abbracciarmi e baciarmi, ho un rapporto molto epidermico con i miei fan. Anche se non sanno ballare, ballano; anche se non sanno cantare, cantano. E io uguale. Non so ballare, e ballo. Canto per quello che mi serve, non mi interessa essere riconosciuto come un bravo cantante, non ho quell’ambizione, io canto e scrivo canzoni mie. Funziona».

Come l’ha presa «Vorrei cantare come Biagio» di Cristicchi?

«All’epoca lui faceva pianobar e venne a chiedermi il permesso a un concerto a Roma. Gli dissi: se vai sul palco stasera davanti a ottomila persone potrai farla. Da quel momento non ho più sentito da parte sua un gesto carino, per una canzone che è tuttora il suo piu grande successo. Io vivo di gesti, di empatia umana, il riconoscimento che sta in una parola: uno deve dire grazie sempre. Io poi esagero, dico sempre grazie a chiunque, anche a sproposito».

Con il Festival di Sanremo ha avuto un rapporto deludente...

«Una parte di me dice: fa’ una canzone bella e vai. Un’altra dice: lascia stare, devi essere giudicato, entri in una classifica... Fino a poco tempo fa non avevo dubbi: non sarei mai andato in gara. Oggi, con il lavoro di Amadeus, ti viene voglia di fare un tuffo anche se l’acqua è fredda. È il giudizio mediatico che mi frena. Ai tuoi concerti puoi anche essere al 75% e la sfanghi; lì hai 4 minuti in cui devi essere perfetto. O al massimo un imperfetto figo. Se sei il boomer imperfetto fai una figura di merda».

Che rapporto ha con i sensi di colpa?

«Un dramma. L’educazione cattolica ha rovinato la genuinità dell’essere umano, abbiamo abbandonato l’istinto. Il senso di colpa non ti fa mai sentire libero, stai sempre a chiederti: mi merito questa libertà? Bisogna essere liberi, tornare nella foresta, camminare per cercare cibo, amore, cercare la verità. Il senso di colpa ti toglie tutto questo».

Il suo più grande senso di colpa?

«Quando ho deciso di non vivere più nella stessa casa con la madre dei miei primi due figli (Marianna Morandi, figlia di Gianni, ndr). Provavo un grande senso di colpa per i figli. A volte chi rimane male non rema a favore, ma poi il tempo vince, l’amore vince».

Biagio Antonacci al Forum di Milano. «Mio figlio mi controlla i post. La chitarra? Cambio le corde guardando i tutorial». Raffaella Oliva su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.

Doppio concerto, tutto su biglietti e scaletta. «La gavetta? Da geometra e suonavo dopo i cantieri. Se le fan mi toccano sono felice». Il figlio Paolo è autore di successi di Fedez e Tananai: «Mi consulto con lui»

Il palco al centro del palazzetto, il pubblico tutt’intorno. Biagio Antonacci parla di «inclusività» nel raccontare i concerti che stasera, 19 dicembre, e domani lo porteranno al Forum di Assago: «Sarò in mezzo ai fan per condividere con tutti la gioia del ritorno ai live», spiega il cantautore milanese, 59 anni. «Il palco centrale è come il fuoco nei rituali antichi, l’ho voluto perché sentivo il bisogno di dare energia agli spettatori e di riceverla da loro a mia volta».

Ha detto di aver sofferto di attacchi d’ansia negli scorsi due anni: come ne è uscito? 

«Tra le altre cose mi sono dedicato alle mie chitarre. Non suono bene la chitarra, mi accompagno, ma amo lo strumento, così mi sono comprato un kit online e seguendo dei tutorial su YouTube mi sono messo a cambiare le corde, a fare manutenzione. Una liuteria spiccia, che mi ha aiutato a rilassarmi».

In queste date milanesi canterà più di 30 brani, dai recenti singoli «Seria» e «Telenovela» a «Liberatemi», l’hit che la portò alla ribalta nel ’92. 

«Un pezzo pop rock che mi ha cambiato la vita: dopo due dischi andati così così il mio contratto discografico era in scadenza, avevo un’ultima chance. Capii di avercela fatta quando, invitato a un evento contro la droga in un palasport a Roma, mi chiamarono sul palco dopo artisti come Luca Barbarossa, Ruggeri e Renato Zero e sentii il boato del pubblico. Non riuscivo a crederci, sapevo che la canzone passava in radio, ma chi se l’aspettava di vedere tutta quella gente cantare con me?». 

Cosa ricorda della gavetta? 

«La nebbia. Per 10 anni ho fatto il geometra, la mattina alle 7.30 ero in cantiere con i muratori, la sera facevo il piano bar alla Budineria e in Brera a Milano, oltre che a Pavia. Una gavetta pazzesca, fatta di attese fuori dalle case discografiche con le cassette nella speranza di incrociare un direttore artistico». 

Il primo a credere in lei è stato Ron. 

«Ron è stato il mio primo produttore dopo che, nel 1988, fui eliminato a Sanremo tra le Nuove Proposte. Ma sono stati importanti anche Gaetano Curreri degli Stadio e Lucio Dalla, che mi volle con sé nel tour di “Cambio” del ’91: un mito, pochi sono riusciti a fare pop in modo sperimentale come lui».

Suo figlio Paolo, 27 anni, è tra gli autori di hit quali «La dolce vita» di Fedez, Tananai e Mara Sattei e «Sesso occasionale» dello stesso Tananai. 

«Infatti ho il terrore, ogni post che faccio sui social deve prima passare da lui e da Giovanni, l’altro mio figlio 21enne! Sono cambiate tante cose, oggi si parla di molestie se Blanco viene palpeggiato durante un concerto, io quando ero sul palco e le ragazze volevano toccarmi ero felice».

Cosa pensa della guerra in Ucraina?

«La guerra è volgare. Bombardare le case di civili, magari poveri, inclusi tanti bambini, significa distruggere la moralità». 

Concerti, biglietti e scaletta

Lunedì 19 dicemre e martedì 20 dicembre Biagio Antonacci è in concerto al Mediolanum Forum (via Di Vittorio 6, Assago, ore 21, biglietti € 35-79 + prev.) Il cantautore milanese sarà accompagnato da una band di 7 elementi, in un live arricchito da momenti acustici e voce/pianoforte.

In scaletta più di 30 brani, dai singoli «Seria» e «Telenovela», pubblicati quest’anno, a successi del passato come «Liberatemi», «Iris», «Non vivo più senza te», «Se è vero che ci sei», «Se io, se lei». Nel 2023 uscirà il suo nuovo album in studio.

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Biagio Antonacci: «Dopo tre anni di stop avevo un po’ di timore». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 10 Novembre 2022.

Mercoledì 9 novembre, giorno del suo compleanno, il cantautore è tornato sul palco, a Roma, prima data del suo «Palco Centrale tour»

Biagio in mezzo e il pubblico intorno. Ecco mercoledì sera il cantautore al debutto a Roma con il «Palco Centrale tour». «Tre anni e tre mesi senza salire sul palco, la mia ultima data con Laura Pausini a Cagliari. Salendo sul palco ero timoroso, non sai più quale sarà la reazione del pubblico, cosa si aspetta. Invece, energia pazzesca», commenta nei camerini dopo lo show, mentre festeggia il 59esimo compleanno. Il palco al centro è una scelta non comune. «È tanto bello quanto impegnativo, è un palco complicato da gestire. Non puoi cantare troppo su un fronte e permetterti la libertà di concentrarti su un lato o l’altro, penso continuamente “poi quelli di là si incavolano”. È un palco inclusivo: un termine che mi piace, indica la condivisione di una bella cosa».

Quasi tre ore di show, 34 brani in scaletta (troppi) e per «Il mucchio» Biagio torna al primo amore e si piazza dietro la batteria. A un certo punto arriva anche Laura Pausini, amica di sempre su «Se è vero che ci sei». «Oggi sono come voi, sono anche io una fan di Biagio!», ha detto Laura. «È stata una sorpresa anche per me, giuro», assicura Antonacci. «Durante il Covid — racconta — ho avuto qualche attacco d’ansia soprattutto quando ho visto che dopo 4-5 mesi la situazione non migliorava. Non ho scritto nulla per due anni, ma mi sono messo a fare il liutaio: ho imparato a riparare chitarre guardando dei tutorial in rete». Il progetto di una residency al Teatro Carcano di Milano resta in attesa: «Tornare a suonare dopo più di 3 anni e farlo solo a Milano mi avrebbe tenuto lontano da una parte del pubblico, non era la cosa giusta».

Paolo Antonacci: «A 20 anni avevo un disturbo ossessivo compulsivo, non sono più solo figlio di Biagio e nipote di Morandi» Andrea Laffranchi Da corriere.it il 26 marzo 2023.

Ha solo 28 anni ma ha già firmato canzoni di successo ( ‘Mille’ e ‘La dolce vita’ sono sue, ricordate?) e ha “sbancato” il Festival con Tananai e Rosa Chemical: «Ho fatto pace con il mio cognome. A 20 anni sono stato male, mi vergognavo come un cane... Lo psichiatra mi disse: “Finirà a fare zapping sul divano”. E invece...»

Da bambino lo chiamavano “il professore”. «Un soprannome che mi diede Mauro Malavasi, storico produttore che frequentava gli stessi salotti artistoidi bolognesi di mio papà... Pare che parlassi sempre d’amore e che dicessi cose assennate rispetto all’età». I sentimenti oggi Paolo Antonacci, figlio di Biagio e nipote di Gianni Morandi, classe 1995, li riversa nelle canzoni. È uno degli autori più ricercati del momento, la sua firma vale dischi di platino. Per dire, i tormentoni delle ultime due estati, Mille e La dolce vita, sono suoi. E fra gli artisti con cui ha collaborato ci sono Annalisa, Alessandra Amoroso, Irama, Nek, Eros Ramazzotti...

Figlio d’arte con l’aggravante di essere pure nipote di...

«Ho paura di essere un aneddoto, non voglio essere ridotto a una curiosità perché sminuirebbe quello che faccio. Ho voglia invece di lasciare il segno con la musica e con l’arte. Questo Sanremo è stato psico-magico per me, mi ha fatto fare pace con il cognome, con la sofferenza di essere figlio e nipote di. Ora vivo di questo mestiere, mi posso comprare casa».

A giudicare da come è andata a Sanremo... Due dei cinque brani in finale erano suoi...

«Quelle due canzoni sono il diavolo e l’acqua santa. Tango di Tananai ha classe; Made in Italy di Rosa Chemical è pazzerella. La prima parla di amore a distanza e quando è arrivata l’idea del video con la coppia ucraina separata dalla guerra ho capito quanto fosse traslabile in maniera universale. Tana rischiava di essere accusato di approfittare di una tragedia ma col suo atteggiamento è riuscito a evitarlo. Rosa rischiava invece di essere massacrato dalle polemiche ma anche lui è stato bravo a spiegare il senso del suo brano che musicalmente ha comunque una matrice italiana, tipo Gioca Jouer di Cecchetto. È un topos della mia scrittura, c’è sempre una forte componente citazionista di musica italiana sui cui poi mettiamo suoni moderni».

Come è stato sentire a Sanremo nonno Gianni che pronuncia il suo nome fra gli autori?

«Un po’ mi ha emozionato... Bisogna anche pensare che nelle storie come la mia anche i genitori/nonni hanno patemi. Noi ce la giochiamo in prima persona, sappiamo che questa carriera è come salire sulle montagne russe, che tutto è labile, ma lo sanno anche loro. E diciamo che in Italia le storie dei figli di... hanno avuto spesso destini non splendidi e che molti validi sono stati vittima del cliché».

Con questi risultati il patema passa. No?

«Quando ho visto le canzoni in finale ho pensato a mia madre, a quando a 16 anni ho lasciato il liceo scientifico per andare in tour con papà. Mi ricordo cene fatte di silenzi e tensione... Poi la scuola l’ho finita e mi sono anche laureato, però...».

Andò a fare gavetta, a lavorare come facchino?

«No, era una fuga. Ero in terza superiore e a metà anno avevo tre materie sotto. Ero in quella fase in cui pensi che i tuoi avversari siano nella famiglia, e a questo si aggiungeva il fatto che nell’epoca pre Instagram i personaggi famosi vivevano avvolti nella mitologia e tutti si sentivano in diritto di farti domande. Ecco, allora avrei voluto un altro cognome. Con quella fuga iniziò la pacificazione: capii il suo lavoro, le sue assenze... E quando Tananai ha postato una maglietta con la faccia di Biagio per il loro duetto si è chiuso un cerchio».

«LE RAGAZZE? FORSE HO AVUTO SUCCESSO PERCHÉ PENSAVANO A MIO PADRE E QUESTO MI HA FATTO SOFFRIRE. ADESSO PERÒ È DIVERSO...»

La sua carriera di autore?

«Mi arrabbio sempre e dico che non devo nulla a nessuno, ma in realtà devo tutto a Davide Simonetta con cui lavoro in coppia e al nostro manager Stefano Clessi. Davide, che è più grande di me di una decina d’anni, è come una mamma, un papà, un fratello, una fidanzata... Quando lavoriamo in coppia, lui più sulla produzione e le melodie e io su testi e melodie, è come se ci fosse una coscienza superiore, un cervello condiviso. Prima di conoscerli attorno ai 20 anni ho attraversato un momento difficile: avevo un disturbo ossessivo compulsivo molto forte, vivevo in una foresta di simboli e mi vergognavo come un cane... sono finito in day hospital per una cura di antidepressivi. Ero nella merda, avevo delle canzoni ma avevo anche paura di espormi per la solita questione di famiglia. Smisi le cure e il dottore temeva l’effetto rebound: “Finirà a fare zapping sul divano”, disse. Sei mesi dopo ho incontrato loro, ho cambiato cure e mi sono ripreso».

Un futuro da cantautore?

«Prima o poi vorrei raccontarmi, ma non voglio andare di fretta. Secondo me Leo Gassmann o mio zio tredici Pietro (figlio di Gianni Morandi, fa il rapper ndr ) hanno avuto coraggio a metterci anche la faccia. Come autore in fondo vivi più vite, sei un attore che interpreta personaggi diversi in ogni film. Il rischio è quello di spersonalizzare il gusto e quindi ci sarà un momento in cui farò qualcosa di più intimo e solitario, ma il pop, come dice Dargen D’Amico, è una cosa bella da fare insieme”».

Con che musica è cresciuto?

«Mamma mi ha tramesso la scuola romana di Silvestri, Gazzè, Tiromancino, Fabi, Otto Ohm, Sinigallia. Da papà mi sono arrivati i milanesi come Fortis o classici come De André. Per i fatti miei ho scoperto Alberto Camerini e se Tanz bambolina fosse di Battiato avrebbe tutt’altra considerazione. Quando ho sentito Eight Mile di Eminem mi sono avvicinato al rap. Poi papà mi fece sentire una canzone in cui Inoki lo insultava e pensai che c’era qualcuno che diceva quello che voleva e addirittura mandava aff mio papà...: il mio momento ribellione venne moltiplicato. Più di recente ho scoperto Morricone e sono andato a ritroso negli Anni 60 italiani, e credo che si senta nelle mie canzoni».

Sei stato autore per Biagio e Gianni, e per tuo fratello Giovanni?

«Lui ha pubblicato un paio di pezzi rap, di recente ha anche fatto l’attore ma si è buttato sulla radio e fa lo speaker per Zeta. Finalmente uno che fa qualcosa che nessuno ha mai fatto in famiglia...».

Ma non c’era un vantaggio a essere figlio di Biagio, almeno con le ragazze?

«Forse, ma perché pensavano a papà. Questo mi ha fatto soffrire. Adesso mi guardano con più attenzione perché sono Paolo».

E fuori dalla musica?

«La mia fidanzata si arrabbia e dice che penso solo a quello... Sul pratico ha ragione lei, sono imbranato nel 70 per cento dei task che per altri sono semplici, mi dimentico pure di mettere la spesa in frigo...».

Parla come uno che ha letto molto...

«E invece non sono il re dei lettori, anzi sono l’ultimo a corte o forse anche uno fuori palazzo. Sono specchio di una generazione che ha perso la capacità di concentrarsi. Sopperisco guardando un sacco di documentari e se mi appassiono a qualcosa cerco di sapere tutto dell’argomento».

L’ultima passione?

«La casa. Per anni mi dava un senso di solitudine rimanerci e stavo sempre fuori. Ultimamente, non per il Covid, sto vivendo una rivoluzione di lifestyle, amo passarci più tempo e sono “scimmiato” di oggettistica. Ho memorabilia di cinema come le locandine originali di Apocalypse Now e Io e Annie , ho comprato Madonne e crocifissi, lampade di design...».

Il tormentone dell’estate 2023?

«Mi ci sto scervellando... probabilmente il trend Anni 60 si è esaurito, ma ci sto ancora pensando. Ho voglia di stupire».

I tormentoni di Paolo Antonacci: «Imitavo papà Biagio per avere successo con le ragazze». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.

Il figlio del cantautore è autore di tante hit pop: «Le difficoltà legate al cognome spaventavano più me che papà». 

La gara di primavera l’ha vinta con «Sesso occasionale» di Tananai. «Nonostante l’ultimo posto a Sanremo, ero certo che avrebbe funzionato: la cantavo sotto la doccia». E anche sul tormentone estivo «La dolce vita» di Fedez, Tananai e Mara Sattei, c’è la sua firma. Paolo Antonacci, figlio di Biagio e nipote di Gianni Morandi, è uno degli autori che più sta influenzando il suono del pop italiano. Ha scritto anche per Alessandra Amoroso, Annalisa, Irama, Nek, Eros...

«L’estate è il mio momento musicale preferito non tanto per la gara al tormentone, ma perché torna l’idea di un palinsesto che ti arriva addosso anche se non vuoi. Durante il resto dell’anno scegli le tue playlist, d’estate fra chiringuito e macchinate con gli amici ci sono cose che ascolti e ti restano addosso anche se non vorresti. E per questo mi piace chiamarli tormentoni. Non poter scegliere è un po’ come ritornare a quando ero bambino».

È anche fra gli autori di «Mille», tormentone 2021: come è nato il ritorno agli anni Sessanta?

«Per riempire un buco. Per anni ci siamo dimenticati di quel riferimento culturale che è nel nostro dna e ci siamo affidati al pop latino. Dopo la pandemia ci voleva spensieratezza, un ritorno all’ultimo periodo in cui l’Italia è stata bene. “La dolce vita” è ancora più anni 60: come le hit di allora si canta tutta, strofa e ritornello».

La sua carriera di autore?

«A 20 anni avevo delle canzoni da parte, con la velleità di cantarle. E un giorno non escludo di farlo. Le difficoltà legate al cognome, spaventavano più me di papà che è sempre stato un fan, mi hanno fatto cambiare idea».

Prima che figlio d’arte è stato soltanto figlio di...

«Sono cresciuto negli anni Zero, prima dei social, quando i personaggi erano inarrivabili, quasi mitologici. E papà era un mito. I pregiudizi li ho messi subito in conto, ma nessuno ti viene a dire certe cose in faccia. Quello che mi metteva in imbarazzo era la curiosità della gente, le domande. A scuola sceglievo l’ultimo banco, e anche l’autore è quello che sta all’ultimo banco. Da dietro sono riuscito ad arrivare a tutti. L’autorato è un mondo meritocratico».

Il primo pezzo in radio?

«”La stessa” di Alessandra Amoroso. Mi ha liberato sentire che arrivavo alla gente con le mie parole. “Bella storia” di Fedez è stata la prima hit, un sollievo anche in famiglia. Il patema non è solo dei figli, ma anche dei genitori».

La prima canzone scritta?

«Alle elementari. Copiando papà ho imparato a usare il computer per registrarmi. Era una canzone per la mia compagna di classe Bianca. Lei non l’ha mai sentita... Ho iniziato a scrivere perché vedevo che papà aveva successo con le donne mentre io no. Non pensavo che fosse per il suo istrionismo e la mia timidezza, ma per le canzoni».

Aveva un piano b?

«Mi sono laureato in relazioni pubbliche. Più che per avere un piano b per avvalorare il piano a. L’obbligo di fare qualcosa di diverso da quello che vorresti ti dà più spinta».

È appena uscita «Seria», prima volta per papà Biagio.

«Finalmente mi sono sentito in condizione di poterlo fare. La vera soddisfazione è quando qualcuno pensa a un’omonimia».

E per nonno Gianni?

«Mi piacerebbe. È un immortale. Vedo due strade per lui: una ballad alla Sinatra che accenda i riflettori sull’uomo. Però quelli sono brani che fai quando tiri le somme e per lui è ancora presto. E allora va bene che cerchi il tormentone».

La prossima tendenza? Cosa vincerà a Sanremo?

«Chi lo sa. Abbiamo recuperato gli anni 60 spensierati, ma non ancora quelli classici e morriconiani alla “In ginocchio da te”. Non so però se mi prenderò io questo onere».

Bianca Balti, il racconto dello stupro a «Belve»: «A 18 anni sono stata violentata a un rave». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 7 Marzo 2023.

Ospite della trasmissione condotta da Francesca Fagnani e in onda martedì 7 marzo su Rai 2, la 38enne modella si è raccontata senza filtri, dagli esordi nel mondo della moda al periodo difficile delle dipendenze, fino alla violenza subita

Un ragazzo appena conosciuto. Un bacio. La violenza. Aveva appena 18 anni Bianca Balti quando è stata stuprata e due decenni dopo ha deciso di raccontare quella drammatica esperienza a Francesca Fagnani nella nuova puntata di «Belve», in onda martedì 7 marzo in prima serata su Rai2. «A 18 anni ho subìto uno stupro, ero a un rave in stato di ebbrezza, non ero lucida. È successo con un ragazzo che avevo conosciuto quella sera e che mi piaceva, da un bacio si è passati alla violenza», ha confessato la 38enne modella, rivelando inoltre di aver cercato per tanto tempo il suo aggressore, per provare a superare quanto le era accaduto. «Andavo a tutti i rave, sperando di rincontrarlo giusto per fare pace con l’idea che magari c’era “una storia” e non “uno stupro”. L’ho rivisto dopo anni, quando facevo già la modella: usciva da un sert (il servizio per le tossicodipendenze, ndr) e mi ha fatto piacere vederlo, perché nella mia mente avevo bisogno di normalizzare questa esperienza, di dire “siamo amici”».

Anche la stessa Balti ha una lunga storia di dipendenza alle spalle e non lo nasconde («Ho provato tutte le droghe, anche gli oppiacei»), ma ne è uscita. «Ho smesso quando non ce la facevo più, quando non avevo più voglia di vivere. Quello è stato il momento più basso, avrei voluto morire, ma siccome non ero abbastanza coraggiosa da togliermi la vita, allora ho detto “proviamoci”». Uno dei momenti più difficili della sua vita è stato quando la figlia Matilde ha scelto di andare a vivere con il padre. «A quel tempo mi stavo trasferendo a Los Angeles, era l’ennesimo trasloco e quindi lei ha deciso di andare a vivere con il padre. Solo di recente mi ha confessato di averlo fatto, perché voleva un po’ di stabilità. Ne ho sofferto tantissimo, però ti abitui anche alle cose più brutte e grazie al cielo c’è la tecnologia».

Considerata ancora oggi una delle modelle più in vista del circuito («sono ancora sul podio delle prime tre in Italia»), dopo le prime sfilate la Balti disse no a un contratto da un milione di euro «perché avevo capito che potevo ottenere di meglio», ma si è poi rifatta con il famoso spot sul gozzetto di Dolce&Gabbana che - per sua ammissione - è quello che l’ha più soddisfatta «sia dal punto di vista professionale sia economico». Durante l’intervista non è mancato anche un siparietto esilarante, quando la Fagnani le ha chiesto se avesse mai avuto delle esperienze con altre donne. «Ho baciato le donne, toccato le donne, ma….», ha confessato la Balti.

Dagospia il 7 marzo 2023. Anticipazione da “Belve”

Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, finalmente in prima serata il martedì su Rai2. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare.

Tra gli ospiti della puntata, Bianca Balti, top model di primo piano (“sono ancora sul podio delle prime tre in Italia”), che si racconta a Belve senza filtri a partire dagli inizi della sua carriera: “Subito dopo le prime sfilate, 18 anni fa, mi hanno offerto un contratto di un milione di euro, ma ho detto di no perché ho capito che potevo ottenere di meglio”, e incalzata dalla Fagnani sul contratto che l’ha soddisfatta di più economicamente, la Balti risponde: “lo spot di Dolce&Gabbana sul gozzetto, sia dal punto di vista professionale che economico”.

Si parla anche di maternità, e quando la Fagnani chiede perché la figlia Matilde abbia deciso di vivere con il padre, la Balti risponde: “Al tempo mi stavo trasferendo a Los Angeles. Era l’ennesimo trasloco e quindi lei ha deciso di andare a vivere con il padre. Solo di recente mi ha confessato che lo aveva fatto perché voleva un po’ di stabilità”. E quando la Fagnani chiede se ne ha sofferto, risponde: “Ne ho sofferto tantissimo. Però poi ti abitui anche alle cose più brutte e grazie al cielo c’è la tecnologia”.

 Quando il tema si fa più leggero e la Fagnani le chiede se abbia mai avuto esperienze sessuali con altre donne, la Balti divertita confessa: “Ho baciato donne, toccato donne, ma…”.

Bianca Balti rivela: «Mia figlia scelse di vivere con il padre perché mi drogavo». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

Ospite del podcast «One More Time» di Luca Casadei, la 38enne modella racconta la sua vita, dagli anni sregolati a base di sesso, droga e feste, ai due divorzi(«pago io gli alimenti ai miei ex, ma è giusto così»), fino al ritrovato equilibrio di oggi

Fin da bambina sognava di andare via da Lodi, la sua città, perché le stava stretta e alla fine Bianca Balti è stata l’unica dei suoi amici d’infanzia a farlo davvero. «Ho sempre sognato in grande, da quando ero piccola mi vedevo chissà dove», confessa a Luca Casadei per il suo podcast «One More Time». Ad aprirle la strada della popolarità sono le passerelle, quelle di Dolce&Gabbana in primis, poi arrivano tutti gli altri e dopo Milano, si trasferisce a New York per amore. A farle perdere la testa è Christian Lucidi, un assistente fotografo che diventerà il suo primo marito.

«Resto incinta dopo sole tre settimane. Dopo un mese mi chiede di sposarlo», racconta la 38enne modella. Sembra una favola, ma non c’è lieto fine. «Mi ero fatta prendere dall’entusiasmo, ma la verità è che lui era molto possessivo e assillante. Non era un rapporto sano. In quegli anni vivevo tutto alla giornata, ho deciso di fare la mamma e la moglie dopo un anno e mezzo dall’inizio della mia carriera. Una cosa folle».

Dopo la separazione, la Balti torna in Italia con la figlia Matilde ed entra in una spirale di autodistruzione. «Ricomincio con le feste. Lasciavo mia figlia dai nonni, a Lodi, e io andavo di uomo in uomo, passando per la droga. Era una vita disfunzionale, non ero felice, ma me ne accorgo solo ora. Ho passato tre anni così».

Una volta toccato il fondo, prova a voltare pagina: si trasferisce a Marbella, in Spagna, con la figlia ed è lì che conosce il suo secondo marito, l’americano Matthew MacRae.

«Chiedo il permesso al tribunale spagnolo di portare mia figlia con me in America, ma lo rifiutano - ricorda la Balti - . Il mio avvocato mi dice “Guarda che le chiederanno dove vuole vivere, se con te o con suo padre”. Allora glielo chiedo e Matilde mi risponde “con papà”. È stato uno dei momenti più brutti della mia vita. Mi ha fatto tanto male. Non mi drogavo già da tre anni, ma ho capito che Matilde non era pronta a perdonarmi. Adesso abbiamo un ottimo rapporto e mi dice che non voleva vivere con me, perché ero un casino. Allora però è stata durissima capire che, al di là degli sforzi che avevo fatto per cambiare, il male che le avevo fatto l’aveva portata a fare questa scelta».

Anche con il secondo marito finisce male e, forse, inconsciamente, lei stessa sapeva che sarebbe andata così, perché solo dopo tanta sofferenza è finalmente riuscita a trovare il suo equilibrio. «Oggi pago gli alimenti a entrambi i miei ex mariti, ma è giusto, sono io che guadagno di più - conclude la modella, che ha da poco dichiarato di sentirsi finalmente serena dopo l’operazione di mastectomia preventiva —. Ho sempre sposato uomini per i quali ho sempre pagato tutto io e con la consapevolezza di oggi, dopo anni di terapia, so che lo facevo anche per avere un senso di controllo nella coppia».

Estratto dell'articolo di Barbara Visentin per il “Corriere della Sera” venerdì 11 agosto 2023.  

[…]Per Jesse Dylan, 57 anni, primo dei quattro figli che il cantautore e premio Nobel ha avuto con la prima moglie Sara Lownds, la missione è più che altro quella di «proteggere un artista così grande» e di essere «semplicemente un figlio». Nella sua carriera di regista, Jesse Dylan ha rivolto allora il suo sguardo a un altro personaggio influente e pieno di mistero: quello di Giorgio Soros, imprenditore e filantropo ungherese, naturalizzato americano, protagonista di «Soros racconta Soros», in arrivo domani alle 21.15 in esclusiva su Sky Documentaries, disponibile on demand e in streaming su Now. 

[…]

Soros è adorato da alcuni e additato come causa dei mali da altri. Come mai è così controverso?

«Credo che in parte sia perché, perlomeno qui in America, siamo a disagio con le persone molto ricche che provano a usare il loro denaro per influenzare la politica. Inoltre arriva dall’Ungheria, è un po’ misterioso, non fa tante interviste, ed è come se molte persone venissero indotte erroneamente a concentrare il loro odio su di lui».

Che idea si è fatto lei?

«Penso sia davvero una grande persona. Ammiro il fatto che non vuole imporre il suo pensiero, ma ascolta le persone e cerca di metterle nella condizione di fare quel che vogliono fare. Inoltre penso che quando si tratta di filantropia ci sia l’ossessione di misurare: questo va bene se Bill Gates prova a eliminare un virus, si può calcolare quante persone in meno si ammalano, ma quando si tratta di arte e di libertà di esprimersi, come quel che fa George, non si può misurare il suo contributo, eppure è estremamente importante».

[…]

Farebbe un documentario su suo padre?

«Credo che ci abbia pensato molto bene Martin Scorsese, addirittura due volte. Penso che quelle siano le dichiarazioni migliori e definitive su mio padre». 

[…] Da poco è passato per l’Italia, l’abbiamo intravisto sul palco nella penombra.

«[…] È un grande artista e continua a esserlo. Le persone magari vorrebbero sentire alcune canzoni in particolare, ma lui fa quel che vuole. Vieta i telefoni perché credo desideri che la gente viva il momento, insieme. Il nostro modo di avvicinarsi agli artisti oggi è cambiato, ma ci sono ancora alcuni di loro che fanno grande arte e riescono a dare grande ispirazione».

È difficile portare il suo cognome?

«No, assolutamente. Mio padre è una persona buona e generosa, un’anima sensibile, e il mio dovere nei suoi confronti è essere semplicemente suo figlio. La cosa importante è che là fuori ci sono artisti come lui o come Tom Waits, con cui mi è capitato di lavorare, di cui non dobbiamo capire tutto. Non devono spiegarti perché vogliono fare certe cose e tu devi semplicemente ascoltare».

Va accettato il loro mistero quindi?

 «Sì, e specialmente in periodi come questo è importante proteggere artisti come loro. È un’abitudine relativamente recente quella di cercare di capire tutto di tutti, ma non è sempre necessario. È importante invece che ci siano ancora grandi artisti come Neil Young o come mio padre che fanno grande musica e basta. È come guardare un Picasso: tu cambi nel tempo, ma il quadro non cambia mai, è la bellezza dell’arte».

Michele Bovi per Dagospia il 17 gennaio 2022.

Elvis Presley ha partecipato a tre edizioni del Festival di Sanremo e ne ha vinta una. Me nessuno se n’è accorto. Anzi, uno se n’è accorto, uno Solo: Bobby Solo. Elvis era l’idolo di Bobby, il suo modello di artista: per la voce, per l’abbigliamento, per il ciuffo, per le anche. E anche per le canzoni.

 Bobby (Roberto Satti all’anagrafe di Roma) era stato il vincitore morale – e quello che aveva venduto più dischi – dell’edizione 1964 del Festival. A 19 anni aveva finto di cantare sul palco di Sanremo la sua fascinosa Una lacrima sul viso: un abbassamento di voce causato da laringite e fifa l’aveva costretto al playback. Fu squalificato a favore di Gigliola Cinquetti portatrice sana di Non ho l’età (per amarti).

L’anno dopo, edizione 1965, il risarcimento. Bobby e la sua Se piangi, se ridi conquistarono il primo posto. Il brano era firmato da lui e da Gianni Marchetti per la musica e da Mogol, che aveva scritto le parole anche di Una lacrima sul viso, per il testo. In realtà Se piangi, se ridi era la sorella minore di It Hurts Me, brano inciso nel 1964 da Elvis Presley.

 “Sì, erano gli stessi accordi, – spiega Bobby Solo – cambiammo la melodia. Ma non ci furono proteste da parte degli editori americani. Andammo sul sicuro, visto che dell'edizione del nostro brano pubblicato dalla Ricordi si occupava il padre di Mogol, Mariano Rapetti, che aveva le conoscenze giuste a livello internazionale per prevenire o attutire ogni possibile controversia. All'epoca discografici ed editori sapevano fare bene il loro mestiere: noi artisti, cantanti e autori, eravamo candide marionette nelle loro mani”.

L’anno dopo, edizione 1966, Bobby tornò al Festival con la canzone Questa volta, eseguita in seconda battuta dagli Yardbirds il gruppo guidato dal cantante Keith Relf e da Jeff Beck, il virtuoso della chitarra scomparso lo scorso 10 gennaio.

Anche Questa volta era firmata da Solo e Marchetti per la musica e da Mogol per le parole.

 E anche quella volta il brano si muoveva sull’armonia di una delle prime canzoni incise dal Re del Rock negli anni Cinquanta. “È vero: erano gli stessi accordi di That’s When Your Heartache Begins di Elvis Presley” ha confessa Bobby Solo qualche giorno fa nel salotto tv di Red Ronnie.

Questa volta non bissò il successo di Se piangi, se ridi ma consentì soprattutto agli Yardbirds di estendere la propria popolarità: “Sanremo è stata la cosa peggiore che facemmo. – raccontò Jeff Beck nel 2016 alla rivista Uncut - Keith Relf era in pessime condizioni vocali, tanto che durante le prove Gene Pitney si avvicinò per dirci che facevamo schifo. Noi non facevamo canzoni pop dozzinali e davvero non so che diavolo ci facessimo lì! Sta di fatto che il Festival lo mandavano in diretta in tutta Europa: il giorno seguente vendemmo 80.000 copie del singolo”.

 Neanche per Questa volta ci furono proteste da parte degli autori e degli editori statunitensi del brano di Presley, a ulteriore conferma del talento dei discografici della Ricordi e soprattutto dell’editore Mariano Rapetti, padre di Mogol.

 In realtà Bobby non fu il solo a riproporre a Sanremo successi camuffati di Elvis Presley. Il trucco funzionò anche a Francesco Baccini nel 1997 con la spiritosa Senza tù, scritta dall’interprete assieme a Fio Zanotti e Giorgio Conte: metà del motivo era palese citazione di Can’t Help Falling in Love, cavallo di battaglia anni Sessanta di Elvis Presley che gli autori Luigi Creatore, Hugo Peretti e George David Weiss avevano copiato di sana pianta da Plaisir d’amour, la romanza composta nel 1785 dal musicista tedesco Giovanni Paolo Egidio Martini.

Ovviamente tutto in pubblico dominio quindi destinato al libero saccheggio. In quella circostanza non ci fu neanche bisogno del padre di Mogol.

Estratto dell'articolo di Ernesto Assante per repubblica.it giovedì 27 luglio 2023.

Bobby Solo ha 78 anni, sessanta dei quali passati nel mondo della canzone, visto l’esordio del 1963 con il primo singolo, Ora che sei già una donna. Ma il tempo non ha inciso granché sulla sua voce e nemmeno sulla sua passione per la musica e, soprattutto, per il rock’n’roll, che da sempre (pop permettendo) è stata la sua stella polare. 

Elvis era il suo mito, e per molti versi lo è ancora, ed è proprio con l’approccio del rock’n’roll e il “sentimento” di Elvis che ha deciso di fare un album diverso da tutti quelli fatti prima, intitolato Get back e dedicato alla musica dei Beatles. 

Bobby Solo canta i Beatles con il suo stile inconfondibile, con quella profondità ‘alla Elvis’ che lo ha sempre guidato e con uno spirito appassionato e divertito: «Ho fatto una cosa tipo quella che Rick Rubin ha fatto con Johnny Cash, pochi strumenti, tanta passione e la voglia di far diventare mie delle canzoni che ho sempre amato», ci dice, «io amo cantare, non ho una mente da businessman, canto per il gusto di farlo e il gusto non va mai in pensione». 

(...)

Perché?

«Inizio col dire che ho fatto parecchi errori nella mia vita, soprattutto all’inizio, quando ero giovane e fesso. Partiamo dai Beatles: era il 1965, avevo avuto un grande successo internazionale dopo Una lacrima sul viso, e un bel giorno chiamò Dick James, l’editore dei Fab Four, che mi voleva vedere a Londra, perché mi aveva ascoltato e voleva propormi delle cose. Io avevo vent’anni, ero fessacchiotto, innamorato di Elvis, il mio unico mito. 

Quando arrivai a Londra mi ricevette Dick James, sembrava Churchill, tutto rosso. E mi disse: ‘Ho una grande canzone di Paul McCartney e vorrei che la cantasse lei”. Io ero magrolino, con il ciuffo, i pantaloni alla caviglia con il calzino bianco, e gli dico: “Grazie Dick, ma è una canzone francese, io faccio rock’n’roll, grazie no. Era Michelle».

Incredibile…

«Lo deve aver pensato anche lui, ci rimase un po’ male. Ricordo l’ufficio a New Oxford Street, ricordo la lacca che lui mise sul giradischi. Fu un grandissimo errore. Ma non l’unico…».

E quale altro?

«Nel 1977: “Pronto, parlo con Bobby Solo? Salve sono Giorgio Moroder, sono a Trento, in studio, e ho dei pezzi per te”’. E io cosa ho risposto? “‘No grazie, io i pezzi me li scrivo da solo”. E potrei andare avanti ancora». 

Ovvero?

«A un certo punto ho avuto un clamoroso successo in Giappone, tre milioni e mezzo di dischi, un tour con quaranta concerti tutti esauriti. Mi contattarono dei funzionari di Stato e mi dissero che l’imperatore Hirohito mi voleva invitare a cena. Io risposi che ringraziavo ma non accettavo, era l’unica serata libera che avevo. Per sette anni non ho potuto più mettere piede in Giappone».

(...)

Michele Bovi per Dagospia il 21 luglio 2023.

La più bella del reame. A cavallo degli anni Sessanta e Settanta Tamara Baroni è stata l’indomabile icona sexy che incantò reggimenti di uomini oltre a venerati seduttori come Gianni Agnelli, il play-boy Gigi Rizzi, il principe Dado Ruspoli: indossatrice, modella, attrice di cinema e teatro, protagonista della dolce vita e delle cronache rosa e nera, con addirittura l’accusa assurda di essere la mandante del tentato omicidio della moglie dell’industriale del vetro Pierluigi “Bubi” Bormioli. Tamara - appurarono i magistrati dopo averla tenuta 47 giorni in carcere - era solo l’amante di Bubi, non la suggeritrice della fallita soppressione della consorte. 

A quel tempo Bobby Solo era celebre, anzi la sua stella all’inizio dei Settanta tendeva a smorzarsi dopo aver brillato per almeno sette anni nel cerchio magico della musica italiana. Bobby era l’Eroe delle lacrime, ovvero il protagonista assoluto delle edizioni 1964 e 1965 del Festival di Sanremo, nella prima vendendo due milioni di dischi in tutto il mondo con Una lacrima sul viso, nella seconda piazzandosi al primo posto con Se piangi, se ridi.

Tamara Baroni entrò nella sua vita restituendogli il sorriso.

“C’era poco da stare allegri: da anni lottavo contro i mulini a vento della discografia – rivela Bobby Solo, all’anagrafe della capitale Roberto Satti, 78 primavere canterine - ero vittima di un clamoroso furto. Nel 1963 avevo composto la musica di Una lacrima sul viso, con il testo confezionato dal grande Mogol e con i nostri due crediti indicati nel bollettino pronto per essere depositato alla Società degli autori ed editori. 

Subito dopo partecipai a Ribalta per Sanremo, la manifestazione organizzata da Gianni Ravera per individuare voci nuove da trascinare sul palco del festival. C’erano anche Fausto Leali, Ricky Gianco e Remo Germani. Io cantai Ora che sei già una donna, firmata da Mogol e da Iller Pattacini, musicista e direttore artistico della sezione musica leggera della Ricordi, la mia casa discografica. Ravera rimase entusiasta della mia esibizione, mi definì ‘la gallina dalle uova d’oro’ e mi inserì tra i nomi sicuri della gara sanremese.

Quella definizione che citava il metallo prezioso eccitò soprattutto i funzionari della Ricordi. Mi dissero: ti mandiamo a Sanremo con Una lacrima sul viso, ma sei troppo giovane per depositarla alla SIAE, va compilato un nuovo bollettino. Facciamo come per Valeria, la sfortunata incisione precedente, la firmerà al tuo posto il maestro Pattacini assieme a Mogol. Sarà poi Pattacini a versarti i profitti della vendita dei dischi trattenendo per tasse e disturbo il 25 per cento dei ricavi. Con lui sei in una botte di ferro. 

In effetti, accettato il compromesso, diventai come Diogene: stavo nella botte alla ricerca dell’uomo, di Lunero - lo pseudonimo usato da Pattacini - per incassare alla fine di ogni semestre, così paga la SIAE, la mia parte di royalty. Ero stato un ingenuo, bastavano 16 anni per depositare un brano alla SIAE e io ne avevo 19. Nei due anni successivi Pattacini mi versò poco meno di cinque milioni.

Furono Daniele Pace e Mario Panzeri, gli autori di Non ho l’età per amarti, il brano di Gigliola Cinquetti che aveva vinto il Festival, a mettermi la pulce nell’orecchio: mi dissero che negli stessi due anni avevano incassato circa 130 milioni e che il mio disco sicuramente nel mondo aveva venduto almeno tre volte di più di Non ho l’età per amarti. Così feci causa a Pattacini. 

Ingaggiai due avvocati romani esperti di diritto d’autore, Attolico e Caligiuri che lavoravano per la RCA Italiana, e li spedii a mie spese a Milano per confrontarsi con i funzionari della Ricordi. Tornarono con la coda tra le gambe, mi dissero che l’origine di tutte le mie grane stava in una fideiussione che non mi ero preoccupato di rinnovare. Ma nessuno mi aveva mai parlato di fideiussioni e di rinnovi obbligatori! Insomma la mia Lacrima restava, più che sul viso, sul conto corrente di Pattacini. 

Mollai gli avvocati della RCA e passai i faldoni con la documentazione a un mio parente di Trieste, zio Arturo Isalberti, a sua volta avvocato abilitato a esercitare a Roma. Tragedia. Mentre andava in tribunale fu investito da un’auto guidata da un pregiudicato. Morì sul colpo e andò smarrita la borsa contenente i faldoni con i rendiconti della mia canzone. Mai più ritrovata”. 

Un thriller del pop. Con un cadavere, un presunto assassino, un presunto ladro, manca la “femme fatale” per calarci in un film di Brian De Palma. “La femmina divina stava per arrivare. Senza più documenti di riferimento i giudici chiesero ai funzionari della Ricordi ragguagli precisi sugli incassi del brano. Quelli comunicarono una cifra piccina, certificata da fogliacci caserecci. 

Il problema era che io non avevo più carte scritte per confutare quei numeri. Sembrava finita lì, penosamente, quando una sera spuntò lei, la donna magica. Non ero più un artista da hit parade, stavo esibendomi in una balera della provincia di Parma. Mentre cantavo fece ingresso in sala una fata in pelliccia di cincillà scortata da due Maciste dallo sguardo truce. La riconobbi: era Tamara Baroni, moglie di Iller Pattacini. Pensai: mi vogliono bastonare per via della causa. Era vero il contrario.

Durante la pausa la fata allontanò i due gorilla e mi raggiunse in camerino: mio marito mi picchia e picchia anche mia figlia. Per vendicarmi ho sottratto dalla sua cassaforte i documenti relativi a Una lacrima sul viso. Ora hai le prove che la canzone è tua. Tamara Baroni stava con un altro uomo, l’industriale parmigiano Pierluigi Bormioli. E Pattacini viveva in Brasile. 

Il giorno dopo corsi a Roma, mi presentai alla Società degli autori ed editori, mi ricevettero due dirigenti al sesto piano che mi scongiurarono di non suscitare uno scandalo che avrebbe nuociuto gravemente all’immagine della prestigiosa Casa Ricordi, della stessa SIAE, di tutti noi autori. Mi suggerirono alcune alternative tra le quali la nomina a socio SIAE. Accettai. Parte della documentazione e la vertenza in corso consentirono comunque all’avvocato Giorgio Assumma di esigere dalla SIAE il congelamento dei profitti del brano. Nel 1992 il mio amico editore Enrico Cardia mi avvertì che la cifra sospesa in attesa del verdetto giudiziario aveva raggiunto i 500 milioni di lire. Mentre io ero terribilmente in bolletta”.

Quale giudice pronunciò la sentenza? “Red Ronnie. Ossia fu soprattutto merito suo se arrivammo a estinguere la lite. Mi aveva chiesto di regalargli un concerto in una comunità romagnola di ex tossicodipendenti. Lo feci volentieri, lo avevo fatto diverse volte anche per altri. Dopo l’esibizione andammo a cena in un ristorante, si chiamava ‘Quo Vadis?’ e lì a Red Ronnie e al suo segretario, un dinamico parrucchiere di San Pietro in Casale, raccontai le mie vicissitudini. 

Spiegai che ero a corto di quattrini pur godendo di un credito potenziale di mezzo miliardo. Aggiunsi: mi accontenterei della metà pur di riuscire a intascare rapidamente il gruzzolone, ma chi lo scova più Pattacini? Il segretario-parrucchiere si dileguò alla Mandrake, tornò un’ora dopo con un contratto precompilato che stabiliva i termini dell’accordo: fifty-fifty di 500 milioni al momento della sistemazione definitiva della controversia.

Firmai incredulo e quel contratto finì il giorno seguente nelle mani dell’avvocato bolognese Vittorio Costa, il legale di Vasco Rossi e di Zucchero, mostruosamente abile e determinato. Sette giorni dopo arrivò dal Brasile Iller Pattacini, col codino e una camicia coi pappagalli colorati, e sottoscrisse il documento che riconosceva la mia paternità di Una lacrima sul viso. Mi regalò persino un amplificatore Fender Deluxe che custodiva nella sua abitazione di Barco, a mezzora da Parma. Volevo acquistarglielo e mi rispose: portalo via, è il minimo che posso fare con tutto quello che ti ho rubato. Fu la fine di un incubo”.

Da allora in avanti fiumi di soldi dalla SIAE? “Un rigagnolo. Dai cinquemila ai settemila euro ogni sei mesi, nonostante abbia depositato 389 canzoni delle quali Una lacrima sul viso resta di gran lunga la più redditizia. Mancati guadagni sempre dovuti a firme sventate su contratti col trabocchetto, della Fama edizioni, della BMG. Ultimamente mi sono affidato alla Emme Team, una società statunitense di consulenza legale che in Italia non gode di buona stampa. Anzi pessima, pure Le Iene hanno sparato a pallettoni contro quell’etichetta. Eppure la Emme Team ha rimesso in corsa i miei crediti discografici fermi dal 2012: tre mesi fa ho incassato i primi 30 mila euro. Altri pagamenti dovrebbero seguire con regolarità”.

Solo Una lacrima sul viso ha creato problemi? “Anche altre. Se piangi, se ridi ad esempio è stata depositata alla SIAE con i crediti per Mogol come autore del testo e per me e l’arrangiatore Gianni Marchetti quali compositori della musica. Anni fa ho scoperto che i bollettini di quella canzone in Giappone e in tutti i paesi asiatici riportavano soltanto i nomi di Mogol e Marchetti. Se piangi, se ridi vinse il festival di Sanremo nel 1965, un brano che ha fatto il giro del mondo, che ha macinato bigliettoni: qualcuno anche in quel caso escogitò il modo di tagliarmi fuori dai ricavi. La storia che si ripete: soldi per i soliti e solo lacrime per Bobby.”.

Per completare la commedia degli equivoci è utile una ulteriore sbirciata nell’archivio delle opere musicali della SIAE, dove il titolo Una lacrima sul viso è stato depositato sei volte. Uno è quello originario e solenne di Mogol e Bobby Solo, altri cinque rappresentano quelli che la stessa direzione della SIAE definisce “titoli confusori”, ovvero spesso registrati da ineffabili autori al fine di drenare per errore o altro i profitti dell’originale famoso. Un sesto Una lacrima sul viso è relativo alla pellicola ispirata dalla canzone: il film Una lacrima sul viso uscì per il grande schermo nel 1964, diretto da Ettore Maria Fizzarotti e interpretato dallo stesso Bobby Solo. Ma l’unico nome che compare nei crediti del deposito SIAE è quello di Gianni Marchetti. Quello solo. E non Bobby.

Estratto dell'articolo di Claudio Fabbretti per Leggo il 14 gennaio 2023.

«Il comune amore per il rock e per questo classico di Dean Martin ha chiuso un cerchio, anzi un cuore». È un San Valentino a passo di Cha Cha Cha D’Amour, quello che Bobby Solo regala agli innamorati. A 78 anni, il pioniere del rock italiano - colpevolmente dimenticato a Sanremo - si rimette in gioco assieme a Maxi Trusso, uno degli artisti argentini di maggior successo dell’ultimo decennio. Un remake giocato su suoni pop-rock melodici con retrogusto latin.

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 Sessant’anni di carriera: che effetto le fa?

«Ho sempre fatto solo quello che sentivo, nel bene e nel male. Ho iniziato con i miei primi tre 45 giri nel 1963, a 19 anni. Ma nessuno lo sapeva, me li compravo da Discoland, a Milano. E la mia zia Edvige me li prendeva a Trieste».

E poi?

«A settembre ci fu a Milano un X Factor preistorico: Ribalta per Sanremo. C’erano Remo Germani, Ricky Gianco, Gino Santercole. Io ero piccoletto, cantai Ora che sei già una donna. Quando Gianni Ravera, l’organizzatore di Sanremo, ascoltò la mia voce, mi abbracciò e mi disse: “Ti porto al Festival”».

 E fu subito “Una lacrima sul viso”...

«Scrissi un testo molto casareccio. Tramite il padre, incontrai Mogol, con cui ormai siamo fratelli. E così nacque la canzone. Ma la Ricordi non credeva in me».

Perché?

«Dicevano che avevo i bassi di Frankenstein e il falsetto di un castrato della Cappella Sistina! Mi dicevano che dovevo imitare Celentano, non Elvis Presley».

 E a Sanremo come andò?

«Un trionfo. Ma solo dopo la prima serata. All’inizio in albergo mi avevano messo in un sottoscala, in una camera senza bagno. Ma dopo la mia esibizione (in playback, perché mi si erano paralizzate le corde vocali) alla Ricordi erano arrivati 300mila ordini del 45 giri. Così mi portarono alla nuova stanza: una suite all’ultimo piano».

 Parliamo di Elvis: quanto è stato importante per lei?

«Il mio punto di riferimento. Lui a 8 anni nel Mississippi viveva a Old Saltillo Road, un quartiere poverissimo, dove lui e i genitori erano gli unici bianchi. È cresciuto con la musica dei neri e poi ha creato il suo stile unico. Era umile, comunicativo, aveva un viso come il David di Michelangelo, ma soprattutto una grande voce: avrebbe potuto cantare anche l’elenco telefonico di Memphis.».

Ha visto il film di Baz Luhrmann?

«Due volte. E ho pianto. Per fortuna la sala era buia e non mi hanno visto. In fondo abbiamo iniziato tutti e due a 19 anni, lui con That’s All Right e io con Una lacrima sul viso».

 È vero che il nome “Bobby Solo” nacque per errore?

«Certo. Papà, Bruno Satti, era un ex-pilota militare, un duro, a volte mi picchiava, e aveva ragione perché facevo cose brutte.

 Lui voleva che diventassi medico o avvocato - mia madre mi voleva parroco, perché diceva che così le donne non mi avrebbero fatto soffrire. Lui diffidò la Ricordi dall’usare il cognome. E così Micocci disse alla segretaria, Stelvia Ciani, di chiamarmi Bobby, solo Bobby. E lei scrisse Bobby Solo. Ma alla fine ha funzionato, l’ho sentito cantare persino nel ritornello di una band punk olandese».

 E il suo rapporto con il cinema?

«Ho fatto solo Una lacrima sul viso e Zingara, più qualche comparsata con Little Tony e Arbore. All’inizio di Una lacrima sul viso ero timidissimo, poi pian piano mi sciolsi. La cosa comica è che il film è stato girato alla rovescia: dalla fine all’inizio, così parto disinvolto e finisco impacciatissimo».

 Che rapporto ha con il rock italiano attuale?

«Ho collaborato anche con Marta sui Tubi e con i Guano Padano, amici di Capossela, è stato divertente. Ma non posso cantare rap: mi servirebbe un’iniezione di fosforo per ricordare tutte quelle parole!».

 Cosa ascolta di più oggi?

«Molto blues e country. Incontrai Johnny Cash nel 1967 nella base di Ramstein, in Germania. Un omone di un metro e 89, aveva un cappotto di cuoio spesso 4 millimetri, giocava a flipper... Mi ha dato una mano che sembrava una Fiorentina!».

Che aneddoti... dovrebbe scrivere un libro.

«Me l’hanno proposto, forse lo farò. Gliene racconto altri due. Tokyo, 1964: sono in tour per 40 concerti. Al Prince Hotel c’è la settimana della cucina italiana, con le fettuccine Alfredo.

 Vedo Fats Domino, un idolo. Mi fa: «Non portare mai i soldi in banca». E io: «Ma dove li metto?». Lui, con due bodyguard alle spalle, mi apre una borsa con dentro un milione di dollari, piena di rubini e smeraldi. Sempre allo stesso hotel nel 1970 presi un aperitivo con Elton John, vestito come un pirata, con mezza testa verde e mezza arancione e degli zoccoloni a scacchi».

 Continua a fare concerti?

«Certo, la scorsa estate ne ho fatti 26. Ora mi faccio in auto 1.300 km per andare a Taranto. Mi sono trasferito da 15 anni a Pordenone, mia moglie è coreana-americana, figlia di un militare di stanza ad Aviano, mi manca Roma ma, come si dice, “Happy wife, happy life”».

Cosa suona?

«Faccio Clash, Willie Nelson, Elvis, ma anche il blues di John Lee Hooker. E anche i giovani apprezzano».

Estratto da ilmessaggero.it  giovedì 23 novembre 2023.

Brad Pitt e Angelina Jolie, nonostante il burrascoso divorzio avvenuto nel 2016 (per «mantenere il benessere della famiglia e dei bambini», aveva dichiarato l'attrice) hanno sempre detto che i loro figli venivano prima di tutto. Ora, però, è emerso che uno di loro, Pax Thien, avrebbe scritto un messaggio molto duro nei confronti dell'attore che sarebbe stato accusato proprio di non essere un buon padre. 

Il messaggio di Pax Thien contro Brad Pitt

Il messaggio che il figlio adottivo di Brad Pitt e Angelina Jolie, Pax Thien avrebbe scritto nei confronti dell'attore, risale al 2020, quando il 16enne gli augurava di trascorrere una buona festa del papà. Il DailyMail.com ha riportato che tali parole sono state recuperate solo ora a distanza di anni. Il messaggio recita: «Buona Festa del Papà a questo str*** di livello mondiale!! Dimostri ripetutamente di essere una persona terribile e spregevole.

Non hai alcuna considerazione o empatia verso i tuoi quattro figli più piccoli che tremano di paura quando sono in tua presenza. Non capirai mai il danno che hai fatto alla mia famiglia perché non sei in grado di farlo. Hai reso la vita delle persone a me più vicine un inferno costante. Puoi dire a te stesso e al mondo quello che vuoi, ma un giorno la verità verrà alla luce.  Allora buona festa del papà, fottuto essere umano orribile!!!».  […]

«Feci cadere Brad Pitt e poi lui in mutande mi offrì una Coca Cola». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2023.

Valerio Cappelli racconta il divo di Hollywood. L’intervista in camera al Lido e la carriere da «miracolato che ha vinto la Lotteria». «Da ragazzo ho lasciato il Missouri e sono andato a Los Angeles in moto. Avevo 2-300 dollari in tasca. Non conoscevo nessuno» 

Sto percorrendo il corridoio dell’hotel al Lido di Venezia, a testa bassa, immerso tra i fogli disordinati con l’appunto di qualche domanda da fare, e il memo della giornata, quando improvvisamente si palesa Brad Pitt. Il divo americano proviene dal corridoio opposto. Anche lui cammina velocemente, il capo all’indietro mentre sorseggia una Coca-Cola. Non è un incontro ma uno scontro. Davanti all’ascensore a cui portano i due opposti corridoi del leggendario secondo piano dell’Hotel Excelsior del Lido, quartier generale della Mostra di cinema. È leggendario perché lì si trova la Sala degli Stucchi che Sergio Leone adoperò in una delle scene più emozionanti di C’era una volta in America, quella in cui Robert De Niro affitta l’intero ristorante per starsene solo con la ragazza che ha abitato i suoi sogni di ragazzo, l’attrice Elizabeth McGovern, che lo ha amato a sua volta ma per lei è stata solo una fiammata da adolescenti, ritenendolo solo un bandito di strada.

Insomma, lo scontro tra Brad Pitt e chi vi scrive, è inevitabile. Franiamo a terra, la peggio spetta a me, lui è più alto, più atletico, più tutto. E mentre siamo sul pavimento, increduli entrambi, le sue sei guardie del corpo, sei armadi, cominciano a insultarsi, ritenendosi l’un l’altro responsabili di ciò che è capitato al loro illustre cliente. Si erano rilassati pensando che nulla poteva succedere davanti all’ascensore di un hotel di prestigio come quello. I sei armadi urlano e a un certo punto vengono quasi alle mani. L’attore ed io ci guardiamo e cominciamo a ridere. Lui dice: facciamoci un selfie ma non ho il cellulare con me. Così gli do il mio, lui lo prende, si abbassa un poco per avere la mia stessa altezza e immortala quell’istante fuori da ogni realtà e da ogni logica di un festival di cinema, dove fino agli Anni ’70 si poteva stare a tu per tu con gli attori ma oggi è tutto blindato.

Brad Pitt si accorge di avere i pantaloni macchiati di Coca-Cola, io gli spiego che di lì a un’ora avrei avuto un incontro con lui sul suo film, Ad Astra, con altri quattro giornalisti di testate internazionali. Prendendomi in contropiede, rompendo ogni protocollo mi dice: «Amico, accompagnami in stanza che mi devo cambiare e intanto cominciamo a parlare». D’accordo, grazie. Sono talmente incalzanti e brutali i ritmi di un festival che non mi rendo conto del regalo che mi sta facendo. Entriamo nella sua suite, lui si toglie davanti a me la tee-shirt grigiastra (i muscoli ci sono tutti) e i pantaloni, apre l’armadio, ne sceglie un altro paio, poggia il berretto che porta, si rimette gli stivali, solleva la serranda, apre il frigo bar, mi allunga una latina di Coca e un’altra la stappa per lui, si siede e con la mano mi invita a fare altrettanto, allunga le gambe sul tavolo. Mi dice, «chiedimi quello che vuoi».

Ha la stessa immutata bellezza assassina, porta i basettoni lunghi e un numero imprecisato di bracciali, collanine, anelli. Lo osservo e penso, dopo il divorzio da Angelina Jolie, e il crollo dell’immagine della famiglia perfetta, quanti erano pronti a scommettere che la fama di Brad Pitt sarebbe aumentata? Si era creata una complicità impossibile da immaginare in uno dei soliti incontri ingessati con gli attori, sembriamo due compagni di scuola. Mi viene spontaneo chiedergli dei suoi inizi. E lui: «Ma io sono un miracolato».

Cosa? «Da ragazzo ho lasciato il Missouri e sono andato a Los Angeles in moto. Avevo 2-300 dollari in tasca. Non conoscevo nessuno, non avevo la minima idea di quello che avrei fatto. Sono un miracolato che ha vinto la Lotteria». Beh, ragazzi, questo è un altro articolo. Chiamo il caporedattore e gli dico, «guarda che la faccenda è grossa». Il giorno dopo il Corriere titola in prima pagina, «Brad Pitt: io miracolato, ho vinto alla Lotteria». La sorpresa maggiore doveva ancora venire. L’incontro con l’attore è avvenuto nel 2019, il Me Too era nato due anni prima, nel 2017 il New York Times accusò di molestie sessuali Harvey Weinstein, l’orco di Hollywood, il potente produttore cinematografico statunitense.

Ma non era ancora del tutto esplosa la consapevolezza che da quel momento in poi, sul fronte del rispetto e dei diritti delle donne, dal cinema agli altri ambiti lavorativi, non si tornava indietro e le cose sarebbero cambiate. Brad Pitt, simbolo dell’uomo seduttore, all’epoca 55enne, mi disse che il machismo a Hollywood e dintorni era insopportabile. Mi pregò di non farne una crociata, di restituire il suo pensiero in maniera morbida, scegliemmo le parole insieme. Nell’articolo, Brad Pitt dice: «Oggi mi chiamano ancora sex symbol e mi dà fastidio».

Racconta che per lui erano i tempi giusti per interpretare il personaggio Roy in Ad Astra, un astronauta: «Perché è un eroe fragile». Gli chiedo come ha lavorato sulla solitudine del suo astronauta, se ha pescato nel dolore del divorzio. Mi risponde che «un attore deve usare quel tipo di sentimenti, deve essere onesto, vulnerabile, aperto, non cercare di essere simpatico o antipatico». E torna al machismo da cui vuole allontanarsi anni luce, lui, l’irresistibile rubacuori ladro di Thelma & Louise: «Gli uomini americani sono prigionieri di certi schemi che vanno superati, sono troppo abituati a creare barriere, a negare il dolore, la vergogna. In questo film sono partito da una domanda: c’è la possibilità di un rapporto migliore con le persone che amiamo e con noi stessi?».

In questa storia girata da un regista intellettuale come James Gray puoi trovare archetipi, rimandi, citazioni di film e romanzi, da Cuore di tenebra di Conrad a Moby Dick. «Vero, mi affascinava una storia intimista nello spazio infinito, il padre dell’astronauta, ritenuto morto, era un genitore che lo ha abbandonato da piccolo e la sua assenza ha fatto del mio Roy, che continua a idolatrarlo, una persona solitaria incapace di esprimere le sue emozioni». Si ferma, mi prende il polso cercando un’intesa più profonda: «Amico, credimi, questa è stata la mia sfida più grossa come attore, tirar fuori delle emozioni mentre sono solo, nello spazio, senza una vita affettiva. Quanti film di fantascienza toccano davvero la nostra anima? Io non sono un tipo da Guerre Stellari».

Qui siamo più dalle parti di Solaris. «Sono d’accordo, ma è un tipo di film dominati dagli effetti speciali, in cui resti a penzolare dai fili, sospeso a dieci metri da terra». Il viaggio più avventuroso, però, è stato quello compiuto da ragazzo, in moto, dal Missouri all’inseguimento del suo American dream a Hollywood. «Sono nato in una cittadina ventosa del Mid-West e gironzolavo tra le palme della California in cerca di fortuna». Il discorso scivola sulla mancata statuetta dell’Oscar, mi disse che «ogni anno gente di talento la prende e altre di eguale talento non la prendono. Hanno vinto tanti miei amici. Sono contento lo stesso»; mi rivela di non essere un cinefilo come Quentin Tarantino, «da giovane andavo al Drive In, ora se guardo un film in tv mi sintonizzo su una commedia, le tragedie non ce la faccio, ma sono cresciuto col grande cinema indipendente degli Anni ’70, dove non trovi buoni o cattivi ma un’umanità complessa».

Dopo un’ora mi ritrovo nel previsto incontro con gli altri quattro colleghi stranieri. La publicist del film ha un foglio con i nomi degli accreditati. «Valerio, puoi andare». Brad Pitt mi guarda e mi fa l’occhiolino. Il mio articolo prescindeva da tutto questo incredibile fuori programma, ma qualcosa lasciavo intendere. Cominciava così: «Prima che rivenga inghiottito dalle sue guardie del corpo, Brad Pitt finalmente libero sembra uno studente fuori quota, l’aria sbarazzina easy going, pronto a dividere una Coca-Cola». Così ho conosciuto una stella di Hollywood tra le stelle dell’universo.

Da tg24.sky.it il 14 gennaio 2023.

Brad Pitt ha ormai una filmografia davvero ricca e sono state molte le occasioni in cui ha sfoderato il suo fascino per sedurre colleghe sul set. Basti pensare al giovanissimo Brad di Thelma & Louise che salta sul letto a petto nudo brandendo un phon come fosse una pistola, o lo sguardo tenero e romantico del personaggio di Vi Presento Joe Black o la sensualità di Troy. Molti potrebbero immaginare che la scena di sesso più indimenticabile per l’attore di Hollywood sia stata quella in Mr and Mrs Smith con l’ex moglie Angelina Jolie, eppure non è così secondo le sue ultime confessioni.

 “Geena Davis era così dolce, gentile e delicata. Quella scena d'amore, credo, sia andata avanti per due giorni di riprese. Si è presa cura di me” ha dichiarato brevemente ricordando la sua esperienza sul set di Thelma & Louise, però è tornato agli esordi con il pensiero per trovare la sua scena di sesso preferita. Brad Pitt ancora fa strage di cuori e ha un grande successo con il pubblico femminile alla soglia dei 60 anni, ma nel corso della sua carriera ha lavorato con attrici molto belle.

Quando gli è stato chiesto dalla rivista W. qual è stata la scena di sesso più bella che ha girato, Pitt ha risposto che il suo momento di passione preferito sul grande schermo è stato nella soap opera Dallas. “Ho dovuto rotolarmi nel fieno in una stalla. Non credo che avessi una battuta da dire, dovevo solo rotolare e scherzare” ha raccontato, ricordando la sua partecipazione in quattro episodi della serie tv dal 1987 al 1988 nei panni di Randy, il fidanzato del personaggio interpretato da Shalane McCall.

La scena romantica e piccante di Dallas ha avuto anche conseguenze nella vita reale, perché Shalane McCall fu poi la ragazza di Brad Pitt per un po’ di tempo. Quindi non sembra strano che l’attore ricordi chiaramente quel momento di trasporto sentimentale e fisico che senza dubbio ha lasciato il segno nella sua vita. Nella serie c’erano anche Larry Hagman e Linda Gray come protagonisti principali.

Reduce dall’esplosivo e divertente Bullet Train, a breve vedremo Brad Pitt nei panni di Jack Conrad nel nuovo film di Damien Chazelle, regista di Whiplash e La La Land. In Babylon divide il set con un’altra bella collega, ovvero Margot Robbie, che ha rubato un bacio a Brad Pitt improvvisando una scena del film perché “non potevo lasciarmi sfuggire questa occasione”. “Non era nella sceneggiatura. Ma ho pensato: in quale altro momento avrò la possibilità di baciare Brad Pitt? Ci proverò”.

Brenda Lodigiani: «Fiera delle mie origini sinti, al campo nomadi mi sentivo davvero libera». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera martedì 5 dicembre 2023.

L’attrice comica che ha spopolato con la Gialappa’s racconta la sua vicenda umana

Brenda Lodigiani, attrice e comica tra le più apprezzate della nuova generazione, capace di trasformarsi dall’androide Ester Ascione ad Annalisa passando per Orietta Berti, ha scritto un libro. E, fino a qui, niente di strano. Anche la Milanese imbruttita, altro suo personaggio, «direbbe: “Qua bisogna fatturare, non c’è tempo da perdere”», racconta. «In realtà mai avrei pensato di pubblicare un libro, io che al massimo scrivo i post su Instagram». Eppure, quando le hanno dato questa possibilità non solo lo ha fatto, ma ha scritto un romanzo, Accendi il mio fuoco (edito da Sperling & Kupfer).

Come mai?

«Non volevo per forza scrivere qualcosa di ironico. Piuttosto è stato spontaneo andare a pescare nell’autobiografico. Forse perché per me, abituata da sempre a lavorare in un team, questo libro rappresenta il primo lavoro mio e solo mio».

Per la prima volta parla delle sue origini e svela che è per metà sinti.

«La mia protagonista si chiama Kelly... una furbata visto che mi chiamo Brenda (il riferimento è ai due personaggi di Beverly Hills 90210, ndr.). Anche lei, come me, prova la sensazione di voler appartenere a un gruppo ma non essere abbastanza. E’ troppo bionda per confondersi con i suoi cugini sinti e troppo sinti per essere inclusa dai bambini “fighi” della sua cittadina di provincia».

È quello che è successo a lei?

«Beh, si. In comune abbiamo un forte spirito di adattamento, ma la sensazione era spesso quella di essere sdoppiata: da una parte c’era la vita al campo, dai cugini. Dall’altra, quella “normale”, di provincia. Ero un po’ sfigatella, non avevo vestiti di marca, mia mamma mi prendeva le scarpe da ginnastica Nike».

È cresciuta a Sant’Angelo lodigiano.

«Arriva da lì l’aria popolare che si respira nel romanzo. E da lì è partito il mio lavoro di osservazione degli esseri umani. Per quanti giri possa fare, basta un profumo per tornare ad essere quella bambina lì, cresciuta in un quartiere molto popolare, in cui c’erano pochi bambini ma con quelli eravamo una banda, una comune in cui ti scambiavi vestiti e varicelle. Era un altro modo di vivere, che ora non posso nemmeno pensare di far provare ai miei figli: abito a Milano e non so neanche come si chiamano i miei vicini di pianerottolo».

Come ha vissuto le sue origini sinti?

«Io bene, mia mamma meno: lo ha scoperto quando era già adolescente. Mia nonna, che viveva nelle carovane, l’aveva abbandonata, affidandola a una famiglia di Gagi (ovvero persone non nomadi). Nel tempo e con mille fatiche, ha poi riallacciato i rapporti. Io così ho potuto godere della parte più bella e spensierata di questa cosa: per me era una meraviglia andare nel campo, dove c’erano tanti bambini, ogni giorno un’avventura, sempre in un posto differente. Lì potevo fare davvero quello che volevo. Infatti, al rientro delle vacanze, rinchiudermi di nuovo dentro gli schemi era un piccolo dramma».

Perché non aveva mai parlato di queste origini?

«Per me non sono mai state un peso o un tabù, ma ho tenuto sempre un secondo binario in cui correva questa altra vita. Anche io, come Kelly, ho un aspetto insospettabile. Mia mamma, bellissima, è una morettona con occhi verdi meravigliosi. Io sono bionda, chiara… e da bambina volevo essere quella roba lì: per essere credibile volevo mettermi gonne lunghe a fiori... gonne che tutt’ora ho nel mio armadio, ma alla fine non metto mai».

Quando è arrivato, invece, lo spettacolo?

«La danza mi ha salvato la vita. Mi piaceva ballare e i miei mi avevano iscritta a un corso: sognavo di diventare una ballerina. Non ero la più brava e lo sapevo ma sono molto competitiva e non ho mai mollato. A 18 anni mi hanno presa per lavorare a Disney Channel».

Deve dire grazie alla sua determinazione?

«E alla noia. Da piccola mi sono annoiata tantissimo. Non bastasse, ero allergica ai gatti ma li accarezzavo lo stesso, quindi per qualche giorno dovevo stare a casa a fare il cortisone con l’aerosol. Lì guardavo tanta, tanta tv: credo di aver costruito così il mio immaginario».

Gli inizi come comica?

«A “Scorie”, nel 2009: facevo la parodia del mondo Disney da dove venivo. Poi Arisa vinse Sanremo e mi chiesero di imitarla. Mi pareva follia, invece alla fine funzionò. Anche adesso mi ripeto: prima o poi mi sgameranno, capiranno che sono una improvvisata».

Nel frattempo, però, lavora con la Gialappa’s

«È il sogno di ogni comico. Sono felicissima: sono le migliori spalle che si possano avere. Si lavora duramente, non fanno mai andare in onda una cosa in cui non credono, ma avverti di essere nelle condizioni per dare il meglio».

Al GialappaShow ha conosciuto poche settimane fa Paola Cortellesi: lei come stile la ricorda ai suoi esordi. Non crede?

«Se ho iniziato a fare questo lavoro è grazie a lei. La guardavo in tv e ho capito che quello che avevo dentro si poteva tradurre in quella cosa lì, che vedevo fare solo da lei. Per me è stata fondamentale. Quando l’ho vista, io che ho sempre una discreta faccia da tolla, non sono riuscita a fare molto se non abbracciarla. Un momento magico».

Ha anche interpretato la sua Ester Ascione.

«Ma ci si rende conto??! Basta, io ho finito, credo di aver dato tutto con quello. Ovviamente è stata bravissima, è stato un onore». La seguono in moltissimi anche sui social, dove spopola la milanese imbruttita. «La milanese imbruttita sono io all’ennesima potenza. Se potessi dire quello che penso, se potessi esprimere la vera me, manderei tutti a cagare… senza contare che sono nata per lavorare».

E ora è anche scrittrice. Le fa effetto?

«Moltissimo. Mi hanno fatta uscire a calci nel sedere dall’istituto dove mi sono diplomata con un “60 e non farti vedere mai più”. Quindi ho un senso di inadeguatezza totale verso questa sfida. Quando mandavo i primi capitoli all’editor, nella mail gli chiedevo anche scusa. Ma lui mi ha molto tranquillizzata, quindi speriamo possa piacere anche a chi lo leggerà. Intanto ringrazio mia mamma e mio papà per avermi prestato un pezzo della loro storia».

Che sogno le rimane per il futuro?

«Posso sognare? Ma in grande? Allora veneggio: vorrei che il mio libro diventasse un film, io recito come attrice e Paola è la regista… non sono ubriaca eh».

Brendan Fraser punta all’Oscar da «obeso», una dieta drastica gli causò perdite di memoria. ALESSIA CALZOLARI su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023.

L’attore, cambiato da quando era un sex symbol anni Novanta, torna sul grande schermo dopo 20 anni con una interpretazione da Oscar

Anche chi non è così appassionato di cinema, ma ha più di 30 anni, conosce bene il nome, e il volto, di Brendan Fraser, 54, alias Richard O'Connell, seducente protagonista della trilogia «La Mummia».

Dopo una carriera esplosiva tra gli anni Novanta e Duemila, l’attore sex symbol, apprezzato sia dal pubblico femminile che maschile e stimato per la sua versatilità, è sparito dalle scene. Ha fatto ritorno sul red carpet solo lo scorso anno e dalla porta principale — cioè come candidato agli Oscar 2023 che peraltro ha vinto — visibilmente cambiato e in un ruolo diverso da quelli a cui ci aveva abituati. In «The Whale» del regista Darren Aronfosky Fraser è Charlie, professore omosessuale, a un passo dalla morte, che vive in solitudine, soffre di obesità e cerca di riappacificarsi con la figlia. Un ruolo che gli rende il doveroso merito, dopo un lungo periodo di immeritato oblio. Ecco perché.

Brendan Fraser, la dieta drastica «brucia cervello»

Negli ultimi vent’anni Fraser ha lavorato in produzioni minori e in ruoli secondari, allontanandosi da Hollywood un po’ per scelta, un po’ per motivi di salute. A determinare la crisi dell’uomo e dell’artista con tutta probabilità hanno contribuito gli stravolgimenti fisici dovuti ai ruoli che, di volta in volta, interpretava. Primo tra tutti quello del 1997. Allora l’attore dovette dimagrire drasticamente per poter (s)vestire i panni di «George Re della Giungla?», film basato sull’omonima serie animata di «Tarzan». Un successo al box-office stimato in 175 milioni di dollari (a fronte di un budget di 55 milioni di dollari circa). Durante le riprese, Fraser sfoggiò un fisico apollineo, frutto di una dieta così sbilanciata e restrittiva da causargli temporanee perdite di memoria. In una intervista a «Variety», settimanale di intrattenimento americano, l’artista rivelò di essere «drammaticamente affamato di carboidrati. Un giorno, di rientro verso casa, mi sono fermato a ritirare del contante senza riuscirci. Il mio cervello faceva difficoltà a connettere: non ricordavo il pin. Quella sera non avevo mangiato nulla, era una dieta molto, troppo severa».

Brendan Fraser, dal sovrappeso alla depressione

Altro copione, altri guai per l’attore di Indianapolis. Mai sostituito da uno stuntman, aveva risentito parecchio della trilogia «La Mummia». Ai tempi Fraser era «tenuto insieme da ghiaccio e bende» come da lui stesso dichiarato in un’intervista del 2018. Per risolvere i problemi a ginocchia, schiena e corde vocali si erano resi necessari sette anni di interventi chirurgici e dosi massicce di medicinali. Tutto ciò lo portò a ingrassare, a lavorare meno e ad ammalarsi di depressione. La salute mentale è stata poi ulteriormente minata da un episodio di molestie sessuali: nel 2003 Philip Berk, ex presidente dell’Hollywood Foreign Press Association (HFPA), associazione che organizza tra l’altro i Golden Globe, arrivò a palpeggiarlo nel bel mezzo di un evento. Fraser inizialmente non denunciò l’accaduto, reso pubblico solo nel 2018, un anno dopo l’avvento del movimento MeToo. L’episodio ebbe un impatto tale sulla vita privata e professionale di Fraser che in quel periodo divorziò dalla prima moglie Afton Smith, con la quale ha avuto tre figli.

Becoming Charlie

Ieri notte abbiamo assistito alla 95a cerimonia degli Oscar. Tra i film in lizza, con ben tre nominations — miglior trucco e acconciatura, migliore attore protagonista, migliore attrice non protagonista — e due premi Oscar vinti — miglior attore protagonista a Brendan Fraser e miglior trucco e acconciatura ad Adrien Morot, Judy Chin e Anne Marie Bradley — c’era anche «The Whale». Per trasformarsi in Charlie, il protagonista della pellicola, Fraser si è sottoposto a estenuanti sedute di trucco: in media della durata di sei ore ciascuna, tutti i giorni. Indosso portava una tuta prostetica di 136 kg così da sembrare un obeso di 270 kg: «Avevo bisogno — spiega a proposito del suo personaggio — di imparare a muovermi in un modo nuovo. Ho sviluppato muscoli che non sapevo di avere. Alla fine della giornata, ogni volta che toglievo il costume, provavo un senso di vertigine. Quella sensazione oscillatoria mi ha fatto apprezzare chi ha corpi simili. Ho imparato che devi essere una persona forte fisicamente e mentalmente per abitare quel corpo».

In un’intervista di Francesca Scorcucchi su Corriere Fraser ha anche raccontato di essere «ingrassato per interpretare Charlie, ma senza il trucco non ci sarebbe stato questo film. Indosso una protesi creata con una nuova tecnologia. Una tuta di grasso che mi trasforma e mi permette di essere Charlie. Il regista aveva bene chiaro che i ritocchi virtuali dovevano essere minimi e che quella protesi doveva obbedire alle leggi della fisica e della gravità, rendermi i movimenti difficili come sono quelli di un obeso grave. La mia doveva essere una rappresentazione che rispettasse e conferisse dignità a chi ne soffre».

Brendan Fraser, la rinascita

A restituire merito e dignità a Fraser attore, e forse anche all’uomo — «Solo le balene riescono ad andare così in profondità, The whale mi ha salvato», ha dichiarato commosso con la statuetta tra le mani — è stata proprio la pellicola di Darren Aronfosky (già regista de «Il cigno nero» e «The Wrestler»), che lo ha voluto nel ruolo di Charlie per il suo talento e non per l’aspetto fisico. A Venezia, dove il film era stato presentato in anteprima durante la Mostra del Cinema, Fraser fu accolto con una standing ovation. Il successo italiano si è rivelato premonitore. Come il più bello dei sogni, oggi diventato realtà.

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 28 gennaio 2023.

Dio creò la donna, B.B. ne fece una Diva. La serie con cui France television celebra i cinquant' anni d'addio al cinema dell'attrice (nel 1973, sul set di Colinot l'alzasottane), si apre non a caso con la danza sfrenata, capelli scarmigliati e piedi nudi, di Brigitte Bardot (nella realtà avvenne a un party al Festival di Cannes), che l'allora marito Roger Vadim inserì in una scena di Piace a troppi (Et Dieu créa la femme), accolto tiepidamente in patria ma un boom negli Stati Uniti e nel mondo. Nasce un'icona, la ragazzina simbolo di emancipazione femminile e libertà sessuale.

 Tra gli appuntamenti più attesi di Unifrance (a Parigi dal 14 gennaio) con il cinema e le serie che vedremo in Italia quest' anno, ci sono le prime due puntate (su sei) di Bardot , dirette dai registi Daniéle e Christopher Thompson (madre e figlio), che vedremo su Canale 5. […]

Azzeccata la scelta della protagonista, la ventenne Julia De Nunez, affiancata da Victor Belmondo (nipote di Jean-Paul) nel ruolo di Roger Vadim. Quando i due si conoscono lei ha quindici anni, alle spalle sogni di danza e due copertine sulla rivista Elle, di cui è considerata la mascotte; lui è lo spiantato assistente del regista Marc Allégret.

 L'attrazione è immediata, lui la mette a suo agio e la libera del trucco al provino (B.B. ha sempre lamentato i ceroni imposti dalle truccatrici). Brigitte salta la scuola e va a casa di Vadim, che divide la stanza con un compagno, togliendosi lungo le scale i calzini da bimba. Nella biografia racconta di quando il regista la porta a una festa e un'attempata invitata guardandole i calzini chiede maligna «mia cara, ma lei è vergine?», B.B. la gela: «No, e lei?». Segue una storia clandestina osteggiata dai genitori borghesi di lei, le nozze al compimento dei diciott' anni, il set a Saint-Tropez.

Altro capitolo, altro amore. Qui l'incontro con Jean-Louis Trintignant, interpreta il fratello dell'uomo da cui la conturbante ragazza è attratta. È la fine del rapporto - già fraterno - con Vadim e l'inizio della caccia dei paparazzi che durerà per tutta la vita. Negli Stati Uniti le ragazze iniziano a pettinarsi e vestirsi come lei (in Italia strappano i manifesti "spinti" del film), icona di stile che per anni si è chiesta come vestirsi e pettinarsi per le cene e poi ha scelto di essere libera. Racconta che nel '57 «Sophia Loren e Gina Lollobrigida al Festival di Cannes apparivano in pubblico solo a poppe e diamanti in fuori, costose pellicce, sontuose toilette e rolls (...) 

Io non ero entrata nel sistema, era questa la cosa originale e sconcertante. Delle convenzioni me ne infischio, ecco perché sono stata chiamata "tizzone dell'inferno, provocatrice, donna di malaffare", quando non c'è persona più semplice, spontanea e schietta di me». […]

A Roma condividerà la stanza con Ursula Andress, avrà vari amanti, girerà sofferente un film dopo un aborto e sarà Poppea in Mio figlio Nerone, con Sordi, De Sica e Gloria Swanson, dove fa «la prima prova di potere da diva»: ansiosa di girare la scena del bagno nel latte, rifiuta l'amido di riso, ottiene il latte di mucca che dopo ore di luci e caldo diventa yogurt. «Così si conclusero le mie vacanze romane e i miei capricci da star in erba». […]

Leonardo Martinelli per "La Stampa" il 28 giugno 2020. Se non fosse stata «scoperta» a Cinecittà, forse non sarebbe diventata mai l'attrice che è stata. E se sul set di un film italiano un parrucchiere non avesse avuto l'idea geniale di immaginarla bionda, non sarebbe diventata il mito. Ma i legami di Brigitte Bardot con l'Italia vanno oltre e comprendono due fiammate di passione indimenticabili, con il playboy Gigi Rizzi, a Saint-Tropez, dove BB già abitava, nell'estate 1968 (spensierata, mentre a Parigi altri giovani s' illudevano di rifare il mondo) e una storia, meno conosciuta, con un bel tenebroso, intellettuale (comunista per giunta), Raf Vallone, a Parigi, dieci anni prima. È azzeccato il titolo del nuovo libro di Mauro Zanon, Brigitte Bardot, un'estate italiana, (edizioni Gog), perché l'amore della star per il nostro Paese si confonde con il sole assoluto di tante estati lontane. Zanon, corrispondente da Parigi per il Foglio, ricostituisce con precisione l'atmosfera tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, prima che l'attrice si relegasse nella Madrague, la sua villa davanti al mare, a Saint-Tropez, dove vive ancora oggi. Il libro propone anche per la prima volta i bozzetti preparatori di Milo Manara per una serie di acquarelli dedicati a Brigitte e per una statua che oggi la raffigura nel suo villaggio di adozione. Risalgono a pochi anni fa, ma sono ispirati a lei giovane e splendida (il nostro fumettista racconta a Zanon che le mandò una prima versione, prudente e puritana, e fu Brigitte ad autorizzarlo «a insistere maggiormente sull'aspetto erotico»). Ma ritorniamo alla storia italiana di BB. Inizia da subito. Anne-Marie Mucel, sua madre, era francese ma nata a Milano (il padre vi dirigeva una compagnia di assicurazione) e ci rimase fino a quando, nel 1933, conobbe un facoltoso industriale francese di passaggio, Louis Bardot, e se ne innamorò. Anne-Marie lo raggiunse a Parigi, dove nacque Brigitte, tirata su da una bambinaia fatta venire dalla Lombardia, la dolce Dada. I genitori, scintillante coppia dell'alta borghesia, a casa ci stavano ben poco e la piccola iniziò a parlare in italiano, la lingua dell'adorata Dada, prima che in francese. La ragazza fece studi di danza classica e poi si avvicinò al cinema. Ma a Parigi non la prendevano sul serio. Per questo il primo marito, il regista Roger Vadim, la consigliò di andare a Roma a tentare la fortuna. Lì nel 1954 girò lungometraggi non indimenticabili, ma che le dettero visibilità. «In Italia mi hanno fatto fare dei film che forse non erano bellissimi - ha raccontato più tardi la Bardot - ma dove sono stata fotografata bene e per i quali è stata fatta una buona pubblicità. Ciò ha permesso alla Francia di rendersi conto che forse potevo fare qualcosa». A Roma viveva con Ursula Andress, sua amica, in una stanzetta in cima alla scalinata di piazza di Spagna. Nel 1955 girò Mio figlio Nerone, di Steno. BB era Poppea e recitava accanto ad Alberto Sordi e Vittorio De Sica, lì un parrucchiere ebbe l'idea di decolorarla: nacque una bionda unica. Vadim la veniva a trovare e una sera, all'Hostaria dell'Orso, vedendola ballare a piedi nudi su un tavolo, ebbe l'idea di una scena di Et Dieu créa la femme, girato pochi mesi dopo in uno sconosciuto villaggio di pescatori, Saint-Tropez. Da lì in poi per la Bardot ci sono tante altre estati italiane, come quella del 1961 a Spoleto a girare Vita privata di Louis Malle, con Marcello Mastroianni (lei volle andare in segreto all'alba nel carcere della città umbra per incontrare e abbracciare un giovane condannato per aver ucciso il patrigno che maltrattava la madre), o quella a Capri a girare nella villa di Malaparte alcune delle più belle scene di «Il disprezzo» di Jean-Luc Godard, tratto dall'omonimo romanzo di Moravia. Due, poi, i grandi amori italiani, brevi ma intensi. Quello con Raf Vallone, che nel 1958 recitava in teatro a Parigi per Peter Brook. Ci provarono tutte a conquistarlo ma solo lei ci riuscì («mi insegnò moltissime cose, compreso il silenzio», confidò BB). Vallone la lasciò per salvare il matrimonio con la donna di tutta una vita, Elena. E poi la storia con Gigi Rizzi, documentata dai rotocalchi: era il 1968, una sfrenata estate a Saint-Tropez fatta di mare, feste e sesso. «Sembravi un extraterrestre di stratosferica bellezza - ha scritto più tardi Gigi, rivolgendosi a Brigitte -. Ma non eri quel personaggio dispotico descritto dai giornali. Eri fragile, malinconica, intelligente, sensibile».

Testo di Stenio Solinas pubblicato da "Il Giornale" l'1 giugno 2020. «Non bisogna far piangere gli operai di Boulogne-Billancourt» diceva Jean-Paul Sartre per giustificare i suoi silenzi riguardo ai disastri del «socialismo reale»... Esistessero ancora, il filosofo e la classe operaia, avrebbero di che rallegrare il cuore e la mente di fronte alla mostra che nel locale museo intitolato agli Anni Trenta celebra il volto, il corpo e l'anima di Brigitte Bardot...Lungo un chilometro quadrato d'esposizione si allineano i cimeli che contribuirono a fare dell'attrice il simbolo stesso della Francia: il busto scolpito da Aslan come moderna Marianne, incarnazione della Repubblica, le foto di Robert Doisneau, Richard Avedon, Sam Levin che ne catturavano il fascino infantile e carnale, i multipli di Warhol, il ritratto di Van Dongen, gli abiti metallici di Paco Rabanne, le ballerine Repetto tagliate su misura per i suoi alluci ai tempi di Et Dieu... créa la femme, le affiches di Sénéquier, il caffè di Saint-Tropez, che grazie a lei si assicurò fama e ricchezza, i set che proprio negli stabilimenti cinematografici di questa cittadina della banlieue la videro diretta da grandi registi, René Clair per Le grandi manovre, Julien Duvivier per Femmina e La sposa troppo bella... E ancora: lettere, gioielli, automobili, abiti di scena, canzoni e colonne sonore per un omaggio che abbina il suo nome a un'epoca e lo fa all'insegna della spensieratezza (Brigitte Bardot, les années «insouciance»). Per l'occasione, «Paris Match» esce con un'edizione speciale tirata a un milione di copie, «Beaux Arts Magazine» con un omaggio da altre centomila, Henri-Jean Servat, il curatore della mostra, con un libro, Brigitte Bardot, la légende (Editions Hors Collection) intriso di nobile nostalgia, mentre il regista Joan Sfarr è alle prese con un film in cui Laetitia Casta ha l'ingrato compito di impersonarla. «Brigitte Bardot sta al cinema francese come Dostoevskij al romanzo russo» ha sintetizzato il settimanale di moda «Elle»...L'affermazione può apparire azzardata, ma la rivista in questione se la può permettere. Fu proprio un suo numero speciale del maggio 1950, con la quindicenne Brigitte in veste di modella-mascotte, a suscitare l'interesse del regista Marc Allégret. Lì per lì, un consiglio di famiglia optò per non dar seguito alla cosa. Borghesi bene, i Bardot padre e madre vedevano male il mondo del cinema, pericoloso, peccaminoso. Fu il nonno materno a vincere le resistenze: «Se pensate che questa ragazzina sarà una puttana, accadrà con o senza il cinema; se invece pensate di no, non sarà il cinema a cambiarla. Lasciamola libera di scegliere, non abbiamo il diritto di decidere il suo destino»... L'assistente di Allégret si chiamava Roger Vadim: tre anni dopo sarebbe stato suo marito e di lì a poco l'artefice del suo mito. In vent'anni sì e no di carriera, la Bardot girò nemmeno cinquanta film e di questi se ne salvano appena una mezza dozzina. Eppure in quell'arco di tempo lei fu la Francia sullo schermo e da Autant-Lara a Godard, da Malle a Clouzot, da Christian-Jaque a Duvivier ci si rese conto che con lei in scena non c'era posto per nient'altro. Non era questione di pura e semplice bellezza, perché ci sono state e ci sono attrici più belle, e con più fascino; né di bravura, perché quanto a recitazione la sua non brillò mai e quando accadde fu quasi per caso e come controvoglia. È che nessuna come lei è riuscita a incarnare il senso panico di un erotismo amorale e impudico, naturale e innocente. Era un qualcosa che aveva a che fare con la felicità e l'indolenza, una punta appena di malinconia, l'allegra sfrontatezza di chi si offre perché così le va, senza sadismi e senza masochismi. Che prendesse il sole senza costume sul terrazzo di una casa, che ballasse scalza su un tavolo, che si presentasse al proprio ricevimento di nozze in accappatoio a riempirsi un piatto di cibo per poi ritornarsene a letto, l'impressione che se ne aveva era quella di una divinità pagana per la quale fosse doveroso perdersi, senza colpa e senza espiazione se non per la sofferenza che il successivo abbandono avrebbe provocato. Si dirà che era una immagine e non la realtà, e che l'insouciance, la spensieratezza di cui la mostra qui raccontata ne fa il simbolo per eccellenza, nasconde, come il tempo e la vita avrebbero dimostrato, una donna fragile, piena di ansie e di pulsioni suicide, a disagio con i sentimenti e il suo stesso corpo. Può darsi, ma in realtà l'una non esclude l'altra e in ogni pessimismo attivo si spalancano abissi di tragedia, albergano solitudini e pensieri neri, trova spazio l'insensatezza del vivere, la sua gratuità, il suo peso a volte insopportabile. La libertà si paga, e a caro prezzo: «Sono sempre stata una ribelle e sono sempre stata troppo lucida per poter essere mai stata felice». Lo scandalo e il fascino della Bardot non derivavano dall'aver consapevolmente infranto dei tabù, quanto dalla naturalezza con cui li infrangeva, perché non la riguardavano, non erano un suo problema. Due immagini della mostra aiutano a spiegare meglio. La prima, tratta dal Disprezzo di Godard la vede sdraiata a prendere il sole sulla terrazza di villa Malaparte, vestita solo di un libro che le copre le natiche, la bellezza più indifesa e più inquietante del nostro Novecento. Immersa nella luce e nella natura a picco sugli scogli di Punta Massullo, la casa si rivelava per quello che è, un tempio pagano, e Brigitte la sua divinità. Nel film Michel Piccoli, sceneggiatore in crisi sentimentale e creativa, salita la scalinata a trapezio che porta alla sommità dell'edificio, si sedeva, cappello in testa, vestito di tutto punto, a fianco della passiva e nuda sacerdotessa. «Disturbo?» chiedeva. «No» era la risposta. Poi, sollevato il libro da quel tabernacolo profano, cominciava a leggere. Al mistero del potere femminile opponeva la sua sterilità d'intellettuale. «Beauty is difficult» dice un verso di Pound. La seconda è uno scatto del 1965: bocconi su un divano, due rose rosse nei capelli e un braccialetto al polso come unici indumenti-ornamenti, è in piena luce nella penombra della stanza. Una principessa barbara, inerme eppure invincibile...

Gigi Rizzi, l'ultima estate e la risposta che Brigitte Bardot non gli diede mai. Storia di Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2023.

«Era il ’68, e io me lo giocavo a piedi nudi ballando sui tavoli, immaginando che non sarebbe mai arrivato domani» scrive Gigi Rizzi. Lo scrive a Brigitte Bardot in occasione del suo settantesimo compleanno, quando il domani è arrivato per lui e per lei, la diva che lo ha reso famoso.

Nato a Piacenza, Rizzi viene da una famiglia di industriali. Tre fratelli, un padre morto presto, una madre bellissima, Pupa. Un’istitutrice giovane che lo svezza (dal libro Ho ammazzato Gigi Rizzi: «Avevo quattordici anni, e tra i miei compagni di scuola era diventata quasi una litania, il lamento delle “case chiuse” che erano state “aperte”; mentre io avevo l’amante in casa»). È forse laggiù, a quattordici anni, la folgorazione che la giovinezza, specie la sua di ragazzo di bell’aspetto, padrone delle lingue (inglese e francese), sia un privilegio. Ecco chi è Rizzi prima dell’estate del ’68.

Soprannominati , Gigi Rizzi, , Franco Rapetti, Rodolfo Parisi e Gianfranco Piacentini, ventenni, abbronzati, conquistano Saint Tropez. Loro per primi ragionano in termini di conquista collettiva, così quando Gigi si fidanza con Brigitte Bardot, e insieme agli amici entra alla Mandrague, la villa di lei, ebbene cosa fanno. Qual è il primo gesto compiuto da questi giovani spavaldi spensierati? Piantare una bandiera dell’Italia sul tetto della villa. Una bandiera che sia visibile dalla spiaggia, dal mare, da lontano, lontanissimo — tutti devono sapere che sono arrivati gli italiani. Nei giorni di permanenza da BB, Gigi esce in terrazza, scruta l’orizzonte con l’illusione di essere guardato da una folla, un pubblico immenso ad applaudirlo. Una sensazione di palcoscenico che gli pare prefigurazione di futuro: sarà tutta così, un trionfo. Cosa potrà mai cambiare? È solo l’inizio.

Mentre nel resto del mondo i ragazzi contestano il potere e le ideologie dominanti, il ‘68 politico, lui e i suoi amici realizzano un altro ’68 — rivendicano a distanza di anni —, la loro è una rivolta sentimentale, e no, non è vero che quando i coetanei lottavano, loro facevano semplicemente sci d’acqua. Se l’invenzione di un altro ‘68 lì per lì pare un’idiozia, negli anni, nella reiterazione dei ricordi sempre più lontani, quella rivoluzione — in verità casuale — commuove. Ma questo avverrà molto dopo. Per adesso rimaniamo all’estate del ‘68: Rizzi sostiene che l’amore con BB sia durato novanta giorni, i novanta giorni migliori della sua vita. Qualcuno sostiene invece che la storia durò pochi giorni, e che l’italiano per BB fu solo uno dei tanti. Qui però ci atteniamo alla versione di Rizzi. A sentimenti e nostalgie del nostro protagonista che nella lettera del 2013 scrive: «Non eri quel personaggio dispotico descritto dai giornali. Eri fragile, malinconica, intelligente, sensibile».

Da sinistra: Parisi, Rapetti, Piroddi e Rizzi nel ‘68

Quindi l’estate termina, così la storia d’amore. A volte Rizzi dice che finì per gelosia, a volte per questioni di lontananza. Non per passione — questo rimane invariato nelle versioni —, lui e BB si lasciano con la passione ancora viva. Intanto al gruppo originario di Les Italiens si aggiungono nuovi playboy come Paolo Vassallo insieme al quale Rizzi (già proprietario del Number One di Milano) apre il Number One romano, ufficialmente ristorante vegetariano, nella realtà locale notturno, ritrovo di attori e star internazionali. Élite di giovani ricchi, famosi e bellissimi. Prosegue dunque la stagione del divertimento, delle foto sui giornali, delle donne (per Gigi Rizzi Veruska, Cinthia Lennon, eccetera). «Si andava al Casinò pronti a tornare a casa in treno, se l’ ultima puntata andava a male. Non succedeva mai. Vincevamo, e allora via a godersi la vita» racconta Rizzi di quegli anni.

Un’ascesa vertiginosa che è un precipizio. Nel 1971 la polizia trova un grande quantitativo di cocaina nei bagni del Number One. «Dall’inchiesta venne fuori che lo scandalo fu in gran parte la vendetta di un ex amico di Vassallo, il produttore cinematografico Pierluigi Torri. Ex per questioni di donne. Ma ci fu dell’altro — ricostruisce la vicenda a distanza di decenni (2010) Alberto Piccinini su Il Manifesto nel 2010 —. Testimoni misteriosamente ammazzati in Brasile. Modelle prese per i capelli dopo un tentativo di suicidio in carcere». E ancora: «In un’incredibile mattinata al Palazzo di Giustizia (...) sfilarono playboy, attrici, modelle. Pellicce e maxicappotti. In un’aula accanto, il processo Valpreda» (Franco Valpreda processato per la strage di Piazza Fontana). Gigi Rizzi non è indagato, ma in quanto protagonista di quel mondo e consumatore di cocaina (per sua stessa amissione) capisce che è finita. Di più: vuole salvarsi. Si trasferisce in Argentina, compra terreni e animali, avvia un’azienda agricola. Si sposa con Dolores dalla quale ha tre figli: Cristina, Amedeo e Bernardo. Salvo — come dichiara nel suo libro. Salvo dalla droga e dalla depressione.

Un’ombra, quella della depressione, che aleggia su tutti (Franco Rapetti si suicida, buttandosi dall’undicesimo piano di un grattacielo di New York, Rodolfo Parisi muore giovane in un modo talmente stupido che non pare possibile, o comunque non all’altezza di lui: colpito alla testa dal deflettore dello specchietto di un autobus scendendo dal marciapiede a Londra). Che il male comune sia invecchiare, sbiadire, perdere senso, rimpicciolire. Nel 2004 Rizzi partecipa al reality dove spicca per gentilezza. Di lui Donatella Rettore, concorrente, dice: «Gigi è solamente un povero vecchio». Eliminato alla prima puntata, Rizzi rientra in gioco grazie alla squalifica di Roberto Da Crema causa bestemmia. Finito il reality, Gigi ha belle parole per i compagni. Del ballerino Milton Morales dice: «Siamo diventati amici, ha reazioni un po’ esagerate, ma mi ha protetto tanto».

Invitato in tv discorre di Milton, Floriana Secondi, e nuovamente, a ogni intervista, a ogni partecipazione e ospitata, di Brigitte Bardot. Di trasmissione in trasmissione ripete il racconto dell’estate del ‘68, piedi scalzi, sci d’acqua. Bandiera italiana. Intanto sul web compare il suo sito: www.girizzi.com dove affianco alla gallery, al materiale fotografico d’epoca, campeggia la definizione di sé, ovvero come Gigi Rizzi si presenta alle nuove generazioni: «Un uomo che ha amato le donne più belle del mondo». È forse da qui in poi che Les Italiens diventano altro. Si ripetono le dichiarazioni, i ricordi. A un certo punto i necrologi: «Muore l’ultimo playboy», «Con lui se ne va la Dolce Vita»: e potrebbero essere tutti. Abbagliato dalla possibilità di una nuova stagione di successo, Rizzi torna a vivere in Italia, a Sori (Genova). Ed è dalla casa di Sori che scrive la lettera a B.B. pubblicata su il Corriere della Sera: «Sento ancora oggi la deriva di quell’estate insieme» — scrive. Malinconica, tenera la missiva ha tuttavia un finale a sorpresa: «Anch’io voglio bene agli animali e apprezzo le tue battaglie ecologiste. Ma non ho mai condiviso quel che pensavi allora: gli animali non tradiscono, gli uomini sì. Io, nonostante tutto, credo negli esseri umani» rimprovera Rizzi alla Bardot. Per concludere con un amaro: «Tieni duro, Brigitte, ma cerca di non vedere solo nemici intorno a te».

Parole spiegate solo dopo la morte di Rizzi, a La vita in diretta da Beppe Piroddi o Danilo Endrici (comunque da un amico intimo): più volte Gigi aveva provato a mettersi in contatto con BB. Finalmente raggiunta da un conoscente comune, informata che Gigi aveva desiderio di rivederla, BB dice di no. Nato a Piacenza il 23 giugno del 1944, . E no, quel 23 giugno non è un errore. Nasce e muore lo stesso giorno. In mezzo 69 anni, come 43 quelli in mezzo tra l’estate del ‘68 e la morte. Ma in questa storia, nell’esistenza dei playboy, valgono i giorni. Un giorno riverbera, si allunga — eccolo il senso, laggiù. Esattamente come la bandiera che secondo Rizzi sventolò un’estate intera, e per altri un solo giorno, tanto che non esistono testimoni diretti, dalla spiaggia, dal mare.

Storia di Britney, tra Lolita e Marilyn: quel furioso bisogno d’amore che divora ogni cosa. JONATHAN BAZZI, scrittore, su Il Domani il 26 ottobre 2023

Una vicenda che sembra tratta dalla penna di Joyce Carol Oates. Da baby star a vittima assoluta, ha incarnato tutti gli stereotipi della società americana, il sogno contemporaneo della popolarità veloce e le sue derive disastrose. Il suo memoir parla anche del nostro bisogno di ricercare surrogati clamorosi per un antico desiderio frustrato

Mi dichiaro colpevole: non ho mai avuto interesse per Britney Spears prima che perdesse il controllo. Era il 2007: la principessa del pop entra in un salone di bellezza, afferra un rasoio elettrico e, con un ghigno sinistro, si rasa a zero. E poi, qualche giorno dopo, armata di un ombrello verde, si scaglia contro l’auto di un paparazzo. Il suo volto è trasfigurato in un ringhio allucinato e le immagini fanno il giro del mondo.

Il coro globale insorge: Britney Spears è uscita di testa. Esaurita, drogata, alcolizzata, Britney divorzia da Kevin Federline, pericolosa per i figli: le viene tolta la custodia. Sembra ripetersi un copione visto altre volte: Kurt, Amy, Michael, Whitney, il talento che uccide. E in più: il destino maledetto delle baby star, la morsa letale del sistema sugli artisti quando sono donne. Il resto della storia è noto: Britney è stata messa sotto la tutela legale del padre per tredici anni.

Anni di prigionia, li definisce la cantante, di controllo totale, sfruttamento, ricoveri coatti e abusi (mentre il padre, che a detta di Britney, ha gravi problemi con l’alcol, di recente ha dichiarato: “Senza la conservatorship mia figlia sarebbe morta”). La cantante è tornata libera solo nel 2021, grazie all’impegno dei fan e del movimento social #FreeBritney, che ha spinto l’attenzione mediatica a smuovere le acque del controverso provvedimento legale.

Tutto questo e molto altro oggi viene raccontato dalla diretta interessata nel memoir The woman in me, Longanesi, un libro da cui si esce straniti, perché la voce di Britney è disturbante, infantile, a più riprese contraddittoria (in questo senso il tasso di autenticità pare altissimo e minimo l’intervento editoriale).

Britney racconta ciò che ha subito prima, dopo e durante l’interdizione, ma accanto alla gravità delle vessazioni – un padre tirannico che la riduce in schiavitù, una madre che alla figlia paziente psichiatrica ripete solo quanto è brutta, un fidanzato (Justin Timberlake) che la costringe ad abortire nel bagno di casa e, mentre lei si contorce dal dolore, riesce solo a suonarle la chitarra –, a colpire è soprattutto l’effetto di congelamento nel passato, la sensazione alienante di ascoltare il racconto di una quarantenne bloccata nella preadolescenza.

Britney ha iniziato a interessarmi dal momento in cui ha perso il controllo e probabilmente ha ragione J. Doyle quando, nel saggio Spezzate, Tlon, scrive che, come società, siamo attratti dal tracollo delle donne di successo (è il prototipo della trainwreck, l’anomalia femminile punita). Ma forse quell’esplosione di rabbia e oscurità del 2007 era così interessante ai miei occhi anche perché Britney Spears è lì che ha iniziato ad appropriarsi del suo personaggio, raccontando – dopo aver a lungo esaudito i desideri degli altri con l’archetipo della vergine della porta accanto – qualcosa di vero. Qualcosa di doloroso e fuori misura, che ha a che vedere con lo spirito della società americana – divenuto ormai anche il nostro, come cultura della performance –, con lo show business e il modo in cui tutto questo può legarsi ai traumi famigliari e la smania di riempimento affettivo.

La storia di Britney sembra uscita dalla penna di Joyce Carol Oates: le vicende riportate nella prima parte del memoir ricordano Sorella, mio unico amore, il capolavoro della scrittrice incentrato sull’omicidio di Jon Benét Ramsey, la reginetta di bellezza di sei anni trovata uccisa nella cantina di casa. È la storia, quella e questa, di una famiglia in cui il disagio mentale si allea con l’ambizione, in un ciclo degenerativo di ferite tramandate e contagio psicopatologico.

Britney voleva essere vista, è stata disposta a tutto pur di essere vista, e la sua vicenda, impregnata di american dream e riscatto narcisistico, non può che rievocare un’altra figura tragica della società dello spettacolo, ovvero Marilyn. Osservare da vicino la sua storia – forse anche più da vicino rispetto a quanto consenta lo stesso memoir – significa contemplare squarci profondi che sono anche i nostri: Britney incarna il sogno contemporaneo della popolarità precoce, vasta, e incondizionata, nonché le sue derive catastrofiche.

Come nei romanzi di Oates, questa attitudine genera personalità piatte, bidimensionali, ma accanite: caricature dall’emotività repressa, pronta a deflagrare. Qualcosa di cui sembra impossibile liberarsi, dato che lo stesso memoir, preso da molti come il simbolo dell’avvenuta liberazione, in realtà conferma il vuoto su cui siamo sospesi.

Britney passa da uno stereotipo all’altro: prima baby star ora vittima assoluta che denuncia i carnefici con una vendetta ad amplissimo raggio e una polarizzazione etica da fiaba, o fondamentalismo religioso, mettendo sullo stesso piano crimini e scaramucce sentimentali (nonché rivolgendo alle stesse persone parole d’odio e dichiarazioni d’amore).

La teen idol e la vittima spettacolare: Britney riunisce due archetipi della società americana, uno classico l’altro più recente, ma entrambi appunto superficiali e invischianti, legati ai criteri della performance, ossessionati dallo sguardo da catturare. Piacere agli altri, essere desiderati: la verità rimossa di questa e molte altre ricostruzioni del genere è che il desiderio di essere amati spesso diventa desiderio di essere divorati, ma in questo libro, che incrocia feticismo nostalgico millennial ed esaltazione woke, non c’è spazio per le verità tragiche (che animano invece i romanzi di Oates).

Britney Spears è stata rovinata dagli altri, da sé stessa o da entrambi? Era una persona adatta al mondo dello spettacolo o avrebbe dovuto fare altro nella vita? Sicuramente le persone attorno a lei hanno agito con insensibilità, persino sadismo, e attaccamento al denaro, ma è importante non ridurre tutto solo alla contrapposizione buoni/cattivi tanto cara agli algoritmi, perché il rischio è di perdersi elementi ulteriori e profondi, che hanno a che fare proprio con la protagonista di questa storia, una figura commovente non solo per la famiglia disfunzionale in cui è cresciuta.

La forza ambigua, e a tratti straziante, del mito di Britney Spears, che poi è anche quella di Marilyn, ha a che fare con un bisogno d’amore furioso e primitivo che trova nella società una serie di alleanze oscure. Un bisogno così grande da oltrepassare il personaggio in cui arriva a essere rinchiuso, e farsi iconoclasta.

Marilyn si è impadronita del cartonato dell’oca bionda in cui l’avevano infilata, Britney Spears a un certo punto ha cercato di distruggere sé stessa. La sua storia è interessante non tanto, o non solo, in quanto schiava dello show business, ma perché parla della nostra tendenza a cercare surrogati clamorosi per l’antico desiderio frustrato, del male che siamo disposti a farci, e lasciarci fare, pur di raggiungere il castello incantato dell’approvazione. Parla del ruolo del tempo, di come si fermi, a volte irrimediabilmente, per effetto di questo desiderio onnipotente, rendendoci bambini paralizzati nell’attesa infinita del complimento di mamma e papà (belle su questo le pagine in cui Britney confronta la sua esperienza con quella, antitetica, di Madonna, che per certi versi ha ucciso il padre, sostituendosi ad esso).

Nel periodo di esibizioni coatte a Las Vegas Britney Spear viene costretta a cantare solo le canzoni più vecchie del suo repertorio: è il sortilegio per effetto del quale il padre e il suo entourage le impediscono di crescere. Lei si ribella non muovendo i capelli (parrucche), rifiutandosi di mettere in moto ciò che tutti amano.

Tra azione e reazione, abuso e rivalsa, il cerchio della dipendenza dallo sguardo degli altri si rinnova: sembra essere infranto, venir superato, ma trova solo un nuovo linguaggio, un nuovo codice, in cui incarnarsi. Nella sua storia Britney rivela più di quello che sembra, è il non detto che scuote e lascia attoniti: non un’epica di liberazione, ma la trasformazione impossibile di un bisogno infantile, oggi più che mai motore della vita di tutti noi che ci affacciamo a spiare, morbosi e indignati, tra i resoconti di una lolita impazzita.

JONATHAN BAZZI, scrittore, Ha esordito nel 2019 con Febbre (Fandango), Libro dell’Anno di Fahrenheit, Premio Bagutta Opera Prima e finalista al Premio Strega.

Estratto dell’articolo di Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” martedì 24 ottobre 2023.

La parte del memoir di Britney Spears che ha fatto subito notizia è quella rivelata in anticipo dal sito di gossip Tmz: Justin Timberlake, che incontrò per la prima volta a 11 anni sul set di Mickey Mouse Club, la spinse ad abortire a 19 anni. Lei avrebbe tenuto il bambino, ma «per Justin diventare padre era assolutamente fuori discussione». Decisero che nessuno deve saperlo, neanche i genitori di lei. Prese delle pillole nella casa in cui convivevano in Florida. 

Lei credeva di morire, prostrata per ore «a urlare e singhiozzare» sul pavimento del bagno aggrappata al wc. Lui «pensando che forse un po’ di musica mi avrebbe aiutata, andò a prendere la chitarra, tornò vicino a me e si mise a strimpellare».

Poi la lascerà con un sms e un mese dopo uscirà il video di «Cry Me a River», nel quale una donna che le somiglia lo tradisce. E i media diranno che ha spezzato il cuore «al ragazzo d’oro d’America».

Ora, vent’anni dopo, Timberlake è accusato di avere usato dei «bot» per difendersi sui social da queste rivelazioni; producono messaggi che ripetono «Due adulti hanno preso una decisione insieme, non vedo il problema». Ma anche Britney lamenta che i media si sono focalizzati troppo su quest’episodio. […] The Woman in Me (La donna in me), che esce oggi, in Italia per Longanesi […] 

È la storia di una donna a cui non è mai stato permesso di crescere e lo sa, che parla della «bellezza di essere una donna adulta» ma non è mai riuscita a esercitare quel potere e quel controllo sulla propria immagine che ha visto nelle star che ammira: Dolly Parton, Jennifer Lopez, soprattutto Madonna, che una volta le praticò «il rituale del filo rosso» per iniziarla alla Cabala e le inviò un baule di volumi dello «Zohar» con cui pregare.

Il tema della vita di Britney: recitare il ruolo dell’adulta, senza mai poter crescere veramente. La scaletta massacrante e le responsabilità di una performer bambina. Le gite al mare con la mamma, che la porta a bere daiquiri e white russian e la lascia guidare a 13 anni, ma quando sospetta che fumi le strappa una mano dal volante per annusarla e l’auto esce fuori strada (con la sorella Jamie Lynn di 3 anni dietro, senza seggiolino). A 10 anni, il conduttore di «Star Search» Ed McMahon ammira i suoi «occhioni splendidi», le chiede: «Hai il fidanzatino?».

«No, sono cattivi». E lui: «Io non sono cattivo, che ne dici di me?». Dicono che è troppo sensuale. «Non capivo: cosa avrei dovuto fare... un’imitazione di Bob Dylan? Ero una teenager del Sud. Scrivevo il mio nome con un cuoricino sulla I». A 20 anni le fa piacere che Timberlake parli della loro intesa sessuale («Avevo avuto il mio primo rapporto sessuale a 14 anni»), ma è un problema: deve sembrare «vergine a vita». 

Si rifugia nelle letture religiose e nel Prozac. Si sente regredire all’infanzia quando soffre di depressione post-partum. Quando Kevin Federline le impedisce di vedere per settimane i due figli di pochi mesi, va a supplicarlo, lui la lascia fuori, in pasto ai paparazzi. «Umiliata, violata, indifesa, braccata», darà «agli zombi» ciò che vogliono: la famosa foto in cui si rasa la testa. «Nessuno — scrive — sembrava capire che ero andata fuori di testa dal dolore».

La «conservatorship» istituzionalizza la sua infantilizzazione: suo padre Jamie, «un alcolizzato... un fallito negli affari, uno che da bambina mi aveva terrorizzata» per 13 anni prende il controllo di tutti gli aspetti della sua vita, annunciandole: «Adesso Britney Spears sono io». Non può mangiare ciò che vuole, guidare, bere alcolici o caffè, né rimuovere la spirale per avere un altro figlio, ma deve continuare a esibirsi con guadagni milionari. 

Suo padre usa Jayden James e Sean Preston, i figli, che hanno oggi 18 e 17 anni: «La mia libertà in cambio di poter dormire con i miei figli: uno scambio che ero disposta al fare».

È una storia di trauma ciclico. Il 12 novembre 2021 otterrà la libertà, accusando il padre in tribunale di abuso e sfruttamento, dopo mesi in una casa di cura per malattie mentali dove le somministrano il litio.

[…] Soffre di emicranie paralizzanti. Nonostante le ribellioni (di recente una danza coi coltelli sui social) non riesce a fregarsene del mondo. Nel libro si scusa per cose come «vestirsi male». Si chiede se leggendolo, la sua famiglia, inclusa la madre e la sorella che si sono arricchite con libri sul suo conto, penseranno «anche di sfuggita: Forse ha ragione».

Estratto dell’articolo di Carmen Pugliese per “Chi” domenica 5 novembre 2023.

“Sono finalmente libera di raccontare la mia storia, di alzare la voce e farmi sentire” è la premessa della popstar Britney Spears nel suo memoir The woman in me, uscito in tutto il mondo il 24 ottobre. L’icona della musica pop si guarda allo specchio e parla a tutte le diverse versioni di sé rappresentate in questi anni da media, rumors e scandali. E dà la sua visione dei fatti, la sua interpretazione della sua vita. 

Ora che può finalmente parlare, lo fa con estrema sincerità, senza risparmiare nessuno: l’autobiografia è una resa dei conti con le persone che le hanno fatto più male, come genitori ed ex amori, ma è anche un bilancio della vita che deve a se stessa. Oggi, a 41 anni, Britney non è più la ragazzina prodigio di The Mickey Mouse Club, il programma che a 11 anni l’ha lanciata in tv, quello che le ha fatto incontrare Christina Aguilera, Ryan Gosling e Justin Timberlake. 

Proprio su quest’ultimo si concentra uno dei capitoli più inaspettati, con rivelazioni eclatanti. Il racconto ripercorre il suo primo amore, quella relazione (durata dal 1999 al 2002) che l’ha costretta ad affrontare l’esperienza più dolorosa della sua vita, l’aborto. «Durante un pigiama party abbiamo giocato a “obbligo o verità”, e qualcuno ha sfidato Justin a baciarmi», ricorda Britney rievocando il loro primo contatto. Ma poi svelando che nel 2000, a 19 anni, era rimasta incinta.

Lui, però, non voleva tenere quel bambino: «La gravidanza fu una sorpresa per me, ma non era una tragedia: amavo Justin così tanto! Ho sempre sognato di farmi una famiglia, anche se in quel momento sarebbe stato molto prima di quanto mi aspettassi», scrive lei. «Ma Justin non era affatto contento: diceva che non eravamo pronti. Se fosse dipeso solo da me, non avrei mai abortito: resta una delle esperienze più angoscianti della mia vita». 

Britney ai lettori non risparmia crudi dettagli: «Nessuno doveva sapere della cosa, nemmeno le famiglie e i nostri amici. Decidemmo di farlo a casa, da soli. Presi delle pillole, poi rimasi stesa sul pavimento del bagno tra dolori allucinanti. Ho pianto e urlato tutto il tempo, ci vollero ore, pensavo di morire: oggi, 20 anni dopo, vivo ancora il dolore e la paura».

Di Timberlake dice anche che l’aveva tradita con una star famosa, una che ora è felice con la sua famiglia e di cui non rivela il nome per tutelarla. Pochi avrebbero potuto pensare che dietro una delle coppie mediatiche più invidiate di sempre ci fosse tanto dolore, nascosto dai sorrisi forzati concessi ai fotografi. 

Poi la popstar volta pagina, come del resto ha fatto tante volte nella sua vita. Parla della sua carriera brillante, dei successi mondiali, di Baby One More Time e Oops!... I did it again e del rapporto tormentato con la sua famiglia.

Fino a due anni fa, infatti, Britney era assoggettata ai voleri del papà Jamie Spears che, dal 2008, ha esercitato la “conservatorship”, la tutela legale che gli ha dato il controllo totale sull’esistenza della figlia per ben 13 anni. «Ripensarci mi dà la nausea. Ero diventata un robot. Ero l’ombra di me stessa. Non meritavo quello che mi ha fatto la mia famiglia», scrive a proposito di quegli anni in cui non poteva autonomamente usare le sue carte di credito, guidare l’auto o scegliere cosa mangiare: 

«Sognavo le patatine fritte e per due anni non mi hanno permesso di mangiarle perché mio padre diceva che ero grassa». Costretta a sedute interminabili di lavoro, fonte di guadagni per il genitore, la Spears non aveva alcun potere decisionale, ed era derisa e sminuita dal padre-padrone: «Sentirsi dire di non essere mai abbastanza bravi è uno stato d’animo schiacciante per un bambino: mio padre mi aveva inculcato quel messaggio fin da piccola. Ma anche dopo che avevo raggiunto il successo continuava a farlo».  […]

Nel 2003 incontra Colin Farrell, con cui inizia una relazione clandestina molto passionale, ma poi ammetterà che entrambi volevano solo divertirsi e che era ancora molto vulnerabile a causa della rottura con Justin. Oggi, terminato anche il terzo matrimonio con Sam Asghari, la sua famiglia sono i suoi figli: ma Sean Preston e Jayden James vivono con il suo ex marito Kevin Federline. […]

Estratto dell'articolo di repubblica.it mercoledì 18 ottobre 2023.

Per tutti i fan in attesa arriva il memoir The woman in me di Britney Spears, con tutti i segreti della popstar, fra i quali racconta di essere rimasta incinta del suo ex fidanzato, la popstar Justin Timberlake, ma di aver abortito. Il testo sta per uscire nelle librerie il 24 ottobre. Britney rivela di aver scoperto di essere incinta alla fine del 2000, quando aveva 19 anni, la stessa età di Timberlake. Chi ha letto il libro ha raccontato a Tmz che Britney considerava Justin l'amore della sua vita e che la decisione di non tenere il bambino fu presa insieme. [...]

Britney Spears, nel libro pubblicato da Simon and Schuster, attacca il padre e il resto della famiglia per il ferreo controllo che per tanti anni è stato esercitato su di lei: "A ripensarci mi dà la nausea", afferma. "Ero diventata un robot, una specie di bambina robot. La custodia legale mi aveva privato del mio essere donna. Mi aveva privato della libertà. Più che una persona sul palcoscenico, ero diventata una entità. Ho sempre sentito la musica nelle mie ossa e nel sangue: loro me l'avevano rubata [...] Ero diventata l'ombra di me stessa" [...] 

[...] ci sarà la rivelazione che nel 2000, quando stava insieme a Justin Timberlake, entrambi avevano 19 anni, lui la mise incinta, e, nonostante la sua riluttanza, la convinse ad abortire. “Se fosse stato solo per me non l'avrei fatto Justin però non era affatto felice della gravidanza. Diceva che non era pronto a che ci fosse un bambino nella nostra vita e che eravamo troppo giovani", afferma ancora la cantante.

Della gravidanza la Spears ha detto: "Fu una sorpresa, ma per me non una tragedia. Amavo moltissimo Justin ed ero convinta che avremmo avuto una famiglia assieme". A posteriori, la popstar afferma che l'aborto forse non fu la giusta decisione: "Ma Justin era così sicuro che non voleva essere padre".

Justin e Britney sono stati insieme dal 1999 al 2002 e né l'uno né l'altra hanno mai svelato perché si sono lasciati. [...]

Più scandali che successi. Britney e tutti i suoi guai. La 41enne Spears accumula processi e follie. Poche le hit. L'aiuto di Elton John. Il flop dell'ultimo singolo. Paolo Giordano l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

Sì ma ora ci vorrebbe un po' di musica, magari un brano di successo o, chessò, persino un disco fatto e finito. Invece Britney Spears continua a fare tutt'altro, a complicarsi la vita e a facilitare quella di chi vive di gossip. E dire che questa «ragazza di provincia», classe 1981, nata nel Mississippi e cresciuta in Louisiana, è stata davvero un tesoretto del pop sin da quando a diciott'anni con ...Baby one more time ha sparigliato le carte con l'album (allora) più venduto della storia per un adolescente. Arrivava dal mondo Disney grazie al The Mickey Mouse Club con Justin Timberlake (poi suo appassionato fidanzato) e Christina Aguilera (poi sua appassionata avversaria). Allora era il modello di ragazza americana: «Ero la playmaker nella squadra di pallacanestro. Avevo un ragazzo, tornavo a casa e festeggiavo il Natale». Ma «volevo di più». Lo ha avuto, in tutti i sensi.

E lo ha dimostrato quel pomeriggio del 2007 quando, uscendo da un centro di riabilitazione, entrò da un parrucchiere e si tagliò i capelli a zero. Da allora è stata una processione di successi (sempre meno) e di scandali (sempre più). Adesso, più che una cantante, è diventata un hashtag, un aggregatore di pettegolezzi, supposizioni, cattiverie. L'ultima è che ora sia legata a un pregiudicato (Paul Richard Soliz) e che con lui stia dimenticando il terzo marito (Sam Ashgari) sposato a giugno del 2022. Un matrimonio durato meno di quello con il rapper Kevin Federline (dal 2004 al 2007) ma molto più di quello con l'amico d'infanzia Jason Alexander: nozze il 3 gennaio 2004 a Las Vegas e annullamento 55 ore dopo perché lei «non era in grado di comprendere le sue azioni».

In mezzo a questa collezione di annunci nuziali, di maternità (i due figli Sean Preston, 16 anni, e Jayden James, 15, non vogliono più vederla) e di sempre meno musica ci sono valanghe di foto sui social condite da dichiarazioni talvolta farneticanti, talvolta visionarie, ma comunque sempre strampalate come una delle ultime nella quale Britney esaltava la propria omelette ai peperoni lamentandosi di non trovarla servita anche nei ristoranti. A far da corredo a tutta questa stravaganza c'è stata la vertenza con il padre Jamie, prima manager per oltre un decennio poi pericolo pubblico numero uno. «La mia cliente mi ha informato che ha paura di suo padre. Non si esibirà di nuovo finché suo padre è responsabile della sua carriera» aveva spiegato il suo avvocato qualche anno fa chiedendo di toglierli la qualifica di «tutore», peraltro attribuitagli dopo l'ennesimo crollo emotivo. La questione si trasformò in un caso mondiale e l'hashtag #freebritney divenne virale grazie anche all'appoggio di una moltitudine di celebrità. Risultato: il padre rinunciò alla tutela, lei si sposò con il terzo marito mentre il secondo provava a partecipare alla cerimonia per rovinargliela.

Ora siamo daccapo.

Qualche settimana fa Will.i.am, rapper e produttore e fondatore dei Black Eye Peas, ha annunciato l'uscita del brano Mind your business registrato proprio con Britney Spears. Il titolo è azzeccato: «Fatti gli affari tuoi». Ma tutto il resto no e difatti il brano non è entrato nella classifica più prestigiosa, quella della Hot 100 di Billboard. Obiettivamente un flop. E non è un caso perché Mind your business sembra più che altro uno scarto, non ha una linea melodica vincente e nel complesso passa inosservato. «Non è un buon segno» ha scritto Forbes, che di successi e carriere se ne intende. E nonostante l'informatissimo Page Six annunci un nuovo contratto milionario con la Sony e conseguente nuovo disco (dopo tanti anni), per Britney Spears le prospettive non sono granché. Negli ultimi anni il mondo del pop è drasticamente cambiato, il pubblico è sempre meno «fidelizzato» e quindi più volatile e, soprattutto, a fare le differenza sono le esibizioni dal vivo, i concerti, i tour meglio se colossali, esagerati, provocatori. Lei, che non è benedetta da una voce duttile e memorabile, non affronta il palcoscenico da tanto tempo e, nonostante sembri alla ricerca di nuove canzoni firmate da compositori di fama, è sempre più accompagnata dalle parole «decadenza» o «flop».

L'unico a darle concretamente una mano è stato l'anno scorso Elton John, che ha condiviso il brano Hold me closer, reinterpretazione del classico Tiny dancer, pezzo super famoso del 1971 incluso da Rolling Stone tra i 500 più belli di sempre. Bella collaborazione. Grandi risultati in radio. Ma ciao ciao. Tutto è stato subito schiacciato dalla solita valanga di stramberie, polemiche, annunci a vuoto. L'ormai classico rituale di una ragazza del Mississippi che «voleva di più» ed è riuscita ad averlo ma non ha ancora imparato come gestirlo.

"Sei anni... sono scioccata". Britney Spears rompe il silenzio sul divorzio da Asghari. La cantante annuncia la fine del matrimonio (durato soli 14 mesi) con un post su Instagram: non nasconde il dolore per la fine della relazione con Sam. Novella Toloni il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

"Io e Hesam non stiamo più insieme". Dopo giorni di silenzio Britney Spears ha annunciato di essersi separata dal marito, Sam Asghari, confermando quello che i fan temevano sarebbe accaduto dopo giorni di gossip insistenti. La nota della popstar statunitense è arriva con netto ritardo rispetto all'annuncio fatto ventiquattro ore prima dall'ex marito, ma soprattutto rispetto alle voci sul divorzio circolate sul web da mercoledì.

I siti americani Tmz e People sono stati i primi a parlare del divorzio tra Britney Spears e il marito, il modello di origini iraniane Sam Asghari, ma i diretti interessati - interpellati attraverso i loro agenti - non avevano confermato. Si parlava di presunti tradimenti di lui e crisi di rabbia con scatti di violenza della popstar, ma soprattutto si vociferava di una crisi cominciata mesi fa e andata avanti tra liti e notti lontane da casa.

L'annuncio di Sam Asghari

Quando i rumos sono cominciati a circolare con insistenza sul web, Asghari ha deciso di pubblicare una breve nota su Instagram, confermando la rottura e chiedendo rispetto per il delicato momento. "Dopo sei anni di amore e impegno reciproco, io e mia moglie abbiamo deciso di terminare il nostro viaggio insieme", ha scritto il personal trainer e modello, proseguendo: "Ci aggrapperemo all'amore e al rispetto che abbiamo l'uno per l'altra e le auguro sempre il meglio. Succede. Chiedere privacy sembra ridicolo, quindi chiederò a tutti, compresi i media, di essere gentili e premurosi". La nota non ha, però, messo a tacere i rumor, secondo i quali Asghari avrebbe chiesto una lauta buonuscita all'ex moglie per non spifferare i retroscena della loro unione.

"Liti continue...". Britney Spears e Sam Asghari divorziano

Le parole di Britney

Poche ore fa, Britney Spears ha deciso di parlare pubblicamente su Instagram per chiudere, in qualche modo, l'argomento. "Io e Hesam non stiamo più insieme... 6 anni sono tanti per stare con qualcuno, quindi, sono un po' scioccata ma... non sono qui per spiegare perché, perché onestamente non sono affari di nessuno!", ha detto con decisione la popstar, proseguendo: "Non potevo più sopportare il dolore onestamente!!!". La Spears ha ringraziato i fan per l'affetto e la vicinanza dimostrata nelle migliaia di messaggi ricevuti via Instagram, poi è tornata a parlare della sua battaglia personale contro la famiglia e degli ultimi difficilissimi anni: "Mi piacerebbe mostrare le mie emozioni e lacrime su come mi sento veramente, ma per qualche motivo ho sempre dovuto nascondere le mie debolezze! Se non fossi stata il forte soldato di mio padre sarei stata mandata in posti dove essere riparata dai dottori!!! Ma è stato allora che avevo più bisogno di una famiglia!!! Dovresti essere amato incondizionatamente... non a condizioni!". Nel concludere il suo messaggio, Britney ha detto di essere pronta a fare del suo meglio per essere forte e superare anche questo momento complesso della sua vita.

Estratto dell’articolo di Deborah Ameri per oggi.it l'8 agosto 2023.

[…] Britney Spears […] racconterà per la prima volta la sua versione nell’autobiografia più attesa dell’anno (insieme a quella del principe Harry): The woman in me (La donna che è in me), in uscita il 24 ottobre per Simon & Schuster che se l’è aggiudicata dopo una guerra tra editori sborsando un anticipo di 15 milioni di dollari.

Il più lucroso accordo editoriale, dopo quello degli Obama 

Il libro, con in copertina una giovane Britney succinta, è già bestseller su Amazon per numero di prenotazioni. Perché la vita della principessa del pop, 41 anni e centomilioni di dischi venduti, sembra la parabola perfetta della caduta di una stella. Una storia di fragilità e tradimenti nella quale in tanti si possono immedesimare. Dai matrimoni sfortunati, alla depressione post-parto, al collasso nervoso del 2007 quando, davanti alle telecamere, rasoio alla mano, si era liberata dalle ciocche brune come di un peso insostenibile. E poi i soggiorni in rehab, i ricoveri coatti, il tentato suicidio. Sempre visti attraverso le pagine dei giornali e le foto sgranate. Stavolta avremo una prospettiva diversa.

«Ragazzi, il mio libro uscirà tra poco. Mi sono fatta un mazzo così per scriverlo ed è servita parecchia psicoterapia; quindi, spero tanto che vi piaccia, ma se non sarà così va bene lo stesso», lo presenta la ex ragazzina prodigio su Instagram. In un altro post scrive ai suoi fan: «Dopo aver letto questo libro molti di voi penseranno che dovrei essere la donna più cattiva al mondo, dopo tutto quello che ho passato. Sì, lo dovrei essere, ma dopo tutto ho imparato a fare pace con le situazioni e anche quando le cose vanno davvero male cerco ancora la bambina che è in me.

Non voglio prendermi troppo sul serio. La mia vita non è stata facile ma per lo meno adesso so di essere amata».

[…] La star di Toxic e Baby one more time racconterà tutti i retroscena del suo esaurimento nervoso, assicura la casa editrice, iniziato proprio con il divorzio da Federline e la battaglia per la custodia dei bambini. È il 2007, Britney diluisce la tristezza a suon di party, droghe e alcol, spesso con l’amica Paris Hilton. 

Finché un giorno, con gli occhi spiritati, entra in un salone di bellezza e si rasa i capelli a zero. Le immagini scioccanti rimbalzano ovunque e nel 2008 inizia la tutela legale del padre che, per 13 anni, avrà l’assoluto controllo delle finanze (un patrimonio da 60 milioni di dollari) e della vita della figlia.

Solo nel 2019 viene fuori che l’uomo la forza a ricoverarsi in clinica psichiatrica se lei si ribella ai suoi ordini o si rifiuta di prendere le troppe medicine che le vengono prescritte. Nasce il movimento #FreeBritney (liberate Britney), alimentato dai fan e da varie celebrità. È solo nel 2021 che la popstar rompe il silenzio. Lo fa in tribunale con un appassionato discorso di 23 minuti in cui prega il giudice di liberarla dal padre oppressivo […] Il giudice le dà ragione. Ma i dettagli di quei 13 anni di isolamento non ha mai avuto il coraggio di raccontarli. Lo farà nel libro, assicura.[…]

Da tgcom24.mediaset.it il 19 dicembre 2022.

Il padre di Britney Spears, Jamie, parla in pubblico per la prima volta dopo la fine della custodia legale a cui per quasi 14 anni ha assoggettato la figlia: "Se non fossi intervenuto, mia figlia oggi sarebbe morta". In una intervista al "Mail on Sunday" ha difeso la sua condotta spiegando che ama la figlia "con tutto il cuore e con tutta l'anima". Intanto la pop star intanto ha allarmato persino i fan più fedeli con una serie di foto seminude postate sui suoi profili social accompagnate da bizzarre didascalie. 

Jamie Spear era riuscito a imporre un tutore per Britney, una sorta di istituto legale riservato a persone molto anziane o non più in grado di intendere e di volere dopo che la figlia aveva avuto un paio di collassi nervosi sotto i flash dei fotografi. La battaglia legale della pop star per liberarsi dall'ingombrante padre era culminata a novembre 2021 quando un tribunale di Los Angeles ha dichiarato illegale la tutela e Britney per la prima volta in anni aveva avuto accesso a una carta di credito.

Jamie Spears ha detto al tabloid britannico di non voler vuotare completamente il sacco per non far precipitare Britney "in un buco nero" peggiore di prima. "E' stato un inferno, ma non so se, senza la tutela, lei sarebbe ancora viva. Per proteggere lei, per proteggere i ragazzi la tutela era un ottimo strumento. Senza, non so se li avrebbe avuti indietro", ha detto a proposito di Preston e Jayden, i figli adolescenti di Britney e Kevin Federline, che vivono da anni con il padre. 

Britney Spears e Federline hanno divorziato nel 2007, dopo di che lei ha cominciato a comportarsi stranamente: si era rasata la testa, preso ad ombrellate la macchina di un fotografo ed era stata ricoverata in ospedale per tossicodipendenze. Fu allora che fu istituita la tutela legale che inizialmente doveva essere temporanea ma dopo qualche mese era diventata permanente. Jamie a quel punto aveva ottenuto il controllo completo sulle finanze della figlia e su tutte le decisioni relative la sua carriera in cambio di un compenso da 16 mila dollari al mese.

Estratto dell'articolo di Andrea Palazzo per “il Messaggero” il 6 aprile 2023.

«Insieme siamo l'uomo più ricco e la ragazza più amata d'America: la gente impazzirà per noi due». Così, nel 1999, Donald Trump si propose a Brooke Shields, che gli rise in faccia: «Grazie, ma la proposta non ha senso». Dalla sua casa a Manhattan l'attrice racconta davanti alla webcam il due di picche dato all'ex presidente Usa.

 La ragazzina che faceva impazzire gli uomini ora ha 57 anni, 56 dei quali passati davanti ai riflettori. Dalla prima pubblicità a 11 mesi fino al cinema, passando per le foto nuda a 10 anni. Per la stampa la madre monetizzava la sua bellezza come una maîtresse, ma la realtà era diversa e l'attrice la racconta nella docu-serie Pretty Baby: Brooke Shields, appena arrivata su Disney+.

[…]

 Nelle interviste le chiedevano se si sentisse sexy a 12 anni...

«[…] Su quei set, però, io mi divertivo, e mia madre incuteva terrore a tutti. Al minimo problema chiamava gli avvocati».

[…]

Si è sorpresa delle accuse rivolte a Zeffirelli dai protagonisti di Romeo e Giulietta (girarono scene di nudo non previste, n.d.r.)?

«Per niente. Lui non rispettava gli attori. Era il Maestro e nessuno gli diceva no. Con me non si sarebbe permesso - mia madre lo avrebbe ucciso - ma ricordo una scena in cui per farmi simulare un orgasmo mi torse un dito del piede».

 […]

Nelle docuserie rivela lo stupro subito da un produttore. Perché non ha voluto fare il suo nome?

«Gli darei la possibilità di difendersi. Dopo 30 anni ho superato il trauma, non fa più male».

Che reazione ebbe quando il suo amico Michael Jackson dichiarò a Oprah Winfrey che eravate fidanzati?

«Non ne sapevo nulla. Forse aveva bisogno di inventare una storia per i suoi fan e immaginava che avrei capito perché eravamo molto legati. È l'unica spiegazione razionale».

 Dichiarò che Agassi la sposò solo per la sua fama, è vero?

«No. Lui odiava lo show business. Una volta distrusse tutti i suoi trofei sportivi perché in una scena di Friends, in cui recitavo, lo avevo fatto ingelosire».

 Era il periodo della sua tossicodipendenza, non le chiese aiuto?

«Forse pensava che sarei scappata dopo l'esperienza della dipendenza di mia madre. Ma si sbagliava, lo avrei capito meglio di chiunque altro».

Oggi, finalmente, possiamo chiederlo: si sente sexy?

«Sì. L'ho capito solo dopo la nascita delle mie figlie. Anche se mi casca tutto e non sono più tonica come una volta».

Estratto dell’articolo di Davide Stanzione per bestmovie.it il 4 aprile 2023.

[…]

Brooke Shields, si è scagliata contro Franco Zeffirelli, che la diresse adolescente e ancora 16enne nel film romantico Amore senza fine, del 1981.

Presente al Sundance Film Festival 2023 col documentario sulla sua vita “Pretty Baby: Brooke Shields”, l’interprete ha accusato Zeffirelli, scomparso nel 2019, di abusi sessuali e ha detto di non essersi sentita particolarmente al sicuro con lui sul set, dato anche il tema del film (la vita sessuale degli adolescenti a Chicago): «La fisicità e l’esplorazione della sessualità mi sono sembrate davvero pericolose, e non mi fidavo della capacità del regista di creare un ambiente sicuro per me».

[…] Durante una scena di sesso proprio con Hewitt, stando a Shields sarebbe avvenuto il fatto per lei più estremo e doloroso: Zeffirelli le avrebbe torto l’alluce per arrivare a ciò che voleva da lei e dal suo volto, ovvero la simulazione del raggiungimento di un orgasmo, finendo però col turbarla moltissimo, dato che l’attrice non sapeva all’epoca cosa fosse l’acme dell’atto sessuale: «Zeffirelli continuava a prendermi l’alluce e, a torcerlo in modo da farmi assumere… un’immagine di estasi? Ma era più angoscia che altro, perché mi stava facendo male».

[…]

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per repubblica.it il 4 aprile 2023.

Lo ha fatto lei, non permetterebbe che lo facessero i suoi figli. Nuda, da giovanissima, sul set, mentre seduce un uomo con il doppio dei suoi anni. Brooke Shields era una bambina di undici anni quando venne costretta a baciare Keith Carradine, 27, nel film Pretty baby del '78, in cui Brooke faceva la parte di una prostituta bambina. E ne aveva dieci quando posò per Playboy. Adesso è arrivato il momento di fare i conti con il passato. 

Il rapporto con la madre

A 57 anni, Shields, protagonista di uno documentario sulla sua vita, in uscita negli Stati Uniti, ha raccontato al magazine del Sunday Times il suo tormentato rapporto con la madre Teri, alcolista, morta nel 2012. Nel docu la stessa figlia, Rowan, 19 anni, racconta di non aver mai voluto vedere quel film, lei e la sorella Grier, che ha 16 anni. "È pornografia infantile - commenta - Chi ci avrebbe fatto fare una cosa simile a undici anni?". "No", risponde la madre nel video, prima di essere sopraffatta dalle lacrime. […] A lungo Shields ha spostato l'attenzione dalla madre, accusata di aver lasciato che la figlia venisse usata come una "bambolina" sul set.

[…]

 La violenza sessuale

[…] Brooke ha rivelato anche di essere stata stuprata, quando aveva 22 anni, in una camera d'albergo, da un uomo che lavorava nel mondo del cinema. Non fa il nome, ma dice che l'aveva attirata in camera con un tranello: le aveva detto di chiamare il taxi dalla sua stanza, poi si era presentato nudo e l'aveva violentata.

[…]

 Foto nuda a dieci anni

A 15 anni, in Laguna blu, la sua figura venne usata in modo erotico. E lo stesso successe l'anno dopo, in Un amore senza fine di Franco Zeffirelli. A 14 anni Brooke era diventata la più giovane modella a sfilare per Vogue e poi la Lolita di posti esclusivi come lo Studio 54 di New York. Quando ormai era diventata una star a livello mondiale, un fotografo amico di famiglia aveva provato a vendere foto di lei nuda all'età di dieci anni.

 Eppure a quell'epoca, lei stessa provava a dare una versione diversa delle scelte della madre. Nel documentario viene riproposta una vecchia intervista, in cui Brooke bambina, alla domanda su cosa pensasse del clamore che aveva suscitato come giovane prostituta in Pretty baby, aveva risposto sorridendo: "Penso che sia divertente".

Estratto dell’articolo di Silvia Rocchi per rainews.it mercoledì 27 settembre 2023.

"Non sappiamo se sia cosciente della sua malattia", così Emma Heming Willis, la moglie di Bruce Willis, facendo riferimento alla lotta che il marito sta affrontando contro la demenza frontotemporale. Heming Willis è intervenuta durante una recente apparizione nello show americano "Today", nel corso della Settimana mondiale di sensibilizzazione sulla demenza frontotemporale, condividendo le difficoltà che lei e la sua famiglia stanno vivendo a causa di questa terribile malattia. 

“Quello che sto imparando- dice Heming Willis modella di 45 anni- è che la demenza è difficile, ed è dura per la persona che riceve la diagnosi e anche per la famiglia. E non è diverso per Bruce, per me o per le nostre famiglie”, ha rivelato la moglie di Bruce Willis.

“Quando dicono che questa è una malattia che colpisce un’intera famiglia lo è realmente. Siamo davvero onesti e aperti, e la cosa più importante era, per noi, dire cosa era la malattia, spiegare cosa è, perché quando sai che tipo di malattia si tratti da un punto di vista medico, tutto ha un senso. Era importante far sapere alle nostre figlie di cosa si tratta perché non voglio ci siano pregiudizi o vergogna legati alla diagnosi del loro padre o a qualsiasi forma di demenza“. 

 L'attore si è ritirato nel 2022 dopo l'annuncio di soffrire di afasia, un disturbo del linguaggio. La conferma della demenza di cui soffre,  che colpisce il lobo frontale del cervello e provoca alterazioni del comportamento, oltre a  disturbi della parola, è arrivata nel febbraio di quest'anno.

Accanto a lui amici e l’ex moglie Demi Moore, coppia d’oro di Hollywood per 11 anni. Nonostante la  diagnosi, "cose belle" hanno continuato ad accadere nelle loro vite e ha assicurato che Willis vorrebbe che sia lei che le sue figlie potessero continuare a godersi la "gioia della vita". […]

Demi Moore rivela: «Bruce Willis soffre di demenza». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023

La famiglia dell’attore, che lo scorso anno si era ritirato dalle scene per l’afasia, ha fatto sapere che in realtà si tratta di una malattia più complessa: «Ora c’è una diagnosi»

Demi Moore ha dichiarato che Bruce Willis soffre di demenza. L’attore, meno di un anno fa, aveva rinunciato a recitare per crescenti difficoltà cognitive. «Da quando nel 2022 abbiamo annunciato la diagnosi di afasia, le condizioni di Bruce sono progressivamente peggiorate e ora abbiamo una diagnosi più specifica: demenza fronto-temporale», ha scritto Moore in un post su Instagram. Aggiungendo: «La nostra famiglia vuole esprimere la nostra più profonda gratitudine per l’incredibile effusione di amore, sostegno e meravigliose storie che abbiamo ricevuto tutti noi da quando abbiamo condiviso la diagnosi originale di Bruce. Proprio in questo spirito, volevamo offrirvi un aggiornamento sul nostro amato marito, padre e amico, poiché ora abbiamo una conoscenza più profonda di ciò che sta vivendo... Sfortunatamente, le sfide con la comunicazione sono solo un sintomo della malattia che Bruce deve affrontare. Sebbene si tratti di una notizia dolorosa, è anche un sollievo avere finalmente una diagnosi chiara». E ancora: «L’FTD è una malattia crudele di cui molti di noi non hanno mai sentito parlare e che può colpire chiunque. Per le persone sotto i 60 anni, la FTD è la forma più comune di demenza e poiché ottenere la diagnosi può richiedere anni, la FTD è probabilmente molto più diffusa di quanto sappiamo. Oggi non ci sono cure per questa malattia, ma è una realtà che speriamo possa cambiare negli anni a venire. Con l’avanzare delle condizioni di Bruce, speriamo che l’attenzione dei media possa essere focalizzata sul far luce su questa malattia che necessita di molta più consapevolezza e ricerca. Bruce ha sempre creduto nell’uso della sua voce nel mondo per aiutare gli altri e per aumentare la consapevolezza su questioni importanti, sia pubblicamente che privatamente».

Parole delicate, che hanno interpretato anche il pensiero dell’attore: «Sappiamo nei nostri cuori che – se potesse – vorrebbe rispondere a questa vicenda portando l’attenzione globale e un collegamento verso coloro che, come lui, stanno affrontando questa malattia debilitante, ma anche al modo in cui ha un impatto su così tante persone e le loro famiglie. La nostra è solo una delle tante famiglie che hanno una persona cara che soffre di FTD e incoraggiamo gli altri ad affrontarla a cercare la ricchezza di informazioni e supporto disponibili tramite l’AFTD (theaftd.org). E per quelli di voi che sono stati abbastanza fortunati da non avere alcuna esperienza personale con FTD, speriamo che vogliate dedicare del tempo per conoscerla e sostenere la missione di AFTD in ogni modo possibile. Bruce ha sempre amato la vita e ha aiutato tutti quelli che conosce a fare lo stesso. Ha significato tantissimo per lui vedere quel senso di cura e attenzione tornare verso di lui e tutti noi. Siamo stati commossi dall’amore che avete condiviso per il nostro caro marito, padre e amico in questo momento difficile. La vostra continua compassione, comprensione e rispetto ci consentiranno di aiutare Bruce a vivere una vita più piena possibile».

Estratto dell'articolo di Anna Guaita per “il Messaggero” il 20 febbraio 2023.

Una foto sulla spiaggia, rilassato, con quel suo sorrisino scanzonato che per decenni aveva conquistato le platee. Ma questa volta è una specie di addio. La famiglia di Bruce Willis l'ha scelta per informare il mondo che le condizioni di salute del famoso attore sono peggiorate. Quella che era stata descritta appena undici mesi fa come «un'afasia, un'incapacità di esprimersi e capire il linguaggio parlato e scritto» è progredita a «demenza fronto-temporale».

Bruce soffre cioè di una patologia degenerativa delle cellule nervose nei lobi frontali e temporali del cervello, per la quale la scienza al momento non può offrire terapie. È una malattia crudele, che ruba l'individuo di quel che lo rende una persona, distruggendone la personalità.

 […] È un dramma amaro che Bruce Willis, che da giovane riuscì a curare la balbuzie con la recitazione, abbia dovuto quasi un anno fa lasciare la recitazione perché non riusciva più a parlare. […] Al suo attivo Bruce Willis ha oltre 150 film, due album di musica rock e vari sceneggiati tv.

Ed è stato proprio uno sceneggiato "Moonlighting", una commedia gialla al fianco di Cybill Shepherd che lo aveva lanciato negli anni 80. […] Con quel sorrisino accattivante, e la capacità di sciorinare battute mordenti nel pieno dell'azione fisica più estenuante, convinse i produttori a sceglierlo per il primo Die Hard, nel 1988, dopo che Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone avevano rifiutato il ruolo. Il suo ultimo film nelle sale è stato Paradise City, al fianco di John Travolta, 30 anni dopo che i due si erano trovati insieme in Pulp Fiction di Quentin Tarantino.

In questo film, nel 2021, Bruce aveva avuto difficoltà abbastanza serie a recitare, tanto che il regista ha dovuto far ricorso alle volte a una controfigura mentre in altre situazioni è stato deciso di aiutarlo a ricordare le battute con l'ausilio di microscopici auricolari. È stato allora che le donne della sua famiglia sono intervenute, convincendolo a ritirarsi, per salvare la sua dignità. […]

Demenza frontotemporale. Che cos’è la demenza frontotemporale diagnosticata a Bruce Willis. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023.

Colpisce generalmente persone tra i 45 e i 60 anni e ha una familiarità più elevata rispetto all’Alzheimer. Ad oggi non esistono terapie

La demenza frontotemporale (FTD), diagnosticata a Bruce Willis (67 anni), comprende diverse condizioni patologiche caratterizzate dal coinvolgimento dei lobi frontale e temporale dell’encefalo, importanti per il controllo del linguaggio, del comportamento, della capacità di pensiero e in parte del movimento. È una malattia neurodegenerativa caratterizzata dal progressivo deterioramento dei neuroni dei lobi frontale e temporale. Rappresenta una delle cause più frequenti di demenza insieme all’Alzheimer. Colpisce generalmente persone tra i 45 e i 60 anni (di entrambi i sessi), ma anche soggetti più giovani o più anziani. Rispetto alla malattia di Alzheimer presenta una familiarità più elevata, legata probabilmente a una predisposizione genetica. Circa una persona su tre colpita da demenza frontotemporale ha altri casi di demenza tra i familiari.

La demenza frontotemporale è causata da un accumulo di proteine difettose all’interno delle cellule del cervello, che le danneggia e ne impedisce il corretto funzionamento, spiega IssSalute. Come altri tipi di demenza, tende ad aggravarsi con il passare del tempo, con una perdita progressiva delle capacità mentali. Quando i disturbi del comportamento costituiscono il problema principale si parla di variante frontale della demenza frontotemporale (bv-FTD), si legge sul sito dell’Associazione italiana malattia frontotemporale. Se invece è il linguaggio ad essere colpito (come nel caso di Willis), con difficoltà a denominare oggetti comuni, articolare le parole o capire ciò che viene detto, si parla di afasia non fluente progressiva (PNFA) o demenza semantica (SD). Esistono anche forme con disturbi motori caratterizzati da rallentamento, rigidità e tremori: paralisi supranucleare progressiva (PSP) e sindrome corticobasale (CBS). In rari casi la malattia frontotemporale si può presentare con riduzione della forza agli arti e in questo caso viene definita demenza frontotemporale con malattia del motoneurone (FTD-MND). Ad oggi non esistono cure per la demenza frontotemporale.

Che cos’è la demenza frontotemporale diagnosticata a Bruce Willis: sintomi, diagnosi e cure. Appena pubblicata sui social e sul sito della AFTD (The Association for Frontotemporal Degeneration) la notizia della malattia di cui soffre l'attore, l'interesse per questa forma di demenza sta crescendo. A che età i primi segnali? Ci sono terapie utili? E come si diagnostica? LAURA SALONIA su iO Donna il 17 Febbraio 2023.

A poche ore dalla notizia della nuova diagnosi di demenza frontotemporale dell’attore statunitense Bruce Willis, 67 anni, Google registra un’impennata di ricerche sull’argomento. Meno di un anno fa, l’ex moglie Demi Moore, ancora molto vicina a Willis, annunciava sui social che gli era stata diagnosticata l’afasia. E proprio a causa di questa malattia l’attore aveva deciso di lasciare il cinema. Ma ieri l’aggiornamento della famiglia con un post sui social e sul sito della AFTD (The Association for Frontotemporal Degeneration): «Le condizioni di Bruce sono progredite e ora abbiamo una diagnosi più specifica: la demenza frontotemporale (nota come FTD)». Ma che cos’è la demenza frontotemporale, quali sono i sintomi, chi è più a rischio di esserne colpito, e quali sono le possibili terapie e cure più innovative? Ce ne ha parlato Matteo Pardini, Professore Associato in Neurologia presso l’Università di Genova e il Policlinico S.Martino ed esperto in disturbi cognitivi.

Che cos’è la demenza frontotemporale

«La demenza frontotemporale è la più frequente demenza neurodegenerativa nei soggetti con meno di 65 anni. Come la malattia di Alzheimer, anche la demenza frontotemporale è data dall’accumulo di proteine patologiche a livello cerebrale, tossiche per i neuroni, specialmente a livello di due zone cerebrali specifiche, i lobi temporali e frontali, da cui il nome», spiega il Professor Pardini.

Secondo la definizione della The Association for Frontotemporal Degeneration, “Il FTD è anche spesso indicato come demenza frontotemporale, degenerazione lobare frontotemporale (FTLD) o malattia di Pick. Rappresenta un gruppo di disturbi cerebrali causati dalla degenerazione dei lobi frontali e/o temporali del cervello”. “La demenza fronto-temporale è una malattia che colpisce principalmente la parte frontale e laterale del cervello e causa anormalità del comportamento, della personalità, del linguaggio e del movimento”, aggiunge l’Istituto Superiore di Sanità. “Con il termine demenza si indicano un insieme di malattie che portano a una perdita progressiva delle capacità mentali. Sono causate da danni alle cellule nervose (neuroni) che ostacolano sempre più gravemente le normali funzioni del cervello. A differenza delle altre demenze, che affliggono generalmente persone di oltre 65 anni di età, la demenza fronto-temporale tende a manifestarsi in persone più giovani. La maggior parte dei casi accertati (diagnosticati) riguarda persone tra i 45 ed i 65 anni di età, sebbene possa manifestarsi anche in persone più giovani o più anziane. Come altri tipi di demenza, la demenza frontotemporale tende a progredire e a diventare più grave con il passare del tempo”.

Quali sono i sintomi

I sintomi causati dalla demenza frontotemporale sono moltissimi e possono includere:

cambiamenti nella personalità e nel comportamento, comparsa di apatia, mancanza di iniziativa, comportamenti impulsivi o socialmente inappropriati, egoismo o incapacità di mostrare interesse per i sentimenti altrui, trascuratezza dell’igiene personale, comportamenti ossessivamente ripetitivi, eccessi nell’alimentazione

cambiamenti progressivi del linguaggio, parlare lentamente, far fatica a pronunciare correttamente una parola, mettere le parole in ordine sbagliato in una frase, usare una parola per un’altra, avere difficoltà nella comprensione delle frasi udite o lette

peggioramento delle abilità mentali, distrarsi facilmente, avere difficoltà nella pianificazione e nell’organizzazione delle attività

problemi di memoria, tendono ad insorgere più tardi rispetto ad altre forme di demenza come, ad esempio, la malattia di Alzheimer

problemi muscolari, rigidità e lentezza nei movimenti, perdita di controllo della vescica o dell’intestino, debolezza muscolare o difficoltà nell’inghiottire. Tali disturbi tendono a presentarsi più tardivamente.

I disturbi possono non essere presenti tutti insieme e la loro gravità può essere variabile da persona a persona. Con il progredire della malattia, possono rendere la normale attività quotidiana sempre più difficile, fino ad arrivare alla perdita dell’autosufficienza.

Che cosa fare in caso di sintomi

Come raccomanda l’Istituto Superiore di Sanità, “In presenza di disturbi (sintomi) che possano far sospettare la demenza fronto-temporale, è necessario recarsi dal medico curante che potrà eseguire dei controlli per scoprirne la causa e, qualora lo ritenga necessario, prescrivere una visita dal medico specialista o in un centro specializzato. In Italia è possibile individuare le disponibilità e i diversi tipi di servizi sanitari e socio-sanitari per le persone con disturbi cognitivi e con demenze sul sito dell’Osservatorio Demenze, creato e gestito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) su mandato del Ministero della Salute”.

Come si diagnostica la demenza frontotemporale

«La diagnosi è complessa. Richiede una valutazione clinica e cognitiva approfondita da specialisti nelle demenze nonchè degli esami strumentali per vedere quali zone del cervello hanno perso volume (mediante risonanza magnetica) o hanno un metabolismo ridotto (mediante la PET cerebrale). Molto utili anche gli esami genetici, poiché spesso queste forme di demenza hanno una base genetica e la ricerca di alcune proteine patologiche su fluidi come il liquido cerebrospinale e in prospettiva il sangue», aggiunge il Professor Pardini.

Per accertare la demenza frontotemporale è possibile sottoporsi a un insieme di esami:

valutazione dei disturbi (sintomi), da eseguire in presenza del malato e di un suo familiare, o conoscente, che possa descriverne i disturbi qualora non possa farlo da solo. Chi soffre di demenza fronto-temporale, infatti, non si accorge dei cambiamenti del suo comportamento

valutazione delle abilità mentali, esame che consiste nell’esecuzione di alcune semplici attività e nella risposta ad una serie di domande

indagini strumentali al cervello (risonanza magnetica, TAC o PET), per identificare le parti del cervello danneggiate

puntura lombare, per analizzare il fluido spinale; può essere utile per distinguere la demenza fronto-temporale da altre demenze

esami del sangue, per escludere malattie che causano disturbi simili a quelli della demenza

Demenza frontotemporale e Alzheimer: che differenza c’è?

«Mentre la demenza di Alzheimer si caratterizza classicamente per difficoltà della memoria e dell’orientamento nelle prime fasi, la demenza frontotemporale si caratterizza per alterazioni del comportamento sociale e comportamentale, della capacità di pianificazione e delle capacità linguistiche. Le forme di demenza frontotemporale con disturbi del linguaggio prevalenti si chiamano afasie progressive primarie, come il caso di Bruce Willis», spiega il Professor Pardini.

L’Alzheimer è riconosciuta come la causa più comune di demenza nella popolazione over 65, ma può avere anche un esordio precoce, intorno ai 50 anni. Caratterizzata dal deterioramento irreversibile delle funzioni cognitive, questa patologia comporta sintomi che limitano fortemente le normali attività della vita di tutti i giorni fino a portare chi ne soffre a non essere più autosufficiente. Sebbene solo in Italia si stimano circa 500mila ammalati di Alzheimer, le cause scatenanti non sono ancora del tutto note così come, nonostante gli sforzi compiuti dalla scienza, non esiste ad oggi una terapia in grado di sconfiggerlo.

«Alla base sappiamo esserci un’alterazione del metabolismo di una proteina che venendo metabolizzata in modo alterato porta all’accumulo nel cervello di una sostanza neurotossica, la beta amiloide tale proteina si accumula lentamente nel cervello portando a morte neuronale progressiva. Tuttavia non è ancora stato chiarito quali siano le cause scatenanti di questo processo», spiega Cecilia Perin, Professore Associato in Medicina Fisica e Riabilitativa e responsabile dell’Unità Operativa Complessa Clinicizzata di Riabilitazione Specialistica delle Gravi Cerebrolesioni presso gli Istituti Clinici Zucchi di Carate Brianza.

Quali terapie ci sono per la demenza frontotemporale?

Come spiega la famiglia di Bruce Willis nel post Instagram pubblicato poche ore fa anche sul sito della AFTD (The Association for Frontotemporal Degeneration) «La FTD è una malattia crudele di cui molti di noi non hanno mai sentito parlare e può colpire chiunque. E al momento non c’è una cura. Per le persone sotto i 60 anni, la FTD è la forma più comune di demenza e, poiché ottenere la diagnosi può richiedere anni, la FTD è probabilmente molto più diffusa di quanto sappiamo. Oggi non esistono cure per la malattia, una realtà che speriamo possa cambiare negli anni a venire. Mentre le condizioni di Bruce avanzano, speriamo che qualsiasi attenzione dei media possa essere focalizzata sul far luce su questa malattia che ha bisogno di molta più consapevolezza e ricerca».

I progressi della ricerca ci sono

«La ricerca sulle terapie della demenza frontotemporale è molto vivace. Abbiamo alcuni farmaci che possono aiutare a controllare i sintomi comportamentali, mutuati dalla psichiatria dell’adulto. La ricerca attuale si sta concentrando su trovare approcci capaci di rallentare il decorso della malattia, per esempio agendo sulle componenti genetiche. Il paziente va poi seguito anche sul versante non farmacologico per esempio per la deglutizione attraverso la riabilitazione, e molte speranze ci sono anche per le tecniche di stimolazione cerebrale elettrica», prosegue Pardini.

I trattamenti per alleviare i disturbi

A oggi non ci sono cure per la demenza frontotemporale. Sono però disponibili alcuni trattamenti che aiutano a controllare i disturbi anche per lunghi periodi.

farmaci, utili per controllare alcuni problemi del comportamento

fisioterapia, terapia occupazionale, terapia del linguaggio, utilizzate per alleviare i problemi del movimento e attenuare gli effetti della malattia sulle attività quotidiane e sulla comunicazione

incontri con gruppi di supporto, utili per fornire indicazioni alle persone colpite dalla malattia, e ai loro familiari, sui modi di fronteggiare i disturbi della demenza

Nuove cure, ma solo per l’Alzheimer

«Dal 2000 in poi si è spinta molto la ricerca in tema di farmaci in grado di potenziare la memoria: sono nati infatti i cosiddetti farmaci anticolinesterasici – continua l’esperta – che possono ritardare o contenere il peggioramento dei sintomi. Ora la ricerca sta prendendo un indirizzo più preciso: si sta cercando di sviluppare delle molecole che possano agire sul sistema immunitario aiutando l’organismo a degradare le molecole che non vengono smaltite».

Incoraggianti a tal proposito i risultati di un recente studio realizzato dai ricercatori della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta, in collaborazione con i colleghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e pubblicato sulla rivista “Molecular Psychiatry”.

Agisci! I consigli dell’Association for Frontotemporal Degeneration

È questo l’appello della The Association for Frontotemporal Degeneration, una delle maggiori associazioni che si occupano della Demenza frontotemporale, pubblicato sul sito ufficiale in seguito alla notizia di Bruce Willis. L’obiettivo è quello di informare quante più persone possibile sui sintomi e le azioni per contrastare il progredire della malattia.

Informati sulla malattia e sui suoi sintomi.

FTD è anche spesso indicato come demenza frontotemporale, degenerazione lobare frontotemporale (FTLD) o malattia di Pick. Rappresenta un gruppo di disturbi cerebrali causati dalla degenerazione dei lobi frontali e/o temporali del cervello.

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Estratto dell’articolo di Luca Iaccarino per il Corriere della Sera mercoledì 13 settembre 2023. 

(...)

Al bar con Bruno Gambarotta, sotto casa sua a Torino, dove vive da quasi settant'anni. Quartiere della Crocetta: «Primo Levi abitava proprio qui di fronte. Era così gentile, diceva sempre sì. Quando lavoravo alla sede Rai di Torino lo invitavamo per un'opinione su tutto: la Torino magica, la Torino delle sartine... Poi ci telefonò: “Abbiate pietà, non chiamatemi più”. Qui vicino stavano Einaudi, Ginzburg, Bobbio, Arpino, Pitigrilli... Torino era la città della cultura». 

Quest'estate invece è diventata la città dell'affaire Segre-Seymandi, il banchiere che ha lasciato la compagnia durante la festa di fidanzamento.

«Siamo rimasti sgomenti. È stato un momento tragico per noi cultori della torinesità: in un istante è stata sepolta una tradizione secolare di riservatezza sabauda. Ci vorrebbe un conclave per ricostruire la reputazione della città».

(...)

Tanti anni dopo «Lascia o raddoppia?» l'avrebbe condotto lei.

«A fine Ottanta mi chiamavano per presentare la trasmissione. Io chiesi perché avevano pensato a me. Risposero: “Perché sei l'esatto opposto di Mike Bongiorno. Devi solo perdere l'accento piemontese.” Così mi iscrissi a un corso di dizione. A metà percorso il docente mi disse che avevamo finito. “Mi è passato l'accento? domandai, “no, ma sta venendo a me”. Ciononostante nel 1990 feci “Lascia o raddoppia?” con Giancarlo Magalli. Fu un insuccesso clamoroso».

A quei tempi vivendo della fama improvvisa arrivò con «Fantastico '87».

«Nell'87 affidarono “Fantastico” a Celentano che sapeva niente di tv. Così il mio misero accanto a lui per spiegargli i meccanismi. Impossibile: Adriano era totalmente refrattario a tutto, improvvisava e basta. I suoi proverbiali silenzi? Semplicemente non si ricordava cosa dire. 

Poi fece una gaffe clamorosa: spiegando un concorso disse il nome di uno sponsor al posto di un altro. La settimana successiva per non impappinarsi Adriano mi chiamò sul palco per illustrare il funzionamento del premio, e d'un tratto divenni famoso». 

Dopo venticinque anni dietro le quinte.

«Ero entrato in Rai nel 1962, a Torino. Poi ero finito a Roma a scrivere. Nella stanza accanto stava l'adorabile Raffaele La Capria, nella mia l'autore triestino Renzo Rosso e Andrea Camilleri. Ma non c'erano mai: a Roma, scoprii, le riunioni si facevano a casa. Grazie a La Capria finii in serate indimenticabili». 

Com'era Camilleri?

«Aveva un vero talento per il racconto orale. L'ho poi incontrato tanti anni dopo a Torino.

Lo andai a prendere all'Albergo Roma. Era turbato. Pensando di fargli un piacere, il proprietario dell'hotel gli aveva proposto di dormire nella stanza in cui si era suicidato Pavese».

Preferisci la Rai di quegli anni?

«Io ho amato la Rai 3 di Angelo Guglielmi, lui era un vero semprere. Per me il Gruppo '63 era un mito, Umberto Eco e Edoardo Sanguineti erano grandi, ma era Guglielmi il vero bombarolo della cultura». 

Poi arrivò Berlusconi.

«Come si faceva a dire di no a uno così? A Raffaella Carrà mandava duecento rose rosse al giorno, Pippo Baudo lo faceva venire a prendere con l'aereo privato. A me la Rai non rimborsava nemmeno la bicicletta. I più grandi lasciarono la tv di stato». 

Un po' come è successo ora con Fazio e Littizzetto.

«Hanno fatto bene, piuttosto che sentirsi sorvegliati speciali... Fazio è un vero innovatore della tv, penserà qualcosa di efficace. Quando inventò “Quelli che il calcio” fu una rivoluzione: prima di allora la tv era una liturgia. Lui capì che poteva essere un sottofondo mentre si fa altro. Un totale cambio di paradigma, come se la gente si facesse i fatti propri durante la messa». 

Avete lavorato assieme.

«Lo conosco da quando faceva le imitazioni nei licei, lo scoprì Bruno Voglino, Guglielmi poi capì il suo potenziale. Nel 1992 abbiamo condotto “Porca Miseria” con Patrizio Roversi. Pura innovazione. Un fiasco completo». 

Gli ascolti sono tutto?

«I numeri sono una condanna. Ricordo che dietro il palco di Costanzo c'era il suo autore Alberto Silvestri — il padre del musicista Daniele — che controllava i dati in tempo reale: se un ospite non funzionava, faceva un cenno a Maurizio e il malcapitato finiva nel dimenticatoio tutta la puntata ». 

Luciana Littizzetto?

«La vidi a un saggio di fine anno delle compagnie teatrali torinesi. Tutti lì a declamare Pirandello, lei — che era un'insegnante di Lettere in una scuola di periferia — si mise a cavalcioni sulla sedia e fece “Minchia Sabri”. Venne giù il teatro».

Il più grande talento che hai incontrato?

«Nanni Loy, puro genio. Facemmo “Specchio segreto”, la prima versione italiana della candid camera. Girammo una puntata su un treno, io ero travestito da controllore. Ma per legge non si possono indossare divise identiche a quelle vere, quindi sul bavero sostituiamo la sigla “FS” con “FZ”. Chiesi a Nanni: “e se qualcuno se ne accorge?” Lui: “Rispondi che significa Ferrovie dello Zambia”». 

Funzionò?

«Me lo domandarono in causa, sembravano soddisfatti dalla risposta».

Ha fatto anche l'attore.

«Cominciai con Comencini, ma sono sempre stato una “tinca”, il nome che si dà a quelle particine invisibili come i pesci di fondale: il primario, il notaio... Ma anche ventiquattro puntate del “Commissario Manara”, in cui interpretavo l'agente Quattroni. Una volta giravamo un episodio a Capalbio e m'imbattei in Alberto Asor Rosa: mi conosceva, vedendomi in divisa allibì».

E ha fatto lo scrittore, fino al suo ultimo «Fuori Programma - Le mie memorie dalla Rai» (Manni).

«Ho scritto tanto, anche “Torino, Lungodora Napoli” che è diventato il film “Libero Burro”, il primo da regista di Castellitto. Lo presentarono a Venezia e non mi invitarono. Io riuscii a intrufolarmi e scoprii che non c'entrava niente con il libro, era pieno di scene senza senso. Andai da Castellitto: “Ma guarda che non mi importa, fate come vi pare”. Mica sono Bassani che tolse la firma da “Il giardino dei Finzi-Contini”. Ed era di De Sica!». 

Di cosa ha paura?

«Di scomparire, sto evaporando nella memoria di tanti. Ormai mi confondo con altri: chi mi chiama Gambacorta, chi Barbagallo. Ma chi fa televisione è eterno, no?».

Bugo: «Le provocazioni di Morgan? Sono scioccato, il suo un gioco vigliacco. Ora mi bullizzano». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2023 

Il cantautore: «Mia moglie è una diplomatica, la seguo ovunque. Considero Vasco Rossi un secondo papà. L’ho incontrato durante un suo raduno di fan, la prima cosa che mi ha detto è “io sono con te”, riferendosi a Sanremo» 

Perché ce l’hanno con lei?

«Che ne so? Negli ultimi due anni c’è una specie di bullismo nei miei confronti. Quando si parla di me c’è sempre una parola in più che non è bella, è detta per deridermi sottilmente».

L’hanno danneggiata?

«La mia immagine lo è stata. I fan mi adorano. Poi ci sono quelli a cui non piaccio anche se divento papa e una fascia grigia che non sa come sono e crede a tutto quello che viene scritto o detto su di me. Mi preoccupo per chi mi sta accanto. Fossi solo io, chissenefrega, ho una moglie meravigliosa e due figli fantastici. E non sono mai stato abituato alla pacca sulla spalla, alla carezzina, mi hanno sempre criticato, esagerando. Ma quando sei accerchiato vuol dire che stai facendo la cosa giusta».

Cristian Bugatti, in arte Bugo, è un cantautore originale e curioso con i suoi testi fra alienazione urbana e autobiografia. Nato a Rho (compirà 50 anni il 2 agosto) e cresciuto a Cerano, in provincia di Novara, papà commerciante in metalli, mamma casalinga, la sua vita è un concentrato di passione ed eccentricità. I suoi fan lo amano senza riserve e lui prepara un 2023 all’attacco con un nuovo album («È pronto, siamo carichi»), un tour, un film-concerto e una biografia. I detrattori gli lanciano strali. Ai quali lui reagisce in maniera impietosa: «Non attacco ma sono bravissimo a difendermi, avevo gli hater quando ancora non si chiamavano così». 

Qualche settimana fa ha postato sui social un video in cui risponde alle provocazioni di Morgan che, al Festival di Sanremo 2020, invece di duettare con lui, lo attaccò cambiando le parole della canzone Sincero (scritta da Bugo). «L’altro anno non mi andava di rispondere alle tue str..., c’era la pandemia, la gente moriva ma a te che ti frega... — ha commentato Cristian — non sei un cantautore, non lo sei mai stato. Hai detto che ti ho bullizzato: tu eri mio ospite perché io ti ho invitato. Ti rendi conto quanto sei ridicolo?».

È arrabbiato?

«Sono scocciato. Non si può cambiare il testo di una canzone. Prova a farlo a Vita Spericolata di Vasco Rossi o alla Donna Cannone di Francesco De Gregori. Siccome sul palco dell’Ariston ci stavo io, che non ero famoso ma lo sono diventato per questa storia, è stato facile prendersela con me. È stato un gioco vigliacco. E poi immagini i miei amici, la mia famiglia, mia moglie, mio figlio che mi stavano guardando... a nessuno farebbe piacere trovarsi in una situazione così».

Ha abbandonato la scena senza fare un fiato durante il fuori programma di Morgan.

«Ero su un palco della Rai, in mondovisione, davanti a milioni di persone, ci vuole rispetto per quel palco e la musica. Ho preferito andar via piuttosto che appoggiare quella pagliacciata. Per Amadeus il mio è stato il gesto più rock’n’roll della musica italiana, sarà vero ma per me contava la canzone. In tv non devo fare il damerino e il trash mi irrita profondamente. Il circo lo lascio ai buffoni. Non gioco con la musica. I miei eroi sono Lennon, Vasco, Celentano, Battisti che, per quanto dirompenti, sono seri».

Con Morgan vi siete mai risentiti?

«No. Quando arrivi a quell’estremo ogni chiarimento è superfluo. Non è sempre possibile perdonare».

Al Festival è andato due volte.

«Ma è come se non ci fossi mai stato. Nel 2020 mi hanno squalificato, nel 2021 c’era il Covid, cantavo davanti alle telecamere, senza pubblico. Ci tornerei? Perché no?».

Ha un’anima punk?

«Preferisco dire rock’n’roll. È vero, faccio a modo mio, però lavoro con le multinazionali dal 2002. Non mi isolo dal mondo: voglio che la mia musica arrivi alla gente. Mi piace far discutere, uscire dall’anonimato. Non c’è bisogno che mi presenti con la cresta e il chiodo, sono unico con i miei difetti».

Quali?

«Nasco autodidatta, non ho una voce alla Claudio Villa, non sono un bravissimo chitarrista e non mi interessa esserlo. Io sono l’ideatore, guido il treno».

Umanamente?

«Lo chieda a mia moglie... forse appaio distaccato, non sento gli amici per anni ma se mi chiamano faccio i salti mortali per aiutarli. Sono uno calmo, però se mi arrabbio esplodo».

È sempre stato determinato.

«A 23 anni sono andato a lavorare in fonderia. Volevo raccogliere soldi, trasferirmi a Milano e provare a sfondare. La sera e nei weekend mi dedicavo alla musica. Non esistevano vacanze, ragazze, amici. Ero abituato a quei posti sporchi, difficili, duri: mi ci mandò mio padre, per due estati, quando avevo 15 anni».

Cosa aveva combinato?

«Bigiavo il liceo. Mi hanno bocciato due volte, una con sette in condotta. Il preside mi disse: “In un mese e mezzo hai stabilito il record di assenze da quando esiste questa scuola”. Avevo esagerato, fu l’unica volta che vidi papà arrabbiato».

Da Cerano a Milano: un tragitto faticoso.

«Un giorno vado in fabbrica e non riesco a parlare, balbetto. “C... ho un problema”. Ho mollato tutto e dalla provincia mi sono trasferito nella metropoli. Una liberazione».

Durante i concerti ne combinava delle belle...

«Nei Duemila la mia voglia di stupire era più grande di tutto. Esageravo per reazione, non sopportavo gli artistoidi italiani degli anni Novanta, mi sembravano snob e retorici. I miei live erano provocatori, un’ora di sberle in faccia».

Lei che cucinava sul palco è una leggenda?

«Pasta al burro è il titolo di una mia canzone. Una sera, mentre suonavamo, una ragazza ha preparato gli spaghetti e li ha serviti. Io non avrei potuto, ai fornelli sono un disastro».

Quelle provocazioni sono durate poco.

«Fino al 2003, perché quando sfondi una barriera devi cambiare, altrimenti sfiori il ridicolo, rischi di trasformarti in una macchietta. Ricordo che all’ultimo concerto, a Milano,invitai gli amici che avevano suonato con me durante il tour, ognuno doveva rompere uno strumento. A fine serata il palco sembrava un rottamaio, erano stati lanciati pezzi fra il pubblico, un paio di persone si erano fatte male. Nessun ferito però e la gente non si lamentò, era una festa».

L’accusarono di buttare soldi, gli strumenti costano.

«Lo vada a dire a dire a Kurt Cobain che spaccava le chitarre o a Jimi Hendrix che le bruciava. In quei momenti non pensi al denaro: se non ti piace non farlo».

Hanno detto che al concertone del Primo Maggio indossava una maglietta pro Russia.

«Ridicolo. C’era un unico tweet ripreso con titoloni dai giornali e sul web. Avevo una t-shirt degli Oasis, con la bandiera Uk, piccolina, che ha i colori di quella russa».

Ammira Vasco Rossi.

«Avevo 17 anni quando con un mio amico di Cerano e Cristian Dondi siamo stati al concerto di Vasco a San Siro. Non lo dimenticherò mai. Nel 2015 sono anche andato in pellegrinaggio a Zocca, davanti a casa sua, dove per terra ci sono le scritte dei fan. C’è la mia firma: Bugo, Bollicine. Ho due padri: uno biologico, il mio papà, e uno artistico, Vasco. Esagero, ma sono un figlio di Vasco. Nel 2020 il suo fan club mi ha chiamato per partecipare al raduno come ospite. Ho preferito rimanere fra il pubblico. Mi hanno pure fatto cantare Anima fragile».

L’ha incontrato?

«A fine giornata. Vasco è come un amico del bar. È il vero artista che non si sente maestro. “Io sono con te” è la prima cosa che mi ha detto, riferendosi a Sanremo».

Almeno al Festival del 2020 incrociò Ronaldo.

«Stava con Georgina, alloggiavamo nello stesso albergo e attraverso il suo staff sono riuscito a farmi dare una sua maglietta firmata».

Un bel colpo per lei, malato di Juve.

«Papà e nonno sono juventini, io a sette anni guardavo le partite e piangevo quando i bianconeri perdevano. Era la squadra che vinse i Mondiali dell’82 con Rossi, Tardelli e Cabrini, giocatori che ti fanno appassionare a uno sport e ti segnano umanamente».

Cabrini le ha scritto su Instagram.

«Non ci siamo mai incontrati ma gli ho mandato tre dei miei dischi e la maglietta “Io mi Bugo”. Ho anche conosciuto la moglie di Paolo Rossi in tv. Un’emozione enorme, mi ha chiamato lei perché quando è morto Pablito gli ho dedicato il mio album. A Pechino Express stavo spesso con Ciro Ferrara e il suo meraviglioso figlio Giovi. La società mi invita alle partite, agli allenamenti alla Continassa. Ho portato allo stadio mio figlio Tito che ha sei anni e gioca nella Juventus Academy a Bruxelles, dove vivo con la mia famiglia, Zeno è ancora piccolino».

È pure stato in squadra con Allegri.

«A una Partita del cuore con la Nazionale cantanti, all’Allianz Stadium di Torino. In campo c’erano Andrea Agnelli, John Elkann. A un certo punto, davanti a me, Pirlo faceva il triangolo con Nedved, mi fa impressione solo a dirlo».

È sposato da 11 anni con Elisabetta.

«È una diplomatica, da 12 viviamo all’estero. La amo, rispetto lei e il suo lavoro. Porto un po’ di verve nel suo mondo, ma sono una persona dignitosa, non ho mai fatto una gaffe. Il galateo deve essere dettato dal buonsenso. Se inviti un ambasciatore a cena non ti metti in jeans come un pirla, non stai a una serata fra amici».

È grazie a lei che ha iniziato a dipingere.

«Sì, quando mi sono trasferito in India per seguirla nel suo lavoro. Ho preso una pausa dalla musica per dedicarmi all’arte. Ho avuto recensioni stellari e il critico Francesco Bonami mi ha chiesto di tornare a esporre».

Sono soddisfazioni.

«A San Giuliano Milanese c’è un mio autoritratto del 2013, di 7 metri per 5. Si vede dalla tangenziale... a parte che è sempre meglio guardare la strada. Lo avrei voluto rosso ma distrae dalla guida. L’ho dipinto di grigio. Ma per ora rimango un cantautore, a settant’anni... chissà».

Barbara Costa per Dagospia il 12 marzo 2023.

Che fai domenica? Ah, sei impegnato. E giovedì? Hai da fare pure giovedì. Non ci sei ogni domenica, ogni giovedì. Non è che vai a… Caz*landia? F*ckland, chiamala come ti pare, è qui che è più facile incontrarsi, te, me, e milioni di altri. Caz*olandia è il posto virtuale dove abita una amica speciale, di tutti coloro che ogni domenica e giovedì aspettano i nuovi video che Candy Love carica su Pornhub!

 Non sai chi è Candy Love? È una moretta che negli ultimi mesi sta con le sue sc*pate (quasi) monopolizzando Pornhub. Schizza su in classifica tra le più viste e desiderate, sta lì da poco e supera già le 480 milioni di views. E non si arresta, e ne divora, e ci sono sue performance che sommano 20 milioni di porno arrapato audience, cadauna!

E che fa 'sta ragazza di così speciale? Mah. Niente. Lei cavalca. Candy Love è una 19enne di cui null’altro si sa. Non si sa chi è, qual è il suo vero nome, da dove viene (svela che è europea). Di sé Candy Love dice solo che è “una fidanzata tr*ia”. Alla faccia!!! Candy Love è l’ennesima fanciulla di Pornhub che si è aperta lì un profilo, dove a preferenza monta un enorme dildo o un grosso caz*o che a me – ma solo a me? – pare sempre lo stesso.

 Candy Love ha un fisico pregevole, non segnato da tatuaggi. Una rarità. Tutta nivea pelle linda ricoprente un corpo da cui erompono due seni e due natiche s-u-b-l-i-m-i. Dal c*lo di Candy Love non riesci a staccare gli occhi, detta legge, e non c’è video in cui Candy Love non lo mostri in primo piano svettante e pronto a ricevere la sua dose di tumido pene, e a cavalcarlo, e a onorarlo in doggy-style creampiati che tastano le 3 milioni di cliccate. Minime.

Se di Candy Love nulla si sa se non che vive in una fantomatica Caz*landia, dove sc*pa felice – e tanto su OnlyFans, per 7 dollari al mese, ma ti fa lo sconto se ti abboni per 6 mesi, maggiore se fai l’abbonamento di un anno – c’è solo una parte di sé che non ci mostra: i suoi occhi. Di Candy vedi ogni cosa, tranne gli occhi. I temi porno che più sfrutta per acchiapparsi crescente attenzione sono quelli step. Di finto incesto.

Tra i video la trovi sorellastra infida, perfida, sadomaso, che svuota il fratellastro di "proibiti" ardori. Anche col condom sfilato sul più bello, perché l’ano di Candy riempito di sperma è apogeo di orgasmi per i suoi fan, di ogni lingua. E c’è pure un video, in tenace ascesa, quello in cui su una sedia Candy afferma di farsi sc*pare da un fan, ovviamente nella posizione del fan – e dai fan – prediletta: il doggy-style.

Tutto qui? Eh sì. Il porno, un certo tipo di porno, quello che da un paio d’anni sfracella consensi, saggia i fruitori muoversi in gruppo. Sono un porno gregge allupato che abbraccia un trend, quello composto da ragazze stupende, che si mettono a 4 zampe, natiche e ano a pieno schermo, e si fanno sc*pare, un po’ tutte dallo stesso pene, che è quello del loro ragazzo, che nel video non deve apparire perché è puro oggetto, strumento di piacere, della protagonista. Un porno che per i detrattori è noioso, banale, non eccitante ma che, per il gregge di cui sopra, conquista estrema goduria.

Dopotutto son le ragazze come Candy Love che davvero guadagnano, oggi, col porno (e per quei risultati, di views, clip dopo clip, inarrivabili per la maggior parte, specie in così breve tempo) e col porno home-made girato in questo piatto e ripetitivo sistema. Il p*pparolo medio non è di troppe o complesse pretese.

 Glutei grandiosi, virtualmente lì per lui, con un bell’ano aperto e disponibile, di una donna che è l’opposto – e per disinibizione, e per assenza di morale – di chi, donna, è sua partner, ma pure di chi, donna, è sua collega, amica, conoscente. Un pene, per una s*ga, non vuole pensieri, sì, ma neppure sbattimenti sentenziosi. Credete che riscuotano gonfio interesse le donne che si pongono a probe e sante e vittime asfissiando mente e zebedei?

Carla Signoris: a 18 anni in America in autostop, il matrimonio con Crozza e altri segreti su di lei.  Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’11 Aprile 2023

L’attrice e conduttrice è tra le protagoniste di “Femmine contro Maschi” , in onda su Sky martedì 11 aprile

L’inizio della carriera

Carla Signoris è una delle attrici e conduttrici più amate e apprezzate. Ha alle spalle una lunga carriera, divisa tra piccolo e grande schermo: è lei una delle protagoniste di “Femmine contro Maschi” , in onda su Sky martedì 11 aprile. Diplomata al Teatro Stabile di Genova, Carla Signoris ha fatto il suo ingresso a teatro nei primi anni Ottanta. Diversi gli spettacoli che l'hanno vista protagonista: una passione che l'attrice non ha mai abbandonato pur iniziando a fare cinema e televisione.

Tv e cinema, i debutti

Il debutto in tv è avvenuto nel 1986 con la miniserie “Lulù”. Al cinema è apparsa la prima volta nel 1995, con la pellicola “Peggio di così si muore”. Nel corso della sua lunga carriera ha vinto due Nastri d'Argento, uno nel 2012 per “Countdown2 e l'altro nel 2017 per “Lasciati andare”.

Alla guida di programmi

Signoris è anche una comica e conduttrice. Ha presentato diversi programmi tra cui “Avanzi” (dove era presente pure il marito Maurizio Crozza), “Tunnel”, “Colorado Café” e “La tv delle ragazze”.

Il marito

Carla Signoris e Maurizio Crozza si sono conosciuti quando avevano 14 anni, a una fermata dell'autobus. L’amore però è sbocciato in un secondo momento. "All’inizio abbiamo avuto una storiella… qualche bacio… poi ognuno ha fatto le proprie esperienze e infatti, quando ci siamo sposati nel 1992, al nostro matrimonio c’erano più ex fidanzati ed ex fidanzate che parenti. E uno dei miei ex è poi diventato addirittura il pediatra dei miei figli", ha raccontato la stessa Carla in un'intervista al Corriere della Sera.

In America a 18 anni

Carla Signoris a soli 18 anni ha girato l’America in autostop: «Avevo da poco preso la maturità e con una compagna di scuola il cui fidanzato aveva un parente a New York ero riuscita ad ottenere il consenso dei miei genitori a fare questo viaggio: in due mesi ci siamo girate in tondo tutti gli Stati Uniti” ha raccontato l’attrice

Cantante con Giua

Nel 2019 Carla Signoris è stata contattata dalla cantautrice ligure Giua, per cantare insieme una canzone da proporre alle selezioni di Sanremo: «Feng Shui». “Non conoscevo Giua, un giorno mi chiama, mi intorta e mi propone di cantare insieme questa sua canzone” ha raccontato al Corriere

Voce di Dory

Nel 2003 e nel 2016 Carla Signoris ha prestato la voce alla pesciolina smemorata Dory nei due lungometraggi Pixar «Alla ricerca di Nemo» e «Alla ricerca di Dory» (nella versione originale il personaggio è doppiato da Ellen DeGeneres). Un personaggio che lei stessa ama molto

Carlo Conti: «La mia fuga a Zanzibar. Pieraccioni in crisi per amore si consolava al buffet». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2023

Il conduttore: «Io alle 9 già in spiaggia per rifinire l’abbronzatura. La partitella a calcio sulla sabbia che finì con una disfatta» 

«La formazione era quella a cinque già collaudata tre anni prima a Pollina: io, Leonardo Pieraccioni, Maurizio il commercialista, Domenico, che è un po’ il nostro conte Mascetti – in teoria dovrebbe lavorare in Regione ma in pratica non fa nulla - quattro fiorentini più un napoletano, l’attore Lucio Caizzi. Il viaggio lo proposi io: “Ragazzi, che dite, si va una settimanina in un villaggio a Zanzibar?”».

Reazioni?

«Al terzo tentativo la proposta fu approvata. Ritentammo il colpo. Partimmo alla fine di febbraio del 2005, data a cavallo tra il compleanno di Leo e il mio. Eravamo tutti single, io per mia scelta, lui invece aveva da poco chiuso una storia ed era perciò un po’ depresso, contavamo di tirarlo su», racconta Carlo Conti rievocando quell’avventura di 18 anni fa in stile Amici miei, che al tempo fu evento più unico che raro: «Lavoravo di continuo, anche d’estate, serate su serate. Non sono mai stato un grande viaggiatore, ho cominciato da quando mi sono sposato, mia moglie Francesca starebbe sempre in giro, ho fatto più vacanze con lei in questi ultimi 11 anni che in tutto il resto della mia vita». Quella volta invece il clan degli scapoli si organizzò per benino.

Bagaglio minimal o fuori misura?

«Un trolley a testa con l’indispensabile: costume, ciabatte, pantaloncini e magliette. E per me l’inseparabile maschera da snorkeling. Volo diretto, senza intoppi. Bel villaggio. Solo che Leo la mattina dopo voleva già tornarsene a casa».

Ma no, come mai?

«Gli era presa male, una botta di tristezza. Forse anche perché, la sera prima, avevamo dato un’occhiata alle ragazze dell’animazione e non erano granché carine. “Dai, magari domani cambia turno e ci va meglio”. Niente. A colazione ci annunciò cupo: “Riparto, riparto, me ne vo subito, cerco il primo volo e me ne torno a Firenze”. Gli altri si sono agitati, io che lo conosco sapevo che gli sarebbe passata».

A proposito, un flashback del vostro primo incontro.

«Era il 1981. Lavoravo in una tv locale, presentavo una gara di giovani talenti. Si era appena esibito un imitatore che non aveva fatto ridere nessuno. Arriva quello dopo, era Leonardo, aveva 16 anni. “Hai un minuto”. Fece Grillo, Antognoni, Mike Bongiorno. Si vedeva subito che era bravo. Ci scambiammo i numeri di telefono di casa, allora i cellulari non c’erano. Quell’estate lo proposi al mio impresario».

Non ci fu due senza tre.

«Nel 1985 arrivò anche Panariello: lo vidi a Vibo Valentia, imitava Renato Zero. Gli chiesi: “Di dove sei?”. “Della Versilia”. “Ma dai!”. Altro scambio di numeri fissi. Lo prendemmo con noi a “Succo d’Arancia”, programma per Teleregione Toscana. Io - che ancora lavoravo in banca, e Leo - in ditta - preparavamo due scalette, una con Giorgio e una senza, per quando non trovava i soldi per la benzina».

Tornando a Zanzibar, insomma,poi la botta di malinconia di Pieraccioni gli passò?

«Sì, per merito del meraviglioso buffet, allestito con ogni bendidio, che riportò l’allegria. E forse anche a qualche altra presenza femminile, non accompagnata, che faceva ben sperare. Ci divertimmo a mettere in mezzo il povero Maurizio, spedendolo in continuazione a parlamentare con il cuoco – italianissimo, che stette al gioco – con richieste gastronomiche sempre più assurde. “Senta, Carlo e Leo vorrebbero tanto un astice alla catalana”. O il porcellino sardo. O la polenta con i funghi. O le lasagne con il ragù. Faceva la spola continua, tra lui e noi, sempre più imbarazzato».

L’eterna lotta tra mattinieri e tiratardi come andò?

«Leo dormiva fino a mezzogiorno. E anche Lucio, che venne confinato nel bungalow più lontano, perché russa moltissimo, fa un fracasso impressionante. Io alle 9 ero già in spiaggia a rifinire l’abbronzatura, dopo il primo giorno ero già più scuro di quanto non fossero loro a fine vacanza».

La zingarata di gruppo?

«Volevamo a tutti i costi andare a visitare la ex casa di Freddie Mercury, nel quartiere storico di Stone Town. Abbiamo noleggiato l’auto e siamo partiti in pellegrinaggio ma poi, arrivati lì davanti, l’entusiasmo era scemato. “Che si fa, scendiamo?”. “No”. Ed è finita che abbiamo tirato dritto, non l’abbiamo mai vista».

Momento indimenticabile?

«La partitella a pallone sulla spiaggia con dei bambini, alcuni italiani e alcuni stranieri, noi cinque contro sette di loro. Fortissimi, come correvano. Una fatica boia, restammo senza fiato, con la lingua di fuori. Il primo a mollare fu Lucio, poi Domenico e Maurizio. Restammo in campo io e Leo, con una ragazza reclutata come portiere. Una disfatta: perdemmo 7 a 3».

Imprese in solitaria?

«Sono fissato con la pesca, una mattina uscii in barca con due tipi del posto, prendemmo due dorados, così li chiamano lì, che sarebbero due lampughe, lunghe un metro, tornai a riva orgogliosissimo. “Guardate che vi ho portato”. Leo era il solito scettico: “Le avrai comperate al supermercato”. Però poi se le sono mangiate eh».

Da Zanzibar al Kenya, riserva di Masai Mara.

«Safari fotografico nella savana. Dormivamo in tende di lusso piantate a cerchio sulla riva del fiume, con le scimmiette che venivano a bere mentre noi, intorno al fuoco, sorseggiavamo un vinello toscano. Una sera però scoppiò un temporale pazzesco, sembrava una scena di Jurassic Park».

La natura selvaggia non era rilassante?

«Mica tanto. Di notte dormivamo poco, perché si sentivano dei ruggiti spaventosi che sembravano molto vicini, appena fuori dalla tenda. O un rumore fortissimo di passi, quando si spostavano gli elefanti. I guardiani ci avevano spiegato che in realtà gli animali erano lontani. Probabilmente c’erano dei sistemi di protezione. Fatto sta che al mattino eravamo tutti mezzi rintronati dal sonno».

Cinque veri Indiana Jones.

«Durante il giro in jeep, tra rinoceronti, leoni, giraffe e ippopotami, siamo rimasti tutti molto quieti, la fifa superava persino la voglia di farci degli scherzi. Nessuno che abbia nemmeno azzardato un classico: “Sai se si finisce la benzina”? Anche perché le nostre guide, dei ragazzotti Masai, giravano armati di improbabili lance per turisti».

Confidenze tra amici sotto le stelle dell’Africa?

«Scattavano i trattati filosofici sull’amore: perché lei, perché io, se lei, se io, accidenti a questo, accidenti a quello».

Racconti tra uomini sulle conquiste vacanziere messe a segno?

«Quello non l’abbiamo fatto mai, di avventure non si parla, vige la massima privacy. Nessun commento, nessun dettaglio. Magari ci si confida dopo molto tempo».

E quindi non sapremo mai se il giovane Pieraccioni si consolò dai dispiaceri amorosi in quel di Zanzibar.

«Diciamo pure che tornò più allegro dopo la partita a pallone sulla sabbia. E grazie al buffet!».

Viaggio di ritorno, niente da dichiarare?

«Solo la sensazione che ci rimase addosso. Sarà stato il jet lag, ma ritrovarsi a Firenze fu strano. Sembrava di aver vissuto un’esperienza irreale, come se lo avessimo soltanto sognato».

Carlo Conti: «Devo tutto alla mia mamma. E sì, ero affetto da “dongiovannite”». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 27 Dicembre 2022

Il padre morto quando aveva 18 mesi, l’addio al posto fisso (una vita da bancario gli dava i brividi), gli amici di sempre... Lo showman si racconta a 7: zero trasgressioni

La prospettiva era una vita da bancario, l’idea gli faceva venire i brividi, il suo sogno era la radio, il successo l’ha portato a Sanremo. In quattro fotografie è il riassunto di vita e carriera di Carlo Conti. Assunto in banca a tempo indeterminato («la mia mamma era felicissima, ha dedicato la sua vita per far sì che arrivassi a quel traguardo»), l’illuminazione di San Carlo arriva non su una via, ma su una piazza: «Ero in coda in macchina a Firenze, ero arrabbiato con me stesso, mi chiedevo perché mi dovevo svegliare tutte le mattine per andare a fare una cosa che non mi piaceva. Proprio all’altezza di piazza della Libertà decisi di licenziarmi».

«A 16 ANNI CON IL MIO AMICO ANDREA FACEVO ‘BASSO SGRADIMENTO’: IMITAVAMO ARBORE E PRENDEVAMO IN GIRO I PROFESSORI»

Libertà era potersi finalmente dedicare a tempo pieno alla sua passione per il mondo dello spettacolo. Come era nata?

«A 16 anni con la radio. Ho iniziato per scherzo al pomeriggio con il mio amico Andrea, con un giradischi e un registratore imitavamo Arbore e facevamo Basso Sgradimento: chiacchieravamo, prendevamo in giro i professori e poi facevamo girare le cassette in classe».

Uno Youtuber ante litteram... Il passo successivo?

«Suonai il campanello a una delle prime radio fiorentine e chiesi se avevano bisogno di dj: sì, la domenica pomeriggio ma non paghiamo. Accettai subito. Non c’era nemmeno il regista, facevo tutto io. Allora erano davvero radio private, nel senso che erano private di tutto. Fu un periodo fantastico, mi ha insegnato ogni cosa: a parlare senza avere appigli, la velocità, il ritmo, l’improvvisazione; viaggi a braccio, inventi le telefonate e le dediche. È stata la mia gavetta, l’investimento su me stesso, come oggi i ragazzi che pubblicano a tempo perso video su YouTube o TikTok».

Ha avuto anche il periodo delle discoteche: lei quanto è stato trasgressivo?

«Per niente. Bevevo solo acqua, nemmeno una Coca Cola. Il dj però era al centro dell’attenzione e aveva sempre un bel riscontro femminile, dunque pur non essendo un adone è stato un periodo di notevole allegria e divertimento. Per tanto tempo, fino a prima del matrimonio, ho sofferto di dongiovannite. La mia è una grande forma di amore per le donne, credo nasca dalla figura fortissima di mia mamma per cui nutro grandissima stima e ammirazione, per i suoi sacrifici, per le sue difficoltà. Mio babbo è morto che avevo 18 mesi e lei mi ha fatto da babbo e da mamma, ha dedicato la sua vita a tirarmi su al meglio, il suo sogno era il posto fisso».

Da dieci anni è sposato con la stilista Francesca Vaccaro, avete un figlio, Matteo, di otto. Che dicevano della sua «dongiovannite» i suoi amici Pieraccioni e Panariello?

«Per loro io ero l’Alberto Sordi del gruppo, quello che non si sarebbe mai sposato. Quando ho parlato di matrimonio non ci credeva nessuno dei due».

La radio è stata il trampolino di lancio per la tv: i programmi pomeridiani, poi le prime serate, fino al coronamento con un triplo Sanremo di grandi ascolti. Prima però lei rifiutò di condurre il Festival. Perché?

«C’è stato un periodo in cui avevano ventilato la possibilità di una mia conduzione, ma non avevo sentito l’azienda compatta sul mio nome. Il bisogno di sentirsi supportato è fondamentale, volevo che tutti fossero d’accordo su di me e ho preferito declinare l’invito. Forse poi non ero pronto nemmeno io, non avevo ancora l’autorevolezza giusta».

Poi ha fatto tre Sanremo, qual è la prima immagine che le viene in mente?

«Sono due i momenti in cui mi sono emozionato. Nel 2015, al debutto, quando avevo fatto arrangiare come sigla iniziale La fanfara dell’uomo comune degli Emerson, Lake & Palmer: mi sentivo così, l’uomo comune che da Firenze è arrivato al Festival di Sanremo. E poi due anni dopo quando sono entrati dal fondo dell’Ariston Giorgio (Panariello) e Leonardo (Pieraccioni). Li ho visti arrivare e ho pensato: chi avrebbe mai immaginato di essere qui con loro un giorno?».

«È IMPOSSIBILE LITIGARE CON ME. CERCO SEMPRE IL PUNTO DI INCONTRO CHE NON VUOL DIRE ESSERE BISCHERI, MA AVERE UN EQUILIBRIO»

Il suo ultimo successo è legato a «Tale e Quale Show» (la finale del programma è stata vista da quasi 4 milioni e mezzo di spettatori con il 28% di share), mentre il 7 gennaio prende il via «Tali e Quali 2023». Nel primo caso i protagonisti erano le persone famose, ora salgono sul palco le persone comuni. È un raro caso di format buono per tutti gli usi?

«Abbiamo fatto il procedimento inverso del Grande Fratello che era partito con le persone normali per poi spostarsi sui vip. Noi abbiamo scelto invece la doppia formula perché ci siamo resi conto che c’è un mondo variegato e divertente di imitatori-cantanti da raccontare. E tra questi alcuni sono davvero Tali e Quali. Siamo partiti con una puntata sperimentale nel 2019 e in questa edizione arriviamo a cinque».

Qual è la formula del successo?

«Abbiamo spostato il baricentro sempre di più sulla leggerezza e sul divertimento oltre che sulla bravura, che è il primo requisito. Ho premuto sul varietà e sulla levità: questo ha pagato».

Ha puntato su Loretta Goggi, Giorgio Panariello e Cristiano Malgioglio in giuria...

«Loretta è l’istituzione, è la regina assoluta, appena mi fecero vedere il format dissi che non poteva non esserci Loretta che è la storia delle imitazioni in Italia. È un programma che senza di lei non potrei mai immaginare. Il colore di Malgioglio e la brillantezza comica di Panariello rendono la miscela perfetta».

Capodanno cosa le evoca?

Ride: «Il lavoro... Adesso ho appeso il conto alla rovescia al chiodo da qualche anno, ma ho quasi sempre lavorato il 31. Quando facevo il dj era una data importante, pagavano il triplo. Poi c’è stato il periodo degli spettacoli con Panariello e Pieraccioni, andavamo in due o tre locali nella stessa serata: nel primo festeggiavamo la mezzanotte, nel secondo entravamo alle due e dall’ultimo uscivamo all’alba».

Poi lo ha festeggiato anche in tv con «L’anno che verrà», come il titolo della canzone di Dalla.

«Dalla è sempre stato un ospite generosissimo nei miei programmi. A Rimini disse che voleva iniziare in una maniera particolare e fece scavare una buca enorme sulla spiaggia, profonda 2 metri. Iniziò a cantare da questa fossa da cui uscì con una scaletta per poi salire sul palco. Lui era così, folle e geniale. Sapeva sempre sorprendere. Umanamente era unico, guardava sempre gli altri, non si tirava mai indietro, duettava anche con artisti in erba, sempre al servizio dei più giovani, sempre con il sorriso, leggero, mai snob».

Per lei in fondo era un cerchio — o una buca — che si chiudeva perché il suo primo ricordo di Sanremo è proprio legato a lui.

«Era il 1971 e ricordo questo signore con barba e cappellino che cantava 4 marzo 1943. Io — nato a marzo — rimasi colpito nel sentir citare il mio mese di nascita in una canzone: parlava del mio mese e pensavo parlasse a me».

I suoi modelli chi sono stati?

«Credo che la generazione di noi conduttori sessantenni anche inconsciamente abbia nel proprio Dna qualcosa di quelli che l’hanno fatta veramente la televisione. Ho una foto accanto ad Arbore, Bongiorno e Baudo, che — me l’hanno detto in tanti — rappresentano le mie tre anime: il quiz come Mike, lo spirito baudiano quando faccio il gran cerimoniere del varietà, e poi la mia vena arboriana quando faccio la spalla ai comici. Ci aggiungerei — sempre perché me lo dicono — quel modo diverso di prendere in giro di Corrado e quel garbo che aveva tantissimo Tortora. Mi basterebbe avere un centesimo di quello che hanno loro».

Lei non litiga mai con nessuno. Possibile?

«Con me è impossibile litigare. Non capisco perché bisogna litigare. Se fossero tutti come me non ci sarebbe mai stata una guerra nel mondo, cerco sempre il punto di incontro che non vuol dire essere bischeri, ma avere un equilibrio. Quando la gente litiga la verità sta sempre nel mezzo e io cerco sempre quel mezzo».

È anche impossibile che lei dia un giudizio negativo su qualcuno...

«Mi sembra di sentire mia moglie... Nel mio ruolo devo avere un grande rispetto per tutti, specialmente per i colleghi e le colleghe. Non porto rancore nemmeno se qualcuno si è comportato in maniera scorretta nei miei confronti. Il tempo lenisce le asperità».

Anche l’invidia sembra una categoria dello spirito che non le appartiene...

«È così, non mi appartiene per niente».

Ma c’è il programma di un altro conduttore che le sarebbe piaciuto fare?

«Dico sempre a Donatella Bianchi che vorrei fare Linea Blu — non tutto il programma —, ma solo una rubrica dedicata alla pesca e alle immersioni; è un programma meraviglioso per me che amo il sole, amo il mare, amo pescare e amo il mondo subacqueo».

Che pescatore è?

«Scarsissimo. Mi dedico alla pesca sportiva con la mia barchettina, ma mio figlio è già più bravo di me, forse però è solo la fortuna iniziale dei bambini...».

Il miglior acchiappo?

«Un tonno di 84 chili con un mio amico, un vero campione di pesca; è stata una fatica incredibile perché a un certo punto era il pesce che tirava la nostra barca. E comunque abbiamo pescato un tonno quando eravamo a caccia di sgombri, veda lei la bravura...».

Freccero: “L’Italia ha vissuto la censura anche la Tv è cambiata con la pandemia”. Edoardo Sirignano su Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

Effetti dei vaccini, abbiamo assistito a una censura compatta che non lascia dubbi”. A dirlo Carlo Freccero, autore, ex direttore Rai e tra i più importanti massmediologi italiani.

Il documentario sulle reazioni avverse che tutti devono vedere. A cosa fa riferimento?

Mi è capitato molte volte, in questi giorni, di vedere sui social locandine che parlano di incontri per presentare il documentario “Invisibili”, disseminati su tutto il territorio nazionale. È interessante che nuove forme di comunicazione basate sull’incontro diretto, prendano progressivamente il posto di un’informazione ufficiale che, in questi ultimi tre anni, ha sostituito la propaganda alla verità e all’esperienza.

Perché parla di propaganda sul Covid?

Non è una semplice illazione dato che, nel corso del tempo, sulle gazzette ufficiali, sono stati pubblicati i contributi stanziati dallo Stato per testate giornalistiche ed emittenti locali disposte a porsi al servizio della divulgazione dei dati pandemici e dei conseguenti provvedimenti di ordine sanitario. Tutto ciò potrebbe essere encomiabile se, contemporaneamente, fosse stato dato spazio anche alle obiezioni e ai problemi che la nuova profilassi ha generato. Abbiamo, invece, assistito in questi anni a una censura compatta, che non lasciava spazio ad alcun dubbio. È il caso del documentario Invisibili.

Come l’ultima pandemia ha cambiato la tv?

Con la pandemia, il lockdown e l’ansia diffusa per la paura del contagio, la televisione generalista ha colmato l’handicap nei confronti dei nuovi media che ne erodevano l’odius. Oggi questo recupero si è in parte ridimensionato, ma la tv mantiene saldamente il ruolo recuperato. Ciò è dovuto a mutamenti strutturali intervenuti. Prima di tutto da generalista, aperta a qualsiasi argomento possibile, la tv tradizionale si è trasformata in monotematica, in quanto tutta la programmazione ruota intorno alla pandemia. Prima che ci fosse la piena affermazione dei social e il dibattito si spostasse su internet, nella prima metà degli anni 90, la televisione ha avuto la funzione di spazio condiviso, di dibattito in cui i nuovi talkshow permettevano al paese un confronto e una critica al sistema e al potere. Anche oggi la tv generalista è ritornata a fungere da spazio condiviso in cui si esercita la vita sociale, cioè dovuto alla presenza di un palinsesto che sincronizza l’ascolto, mentre invece sui social i tempi di utilizzo sono soggettivi. Con la pandemia, la tv è ritornata a essere la piazza degli italiani, ma rappresenta una nuova forma di piazza: non la piazza della democrazia diretta, ma la piazza tradizionale dove le folle si accalcano sotto il balcone da cui le istituzioni dettano la linea da seguire passivamente.

Ha senso chiedere la censura in nome della cieca fiducia della scienza?

In questi tre anni di pandemia chi non poteva vantare titoli accademici ed esprimeva in pubblico dibattito dubbi e perplessità, è stato messo a tacere con l’argomento: “Tu non sei un virologo”. Detto ciò, non può essere scientifico ciò che non può essere messo in dubbio e confutato. Nel caso della pandemia la scientificità dei vaccini risulta ancora più paradossale e legata a un vero e proprio atto di fede.

Che senso ha far esprimere solo i virologi abilitati su vaccini la cui composizione è ignota perché coperta da brevetto?

È paradossale. Che senso ha il consenso informato richiesto ai pazienti quando questi stessi pazienti dovevano firmare in assenza di qualsiasi informazione su ciò che stava per essere loro iniettato? L’ultimo paradosso riguarda proprio il documentario a cui faccio riferimento. Gli invisibili di cui si parla sono il contrario di quello che si vuole farci credere. Sono persone che per avere effetti avversi si sono vaccinate, quindi, che hanno avuto quella fiducia nella scienza, ma che nel momento del bisogno e della malattia sono state trattate come visionari, inattendibili, folli. È normale che un farmaco sperimentale registri effetti collaterali. La sperimentazione ha proprio lo scopo di valutare il rapporto rischi/benefici e di far emergere quegli effetti collaterali che andranno essere registrati nella scheda tecnica del farmaco. Ed allora la domanda è: perché questo muro di censura che arriva a smentire l’evidenza è che, se non riguardasse temi tragici come la morte, sarebbe assurdo sino al ridicolo?

Perché, a suo parere, non si può parlare di effetti collaterali, esprimere dubbi, registrare eventi avversi di tutta evidenza?

Sicuramente uno dei tasselli del problema è costituito dalla natura sperimentale dei vaccini. Contrariamente a quanto è stato detto, i vaccini non erano collaudati e sicuri. Al contrario sono stati immensi con un’autorizzazione di emergenza, condizionata a controlli periodici e successivi. Da qui la necessità di negare a ogni costo effetti avversi gravi che potrebbero avere come conseguenza il diniego della autorizzazione definitiva. L’assenza di effetti collaterali è stata ed è un postulato, così come la mancanza di cure esperibili per dare una giustificazione in chiave emergenziale. Per ammissione stessa di Fauci molti anni fa, un vaccino richiede una sperimentazione superiore al decennio perché effetti collaterali potrebbero rivelarsi anche successivamente.

Invisibili” possiamo dire, che in una certa maniera, la coinvolge emotivamente…

Mi immedesimo nella vita dei danneggiati e dei sopravvissuti. Non posso fare a meno di provare empatia per chi è stato così duramente colpito. Poteva capitare a ciascuno di noi. Mi hanno segnato storie come quelle di Michele che afferma di essere stato una cavia, di Roberto, 26enne sul corpo di un novantenne, di Valentina, costretta a cambiare i suoi obiettivi di vita a causa dei vaccini o di Doiva, che racconta la morte del figlio diciottenne.

Aldo Grasso per il Corriere della Sera - Estratti lunedì 16 ottobre 2023.

Sotto sotto (ma neanche tanto), Carlo Verdone racconta il suo dramma: a lui piacerebbe fare un film impegnato, un film d’autore da festival internazionale, come si diceva una volta, ma i suoi produttori non glielo faranno mai fare, condannato com’è a strappare risate. Di solito, per lenire il dramma, Verdone si rifugia nei toni della commedia dolce-amara, quella in cui si ride con retrogusto pensoso. 

In «Vita da Carlo. Seconda stagione», Verdone si confessa in pubblico, il suo cuore messo a nudo come per dirci «non sono solo quello che appaio». In questo gioco di specchi (il cinema che parla di cinema, metalinguaggio dicono quelli che frequentano i festival), la serie racconta il tentativo di narrare l’amore impossibile tra Carlo, da giovane, e una prostituta (Paramount+). 

(...) Ogni puntata è un film in miniatura mentre la serialità ha le sue leggi di scrittura e una sua sintassi che imporrebbero ritmi e battute diverse: qui ci troviamo nel territorio della sitcom classica, quella che privilegia più il personaggio della storia. Così tutto il peso del racconto è sulle spalle di Verdone, a volte malinconiche come il suo sguardo.

Estratto dell’articolo di Laura Martellini per corriere.it lunedì 16 ottobre 2023.

«Sono stupita da tanto clamore. Mi hanno chiamato amici dall’Italia per avvertirmi dell’appello di Carlo Verdone che si chiedeva sui social dove fossi. Eccomi, vivo a Miami e sono la sua Sandy!»: a parlare dall'America con il Corriere della Sera è Natasha Hovey, l'attrice protagonista di «Acqua e sapone» che il regista ha ricordato un giorno fa a 40 anni dall'uscita, domandandosi con nostalgia: «Emanavi dolcezza e grazia, la luminosità del tuo viso non poteva non incantare. Dove sei ora, Natasha?».

Casa a Miami

La risposta arriva da una bella villetta con salottino esterno di Miami dove Natasha Hovey, 56 anni, vive oggi con suo marito di professione medico reumatologo e il figlio David, 24 enne. «Dopo Acqua e Sapone e Compagni di scuola, girati con Carlo, e altri lavori per la Rai, alcuni sceneggiati, mi sono trasferita in Francia per amore di mio marito, con cui ho costruito la famiglia che ancora oggi è tutto per me. I miei si sono separati, volevo una vita diversa. Una storia che fosse per sempre. Così sono volata a Parigi e ho sposato il mio compagno, nel 1999, trovandomi a vivere una specie di transfert: il sentimento che avevo per il cinema si è trasformato in un amore assoluto verso mio marito, parigino, e il nostro ragazzo». 

(...) 

Nessun rimpianto

Senza nessun rimpianto: «A volte ho provato con David a rivedere i film con me ragazzina protagonista, ma una pellicola come Acqua e sapone ha un umorismo che in Francia non è così immediato. Siamo diversi. Mio figlio poi parla poco l'italiano. Nostalgia? Quando sono più malinconica succede che pensi alla carriera che avrei potuto fare e a cui ho rinunciato, vedo tante mie colleghe d'allora che oggi sono attrici affermate. Ma quando mi sento bene sono felice del successo che ho avuto e penso, oh my God, la ragazzina di quei film ha dato forma alla donna che sono oggi». 

Quanti ricordi

Come andò con Verdone? Lei era una ragazzina di appena 15 anni (16 compiuti sul set), lui un regista già affermato. «Io mai avrei pensato di poter lavorare nel cinema.  Avevo difficoltà a comunicare, ero piuttosto riservata. Mia madre, di origine olandese, per avere un ricordo dei miei 13 anni mi portò un giorno a fare qualche scatto in bianco e nero da un fotografo, che le consigliò di proporre il mio volto alla pubblicità. Così feci qualche spot, ma rimanendo muta: da una réclame per un prodotto contro la forfora mi scartarono perché dovevo dire una frase, ma non riuscii a proferire una parola! Mamma per sbloccarmi mi iscrisse a una scuola di recitazione, e piano piano mi sciolsi.

Quando feci il primo provino per Carlo Verdone ero già capace di recitare qualche battuta. Alla prima selezione gli diedi una mia foto in cui comparivo truccatissima per una rivista di abiti da sposa e fu in quel momento che scattò in lui la molla: incarnavo la perfetta donna-bambina. Mi disse poi di aver scritto la sceneggiatura tenendo davanti a sé quell'immagine. 

Quando mi presentai al secondo casting mi prese. Aveva già visto centinaia di ragazze anche nel nord Italia. In comune io e lui avevamo anche la scuola: il Nazareno, a Roma». La famosa scena del bacio? «Guardi, del set mi ricordo soprattutto le grandi risate. Si scherzava sempre. E in quell'occasione c'erano attorno a noi decine di tecnici e operatori. Mia mamma sempre presente. Oggi non so se sarebbe possibile girare un film di quel genere. Ma non c'era malizia, in Acqua e Sapone. Solo tanta tenerezza». 

Con le sorelle nella «sua» America

Natasha si è strasferita dunque da qualche anno in America con la sua famiglia: «Una mia sorella vive accanto a me, l'altra in Oregon. Mio padre era di Boston, e io ho la doppia nazionalità. Con la mia famiglia però abbiamo scelto di vivere a Miami perché è  più vicina al nostro spirito latino.  Mi trovo bene, anche se è un posto de matti!» azzarda in romanesco. 

La sua giornata? «La città è piena di gatti, molti dei quali non sterilizzati, che vivono in condizioni di estrema necessità. Non hanno da mangiare, non un riparo. Così con altri volontari ci occupiamo del loro sostentamento. Io stessa ne ho sei: alcuni vanno e vengono dal salottino esterno della casa allestito su misura per loro. Ci sono anche due orsetti lavatori, e qualche opossum. E mio figlio, ovviamente: come tutti i genitori pensavamo per lui a un futuro di medico o avvocato, e invece è diventato film producer. Si vede che era destino..».

Ritorno in Italia

L'Italia?  Dimenticata? «Torno due tre volte l'anno, anche perché mia mamma la adora è si è stabilita a sud di Napoli. La prossima volta andrò a trovare anche Carlo. Intanto può stare sicuro che lo contatterò, privatamente. Dai social mi tengo alla larga: non ne ho bisogno. Se inizi a usarli non smetti più, come con il computer. Va bene così. Ma mi domando: come mai tutta questa attenzione per questo intervento così carino e elegante di Carlo a proposito di un film uscito 40 anni fa? Forse le persone hanno bisogno di leggerezza, con quel che succede nel mondo...Di serenità e di evasione».

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” - Estratti mercoledì 27 settembre 2023. 

Il segreto di Carlo Verdone è dietro un “come va?”. Quello che per la stragrande maggioranza delle persone è retorica, quasi un tic privo di sostanza, con lui è reale interesse, partecipazione, capacità mnemonica, spesso ispirazione per storie o battute in grado di fissare il comune quotidiano come pochi altri artisti. Lui quasi ogni mattina va realmente al bar, si piazza lì e ascolta, “ruba”, poi sintetizza e magari nascono maschere come Jessica e Ivano o quella di Armando Feroci (“A volte ho un po’ anticipato i tempi”). 

Da poco è su Paramount con Vita da Carlo 2 e la seconda serie è pure più bella della prima. Spesso la chiamano “Carletto”...Mi piace, è una forma di affetto, significa che sono come un amico, mi trattano come tale; (sorride) c’è poi chi mi appella “maestro”.A maestro come reagisce?Resto in silenzio, però mi viene un po’ da ridere.È un maestro.Sì, ma va benissimo “a Carle’...”; (ci ripensa) maestro mi fa veramente un po’ ridere: non mi sento così anziano.Nella serie fissa un punto reale: gran parte del cinema sogna di lavorare con lei.(Silenzio, quasi si imbarazza) Chi lo dice? 

(...)

Quante telefonate riceve da attori che si propongono.

La maggior parte passa dall’agenzia, poi ci sono quelli che si accontentano di due o tre battute, e lì siamo intorno ai 400 l’anno. 

In stile-Haber che citofona a casa?

Veramente a casa ogni tanto arriva qualche fan, un po’ come l’altro giorno; anzi, in realtà capita tutte le settimane, magari li trovo appostati fuori dal cancello. Non credo sia giusto. 

Non si sottrae ma, anche dalla serie, sembra non bastare mai.

Pure se spieghi alle persone “sto per perdere l’aereo o il treno” e sei obbligato ad andare via, sento alle spalle la frase “ma quanto è stronzo questo”.

Ci resta male.

Una volta in aeroporto hanno chiamato il mio nome: mancavo solo io; ma ero circondato da richieste di selfie o da telefonate alla moglie ricoverata. “Sentite? Devo andare” “A Ca’, un attimo, un selfie”. “Non posso”. “Non sei mica tanto simpatico”. 

(...)

Sono 40 anni da Acqua e sapone...

Ha una sua poesia, c’è grazia, tenerezza con un tono favolistico.Il tema del film oggi avrebbe dei problemi. Non lo potrei girare, perché parla di un ragazzo che finisce a letto con una diciassettenne; quando l’ho rivisto ho pensato: “Che coraggio!”. Ma nessuno mi diceva niente, neanche il produttore e adesso altri miei lavori non si potrebbero girare. Tipo?

Penso a Gallo cedrone o a Compagni di scuola per il personaggio interpretato da Alessandro Benvenuti sulla carrozzina; mi hanno criticato pure Si vive una volta sola e ho risposto “guardate che parliamo di quattro medici cretini, di quattro soli e superficiali”.

Come sta il suo colon?

Quello degli artisti dà sempre una rottura di palle: più viaggi e promozione fai, più giornate stressanti vivi e più stai in crisi (e spiega nel dettaglio quali medicine prendere).

Tutti le chiedono consigli su medici e medicine...

Continuamente; oggi ho pure spiegato a un’amica come curare il colesterolo. 

Chi è lei?

Un gran lavoratore, uno che ha dedicato tutta la sua vita al pubblico, mi sono consegnato a loro e poco a me. Anche questo lo affronta nella serie...Ed è la verità e in qualche modo è una forma di tristezza; per carità sono felicissimo di aver portato felicità in tante persone, dell’affetto che ricambio, però ho tolto tanto a me stesso. 

Troppo?

Anche troppo. Ha creato una maschera. Pure qui: non me ne rendo conto e forse è la mia fortuna perché non mi sono mai sentito arrivato; ogni volta che inizio un progetto è come se fossi ancora ai tempi di Un sacco bello ; non è vero che entro più sicuro. Un primo giorno di set non sarà uguale a quello di 40 anni fa. 

No, ho maggiore esperienza ma resta l’ansia che inizia a montare sette giorni prima e mi ripeto “questa volta lo sbaglio”. L’ultimo giorno di set? Il più bello di tutti, sono felicissimo perché ho scavalcato la montagna e scatta la frase “anche questa volta ce l’ho fatta”; (pausa, torna a prima) però ho davvero dedicato poco tempo a me stesso.

Estratto dell’articolo di Alberto Infelise per “la Stampa” il 3 settembre 2023.

Carlo Verdone potrebbe vivere di rendita[…] E invece no.[…] è abitato da una maledizione, che forse è una benedizione: ha bisogno di raccontare, ha bisogno di pensare che la prossima storia, il prossimo film saranno i più belli che abbia mai raccontato e fatto, ha bisogno di dimostrare a se stesso che ha ancora tanto da dire e che può dirlo meglio di come ha fatto finora. Ha ancora “il grande film” da fare e non serve a nulla dirgli che lui di grandi film ne ha già fatti un bel po’: […] 

La seconda serie di “Vita da Carlo” arriva su Paramount il prossimo 15 settembre. La prima serie è stata la cosa più intima che lei abbia mai realizzato. Lo sarà anche questa?

«Lo è ancora di più. […] Non voglio dire che siano una lastra fotografica perfetta della mia vita, ma il 50 per cento di quello che succede mi appartiene, in tante piccole cose. Magari non le sottolineo tutte, magari non sono tutte realmente successe, ma nelle dinamiche tra me e personaggi c’è molta verità. Ho cercato di essere il più possibile me stesso. La cosa più importante era non prepararmi troppo, basarmi su una parte tenuta a memoria ma lasciando spazio a molta improvvisazione: ho fatto me stesso, ho camminato un po’ sghembo come cammino, rivolgendomi alle persone come in realtà mi rivolgo, una spontaneità assoluta. […]». 

In tanti anni di cinema, lei aveva tenute nascoste sullo sfondo le sue cose più private, lasciando spazio ai personaggi. Da cosa è nato il desiderio di lasciare guardare la vita di Carlo?

«In realtà io non ho mai avuto un gran pudore verso la mia vita privata, una grande riservatezza. Casa mia potrebbe avere le pareti di vetro, il pubblico potrebbe vedere, guardare e non troverebbe niente che non sappia già di me. Ma era nata in me la voglia di raccontarmi, perché nella vita mi sono successe e mi succedono tantissime cose. Me ne succedono anche perché ho avuto una famiglia molto divertente e di cose ne sono capitate dentro casa. E poi esco molto, esco presto alla mattina, parlo con tutti e alla fine escono fuori racconti da parte delle persone sul quartiere, sulla loro vita privata e sulla mia: c’è sempre un qualcosa che accade. […]».

[…]». 

Insomma, sembra che le sia piaciuto questo passaggio alla serie tv.

«È l’unica cosa che posso fare in questa epoca. Al cinema il pubblico va a vedere filmoni come Oppenheimer o Barbie. Non ci sarà più il pubblico di prima per noi. Quindi che faccio? Ora devo fare questo, m’è andata bene prima. Viviamo in un momento molto difficile dal punto di vista cinematografico e le scelte che fa il pubblico sono altamente spettacolari. Le nostre piccole o grandi commedie che spazio possono avere? Così credo che una serie come questa sia un’occasione e ci ho messo la storia di Maria Effe, una storia parzialmente autobiografica, un mio piccolo 8 e 1/2». 

[…]

Suo padre Mario era molto fiero di lei, anche se mascherava l’orgoglio dietro l’ironia. Ha imparato da lui a fare il padre?

«Penso che mi abbia dato tutti gli strumenti per andare avanti nella vita. È stato un grande educatore, un padre molto spiritoso ma pieno di filosofia: mi ha insegnato come prendere la vita, a essere una brava persona, con molta leggerezza e molto spirito. Quando sentiva che stava per andarsene disse: “Io me ne vado ed è giusto così, ma mi dispiace per voi. Non mi dispiace perdermi questa epoca che non mi piace”. Poi fece un discorso a mio figlio e gli disse: “Non voglio che diventi una persona che va sui giornali. Devi essere persona piena di dignità, onesto, bravo e dignitoso questa è la cosa più importante. La celebrità lasciala perdere, devi lavorare su te stesso”. Fece un discorso senechiano, mi commosse molto».

Lei pensa di essere diventato la persona che suo padre sperava?

«Io penso di sì. Non c’è giornata che passi senza pensare a lui. C’è una cosa che mi capita sempre, quando scrivo qualcosa, un articolo, una prefazione a un libro, una scena. Ero abituato a chiamarlo e a leggergli cosa avevo scritto per vedere se funzionava. Ancora qualche mese fa, finita la presentazione di un libro, sono andato con la mano destra verso il telefono, per chiamarlo: papà è morto nel 2009, ma io cerco ancora di chiamarlo».

[…] 

Crede che riuscirà a farlo davvero il suo film d’autore?

«Sì, io penso che ci riuscirò. Mi deve aiutare la salute, perché la salute è la condizione di base più importante per chi fa un lavoro come il mio. Se devo andare verso un film intimo, ho due o tre storie in testa. Sarebbe una grande gioia, una cosa divertente, non dovrei spaccarmi la testa per trovare soluzioni per far ridere, per rendere il personaggio leggero. Con questo non voglio dire che io sia un depresso, ma sono malinconico e mi piacerebbe raccontare finalmente una storia con più profondità. Potrei fare un film sentimentale, ormai alla mia età non devo più fare l’innamorato, potrei essere un padre, o un nonno».

Estratto dell'articolo di Chiara Maffioletti per corriere.it il 23 giugno 2023.

L’ascensore si apre sul pianerottolo di un palazzo romano, signorile ma per nulla appariscente. Alla porta c’è Annamaria che in Vita da Carlo - la seconda stagione sarà su Paramount+ a settembre - è una governante diventata di famiglia, che grazie alla confidenza conquistata in tanti anni, si permette, pur dando sempre del lei, osservazioni e appunti difficilmente concedibili ad altri. Succede in Vita da Carlo. Ma nella vita di Carlo, anche. «Quando ha visto gli episodi si è risentita, mi ha detto: ma scusi tanto, ma non la potevo fare io quella parte?». 

Carlo è Carlo Verdone e mentre racconta questo aneddoto quasi sussurra per non farsi beccare. Per dissimulare, muove impercettibilmente i muscoli del suo volto con dei piccoli tic e rotea velocemente lo sguardo in direzione della signora Annamaria, come per dire: «Non facciamoci sentire». Poche espressioni, ma che bastano per far comparire, di fatto, decine dei suoi personaggi, evocati da una mimica che è parte della grandezza di questo attore. Sa di essere amato. «E ne sono riconoscente. Diventa una condanna solo quando vado in qualche bella città, programmo di visitarla ma poi mi accorgo che non è possibile: ti fermano a ogni passo. E così torno in albergo, potrei fare un libro sulle camere degli alberghi... le città che ho visitato le ho viste di notte». 

Mai pensato di camuffarsi?

«Ma che camuffare, fai solo la figura del ridicolo. E poi mi riconoscono lo stesso. Durante la pandemia avevo il casco, gli occhiali scuri e la mascherina. Uno da dietro mi ha urlato: “A Ca’, guarda che pure così te riconosco”. Ma come è possibile? Ero come dentro un’armatura. Ma meglio sia andata in questo modo... metti che non succedeva niente». 

Mai avuto questo dubbio?

«Dopo Bianco, rosso e Verdone è successa una cosa strana: non mi chiamava più nessuno. Si erano messi in testa che dopo tutti quei personaggi non potevo fare nient’altro, almeno era l’idea che mi ero fatto. Ho passato due mesi sul divano, guardavo il soffitto. E pensavo: “Ma questo cinema, tutti questi premi - avevo preso un David subito, all’inizio della mia carriera (per Un sacco bello , ndr.) -...ora, improvvisamente, sono tutti spariti. Qua ha ragione mio padre”. Ma una settimana dopo quei ragionamenti mi chiamò Mario Cecchi Gori e insieme abbiamo messo su il film che diventò Borotalco. Non più personaggi, ma un personaggio unico: vincemmo cinque David e facemmo andare le cose per il verso giusto».

(...) 

Ed è arrivato il grande successo.

«Per me è stato molto difficile dal punto di vista della stabilità: mi sono trovato improvvisamente proiettato in un mondo che mi stava portando ad essere riconosciuto da tutti e per questo sempre abbordabile: chiunque mi indicava, anche quando camminavo per strada. Questo mi spaventava, mi ha creato anche molti problemi all’inizio».

In che senso?

«Ho vissuto un anno molto difficile dal punto di vista dell’equilibrio nervoso. Ho cominciato ad avere delle debolezze, degli attacchi di panico abbastanza penosi. Sono durati poco, devo dire. E ce l’ho fatta da solo a uscirne, senza l’aiuto di farmaci ma con quello di un bravo psicanalista. Mi aveva detto: “Non c’è niente da analizzare, qui il mondo per te sta cambiando e tu hai paura. Ti devi mettere alla prova, soffrire qualche mese. Piano piano, troverai la strada”. È andata così, ma è stato faticoso all’inizio perché non era il mio obiettivo, non era preventivato. Mi era esplosa un bomba tra le mani. Solo poi mi sono reso conto che avevo delle qualità».

(...)

In questa nuova stagione gira un film sulla sua vita. E a interpretarla da giovane c’è Sangiovanni...

«Me lo impone, nella serie, il mio produttore che vuole qualcuno che piaccia ai giovani. Ovviamente Sangiovanni sarebbe l’ultima persona al mondo che avrei potuto scegliere: cosa c’entra Sangiovanni da Vicenza con Carlo Verdone da Ponte Sisto. Quando lo vedo nella serie mi prende un colpo, vorrei mollare tutto... invece poi funziona, è pure bravo. Io dei dubbi li avevo davvero, non aveva mai recitato, è pure un po’ timido... e invece...».

Vuol dire che potrebbe quindi essere...

«No, no, non potrebbe essere, no. Però ha dato qualità alla serie, assolutamente. Ma in generale, anche io che sono un criticone, devo dire che sono particolarmente felice di come è venuta questa seconda stagione. Dopo il successo della prima avevo tanta paura, invece sono molto soddisfatto». 

Nella prima le chiedevano di diventare sindaco di Roma. Sa che Paolo Bonolis ha detto che gli è successa la stessa cosa?

«Lo hanno chiesto anche a lui? È un brutto segno. Quando cominciano ad andare verso le celebrità vuol dire che sono messi male. Che c’è scarsità in chi avrebbe dovuto studiare politica. Quando sono venuti da me per farmi questa proposta io, dopo trenta secondi, pensavo solo: “Qua bisogna mandarli via il prima possibile”. Dicevano che avevano fatto un sondaggio dove addirittura più dell’80 per cento di chi aveva risposto mi voleva sindaco. Ma sarà vero? Mi è stato detto che lo era».

(...)

Reciteranno anche Ibrahimovic e Maria De Filippi, tra gli altri.

«Non è un pretesto, entrano nella storia perché era giusto farli entrare. Con Maria ci conoscevamo, siamo amici. Mi ha colpito per quanto è stata collaborativa. Quando l’ho chiamata mi ha detto subito: “Non c’è problema, fatemi sapere le date”. Mi capita di chiedere a colleghi attori di fare qualcosa e mi cascano le braccia, sembra di prendere appuntamento con il presidente cinese... lei no ed è stata anche bravissima come attrice, non ha sbagliato niente, ci siamo pure sbrigati in fretta. Ma anche Ibra era molto tranquillo: è arrivato, ha detto le sue battute poi ha ripreso il suo aereo ed è ripartito».

Ritroverà anche Claudia Gerini.

«Abbiamo fatto una scena insieme, ci siamo divertiti. Le donne sono state sempre i personaggi più importanti per me, quelli da curare meglio, da esaltare. Infatti tutte le mie attrici sono quelle che hanno preso più premi e io sono più felice che se lo danno a me. La mia miglior interpretazione comica di un personaggio l’ho fatta con lei, in Grande, grosso e Verdone . Lì ci ho visti perfetti». 

(…)

Indossa quasi sempre una maglietta blu. È la sua divisa?

«Non lo so nemmeno io perché mi vesto così - sorride -. Anzi, lo so: per pigrizia, per una grande pigrizia. Ma il blu è il colore che mi sta meglio e sono trent’anni che lo porto: lo so, avete ragione, sono pigro».

Tra i suoi amori, c’è la musica. Anche su Instagram segue solo musicisti.

«Ma in realtà io non seguo nessuno, li seguiranno quelli che mi coordinano i social. Io preparo i miei post, che scrivo di solito in piedi, in tre minuti, glieli mando loro postano. Poi leggo i commenti, alcuni mi fanno ridere. In genere non ho tanti odiatori perché rispetto sempre tutti e non mi metto a pontificare o a scrivere banalità. Per questo pubblico poco, solo se ho qualcosa da dire». 

Non si sognava attore, ma musicista?

«No, no. Sono un grande ascoltatore, un grande spettatore e un grande fan ma il lavoro del musicista è super faticoso, si dorme poco e io già dormo poco di mio. Ho avuto la fortuna di conoscere molti dei miei miti. Mi è dispiaciuto non aver mai parlato con i Beatles che però ho visto dal vivo. Anni fa, poi, una mia amica gallerista aveva esposto delle opere di Yoko Ono. Un quadro mi piaceva in maniera particolare: era stato dipinto il giorno dopo la morte di Lennon, in un momento di profonda depressione. Dissi alla mia amica che lo volevo comprare, ma Yoko Ono non lo voleva vendere. Dopo qualche anno tornò con una mostra di installazioni. Dissi alla mia amica: “Tu le devi dire che io sono stato un grande ammiratore del marito e - gliel’ho buttata -, dille che ho amato in modo particolare Double Fantasy , il disco in cui cantava con lei, dille che è un capolavoro”. Glielo ha detto e Yoko Ono ha risposto: “Se ci vuole così bene, va bene, glielo vendo”».

E lei?

«Ho detto alla mia amica: “Sì, mo me devi dire quando vuole però”. Lasciamo perdere va’ a quel punto l’ho preso comunque».

Tra i miti che ha potuto conoscere chi cita?

«I Led Zeppelin: per un po’ di tempo mi sono scritto anche con Jimmy Page. Mi ha sempre colpito la cultura di queste persone, il loro spessore. Non parliamo di Bowie che conobbi a casa di Versace: parlammo di Futurismo e conosceva anche alcuni artisti minori italiani». 

Mai deluso da nessuno?

«No, alcuni italiani mi hanno deluso».

(...)

Estratto dell'articolo di Eusebio Ciccotti per “la Stampa” il 5 maggio 2023. 

Verdone, cosa significa per lei il Neorealismo cinematografico?

«Considero il Neorealismo un modo di raccontare la realtà per quello che è, abbandonando il modo calligrafico del cinema precedente interessato principalmente a storie di evasione. Si va dentro un paese distrutto. Si va a osservare la classe operaia in miseria e l'impellente bisogno di ricostruzione. 

C'è un'atmosfera di disperazione in ogni vicenda e il Neorealismo ha il coraggio di cercare storie in fondo semplici, osservando quello che non si voleva osservare. Puntando l'attenzione sul reale malessere e le ipotetiche speranze, i protagonisti sono i disoccupati, i pensionati, i bambini, i contadini, i proletari. Possiamo definirlo un cinema assolutamente rivoluzionario. 

Per quello che ho studiato nei cineclub e al Centro Sperimentale di Cinematografia, credo che il neorealismo sia stato anticipato nel 1943 da Ossessione di Luchino Visconti, un film estremamente coraggioso in quanto siamo in piena guerra, sotto il fascismo.  

(...) 

Cosa le hanno insegnato film neorealisti quali Roma città aperta o Ladri di biciclette?

«Mi ha colpito, sin da studente, notare come in questi film la recitazione accademica dell'attore scomparisse a favore del personaggio che sembrava preso dalla strada: quell'uomo sullo schermo era la realtà. Si otteneva quindi una sorta di "verità assoluta" nei volti, nei gesti, nel dialetto e nelle imperfezioni. 

(...) 

Sembravano quasi dei lavori documentaristici. Quindi cinema di finzione e documentario si intrecciavano continuamente. Questa è la grandezza coraggiosa e rivoluzionaria del cinema neorealista.E a poco a poco si formò una grande famiglia di film neorealisti o veristi».

Prendiamo Ladri di biciclette. E la storia di una bicicletta rubata, avviene tutto in un giorno, di domenica. Un padre con un bambino alla ricerca della bicicletta, il tentativo finale del furto, il padre catturato dalla folla, il bambino che lo consola salvandolo dal linciaggio.

«Beh, fu un grande film. Un capolavoro. Un'opera che negli anni ha avuto il successo che si meritava. La grandezza di questo film, come di altri, era di non prendere generici di professione, ma gente dalla strada. A uno, se aveva la faccia giusta, gli facevi fare il contrabbandiere; a un altro gli facevi fare il ricettatore, a un altro ancora il prete; a un altro, un cameriere in una trattoria. Sul telone era tutto così vero. 

Torniamo a Roma città aperta e alle difficoltà di produzione a poche settimane dalla fine della guerra.

«Una sera venne Rossellini a cena a casa nostra e si parlava del cinema dopo la Liberazione. Raccontava a mio padre Mario, a mia madre Rossana e a me (che ascoltavo con attenzione) le difficoltà realizzative di Roma città aperta. 

Diceva: "Non avevo mezzi tecnici, non so nemmeno io come sia riuscito a fare Roma citta apertà. Mi mancavano gli stativi, le bandiere, persino le lampade. Siamo stati costretti a prendere un'automobile e a illuminare la scena con i fari accesi. Per fissare una bandiera su un proiettore utilizzavamo un fiammifero poiché nell'immediato dopoguerra neanche i chiodini si trovavano. Ricorrevamo a un manico di scopa per tenere una lampada". 

Come vedi, nonostante queste difficoltà il Neorealismo produsse dei film di grande qualità. In queste opere, nonostante gli scarsi mezzi, abbiamo avuto una resa del fotografico eccezionale. Film che si sono affermati come dei capolavori mondiali del bianco e nero, con abilissimi direttori di fotografia come Ubaldo Arata, Carlo Montuori, Gianni Di Venanzo, Otello Martelli».

Era un cinema realizzato da un lavoro di squadra, un cinema che voleva risorgere.

«Poi cos'è successo? Dal 1947 in poi la politica si è resa conto che il Neorealismo era una brutta pubblicità per l'Italia. Il Paese che ne era ritratto era povero e popolato di straccioni. 

Storie di miseria, di disoccupati, bambini che piangevano, madri disperate, e Giulio Andreotti disse che non era eticamente corretto sostenere film che davano un'immagine miserabile dell'Italia. Voleva che il cinema rappresentasse un'altra Italia, mentre il cinema neorealista continuava a essere sostenuto dagli intellettuali progressisti, soprattutto da quelli vicini al Partito comunista». 

Sempre rimanendo sulla regia, come facevano questi registi, che non venivano dal "popolo", a raffigurarlo con precisione direi sociologica?

«Infatti erano borghesi, qualcuno nobile, come Luchino Visconti. Ti rispondo semplicemente con questa frase: erano registi e sceneggiatori che andavano a piedi, prendevano i mezzi pubblici, attraversavano la città quotidianamente, erano immersi in essa. La conoscevano. Artisti che si guardavano continuamente intorno. Memorizzavano volti, atteggiamenti, azioni. Nei mercati, nelle osterie, nelle piazzette d'estate eccetera. Il vero regista deve essere un pedinatore curioso».

Per chiudere, quali sono i film neorealisti che considera vicini al suo sentire di spettatore e uomo di cinema? Cosa le ha lasciato il neorealismo sul piano creativo?

«Credo che tutti noi vorremmo dire Ladri di biciclette. Ma se parli con un critico cinematografico "purista" direbbe La terra trema o Paisà o Roma città aperta. Confesso che da giovane furono tre i film che mi attrassero, e continuo a preferirli: Roma città aperta, Ladri di biciclette e Umberto D. Anche per i motivi estetici e di regia di cui abbiamo parlato. In quarta posizione metterei Paisà. Aggiungerei che del Neorealismo ho apprezzato l'attenzione e il rispetto per la realtà che ci circonda. Che ho cercato di declinare anche nel mio modo di vedere la commedia, tra sorriso e malinconia».

Alberto Dandolo per Oggi - Estratti venerdì 8 dicembre 2023.

Ci dà appuntamento di prima mattina in un bar ad una manciata di passi dal Foro italico. Roma si è svegliata da poco. (…) Carlotta Mantovan: giornalista, conduttrice televisiva e una delle protagoniste della ultima edizione di Ballando con le stelle, lo show del sabato sera di Rai 1 condotto da Milly Carlucci. Carlotta è anche la persona che ha condiviso una lunga fetta della sua giovane vita con uno degli uomini più amati e stimati della televisione italiana : l'indimenticato ed indimenticabile Fabrizio Frizzi. 

Dove ha lasciato le ciglia finte che indossava nelle sue performance a Ballando con le stelle?

(... ride di gusto) " Mi crede se le dico che non avevo mai visto dal vivo e tantomeno applicato delle ciglia finte prima di questa mia ultima esperienza professionale?" 

Le credo. Ma credo anche che quelle ciglia finte siano un simbolo della sua voglia di riappropriarsi della leggerezza...

" Certo, fanno parte della mia esigenza di rinascita. Del bisogno di guardare avanti.Di divertirmi e divertire. E soprattutto di riscoprire il piacere del gioco che il dolore si era portato via." 

Guardi che il gioco è una cosa seria. Non è solo una panacea al dolore...

" Lo so bene .Giocare é anche rischiare, cambiare, sfidarsi. Io più semplicemente però avevo voglia di leggerezza. Di dirmi, di dire a mia figlia e a chi segue lo show che la vita va avanti e che bisogna recuperare il piacere del gioco. Ho tentato di portare sul palco di Ballando l’idea che anche una persona che ha sofferto può e deve tornare a sorridere. E lo può fare partendo da piccole scelte, come indossare un vestito di paillettes, una lunga treccia bionda o delle ciglia posticce…" 

Durante il suo percorso nel programma è stata criticata spesso per il suo eccessivo controllo emotivo ...

" Guardi, io non cerco mai la polemica fine a se stessa. Al contrario, sono una persona molto riflessiva e cerco sempre di appianare i conflitti o le incomprensioni con spirito di positività. E cerco di fare tesoro delle critiche. Io sono esattamente quello che si vede sullo schermo. Avendo sempre chiare in mente però quelle che nella vita reale sono per me le vere priorità. " 

Quali ?

" In primis la serenità di mia figlia Stella. Io  ritrovo il mio sorriso nel suo. Lei ha un sorriso aperto, gioioso e lei merita di essere una bimba felice. La mia priorità è prepararla alla vita, con uno spirito di apertura verso gli altri." 

Ha mai messo in conto che scegliendo di partecipare a Ballando il suo dolore potesse essere strumentalizzato?

" Sinceramente non l'ho mai pensato, se non in minima parte. Penso sempre positivo. Questa esperienza però mi sta regalando tante emozioni. 

Come è riuscita a superare il dolore  provocato dalla morte dell'uomo che amava?

" Il dolore non si supera. Lo si porta con sé ." 

(…)

Stella assomiglia molto al padre...

" Si, molto. Lei ha lo stesso sorriso, la stessa affabilità, la stessa gentilezza e sensibilità. Lei è veramente il meglio di noi due." 

Cosa la fece innamorare di Fabrizio?

" Il suo essere una persona perbene. Gentile. Vera. Non ci siamo innamorati per le nostre differenze ma per le nostre affinità. Eravamo due persone simili. Ci siamo riconosciuti. L'amore per me è una grande forza. E il mio più grande amore adesso è Stella". 

Oggi ha cambiato vita nel quotidiano. Si è trasferita in Francia... mi racconti le sue giornate.

" Faccio una vita molto semplice. Vivo in una piccola casa in mezzo alla campagna nel nord della Francia , a pieno contatto con la natura, dove mia figlia gioca spensierata andando in bicicletta, correndo tra i prati. Vivo in una piccola comunità rurale." 

E cosa fa tutto il giorno ?

" Mi dedico a dare una mano agli abitanti del villaggio. Cerco di fare cose utili, come la raccolta di fondi per la scuola e per le esigenze, anche le più elementari, della comunità.

Pensi che è un posto dove facciamo ancora il pane al forno e lo si condivide.

Si cucina per tante persone, si fanno lunghe passeggiate, si organizzano eventi gastronomici e sportivi. Una vita molto basica. Ogni tanto faccio anche qualche gara con il mo cavallo." 

L'equitazione, la sua grande passione...

" Si, passione che ho trasmesso anche a mia figlia. Pensi che ho conosciuto per caso il luogo in cui vivo ora! È stato lì he ho trovato il mio cavallo! Nel corso degli anni sono andata su e giù dall'Italia varie volte e alla fine ho deciso che il posto della mia anima era quello. A un certo punto ho sentito il bisogno di prendere le distanze dalla vita che avevo. Per proteggermi, proteggere mia figlia e ripartire." 

Come si vede tra 10 anni?  Ci  sarà posto per un nuovo amore?

E chi può dirlo? L' amore fa parte della vita. E' vita. Con Fabrizio è stata certamente la storia più grande. Una storia unica. Irripetibile. Ma rinascere significa non chiudere il proprio cuore all'amore. Anche se il mio ad ora è tutto per mia figlia Stella.

Nella mia quotidianità rimango una mamma, faccio la mamma in primis e do' grande importanza anche al valore dell'amicizia e della condivisione. " 

Ha qualche amica vera nel mondo della tv?

"Sì, Antonella Clerici. Lei è una carissima amica, mi consiglia, è come una sorella maggiore. E’ una persona molto buona, ha dei valori veri, quindi con lei so di poter parlare di tutto e di avere in cambio sempre la parola e il consiglio giusto. Lei per me è famiglia. "

Miss Italia, il tesserino da giornalista, una lunga esperienza in Sky e poi Portobello con la Clerici, Elisir con il Prof. Mirabella su Rai 3 e ora Ballando... Ritornerà a lavorare in tv?

" Mi piacerebbe fare un programma di storie profonde e positive, dove si possa evidenziare il valore della rinascita appunto, senza spettacolarizzare il dolore. Mi piacerebbe fare questo tipo di tv.  Con gentilezza, perché la gentilezza è rock! Ma  non guardo mai oltre al mio naso. Vivo di presente e di progetti a breve termine. Accogliero' ciò che la vita vorrà donarmi." 

Una celebre frase recita:" Chi ha subito un danno è più forte perché sa di poter sopravvivere" (Il danno, Luois Malle).

 Io credo che " Chi ha subito un danno cerca di essere più forte per poter tornare a VIVERE".

Carmen Russo: «Alain Delon mi corteggiava ma stavo già con Enzo Paolo. Playmen? Il mio trampolino». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.

La showgirl: ho recitato per Fellini, la scena dura 6 secondi

Carmen Russo: «Alain Delon mi corteggiava ma stavo già con Enzo Paolo. Playmen? Il mio trampolino»

Carmen Russo, 64 anni

«Per Fellini ero fuori misura».

Ma se vantava un classico 90-60-90.

«Appunto. Troppo magra di fianchi».

Questa poi.

«Ma sì, lui era così. A 20 anni però ho avuto una particina nel suo La città delle donne, giusto sei secondi».

Nel ruolo di?

«Di una signorina prosperosa. Bellissima esperienza, un investimento per la mia carriera. Ho trascorso un mese allo studio 5 di Cinecittà, per me è stata una grande opportunità per imparare il mestiere».

Come andò con il Maestro?

«Federico era molto affettuoso con me. Passando, mi dava sempre una pacca sul sedere, senza malizia eh. Mi chiamava “la mia Russina”». Ovvero Carmen Russo, showgirl, ballerina, attrice di sexy commedie all’italiana, eroina di reality show. E se chi stava davanti alla tv nel 1983 non ricorda la cassiera-pin-up di Drive In , tutta “Wow!”, stacco di coscia e costumini leopardati, o mente o è proprio tanto distratto.

Prima aveva tentato a Miss Italia. Con un piccolo imbroglio.

«Per partecipare bisognava avere almeno 16 anni, io non ne avevo ancora compiuti 15. Corressi la data di nascita sulla tessera ferroviaria. A mano. Tanto non controllava nessuno».

Eletta miss Emilia. Però fu scoperta.

«Sì. Ci riprovai l’anno dopo, stesso trucchetto. Miss Liguria. Arrivai in finale, ma il patron Enzo Mirigliani mi riconobbe e mi squalificò per la seconda volta».

La prese bene.

«Oh sì, per me l’importante era partecipare. E poi ho vinto un bel motorino che mi serviva per andare a scuola».

Studiosa?

«Tra il 7 e l’8. Stavo molto attenta in classe, prendevo appunti, poi mi bastava rileggerli una volta ed ero preparata».

Da ragazzina era complicato portare a spasso un fisico così vistoso?

«No, ero tranquilla, non ostentavo. Mi hanno sempre fatto complimenti, non gli davo molta importanza. Imbarazzata se mi guardavano “lì”? No, mi guardavano tutta».

Prima particina in «Di che segno sei?» con Paolo Villaggio, noto anche per i suoi terribili scherzi ai colleghi.

«Con me fu gentilissimo. “Brava, hai la testa sulle spalle e sei determinata, continua così. E quando finisci la scuola vieni a Roma che ti presento un agente”. Fu di parola. Anni dopo ci ho lavorato di nuovo insieme, era molto paziente».

Girò qualche innocente commedia sexy.

«Due con Renzo Montagnani, che mi insegnò a doppiarmi da sola. Imparavo il copione a memoria e stupivo tutti. Ho appreso la disciplina dalla danza. Questi film leggeri sono stati poco considerati, ma venivano girati in tre settimane, con pochi mezzi e pochi soldi, non c’era tempo di ripetere le scene, dovevi essere bravo».

Posò per la rivista Playmen.

«Embé? All’epoca era un trampolino, un passaggio obbligato. E non c’era il photoshop, tutto naturale. Il mio numero ha venduto più di 500 mila copie. E la prima copertina su Sorrisi & Canzoni arrivò a 3 milioni».

Sul set era imbarazzata?

«No, era tutto molto professionale».

Ma è vero che suo padre, poliziotto siciliano, teneva in ufficio il paginone centrale di Playmen con la sua foto, accanto a quella del presidente della Repubblica?

«No, è una leggenda. I miei genitori mi hanno sempre assecondato in ogni mia scelta. Certo, nel suo animo papà era geloso, però capiva che non c’era malizia».

E arrivò «Drive In».

«Avevo già fatto esperienza al Bagaglino, ma lì sono diventata una vera primadonna, con il mio nome nella sigla di testa. Ero felicissima, ma preoccupata di non essere all’altezza».

Alla corte di Antonio Ricci.

«Molto serio, tra noi c’è stima e affetto. Mi insegnò i ritmi degli sketch, l’autoironia. Mi sono sempre vista come una caricatura, un fumetto».

«Signorina, mi piacciono le sue idee», le sussurrava Enrico Beruschi mentre le sbirciava nella scollatura.

«Facevo così bene l’oca svampita che il pubblico credeva fossi davvero così, ma non me ne curavo».

Folgorava gli spettatori con il micro-bikini maculato.

«Sì ma proponevo anche altro. Ballavo bene, alzavo la gamba a 180 gradi, sa? La bellezza passava in secondo piano».

Sicura sicura?

«Sì».

Ammiratori celebri?

«Beh, ai tempi di Drive In, prima di mettermi con Enzo Paolo, uscirono delle foto con Falcao, eravamo a cena in un ristorante con altra gente e ci beccarono i paparazzi».

Vuole dirmi che il piacione Paulo Roberto, doppio nome anche per lui, non ci provò?

«Non me lo ricordo. Sono sempre stata una con i piedi per terra. Mia mamma mi ha insegnato che è importante lavorare sodo e fare bella figura».

Le arrivavano molte lettere di spettatori a lei devoti.

«Lettere e fiori, ma già quando ero al Bagaglino. Sono stata la prima showgirl maggiorata, Pamela Prati e le altre sono venute dopo».

Contenevano profferte amorose?

«Può darsi, ma non hanno ottenuto il risultato sperato».

Proposte di matrimonio ne ha ricevute?

«Di un nobile spagnolo, che ha insistito molto. In Spagna ero un mito. Mi inviava rose tutte le sere. Però non ci è riuscito».

Diventò una delle regine dei varietà di Canale 5: «Risatissima» e «Grand Hotel».

«Che periodo fantastico. Battevamo il sabato sera di Raiuno. C’erano Lino Banfi, Edwige Fenech, Massimo Boldi, Paolo Villaggio. E che ospiti internazionali. Una volta ho fatto uno sketch con Tony Curtis. Doveva chiudermi nella valigia, però la serratura si è inceppata. A 22 anni mi trovai in scena fianco a fianco con Alain Delon».

Mi dirà che nemmeno lui l’ha corteggiata?

«Sì, ma era molto educato, un vero gentiluomo».

E lei?

«Niente. Se fossi stata libera, magari ci avrei fatto un pensierino. Ma il coreografo dei balletti era già Enzo Paolo» (Turchi).

Ed era geloso?

«No... Beh, forse sì, un pochino».

Lo ha conosciuto a «Drive In»?

«No, prima, in teatro. Mi è piaciuto subito, ma lui era restio. Non voleva mischiare il lavoro con il privato».

E poi?

«Poi ha ceduto».

Enzo Paolo ha detto: «Carmen è sempre stata bellissima, ma mi sono innamorato prima di tutto del suo cervello». La follia d’amore che ha fatto per lei?

«Tante. Quando stavo facendo L’Isola dei Famosi in Spagna, mi sono tagliata un piede, una brutta ferita. Lui, preoccupato, ha cercato di contattare la produzione, ma non ci riusciva. Così è saltato sulla moto ed è venuto fino a Madrid per sapere come stavo. Enzo Paolo è così».

Quante volte le ha fatto ballare il «Tuca-Tuca»?

«Tante, ce lo chiedono sempre. Lui ne ha tutto il diritto, io lo faccio con piacere, per me è un onore, ho avuto il permesso proprio da Raffaella Carrà, che ci ha dato la sua benedizione. “Caro Enzo Paolo, finalmente hai trovato la donna giusta per te”. Ne ho anche inciso una nuova versione. Indimenticabile Raffaella. Nei miei show canto sei delle sue canzoni».

Qualche piccolo incidente di scena?

«Oh, ballando mi sono presa non so quante storte. Una volta mi sono proprio rotta il legamento crociato. Un guaio, visto che la sera stessa dovevo partire per un show su Telecinco. Un’altra invece, durante una trasmissione sul circo, sono scivolata dal trapezio e sono finita sulla rete. Una gran botta, ma il giorno dopo ero già a posto».

Silvio Berlusconi veniva dietro le quinte?

«Lo vedevo una o due volte l’anno, agli show del sabato sera. Faceva i complimenti a me e a Enzo Paolo per i balletti. Erano i suoi programmi, giustamente controllava il prodotto».

È naufragata tre volte all’«Isola dei Famosi», il format le deve piacere parecchio.

«Ho preso parte alla prima edizione, quella con Simona Ventura. Poi a quella spagnola e l’ho vinta. All’ultima ero in coppia con Enzo Paolo».

Quando toccò a lui, EP non fu altrettanto resistente e abbandonò il gioco in lacrime per un problema di quelli che non si raccontano in diretta tv.

«Eh ma poverino, stava male sul serio, aveva carenza di ferro, fu il dottore a consigliargli di tornare a casa. Io sono stata più fortunata e poi è questione di carattere».

Maria, la vostra bambina.

«Il nostro successo più grande. L’abbiamo tanto voluta e desiderata, è lei il senso della vita. Verso i 40 mi sono resa conto che il bambino che tanto volevo non arrivava. Ho scoperto di avere le tube chiuse. Dovevo darmi una mossa. E alla fine a 53 anni ce l’ho fatta».

Stancante essere genitori dopo una certa?

«Non per noi, siamo sempre pieni di energie. Mi sveglio alle 6 ogni mattina per accompagnarla a scuola, tra poco la porto a tennis».

Com’è Carmen vista da Carmen?

«Sono una che guarda sempre il bicchiere mezzo pieno, che non si perde d’animo e che ama la vita, tanto. Ho fede, ogni sera prima di dormire recito le mie preghiere. E sono contenta di quello che ho fatto. Dopo 40 anni, in fondo, sono ancora qui».Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per repubblica.it il 4 giugno 2023.

Carmen Russo, all’anagrafe Carmela Carolina Fernanda Russo, nasce a Genova nel 1959. Attrice, ballerina e showgirl, tra gli anni ‘80 e ‘90 ha tenuto incollati allo schermo milioni di italiani. Alcuni suoi film un po’ scollacciati hanno segnato un’epoca, così come lo show televisivo Drive In di Antonio Ricci dove interpretava la cassiera sexy in bikini leopardato. Sposata con il ballerino e coreografo Enzo Paolo Turchi, insieme hanno avuto una figlia che si chiama Maria. 

Paolo Sorrentino una volta ha detto che tra i suoi ricordi da adolescente c’è l’irruzione delle curve di Carmen Russo. Inoltre in un suo romanzo lei è tra i protagonisti. Ha stregato il regista della Grande bellezza?

Le racconto un fatto. Tempo fa Sorrentino ha voluto passare un’intera giornata insieme a me e a mio marito. Ci ha chiamato lui, ci voleva conoscere forse perché Enzo Paolo e io siamo una coppia un po’ inusuale. Insomma, si è presentato a casa nostra di primo mattino, abbiamo fatto colazione, poi abbiamo cucinato per il pranzo e ci siamo detti un sacco di cose. È stato davvero un giorno indimenticabile. Lui super gentile, poi sa, è napoletano come mio marito e si sono subito presi. Mi dispiace solo non aver fatto nessun video o nessuna foto ricordo. 

Le piacerebbe fare un film diretta da lui?

Ma magari! Se Sorrentino trovasse una particina per me sarei felicissima. Basterebbe un cameo, sono qua, pronta.

(…) Devo dire che sono stata subito una ragazzina molto indipendente. Tanto che a 13 anni e mezzo ho fatto Miss Italia.

Non era un po’ giovane?

Infatti non potevo farlo.  

E come ha fatto?

Ho falsificato un documento, il libretto per i treni, ho segnato che avevo 16 anni. Ero arrivata in finale come Miss Emilia Romagna ma purtroppo mi hanno scoperta e squalificata. L’anno dopo ci sono ritornata come Miss Liguria. C’erano in palio delle cose che mi servivano, tipo il motorino per andare a scuola. 

Chi la convince a fare il grande passo nello spettacolo?

Paolo Villaggio. Durante Miss Liguria venne a Genova per girare l’ultimo episodio del film Ecco noi per esempio…, mi chiamarono e io feci la mia prima apparizione al cinema. Avevo 16 anni. Così il buon Villaggio, con cui ho avuto sempre un ottimo rapporto mi disse: “Carmen, finisci la scuola poi scendi a Roma e ti presento un agente. Fai un bel servizio fotografico e cominciamo”. Devo dire che è stato di parola.

I primi ricordi a Roma?

L’inizio a teatro in uno spettacolo con Walter Chiari. Un’esperienza magnifica. Lui aveva quel fascino da divo, da affabulatore.

Walter Chiari era considerato un latin lover. L'ha corteggiata?

Ma sì, sicuramente mi avrà corteggiato! 

E?

Ma nulla. Guardi, non mi nascondo: chiaramente davo nell’occhio. Avere un 90-60-90 era una cosa non da tutti, ecco. Quindi gli uomini si sentivano autorizzati a corteggiarmi. Però sentivo che era un corteggiamento finalizzato e quindi la cosa non è che mi facesse molto piacere. E mettevo subito le cose in chiaro. Malgrado il mio corpo non ho mai avuto quella femminilità maliziosa magari per stare al gioco o dare corda. 

Non ci sono mai stati momenti in cui qualcuno l’ha molestata?

È capitato di sentire promesse in cambio di qualcosa. Due o tre volte qualcuno ha un po’ esagerato ma io sono una con i piedi per terra e so difendermi molto bene. 

Non è mai troppo tardi per denunciare, il movimento del Me Too insegna.

Ma no, non c’è nulla da denunciare. Ripeto, mi sono sempre saputa difendere. 

Certo che il suo corpo l’ha aiutata molto nella sua carriera. Oggi non crede magari di essere stata un po’ sfruttata da questo punto di vista?

Direi proprio di no. Ho sempre avuto un rapporto meraviglioso con il mio corpo, non ho mai avuto complessi. Ho avuto un'impostazione sportiva. Ho sempre pensato che avere un paio di belle gambe o un po’ più di seno fosse una fortuna. E comunque ho subito studiato tanto, dalla recitazione alla danza. Per esempio volevo imparare a ballare bene per far passare le mie forme in secondo piano. 

Lo stesso però, agli inizi, prende parte ad alcuni film della cosiddetta commedia sexy. Diciamo che l’interpretazione non è la prima cosa a balzare agli occhi degli spettatori.

C’erano tutte queste commedie brillanti con Edwige Fenech, Gloria Guida, Barbara Bouchet. E io non vedevo l’ora di farne qualcuno. Così ne ho girati cinque o sei con Renzo Montagnani, Lino Banfi, Alvaro Vitali. Che poi diciamocelo, erano film in cui il massimo dell’erotismo era una doccia. Sono stata sempre un’attrice molto pulita con tutte le docce che ho fatto. 

Vitali che tipo era?

Simpatico e carino. In quel momento rappresentava un certo personaggio. Alvaro era un gran lavoratore e molto professionale. Quelli erano film a basso budget e non c’era molto tempo da perdere. Insomma, era obbligatorio arrivare sul set con il copione imparato a memoria.

Montagnani?

Un grande attore e devo a lui il fatto che in tutti i miei film mi sono sempre doppiata, quindi la voce è sempre mia. Renzo che era un eccellente direttore di doppiaggio mi disse: “Carmen, all’inizio sarà faticoso. Però poi ti ritrovi con un qualcosa in più che sai fare. E così è stato”. 

Ha recitato anche per Federico Fellini nella Città delle donne. Com’era il maestro?

Un mese sul set di Fellini. Caspita, si pagherebbe per fare uno stage così. Mi ricordo come fosse ieri, anche se la mia era una piccola parte. Tutte le mattine arrivavo alle 7 a Cinecittà, due ore di trucco. Poi si entrava in studio, il mitico studio 5, bellissimo con tutte le comparse e gli attori. Poi arrivava lui che salutava tutti. Fellini si ricordava il nome di tutti. Mi chiamava la Russina, Passava, mi dava una pacca amichevole sul sedere e diceva “Russina!” perché avevo i fianchi stretti e piccoli rispetto al resto. 

Scusi, ma la pacca nel sedere non le dava fastidio?

Ma nooo, non scherziamo: era una pacca amichevolissima. Con Fellini poi ci siamo incontrati anche dopo, baci e abbracci. Pensi che sua moglie, Giulietta Masina, venne anche a vedere un mio spettacolo di danza a teatro.

Con i primi successi e i primi soldi cosa fa?

Mi sono comprata subito una macchina, una Renault 5. Poi appena ho potuto ho acceso un mutuo e mi sono presa una casetta a Roma, all’Olgiata. 

Dopo il cinema ha fatto tanta televisione, nel 1983 c’è il successo di Drive In su Italia 1. Come ci arriva?

Prima di Drive In feci tre spettacoli al Bagaglino con Pingitore, Oreste Lionello e Bombolo: tutti successi clamorosi. Era solo teatro, non ancora in tv. Facevamo sempre il tutto esaurito. Allora avevo un bravissimo impresario che organizzò per quell’estate una tournée dove facevo uno show di musica e ballo. Per le coreografie andai a cercare Enzo Paolo Turchi, il migliore su piazza, che mi portò dieci ballerini: quattro uomini e sei donne tra cui c’era anche una giovanissima Lorella Cuccarini. Girai tutti i locali più famosi d’Italia come la Bussola. Così si parlò molto di questa ragazza appariscente e Antonio Ricci mi chiamò per un provino. 

Ricci ha detto di lei: “È un uomo, l’ho vista cadere a terra, farsi malissimo, rialzarsi e ripartire senza un lamento”. Ci si ritrova?

Sono proprio così. Non mi piace piangermi addosso, preferisco reagire. Ricci è un fenomeno, per lui provo molta gratitudine e ammirazione.

Silvio Berlusconi si vedeva sul set?

Certo. Un uomo meraviglioso. Quando iniziò Drive In era sempre presente e dava consigli. Anche se era il capo lui passava e viveva lo studio. Quando facevamo a Milano Risatissima o Grand Hotel, finivamo tardissimo la notte e lui ci mandava sempre un pensiero. Ci faceva sentire una grande famiglia. Ho lavorato bene con Berlusconi.  

Nell’estate prima di Drive In quindi ha conosciuto suo marito, Enzo Paolo Turchi. È stato subito un grande amore?

È iniziato tutto come un flirt bello e interessante. Non sapevamo che fosse il grande amore. Di solito non si può sapere. Poi abbiamo continuato e siamo ancora qua. 

Il vostro è stato un amore molto appassionato, qualche volta vi siete lasciati prendere la mano.

Qualche volta è capitato.

Per esempio?

Una volta eravamo in una sala d’incisione, lui mi ha abbracciato e non ci siamo trattenuti. Una volta invece abbiamo rischiato di farci sentire in diretta nazionale, che ridere.

Racconti.

I nostri microfoni erano aperti ed eravamo in un backstage di un programma Rai, per fortuna il regista se n’è accorto e ci ha interrotti

È stata gelosa di suo marito?

Be’ sì è normale. Ma è reciproco, perché come lui era circondato da belle donne, ero molto gettonata anche io. E poi quando uno è innamorato deve essere geloso. Poi sa, l’amore è come la vita, cambia a seconda dei periodi.

(...)

All’inizio degli anni ‘90 presenta anche Domenica In. Nel 1997 addirittura viene mandata a Sarajevo durante la guerra per esibirsi davanti ai nostri militari in missione. Un po’ come Marylin Monroe.

Adesso non esageriamo. Ricordo che andammo con Fiordaliso e alcuni comici. Si tratta di un ricordo molto toccante. La città era devastata, i giardini privati delle abitazioni erano pieni di croci. Il nostro hotel, dentro bellissimo, fuori era pieno di fori di proiettili.

Ha avuto un grande successo in Spagna.

Alla fine del ‘91 non mi confermarono a Domenica In. Ci rimasi anche male perché avevamo fatto un paio di anni alla grande e me lo dissero all’ultimo momento, al mio posto presero Alba Parietti. Va be’. Alla fine del ‘91 andai a fare quattro puntate con un presentatore molto bravo, Emilio Ragon di Telecinco. Ci rimasi sei mesi. Mi sono tolta una bella soddisfazione.

Negli ultimi anni ha partecipato più volte ai reality, sia L’isola dei famosi sia il Grande Fratello Vip. Si è divertita?

I reality mi piacciono. Ho partecipato all’Isola dei famosi in Italia e l’ho vinta, idem in Spagna. Sono esperimenti sociali. L’Isola dei famosi è bellissima perché è una sfida quasi di sopravvivenza. In Spagna sono stata due mesi in un’isoletta da sola e ho conquistato tutte le donne spagnole. Anche il Grande Fratello è stato divertente. 

Dieci anni fa avete avuto una figlia, Maria. Non sono mancate le polemiche. Come mai?

A 53 anni ho avuto Maria con la fecondazione assistita e quando è successo ero la donna più felice del mondo. Però un po’ di persone si sono sentite autorizzate a rompermi le scatole. Ora, nessuno fa più figli e io devo giustificare perché faccio una figlia, ma diamo i numeri? Oltretutto Maria è nata dentro una storia d’amore bellissima. Poi non è che io mi sono alzata una mattina e ho detto: faccio la fecondazione assistita. Era da dieci anni che ci provavo.

(…)

Carol Alt su OnlyFans a 62 anni: «Mie foto di nudo ma con gusto». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera lunedì 13 novembre 2023.

La top model, icona degli anni 80, sbarca sulla piattaforma: il suo account “non avrà scatti volgari ma ci saranno foto di nudo, fatte con gusto"

Carol Alt, 62 anni, si è iscritta a OnlyFans ma, in un’intervista rilasciata a Page Six, ha dichiarato che la prima volta così prende il controllo sulla sua immagine. La top model, diventata un’icona degli anni Ottanta, ha detto: "Quarantaquattro anni di lavoro, e non possiedo una delle mie foto. Tanto che quando la gente mi chiede : «Hai una foto che posso usare? E devo andare a chiedere a qualcuno». Per sbarcare sulla piattaforma ha fatto le cose sul serio tanto da aver assunto un fotografo personale. "Posso scegliere una foto o no, dire che la voglio o no, sono mie" ha spiegato ". Quando la gente dice che non è la mia immagine, non voglio essere definito dalla mia immagine fatta da qualcun altro. Voglio essere io a definirla». Alt dice che non sarà un account con scatti volgari il suo, anche se ci saranno alcuni nudi "sexy e belli". "Ci sono alcune foto di nudo, ma fatte con gusto».

L’attrice, che ha amato segretamente Ayrton Senna, ha scoperto dell'esistenza della piattaforma dalla sua amica Denise Richards; «Vorrei che la gente sapesse come sono oggi - ha detto - L’età non mi definisce».

Carol Alt, oggi 62 enne, stava lavorando come cameriera a 18 anni in un ristorante newyorkese quando un fotografo le chiese se fosse interessata a un lavoro come modella. Le fu presto presentato John Casablancas, fondatore dell’agenzia Elite Model Management, e le fu offerto immediatamente un contratto. La sua bellezza aveva colpito tutti. La sua carriera decollò definitivamente nel 1982 quando apparve sulla copertina della rivista “Sports Illustrated”, a cui si susseguono altri ingaggi importanti, dalle cover dell’edizioni francese, italiana e britannica di Vogue ma anche di Elle e Cosmopolitan.

Un crescendo di lavori tra le passerelle statunitensi ed europee immediato ma Carol Alt, ben presto, divenne testimonial per marchi, non solo nel mondo della moda. Il suo volto fu scelto da Diet Pepsi, General Motors ma anche Givenchy, Versace e Armani. Nella sua vita anche il cinema: dopo la moda, ecco che Alt ha iniziato anche a lavorare come attrice, esordendo sul piccolo schermo con un episodio della soap opera Capitol per poi arrivare anche alle pellicole italiane, in particolare quelle di Carlo Vanzina. E’ stato lui a sceglierla prima in Via Montenapoleone e poi ne I miei primi 40 anni. Una vita privata tormentata la sua: nel 1983 ha sposato il giocatore di hockey su ghiaccio Ron Greschner, dal quale ha divorziato però nel 1996. In seguito è l’attrice stessa ad affermare di aver avuto nel frattempo una relazione con il pilota Ayrton Senna, durata dal 1990 alla morte di lui, avvenuta nel 1994. E le sue lacrime nel ricordare il grande pilota hanno fatto il giro delle tv del mondo. Tra le altre relazioni dell’attrice si ricordano quelle con gli attori Warren Beatty e Adriano Giannini e il giocatore di hockey Aleksej Jašin.

Anna Tatangelo, il segreto di Gerry Scotti: "La sua caratteristica vincente". Daniele Priori su Libero Quotidiano il  14 novembre 2023

Giovedì 16 novembre in prima serata su Canale 5 torna, a dieci anni dalla precedente edizione, Io Canto Generation. Si tratta della versione rinnovata dello storico talent che avrà come conduttore ancora Gerry Scotti. Tra i capisquadra a guidare i ventiquattro protagonisti in gara, bambine e bambini tra i 10 e i 15 anni di età, ci sarà l’ex “ragazza di periferia” della musica italiana, Anna Tatangelo che proprio a 15 anni per la prima volta salì sul palco dell’Ariston, sorprendendo e vincendo Sanremo Giovani col brano Doppiamente fragili. La prima di una serie di canzoni attraverso le quali ha raccontato la sua vita «rimasta sempre sotto i riflettori più per le vicende private», ammette la stessa Tatangelo. Un passaggio che oggi ha superato: «Ho capito che la cosa principale è stare bene con me stessa». La nuova via maestra che Anna ci spiega a pochi giorni dall’inizio di una sua nuova avventura televisiva che segue di poco tempo la conduzione in estate di Scene da un matrimonio.

Possiamo dire ormai che la tv è ufficialmente il suo secondo amore insieme alla musica. Ci sta prendendo gusto?

«La tv mi affascina molto. In questi anni ho avuto la grande possibilità di potermela vivere e giocarmela. Scene da un matrimonio doveva essere una sola edizione e siamo arrivati alla terza. A Io Canto mi sento un po’ più a casa mia perché comunque si parla di musica. E sono felicissima di essere in questa trasmissione nella quale, nel corso degli anni, sono stata più volte ospite. Tornare come caposquadra, ritrovare quella ingenuità di ragazzi adolescenti, mi fa un po’ rivivere quello che ho vissuto quando sono uscita io a Sanremo Giovani. Fa tutto parte del bagaglio della crescita».

I quindicenni di oggi della Generazione Z sono più o meno “doppiamente fragili” della quindicenne Anna Tatangelo di 21 anni fa sul palco dell’Ariston?

«Sono doppiamente fragili tanto quanto noi quindicenni di allora. Oggi si cresce più velocemente, male esperienze dell’adolescenza debbono comunque farle. Si tratta di un’età delicata in cui non si è né carne né pesce. Da una parte ora hanno la possibilità di stare più a contatto immediato col giudizio degli altri attraverso i social. Un’arma a doppio taglio che quando ho iniziato io non c’era. Io finivo di cantare e tornavo a Sora, curiosa di conoscere il giudizio delle persone. Per loro oggi è tutto più immediato e amplificato, indubbiamente, pur vivendo le stesse problematiche degli adolescenti di sempre che non si possono fuggire».

Una generazione che peraltro lei stessa conosce bene perché, oltre al rimando alla sua età di allora, i concorrenti di Io Canto hanno l’età di suo figlio Andrea. Lei è più caposquadra anche con lui o prevale lo spirito della mamma chioccia?

«Tutte e due perché, anche se ho 36 anni e un figlio di 13 anni, sono anch’io ancora giovane! C’è quindi una parte di me che si sente sorella maggiore, ma al tempo stesso vivo appieno la figura della mamma con la sua autorità che è quella di educare e insegnare le regole che Andrea ha come tutti i ragazzi».

Quanto vede nei giovanissimi di oggi quella “ragazza di periferia” che lei hai interpretato ancora sul palco di Sanremo nel 2005?

«Tantissimo. Perché anche in loro come in me allora c’è la voglia di realizzare il loro sogno di diventare cantanti. Quella che si ritrova in loro è l’autenticità che è proprio parte integrante della loro età».

Sanremo, un palco che, appunto, lei ha calcato già otto volte. Sta pensando già alla nona?

«In concomitanza con Io Canto sono in sala di registrazione e sto dando tutta me stessa perché da due anni non esco con un disco. Quello dell’Ariston è un palco a cui tengo tantissimo perché mi ha visto adolescente, donna e anche mamma. Ci deve essere, però, una “combo” di cose tra cui soprattutto il brano giusto per andare al Festival. Ogni volta in cui sono andata avevo qualcosa da raccontare. Prima da adolescente, poi con Ragazza di periferia, quando a diciotto anni mi sono trasferita da Sora a Roma, quindi con Bastardo in cui rivendicavo l’essere donna attraverso le parole scritte da Mogol o ancora con Il mio amico nella quale ho cantato il tema dell’omosessualità. Nel momento i cui avrò qualcosa da voler gridare o solo raccontare in maniera tanto sentita su quel palcoscenico, sicuramente lo presenterò. Considerando anche che Sanremo negli anni è cambiato molto ed è diventato sempre più ambito da tutti i tipi di artisti, mentre prima era palco per la musica italiana intesa come pop con qualche spazio per altri generi, oggi è davvero inseguito da tutti: rapper, trapper, indie e non è affatto facile essere scelti».

È stata la rivoluzione di Amadeus...

«Giusta, assolutamente. Ha fatto un aggiornamento software... (sorride, ndr)».

Sui cosiddetti “bimbi prodigio” l’opinione pubblica si è sempre un po’ divisa. Lei si è mai riconosciuta in questa categoria?

«Mi ci hanno fatto sentire le altre persone per le quali ero la ragazzina di Sanremo non perché a livello artistico mi ci sentissi io che anzi, anche oggi, sono sempre qui a mettermi in gioco per cercare di migliorarmi».

Dei ragazzi in gara a Io Canto condividerete anche racconti e percorsi di vita?

«Questo credo sarà un po’ inevitabile. Ognuno di loro avrà un’anima da raccontare che verrà fuori attraverso lo strumento della canzone. Anche semplicemente dire: mentre cantavo pensavo a cose che per fortuna ci sono nella mente di tutti. Io mentre canto mi faccio dei viaggi incredibili. Presumo che anche per loro sarà così».

Le canzoni le sceglierete adeguandole alle età oppure secondo lei a tutte le età si può cantare tutto senza rischiare di non essere credibili?

«Penso che sia molto individuale come cosa. È la forza interpretativa a permetterti di raccontare anche cose che non hai vissuto. Io sono la prova perché in Essere una donna cantavo anche l’essere madre sebbene io a 19 anni non ero ancora diventata mamma. Ma questo proprio perché credo che cantare sia un dono, capace di liberarti e farti fare cose inimmaginabili».

Cosa si aspetta dalla collaborazione con Gerry Scotti?

«La sua caratteristica vincente è l’umiltà che gli permette di trovarsi a suo agio in prima serata coi più grandi ma anche con i ragazzi. Una dote che gli permette di carpire le emozioni. Poi negli ultimi tempi lo vedo spesso commuoversi. Questa umanità è il suo valore aggiunto».

Tutti ricordano il suo duetto con Michael Bolton. Quale altra esperienza internazionale porta nel cuore e quale le piacerebbe fare in futuro?

«Le esperienze sono state tante. Da quando ero giovanissima, nel 2002, anno in cui andai a cantare per il Papa alla Giornata Mondiale dei Giovani in Canada, fino all’anno scorso che ho avuto un concerto a Brooklyn. Sentire questo affetto degli italiani all’estero e il legame che mantengono con l’Italia dà sempre grandi soddisfazioni. Quanto al futuro, lo dico, tanto sognare non costa niente. Mi piacerebbe cantare con Beyoncé e Ed Sheeran». 

Carole Andrè, da Sandokan alle piscine di Ostia: l'ex Perla di Labuan a 70 anni festeggia anche il record del mondo nei 50 rana. Erica Dellapasqua su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2023.

Carole André, l'attrice francese che interpretò la sensuale Lady Marianna, dopo essersi lasciata alle spalle il cinema è diventata una star del nuoto

Ha festeggiato i 70 anni, l'11 marzo, vincendo i 50 rana nella sua «nuova» categoria, i Master 70 appunto, con un record di tempo mai visto al mondo: 42''51. E poi ha pure trionfato nei 50 stile libero: anche qui, tempo record, 33''52, e primato italiano. Del resto, è nata sotto il segno dei Pesci, e infatti si è tuffata in un'altra vita Carole André, l'attrice francese meglio conosciuta come Lady Marianna, la bionda fanciulla amata da Sandokan che però si è lasciata definitivamente alle spalle il mondo patinato del cinema. Gli ultimi successi se li è conquistati nelle piscine di Ostia, tra gare regionali e allenamenti: chi ha visto l'ex perla di Labuan stesa sulla panca racconta sia in grado di tirare su un bilanciere da 40 chili e che non sono più graditi, ormai, i continui rimandi a Sandokan e alle sue tigri di Mompracem. Chi la conosce, come il suo personal trainer Francesco Di Pippo, giura che nella vita di Carola ormai c'è spazio solo per il nuoto.

Il nuoto

Il suo nuovo palcoscenico è allora a bordo piscina, sul trampolino. Quando agli inizi di marzo ha disputato queste gare regionali è stato un trionfo che - forse - neppure lei si aspettava. Certo è che lavora sodo. «Mia madre alla sua età fa fatica a salire le scale...», dice Di Pippo, che all'ex attrice attribuisce ovviamente un talento innato, ma anche meticolosità e costanza. Sgambetta come una ragazzina. Quattro allenamenti a settimana in piscina, due in palestra, il sabato acquagym e yoga. «Se Carole avesse iniziato ad allenarsi da giovane - Di Pippo lo dice da tecnico - sarebbe andata alle Olimpiadi».

La vita da star

Insomma, nella sua quotidianità, il cinema non esiste più. Lei, che fu scelta da Fellini, Risi, Visconti, Ferreri e che, dicevamo, venne consacrata al successo conquistando gli occhi e il cuore del leggendario Sandokan, non vorrebbe più neppure menzionarlo, quell'ambiente. Troppa immedesimazione, probabilmente. Ormai, in quegli anni, si sentiva «solo» Perla di Labuan, ingabbiata in quel ruolo. Ma non l'ha neppure mai eccitata, anzi il contrario, la vita da star, come ha raccontato lei stessa in un'intervista qualche anno fa: «I paparazzi mi inseguivano - raccontò - non potevo uscire di casa, ero diventata all'improvviso come Madonna, ma in fondo mica avevo scoperto la cura per il cancro». E infatti, ad eccezione di un'ultima comparsata proprio con Kabir Bedi, sul set di «Un medico in famiglia 5» di Carole sul piccolo e sul grande schermo non ci sono più tracce. Disciolte nell'acqua delle vasche da nuoto...

Crescentini: «Combatto chi giudica e mi piace non farmi ingabbiare». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera venerdì 3 novembre 2023

L’attrice protagonista di «Unfitting», il corto sul bodyshaming di Giovanna Mezzogiorno. In tv con «I Bastardi di Pizzofalcone» e al cinema tra commedie aliene e Diabolik

Nessuno ci può giudicare. Eppure, racconta Carolina Crescentini, le frasi che la protagonista di Unfitting (inadeguato), il cortometraggio diretto Giovanna Mezzogiorno, si sente dire («Abbiamo un problema: sei grassa»), le conosce bene anche lei. «Tutte noi subiamo qualcosa di simile, è ora di far sentire in imbarazzo i colpevoli. Il corto grida vendetta, anzi grida: “Ma come ti permetti?”».

È il debutto alla regia di Mezzogiorno. Lei è una specie di sua alter ego?

«La protagonista del corto, nato da un’idea di Silvia Grilli,direttrice del settimanale Grazia, è un’attrice. Giovanna ha subito veramente tanto, lo ha raccontato. Ma questa donna, presa di mira per l’aspetto fisico considerato più importante della bravura, non è solo lei. Da quando girano le notizie sul film, mi hanno scritto tantissime persone: succede anche a me. Lo stesso quando lo abbiamo presentato alla Festa di Roma. È un tema reale, ho detto subito “voglio esserci”».

E a lei è capitato?

«Eccome. Porto una 42 e te lo fanno pesare come fosse troppo. Mi spiano la pancia per cercare rotondità sospette. Ma saranno fatti miei? Per fortuna la mia difesa si chiama autoironia. Sdrammatizzo. C’è un modo di fare con le donne, con il corpo delle donne, che va messo al confino. È una questione culturale. È arrivato il momento di metterci una riga. E far sentire a disagio non chi è giudicata ma chi giudica».

L’aspetto fisico come discrimine, il bodyshaming come regola.

«Scusate, dice questa attrice: ma voi mi state affidando un ruolo per come l’ho interpretato al provino o per cosa? Il mestiere di attore va oltre la fisicità, criteri estetici peraltro irreali. Nel corto l’unico che si distingue è un giovane collega. I giovani mi sembrano più liberi di noi».

Allergica alle categorie: per questo le piace variare molto?

«Tantissimo. In Diabolik 3 mi hanno travestito così bene che mio marito Francesco (Motta, ndr) è arrivato sul set e non mi ha riconosciuto. Però fare il calco del viso con il gesso è stato terrorizzante, ho preso le gocce. Un’esperienza mistica, mi ci vorranno 15 anni di analisi a metabolizzarla. Con i Manetti è sempre una festa, ho accettato anche se era un piccolo ruolo, ma l’action è divertente: fai cose estreme. Mi piacciono i film folli, come La guerra del Tiburtino III: cronaca di un’invasione aliena. Sono un’estetista cinica, cattivissima, antagonista coatta della mia amica Paola Minaccioni».

Ha ritrovato la magistrata Laura Piras.

«Ex fidanzata di Lojacono, Gassmann. Ci eravamo lasciati ma nella nuova stagione de I bastardi di Pizzofalcone dopo la sua scomparsa lei si rimbocca le maniche. Mi piace essere parte di un gruppo».

Tipo «Boris», «Mare fuori»?

«Esatto. Sono esperienze che ti legano, al di là del lavoro. Il pubblico lo sente: c’è sta anche una petizione del pubblico per farmi tornare».

A cosa sta lavorando?

«Sono sul set di un nuovo film di cui non posso ancora parlare, e finito le riprese di Tutto chiede salvezza 2 di Francesco Bruni».

Alla Festa di Roma lei e Motta siete stati premiati.

«Per il videoclip de La musica è finita con Vinicio Marchioni, diretto da Pepsy Romanoff. Quando abbiamo girato Francesco non era lì con noi: è molto emotivo, non voleva vedere. C’è un travaso continuo tra il mio mondo e il suo, cinema e musica. Di nascosto io canto nei cori dei sui dischi. Una cosa insieme? Chissà? Prima o poi...».

Ha partecipato all’omaggio per Giuliano Montaldo, una persona che per lei ha contato tanto.

«Una persona a cui devo tantissimo, non solo come regista e guida professionale, ma come amico. Mi ascoltava sempre. Mi ha insegnato che la vita è una cosa meravigliosa, che libertà e rispetto per tutti sono la base di tutto».

Cate Blanchett è Tár, direttrice d’orchestra talentuosa e predatrice: «Non ho mai voluto una vita tranquilla». Un personaggio che ha suscitato reazioni viscerali. Pane per i denti dell’attrice australiana, nominata (per la settima volta) all’Oscar. “Volevo introdurre sfumature in una discussione (#MeToo, cancel culture) che è solo in bianco e nero”. PAOLA PIACENZA su IO Donna il 4 Febbraio 2023.

«Il narcisismo delle piccole differenze conduce al più noioso dei conformismi»: solo una delle perle da annotare febbrilmente durante la proiezione di Tár, il film di Todd Field che prende il titolo dal nome della sua protagonista, Lydia Tár, direttrice d’orchestra di smisurato talento e vorace ambizione predatoria, donna di potere certa che «per un musicista l’unica casa sia il podio» interpretata da Cate Blanchett, forse «l’attrice di cinema più grande del mondo» nelle parole del regista, «e così umile da intimidirti».

Anche Tár, che invece non conosce l’umiltà («io sono il Tempo»), come Blanchett, è la più grande. Grande non vuol dire buono. Tár infatti non è una brava persona, e nessuno ci chiede di amarla. Ma, poiché uno che la sapeva lunga come Oscar Wilde ci ha avvisati che «è assurdo dividere le persone in buone e cattive. Le persone sono affascinanti o noiose» siamo autorizzati a concludere che Tár cade dalla parte giusta.

Di caduta infatti si tratta, e rovinosa. Una parabola quella della direttrice della Berliner Philharmoniker (in realtà è l’Orchestra di Dresda) che ha prodotto reazioni viscerali. L’ultima in ordine di tempo è a cura della statunitense Marin Alsop che, al Sunday Times, ha dichiarato di essersi sentita offesa dal film «in quanto donna, in quanto direttrice d’orchestra e in quanto lesbica».

Cate Blanchett, a Londra all’indomani della vittoria del Golden Globe, in attesa di andare in America per la cerimonia degli Oscar, non si scompone e a iO donna spiega: «In Lydia ci sono moltitudini, non mi stupisce il pensiero diffuso: “quella sono io”. Non sono certa di dover commentare ogni reazione. Abbiamo consegnato il film al mondo e ora non ci appartiene più. Qualcuno pensa che sia offensivo, qualcuno pensa il contrario, e trovo che questo sia fantastico. Come fa la musica anche questo film ha il potere di mettere chi lo guarda in connessione con il mondo, lasciando spazio aperto a ogni lettura. Lydia Tár esiste, ma a un livello astratto e metafisico. Se qualcuno si identifica, positivamente o negativamente, è al di fuori del nostro controllo, ma posso dire con certezza che nessuno dei personaggi è stato modellato su persone esistenti».

In passato ha portato sul palcoscenico Hedda Gabler. Un’altra antieroina con un sistema di valori alternativo a quello corrente. In un film come questo, radicato nel qui e ora, meToo, cancel culture, volevate parlare del cambiamento dei valori in corso?

Questo film parla di dualità, per creare qualcosa spesso devi distruggere. Parla del calderone del processo creativo. Hedda Gabler dà letteralmente fuoco alle cose che ama di più, distrugge ciò che la circonda, e in questo forse ricorda il potere distruttivo degli artisti. Ma non abbiamo fatto un film politico, proviamo a introdurre sfumature in un momento in cui la conversazione è tutta in bianco e nero.

Ha pensato mai a Prova d’orchestra di Fellini, un film che racconta la fine del mondo? Anche voi mettete in scena la fine di un mondo…

Tár e Sharon (il personaggio della moglie di Lydia, primo violino dell’orchestra, interpretato da Nina Hoss, ndr) insieme hanno raggiunto lo zenit di una lunga carriera artistica. Al loro livello, non guardi più né indietro né in basso, puoi solo aspirare alla cima successiva. Ma non si può passare di cima in cima, bisogna scendere a valle, accettare di attraversare foreste, guadare fiumi infestati da coccodrilli e solo allora tornare a guardare in alto. Lasciando dietro di sé il superfluo, archiviando quello che si è raggiunto, per sentirsi pronti al nuovo. Non tutti gli artisti ne sono capaci. Per chi sceglie di vivere la propria vita al sicuro – e non biasimo chi ha bisogno di tranquillità visto che il mondo è così mostruoso e pericoloso, visto che le nostre democrazie sono così fragili – questo è impossibile. Gli artisti invece devono mettersi totalmente in gioco, col rischio di perdere ogni cosa, risultati raggiunti, benessere, reputazione. Lydia è l’artefice del proprio tragico destino. Distrugge per creare, ma finisce per distruggere se stessa.

Lydia finisce triturata dai «robot che hanno delegato l’architettura della propria anima ai social media». Lei da quando ha raggiunto la notorietà sta più attenta a quel che dice?

La censura di qualunque tipo è un luogo pericoloso, il talento per disobbedire, per cambiare la società, contravvenire alle regole è una libertà che abbiamo. Sui social media purtroppo non c’è spazio per la complessità. Una vera conversazione richiede presenza, senso di responsabilità e apertura di cuore. La gioia che dà il dibattito pubblico langue, si cerca solo la vittoria nella battaglia di parole, e si tratta sempre di poche parole e poco significative. Dovremmo ritrovare la bellezza nella discussione di questioni dalle risposte difficili. Non farlo finirà per ci estinguerci come specie pensante, rappresenterà la fine della comunità. Personalmente sono molto eccitata dalla diversità di opinioni che il film ha suscitato, è più di quanto sperassi.

La questione se un artista vada giudicato solo in quanto tale o anche in relazione alle scelte personali è eterna. Lei si è appena spesa nella campagna contro le condanne a morte in Iran. Come sceglie il terreno su cui impegnarsi pubblicamente?

I giovani iraniani tengono in vita i nomi delle persone giustiziate perché non scompaiano, restino tra noi come esseri umani, non diventino numeri o statistiche. Un’amica iraniana mi ha chiesto di partecipare, ho seguito le sue indicazioni. In questo mondo tutti abbiamo un tempo contingentato di attenzione pubblica e possiamo decidere come usarlo: vendere lingerie o parlare degli abusi che avvengono ogni giorno in Iran. Non lo dico in maniera sprezzante, ma è così: dobbiamo scegliere.

La sua parabola, diversamente da Tár, non conosce cadute. Ha sempre saputo quello che voleva? L’ha preordinato?

Non credo di aver pensato coscientemente che il mestiere di attrice avrebbe potuto essere la mia vita. Sono una persona giocosa, mi è sempre piaciuto il gioco della recitazione, lavoravo in teatro e mi andava bene, non pensavo che avrei mai fatto un film. Poi, arrivata ai 35 mi sono detta: «Probabilmente ho ancora 5 anni davanti a me al cinema, poi tornerò al teatro e sarà bellissimo». E invece eccomi qui: senza un grande disegno o una meta, accettando un passo alla volta quello che la vita mi proponeva, ruoli che altre rifiutavano, ruoli piccoli, ma mi dicevo: «Quello è un regista interessante, non mi importa che sia secondario». Ho fatto una carriera che è la mia, con scelte buone, altre così così e anche terribili, ma certamente non si è mai basata su un piano precostituito. Con questo film ho coronato il mio sogno più ambizioso, ho imparato a suonare Bach, a parlare il tedesco, a dirigere un’orchestra. Dieci anni fa non mi aspettavo di continuare, ma 25 anni fa nemmeno mi aspettavo di cominciare!

Si divide tra l’Europa dove vive, in Inghilterra, l’America dove lavora e il suo Paese. Come si vive a cavallo dei confini?

Tár è un caso speciale, è un film americano, ma ha la sensibilità di un film europeo. Scritto e diretto dal regista più bravo e meno celebrato che l’America abbia (l’ultimo film di Todd Field risale a 16 anni fa, ndr). Todd ha scelto di ambientarlo in Europa perché voleva legare la sua riflessione alle grandi narrative classiche del vecchio continente, sempre più di nicchia con la nuova cultura pop che prende il sopravvento. C’è una tensione tra questi due mondi. Ma non devi essere europeo, americano o venire dagli antipodi come me per capire quello che dice, è il potere della grandi narrazioni, e del cinema che riesce a esser rilevante in culture diverse. Quando andavo a scuola, l’unico desiderio che esprimevo era: «Voglio viaggiare per lavoro». Quello m’è riuscito.

Todd Field ci ha raccontato di alcune scene girate e alla fine non montate. Come quella tra Tár e la madre sorda che non vedremo mai. Com’è andata?

Ogni giorno quando costruivamo il personaggio, Todd se ne usciva con un’idea. A un certo punto mi ha proposto che Lydia fosse figlia di genitori sordi, ha scritto questa scena meravigliosa che abbiamo girato con una bravissima attrice tedesca. Resta uno dei miei momenti preferiti e quando alla fine non è entrato nel film ne ero terribilmente dispiaciuta: «È importante» gli dicevo, sperando che cambiasse idea. Ma Todd mi ha risposto: «Cate, quella scena è omeopaticamente lì». Ed è vero, ha influenzato il mio modo di condurre, il mio senso di colpa rispetto all’ipersensibilità che Tár da bambina ha per i suoni, mentre i suoi genitori vivono nel silenzio. Tutto questo nel film c’è perché girare quella scena ha detto così tanto a me di lei, a livello viscerale, che ha cambiato il mio modo di interpretarla. E Todd lo sapeva: se avessimo messo quella scena avremmo preso lo spettatore per mano dicendogli: «Ecco perché fa quello che fa». Be’, il film queste scorciatoie non le prende mai. iO Donna

Le Iene, clamorosa gaffe di Viviani: chi è questa signora fermata per strada. Libero Quotidiano il 10 maggio 2023

Matteo Viviani si è reso protagonista di una gaffe a Le Iene che è ben presto diventata virale in rete. L’inviato si trovava a Milano per occuparsi del caro affitti, un problema che sta massacrando soprattutto gli studenti universitari. Viviani si è informato sul progetto “Prendi in casa”, che permette di risparmiare facendo coabitare persone appartenenti a generazioni diverse. 

Poi è andato in giro per la città a chiedere ai passanti se fossero interessati o meno a partecipare a un progetto del genere. Tra le persone fermate c’era anche Caterina Caselli, che Viviani non ha però riconosciuto: si tratta dalle famosa cantante degli anni ’60 e ’70, conosciuta dal grande pubblico con il soprannome di “Casco d’oro” per la particolare acconciatura che portava a inizio carriera. Dopo essersi ritirata dalla scena musicale, la Caselli è diventata talent scout e produttrice discografica. 

Buongiorno, abita a Milano? Sa che c’è la protesta di una ragazza che dorme in tenda?”, ha domandato Viviani. “Quanto è grande casa sua?”, ha aggiunto. La Caselli non si è tirata indietro: “La mia casa è piccola, 150 metri quadri, compreso il terrazzo. Sì, io ospiterei, mi dia il numero dell’associazione, trovo l’idea interessante”. In trasmissione è poi arrivata la precisazione di Belen Rodriguez: “Ci hanno segnalato che non avremmo riconosciuto Caterina Caselli nel servizio di Matteo Viviani. Vi ringraziamo, ma ha dato la sua opinione in qualità di cittadina di Milano incontrata casualmente e non come personaggio pubblico”.

Estratto dell'articolo di Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 25 Gennaio 2023.

Piero Sugar se n’è andato l’11 giugno dello scorso anno alle 10.45 della sera, nella sua casa di Milano. Intorno al lui c’erano le persone che amava, più un’infermiera e una dottoressa di Vidas, l’associazione che accompagna i malati nell’ultimo tratto della loro vita e supporta i familiari nel momento di smarrimento più grande, quando si sentono più fragili e hanno più paura di sbagliare.

 Caterina Caselli ricorda quel giorno con dolore vivo. Ma accetta di parlare per la prima volta del marito scomparso, per sostenere Vidas nel nuovo progetto di assistenza domiciliare agli anziani malati e soli.

(...)

Quando vi eravate conosciuti?

«A settembre del ’65, mentre cantavo a Milano all’Intra’s Club, sotto le Tre Gazzelle: venivano a sentirmi Monica Vitti con Antonioni, Corrado Corradi con sua moglie, Mina. Piero era diverso dagli altri, molto loquaci: lui parlava poco, ma la sua presenza era importante. Sono sempre stata affascinata da chi parlava bene l’italiano.

Lui aveva perfino fondato una casa editrice a vent’anni, ma non ostentava la sua grande cultura».

 La cultura non mancava nella vostra casa.

«Ricordo quando ci si incontrava con Nanni Cagnone o con la famiglia di Craxi. Spesso da noi c’era Mimmo Rotella: ho trovato da poco certi poemi fonetici che aveva registrato a casa mia. Eravamo due persone molto diverse, ma ci ha unito il rispetto reciproco e l’amore, naturalmente».

 Che ricordi ha del sequestro fallito, nel 1975?

«In casa nostra c’erano Mina, ai tempi fidanzata con il direttore artistico della Cgd, Alfredo Cerruti, poi Padre Eligio, Gianni Rivera e un sarto napoletano che voleva convincere Piero a farsi fare un cappotto di “ cascmìr ”. Mia suocera mi chiamò per dirmi che avevano tentato di rapire lui e mio suocero. Mina piangeva in cucina. Quando Piero poi chiamò gli dissi che lo stavamo aspettando tutti. E lui: mi dispiace, è successo un piccolo inconveniente».

Le è spiaciuto smettere di cantare?

«No, la musica ha continuato a far parte della mia vita. Mi sento un’artigiana, un editore, anche se c’è chi dice che io sia un’artista. Quando mi sono sposata non sopportavo più la pressione di quella vita: ho fatto anche Cosenza-Milano in auto! Non era come oggi, tutto calendarizzato».

 Chiudiamo con Piero. Dove è sepolto, adesso?

«A Montorfano, dove sono anche i miei suoceri e la cugina Susi. È un cimitero bello, raccolto, poetico. Io Piero lo ricordo molto a casa, ma vado spesso a trovarlo».

Estratto da lastampa.it lunedì 23 ottobre 2023.

[…] Damani, giorno del suo ottantesimo compleanno[…]. Più longeva (artisticamente) di Brigitte Bardot, più irraggiungibile e misteriosa di Sophia Loren, più iconica e irriverente di tanti prodotti dello star system, Catherine Fabienne Dorléac, in arte Deneuve, arriva […] al porto di un anniversario tanto difficile quanto celebrato con la leggerezza che ha appreso nel corso di una vita lunga e piena. «Magari potessi solo recitare - ha detto - senza parlarne mai. Credo che la mappa dei miei film, e i passaggi dall'uno all'altro, raccontino di me più di quanto potrei mai fare io».

Catherine nasce a Parigi il 22 ottobre 1943 […] È figlia di due attori e suo padre Maurice è il direttore di doppiaggio della Paramount. […] sul set la prima volta, quando ha solo 13 anni, per una breve apparizione ne "Le collegiali" di André Hunebelle. Tre anni dopo accetta, senza entusiasmo, il primo ruolo in "La ragazza super sprint" di Jacques Poitrenaud. 

Sceglie un nome d'arte - il cognome della madre per non dare ombra a Françoise - quando è addirittura Mel Ferrer a imporla nel film successivo perché «gli ricorda Audrey Hepburn». Nel 1961 incontra su un set Roger Vadim, se ne innamora, va a vivere con lui e con lui darà il primo figlio, Christian. La relazione è tempestosa e poco duratura […]

A quel punto però Deneuve ha già imparato a camminare da sola […]  Difficile dire come si snodi in quel periodo, e anche dopo, la sua vita sentimentale. Ha lasciato Vadim e sposerà nel 1965 il fotografo inglese David Bailey. Nel frattempo però subisce il fascino di Roman Polanski che la convince a interpretare l'enigmatico ruolo dell'assassina schizofrenica nel suo primo film inglese, "Repulsion", applaudito dalla critica e premiato con l'Orso d'argento a Berlino nel 1965. 

Dopo il drammatico lutto per la morte della sorella nel '67 e una crisi depressiva che sconfiggerà solo continuando a lavorare «come un automa» tra Italia e Francia, ha l'incontro artistico forse più significativo della sua vita: i produttori la impongono a Luis Bunuel in "Bella di giorno" del 1970 e qui costruirà il mito della bellezza algida e tenebrosa che resterà a lungo la sua immagine più definita. Film capace di sconcertare i moralisti, oggetto di scandalo nonostante il Leone d'oro, troverà un seguito ideale due anni dopo con "Tristana".

Intanto la duplicità algida di Deneuve (fredda e distante in pubblico quanto infuocata e pericolosa in privato) seduce François Truffaut che se innamora e le regala il ruolo hitcockiano di "La mia droga si chiama Julie" (1969). Anche questa volta si tratta di un fuoco intenso quanto breve che lascerà però il posto a un'amicizia e a un sodalizio artistico culminato nel trionfo di "L'ultimo metro" con Gérard Depardieu nel 1980. Intanto Deneuve ha vissuto l'amore più importante della sua vita. 

A presentarle Marcello Mastroianni (reduce dall'abbandono di Faye Dunaway) è proprio Roman Polanski e i due si incrociano poi sul set di "Tempo d'amore" diretto nel '71 da Nadine Trintignant. Avranno una figlia insieme - Chiara - costruendo una sorta di famiglia allargata con la moglie di Marcello e sua figlia Barbara; vivranno a Parigi per quattro anni e altrettante volte faranno coppia sullo schermo, spesso con Marco Ferreri regista. Catherine avrà poi una breve relazione con Gerard Depardieu (il suo migliore amico e partner in ben 10 film), il suo agente e banchiere Bertrand de Labbey, il patron delle tv Pierre Lescure. Oggi vive nel cuore di Parigi a due passi da Saint Sulpice.

Catherine Deneuve compie 80 anni: diva anticonformista che «vuole essere guardata». Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.

In una carriera con oltre 15o ruoli, si è fatta dirigere dai più grandi maestri ma anche dagli esordienti. Solo gli Oscar sembrano non volerla riconoscere nella grandezza.

La sua grandezza come attrice non ha bisogno di conferme. Solo gli Oscar sembrano non volerla riconoscere (una striminzita nomination nel 1993, per Indocina), ma evidentemente al di là dell’Atlantico si fa molta fatica ad accettare l’altra sua grande qualità – oltre alla bravura: l’anticonformismo che va sottobraccio alla libertà. Quale altra grande star avrebbe avuto il coraggio di ironizzare sul suo ruolo e la sua statura divistica come ha fatto interpretando nel 2019 Fabienne in Le verità di Kore-eda, dove dà una coraggiosa spallata ad ogni pretesa di correttezza rivendicando egoismo, doppiezze e anche le bugie come elementi indispensabili per diventare una grande attrice. Senza dimenticare l’appello pubblicato su Le Monde il 9 gennaio 2018, prima firmataria di un centinaio di donne, dove si metteva in gioco per contrastare l’ondata di moralismo che aveva seguito l’esplosione del #metoo: ««Noi difendiamo la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale» si intitolava l’intervento, che cominciava con «lo stupro è un crimine. Ma rimorchiare in maniera insistente o imbarazzante non è un delitto, né la galanteria un’aggressione machista».

Era l’ennesima prova di una vita vissuta fino in fondo a testa alta (già nel 1971 si era accusata pubblicamente con altre donne di aver abortito per spingere il governo a legalizzarlo), senza vergognarsi delle proprie passioni e senza paura per le proprie convinzioni, accettando ruoli che avrebbero fatto impallidire ogni sostenitore del politically correct.

Anche per questo Catherine Deneuve, che oggi compie ottant’anni, si è conquistata un posto a parte non soltanto nel cinema ma anche nel mondo della cultura e dell’impegno sociale, capace di ispirare Yves Saint Laurent come Buñuel, Coco Chanel come Polanski o Truffaut, in prima linea nel difendere i diritti dei più deboli (ha sostenuto Amnesty International per l’abolizione della pena di morte, ma ha lasciato l’Unesco e il ruolo di «ambasciatrice di buona volontà» per protestare contro una nomina discutibile; ha difeso Cuba contro Castro e la Cia l’aveva accusata di aver aiutato finanziariamente i disertori del Vietnam), definitivamente incoronata come icona nazionale quando nel 1985 fu scelta per impersonare la Marianna repubblicana.

Ben conscia della differenza che esiste – per usare le sue parole – tra «voler essere guardata» e «subire lo sguardo degli altri» (ragion per cui si è sempre tenuta lontano dal teatro) ha messo a punto una recitazione minimalista: fare meno piuttosto che fare troppo, cercando le giuste sfumature, certa che un’occhiata può essere più significativa di una battuta. Come aveva capito Buñuel, che in Bella di giorno le regalò uno dei più celebri ruoli della sua carriera, la misteriosa Séverine, moglie insoddisfatta che si ribella alle convenzioni borghesi prostituendosi ogni pomeriggio per dar sfogo alle sue fantasie, senza che mai lo spettatore possa vedere alcunché.

I ruoli che ha interpretato si avvicinano a 150 e la sua carriera non sembra volersi fermare, anche perché non la sfiora la paura di mostrare come gli anni abbiano modificato la sua bellezza di un tempo: è appena stata Bernadette, la moglie di Chirac (adesso sugli schermi francesi) e sta per girare un film con la figlia Chiara in ricordo di Marcello Mastroianni.

E proprio per questo nella memoria si accavallano film diversissimi e lontanissimi tra di loro: era fragile e infelice a ventun anni in Les Parapluies de Cherburg e diciannove anni dopo era una vampira che si concedeva conquiste lesbiche in Miriam si sveglia a mezzanotte, era una sessuofoba che scivola nella follia in Repulsion e moglie tentata dal tradimento in L’ultimo metrò, non ha problemi a mostrarsi senza veli ultracinquantenne in Pola X e a fare la «schiava dell’uomo» in La cagna, chiamata dai grandissimi ma disposta a credere anche negli esordienti. In nome di una passione per il cinema senza età e senza confini.

Catherine Deneuve, gli 80 anni di una diva magica.  FIAMMA TINELLI su Oggi domenica 22 ottobre 2023.

Brusca, scostante, gelosissima della propria intimità, spiritosa sì, ma solo in privato: l’attrice si fa beffe del divismo. Per lei, grandi amori, grandi dolori, 150 film e una certezza: “Non ho coscienza della mia età, però mi scoccia l’idea che la vita si accorci”

Catherine Deneuve, la ricordi quand'era così?

I suoi 70 anni, Catherine Deneuve, li festeggiò come solo una diva può. Aveva appuntamento in una suite dell’Hotel Meurice di rue de Rivoli con la fotografa Dominique Issermann, un ritratto per il New York Magazine. L’attrice avrebbe dovuto posare avvolta in una pelliccia, ma il set non era ancora pronto. Accaldata, sfilò il visone per sistemarsi i capelli. In piedi di fronte allo specchio, restò in collant e body di pizzo. Clic. La foto fece scalpore. Una 70enne in déshabillé? «Mi piaceva la luce», tagliò corto lei

80 ANNI - Il 22 ottobre mademoiselle Deneuve, come ama essere chiamata, compie 80 anni. Dopo 150 film, è ancora sul set: con la figlia Chiara Mastroianni sta girando O sole mio di Christophe Honoré, in Francia è appena uscito Bernadette di Léa Domenach, sulla vita della moglie dell’ex presidente francese Jacques Chirac. «Non ho coscienza della mia età, non mi piace l’idea che la vita si accorci. Alla parola “invecchiare” preferisco l’espressione diventare grandi».

BELLA E ALGIDA, QUASI IRRAGGIUNGIBILE – Sofisticata come BB mai riuscì a essere, audace come chi nasconde un fuoco dentro, la musa di Buñuel, Polanski e Truffaut è la Marianna di tutte le Marianne, più francese di baguette e tour Eiffel messe assieme,ma detesta sentirsi chiamare “icona”.

E se può smontare un mito, lo fa con piacere: «Ah sì, che gran film Belle de jour. Il set, però, è stato un inferno».

La raccontano brusca, scostante. Lei, non fa nulla per smentirlo. «Che consigli darebbe a una giovane attrice?», le chiesero una volta. «Nessuno».

Lucrezia Lante della Rovere, che appena 19enne debuttò accanto a lei in Speriamo che sia femmina, di Mario Monicelli, ricorda che l’attrice sul set girava con l’ombrellino per proteggere la pelle diafana e tra un ciak e l’altro si chiudeva in camerino, da sola.  «Stefania Sandrelli mi chiamava “scimmiottina mia”, con Liv Ullman in pausa ci sedevamo sull’erba a mangiare i panini. Deneuve, nulla. Era come di un altro mondo, lontana». Eppure, quando decide a parlare, mademoiselle non le manda a dire.

PRENDE SEMPRE POSIZIONE – Socialista, anticastrista, filoucraina, ama la libertà tutta, soprattutto quella delle idee. Lei, che nel 1971 aveva firmato il Manifesto delle 343 per la legalizzazione dell’aborto, in pieno #MeToo sottoscrisse una lettera a Le Monde che difendeva «il diritto di importunare, indispensabile alla libertà sessuale». Apriti cielo («Non difenderei mai uno stupratore, ma non mi piace la caccia alle streghe», chiarì poi). «La sua paura non è di essere guardata, né di schierarsi, ma di essere scoperta nella sua vera identità», ha detto Truffaut. Chi la conosce da vicino giura che in privato è spiritosa, perfino autoironica. Ma la stampa lo sa bene: le emozioni di Deneuve sono sue e di nessun altro. Dei suoi amori ha raccontato solo briciole, che si era fatta bionda per piacere di più a Roger Vadim, che il suo grande amore Marcello Mastroianni «era pigro, si stancava solo a vedermi camminare in una stanza». È il dolore, che l’ha sommersa giovanissima, ad averla segnata.

UN GRANDE DOLORE - Nel 1967 la sorella Françoise – rossa, ribelle, adorata – muore arsa viva nella sua auto uscita di strada. A casa Dorléac, il vero cognome di Deneuve, quella fine è un tabù impronunciabile. «Ho dovuto crescere in fretta, diventare un punto di riferimento per i miei genitori e le mie altre sorelle». È allora che Catherine decide di non farsi più scalfire da nulla, di diventare impermeabile. «Non vedo che bisogno ci sia di commentare ciò che la gente pensa di me. Ho poco tempo e meglio da fare, nella vita», disse una volta, mentre sul web ferveva il dibattito sul suo ennesimo ritocchino di chirurgia estetica. A 80 anni, Deneuve è «una diva che si fa beffe del divismo» (così Francesco Merlo), capace di accogliere

con sublime nonchalance statuette e salamelecchi e restare una portentosa guastafeste. Come quando, tempo fa, le chiesero che cosa pensasse di una grande attrice, sua coetanea. «Ah, è ancora viva? Mi pareva di essere stata al suo funerale». Fiamma Tinelli

Catherine Deneuve compie ottant'anni: una vita da film in dieci curiosità. Alessandra D'Acunto su La Repubblica domenica 22 ottobre 2023.

L'amicizia con Yves Saint Laurent l'ha resa il simbolo dello stile parigino nel mondo. Il teatro le ha sempre fatto paura. Il suo nome? Non l'ha mai amato veramente. Catherine Deneuve compie ottant'anni e abbiamo scelto di "raccontare" la sua vita da film attraverso dieci curiosità: dai grandi amori ai legami insoliti con Audrey Hepburn e Mick Jagger fino al suo femminismo "personalizzato"

La sua ultima fatica cinematografica si chiama Bernadette, attualmente nelle sale francesi. 80 anni il 22 ottobre, Catherine Deneuve si è calata nei panni dell'ex première dame Bernadette Chirac, vedova di Jacques, due volte presidente di Francia, dal 1995 al 2007. Un'interpretazione che divide, da molti accolta con entusiasmo e da altri- lo stesso entourage della famiglia Chirac, che non ha approvato il biopic- con più diffidenza. Quello che accade con Bernadette riassume d'altra parte una storia ricorrente, nella carriera di Catherine Deneuve, costellata di imbattibili successi di pubblico e di critica così come di incompresi. Diva assoluta della settima arte alla francese, la parigina simbolo della Nouvelle Vague, attrice affermata in tutto il mondo, è da sempre circondata da un'aura di mistero che è parte essenziale del suo charme.

Non ho mai voluto scrivere un libro sulla mia vita. La mia storia vera, a parte pochi intimi, non la conosce nessuno e nessuno può neanche immaginarla. La mia vita personale non è pubblica.

Per un compleanno così importante, abbiamo voluto raccontare quello che sappiamo della vita da film di Catherine Deneuve attraverso dieci curiosità e aneddoti noti sul suo conto.

È nata nella città dei fiori

Non è Sanremo ma uno dei tanti, piccoli posti speciali di Parigi. La Cité des Fleurs è un "corridoio" suggestivo del XVIIesimo arrondissement. Una via residenziale, chiusa di notte da grandi cancelli. Bordata di giardini, prende il nome dalla vegetazione che la colora. Catherine Deneuve è nata in una delle due cliniche della Cité  il 22 ottobre del 1943. 

Deneuve è il cognome della madre

Catherine è nata nell'ambiente del cinema e del teatro. Suo padre, Maurice Dorléac, era un attore e direttore del doppiaggio alla Paramount Pictures. La madre, Renée Deneuve, conosciuta in scena come Renée Simonot, era un'attrice di teatro: all'Odéon di Parigi, la nonna di Catherine aveva lavorato come suggeritrice. Catherine è la terza di quattro figlie. La prima ad aver intrapreso la carriera della recitazione, era l'amata sorella Françoise Dorléac, scomparsa a 25 anni anni in un incidente stradale. Catherine ha avuto uno dei primi ruoli proprio accanto alla sorella, nel 1960. Per distinguersi dalla più nota Dorléac, Catherine sceglie il cognome della madre. Una scelta tutta al femminile e decisamente duratura ma non sempre vista con romanticismo dalla diva.

Non c'è niente da fare, Deneuve non sarà mai il mio nome. È il mio nome d'attrice.

Quella somiglianza con Audrey Hepburn

Un'associazione insolita, quella di cui era convinto Mel Ferrer, attore e primo marito di Audrey Hepburn. Nel 1960, in Catherine Deneuve allora 17enne, vede una somiglianza con la dolce e raffinata moglie, 31enne, intenta a girare Colazione da Tiffany. Ferrer chiede che Deneuve sia con lui set del film L'Homme à femmes, di Jacques-Gérard Cornu. È il primo ruolo che vale alla giovane Catherine i riconoscimenti della stampa.

Mick Jagger testimone di nozze

Negli stessi anni, Catherine Deneuve incontra uno degli amori della sua vita, Roger Vadim. Realizzatore, scrittore e collega della bella attrice, aveva quindici anni in più di lei. Si conoscono sul set della commedia Les Parisiennes. La coppia è durata tre anni, periodo in cui l'ancora debuttante Deneuve assume notorietà. Non si sono mai sposati ma hanno avuto un figlio, Christian Vadim. Catherine si è sposata solo una volta ed è stato nel 1965 con David Bailey. Il matrimonio con il fotografo è durato sette anni, ma solo formalmente: due anni dopo erano già separati. Testimoni alle loro nozze erano stati Mick Jagger e la famosa sorella di Catherine, Françoise Dorléac.

L'Amore con Mastroianni

Una storia travolgente, sbocciata durante le riprese di Tempo d'amore, nel 1971. L'elegante italiano era sposato con l'unica donna che è stata sua moglie, Flora Carabella, da cui non ha mai divorziato. Tra i due divi dell'epoca era ardeva un grande sentimento: "Avevamo in comune il senso di libertà, l'amore per la vita" ha raccontato l'attrice. Con Chiara Mastroianni, la figlia nata da quell'unione nel 1972, Catherine Deneuve ha partecipato alla trascorsa edizione del Festival di Cannes. Sono state madrina e protagonista ad honorem: "la più grande star francese incarna ancora con forza un'icona che non è mai rimasta uguale a sé stessa e rende la sua arte viva", hanno scritto di Deneuve gli organizzatori della kermesse.

Icona gay (di una volta)

1983, esce il film Miriam si sveglia a mezzanotte. Non gode immediatamente di grande successo, eppure il cast per l'opera di esordio di Tony Scott è stellare: Catherine Deneuve recita al fianco di David Bowie e Susan Sarandon. Difatti, diventerà nel giro di poco tempo un cult. Una sequenza indimenticabile racconta l'amore saffico tra i personaggi interpretati da Deneuve e Sarandon e diventa un manifesto, di quegli anni, per le coppie arcobaleno. In tempi più recenti, l'attrice francese si è distaccata dall'identificazione di icona gay quando si è detta "perplessa" sull'apertura del matrimonio agli omosessuali. Ma appartiene allo stile della parigina d'antan di esprimere concetti controversi: ha poi specificato che la sua accusa era indirizzata al vincolo matrimoniale che "è stato inventato per la donna che non lavorava. È all'antica". 

L'amicizia con Saint Laurent

Se Catherine Deneuve ha contribuito al mito dell'eleganza parigina nel mondo è merito di Yves Saint Laurent. Per parlare del loro incontro, dobbiamo tornare al matrimonio dell'attrice con il celebre fotografo David Bailey, che le annuncia un evento molto importante a cui dovranno partecipare, appena sposi, il Royal Variery Performance, una serata di gala in presenza della regina d'Inghilterra. Catherine, che aveva 22 anni, aveva bisogno dell'abito perfetto. È il 1965 e lo stilista ha appena lanciato la collezione Mondrian. Deneuve ritaglia la foto di una sua creazione da una rivista e si presenta spontaneamente in atelier. È l'inizio di un sodalizio e di un'amicizia intrecciati a doppio filo e durati fino alla scomparsa del couturier nel 2008. Saint Laurent la considerava "la più grande diva al mondo".

Creava solo per rendere le donne più belle

La passione per la moda di Catherine, nonché la sua natura di simbolo di stile alla parigina, fanno sì che l'attrice sia un'ospite fissa alle sfilate nella Ville Lumière. E se l'invito da parte dei designer non stupisce, più divertente è vedere che l'imprevedibile Deneuve li accetta di buon grado. In front row, riesce a fondersi alle personalità di oggi, tra influencer, giovani modelli, star internazionali.

Mai a teatro

Forse non tutti sanno che la stella di Bella di giorno e L'ultimo metrò ha girato più di cento film, ricevendo importanti premi e ricoscimenti alla carriera, dai César francesi al Leone d'Oro di Venezia alla Palme d'Or di Cannes. Ma oltre a non aver mai vinto l'Oscar, c'è un altro mai nella carriera di Deneuve: non ha mai recitato a teatro. Un conto è "voler essere guardati" ha spiegato Catherine, come accade al cinema; un altro è "subire gli sguardi degli altri".

So che può sembrare in contraddizione con il mio mestiere, ma uno sguardo su di me mi imbarazza. È senza dubbio per questo che non voglio fare teatro.

L'impegno per le donne

Deneuve viene da una famiglia a prevalenza femminile, terza di quattro figlie. Il suo impegno per i diritti delle donne è stato portato alto negli anni delle rivendicazioni più importanti. Nel 1971, faceva parte del gruppo firmatario del 'Manifesto delle 343', un esempio di disobbedienza civile che reclamava la legalizzazione dell'aborto. Da buona parigina, ha sempre voluto dire la sua senza peli sulla lingua, anche a costo di essere impopolare. È successo sulla scia del Me Too: nel 2018, si è unita ad un centinaio di colleghe ed intellettuali che in reazione allo scandalo Weinstein hanno pubblicato su Le Monde un appello contro il "puritanesimo, la delazione e la giusitizia sbrigativa", condannando gli abusi ma distinguendoli dalle pratiche più innoque del "rimorchio". Insomma, quello di Deneuve è un femminismo personale, pronto a modellarsi sul caso particolare piuttosto che schierarsi a prescindere. Sopratutto se si tratta di suoi amici: da Roman Polanski a Gerard Depardieu, è scesa in difesa di personaggi che hanno perso molta credibilità in seguito alle accuse di abusi.

Catherine Deneuve compie 80 anni, la carriera: dagli scandali ai film più famosi. Truffaut ha detto di lei: «In ogni ruolo, si ha la sensazione che sullo schermo ci sia il personaggio insieme a molti altri pensieri che però non vengono espressi». Andrea Palazzo Domenica 22 Ottobre 2023 su Il Messaggero

«La gente ha un'immagine di me come una donna complicata, fredda come il ghiaccio, ma non è affatto vero», ha dichiarato Catherine Deneuve, alla soglia di una ricorrenza importante, le 80 candeline spente oggi, domenica 22 ottobre (è nata sotto il segno della Bilancia). Elegante e sofisticata, indifferente, ma anche sensuale, lasciva, addirittura perversa: la Deneuve è senza dubbio l'attrice più enigmatica del cinema francese.

«Sono molto più semplice di quanto la gente pensi», ribadiva nella stessa intervista. E la sua bellezza sembra adesso più accessibile, malgrado un tempo la diva sembrasse così imperscrutabile -proprio come la statua di marmo della "Marianne"- uno dei simboli ufficiali della Francia, cui lei nei nel 1985 aveva prestato il volto. Negli anni ‘80, il suo nome era diventato ancora più famoso per via di una pubblicità di un’automobile da cui lei scendeva, girandosi verso gli spettatori per dire soltanto: «Oui, je suis Catherine Deneuve», ovvero: non ho tempo da perdere per spiegare altro.

Questa era l'immagine che la star si era costruita in 60 anni di carriera. «Amo nascondermi», aveva ribadito qualche anno fa, dichiarando di voler invecchiare nel modo più elegante possibile, ma usando un altro verbo: «Preferisco, crescere».

E lei è effettivamente cresciuta dopo aver recitato in più di 130 film, senza mai aderire a nessuno stereotipo. Aveva sfondato nel 1964, appena ventenne, con Les parapluies de Cherbourg (1964), un film in cui tutti i dialoghi sono cantati, con le musiche immortali di Michel Legrand. Nel thriller psicologico Repulsion (1965), il regista Roman Polanski ha cambiato radicalmente la sua immagine: è Carol, una giovane sessuofoba e mentalmente turbata. Successivamente, per il maestro iberico, Luis Buñuel, si è calata nel personaggio della signora borghese annoiata che si prostituisce in Belle de Jour (1967), scandalizzando la società benpensante prima del ‘68. Pura e peccaminosa, in questo ruolo viene notata anche da Alfred Hitchcock, che però morirà prima di riuscire a realizzare un progetto con lei. Con questo film la Deneuve venne per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia, che frequenterà più volte, l’ultima nel 2022 quando viene insignita del Leone d’oro alla carriera.

La Deneuve continua negli anni ad affascinare, unendo talento, bellezza e un'aura di mistero. Una svolta nella carriera arriva quando incontra Francois Truffaut, il grande regista francese con cui l'attrice vive anche una storia d’amore. La dirige ne La mia droga si chiama Julie (1969) con Jean Paul Belmondo e ne L’ultimo metrò (1980) con Gérard Depardieu, film per cui la Deneuve riceve il primo importante riconoscimento, il premio César per la migliore attrice francese. Truffaut ha detto di lei: «In ogni ruolo, si ha la sensazione che sullo schermo ci sia il personaggio insieme a molti altri pensieri che però non vengono espressi». I suoi fan la ricordano anche vampira in Miriam si sveglia a mezzanotte (1983) di Tony Scott in un’indimenticabile scena dove si concede un palpitante bacio lesbo con Susan Sarandon. Seguono collaborazioni prestigiose con Monicelli in Speriamo che sia femmina (1986), col grande regista portoghese Manoel De Oliveira in ben 3 lungometraggi e poi con Ozon (Otto donne e un mistero, 2002) e Lars von Trier (Dancer in the dark, 2000).

Estratto dell'articolo di Marianna Peluso per corrieredelveneto.corriere.it il 18 gennaio 2023.

Compie 77 anni il 18 gennaio Katia Ricciarelli, all’anagrafe Catiuscia Maria Stella Ricciarelli, come risulta sulla pergamena del conferimento dell’onorificenza di Grand’Ufficiale del 1994. […]

 Come ricorda gli anni a Rovigo e a Venezia?

«La mia è stata un’infanzia difficile, ma ho avuto una mamma che ha sempre fatto di tutto e di più per mantenere me e le mie sorelle. […] ho lavorato per pagarmi gli studi a Venezia: ho lavorato come operaia in una fabbrica di giradischi e poi come commessa alla Upim. Vivere dieci anni a Venezia, per me, è stata un’esperienza straordinaria. Da piccola non avevo avuto occasioni di andare a teatro, ma quando studiavo al conservatorio, ho recuperato: tiravo la cinghia per andare a teatro sul loggione. Schei no ghe n’era, non c’erano soldi». […]

Sul palcoscenico ha conosciuto il suo primo grande amore José Carreras...

«Sì, era il 1972 e fu un colpo di fulmine che durò fino al 1984. Le nostre voci si sposavano bene, lui era simpaticissimo e noi eravamo bellissimi e bravissimi, ma è finita perché a me non andava di essere tradita. Devi sapere che i tenori sono corteggiatissimi, quindi le tentazioni abbondano fuori dai teatri».

Dopo sposò Pippo Baudo. Che ricordi ha?

«M’invitò in trasmissione e cinque mesi dopo eravamo marito e moglie. Ci sposammo il 18 gennaio 1986, proprio il giorno del mio quarantesimo compleanno, mentre lui aveva 50 anni. […] Eravamo molto affiatati, ma dopo 18 anni ci siamo separati, forse perché i nostri impegni ci portavano spesso lontano e abbiamo smesso di parlare. Il dialogo è fondamentale».

 Gli ammiratori non si contano. Le viene in mente qualche nome particolare?

«Ebbi un flirt con Alberto Sordi, nato dalla sua grande ammirazione per me perché amava la lirica. Andavamo insieme al ristorante, mi regalava i fiori, una volta mi mandò cento rose e c’era chi si chiedeva se li avesse davvero pagati lui. Ma non era tirchio come si vociferava. E poi il Principe Carlo, adesso Re Carlo III, che è un grande melomane: a volte veniva alla Royal Opera House a Covent Graden in veste ufficiale, sul palco reale, altre volte veniva in incognito e mi lanciava fiori sul proscenio».

 Al suo collega Placido Domingo non è andata altrettanto bene l’estate scorsa, a causa di un flop all’Arena di Verona. Lei stessa ha detto in un’intervista che a una certa età bisogna ritirarsi...

«Ho conosciuto Domingo tanti anni fa e abbiamo lavorato molto insieme. Noi abbiamo uno strumento incorporato, che sono le corde vocali. Con l’uso, questo strumento si logora e la voce si trasforma: non si possono fare i confronti con la voce di trent’anni fa. Placido non ha sbagliato a cantare ancora, ma a cambiare registro: lui è passato dall’essere tenore a baritono e già questo mette nella posizione di essere criticato». […]

 Parteciperebbe ancora a un reality show?

«No, basta. Sono stata a “La fattoria” e poi al “Grande Fratello Vip”: io ho cercato d’insegnare qualcosa, mi sono divertita e poi ho detto basta». […]

Estratto dell'articolo di Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2023.  

Quello della lirica è un ambiente difficile.

«Dice?».

Cecilia Gasdìa, grande soprano che ha cantato sui palchi più prestigiosi, oggi sovrintendente della Fondazione Arena di Verona, ha una passione inscalfibile per l’opera e l’understatement che non ti aspetti da chi è stata una diva.

Certo che è difficile. Ci sono tifoserie, il dissenso si manifesta con i «buu», i melomani sono ultra esigenti, solo per dirne alcune...

«È vero, è vero. È un mondo come quello degli sportivi e il cantante lirico è come fosse un atleta olimpionico: serve un addestramento continuo. È un ambiente molto selettivo, per questo dico che il primo requisito per un cantante lirico è la salute. Sa, noi non abbiamo il playback e ogni sera si comincia daccapo». 

Anche questo è un bello stress. No?

«Pavarotti mi disse: “Non finirò la mia carriera perché non avrò più voce ma per lo stress che si accumula in attesa di entrare in scena”. Le ore che precedono gli spettacoli sono terribili. E ogni volta si riparte da zero: è un mestiere che si fa sempre in diretta».

Ricorda un’attesa particolarmente dura da gestire?

«Quella che mi ha agitata di più — ho provato una tale tensione che dopo 11 giorni mi sono spuntati i primi capelli bianchi, e avevo solo 24 anni — è stata la Traviata del 1984 al Maggio musicale fiorentino con la regia di Franco Zeffirelli, diretta da Carlos Kleiber. Tutti mi aspettavano al varco. Ero talmente livida, e non solo per il trucco, che il maestro Kleiber mi prese le mani e mi disse: “Non ti preoccupare di nulla, stasera sono tuo padre”. Tutte le sere si vive questo travaglio, poi sali sul palco ed è come se ti facessero una anestesia totale». 

La sua carriera è iniziata in modo anomalo, vero?

«Studiavo canto da pochissimo e non volevo fare la cantante, ma la mia insegnante mi iscrisse a un concorso della Rai intitolato a Maria Callas. Su circa 380 concorrenti vinsi io, avevo 20 anni, ero la più giovane. Mi trovai catapultata in un mondo bellissimo ma che non mi sarei mai aspettata di frequentare».

Perché dice che l’aspettavano al varco?

«Sono stata molto bersagliata perché giovane, non mi perdonavano molte cose. È un mondo feroce il nostro: i melomani hanno i loro beniamini e non si può piacere a tutti.

Fa parte del gioco accettare i fischi. Bisogna sempre chinare il capo e ringraziare. A volte uno se li merita pure». 

Le è mai successo?

«Due volte, la seconda me li meritavo tutti: non avevo cantato bene, avevano ragione». 

Da spettatrice riuscirebbe mai a fischiare qualcuno?

«No, assolutamente. Purtroppo o per fortuna so quanta fatica fa un cantante per arrivare dove arriva. Tendo a perdonarlo. Come direttrice teatrale chiedo invece massima serietà e professionalità». 

Divismi? Ne ha visti?

«I cantanti più famosi sono di solito i più professionali e umili. Poi ci sono quelli che hanno amuleti e rituali: uno aveva con sé un altare pieno di crocifissi, un altro doveva entrare sul palco sempre con lo stesso piede, un altro ancora si scolava una bottiglia di vino prima di andare in scena. Io non sono scaramantica ma bisogna capirli, i cantanti. Sono legati alla voce: ogni mattina emetti i primi suoni e speri che tutto funzioni». 

(…)

È tra le poche donne chiamate a dirigere una fondazione lirico sinfonica.

«Qualcuna c’è... penso alla dottoressa Purchia che dirigeva il San Carlo. Io sono la prima cantante a farlo. Le donne si stanno occupando piano piano anche di queste mansioni. Siamo tantissime donne in Arena, ben quattro si chiamano Cecilia, dobbiamo chiamarci per cognome per non fare confusione. In sovrintendenza siamo solo donne: nessuna scelta di campo, solo le ragazze che si erano presentate per quelle posizioni sembravano più adatte dei colleghi uomini. E infatti sono bravissime».

Si è parlato di una sua rivalità con Katia Ricciarelli.

«In realtà siamo molto amiche. Quando cantavamo lei aveva già 15 anni di carriera alle spalle, era affermatissima. Mai state rivali, avevamo repertori diversi. I soprani tra loro tendono a non amarsi, ma c’è posto per tutti». 

Andrebbe mai al «Grande Fratello» come ha fatto lei?

«No, non credo proprio». 

Un ex collega che le è caro?

«Ho imparato da tutti, ma cito Domingo: l’ho conosciuto quando avevo 17 anni e facevo la comparsa. Lì ho visto come si comportava in teatro: era gentile con tutti e non solo con i cantanti». 

È accusato di molestie. Cosa ne pensa?

«Preferisco evitare questo argomento». 

Renata Tebaldi?

«Avevo un bellissimo rapporto: era nella giuria che mi selezionò al concorso Rai. All’inizio della mia carriera debuttai alla Scala per sostituire Montserrat Caballé: nessuno voleva farlo, chiesero a me che avevo 21 anni ed ero quindi pazza. Renata venne in camerino per farmi l’in bocca al lupo: indossavo un costume che era stato di Maria Callas, originale del 1957. Mi regalò una catenina d’oro con l’effige di santa Cecilia da cui non si era mai separata, come buon augurio per la mia carriera».

Funzionò.

«Alla grande. Se canti alla Scala e non vieni buttato fuori dai fischi si può dire».

A chi deve dire grazie?

«Al maestro Muti, il primo che mi volle sentire, un mese dopo la vittoria del concorso: mi scritturò subito al Maggio. Nel 2021 è tornato in Arena e mi ha fatto una bellissima dedica: “A Cecilia, con antica amicizia”. Ho avuto la fortuna di cantare per i più grandi direttori: lui, Abbado, Carlos Kleiber, Prêtre, Karajan». 

Ha notato una cosa? Sono tutti maschi.

«Ma ho cantato anche per delle donne, oggi poi le direttrici sono tantissime». 

È in corso da tempo una polemica anche politica con il sindaco di Verona. Come stanno le cose?

«I rapporti di collaborazione con il Comune sono precisi e puntuali». 

Eppure tutto è finito in tribunale... (Non commenta...) Mai tentata di tornare a cantare in pubblico?

«No, vorrei lasciare un bel ricordo. Non ho abbandonato lo studio, ma ormai canto in bagno, lo faccio solo per me».

Celine Dion, il dramma: malattia insostenibile, decisione estrema. Libero Quotidiano il 21 agosto 2023

Il dramma di Céline Dion sconvolge i fan e tutto il mondo della musica. La grande cantante canadese, 55 anni, la voce forse più famosa e acclamata al mondo tra anni Ottanta e Novanta, potrebbe essere costretta a ritirarsi dalle scene. Le sue condizioni di salute, infatti, si sarebbero aggravate progressivamente tanto da non consentirle più di esibirsi in pubblico.  

Per anni le voci sul suo conto si sono rincorse. Sempre più magra, alla Dion nel 2022 è stata diagnosticata la "sindrome della persona rigida", nota anche come sindrome di Moersch-Woltman. Per questo motivo a maggio aveva già annullato le date rimanenti del suo tour. Ora però, secondo quanto riferito da Radaronline, ci sarebbe stato un ulteriore aggravamento, L'indimenticabile interprete di My Heart Will Go On, la canzone simbolo del blockbuster Titanic che ha segnato un'epoca a fine anni 90, è martoriata dagli spasmi muscolari che ne hanno condizionato irrimediabilmente anche la postura. 

Irrigidita e debilitata, la Dion non è più in grado di reggere fisicamente un intero concerto. "Non riusciamo a trovare nessuna medicina che funzioni, ma avere speranza è importante", aveva commentato qualche tempo fa la sorella Claudette, intervistata dal Journal de Montreal. Quella che ha colpito l'artista è infatti una malattia rarissima, che colpisce una persona su un milione. In tanti avevano associato la sua magrezza e le sue sempre più inquietanti apparizioni pubbliche al dolore per la morte del marito René Angelil, sposato nel 1994 e scomparso nel 2016 a 74 anni. 

Cesare Cremonini, svelata la nuova fiamma: è Giorgia Cardinaletti del Tg1. Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023

Il settimanale «Chi» parla di «amicizia più che affettuosa» fra l’ex Lunapop e la 35enne giornalista, esperta di cronaca e politica. Il primo incontro a settembre dell’anno scorso per un’intervista, poi a novembre lui l’ha invitata al suo concerto 

Galeotta è stata l’intervista che lei gli aveva fatto a settembre dell’anno scorso per la presentazione del singolo «Stella di Mare». Poi, un paio di mesi dopo, lui l’aveva invitata al suo concerto per ringraziarla e da quel momento (immortalato anche da una foto di loro due abbracciati, pubblicata da lei su Instagram) è stato amore fra Cesare Cremonini e la giornalista Rai Giorgia Cardinaletti. A confermare l’indiscrezione che circola da inizio aprile è stato il settimanale «Chi» nel nuovo numero in edicola.

«La musica d’autore italiana va a braccetto con il giornalismo politico - riporta la rivista in un articoletto dal titolo “Musica e Tg1”, ripreso dal giornalista Giuseppe Candela su Twitter - come anticipato due settimane fa da Chi, il cantante Cesare Cremonini ha stretto un’amicizia più che affettuosa con una giornalista di punta della Rai. Ora è in grado di rivelare il nome della nuova fiamma del popolare cantautore. Si tratta di Giorgia Cardinaletti, 35 anni, conduttrice del Tg1 delle 20, esperta di cronaca e di politica». Entrambi molto riservati, per il momento i diretti interessati non hanno commentato, ma il fatto che non sia arrivata una smentita alla notizia, potrebbe risultare una conferma implicita della relazione in corso fra i due.

Prima della Cardinaletti, l’ex Lunapop era stato legato a Martina Margaret Maggiore per due anni e mezzo, poi era arrivata la rottura improvvisa, annunciata da lei a giugno sui social con un messaggio che lasciava spazio a pochi dubbi. «Le corna sono come le scarpe: tutti nella vita ne hanno un paio», aveva infatti scritto la Maggiore che a gennaio aveva confermato la fine della storia. «Io e Cesare non stiamo più insieme da mesi ormai. Per me rimarrà una persona che ho amato tantissimo e che probabilmente amerò per sempre. È stata una relazione lunga e importante, ma che purtroppo mi ha ferita molto».

Barbara Costa per Dagospia domenica 13 agosto 2023.

Dopo nove anni di preghiere, il Dio del porno si è destato, e ha compiuto questo miracolo: l’ex pornostar Capri Cavanni torna a pornare! Sui set! Sììììì, questa volta è vero, non è un inganno, e il porno rientro di questa bionda ossigenata e osannata da legioni di inesausti e inesauribili fan è online, s’intitola "Thundercock", e il partner maschile che ha l’onore di riaprire le gambe al porno a Capri Cavanni, e di allargarle di nuovo labbra e vagina a più sporchi e violenti piaceri, è Apollo Banks, che una Capri milfona velata a lingerie lilla se la sbatte senza ritegno.

Capri Cavanni è tornata, ma dove se n’era andata? La signora aveva sbattuto le porte al porno nel lontano 2014, quando su Twitter, con un cinguettio incaz*ato, se l’era presa con “agenti falsi, p*ttane false, io ne sono stufa!!!”. In seguito, erano usciti suoi altri porno, compresa una blowbang a cinque interracial, ma poi Capri era scomparsa dai social e da ogni piattaforma porno, rendendo palese il suo ritiro. 

I fan l’hanno porno pianta a lungo, alcuni accarezzando inconsulte idee di porno harakiri, pochissimi tradendola con altre pornostar vagamente a lei somiglianti. In molti per mesi hanno attaccato i peni alla speranza che Capri ci ripensasse, che tornasse, che il suo fosse nient’altro che un colpo di testa assolutamente perdonabile. Ma Capri per nove anni ha sbarrato vulva e l’intera bottega al porno professionale. 

Più fonti hanno vociferato circa un suo investimento imprenditoriale non porno finito male, come anche di una sua liaison importante con un uomo contrarissimo a "dividerla" con il porno. In realtà Capri Cavanni del suo irresistibile corpo ha fatto impiego autonomo in anfratti di sesso lavorativi quali l’hot camming, ed è stata tra le pioniere dei video a richiesta e personalizzati e a pagamento su OnlyFans, quando pochi conoscevano l’esistenza e le potenzialità di questo non solo ma anche sex social. 

Capri Cavanni è una pornostar atipica perché ha stregato e a sé imprigionato stuoli di peni e ormoni di maschi innamorati del suo fisico, e più del suo c*lo strettissimo e senza un difetto che sia minimo, pur senza averlo mai accordato – il c*lo, intendo – a penetrazioni non dico multiple, ma anali in assoluto. La signora Capri Cavanni è, almeno per quanto riguarda il porno sui set, di deretano vergine, e infatti, lei stessa l’ha sempre nelle interviste ribadito, che nel suo di dietro col suo consenso al massimo potevi metterci un dito, e stop.

Posso sbagliarmi, ma non mi sembra sia mai venuta meno a questo suo proposito, i suoi devoti fan in chat me lo confermano, e mi dicono pure che Capri Cavanni, quando ha iniziato, nel lontano 2008, si era pure messa in testa di fare esclusivamente porno lesbico. I porno con sole donne riempiono il suo curriculum nella sua prima parte, perché il suo agente le ha fatto presto cambiare idea: il porno lesbo è ben pagato ma pagato inferiormente. Per ben più lauti guadagni ti devi porno cavalcare i maschi, è coi maschi che ti devi dare da fare, e se lo sperma ben contenta ingoi, bei soldi in banca puoi accumulare.

Capri Cavanni ha incantato un suo sterminato seguito pagante in poco tempo. Ha avuto dalla sua l’entusiasmo, la reale passione genuina nel dimenarsi porno dopo porno, e specie nell’oralità, e a più riprese nei porno realizzati col suo grande amico Lexington Steele. Capri Cavanni è entrata nel porno dopo cinque anni di università, facoltà di veterinaria, pagati col suo lavoro di modella di nudo, alternato a lingerie. Capri è canadese, di madrelingua francese, ed è nata e cresciuta vicino Vancouver da una famiglia di inequivocabili radici italiane: il suo vero nome all’anagrafe è Angela Terrano.

Ha tre sorelle. Quando ha fatto il suo ingresso nel porno, il porno era tutt’altra realtà, gli studios mettevano ancora sotto contratto esclusivo le pornoattrici tramite accordi che duravano anni. Capri Cavanni è stata a lungo sotto contratto Vivid, studios assumente fanciulle con temperamento e bellezza travolgente. Ai tempi era normale che uno studios cambiasse a suo piacimento l’immagine di ogni ragazza messa sotto contratto. Poteva dire la sua fin dalla scelta del nome d’arte.

Ai suoi esordi, Capri Cavanni ha recitato sotto il nome di Angel Rose, e di Anna Momai, per poi mutarsi in Capri Cavalli e essere per tale opzione costretta a modificarlo per richiesta – dicono, ma sarà vero? – dell’entourage del più celebre stilista. Capri Cavanni ha iniziato mora, i seni sono stati rifatti prima e dopo il suo passaggio al porno, il resto è rimasto intatto.

Enorme successo l’ha ottenuto partecipando al porno corale "M*gnotta di Wall Street", la porn parody del "Lupo di Wall Street" di Martin Scorsese. Oggi, da milf 41enne, si ripropone in uno sfolgorio che, se non immutato, conquista fan vecchi e nuovi con alti voti (ehi, sta da dio, ha vari recenti grossi tatuaggi, e sono intervenute punturine, certo, e un po’ di cellulite spunta sul c*lo, ma ci sta!). 

Capri Cavanni ha pronte cinque nuove scene online. Diamoci pace perché, pure qua, anale sembra zero. Nel porno, c’è solo una stimolazione che persuade le pornostar le più ritrose a far sudare le chiappe: money, money, money.

Charlize Theron, talento e bellezza. Buon compleanno all'attrice sudafricana! Un'infanzia difcile, le passerelle, il cinema e l'Oscar. Una carriera da brividi ed emozioni. Simona Santoni su Panorama il 7 Agosto 2023

Diventata famosa in Italia per il suo fondoschiena che pian piano si rivelava nella pubblicità del Martini, Charlize Theron è stata capace di affrancarsi dall'immagine di bella e basta per diventare un'attrice di razza. Bellissima. Probabilmente non è un caso se si è meritata un Oscar proprio quando ha scelto di deturparsi per finzione, prendendo 15 chili e imbruttendosi a suon di trucco, immedesimandosi nella serial killer Aileen Wuornos in Monster (2003), film di cui è stata anche produttrice. Oggi la biondissima attrice sudafricana naturalizzata statunitense compie 40 anni e guardandosi indietro c'è un red carpet di ruoli intriganti e variegati, film non sempre riusciti ma interpretati con passione e talento. Donna di avvenenza statuaria, elegante ma sempre pronta a un sorriso, schietta, autonoma e impegnata, dopo la rottura con Sean Penn ha recentemente adottato un secondo glio, una bimba di nome August. Nel 2012 aveva già adottato un maschietto di nome Jackson. Alle sue spalle un'infanzia difficile: ha assistito all'omicidio del padre alcolizzato da parte della madre per legittima difesa. È stata proprio la mamma la prima a credere in lei e portarla in Italia, lasciando da parte gli anni a mungere mucche nella fattoria sudafricana di Benoni. Da Milano a Los Angeles, la sua carriera cinematografica ha avuto inizio con Due giorni senza respiro (1996), in cui la sua grazia mozzafiato seduce James Spider. Con L'avvocato del diavolo (1997), accanto a Keanu Reeves e Al Pacino, arriva la celebrità. Nel 1999 è The Astronaut's Wife - La moglie dell'astronauta, ovvero Johnny Depp; con Tobey Maguire stabilisce Le regole della casa del sidro. Ne La leggenda di Bagger Vance (2000) è una ragazza travolgente che fa tornare la voglia di vita a Matt Damon, mentre per Woody Allen è una spregiudicata femme fatale in La maledizione dello scorpione di giada (2001). Mora e non meno seducente e letale, eccola eroina d'azione in Æon Flux - Il futuro ha inizio e poi detective risoluta e dal forte senso di giustizia in Nella valle di Elah. Recentemente ha tirato fuori tutto il suo fascino nero come strega cattiva di Biancaneve e il cacciatore (2012). Rasata, sporca di grasso e con un braccio solo, ha tolto i riflettori a suon di charme e bravura a uno che di bravura e charme ne ha da vendere, Tom Hardy, in Mad Max: Fury Road, l'ultima cavalcata folle nel deserto post-apocalittico di George Miller. In un'intervista passata, quando le è stato chiesto della morte del padre, Charlize ha risposto: "A tutti sono capitati momenti in cui si deve scegliere tra nuotare e affogare. Talvolta ci troviamo a nuotare e ci sorprendiamo che ci venga benissimo" . A quarant'anni Charlize nuota e nuota ancora, meravigliosamente. Una magica ed emozionante meraviglia.

Estratto dell'articolo di Simona Marchetti per corriere.it mercoledì 15 novembre 2023.

Ha capito che voleva fare la cantante quando, da bambina, guardava i cartoni animati della Disney e in sessant’anni di carriera Cher non si è mai pentita di quella decisione. […] 

Talento e fortuna a parte, grande merito per la sua carriera lo ha avuto anche la madre Georgia Holt, scomparsa alla fine del 2022 all’età di 96 anni. «Mia mamma mi ha sempre incoraggiata tantissimo - continua la cantante, con un’inedita capigliatura rosso fuoco, nell’intervista a Silvia Toffanin - . Io sono dislessica e da bambina a scuola avevo grandi difficoltà, non riconoscevo i numeri, perché mi sembravano zampe di gallina. Mia mamma mi disse che da grande qualcuno avrebbe fatto i conti per me». E così in effetti è stato. Durante la chiacchierata transoceanica con “Verissimo” Cher […] ha poi parlato del fidanzato Alexander Edwards, che ha 40 anni meno di lei.

«L’amore è importante nella mia vita, come in quella di tutti - ha ammesso l’artista - Io e Alexander ci siamo conosciuti l’anno scorso alla settimana della moda di Parigi. Qualche tempo dopo l’ho incontrato in uno show ed è finita lì. Poi la mia amica gli ha dato il mio numero e lui ha iniziato a scrivermi. Dicevo sempre alle mie amiche di non uscire con uomini molto più giovani o più vecchi e di non innamorarsi via messaggio. Poi è esattamente quello che ho fatto io». 

Da sempre icona Lgbtq+, anche in questa occasione Cher ha ribadito la sua lotta a favore dei diritti della comunità gay e lesbo. «Ho sempre lottato per i loro diritti. Ci sono persone orribili divorate dalla voglia di far soffrire altri. Nel mio paese molte persone come me lottano per supportare la causa della comunità. Personalmente mi sono sempre sentita vicina a loro, perché ogni volta che mi sono trovata in un momento buio non mi hanno mai lasciata sola».

Da repubblica.it il 27 dicembre 2022.

Cher si è fidanzata? La cantante e attrice premio Oscar per Stregata dalla luna ha scatenato il gossip postando su Twitter la notte di Natale la foto di un anello con gigantesco brillante che il boyfriend Alexander A.E. Edwards, produttore musicale, le ha fatto trovare sotto l'albero. 

Lei ha 76 anni, lui 40 di meno. E subito sono scattate le indiscrezioni secondo cui la 'dea del pop' avrebbe indossato il gioiello all'anulare della mano sinistra. Cher non ha fornito molti elementi se non aggiungere un "non ho parole" a corredo della foto e poi la spiegazione: "L'ho messa perché le sue unghie sono molto cool", ed effettivamente sono inconsuete le unghie smaltate di verde e di nero dell'impresario musicale che regge l'astuccio con il prezioso regalo. 

È da settembre, da quando si sono conosciuti alla settimana della moda di Parigi, che circolano le voci sulla relazione tra Cher e Alexander. Se si sposeranno, lei sarà al terzo matrimonio: dopo le brevi nozze con Gregg Allman (famoso per aver fondato la Allman Brothers Band insieme al fratello Duane a metà anni Settanta) e prima ancora con Sonny Bono, l'altra metà del duo folk-rock anni Sessanta di I Got You Baby.

Nel frattempo lei ha avuto numerose altre love story, alcune con uomini famosi come Gene Simmons, Tom Cruise, Val Kilmer, Richie Sambora e Warren Beatty. E due figli: il 4 marzo 1969 è nata Chastity Sun Bono che nel maggio 2010 ha completato il percorso del cambio di sesso, diventando a tutti gli effetti Chaz Bono. Il suo percorso è stato immortalato nel documentario Becoming Chaz, uscito nel 2011. Il 10 luglio 1976 è nato il figlio Elijah Blue Allman. Entrambi i figli sono più vecchi del nuovo boyfriend e forse fidanzato. 

Alexander, che è vicepresidente dell'etichetta discografica Def Jam Recordings, esce a sua volta da una relazione con la modella ed ex di Kanye West, Amber Rose (39 anni), da cui tre anni fa ha avuto un figlio e che, per ammissione di lei, avrebbe tradito con almeno 12 donne diverse.

In novembre, dopo esser stata fotografata mano nella mano con Alexander, Cher aveva confermato la nuova storia d'amore: "Sulla carta è ridicolo", aveva detto a proposito della differenza di età: "Ma nella vita reale andiamo bene. Lui è favoloso e di solito non dò agli uomini qualità che non meritano". 

Cher aveva aggiunto che se non avesse incontrato uomini più giovani non avrebbe mai avuto una relazione: "Ai miei coetanei non piaccio molto. Mentre ai giovani non importa se sei buffa o stravagante, o vuoi fare stupidaggini e hai una forte personalità. Non rinuncerei alla mia personalità per nessuno", aveva detto la cantante. 

Nella nuova coppia non ci sono solo 40 anni di differenza: i due milioni di dollari della fortuna di Alexander impallidiscono di fronte ai 360 milioni di Cher: "Come tutti sanno non sono nata ieri. E quello che so di sicuro e che non ci sono garanzie", aveva replicato l'artista a un fan che, su Twitter, aveva messo in dubbio le intenzioni del nuovo boyfriend.

La padrina.  Cher è un’attrice più brava di De Niro, e altre classifiche sonciniane. Guia Soncini su L’Inkiesta il 13 Gennaio 2023.

Ogni volta che viene pubblicata una lista sui giornali c’è qualcuno che si scandalizza e fa partire il «Ma tu guarda questi scemi». Perché non c’è una lista, su qualsivoglia tipo di prodotto, con cui sia d’accordo qualcuno che non è quello che l’ha compilata

Per fortuna non ho mai avuto niente a che fare col giornalismo; almeno, di tutte le paranoie che m’affliggono mentre mi accingo a scrivere ciò che ho per settimane custodito gelosamente nel mio cuoricino, non avrò quella di partecipare al più diffuso genere giornalistico di questo decennio, quello denominato «Ma tu guarda questi scemi».

Dicesi «Ma tu guarda questi scemi» l’articolo in cui un autore – il cui valore professionale è: in anni in cui i giornali erano una cosa seria sarebbe stato messo a compilare le previsioni del tempo – la spara grossissima. Roba tipo: ho visto per la prima volta “Via col vento” e non capisco cosa ci troviate tutti. Oppure: il disco di Achille Lauro è meglio di qualunque cosa mai incisa da Prince.

Il matuguardaquestiscemismo ha una logica impeccabile; Chris Rock direbbe: biafrana. Chris Rock, miglior comico vivente, nel suo spettacolo che a marzo sarà su Netflix dice che siamo così affamati d’indignazione che siamo biafrani dell’indignazione. Quindi: più tu sei disposto a far la figura dello scemo, più io cliccherò.

Gli articoli online, più che al giornalismo, somigliano a Paperissima: certo che sono disposto a scivolare, a fare una figuraccia, persino a rischiare di farmi male, se in cambio arrivano i picchi di share. Quindi: per fortuna io invece faccio letteratura. (Questa è la parte che serve immortalare per allegarla al vostro tweet «quella mitomane di Soncini»).

Il modo più certo per fare dell’efficiente matuguardaquestiscemismo è una classifica. Esiste una classifica, al mondo, su qualsivoglia tipo di prodotto, con cui sia d’accordo qualcuno che non è quello che l’ha compilata? Non riusciamo a metterci d’accordo sulla migliore pizza, figuriamoci sul miglior libro. Tu mi dici il meglio per te, io penso «ma tu guarda questo scemo, lo sanno tutti che il meglio è quello che dico io», e clicco, e giro il link agli amici, e alimento l’indignazione e il tuo successo.

Quando è morto Lucio Dalla, la prima cosa che ho pensato non è stata: non avremo mai più un’altra “Il parco della luna”; non è stata: non sono mai stata a un suo concerto, imbecille che sono; è stata: ora si vergogneranno. La prima cosa cui ho pensato è stata una classifica per cui anni prima m’aveva chiesto di votare Rolling Stone: i cento dischi migliori della storia della musica italiana.

Come tutte le persone sensate, il mio primo disco era il Dalla del 1980, però la classifica finale era una media tra persone perlopiù insensate, e quindi aveva vinto qualcun altro (forse Vasco, vatti a ricordare). Mi pare che Dalla fosse ottavo o giù di lì: ero furibonda vedendo il risultato da vivo, e tutta un «ve l’avevo detto» da morto. Chissà se si sono vergognati, o se hanno pensato: e noi che potevamo saperne che Vasco, con tutto quel che ha fatto per morire giovane, campava più a lungo di Dalla.

Qualche settimana fa l’edizione americana di Rolling Stone ha fatto una classifica delle duecento migliori voci della storia della musica (anzi: cantanti, hanno precisato che si trattava di cantanti e non di voci; chissà con cosa si canta). Come tutte le classifiche, era fatta per farsi dire: ma tu guarda questi scemi.

Tuttavia, poiché viviamo in una strana epoca, che al tempo stesso è nostalgica del passato e feticizza il presente, nessuno s’è scandalizzato per ciò per cui mi sarei scandalizzata io, fossi una che si scandalizza: Frank Sinatra era dieci posti dietro a Beyoncé. Si sono indignati per l’assenza, dai duecento, di Céline Dion. I fan della Dion pare siano andati in redazione a chiedere il riconteggio (quanto tempo libero, che invidia).

E quindi, dopo questo milione di righe di premesse, posso nascondere qua in fondo il mio maguardaquestiscemismo. Avevo resistito mesi al chiacchiericcio su “The Offer”, la serie coi sosia del Bagaglino che racconta le difficoltà incontrate nel riuscire a produrre il primo Padrino. Qualche settimana fa ho ceduto.

La serie è un delirio di casting sbagliato: c’è il pediatra di “Grey’s Anatomy” che fa Marlon Brando, e non credo di dover aggiungere molto. Forse solo una cosa, che però bisogna conoscere la Hollywood degli anni Settanta per capire: Bob Evans – l’uomo più brutto ma più fascinoso dell’epoca – e Ali McGraw – che cinquant’anni dopo è ancora la donna più bella del mondo – sono interpretati da un attore bello e da un’attrice sciapa. Insomma, un mezzo disastro, che però mi ha fatto andare a rivedere non solo i primi due Padrino, che avevo già visto più volte di qualunque altro film, ma anche il terzo, che forse avevo guardato da piccina e poi mai più.

Saprete già quel che si usa dire tra gente che si dà il tono di chi ne capisce: il terzo Padrino è una schifezza, ma il secondo, il secondo è forse l’unico séguito che sia meglio dell’originale. Un’affermazione che mi ha sempre fatto dare delle testate contro il muro: nel secondo Padrino, Robert De Niro fa Marlon Brando da giovane. Chiunque pensi che De Niro sia un degno giovane Brando è evidentemente sordocieco (spero questa frase non venga tacciata d’abilismo: non vorrei diluire le ragioni d’indignazione).

Ora. Guardando il terzo film – di un kitsch assoluto: è impossibile non passare il film a chiedersi dove sia Gabriel Garko, se Al Pacino sia sempre stato così cane, e chi sia lo stagista che ha scritto Connie come tre personaggi completamente diversi nel primo nel secondo e nel terzo film – io mi sono detta: sì, d’accordo, ti chiedi tutto il tempo «Ma dove volete andare, senza Brando», ma non è che una non se lo chieda anche durante il secondo film.

Tuttavia non avrei espresso pubblicamente questa mia posizione, se non avessi per pura coincidenza rivisto “Stregata dalla luna”. “Stregata dalla luna” è una commedia romantica dell’87: tredici anni dopo il secondo Padrino, tre anni prima del terzo. Cher interpreta un’italoamericana, vedova, che sta per sposarsi con un uomo e s’innamora del di lui fratello.

Se guardate il secondo Padrino con l’audio originale, nelle parti di flashback in cui De Niro è il giovane Vito Corleone non capirete una parola. De Niro parla con gli altri italoamericani in quello che dovrebbe essere l’italiano di casa, la lingua appresa da piccolo, prima d’arrivare a Ellis Island. Solo che colui inspiegabilmente equivocato come il più grande attore dei suoi tempi è stato incapace di procurarsi un accento italiano, e quindi parla come quel che è: un anglofono che ha imparato delle battute in una lingua che non conosce e le pronuncia naturalmente con un accento americano, però le biascica sperando che così si senta meno che non ha studiato la parte.

L’unica cui viene concessa una sciatteria del genere, in “Stregata dalla luna”, è la madre morente del quasi sposo, che sul letto di morte dice, con accento e sintassi americana, «Quanto io devo aspettare?» (oltretutto sarebbe l’unica che vive ancora in Sicilia, e che quindi non ha ragioni per l’accento anglofono). Tutti gli altri hanno il suono di gente per cui l’italiano è la prima lingua. Persino Olympia Dukakis, che è greca, sembra italiana; persino la vecchia che Cher incontra in aeroporto e le dice d’aver lanciato una maledizione sull’aereo, persino lei che ha una sola scena, persino lei parla italiano come un’italiana. E sì, lo so che Cher ha vinto un Oscar per quel ruolo, tuttavia nessuno pensa a lei come a una grande attrice (evidentemente neanche come una grande cantante: non è tra i duecento nomi della classifica di Rolling Stone, eppure nessuno s’è indignato, mi pare).

Cher – che è armena – fa l’italiana meglio di come De Niro – simbolo massimo degli italoamericani, almeno finché non è arrivato Tony Soprano – facesse l’italiano. Cher è un’attrice migliore di Robert De Niro. Ma per fortuna, con cento righe di premesse, non rischio che qualcuno si accorga di quest’affermazione e volantini questo articolo per dire che sono una scema nonché ignorante, una che dovrebbe scrivere di uncinetto e ricami, il simbolo del declino dei giornali e la causa del rivoltarsi nella tomba di Pauline Kael. Per fortuna in questo secolo si legge solo il titolo.

Estratto Dell'articolo di Viola Giannoli per “la Repubblica” il 12 gennaio 2023.

Il dossier sulle molestie nello spettacolo, scoperchiate dall'associazione Amleta e oggi al centro del Me Too italiano, si trova da due mesi anche sul tavolo del ministero della Cultura. 

Ma i codici non bastano. Davanti ai racconti di interpreti che si sono trovati sul set a contatto con corpi interamente nudi, senza consenso nonostante fosse previsto un perizoma, «serve un intimacy coordinator che nelle scene di sesso garantisca uno spazio sicuro per gli attori. Una figura che compare sempre nelle produzioni internazionali, mai in quelle italiane», dice De Martini.

 Ci sono poi le denunce dei provini di notte, in solitaria, che si trasformano in incubi.... 

Estratto dell'articolo di Romina Marceca per “la Repubblica” il 12 gennaio 2023.

La verità indigesta è «sapere che mentre parlo chissà quante altre colleghe sono vittime di molestie nei teatri». Chiara Claudi, attrice di teatro, cinema, vocal coach, è tornata in scena dopo «cinque anni di blocco». A intralciare la sua carriera sono state le molestie sul palcoscenico da parte di un attore, regista e produttore italiano molto noto.

 L'attrice negli anni ha lavorato con Mario Missiroli, Luca Ronconi, Luca Barbareschi, Massimo Foschi, Andrea Jonasson, Filippo Dini. Al cinema con Pier Francesco Pingitore e Paolo Virzì. «La mia carriera era in ascesa, poi - dice - è arrivato lui».

 Cosa è successo?

«Quella parte era un'occasione dopo l'accademia Silvio D'amico e tante tournée. Durante una replica, lo shock. La scena prevedeva che appoggiasse una guancia sul mio petto invece lui ha afferrato un seno e gli ha dato come un morso. Ho reagito dandogli un pugno in testa e, subito dopo, una carezza per non destare dubbi nel pubblico. A fine spettacolo successe il putiferio».

 La aggredì?

«Iniziò a sbraitare con una violenza tale che, dopo, vomitai. La compagnia era in cerchio, lui mi urlò che ero una ragazzina cretina, che dovevo portare rispetto, che lui era un grande professionista. Mi chiese di raggiungerlo il giorno dopo per parlare da soli. Ma l'indomani chiamò la sua assistente chiedendomi di non andare, di scusarlo perché era stanco, di non prendermela per quell'ira. Le ho detto che mi faceva pena. Lei, donna, si stava mettendo dalla parte del genere sbagliato».

 I suoi colleghi?

«Mi dissero che lui è fatto così. Erano ipnotizzati dal suo potere, non volevano perdere il lavoro».

 Non c'erano state avvisaglie?

«Aveva sempre avuto un atteggiamento viscido e provocatorio con frasi molto spinte, già quelle inaccettabili. Ma non c'era mai stato un contatto fisico».

 Rinunciò alla parte?

«No, avevo firmato un contratto. Ma è stato doloroso dover rimanere, avevo il terrore quando andavo in scena. Un anno di paura. Lui riprese a urlarmi e a dirmi che ero l'unica attrice che non la dava. Un giorno mi afferrò la testa dietro le quinte e mi disse cosa avrebbe voluto farmi. Non ce la facevo più».

 Ha denunciato?

«No, ero sola davanti a un colosso.

(...)

Chiara Francini: «Basta immobilismi in cui si frigna, è ora di muoverci». Scrive libri, sale sul palco, va in tv, gira film. Praticamente un vulcano con l'accento toscano. Che non teme mai di dire quello che pensa. «Alle donne manca l’educazione al potere. Io agisco ogni giorno per quello in cui credo». Beatrice Dondi su L'Espresso l'11 Ottobre 2023  

Fuori luogo, fuori dai denti, fuori misura. Così si descrive Chiara Francini nel suo quinto libro, “Forte e Chiara”, e così si mostra sempre, come una fiera di paese piena di colori e profumi, da cui pescare di banco in banco oggetti e sapori a sorpresa, per riempire un paniere mai colmo. Attrice, conduttrice, autrice, scrittrice, Francini fa tutto, tocca tutto, ride, si commuove e si racconta. «Scrivere un romanzo è un atto di incoscienza e coraggio, significa sentirsi un po’ Dio. È mettersi a nudo, far vedere tutto quello che ho dentro, ma, venendo dalla merda, sono abituata». La definisce merda, in realtà il suo essere una ragazza di provincia, una «paesana» è la terra a cui attinge, come Tara per Rossella. «Ho avuto un’infanzia straordinaria ma volta al sacrificio e al dovere. Mia madre è moderna e lavoratrice e al tempo stesso molto tradizionalista: il fatto che io abbia la lavastoviglie la fa soffrire, fosse per lei andrebbe ancora a lavare i panni al fiume. E questo suo essere un po’ un chiasmo l’ho assorbito anch’io. Non mi vergogno né oggi né ieri. E quindi sono ancora felice di quello che ho. Io dico sempre che ognuno è quello che ha mangiato da piccina». E tutto questo, il risultato di questa strano amalgama dagli occhi enormi, che esce di casa con la prima maglietta trovata nell’armadio, senza un filo di trucco e una luce che le viene da dentro, come quelle che restano accese nella sua casa tutto l’anno, ha una presa forte sul pubblico, su chi la legge, la guarda e l’ascolta. 

«Credo di piacere alla gente perché sono sincera, parlo di cose autentiche e condivisibili, che nascono dalla mia formazione. Io non mi sono smemorata, il corpo ha una memoria e oggi faccio quelle cose che mi rendevano felice da piccola».  

Non fuma Chiara, non beve, ma mangia, con l’entusiasmo proprio dell’infanzia. «A proposito cara, puoi portarmi una briochina?», chiede mentre parla,  sorride, si guarda intorno e si concede con una naturalezza sconcertante ai diversi gruppi di ragazzi che le chiedono una foto. Un entusiasmo a tratti contagioso, di una donna che ha contezza di sé. «Ah quello sempre. Pregi e limiti. Serve chiarezza sugli ingredienti che hai, così poi puoi capire che tipo di cena puoi cucinare e poi fare di necessità virtù. Io sono certa del fatto che la consapevolezza di sé sia l’unica possibilità di felicità che hai. Anche se non hai avuto un’infanzia molto bella come la mia devi imparare ad amare la realtà che hai a disposizione».  

L’infanzia, la mamma, il babbo, la nonna, lo zio. La famiglia di Chiara Francini è una parte costitutiva del suo essere, ne scrive, li cita, li ricorda. «Pensavo che se fossi stata la prima della classe mi avrebbero voluto più bene. Tutti noi vogliamo rendere fieri il babbo e la mamma», dice, mentre squilla il cellulare all’improvviso: «Dai mamma non posso sono con una giornalista de L’Espresso».

Chiara Francini gira l’Italia, in continuazione, per presentare i suoi libri e guardare in faccia i suoi lettori, uno per uno. E poi le tournée teatrali, un amore che non passa («Io sono egotica ma il principale bisogno è essere amata: per questo amo il teatro perché è un dialogo carnale vivifico, in fieri col pubblico».). Tanto cinema, quasi trenta film tra cui l’ultimo di Leonardo Pieraccioni in uscita il prossimo anno e “Addio al nubilato 2 – L’isola che non c’è” di Francesco Apolloni su Prime Video dal 17 ottobre («Cinema o piattaforme? Ah per me è uguale, io sono da bosco e di riviera»).  

Sul piccolo schermo la sua è un’occupazione in senso buono che viene da lontano: «Amo fare la televisione perché è molto sincera, non perdona. E se va male, pace, torni a casa e ti fai un bel maritozzo con la panna. Cerco di scegliere solo progetti che mi facciano crescere, cose in cui io do e altrettanto mi viene restituito. Sono curiosa, amo interagire con gli altri e col mondo che mi circonda». “Love me gender” e la “Domenica in” con Pippo Baudo sembrano due programmi davvero diversi tra loro. In realtà alla base c’è sempre l’ascolto, la curiosità, l’importanza delle relazioni con gli altri.  

Adesso è pronta a partire con la terza stagione di “Drag Race” passata a Paramount +. «Questo programma è la mia casa. Le competenze che porto in giuria? Cervello e tette. Entrambi quarta misura, coppa D. Praticamente una quinta». 

E poi c’è stato Sanremo, con quell’intervento a tarda notte che ha fatto ribollire gli animi. «Allora facciamo chiarezza: non era un monologo sulla maternità ma un’osservazione sul favoloso senso di inadeguatezza, sull’altalena che riguarda le donne e in molte ci hanno voluto leggere questo aspetto. Ma io non ho mai voluto dire che non voglio figli, che li voglio, che non mi vengono. Io ho fotografato una riflessione vera, perché noi siamo imbevuti di questo. Noi bambine cresciamo con l’esempio della Madonna, un modello grande e luminoso». Beh anche abbastanza impegnativo cara Francini . «Ma sì, diciamo abbastanza impegnativo» - sorride. «Però ti viene da pensare a un certo punto che potresti fare un bambino e poi magari il corpo ti fa il dito medio, allora ti dici magari sono sbagliata, oppure poi lo fai e ti rendi conto che non è sto grande miracolo di cui ti avevano parlato tutti e allora ancora di più ti senti sbagliata». Nel solco della famiglia tradizionale, dunque. «No, io sono molto legata alla mia ma credo che famiglia sia un insieme di persone che si tengono per mano. I bambini hanno bisogno di una mamma e di un papà? No, hanno bisogno di amore. Punto. Ed è fondamentale creare un alfabeto dell’amore e questo riguarda tutti i rapporti».  E qui torniamo al tema dell’educazione. «Alle donne manca proprio l’educazione al potere. Quando penso a Elly Schlein o a Giorgia Meloni me le vedo sedute in punta di sedia, mentre i maschi sono sbracati. Noi donne non abbiamo la tradizione di occuparla questa sedia». Praticamente una fotografia su quella che è la condizione della donna oggi.  

Ma quindi Chiara Francini femminista? «Il termine femminismo ha bisogno di essere risemantizzato. No, non sono femminista, io sono femmina, nel senso che sono consapevole di quello che sono le donne, so che io per prima devo fare venti per arrivare a tredici. Sono arrabbiata, certo, ma provo a esserlo in maniera proficua: detesto perdere tempo».  E avere una premier è un buon segnale per questo Paese? «Non abbiamo bisogno di essere contente perché una donna in quanto donna è a capo del governo. Deve arrivare chi vale. Io sono ben consapevole che alle donne vengono date meno opportunità, che vengono pagate meno dei colleghi uomini e probabilmente io stessa guadagno meno di un attore maschio. Ma lo so e lavoro perché questa distanza diminuisca. Basta immobilismi in cui si frigna, è ora di muoverci, sviscerare, parlare. Il dialogo salverà il mondo, serve un lavoro profondissimo di alfabetizzazione. Io odio la matematica ma quando tu impari a memoria un postulato poi quello resta dentro di te e ti serve, tuo malgrado». 

Bisogna parlare, educare, dice la saggia Francini, per creare un mondo in cui nessuno possa temere i lupi in agguato da cui ha messo in guardia il buon Giambruno: «Ma che ti devo dire, io ho sempre avuto una gran fiducia in Cappuccetto Rosso». Anche questa è una forma di politica, un voler vivere la società dal suo interno per cercare di avere voce in capitolo. «Il mio è un alfabeto carnale, non politico. Non voglio mettermi una scritta sulla mano pensando di aver fatto il mio dovere. Io sostengo da sempre la comunità Lgbtqi+ ma preferisco come gesto politico scegliere determinate trasmissioni, scrivere la rubrica sulla Stampa, i miei libri, quello è il mio fare politica, agire ogni giorno per quello in cui credo. Si può fare politica anche scendendo dall’autobus». 

D’altronde ogni volta che Francini apre bocca in tv si scatena il finimondo. L’ultima volta è stata quando a “Carta Bianca” ha letto un passaggio del suo libro sui cosiddetti «sinistri». E apriti cielo. «Non sapevo che sarebbe diventata la fenomenologia della Treccani», dice con la sua risata contagiosa. «Io pensavo a chi non gliene frega nulla degli ideali ma è ricco sfondato, va in giro col Capitale sotto il braccio e si mette in bocca le belle parole solo per apparire. E questo per me è un sacrilegio. Come andare in chiesa a bestemmiare. Credo profondamente che i valori della sinistra debbano fondarsi sull’abbattimento delle disuguaglianze, sulla cultura come strumento di rivendicazione, credo debba parlare agli operai. Io vengo da Campi Bisenzio dove c’è la casa del popolo, sono cresciuta con l’immagine di Berlinguer e di Pertini, insomma vengo da quella roba là. Per me la politica è una cosa seria. Io ho in testa il discorso che Calamandrei fece ai giovani nel ’55 e ogni volta che ci penso piango». E si commuove mentre lo dice, al punto che usando una frase del suo libro viene voglia di chiederle di giocare ad amicizia con lei.  

Ma cosa vuol fare da grande Chiara Francini? «Ah boh, quello che faccio ora, d’altronde sono una donna e posso far tutto».

Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” martedì 5 settembre 2023. 

(…) 

Nonna Orlanda le allungava anche qualche «labbrata», come a Campi Bisenzio viene detto un manrovescio dalla parte della fede nuziale, perché «fa più male».

«Sono cresciuta alla periferia di Firenze, vengo dal contado. Ma in casa l’educazione era una cosa seria. Una volta dissi vaffancuffia e nonna mi diede una labbrata. Ancora oggi quando dico vaffancuffia ho paura». 

E quando ha deciso di fare l’attrice che cosa hanno detto?

«Mamma avrebbe preferito altro, però se lo ricorda bene quando, alle elementari, in una recita feci Santa Caterina e caddi a corpo morto. Le venne un colpo, avevo recitato così bene che pensava mi fossi sentita male». 

Cinque libri, ma tanti film, spettacoli teatrali e tanta televisione. Eppure lei dice di sentirsi più scrittrice che attrice.

«Perché è così, ma sembra che se hai gli occhi grandi, la bocca carnosa, anche se io le chiamo “labbra da ciuco” e il seno grande, non tutti ti prendano sul serio quando decidi di scrivere. Una volta per un romanzo mi consigliarono di mettere, nella quarta di copertina, una foto con gli occhiali da vista, sarei apparsa più credibile».

L’ultima volta che ha pianto?

«Quando è morta Michela Murgia. Mi ha commosso quella lucidità con cui ha affrontato la malattia, l’intelligenza con cui si è avvicinata alla morte. Ho pensato a me, a quelli che mi circondano, ho pensato che aveva ragione Quintiliano quando diceva Credo quia absurdum, cioè credo perché è assurdo. Bisogna credere in qualcosa che non sia razionalmente definibile e non parlo di fede religiosa». 

E l’ultima volta che ha riso fino alle lacrime?

«Mi fa ridere Rollone, uno dei miei gatti, guardi qui come se ne sta sdraiato sul divano. Lui fa i bisogni e si sporca, mi fa tenerezza, è buffo. Forse perché anche io a modo mio, sotto questo atteggiamento così diretto, sono buffa». 

Quando ha capito di saper far ridere?

«Quando frequentavo il Teatro della Limonaia di Firenze mi fecero fare Cleopatra e nel dialogo con il servo, che doveva essere tragico, tutti si buttarono a terra per le risate». 

Come ha conosciuto Frederick?

«In una pausa tra un palcoscenico e l’altro mi misi a lavorare in un’agenzia di comunicazione. Lui era il mio dirimpettaio ma il giorno dopo che ero arrivata chiese al capo di togliermi dal posto dinanzi a lui perché lo distraevo». 

Era vero?

«No, era lui che mi lanciava gli elastici. Quando siamo usciti insieme per la prima volta mi fece trovare una pallina composta da tutti li elastici con cui aveva attentato alla mia incolumità».

Elastico dopo elastico, sono passati diciotto anni.

«Di fila». 

Perché non se lo sposa?

«Perché non voglio estranei in casa». 

Chiara...

«Però adesso che ci penso... magari succede. Il vestito, i fiori, i capelli. Quasi quasi mi sposo». 

Alt. A Sanremo tutti l’abbiamo sentita prendere le difese anche delle donne che decidono di non sposarsi e di non avere figli.

«Quello era un monologo che ero pronta a difendere con le unghie, perché l’ho scritto io. Ma tutti ci hanno visto qualcosa di diverso e forse è questa la sua bellezza. Qualcuno ci ha visto una donna spaventata nell’avere figli anche se profondamente desiderosa di farlo, qualcun altro ci ha visto l’inadeguatezza che molte donne oggi si sentono addosso. Era dal 1985 che in quel punto orario, certamente in tarda serata, il Festival non otteneva così tanti ascolti ma io non me lo aspettavo, mi creda».

Com’è Amadeus?

«Un signore d’altri tempi. Quando mi telefonò pensai a uno scherzo, perché mi disse: “Buongiorno Chiara, volevo sapere se sei libera la sera dell’8 febbraio”. Straordinario, presente ma tranquillo, gode facendo quello che fa». 

Facciamo uno pseudo Questionario di Proust? Io le dico una parola e lei mi dice quello che le viene in mente. Cominciamo con “Gianni Morandi”.

«Latte». 

La canzone?

«Sì, ma anche il suo essere morbido, dolce, educato. Una volta me lo sono trovato tra il pubblico a teatro, è venuto a vedermi a Bologna». 

Pippo Baudo.

«Padre. Quando mi chiese di affiancarlo a Domenica In giurai a me stessa che avrei fatto di tutto per non deluderlo. Cominciavamo le dirette tenendoci per mano, nessuno dei due usava cartelli né gobbi. Ancora oggi, per il mio compleanno, mi manda fiori con un cartoncino. Che conservo, ma io conservo tutto, anche i pass temporanei per entrare in Rai». 

Se le dico “figli”?

«Penso alle lucine». 

Dunque, alla cosa più presente nella sua vita?

«In un certo senso sì. Un pensiero costante che non diventa mai un’ossessione, qualcosa di elettrizzante ma che mi rallegra». 

Ci pensa?

«Sì, ci penso. Ho 43 anni, c’è questo benedetto orologio biologico. Però ci penso a modo mio. Senza nascondere le fragilità o le paure». 

Per chi ha votato alle ultime elezioni?

«Nemmeno sotto tortura lo dirò». 

Un indizio?

«Piero Calamandrei, nel 1955, parlando ai giovani disse che la libertà va toccata, non è una cosa astratta, che la politica va fatta con le azioni. Io faccio politica appoggiando questa o quella causa. Sono vicina al movimento Lgbtqi+, difendo ogni tipo di libertà. Se proprio devo dirlo, il colore che mi rappresenta è un insieme di colori, diciamo pure un arcobaleno».

Eccola!

«Eh, ma mica ci voleva tanto a capirlo». 

No, perché lei con quella storia dei «sinistri» ha messo in subbuglio il Paese.

«Ma non capisco perché ogni volta che apro bocca si apre un caso nazionale. Secondo me la Treccani mi assumerà come inventrice di nuove parole. Dunque, chiariamo: io — come tra l’altro scrivo nel libro — a Cartabianca ho fatto distinzione tra sinistri, mancini e poveri paghi. I sinistri sono i ricchi di famiglia che vorrebbero essere nati poveri per essere considerati intelligenti. 

I mancini sono gli arricchiti che se ne fregano della cultura. I poveri paghi sono quelli come mio padre, i migliori: consapevoli delle proprie condizioni ma che godono di un cappotto nuovo e che non sprecano nulla. Ora, una come me che è cresciuta nel contado a colpi di sacrifici, che ancora oggi usa con parsimonia lo scopino del bagno per non sporcarlo e non consumarlo, come può essere trattata dai sinistri e dai mancini?».

Nel suo libro lei scrive che i sinistri la volevano «decorativa» e i mancini «prona».

«Ecco». 

Se c’è una cosa difficile è definire questa è proprio Chiara Francini.

«E meno male. Perché le etichette mi gonfiano come la ribollita di mia madre. Ti vogliono sempre o in un modo o in un altro. O bella o colta. O fai cinema o fai tv. O zozza o immacolata. Ecco perché io scherzo sempre parlando delle mie “volitive” (i seni, ndr.): perché sembra che se porti una quinta di reggiseno tu non possa scrivere bene o pensare bene». 

Si è mai innamorata di una donna?

«No, però mi affascinano. Se sono in una stanza e entra un bell’uomo, manco lo guardo, prima mi deve eccitare le sinapsi. Se però entra una donna la guardo attentamente, mi piace osservare la bellezza femminile».

Torniamo a Proust? Se le dico “Carlo Vanzina”? Lui l’ha diretta in «Buona giornata».

«Mi viene in mente un cono gelato. Perché è godurioso, colto, rasserenante». 

E Leonardo Pieraccioni?

«Penso a un fratello. Forse il fratello che a me, figlia unica, è sempre mancato. In questo suo nuovo film (Pare Parecchio Parigi, ndr.) io sono sua sorella e certe volte mi sembra di rivedere in lui una parte di me, toscana, verace». 

E se le dico “Frederick”?

«Il divano». 

Nel senso di «casa»?

«Certo. Lui è tanto “casa”, lui è tutti i miei plaid colorati che tengo in salotto, lui è il profumo del rientro in casa la sera». 

Le ha mai detto «ti amo»?

«Sì, ma fa di meglio». 

Cioè?

«Mi prepara il “fungo”, il cappuccino con un biscotto sopra che sembra un fungo». 

Gelosie?

«Assolutamente no». 

(...)

Chiara Francini: «Le mie parole sui sinistri? Accuso chi si finge ciò che non è. I miei progetti in Rai non sono cambiati». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 28 maggio 2023.

L’attrice dopo le parole del suo libro: «Non mi sarei mai aspettata tanto clamore. È solo un’autobiografia. Ho visto tanti benestanti fingersi poveri o dimessi per conquistarsi un riconoscimento sociale e culturale. Perché sei qualcuno solo se dici di essere di sinistra»

«I sinistri sono persone nate ricche e borghesi che vorrebbero essere nate povere per sembrare intelligenti. A loro interessa solo stare dalla parte giusta». Per tenere fede al titolo del suo ultimo libro (Chiara e forte, edito da Rizzoli), l’attrice toscana Chiara Francini non la tocca certo piano. In poche, sapide, righe, traccia un profilo socio-antropologico di una figura tipica del teatro della politica nazionale che da giorni (dall’intervento martedì a Cartabianca su Rai3) infiamma le discussioni sui social.

«Non mi sarei mai aspettata tanto clamore. Io sono un’artista, non una politologa. Ho solo fatto alcune riflessioni per amore della verità. Io sono affascinata dall’umanità, mi piace studiarla».

A sinistra non saranno tanto contenti. «Ai sinistri — scrive — non gliene frega assolutamente nulla del comunismo, di Berlinguer, degli operai, del lavoro, dei diritti, del teatro, delle minoranze, della cultura come strumento rivoluzionario di rivendicazione. Gli interessa solo apparire di sinistra e quindi dalla parte del giusto». Che legnate, Chiara.

«Il libro è solo un’autobiografia. Non ho scritto un trattato di politica ma esposto le mie osservazioni su categorie sociologiche che ben conosco. Mi riferisco a persone che hanno impattato sulla mia vita privata e lavorativa».

Se la prende con i «sinistri» perché è nata e cresciuta in una regione rossa.

«È innegabile, la mia terra ha quella storia. Lì sono cresciuta, lì ho potuto osservare i comportamenti che ho indicato nel libro».

Quali?

«Ho visto tanti benestanti fingersi poveri o dimessi, nel modo di vivere come di vestirsi, per conquistarsi un riconoscimento sociale e culturale. Perché sei qualcuno solo se dici di essere di sinistra».

La considera una forma di ipocrisia?

«Senza dubbio. È evidente che c’è distonia tra la propria condizione e la rappresentazione che si dà all’esterno. E quando indico i “sinistri” non mi riferisco solo a chi è di sinistra. Voglio puntare l’attenzione su una categoria sociale perché colgo molta opacità, molti tentativi di confondere le acque per poter essere sempre dalla parte giusta».

Questo succede perché, come si denuncia dall’altra parte, in Italia vige un’egemonia culturale di sinistra?

«Può essere. Certo è che vedo molti assumere posizioni o atteggiamenti solo in funzione della ricerca di un riconoscimento sociale. Si diventa maître à penser solo se si sostengono certe tesi. E allora c’è chi si finge povero per ritenersi più intelligente e vicino al popolo».

Nel suo libro mette alla berlina i «sinistri» ma se la prende pure con i «mancini». Che differenza c’è?

«A costoro non interessa apparire poveri o colti, non gliene frega nulla. Basta che facciano un film o una serie tv di successo per ritenersi intellettuali di riferimento. Sono più cinici e disincantati degli altri».

Nessun punto in comune?

«Sì, sono accomunati da una concezione straordinariamente stilnovistica della donna come gingillo che deve stare lì a farsi guardare e basta. Per entrambi la donna non può avere un pensiero proprio».

Le sue «osservazioni» piacciono molto a destra.

«Sì, ma molto di più a sinistra, mi creda. Un sacco di gente ha commentato ringraziandomi per aver scritto quello che molti pensano».

Il governo ha ristretto gli spazi di libertà in Rai?

«I miei progetti artistici non sono cambiati di una virgola. Non ho mai avuto contratti continuativi né frequento Viale Mazzini. Forse è presto per trarre giudizi. Le nomine sono troppo recenti».

Chiara Francini: «Sono stati i fallimenti a darmi la spinta. Una grande avventura anche solo il tentare di diventare mamma». Maria Luisa Agnese, Greta Sclaunich su Il Corriere della Sera il 21 maggio 2023.

Francini, in Forte e Chiara parla anche della condizione della donna, del suo essere costantemente scissa fra realizzazione personale e desiderio di maternità 

Chiara Francini, fiorentina, 43 anni, durante il monologo sulla maternità alla quarta serata del Festival di Sanremo, di cui è stata co-conduttrice (foto D’Avanzo / Ipa)

Questa intervista a tre con l’attrice Chiara Francini condotta insieme da Maria Luisa Agnese e Greta Sclaunich - pubblicata sul numero di 7 in edicola il 19 maggio - fa parte di un’inchiesta del magazine del Corriere sulla «maternità plurale».

Ora nella sua vita lavorativa c’è tutto quello che voleva, il cinema, il teatro, la scrittura, la consacrazione sanremese con un monologo potente che ha fatto il pieno di ascolti: Chiara Francini a 43 anni è persino riuscita a salvare la sua freschezza “paesana” in un mondo supercilioso come quello dello spettacolo rimanendo un po’ strana e bizzarra anche nelle scelte estetiche, in casa sua ci sono non uno ma tre alberi di Natale con le lucine accese tutto l’anno. Eppure c’è un vulnus nella sua vita. Lo ha raccontato al Festival di Sanremo e lo ripete nel libro autobiografia che sta per uscire da Rizzoli, Forte e Chiara . La voglia di un figlio, l’essere madre, esplorare quel pianeta maternità che sta diventando plurale e che si abita in tanti modi ormai e con figure nuove di genitorialità. Chiara è bivalente nei confronti della maternità, arrivata in zona allarme per l’orologio biologico («quando la natura ti fa il dito medio») si interroga ed è divisa fra il desiderio e la paura di aver aspettato troppo. Maria Luisa è stata bivalente, anche lei passata attraverso percorsi dolorosi di tentativi che trasformano il corpo e segnano in solitudine l’anima. Greta, 40 anni, è neo mamma. Di “maternità, plurale” discutiamo in pace e in tre, mentre Berenice, 4 mesi, gorgheggia e commenta a bordo culla. Maria Luisa Agnese: oggi che si può scegliere se essere madri o no c’è in campo un tema in più, l’ambivalenza.

Nel libro tu Chiara scrivi che c’è uno stornello che ti canta dentro: in fondo siamo nate per questo, no? Ma anche che ti senti divisa fra il desiderio di tentare l’avventura e trovare il momento giusto.

«Sì, nel libro si parla di maternità ma soprattutto dell’essere donna e dell’essere caratterizzate da questa felicità mutilata. Nel senso che c’è la bellezza del diventare madre, di assolvere a quello che dalla notte dei tempi viene concepito come un miracolo, ma dall’altra c’è quasi sempre una voce dentro che dice: ho fatto questo ma magari ho perso altro. Come c’è quest’eco che rimbomba nelle donne che non hanno fatto figli: magari assolutamente soddisfatte del loro percorso, alle prese con una voce che ricorda che sono state fatte per quello, e porterebbero nella pancia un miracolo».

Maria Luisa Agnese: una specie di grande nostalgia. Ma adesso che la maternità non è più un destino, le donne sono più felici o meno felici di poter determinare le loro scelte biologiche?

«Sono di certo più consapevoli. Questo non significa che l’interrogativo che si pongono sia meno doloroso o meno complesso: è importante che ora si possa dire, anzi urlare, che ci si vuole sentire giuste anche se non si sente il desiderio di maternità, ma questo non significa che non si possano avere dentro tentennamenti e discrasie. Siamo libere di scegliere se essere madri o meno anche se dentro di noi rimbomba l’inadeguatezza».

Greta Sclaunich: inadeguatezza che senti sia se non sei madre, sia se lo sei. Una certa quota di inadeguatezza, insomma, pare proprio che noi la dobbiamo mettere in conto a prescindere.

«Intendo proprio questo quando dico che siamo donne tutte. Quelle incinte vogliono essere rassicurate che quello che portano in pancia è un miracolo e quelle che sono vuote vogliono anche loro avere la certezza di essere “giuste”. Perché poi siamo come dei biscotti inzuppati da millenni in una educazione che fa sì che il compito di una donna sia quello di portare avanti la specie. E quando dico che le donne incinte sono violente e vogliono essere festeggiate, è perché vogliono essere certe di averlo in corpo questo miracolo. Quindi anche il fatto di diventare mamma e poi invece capire che non era probabilmente quello per cui eri stata fatta, beh anche quello fa sì che una donna possa provare un grande dolore».

Greta Sclaunich: sempre l’ambivalenza.

«Anche quando sei stata capace di dar vita a questo miracolo, quando capisci che questo miracolo è forse un miracolo per gli altri, ma una croce per te, anche quello ti fa sentire sbagliata. Oriana Fallaci diceva che essere una donna è un’avventura straordinaria che non finisce mai, io penso che essere donna abbia in grembo tutta questa complessità. Quando dico siamo donne tutte è perché in realtà la violenza, la forza, la passione che hanno le donne incinte è la stessa passione, la stessa forza, la stessa ferocia che hanno le donne che non vogliono avere figli (o che non sono riuscite ad averli) nell’affermare che una donna può essere tale anche non essendo madre».

Maria Luisa Agnese: Greta, tu ti sei sentita violenta durante la gravidanza?

Greta Sclaunich: «A essere sincera no. Ma ero vaccinata: ho 40 anni e Berenice è la mia prima figlia. La violenza delle donne incinte l’ho provata pure io per anni, e penso che sia vero quello che dice Chiara. Perciò quando è capitato a me sono stata tutto eccetto che violenta perché sapevo cosa voleva dire».

Greta Sclaunich: Ma non credi, Chiara che si possa pensare di essere madre anche in altri modi, madri di elezione?

«Penso che l’amicizia sia sentimento d’amore supremo perché scevro da implicazioni parentali e sessuali. Per me che non ho fratelli è veramente come riconoscere un fratello o una sorella. Nell’amicizia credo di essere avvolgente e materna».

Maria Luisa Agnese: anche se la tua età ti permette di sperimentare ancora. Hai provato anche tu quel percorso difficile dell’ossessione medicale descritto da Antonella Lattanzi nel libro «Le cose che non si raccontano»?

«Sì ci sto pensando, lavorando; per quello che mi riguarda prima dei 40 anni non ho mai pensato di rimanere incinta, perché comunque la mia vita è molto piena, però la vita è una soltanto e trovo che sia una grande avventura anche solo il tentare di diventare mamma. Ma lo faccio piena di curiosità, con la voglia di esplorare una possibilità che la vita ti può dare ma anche togliere».

Greta Sclaunich: segui il destino...

«Sicuro, perché se proprio vuoi un figlio c’è l’adozione, ci sono tante possibilità. Pino Daniele cantava: “ Chi vuole un figlio non insiste “. Non ho questo senso di rivalsa o questa necessità di affermarmi come donna solo in quanto madre».

Maria Luisa Agnese: niente surrogata dunque.

«No, vorrei provare con il mio corpo, con la Chiara che ho. Credo sia un momento di arricchimento, vedere come mi cambierà».

Greta Sclaunich: ti posso dire che a me non ha cambiato come pensavo. Temevo di perdere il focus su me stessa, invece sono sempre io, però più paziente e più centrata. E tu su cosa vorresti mantenere il focus?

«Sul rapporto genitoriale: non credo nei genitori amici, ma vorrei essere amorosa. Non vorrei mai che mio figlio si trovasse impreparato alla vita. Un figlio è grande responsabilità e io sono molto seria. Sono colorata ma sono profondamente seria e molto rigida. Ed è un atto che vedo come creativo, un salto al quale ti devi abbandonare. Lì c’è la misura della vita».

Maria Luisa Agnese: sei rigida, dici, e studiosa, secchiona. Ma nel libro racconti di avere anche una quinta di reggiseno. Come ti sei destreggiata nel mondo dello spettacolo con queste premesse?

«Molto bene perché penso che bisogna seguire quello che si è. Sono convinta che la più grande dote di un essere umano, ancora di più di una donna, sia quella di avere contezza dei propri pregi tanto quanto dei propri limiti. Perché lì, nel mezzo, c’è la tua possibilità di successo e di felicità. Io avevo quelle caratteristiche e un muro non lo puoi buttare giù a testate, devi cercare un’altra porta. L’ho cercata con la mia tigna da paesana, da provinciale».

Greta Sclaunich: a proposito ho amato tantissimo quando nel libro parli dell’odio come molla per riuscire: finalmente qualcuno che lo dice!

«Penso che l’odio sia un sentimento profondamente sottovalutato, perché odiare l’ingiustizia e il male credo sia il bene supremo. È ciò che ti dà una spinta propulsiva. È molto facile dire che si fa tutto con l’amore, non è vero. Nella vita ciò che mi ha dato tante spinte propulsive sono stati i fallimenti che ho avuto, le ingiustizie che ho subìto e che ho odiato; ma ho ragionato e ho cercato di vincere la paura che magari alcuni professori potevano instillare in me che fossi stupida, una perdente. Ho odiato questa paura, ho cercato di distruggerla, e quest’odio ha fatto sì che non diventassi la più brava della mia classe, però mi ha fortificato: mi ha fatto pensare che la professoressa che mi diceva che ero stupida avesse l’autorità per dirmelo ma non avesse l’autorevolezza». 

Maria Luisa Agnese: questo ti ha anche preservato da altre situazioni difficili? Da quando è partito il movimento MeToo non hai denunciato alcun episodio...

«A me non è mai successo nulla del genere. Però anch’io ho preso le mie porte in faccia, e tutt’ora le prendo: è indubbio che una donna debba fare 12 per arrivare a tre. Tutto ciò che faccio lo faccio dando il meglio ma anche con la fame “sana”: quando ho subìto ingiustizie, anche dai maschi, ho cercato di incamerarle e di combatterle. Sembro forte ma sono anche fragile: le mie cicatrici sono medaglie che ricordano tutte le battaglie che ho affrontato».

Maria Luisa Agnese: hai vinto anche quella per i tre alberi di Natale in casa?

«Tre e un ramo addobbato, tutti in salotto e accesi 365 giorni l’anno, mica solo a Natale. Vedere tutte quelle lucine sfrigolanti mi dà gioia. Perché io il Natale l’ho sempre amato nonostante il fatto che, essendo nata il 20 dicembre, ricevessi un solo regalo per due ricorrenze». 

VITA E CARRIERA DI CHIARA 

GLI ESORDI - Nata il 20 dicembre 1979 a Firenze, Chiara Francini si è laureata in Lettere (110 e lode, tesi in italianistica). La sua formazione artistica inizia al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino

IL CINEMA - Già nel 2007-2008 è impegnata in quattro film, fra cui Unamoglie bellissima di Leonardo Pieraccioni e Miracolo di Sant’Anna di Spike Lee. L’ultimo lavoro al cinema è Tre sorelle di Enrico Vanzina,mentre in tv la fiction Purché finisca bene

IL LIBRO E LA TOURNÉE - Martedì per Rizzoli uscirà l’autobiografia Forte e Chiara (nella foto la copertina): Francini porterà nei teatri uno spettacolo ricavato dal libro. Ha appena concluso la tournée teatrale con lo spettacolo Coppia aperta, quasi spalancata di Dario Fo e Franca Rame, e per Amazon sta girando il sequel di Addio al nubilato di Francesco Apolloni. È fidanzata da 18 anni con Frederick Lundqvist, svedese innamorato dell’Italia

Da “la Stampa” il 15 maggio 2023. 

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore Rizzoli, un estratto del libro “Forte e Chiara”. Un’autobiografia, di Chiara Francini, in libreria dal 23 maggio

Quella che sono lo devo alle botte che ho preso al liceo, e sì, certo, erano botte morali, ma volete venire a dirmi che fanno meno male? 

Quella che sono lo devo, soprattutto, alle umiliazioni, alle ingiustizie che mi sono state spalmate in faccia laggiù, dove ho conosciuto l'amicizia, la cooperazione ma, soprattutto, l'odio. 

L'odio è un sentimento profondamente sottovalutato. Cattivi maestri sono quelli che, con tanta vaselina, imboccano i poveri fanciulli e le povere fanciulle, raccontando loro che la felicità, la giustizia le si agguantano solo con l'amore. Essi mentono. Sì, con l'amore si fanno certe cose, ma il grosso si fa con l'odio: profondo, viscerale, instancabile. E, a me, quel liceo ha dato la possibilità di approfondire, di scavare nelle guerre puniche tanto quanto in me stessa. 

Per esempio, quando l'insegnante di matematica, la professoressa N., alla mia ennesima excusatio non petita che con voce pesta sussurravo alla lavagna: «Mi scusi, mi scusi tanto professoressa», incapace di accontentarla anche solo ripetendo uno stupido postulato – che i postulati non hanno altra funzione se non quella di essere ripetuti a memoria –, mi diceva, calma come il vapore: «Francini, non devi chiedere scusa a me, ma a te stessa. Per la tua stupidità».

E io ho odiato. Grazie a Dio. Ho odiato me stessa, la mia incapacità nell'abbattere l'ingiustizia di colei che aveva l'autorità per dirmi che ero stupida, ma non doveva avere l'autorevolezza di farmi sentire tale. Non le dovevo permettere di averla. La matematica mi ha sempre fatto schifo. Non esiste nulla di più esatto delle parole, nulla di più scientifico.

Ho sempre saputo di non essere la più intelligente della mia classe, ma dovevo, comunque, essere capace, dovevo riuscire a demolire quell'immagine di stupida che si stava insinuando nella mia testa. Dovevo distruggere quella convinzione che faceva capoccella in me.

Quella paura. 

E come un mantra, per tutto il liceo, ripetevo una frase di mia madre: «Non ti devi mai preoccupare, se non è un male che il prete ne goda». Il prete "gode" quando muore qualcuno, perché col funerale da officiare gli verrà fatta una donazione. Sì, mia madre – sempre usando immagini gioiose – mi stava dicendo qualcosa che mai avrei dimenticato: «Non devi preoccuparti se non è qualcosa che riguarda la salute. Non è così importante. Andrà bene per forza. Sii forte di questo. Sarà, comunque, un successo». Mia madre mi stava consegnando qualcosa che non mi avrebbe mai abbandonato: la speranza nella tragedia. La certezza che il mio odio per la paura, l'odio per ciò che mi faceva male, e che quindi era male, era sacrosanto. E che mi avrebbe salvato. Odiavo l'ingiustizia, la mia paura, il mio essere maltrattata.

L'odio per ciò che è male è il bene supremo. Ma nessuno lo dice mai. E ogni giorno lo ripetevo. Distruggila. Distruggi. Deve morire. Morire. 

(…)

Alla maturità presi il secondo voto più alto della mia classe. Non perché fossi la più intelligente, o quella che avesse studiato di più, ma perché avevo imparato a odiare in modo proficuo. Anni dopo, in maniera incredibile, incontrai la professoressa di matematica di fronte al bar dell'ospedale di mia madre, dal quale stavo uscendo con le gote ancora gonfie di maritozzo. Vedendola mi gettai tra le sue braccia per salutarla, col solito entusiasmo provinciale che non mi ha mai abbandonato.

La professoressa N. era una donna elegante e algida, credo non mi fossi mai avvicinata a lei così tanto, quella fu la prima volta. Ricordo il suo foulard perfetto, intriso di profumo d'agrumi e la gonna di splendida fattura. Lei mi guardò e disse: «Francini, ti saluto con piacere. E scusami se ti ho maltrattato». Io le feci un grande sorriso e l'abbracciai sinceramente. Nel vederla provai solo un grande senso di gratitudine. Io la matematica non l'ho mai imparata, mi ripugna, ma da lei avevo appreso qualcosa di molto più importante: che il prete, con me, avrebbe dovuto aspettare parecchio a godere.

Chiara Francini: «Il monologo sulla maternità? Mi fermano per strada per dirmi che sono state parole importanti». Ginevra Barbetti su Il Corriere della Sera il 10 aprile 2023.

L'attrice Chiara Francini porta a teatro lo spettacolo «Coppia aperta quasi spalancata» e commenta il successo dopo il monologo a Sanremo sulla maternità mancata 

Fatta di luce come il nome che porta, Chiara Francini resta seduta comoda dove femminilità, perspicacia e intelligenza viva s’incontrano. Accogliente nei modi, ha un sorriso tanto prepotente da accendere la stanza, lasciando al buio i pensieri. Dice di fare il suo lavoro per sentire addosso: «l’amore della gente, sempre». Quello che non mancherà al Teatro della Pergola di Firenze, dall’11 al 16 aprile (martedì, mercoledì, venerdì, sabato, ore 21; giovedì, ore 19; domenica, ore 16) quando, insieme ad Alessandro Federico, porterà in scena l’ironia surreale di Coppia aperta quasi spalancata, scritto da Dario Fo e Franca Rame, per la regia di Alessandro Tedeschi. Storia grottesca di due coniugi alle prese con un matrimonio in crisi che decidono di sperimentare la formula della “coppia aperta” per risolvere i problemi della loro relazione.

Un passo indietro per dirle grazie di aver dato voce alla perpetua oscillazione femminile, così nostra e cara, col monologo sulla maternità portato a Sanremo.

Nostra è la parola giusta. Ce l’abbiamo nel tessuto, sottopelle, dentro. È l’essenza, l’ingrediente, la costituzione dell’anima. Quelle parole hanno trovato un’accoglienza incredibile, facendomi arrivare una gratitudine immensa. Sono tratte da “Una ragazza come io” testo dove ho raccontato l’essere donna, l’ineguatezza costante, il nostro perenne senso di colpa. La mia vita è simile a quella di tante altre.

Si aspettava tanto clamore?

La potenza della condivisione ha dei colori prodigiosi. Mi stupisco ancora, sono felice quando mi fermano per strada dicendomi che quelle parole sono state importanti. La riconoscenza è un valore necessario. Per me, sentire il bene della gente, è linfa.

Di cuore, nello spettacolo che porta in scena, ce n’è tanto.

E’ la favola sempiterna dell’amore quando è coppia. Antonia, la protagonista, è convinta di essere felice solo se ha accanto un uomo. Prima è assoggettata ai cliché imposti, poi reagisce. Per capire che la sua felicità dipende solo da sé stessa.

Una piece scritta 40 anni fa con dinamiche relazionali che hanno una potenza attuale disarmante.

Questa evoluzione, la progressione di Antonia come donna dentro la coppia, sembra la fotografia scattata ieri ad una di noi. Il pubblico prende parte in modo attivo, partecipa, tifa. E la protagonista parla, rivolgendosi direttamente alla platea, creando un’empatia magica. La grande rivoluzione per le donne avviene quando cominciano ad ascoltarsi seguendo solo la propria voce. E, se questo accade, sono capaci di cambiare il mondo.

Oltre al teatro, c’è il suo quinto libro in uscita.

Scrivere è un atto incosciente, coraggioso. E’ aprirsi al lettore in modo diretto e intimo, lasciandolo accedere a una dimensione profondamente personale. Un altro modo per dire chi sono.

Presenta, scrive, recita: fiorisce in tanti modi.

Senza essere speciale per questo. Penso sia cosa comune aprire le ali e volare in direzioni diverse. Ho solo un’opportunità in più, quella di avere infinite tele da imbrattare con tutti i colori che voglio. Riconosco che potersi esprimere è una gran fortuna, una chiave in più di accesso alla libertà.

E se il successo venisse meno ai giorni?

Il successo non finirà mai perché è l’opportunità di esprimermi facendo quello che amo, mentre mi accorgo della felicità che porta. Tengo per mano l’energia di chi ha sempre fame di nuovo, di chi cerca e mai si accontenta, di chi resta un curioso vivace, dei voraci di vita. Il mio compagno ripete spesso che non potrebbe stare con una donna poco ambiziosa. E’ vero, lo sono. Determinata, volitiva, sempre più orgogliosa di me.

Estratto dell’articolo di Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 20 Gennaio 2023.

[…]Attrice, scrittrice, ora anche co-conduttrice per una sera del Festival di Sanremo: fa tante cose perché non ne sa fare bene nessuna?

«Sono una donna, quindi posso fare tante cose contemporaneamente, posso fare tutto...».

 Chiara Francini, 43 anni […].

Ora sarà molto invidiata, in tante si chiederanno perché lei e non io...

«Beh, se lo pensi fatti una domanda e datti una risposta... Certo mi sento molto fortunata, ma ho sempre costruito questo mestiere con grande rigore e altrettanta passione […]».

 Pensava che il teatro Ariston potesse rientrare nella sua traiettoria professionale?

«È stata una sorpresa inaspettata, ho trovato un messaggio vocale di Amadeus e ho iniziato a sudare da ogni pertugio. Sono rimasta a fissare il muro per due ore […]».

 […] « […] Faccio questo mestiere perché, come tutti quelli che lo fanno, sono egocentrica ed egotica, ma anche perché mi anima questo grande desiderio di essere amata dagli altri, soprattutto dalle persone più importanti della mia vita, che sono i miei genitori. Fare bene per me significava farmi amare di più, sono mossa dalla ricerca costante di amore: se sono più brava mi vogliono più bene. […]».

Dunque la ricerca della perfezione significa zero trasgressioni?

«Sì, non bevo e non fumo; sono abbastanza pallosa».

 […]«Il mio talento è la pertinacia, il difetto è che sono molto fragile, anche se non sembra... Mi sono sempre sentita una diversa, una fuori posto, una parvenu. Tutti noi almeno una volta nella vita ci siamo sentiti sbagliati […]». […]

DAGOREPORT il 17 gennaio 2022.

Chiara Francini sarà una delle prime donne scelte da Amadeus per il prossimo Festival di Sanremo. L’attrice è una “creatura” del potentissimo gruppo di comunicazione “Mn” (che segue molti artisti, compreso Fiorello e Diletta Leotta), assai vicino alla Rai e ai potenti delle case discografiche. La scelta della bella toscana ha sorpreso molti “addetti ai livori” vista la sua caratura minore: non è una diva da copertina né una stella del cinema.

 Ma chi è la popputa fiorentina, ex compagna di liceo di Matteo Renzi (“Me lo ricordo bene alle assemblee di scuola. Lui era un po’ più grande di me e nelle riunioni studentesche era il capo del gruppo”), autoproclamatasi ‘’icona gay radical chic’’? Una carriera, la sua, priva di quei successi in grado di consacrare agli occhi del grande pubblico: molti la ricordano a “Colorado” su Italia1, poi comparsate in varie serie tv, e film leggeri tra cui spicca “Maschi contro femmine”, per la regia di Fausto Brizzi, in cui l’attrice regala una memorabile scena di nudo, con rigoglioso topless.

Nonostante negli anni non abbia nascosto le sue simpatie de’ sinistra, Chiara Francini può vantare una profonda stima da parte di quell’intenditore di Silvio Berlusconi. Chissà se il Cav ha mai sognato di invitarla a cena ad Arcore o a palazzo Grazioli.

 Ai tempi della sua esperienza a Mediaset, alla conduzione di “Colorado”, i suoi capricci restarono ben impressi alle maestranze di studio, soprattutto agli addetti della sartoria di Cologno Monzese. Come scrissero Alberto Dandolo e Ivan Rota per Dagospia, in un articolo del 2014: “Le maestranze dello studio 20 di Cologno Monzese dove si registra la trasmissione ‘'Colorado'' non ne possono più di alcune manie dell'attrice Chiara Francini. Sarte, costumiste e truccatrici della bella toscana che assieme a Diego Abatantuono conduce il programma comico di Italia Uno, sono costrette a sorbirsi quotidianamente i commenti della Francini sulla sua collega (hanno appena girato un film assieme) Vanessa Incontrada.

La Francini pare sia ossessionata dal confronto con Vanessa ed è sempre attaccata alla rete dove controlla notizie e immagini della più popolare e amata "concorrente". E

starebbe sempre lì a dire: "guarda come è photoshoppata questa qui....non è mica così magra!...ma le hanno tolto le rughe?...non capisco perché la vogliono tutti i registi..." e via discorrendo. Il suo staff è esausto anche perché la Francini avrebbe un'altra ossessione: farsi stringere la vita fino allo sfinimento. Vorrebbe assomigliare a Jessica Rabbit”.

Negli anni ha coltivato una bella amicizia con gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana (ottimo lasciapassare per “Gay1” di Stefano Coletta), ora scrive “pest-seller” per una nota casa editrice e sfodera il suo spessore artistico come giurata nel programma “Drag Queen Race” su Real time. Un curriculum che deve rassicurare anche gli artisti ai margini dello star system: se ce l’ha fatta lei, tutti possono sognare in grande.

Da gossivip.myblog.it il 17 gennaio 2022.

Chiara Francini il suo compagno è l’ex calciatore Fredric Lundqvist, difensore con cinque presenze nella nazionale maggiore svedese.Riscuote sempre più successo Chiara Francini da quando è giudice di Drag Race Italia 2. Il programma perfetto per lei, trasgressivo e pieno d’amore, sembra rispecchiare a pieno il carattere della conduttrice.

 In una intervista al Messaggero, l’attrice fiorentina che ha condiviso la scuola con Matteo Renzi racconta il suo rapporto con il sesso: «Dopo diciassette anni con lo stesso uomo, ormai si trom*a davvero poco», riferendosi al suo compagno, l’ex calciatore Fredric Lundqvist, difensore con cinque presenze nella nazionale maggiore svedese.

Inoltre, parla anche della sua infanzia a Campi Bisenzio, dove è cresciuta nella scuola della “signoria cittadina”: «Tutti erano figlio di qualcuno, io al massimo ero na fija de ‘na mignotta». E poi il racconto su Matteo Renzi: «C’era anche lui, faceva il rappresentante d’istituto».

 Chiara, poi, parla della scalata verso il successo, ma senza compromessi: «Non ho mai avuto storie con registi, produttori, attori… Sono tutti egotici». Sono un’operaia del mondo dello spettacolo. Sto sempre con i piedi per terra e poi non bevo, non fumo. Il sesso?

Dopo diciassette anni con lo stesso uomo, ormai si tromba davvero poco. Chiara Francini, 42 anni, sta con Frederick Lundqvist da diciassette anni. Svedese, ex calciatore, oggi è titolare di un’impresa di servizi di sicurezza. A Vanity Fair, Francini aveva raccontato che lei e il compagno si dividono tra la Svezia e l’Italia. E su di lui ha dichiarato: «È un uomo estremamente ironico, ma anche silenzioso, molto attento, riservatissimo. Viviamo insieme da 16 anni, ma il matrimonio è un giorno in cui ci si sente principessa però io mi sento principessa tutti i giorni». Una storia d’amore che non è mai sotto l’occhio dei paparazzi e dei riflettori.

Grazia Sambruna per mowmag.com il 18 gennaio 2023.

Chiara Ferragni co-condurrà due serate del Festival di Sanremo 2023, la prima e l'ultima, le più importanti. Chiara Iezzi, insieme alla sorella Paola, promette di travolgere platea dell'Ariston e pubblico a casa portando in gara il brano Furore, già definito dai giornalisti che hanno beneficiato del pre-ascolto dei brani festivalieri, una sorta di nuova "Vamos a Bailar". E poi c'è Chiara Francini.

 Chiamata da Amadeus per la serata di venerdì. La carriera di costei, per quanto lunga, rimane un grandissimo X-File. Famosa perché sostiene di esserlo, ha alle spalle conduzioni di programmi tv (su reti minori da La5 alla morente Mtv) fino, in tempi più recenti, alla seduta nella giuria di Drag Race Italia (Real Time).

 E poi tanto cinema, certo. Al fianco di grandi nomi come, su tutti, Paolo Ruffini. E in ruoli di secondo piano, ad andar bene. Sempre meglio che lavorare, per carità. Ma ciò basta a guadagnarsi la più prestigiosa e ambita delle prime serate Rai oppure il budget del Festivàl stava alla canna del gas?

Che i big money fossero in preoccupante avaria era già piuttosto palese dalla scelta dei Black Eyed Peas come super ospiti internazionali. I fagioli dall'occhio nero (sic.) non tirano fuori una hit che si possa definire tale a livello globale dai tempi di Meet Me Halfway (correva l'anno 2009).

 Ma si sa che Amadeus ha il fetish delle vecchie glorie. Non si spiegherebbe altrimenti, la convocazione dei Cugini di Campagna in gara, come anche l'entusiasmo per la mission di riunire sul palco dell'Ariston, udite udite, per la prima volta in assoluto, il Cerbero tricefalo composto da Al Bano, Massimo Ranieri e Gianni Morandi. Per quanto riguarda le quote rosa (espressione sempre orrenda!), non erano emerse, almeno finora, note stonate.

Che la si ami o la si odi, Chiara Ferragni è la più seguita dagli italiani, quindi colpaccio averla adescata per il kick-off della kermesse e per il gran finale. Jackpot. Se poi questo ingaggio si rivelerà, per lei, un'arma a doppio taglio, c'è solo da aspettare febbraio e lo sapremo bene tutti.

 Non male anche gli altri nomi femminili chiamati a calcare il prestigioso palco della kermesse: meritatissima la convocazione della "Belva" Francesca Fagnani e d'impatto anche quella della pallavolista Paola Egonu. Anche solo perché qualunque cosa possa infastidire Matteo Salvini è, di default, buona e giusta. Sì, ma Chiara Francini?

Seguitissima su Instagram, Francini non è certo un'influencer parvenue. Eppure, difficilmente a bruciapelo salta in mente qualcosa di memorabile che la riguardi, lato carriera.

 Toscana, classe 1979, ha avuto Serena Dandini come talent scout teatrale. Da lì, ha partecipato a una sequela di programmi televisivi dimenticabilissimi da Bla Bla Bla ad Aggratis! (?) passando per l'edizione meno vista di sempre del già di per sé vituperato Colorado, il disconosciutissimo figliastro di Zelig. Ha anche avuto un ruolo nella sit-com di Rai 2 Piloti (roba che Camera Cafè scansati) e in tempi più recenti l'abbiamo vista nella giuria di Drag Race Italia su Real Time, dicevamo. Nel mezzo, anche un'assidua frequentazione degli studi di LaF, come anche di La5. In ogni caso no, non La7.

Intanto, tantissimo teatro, come una qualunque Vippona del GF Vip potrebbe dire di sè. E pure parecchio cinema. Scorrendo a volo d'angelo la lista dei titoli su Wikipedia, ce ne fosse uno dove possiamo apprezzarla in azione che sia rimasto nella memoria collettiva come qualcosa di più di un riempitivo di stagione. Tant'è vero che il primo risultato utile, googlando il nome di costei, è la domanda "Che fine ha fatto?", seguita da una serie di articoli che mirano a spiegarci "chi è", associati alla convocazione sanremese. La dura legge del SEO.

Ha scritto libri, recitato in tv, teatri e cinema, certo. Solo che nessuno se ne è mai veramente accorto. Ouch. Con questo non intendiamo certo dire che non possa essere talentuosa o meritevole. Solo che, dati alla mano, non ha ancora avuto modo di dimostrarsi memorabile.

 Tempo sì, ma a quanto pare non è bastato. Davvero non c'era nessun altro nome che avrebbe potuto meritare un ingaggio tanto prestigioso? Sulla punta della lingua, ci viene subito subito quello di Victoria Cabello, splendida conduttrice di Very e Victor Victoria, mattatrice di un meraviglioso Quelli che il Calcio su Rai 2 e trionfatrice dell'ultima edizione di Pechino Express su Sky, dopo anni di allontamento dalla tv per motivi di salute.

 Forse paga ancora lo scotto dell'edizione più in emorragia di ascolti del Festival, quella del 2006 al fianco di Panariello e Ilary Blasi che fu un roboante flop. Non certo per colpa sua. Non che ci faccia impazzire, lo abbiamo ben scritto e ribadito, ma esisterebbe anche la stand up comedian Michela Giraud.

E forse sarebbe stato divertente vederla interferire con la messa cantata dell'Ariston. Nella categoria fuoriclasse, invece, impossibile non citare la "Boomerissima" Alessia Marcuzzi fresca fresca di casacca Rai dopo 25 anni di militanza Mediaset e, regina della regine, la mai venerata come meriterebbe Geppi Cucciari.

 La lista potrebbe continuare, ma ci fermiamo qui. Chiara Francini avrà modo di dimostrare il proprio valore in diretta.

 Per ora, ha tutta la forma e l'aspetto di uno di quei temibilissimi tatuaggi resilienza. Resilienza (parola sempre orrenda!) che, a quanto pare, paga più di ascolti, carriera e meriti oggettivi.

 Sarà una consacrazione o il primo grande passo falso di Amadeus? L'incognita "Lorena Cesarini" (ma chi?) incombe per il secondo anno consecutivo sul palco dell'Ariston. Stiamo uniti. 

Estratto dell'articolo di Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 28 aprile 2023.

[…] Chiara Mastroianni […] madrina del Festival di Cannes è una donna elegante, gentile, riservata, che calibra le parole con una affabilità castigata e un alone malinconico, come se avesse paura dei suoi sorrisi. 

Compirà 51 anni il 28 maggio, due giorni dopo l’apertura di una kermesse che per più di dieci giorni è sospesa in una bolla lontana dal mondo, la più monumentale, blindata, pomposa, paparazzata, faticosa: anche camminare è un’impresa. L’Italia si presenterà armata fino ai denti, in gara con tre film di habitué , Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Alice Rohrwacher. […]

Come si sta preparando?

«Ho una paura immensa del palcoscenico ma sono molto felice, la vedo come un’opportunità assoluta per seguire la più bella selezione di cinema del mondo. Lo faccio con sincerità perché il mio desiderio di diventare attrice è nato dal mio amore per i film, dal mio piacere di spettatrice. 

L’apertura e la chiusura sono due momenti molto diversi, l’attesa del risultato crea tensione. Dunque, a ridosso dei verdetti eviterò grandi discorsi. C’è un aspetto formale nel mio ruolo, vorrei un tono caldo e naturale. Il festival è una promessa di sensazioni vertiginose, dà la possibilità dell’inatteso». 

La prima volta a Cannes?

«Nel 1993, per il mio esordio, La mia stagione preferita di André Techine. Avevo 21 anni. Sono rimasta molto colpita, ma oggi l’agitazione e la meraviglia sono le stesse. […] Avevo fatto parte della giuria, ero giovane, il presidente della giuria era Martin Scorsese». 

E non deve essere stato facile con un presidente così.

«Mi inquietava parlare davanti al resto della giuria e soprattutto davanti a lui. Che però mi invitava a dire la mia e a partecipare ai dibattiti malgrado la mia piccola esperienza. In giuria si scopre una faccia del festival che non si può immaginare se non la si vive, in quelle riunioni non ci sono lustrini e decori.

Ricordo anche il 1996 sul tappeto rosso con mio padre per Tre vite e una sola morte di Raoul Ruiz, era speciale essere con lui a Cannes. E lo ricordo quando arrivò all’ultimo minuto per ritirare il premio per Oci Ciornie di Michalkov, per il quale fu anche candidato all’Oscar». 

Sua madre?

«Passa per essere una donna fredda mentre è l’esatto contrario. Credo che i suoi ruoli abbiano influito sulla sua immagine, ed è stata catalogata. Lei è molto divertente, se c’è un ruolo che le somiglia è Nelly in Il mio uomo è un selvaggio, il film con Yves Montand, più che in Bella di giorno.

È percepita come un’attrice distante, sarà perché è bionda, o per i personaggi che ha interpretato. Ma sono cliché. La bellezza a volte crea una barriera. La prima volta che ho lavorato con lei fu per A noi due. Avevo sette anni». 

Suo padre?

«Aveva una doppia anima, era allegro e al tempo stesso malinconico. Era umile, alla mano, mai egocentrico, cosa rara oggi. Al contrario di quanto accade per mia madre, la gente pensa d’averlo conosciuto anche se non l’ha mai incontrato. È una percezione vera. Se c’è una cosa che accomunava i miei genitori? Il pudore, anche se questa cosa arrivava in modo diverso, mia madre è più riservata».

Barbara Costa per Dagospia sabato 14 ottobre 2023.

Lui si dice secondo solo a Siffredi, ma datemi retta, di mazza non gli è secondo per niente!!! Se non l’avete già fatto, e dubito che non l’abbiate più d’una volta fatto, mie care, dategliela, una bella occhiata, non ne rimarrete deluse! In lunghezza, se non pure di circonferenza, il pene di Christian Clay è pari se non addirittura più grande del bestione di Rocco. È uno dei peni (non afro) più grossi del porno. E come tale vi comanda!!! Signori – e signore – tutti in piedi applaudiamo e onoriamo il Best Pornostar Europeo 2023, l’italiano Christian Clay, da Torre del Greco!

Il porno europeo ci premia, premia questo stallone nostrano di 44 anni, e gli dà pure l’Oscar europeo per la Best Scena Gonzo (dove si sc*pa solo, si sc*pa tosto, senza chiacchiere, senza smancerie). Christian ha cominciato a pornare che era un ragazzino, con un provino davanti al (fu) Maestro Riccardo Schicchi. Ai tempi, la scuderia Schicchi era in attività, e Christian, attirato dal mondo pornografico, è andato a Roma a farsi porno provinare.

Dovete sapere che superare un provino con Schicchi era, per i maschi aspiranti performer, una "dura" impresa: non solo il Maestro era severissimo, ma un provino presso di lui di norma consisteva in questo: i provinanti erano tutti messi in un salone, a cerchio, con l’attrezzo di fuori. Una donna, vestita, sovente in tailleur, veniva posta seduta al centro. Nessuno poteva toccarla né farle né dirle alcunché. Passava il turno chi tra i provinanti se lo faceva venire duro, senza minimo aiuto, e lo manteneva eretto per più tempo, e convinto e efficace.

Christian Clay ricorda che, al suo provino, “eravamo in 30, e siamo passati in 3!”. E lui se ne stava quasi andando, rinunciando, quando un suo amico, lì, con lui, gli ha fatto cambiare idea. Il suo primo giorno sul set “ho lavorato dalle 10 del mattino alle 10 di sera, ho sorpreso tutti, non ci credevano che fossi un novellino. La mia prima paga è stata 250 mila lire”.

Christian ha fatto il suo ingresso in un porno che non esiste più, un porno dove la puntura al pene era assente, un porno autoriale creato con risorse e tempistiche diverse, meno industrializzate e serializzate di quelle contemporanee. Non solo lui si è fatto via via mazzo e nome, nel settore, (e specie con la regia di Siffredi, che gli ha spalancato il mercato del porno internazionale), ma è riuscito e riesce a resisterci, nel porno, nonostante le rivoluzioni che, in questi due decenni, il porno lo hanno sconvolto.

Oggi ma non da oggi Christian Clay fa 3 o 4 scene, al mese, di qualità, e non con non professionisti. E oggi ma non da oggi Christian Clay è un signor nome nel porno e tanto made in USA: non c’è studios USA tra i più celebrati che non lo abbia applaudito all’opera, con le attrici più conturbanti. Superstar porno dal calibro di Kazumi, Liya Silver, Vanna Bardot, Riley Reid, e tantissime altre. 

È lui che, secondo copione, tali dee se le rivolta e le stantuffa a suo (e nostro onanistico) godimento! E di gusto le italiane. Sceglietevi uno tra i porno che ha girato con Valentina Nappi, e con Malena, non ve ne rimarrete con le mani in mano. Nei porno tube sezione classic, sono reperibili i suoi primi porno con Milly D’Abbraccio, e però, qui, attenzione: Christian, agli esordi, ha usato differenti alias, ed è probabile che con la grande Milly lo troviate Christian ma col cognome Devil, o David, o Ferri, o Neri. Lo riconoscerete senza sforzo. Come, da che, dal suo penone, no?

Ditemi se non ha le p*lle quadrate uno come Christian Clay che, in gamba, si erge nel porno da 22 anni. Lui pornograficamente è il massimo della disinvoltura avvinghiata alla massima serietà professionale. Abile non ti confessa quanto guadagna, perché non guadagna poco. 

Christian ha le p*lle quadrate anche per un altro sostanzioso motivo: lui proviene da un ambiente problematico, è cresciuto in un contesto sociale camorristicamente ingombrante: “Non rinnego le mie origini, ma assolutamente io non condivido quella scelta di vita, e ne sono sempre stato distante”. Christian non è stato mai mai mai coinvolto in niente. Lui ha detto no. Lui ha scelto la libertà. L’ha trovata nel porno. Chissà perché queste sgomorrate buone Roberto Saviano non le racconta mai.

Arianna Finos per La Repubblica - Estratti venerdì 1 dicembre 2023.

Non cinepanettoni, ma I limoni d’inverno. In una sorta di benedetto contrappasso artistico Christian De Sica, dopo tanti cialtroni natalizi, porta sullo schermo e in piattaforma ritratti di uomini che amano davvero le donne. Nel film di Caterina Carone (in sala con Europictures) l’attore, 72 anni, è un professore malato d’Alzheimer che stringe una dolce amicizia con la dirimpettaia Teresa Saponangelo. Dal 21 su Prime Video lo vedremo nella serie Gigolò per caso, in cui soddisfa senza giudizio e con partecipazione, le più stravaganti fantasie delle clienti. 

'I limoni d'inverno', Christian De Sica: “Dopo tanti cattivi da commedia finalmente interpreto un uomo buono e fragile come me”. Di mascalzoni ne ha fatti tanti.

«Si ride col demonio, non con San Francesco, quei personaggi li prendevo in giro, ma magari le ho fatte diventare simpatiche queste carogne. Ma ho illustri precedenti prima di me lo faceva Alberto Sordi».

Nel suo libro appena uscito, “Due o tre cose che mi sono capitate. Gli incontri di una vita”, c’è un capitolo dediato a Sordi, che le diceva “mi devi accendere un lumicino”.

«Quando ho iniziato avevo un fisico borghese, i comici sono popolari; per essere credibile come fratello di Jerry Calà o amico di Carlo Verdone serviva il dialetto: mi sono ispirato a Sordi che era uno di famiglia. Lo consideravo uno zio, era sempre a casa mia. Il suo primo film, Mamma mia che impressione glielo ha prodotto mio padre». 

Il “cattivo” Paolo Villaggio?

«Ci ho fatto tanti film insieme. Era colto e intelligente, ma anche molto cattivo. Aveva un umorismo cattivo. È stato un grande, dopo Totò c’è lui. Alberto era sempre sé stesso, Villaggio ha inventato una maschera che non c’entrava nulla con lui».

Maurizio Costanzo.

«Con lui ho iniziato la tv, Alle 7 della sera, lui era ancora solo un autore che scriveva le battute comiche per me, Villaggio. Subito dopo mi chiamò Antonello Falqui per gli spettacoli come Bambole non c’è una lira, Studio Ottanta. A Maurizio devo tanto. Aveva paura di prendere l’aereo da Roma a Milano, partivamo insieme col vagone letto di notte, dopo le prime puntate alcuni ragazzini mi salutarono, io abbassai la testa e lui mi disse “tu devi salutarli, questi sono il tuo futuro”». 

Con sua moglie Silvia condividete tutti i ricordi.

«L’ho conosciuta facendo i compiti a casa di Carlo. Lei aveva 14 anni, io 7 di più. Non ci siamo più lasciati, ridiamo insieme, c’è un bel rispetto. Siamo cresciuti e scoperto tutto; amore vita lavoro. È la persona più importante della mia vita, con mamma e papà». 

La sua droga si chiama Frank Sinatra?

«Appartengo alla generazione dei Rolling Stones ma avendo un padre che mi ha fatto a cinquant’anni sono cresciuto con quella musica lì, tanto che mio fratello ha fatto il musicista. Quando ho un problema, i guai, le tasse, mi metto Sinatra e mi rialza l’umore».

Al Piper con Renato.

«Eravamo coetanei, andavamo al Piper, lui era nei collettoni di Rita Pavone. Usciva di casa vestito normale, si metteva le calzamaglie e le piume. Eravamo magri magri, oggi siamo Marisa Merlini e Sora Lella». 

Bettino Craxi e il mare di Tunisi.

«Quando Carlo si è sposato con Gianna, siccome ha paura dell’aereo di chiese di fare il viaggio di nozze insieme. Siamo partiti tutti per Tunisi, dove in un bar abbiamo conosciuto Craxi. Io e Silvia siamo diventati suoi amici, tornati a casa sua. La mattina ci svegliavamo presto, andavo in salotto e c’erano tutti i giornali italiani. Tutte le mattine, dopo il caffè chiamava Andreotti, che definiva “un uomo olimpionico”. Mi ha fatto tenerezza che dopo tanti anni, vedere che quest’uomo così potente era sepolto in una piccola bara sulla sabbia». 

Carolina di Monaco, "la napoletana”...

«Sì, aveva la vitalità delle ragazze napoletane sveglie. Era coltissima, potevi parlarci di tutto, dalla letteratura al melodramma. Quando era fidanzata con Robertino Rossellini ci invitarono al palazzo a Montecarlo. Ma poi lui non l’ha voluta sposare ed è finita». 

L’avventurosa Ava Gardner?

«Andammo a trovarla con i miei genitori a Madrid, era già grande, aveva finito di girare La Bibbia con John Huston. Durante la serata, aveva bevuto molto, mi fa “suona per me”, e io incapace le strimpello appresso mentre canta The girl from Ipanema. A un certo punto i miei vanno a dormire, lei mi ferma, “andiamo a ballare”. La porto al Corral de la Moreria dove si scatena nel flamenco, ho ancora l’immagine di lei che balla, mentre me ne vado». 

Il sogno nel cassetto riguarda i suoi genitori.

«Sì, e forse nel cassetto ci resterà. Sono un vecchio attore, non si crede in me come regista drammatico. Eppure La porta del cielo è più attuale che mai, la storia di papà chiuso nella Basilica di San Paolo che continua a fingere di girare anche quando la pellicola è finita per restare dentro con trecento persone, compresi tanti ebrei, salvandoli dai nazisti. Perché è una storia di amicizia, bontà, fratellanza, umanità, in quel periodo così difficile del nostro Paese».

Fulvia Caprara per “la Stampa” - Estratti martedì 14 novembre 2023.

Si fa presto a dire figlio d'arte: «Il regista - dice Brando De Sica - è come il capitano di una nave, l'intermediario tra il mondo dei sogni e quello empirico, sul set è come un sacerdote, ma anche un po' come la polena della nave, sospesa tra l'oceano, che rappresenta l'inconscio, e l'umano, cioè le vele, le ciurme, i timoni». 

Nipote di Vittorio, figlio Christian e di Silvia Verdone, De Sica dirige il suo primo lungometraggio Mimì. Il Principe delle Tenebre (dal 16 nei cinema) scegliendo come protagonista il neo-divo di Mare fuori Domenico Cuomo e ambientando la sua vicenda di sangue, amore e bullismo, in una Napoli non convenzionale, scura come il vulcano, blu come le notti in cui i vampiri tornano in vita: «È un film sull'importanza dei sogni e sulla fuga dalla realtà. Una ballata di sognatori». 

Il suo è un cognome pesante, destinato a provocare invidie e severità di giudizi. Ci vuole coraggio per scegliere questo mestiere in una famiglia così blasonata?

«Direi che ci vuole coraggio, in generale, nel decidere di fare questo lavoro. Cito Wes Anderson, sa cosa disse una volta ai suoi studenti? "Il primo consiglio è: non fate i registi, cambiate obiettivo».

Lei non lo ha seguito.

«Sì, ma non è una questione di famiglia, non è che tutti facciamo la stessa professione, mia sorella, per esempio, ne ha scelta un'altra. Per me è stato un po' come soccombere a una dannazione, come una droga, non ne potevo fare a meno, un po' come quando le suore ricevono la chiamata da Dio. Ho sentito una voce, non potevo evitare di ascoltarla». 

Sapeva che le avrebbero imputato tutti il fatto di essere nipote di Vittorio De Sica e figlio di Christian. Come ha superato l'ostacolo?

«Ho avvertito da subito una grande responsabilità, imparare la regia è stato un lavoro complesso, forse anche per il nome che porto, ma è anche vero che chiamarmi De Sica non è una colpa.

Ho studiato, mi sono laureato alla University of Southern California School seguendo i corsi della School of Cinematic Arts, ho fatto una lunga gavetta, ho girato corti, film pubblicitari, sono stato aiuto di tanti registi. L'esordio è arrivato a 40 anni, ed è anche successo che quello che avrebbe dovuto essere il mio primo film sia stato interrotto sul nascere per motivi produttivi. Un'esperienza bruttissima». 

Quando ha capito che questo sarebbe stato il suo mestiere?

«Ero molto piccolo, ho cominciato a guardare un sacco di film di genere diversi, horror, ma anche quelli che mi faceva conoscere mio nonno materno, Mario, pellicole di Lubitsch, Renoir, Kurosawa. Mi chiudevo dentro quei mondi filmici e lì trovavo la mia essenza, la mia passione.

Sapevo che non avrei potuto resistere all'idea di mettere in scena tutte quelle suggestioni, da bambino organizzavo recite a casa, mi truccavo. Avevo un'attrazione incredibile per il make-up e per gli effetti speciali, andavo spessissimo nel negozio di Dario Argento "Profondo rosso". Poi i miei mi hanno regalato una piccolissima telecamera e allora ho cominciato a girare». 

Chi è il regista da cui ha imparato di più?

«Voglio molto bene a Matteo Garrone, è la persona che mi ha insegnato più cose sul mestiere della regia».

(…)

Estratto dell’articolo di Fulvia Caprara per “La Stampa” lunedì 6 novembre 2023.

«Non se ne può più di personaggi negativi e vincenti». In vena di ricordi Christian De Sica liquida, a sorpresa, la sua ampia galleria di personaggi sboccati, maleducati, insopportabili: «Se facessi oggi un film come quelli con Aurelio De Laurentiis produttore, mi arresterebbero».  […] 

Che succede, si è stancato di far ridere?

«E' una vita che faccio ruoli di misogini e maschilisti, d'altra parte si sa che si ride con il demonio, non certo con San Francesco. […] Italia ci sono tante famiglie felici, ma nessuno le racconta, si preferisce sottolineare i lati oscuri e questo è sbagliato, sono convinto che le persone abbiano bisogno di eleganza, di positività, di film con William Holden e Audrey Hepburn, di commedie ottimiste come quelle di mio padre. Mi torna in mente Aldo Fabrizi e una sua battuta in cui diceva soddisfatto "oggi è domenica, c'è il pollo!". Ecco, quell'Italia lì, fatta di semplicità e gente umile, non la descrive più nessuno».

Cosa non le piace del cinema di oggi?

«Non ne posso più di film americani a base di esplosioni e primi piani. E poi mi rattrista constatare che il nostro sia un Paese che dimentica in fretta e facilmente. Anni fa sono entrato in un bar con mio fratello Manuel, c'erano due ragazzi, uno ha detto all'altro "ma lo sai che anche il papà di Christian faceva l'attore?" In Francia non sarebbe mai successo, lì un vecchio attore di successo è considerato un idolo da venerare». […] 

Nel film Pietro perde la memoria. Lei che rapporti ha con i ricordi?

«Io con i ricordi ci vivo. Per Risi, Monicelli, Age, Scarpelli, Sordi, ho sempre avuto una stima sfegatata, senza non avrei potuto fare niente. Una volta, poco prima che se ne andasse, Sordi mi prese da parte, eravamo in una trasmissione tv, mi disse "ogni volta che vedi una foto mia, ce' devi mette il moccoletto sotto, perché da me hai imparato tutto". Aveva ragione. Per esempio, nella comicità, ho imparato che certe cose, tipo la vecchia che cade per terra, faranno sempre ridere».

Oggi, però, con l'imperativo del politically correct, le battute vietate sono tante. Che ne pensa?

«Il politically correct è una stronzata. Siamo tutti castrati, solo Checco Zalone se ne frega e continua a far ridere. Se ripenso a certi trucchi, a certi travestimenti del passato, che ne so, tingermi la faccia di nero per interpretare un afro-americano… tutta roba diventata impossibile». 

I cinepanettoni le hanno regalato grande successo. Rimpianti?

«I film di Natale erano una gabbia dorata, ho continuato a farli, ma ho anche avuto la sensazione di essere rimasto fregato».

In che senso?

«Per esempio quando Tornatore mi offrì la parte del protagonista dell'Uomo delle stelle, ero sul set di Natale a Rio e fui costretto a rifiutare. E poi non sono mai riuscito a girare il film sulla storia dell'amore tra mio padre e mia madre Maria Mercader sul set del film La porta del cielo . Ogni volta che tornavo alla carica con il mio progetto, mi sentivo dire "lascia perdere, è una storia che fa piangere, non la vedrà nessuno".  Così alla fine non se n'è fatto niente. […]  Ho recitato adesso in Vita da Carlo 2 , mi ha telefonato Aurelio e mi ha detto che insieme funzioniamo. Gli ho risposto "E solo ora te ne accorgi?".

E dire che siamo cresciuti insieme..» Siete anche cognati, visto che sua moglie Silvia è sorella di Carlo Verdone. «Devo molto a mia moglie, stiamo insieme da 50 anni e ridiamo ancora tanto. E' lei che mi ha spinto a fare teatro, ed è stata lei che mi ha convinto a girare I limoni d'inverno, io, senza Silvia, sarei un povero scemo. Voi donne siete magiche».

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “Il Messaggero” il 9 aprile 2023.

[…] Che Pasqua sarà?

«Da oggi a martedì resterò a Milano, dove mia figlia si è trasferita da Belluno con il compagno, e non farò altro che spupazzarmi la mia nipotina Bianca. Poi tornerò agli impegni di questo periodo: sto facendo le prove di lettura del film L'altro Ferragosto di Virzì, in pratica Ferie d'agosto 2, poi mi dedicherò alla prova costumi e quindi a quelle di recitazione. Si comincia sul set il 24 aprile. Gireremo per otto settimane a Ventotene».

Per caso il suo personaggio ricorda quello interpretato dallo scomparso Ennio Fantastichini nel primo capitolo?

«No, è diverso. Non lo sostituisco, ma anch'io sarò il compagno di Sabrina Ferilli, come Ennio lo fu nell'altro film. E anch'io sarò un uomo di destra». […]

 A proposito, lei a settembre è andato a votare?

«Non vado da tempo. E l'ultima volta che l'ho fatto, tempo fa, ho sbagliato clamorosamente».

Si riferisce al 2016 quando votò Virginia Raggi sindaca di Roma?

«Sì, ma non voglio parlarne. Gli attori sono come le puttane: sono di tutti e apartitici».

 Checco Zalone, dopo tutti i complimenti e gli inviti a lavorare insieme che gli ha fatto pubblicamente, si è mai fatto vivo con lei?

«Non c'è stata occasione. Non lo frequento. Però mi piace moltissimo lo stesso, è l'unico comico italiano che se ne frega del politicamente corretto e anche per questo ha un successo enorme e strameritato. Io e gli altri, invece, siamo un po' rimasti fregati da quando c'è questa follia. Se io facessi oggi le battute dei vecchi cinepanettoni mi lapiderebbero». […]

Un lontano parente di sua madre, lo spagnolo Ramòn Mercader, nel 1940 uccise con una picconata Lev Trotzky, il dissidente comunista ucraino che entro in rotta di collisione con Stalin: lei un colpettino leggero leggero a chi lo darebbe?

«Quella storia è incredibile. Comunque a nessuno, dai... A chi mi rompe auguro tanti e grossi foruncoli al sedere (ride)».

 Il primo della lista?

«Con il cazzo che lo dico […]»

Non ha più "la faccia da stronzo", come disse Costanzo tanti anni fa, invitandola a puntare proprio su quella?

«Esatto. E forse in giro si è anche capito che so fare questo lavoro. Prima più di un addetto ai lavori diceva: "Questo gioca..."».

 E adesso che partita sta giocando?

«Fino a pochi anni fa avevo un contratto d'esclusiva con Aurelio De Laurentiis e non potevo fare altro. Adesso no e quindi posso spaziare e fare quello che voglio. Diciamo che "come me soni te abballo" (ride). […]

A proposito, vista l'età, cos'è cambiato per lei negli ultimi anni?

«Mi sembra niente. L'Italia, in fondo, e lo dico con un po' di amarezza, è un Paese per vecchi. […]

 D'istinto, oggi, cosa non farebbe mai?

«Un calendario nudo. Gliel'hanno mai proposto? «Sì, certo. Da giovane». 

 Per caso sta scrivendo un altro libro?

«Sì, il seguito di Figlio di papà, che nel 2008 andò molto bene. Ora l'editore mi ha proposto il bis e io ho accettato […] sono nato quando papà aveva 50 anni e frequentava da tempo gente straordinaria, da Charlie Chaplin a Sophia Loren, che grazie a lui ho conosciuto anch'io».

In più occasioni ha detto che Aurelio De Laurentiis ha comprato il Napoli grazie ai soldi che ha incassato con i vostri cinepanettoni, suoi e di Boldi: parteciperà ai festeggiamenti, De Laurentiis l'ha invitata?

«Non mi sembra. Se riesco a liberarmi, però, vado volentieri per l'amore che ho per Napoli».

Da fanpage.it il 16 marzo 2023.

Parliamo di fregnacce. Ne girano tante su di te, sul web. Articoli che ti dipingono un giorno come un uomo in bancarotta……e n’altro giorno so’ miliardario.

 Ecco. A proposito di bancarotta e patrimonio milionario, qual è il tuo rapporto col denaro?

Io c’ho la paghetta. Mia moglie mi dà cento euro a settimana e me la devo fare bastare. Poi, io compro le stronzate. Una volta dovevo comprare dei bicchieri e sono tornato con delle uova di ceramica. Disse: “E mò come beviamo?”. E ma erano belle e sò dovuto scendere a comprare i bicchieri. Mia moglie dice che io ‘attiro la stronzata’. La stronzata e gli stron*i, eh.

 Hai una faccia…

Una faccia da stron*o! Ma lo sai che quando ho cominciato la carriera, io ho iniziato con Maurizio Costanzo che mi fece fare una trasmissione televisiva e mi disse: “È inutile che vuoi fare il democratico come Gianni Morandi: “Ciao ragazzi, come state?”. Tu c’hai proprio la faccia da stron*o e quindi devi fare lo stron*o, tant’è che la gente dirà: “Ma chi è sto stron*o?”. E devo dire che è andata bene.

Nella vita ti sei trovato ad affrontare una serie di pregiudizi: dal “figlio di” all’attore di commedie leggere. 

Ora diranno che sono “il padre di Brando”.

 Come si supera il pregiudizio? 

Una volta Alberto Sordi mi disse: “Bacia e abbraccia tutti, ma che t’è mporta?”. Te ne devi fregare. Sapessi quante cose hanno detto e dicono. Fa parte del gioco. Comunque ci pagano per giocare, come diceva Mastroianni.

Eppure c’è un De Sica più nascosto. Tra il ’95 e il ’99 tu hai fatto tre film da regista bellissimi: “Uomini, uomini, uomini”, “Tre” e “Simpatici & Antipatici”. Una trilogia dell’essere umano che andrebbe studiata. 

Simpatici e Antipatici” è stato un film che è stato veramente fregato perché uno dei protagonisti, che era il povero Funari, assomigliava a un politico. Dopo una settimana mi ritirarono il film dai cinema. Poi però è diventato un cult movie. Un affresco sulla borghesia di quegli anni. “Tre” è stato un film che la produzione mi fece sbagliare perché io volevo farlo molto più severo. Mi dicevano che io dovevo far ridere, ma il film non era pensato per far ridere. “Uomini uomini uomini” è stato un successo eclatante.

Era la prima volta che si parlava di omosessualità in una commedia. 

Pensa che andammo a Domenica In, e non si poteva parlare di omosessualità in Rai, invece Leo Gullotta fece coming out in diretta nazionale. Aurelio De Laurentiis, che era il produttore, all’inizio disse: “Ma no, sei un matto ma che vai a fare?”. E io: “Ma no, guarda, io vorrei veramente raccontare di quattro amici omosessuali come mi piacerebbero che fossero, non dei damerini, dei deboli, ma degli uomini che hanno preso il toro per le corna”. Il film ebbe un successo enorme”.

 Delicatissimo, che ansia terribile, dichiarare il secondo…Anche: “La gradisco”.

Ecco, come nasce un tormentone?

Lo fa nascere il pubblico. Io neanche mi rendo conto. Quando ho detto “delicatissimo”, mi faceva ridere che questo burino diceva che il risotto era ‘delicato’. È il pubblico che lo fa diventare un tormentone, ma quando lo fai non è che dici ‘adesso voglio fare il tormentone’. Parli e dici ‘ste frescacce che funzionano, o no.

C’è una notizia che ritorna ciclicamente, tra le più lette su Fanpage.it, riguarda la tua villa a Capri per la quale non riesci a trovare un compratore. 

È vero, non si vende.

 Vuoi approfittare di Fanpage.it per rilanciare l’annuncio? 

Guarda, adesso m’ha detto mia moglie che forse c’è uno che se la piglia.

 Perché vendi la villa a Capri?

Ma sai, sono 50 anni che vado a Capri. Gli americani dicono a 40 devi comprare e a 60 devi vendere. Io ho superato i 60, quindi dovrei vendere. Queste cose sono bellissime ma sono tutte rotture di scatole. Poi neanche ci vado perché facendo questo mestiere – ho fatto due film, parto con una serie – l’attore è un mestiere da zingaro. Quando lavoravo andavo spesso lì, poi ho tanti amici a Napoli, questo è vero, e un po’ mi manca.

 (…)

 La grande bufala, quella della morte. Leggerti morto che sensazione ti fa? 

Me l’hanno fatta tre, quattro volte. Una volta ero in America, ho dovuto chiamare mia moglie, tranquillizzare i parenti. È un fastidio.

 Tu sai che cos’è un coccodrillo? 

Sì. Ce l’abbiamo tutti. Anche io ce l’ho già fatto. È pronto. È l’articolo precotto che si tira fuori alla morte di un personaggio famoso.

 Corna facendo, te la senti di titolare l’articolo che uscirà il giorno della tua morte? 

Eh, bisogna pensarci, però. Ce ne sono alcune bellissime. “Ero soltanto tanto stanco”, Gassman c’ha “Giace qui l’attore che nessuno ha mai impallato”. Non è una cosa facile, ma ci proviamo.

 Christian De Sica ha quindi scelto di titolare il suo "coccodrillo" citando uno dei suoi autori preferiti, Frank Capra. "Questa è una perla, eh", ci ha detto compilando l'articolo che troverete alla fine della video intervista. 

I De Sica e la saga famigliare: il padre Vittorio, le due famiglie, Christian e il cognato Verdone. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

L’attore, che ha perso il fratello Manuel e la sorella Emi, compie oggi 72 anni. E ora aspetta una nipotina dalla secondogenita Maria Rosa

Christian De Sica, showman

Christian De Sica , figlio del grande Vittorio, ha una vita «colorata». Romano, compie 72 anni ma ha ancora la verve di un ragazzo. Attore, comico, cantante, regista, sceneggiatore e conduttore televisivo è stato bravo ad affrancarsi dal mito di papà Vittorio, trovando una sua strada di showman e riuscendo ad essere molto amato dal pubblico. Oltre alla sua carriera molto poliedrica, Christian è «protagonista» di una simpatica famiglia allargata, sulla quale ha raccontato spesso aneddoti curiosi e divertenti. Su 7 ha raccontato: «Sono figlio di un uomo come Vittorio, che mi ha fatto a 51 anni: ho avuto la sfortuna di perderlo poco più che ventenne e la fortuna di aver conosciuto, grazie a lui, personaggi inarrivabili per i miei coetanei: Charlie Chaplin, Ava Gardner, Montgomery Clift, il pittore Francis Bacon…».

Il capostipite Vittorio

Una leggenda. Vittoria De Sica nato a Sora il 7 luglio 1901 e morto a Neuilly-sur-Seine (Parigi) il 13 novembre 1974 è uno dei padri del neorealismo e uno dei maggiori registi e interpreti della commedia all’italiana. Ha firmato film come Sciuscià, Ladri di biciclette, Ieri, oggi, domani , Il giardino dei Finzi Contini, La ciociara; ha interpretato commedie famosissime Pane, amore e fantasia (1953), Pane, amore e gelosia del 1954, sempre a fianco di Gina Lollobrigida e Pane, amore e... del 1956, questa volta a fianco di Sophia Loren; I due marescialli (1961) con Totò. Molto attivo anche in tv, prese parte a programmi come Il Musichiere (1960), Studio Uno (1965), Sabato Sera con Corrado (1967), Delia Scala Story (1968), Stasera Gina Lollobrigida (1969), Canzonissima con Corrado e Raffaella Carrà (1970-71)

Le due donne-famiglie di Vittorio

Oltre che un grandissimo artista, Vittorio è stato anche un uomo molto vivace, affascinante, grande amante , giocatore d’azzardo, impenitente bugiardo. Il 10 aprile del 1937, Vittorio sposa l’attrice torinese Giuditta Rissone, dalla quale ha una figlia Emilia, detta Emi (1938-2021). Dopo quattro anni dalla sua nascita, nel 42, sul set di Un garibaldino al convento, conosce l’attrice catalana María Mercader, ed è amore. Ma allora in Italia non era possibile divorziare e dunque furono anni complicati e di «bigamia». Nel 1968 ottiene la cittadinanza francese e può sposare María Mercader a Parigi: da lei ha due figli: Manuel (1949-2014) grande musicista, e Christian (1951). Ma nonostante il sopraggiunto divorzio, De Sica non riesce a rinunciare alla sua prima famiglia e avvia un doppio ménage, con i famosi doppi pranzi nelle feste, doppi Capodanno, esasperanti e logoranti. Ma Christian ancora oggi spesso sorride di quei ricordi. La prima moglie Giuditta accettò di mantenere una sorta di matrimonio apparente, pur di non togliere alla figlia la figura paterna, considerato anche che Emilia è sempre stata legatissima a Vittorio. Recentemente Christian ha dichiarato : «Mio padre ci ha lasciato in eredità anche la scoperta di numerosi fratelli e sorelle nascoste. La mia non era una famiglia, ma una cooperativa. Gli uomini erano maschilisti e lui era innamorato di tutte quelle donne».

Emi, la primogenita, e quella telefonata a Christian per rivelarsi

«Ciao Emi, mi mancherai. Dai un bacio a papà». Christian De Sica ha usato queste parole per dare notizia della morte di Emi, sua sorella maggiore, scomparsa a 83 anni, lo scorso 23 marzo. Lo showman su Facebook, ha pubblicato una foto della sorella, ancora giovane, di fianco al padre Vittorio. Una donna vitale e spiritosa, (sposata con Sergio dal quale ha avuto la figlia Giovanna), che ha votato la sua esistenza a ricordare, onorare, divulgare l’opera del papà. Ha abitato per tutta la vita nella casa che fu del padre, con perfino il divano che ospitò Zavattini, con il quale De Sica scrisse proprio lì Ladri di biciclette. Era molto legata ai fratelli minori (Christian e Manuel), ai quali si è rivelata solo da adulta (lei sapeva della loro esistenza, loro due invece non conoscevano l’esistenza della «prima» famiglia). Christian racconta spesso il divertente aneddoto, quasi da commedia all’italiana: «Quando avevo 18 anni, ricevo una telefonata: ”Mi chiamo Emi, sono vostra sorella. Vediamoci alle 16 a Villa Glori”. Manuel e io, increduli ma incuriositi, andammo all’appuntamento. Seduti su una panchina con Emi, che non avevamo mai visto prima, demmo vita a una specie di confronto all’americana che ci permise di ricostruire le nostre esistenze parallele: le due cene di Natale, il Capodanno festeggiato in differita per non scontentare nessuno, i regali in doppia copia...». Christian e Manuel tornarono a casa e chiesero conto al padre dell’altra famiglia., ma lui «uomo d’altri tempi rimase ammutolito. Poi ci spiegò che non aveva avuto il coraggio di dirci la verità per paura di ferirci».

Manuel, il fratello di Christian

«Papà, quando eravamo bambini, vestiva me e Manuel con due frac neri, sembravamo due cornacchie, e ci faceva recitare scenette... Si divertiva, noi un po’ meno. Alla fine mio fratello ha fatto il musicista e io l’attore». Così Christian raccontava della sua infanzia insieme al fratello Manuel, scomparso prematuramente il 5 dicembre 2014 a soli 65 anni; lasciando il figlio Andrea, avuto dalla prima moglie Tilde Corsi, e la seconda moglie Maria Lucia Langella. Christian, secondogenito di Vittorio e Maria Mercader, era un musicista di grande valore, che realizzò tantissime colonne sonore (nomination all’Oscar per «Il giardino dei Finzi-Contini»), tante composizioni da concerto eseguite da maestri quali Salvatore Accardo e molte canzoni interpretate tra l’altro anche da Ella Fitzgerald e Tony Bennet. Ha scritto un libro «Di figlio in padre» dedicato a Vittorio.

La moglie Silvia, il cognato Carlo Verdone (e gli schiaffi)

Come se non bastassero gli artisti nella famiglia De Sica, Christian ha pensato bene di sposarsi con Silvia Verdone, figlia di Mario Verdone, celebre critico e storico cinematografico; e sorella di Carlo, noto attore e regista. L’amore nacque quando Silvia era giovanissima: aveva solo 14 anni. Christian aveva come più caro amico proprio Carlo, e a causa del legame con la sorella, scattò la lite tra i due che arrivarono quasi a mettersi le mani addosso e a non parlarsi per un bel po’. «Tu sei un puttaniere, esci con mia sorella che ha la coda di cavallo, è piccola» urlò Carlo a Christian. Ma il tempo ha dato ragione a De Sica. Dall’unione con Silvia sono nati due figli, Brando (1983), e Maria Rosa (1987). Molto riservati e lontano dai riflettori, De Sica e la Verdone hanno sempre protetto la loro relazione dai gossip. Ospite di «Domenica In», tempo fa Christian ha raccontato il legame fortissimo con la moglie e il suo amore per lei: «Silvia è il vero motore di questa famiglia e ringrazio ogni giorno di averla con me perché le donne sono fantastiche – ha confessato a Mara Venier -. Oltre che una compagna di vita, lei è anche la mia agente: non ci guadagna, le fa piacere e mi sopporta. E soprattutto è libera: quando sono sul set, Silvia va e viene. Ogni tanto ha voglia di cambiare aria: allora raggiunge i nostri figli e poi torna».

La generazione continua 1 / Brando (che non usa scorciatoie)

Classe 1983, Brando De Sica è nato a Roma il 10 marzo. Figlio di Christian e Silvia, a 20 anni, è volato in California dove si è laureato in Arte e Cinema presso l’Univerity of Southern California. Il primissimo film in cui ha recitato è stato Anni 90 – Parte II, pellicola che vede protagonisti papà Christian con l’amico di sempre Massimo Boldi. Nel 2018 Brando ha affiancato il padre nella regia di Amici come prima, che mette nuovamente in scena un cinepanettone i cui protagonisti sono ancora Christina De Sica e Massimo Boldi. Brando, però, si è conquistato tutto sul campo con una intensa gavetta. Ha dichiarato: «Mio padre e mia madre sono due persone meravigliose, ho uno zio straordinario come Carlo Verdone, per non parlare di mio nonno Vittorio... Sono però convinto che, per lavorare nel mondo della regia, sia molto importante guadagnarsi da solo, con le proprie gambe, la stima e il rispetto degli altri, senza scorciatoie». Per quanto riguarda la vita privata Brando è molto riservato e non si sa se è legato a qualcuno. La sua grande vera passione per ora è la regia

La generazione continua 2 / Maria Rosa e la moda

Maria Rosa De Sica, la secondogenita di Christian e Silvia, rispetto al fratello Brando ha scelto un’altra strada: la moda. «Attrice non avrei mai potuto — ha raccontato la figlia di Christian De Sica, proprio in un’intervista al Corriere della Sera — sono timida, riservata... da ragazzina mio fratello Brando, fissato col cinema, girava dei video e mi costringeva a dire delle battute. Io mi sbagliavo, mi arrabbiavo, non ero capace e a volte piangevo. Anche mio padre provò a consigliarmi la strada della recitazione: è ovvio che, se nasci in una famiglia di questo genere il cinema fa parte di te. Invece ho scelto un altro percorso, studiando scenografia e costume. Poi ho iniziato, per caso, a creare per la moda». E della sua famiglia e del suo cognome dice «Importante certo, ingombrante mai. Non mi sono mai sentita raccomandata, la figlia di... fortunata sì. E come soprannome per il mio lavoro da stilista ho scelto Mariù: un omaggio al nonno, alla sua meravigliosa interpretazione di Parlami d’amore Mariù». Che ora aspetta una nipotina: Christian è impaziente di conoscerla.

Da iltempo.it il 27 dicembre 2022.

Due famiglie, due cenoni. Christian De Sica ospite della puntata natalizia di ‘Domenica In’ condotta da Mara Venier su Rai 1 ha raccontato, tra l'altro, il Natale particolare che viveva da bambino. “Io ero figlio dell’amante di mio padre, lui era sposato con un’altra attrice che si chiamava Giuditta Rissone e aveva una figlia, mia sorella. Non aveva il coraggio di dircelo ma lui faceva tutto doppio", racconta l'attore figlio dell'inarrivabile Vittorio De Sica.

 Il regista premio Oscar per i film "Sciuscià", "Ladri di biciclette", "Ieri, oggi, domani" e "Il giardino dei Finzi Contini", la sera della vigilia di Natale, il 24 dicembre, "mangiava con noi prima i tortellini, il cappone e panettone, poi ci metteva a letto". A quel punto "prendeva un taxi e attraversava Roma, andava ai Parioli, si metteva a tavola con la prima moglie e mangiava i tortellini, il cappone e panettone... Anche il 25 la stessa cosa, tutto doppio faceva!” racconta De Sica con un filo di emozione. "Dormiva tre giorni con la moglie, tre giorni con l'amante". L'attore ricorda che in seguito chiede al padre: "Ma chi te l'ha fatto fare?". "Capita..." la risposta del grande regista.

Anna Maria Piacentini per “Libero quotidiano” il 26 Dicembre 2022.

Coppia che vince non si cambia, lo sanno bene Christian De Sica e Angela Finocchiaro che recitano per la quinta volta insieme sono protagonisti, della nuova, esilarante commedia Natale a tutti i costi, prodotta da Colorado Film con Sony Pictures International da lunedì 19 dicembre già visibile su Netflix. Il film è diretto Giovanni Bognetti il film è il remake del francese Mes très chers enfants, di Alexandra Leclère e racconta la "sindrome" del nido vuoto e le conseguenze che i genitori sono costretti a vivere una volta rimasti soli. 

Il tema centrale è la famiglia, gli egoismi dei figli, e la voglia da parte di genitori come Carlo e Anna di passare il Natale con loro. Ma Alessandra (Dharma Mangia Woods) ed Emilio (Claudio Colica), oramai hanno spiccato il volo, vivono in altre città e non hanno nessuna intenzione di passare le feste con loro: sai che noia? Così, pur di rivederli Carlo e Anna inventano una clamorosa bugia: avrebbero ricevuto in eredità dopo la morte di una zia, ben sei milioni di euro. Ed ecco che gli "angioletti" tornano a casa: «Diciamolo», sottolinea De Sica, «questi due figli sono un po' str....». 

Ma la storia, in fondo si può definire figlia del nostro tempo. De Sica lei è d'accordo?

«Sì, ma i miei due figli sono diversi, Brando che fa il regista e Mariarosa (che si dice lo renderà nonno, ndr) a Natale tornano a casa e ne sono felici. Cerco sempre di inventarmi qualcosa. Con noi, c'è anche Carlo Verdone che è il fratello di mia moglie con i suoi figli, siamo quasi una cooperativa molto divertente. Però quando i miei ragazzi sono diventati adulti e hanno scelto di andare a vivere da soli, ho accettato, è stata quasi una liberazione... (ride, ndr)» 

Torniamo al film "Natale a tutti i costi" remake di un lungometraggio francese. Fisicamente assomigliate agli altri due protagonisti d'oltralpe?

«No, lei è una "culona", lui un ciccione. Però sono bravi attori. Sono contento di aver fatto questa originale e divertente commedia. Oggi la tendenza è fare i remake. Ci sono meno sceneggiatori bravi come lo erano Age e Scarpelli o Zavattini. Forse perché si è raccontato già tutto. Ma ciò che ancora mi fa riflettere sono i cinepanettoni». 

Ecco, dei "cinepanettoni", non ha nostalgia? Erano come un grande abbraccio sotto l'albero.

«I giovani che li amano mi chiedono di tornare a farli, ricevo messaggi tutti i giorni.

Non li rinnego, anzi li ricordo con affetto. È stato un bel periodo, ma con De Laurentiis penso che per quel genere non ci sia più spazio. L'ultimo è stato con Massimo Boldi nel 2018, si intitolava Amici come prima e incassò 8 milioni di euro. Se mi chiamasse li rifarei subito, però ora sarebbe difficile anche usare quel tipo di linguaggio». 

In che senso?

«Si ride di meno. Quei boati che c'erano al cinema non li senti più. E poi bisogna stare attenti a parlare, non si può più dire niente. Invece, con i cinepanettoni si potevano fare battute su molti avvenimenti, ma se le facessi adesso rischierei il carcere».

Il politically correct per Zalone non esiste.

«Infatti ha un grande successo anche se è il più politicamente scorretto che ci sia.

Fa i film che vuole e se ne frega».

Però...

«Il comico è cattivo, mi rendo conto che a volte si ride con il "demonio", non con San Francesco. La vecchietta che in una scena del film cade per le scale, è una cosa disdicevole, ma fa ridere. Diciamoci la verità». 

Sì, diciamocela...

«Ho 71 anni sarebbe complicato rinunciare a quel genere adrenalinico, ma c'è un'età per tutto. Anche mio cognato Carlo non potrebbe più fare film come Un sacco bello, né oggi Alberto Sordi Un americano a Roma". 

E lei e Boldi insieme?

«Non vorrei esagerare, ma se facessimo un film come Yuppies qualcuno per certi versi potrebbe anche sputarci in faccia: simbolicamente. Infatti quando cammino per strada c'è anche chi mi dice: "a zio fatti abbraccià, te voglio bene...". Ed è lì che senti tutto l'affetto e hai tanta voglia di ricominciare». 

Con "Natale a tutti i costi" ha fatto un film politicamente corretto e ci è cascato con il vino dell'Abruzzo. Ne è venuta fuori una polemica social assurda.

«Ma io amo l'Abruzzo, sono andato spesso a Pescara dove ho portato il mio spettacolo. Il loro vino? Sono stato intrappolato dal contesto: in una scena il figlio va alla cena dei genitori solo perché ha saputo di una loro eredità e porta una bottiglia di vino, ma si merita una risposta fredda e un'espressione di fastidio: è corposo, rispondo, una "merda". Ma non centra nulla con il vino dell'Abruzzo: la "merda" è riferita al figlio. Le scuse poi sono arrivate». 

Così nel suo ultimo film anche il vino dell'Abruzzo involontariamente ha avuto una grande pubblicità. Forse non ne aveva bisogno, però funziona.

«In questo film c'è una bella alchimia, vino a parte, spero di girare il sequel sempre in coppia con Angela Finocchiaro che è davvero fissata con le cene di Natale». 

A proposito del Natale, cosa si augura?

«Che finisca questa guerra e torni la pace. Mi auguro anche un po' di tranquillità per tutti». 

Una curiosità: chi vedrebbe come suo erede nel cinema. Ma un giorno molto lontano per tutti noi è insostituibile...

«Forse l'attore che ha recitato in questo film nei panni di mio figlio: Claudio Colica, lo trovo molto bravo». 

Con il nuovo governo cambieranno molte cose. Per il cinema può dare un suggerimento?

«La cosa più importante sarebbe quella di poter continuare a fare il cinema riuscendo ad avere anche più incentivi soprattutto economici per le produzioni e a tutti quelli che ruotano intorno alla realizzazione di un film. Il cinema italiano lo merita come noi attori. Sono fiducioso che tutti ciò accada.

Estratto dell’articolo di Emanuele Corbo per ilfattoquotidiano.it il 10 aprile 2023.

[…] Christina Aguilera, nelle scorse ore ha rilasciato delle dichiarazioni piuttosto piccanti nella nuova puntata del podcast Call Her Daddy. La cantante è entrata nel dettaglio di come le piace fare sesso orale[…]

La popstar che spopolava nei primi anni Duemila ha affermato: “Amo fare i po***ni […] So che ad alcune donne non piace, ma non so, è eccitante. E dopo che ci hai lavorato tanto, penso che ingoiarla sia proprio una cosa giusta, ha un sacco di proteine. […]”. Un do ut des che soddisfa entrambe le persone coinvolte nell’atto. Non fa una piega. 

Christina Aguilera ha recentemente lanciato il marchio Playground, che produce lubrificanti tesi a migliorare il piacere sessuale delle donne. […]

  “Mi dicevo: ‘Devo fare canzoni che abbiano un significato per me e che siano valide per quello che sono, senza paura e parlando di qualsiasi cosa’. E questo include la sessualità. Sentivo che c’era molta vergogna e paura intorno a questo argomento… quindi volevo solo essere chi ero e creare uno spazio sicuro per tutti per sentirsi bene” ha raccontato ancora nel podcast.

Ma qual è il segreto per una vita sessuale soddisfacente? Secondo la cantante tutto parte dalla conoscenza di se stessi e dall’avere un partner con cui esplorare la dimensione del piacere. Qualche esempio? “Ci sono ragazzi a cui non piace che gli si tocchino le p***e, altri a cui piace che gli si facciano cose brutali”. […] “La sessualità è una cosa bellissima. E dobbiamo prendercene cura come donne per assicurarci di dare priorità a noi stesse e a ciò che significa per noi, perché ogni donna è diversa”.

Christopher Walken, l’iconico attore newyorkese compie 80 anni. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2023

Domatore di leoni, ballerino e interprete dal fascino inquietante, tutto quello che non sapevate su Ronald Walken

Origini

Ronald Walken è nato il 31 marzo 1943 a New York, nel quartiere di Queens dove passerà tutta l’infanzia e l’adolescenza. Il padre Richard Walken era arrivato dalla Germania nel 1928, mentre la madre Rosalie Russell era scozzese. Entrambi i genitori erano fornai ed ebbero in tutto tre figli.

La danza

La madre Rosalie era una fanatica del mondo dello spettacolo e sperava che i propri figli potessero prima o poi farne parte. Ecco perché incoraggiò molto presto i giovani Walken a prendere lezioni di danza, soprattutto tip-tap, per poter partecipare ai provini delle decine di spettacoli televisivi filmati a New York negli anni ’50.

Il nome

Fino agli anni ’60 Walken lavorò come ballerino, partecipando anche allo spettacolo da nightclub di Monique Van Vooren, che amava introdurre il corpo di ballo con nomi inventati. Una sera venne infatti presentato come Christopher e suonò talmente giusto da diventare il nome d’arte permanente del futuro attore.

Circense

Prima di dedicarsi alla danza e alla recitazione a tempo pieno, Walken provò diversi altri mestieri, tra cui quello di domatore di leoni. A sedici anni trascorse infatti l’estate a prepararsi per l’esibizione con grossi felini in un circo newyorkese.

Video musicali

Una volta avviata la carriera da attore, Walken mise in pausa le sue abilità da ballerino, ma non vi rinunciò interamente. Nel 1992 partecipò al videoclip per “Bad Girl” di Madonna e soprattutto nel 2001 tornò alle sue radici danzanti per “Weapon of Choice” di Fatboy Slim, diretto da Spike Jonze, dove si occupò personalmente anche della coreografia.

Matrimonio

La vita sentimentale di Walken ha avuto una traiettoria pressoché indisturbata dal 1969, anno in cui sposò l’allora casting director Georgianne Thon. La coppia non ha mai avuto figli.

Cronaca nera

Nel 1981 Walker si trovò coinvolto in un misterioso fatto di cronaca nera, essendo presente sullo yacht di Robert Wagner e Natalie Wood la notte del 28 novembre. Dopo un litigio con il marito, Wood sembrerebbe aver lasciato l’imbarcazione su un gommone, per poi essere ritrovata annegata a largo la mattina successiva. Il caso fu chiuso come incidente, ma diversi dettagli nell’autopsia e nelle dichiarazioni dei testimoni (oltre a voci di un flirt tra Wood e Walker) hanno più volte fatto sospettare un’aggressione da parte di Wagner, dichiarato comunque innocente dopo ogni ulteriore indagine.

Barbara Costa per Dagospia il 19 febbraio 2023.

Questa qui è vergine… sì, di maschi occidentali! Ma, al momento del passaggio di queste mie righe, l’imene della curiosità verso il pene dell’Ovest sarà stato spezzato, e di sospiri e grida di godute orgasmiche colmato e quasi di certo non sfamato: perché le prime ineditissime scene tra la nuova stellina del porno orientale con 2 stalloni americani sono stabilite, e noi le vedremo presto.

 Questo bocciolo asiatico che già in foto sveglia spermatiche e squirtanti ponderazioni si chiama Chu Meng Shu, ha 22 anni, ed è tra le attrici hard di punta di "Model Media Group", la partnership del porno che USA e Cina (e Taiwan) hanno da poco stipulato per penetrarsi a vicenda i mercati porno. Mica starete appresso alla guerra che, secondo gl’impettiti analisti, per Taiwan USA e Cina stanno per farsi, ma va là, siamo più cinici e concreti: business is business!

 Contano soldi e profitti, i soldi e i profitti che chi vince una guerra si fa, e si sa, ma, se con chi non vai d’accordo ci firmi ottimi contratti di collaborazione porno, dove i soldi ci stanno e si fanno, il guadagno è maggiore! Porno e patta e non inosservati emolumenti pure per porno attrici come Chu Meng Shu, la quale è nel porno da un anno, è taiwanese di Taoyuan, e prima di darsi al porno faceva la cameriera. Il suo visetto leziosamente infantile ha finora spaccato il video di circa 30 scene, ognuna girata con attori e attrici dell’Estremo Oriente.

 A gennaio "Model Media Group" è stata invitata agli Oscar del Porno americani. È giunta a Las Vegas con una decina di attrici della sua scuderia e, tra loro, Chu Meng Shu. La ragazza non sa una parola di inglese ed è stata tutto il tempo scortata dalla sua interprete. Ha rilasciato frasi di spergiurato amore nei confronti degli uomini occidentali, “che mi immagino e mi fantastico molto diversi dagli asiatici… io finora ho girato con partner bravissimi, ma così seri, troppo compassati, fuori dal set.

Gli occidentali sono più aperti, più estroversi, non vedo l’ora di far scene con loro. Me li sogno vivaci”. E vivaci e di sicuro, Chu Meng, sono i peni e i pacchi interi di Nathan Bronson e Codey Steele, i primi 2 attori porno USA con cui risulti prenotata per girare!!! Chu Meng Shu dice di amare il porno, e che è per nulla pentita di aver cambiato radicalmente lavoro, e vita. Per giunta per lei è importantissimo presentarsi su un set “fresca ogni volta che giro”, e per cortesia, date a Chu Meng “ruoli sempre diversi con cui misurarmi”.

E come no. Finora le sue acerbe curve delicate si sono cimentate nei ruoli da studentessa a divisa scacchi e mutandina bianca, da infermierina, riempiendo ogni casella tra i cliché. Stesso discorso per la collega di agenzia Xia Qing Zi (ovvero "estate di sole"), nel porno da 4 anni, oltre 200 scene all’attivo, anche lei di Taiwan e arcistufa di girare solo con asiatici e solo porno asiatico dove la drammaticità, spinta fino al pianto, va di pari passo col sesso in quanto donna piangente ma godente rende arciduro il pene dell’ orientale cliente (e ha buon mercato in Giappone).

 Non so fino a che punto il porno americano punti sullo stereotipo dell’orientale asservita da porno soggiogare, tema che pure da noi non scema a trend, e che però trova l’opposizione della nuova ondata di attrici porno, che di dare il loro nome, volto e corpo a queste banalità ne hanno zero intenzione. O almeno, questo è quanto sostengono le attrici porno orientali americane di seconda e terza generazione. Che Chu Meng Shu la pensi diversamente? O è una a cui frega niente del politicamente corretto corrente, e che, dietro cospicuo cachet, ti porno gira pure le scene le più aberranti, più illecite, ovunque le guardi scomodanti, e che proprio per il loro fastidio attizzano le voglie – e le carte di credito – di porno fruitori tra i più, nella vita formale e quotidiana, irreprensibili…?

Il porno ha nella sua anima la più arcana e sincera il potere di dar fastidio. Mostra e stuzzica la parte di noi la più oscena, la più eticamente indegna. Quante volte, felici, siamo consapevolmente precipitati su video porno ignominiosi e che sono l’opposto in cui crediamo, teniamo, e professiamo? Non lo saprà mai nessuno, e per questo, presto, lo rifaremo. È una legge del porno. In ciò sta la sua mira, in ciò sta la sua nitida natura. Chissà in quali e quante spietate e infernali tentazioni cadrà – e ci farà cadere – Chu Deng Shu…

Estratto dell’articolo di Katia Riccardi per repubblica.it lunedì 16 ottobre 2023.  

 “Sono trent'anni che vado a dormire sperando che la notte mi porti qualcosa di bello. E quella notte è arrivata, mi ha riportato me stessa intera”.

Cinzia Leone della malattia che l’ha colpita il 21 dicembre del 1991, un aneurisma congenito all'arteria basilare e un conseguente ictus, non ha più voglia di parlare. “Quando metà del tuo corpo è morto, diventa dura. Ma non mi sono mai arresa, il cerchio della malattia è chiuso, sconfitto”.

“Negli ultimi anni aveva cominciato a tremarmi la voce ogni volta che parlavo, poi ho scoperto che ero proprio io a chiudere il passaggio dell’aria per non far vibrare le corde vocali. Evidentemente avevo bisogno di rappresentare me stessa come un’attrice senza voce. Poi l’altra sera, all’incontro in seno al Festival della Salute Mentale, organizzato dalla cooperativa Manser per un imprenditoria umanizzata, ho fatto un pezzo che amo particolarmente, Il vagone silenzio”. 

(…)

Lei non frequenta molto la satira politica, perché?

“Perché alla satira politica preferisco quella umanistica. Non me ne frega niente di fare la satira della ‘narrazione’, ormai la narrazione politica è la politica stessa, la narrazione a favore di una politica che deve giustificare il suo non agire mai effettivamente su nulla. Sono anni che ci portiamo dietro le stesse identiche problematiche”. 

Sono tante, a quali si riferisce?

“Alle morti sul lavoro, insopportabili, quasi quotidiane ormai, come i femminicidi. Ma anche alle spaventose diseguaglianze economiche, ai dissesti idrogeologici, alle periferie completamente abbandonate. 

Per non parlare del problema più grande di tutti, l’immigrazione. Non si può sfogliare la margherita e a ogni petalo dire ‘oggi li accogli tu, oggi io’, il problema è quello di far vivere e esistere queste persone dignitosamente senza depredare il continente da cui scappano, senza bombardarle, senza torturarle, senza considerarle merce umana di secondo piano”. 

Ma lei perché è sparita dal piccolo schermo?

“Io sono sparita nel silenzio più assoluto dalla trasmissione Tunnel, un enorme successo del ’94, senza che nessuno abbia scritto una parola, come se fossi evaporata. Per dieci anni sono stata completamente fuori da tutto. Da tutto. Nel 2005 ho partecipato al premio Massimo Troisi che si teneva a San Giorgio a Cremano, con un intervento comico che il pubblico aveva apprezzato molto. 

Tempo dopo, quando mi sono seduta davanti alla tele per vedere la messa in onda del programma ho scoperto che non c’ero, il mio pezzo non arrivava mai perché ero stata tagliata, io e addirittura il cane, che a un certo punto era apparso sul palco perché era venuto a cercarmi. Ero stata tagliata senza essere nemmeno avvisata”. 

Perché non ha mai raccontato questa cosa?

“Perché mi avrebbero polverizzata in un attimo. Facendomi passare per un’attrice sfigata che non meritava di lavorare e si lamentava. Queste cose se ne parli sono talmente patetiche che diventano quasi comiche. Io non ho mai praticato il sensazionalismo, lo detesto, detesto l’aura pubblicitaria che si deve creare su ogni evento, penso che il lavoro sia fatto di contenuti. Resta il fatto che sono sparita con un rifiuto corale da cinema, tv, e questo può destare leciti sospetti”. 

(…)

C’è ancora libertà per gli artisti oggi secondo lei?

“C’è una libertà condizionata da un politically correct che è servito soprattutto a garantire protezione a un sistema non più disposto a essere criticato o dileggiato da una visione satirica. Sul fatto che non sia necessario offendere sono d’accordo, ma la satira è un altra cosa”. 

Mi può fare un esempio?

"Faccio alcuni spot per il Festival della Salute Mentale. Il dipartimento della salute mentale Asl 2 ha usato la frase ‘visto da vicino nessuno è normale’ che è una frase di Caetano Veloso che ha ispirato fortemente Franco Basaglia. Come istituzione l’Asl poteva utilizzare solo questa frase per aggirare il fatto di dire che siamo tutti nella merda. Quindi lo faccio io nei miei spot, perché questo è il mio ruolo. Io sono una comica e per cazzeggio posso giocare con la parola merda perché quel cazzeggio contiene una parte di verità, questa è la satira”. 

Quali sono i suoi progetti?

"Mi piacerebbe riuscire a scrivere uno spettacolo comico sull’odio. Mi pare il sentimento più diffuso del mondo attualmente”.

Nel 2018 è tornata a lavorare per il trentennale de ‘La tv delle ragazze’, perché?

“Perché con Scusate l'interruzione, tre edizioni di Avanzi e Tunnel ho partecipato fin dall’inizio alla storia di quel programma e a tutto quello che è scaturito dalla tv delle ragazze”.

E che cosa ha capito?

"Che non sono più una ragazza”.

Cirque du Soleil, la rinascita del circo delle meraviglie: «Tuffo in un viaggio fantasy». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

Nel 2020 la bancarotta per il Covid. Giovedì ha debuttato alla Royal Albert Hall in prima europea Kurios. Cabinet of Curiosities: ogni show costa 15 milioni di euro

Londra Il circo delle meraviglie è tornato. Giovedì ha debuttato alla Royal Albert Hall in prima europea Kurios. Cabinet of Curiosities del Cirque du Soleil. Lo spettacolo, uno dei più sorprendenti e affascinanti della celebre compagnia canadese, sarà presentato a Roma dal 22 marzo al 29 aprile; si sposterà poi a Milano dal 10 maggio al 25 giugno. Quando tutto si è fermato nella primavera 2020 con l’arrivo del Covid, il Cirque è stato costretto a cancellare i suoi 44 spettacoli in giro per il mondo e a licenziare il 95 per cento della sua forza lavoro — oltre 4.600 persone —. «Siamo passati da oltre un miliardo di dollari di entrate a zero» dichiarò l’allora presidente e ad della compagnia con base a Montréal Daniel Lamarre, che nel giugno 2020 ricorse alla bancarotta controllata per fare fronte a novecento milioni di debito, e salvare la sua fabbrica delle meraviglie (il 1° dicembre 2021 ha ceduto le cariche a Stéphane Lefebvre, assumendo un nuovo ruolo di vicepresidente esecutivo).

La vendita del colosso del circo a un gruppo di investitori guidato da Catalyst Capital Group ha consentito la rinascita dell’iconica compagnia, tornata operativa con dieci spettacoli in tour e nove in residency. E il 20 aprile, a Montreal, debutterà un nuovo show, Echo. Kurios, ambientato all’inizio del XX secolo, racconta il viaggio di uno scienziato, The Seeker (il cercatore, interpretato da Anton Valen) che crede in un mondo invisibile dove tutto è davvero possibile, forse non nel presente ma nel futuro. Lo show è basato su molte idee steampunk (filone della narrativa fantascientifica che gioca con anacronismi e tecnologie, immaginando «come sarebbe il passato se il futuro fosse accaduto prima», la cui ambientazione si ispira alla Londra vittoriana dei romanzi di Conan Doyle, H.G. Wells e Jules Verne) e, spiega Rachel Lancaster, direttrice artistica di Kurios, «rappresenta l’opportunità di continuare a “creare meraviglia”. Dopo due anni di pandemia il pubblico ha voglia di evadere dalla realtà per qualche ora, e il viaggio offerto dallo spettacolo è pieno di gioia, sogni, speranza». Una «danza complessa» in cui si alternano 54 artisti sul palco, ma lo staff al completo di Kurios è di 130 persone. Ottocento gli abiti di scena tra costumi (lavati dopo ogni replica da lavatrici che la compagnia porta nei tour), accessori, scarpe, parrucche impiegati. Costo dello show: quindici milioni di euro. «Come processo creativo cominciamo definendo la storia a grandi linee, poi con acrobati, contorsionisti, trapezisti e tecnici si lavora più nel dettaglio per fare in modo che ogni fase dello spettacolo possa essere concretamente realizzata».

L’audacia e la spettacolarità dei «quadri» che compongono Kurios è straordinaria, dalle acrobazie eseguite in sella a una bicicletta sospesa nel vuoto alle quattro contorsioniste che, sul dorso di una gigantesca mano meccanica, realizzano una serie di incredibili figure e piramidi. Ma il numero forse più sorprendente è «Il mondo capovolto», in cui gli ospiti radunati intorno a un tavolo per una cena cercano di superarsi in audaci equilibrismi su una serie di sedie impilate, mentre la stessa scena si svolge simultaneamente in modo inverso nel mondo parallelo sopra di loro. «I numeri delle sedie non sono una novità nel circo — sottolinea Lancaster —, ci siamo chiesti come potevamo renderlo unico, spettacolare». E, incredibile a dirsi, «l’idea del mondo “sopra” è nata prima di quello “sotto”». Aggiungono poesia allo spettacolo le musiche eseguite dal vivo da una band di sei musicisti e le canzoni della «cantante di strada» Sophie Guay.

Clara massacrata dai giudici: sapete chi è? Imbarazzo a The Voice senior. Libero Quotidiano il 14 gennaio 2023

È polemica a The Voice Senior. Durante le Blind Audition, si è presentata sul palco di Rai 1 Clara Serina. La 72enne di origini brasiliane non è sconosciuta al pubblico. La cantante infatti fa parte della band I Cavalieri del Re, gruppo musicale tra i più conosciuti tra quelli specializzati in sigle di cartoni animati. Sono loro le musiche di Lady Oscar, Kimba, Sasuke, L’Uomo Tigre, Coccinella, Lo specchio magico, Yattaman, La ballata di Fiorellino, Gigi la trottola, Chappy, Devil man e Ransie la Strega. 

Alla sua esibizione, però, è accaduto l'impensabile. La cantante ha portato da Antonella Clerici Garota de Ipanema di Vinícius de Moraes e Antônio Carlos Jobim. Un brano che non ha conquistato i giudici. Nessuno di loro si è girato. Anzi, Loredana Bertè, mentre ascoltava, ha tuonato: "Stonata, non ha voce".

Dello stesso parere Gigi D’Alessio: "Non andavi a tempo, che per me è fondamentale". A quel punto è stata la conduttrice a spiegare che la concorrente altro non è che colei che ha cantato Lady Oscar. E così ecco che Clara si è di nuovo esibita, ma questa volta intonando la nota sigla. Un ritorno al passato che ha commosso i telespettatori, tutti contro i giudici, convinti abbiano commesso un errore. 

Dagospia il 22 gennaio 2023.

Estratto da “Operazione Gattopardo”, di Alberto Anile e M. Gabriela Giannice (ed. Feltrinelli)

[…] Gli ultimi giorni di lavoro vedono davanti alla macchina da presa i soli Delon e Cardinale, impegnati a inseguirsi per le fatiscenti soffitte di Donnafugata.

 Gli ambienti in cui la scena viene girata appartengono per metà al piano mezzanini di palazzo Chigi e per metà (incluso lo stanzone finale col letto a baldacchino) al palazzo Odescalchi a Bassano di Sutri.

La Cardinale ha raccontato che la tensione sessuale in campo era più forte di quanto richiesto dalla  scena, con lo stesso Visconti che soffiava sul fuoco: "Alain era sicuro di sé, della sua bellezza, del suo fascino, e sicurissimo del suo potere sessuale.

 Così stipulò un accordo segreto con Luchino: scommise che gli sarei caduta tra le braccia in tempi brevissimi. Luchino si divertiva a questo genere di scherzi un po' sadici.

 Così, quando mi dirigeva nelle scene d'amore con Alain, mi diceva: 'Mi raccomando, Claudina, non voglio baci falsi, false carezze.'.

 Ma io avevo capito il gioco e, con qualche abilità, riuscii a dribblare: figuriamoci se ero disposta a dare la soddisfazione di comportarmi come una piccola stupida incapace di resistere al fascino di un Delon. Il risultato fu che, dopo tutto questo, Luchino mi ha apprezzata di più" […]

Claudia Cardinale: «Il tempo non mi ha cambiata: ero e resto sempre indomabile». Una rassegna al MoMA di New York, tre film restaurati e un libro, curato dalla figlia, che la racconta. “Il segreto del mio successo? La libertà. E la mia fede nel destino: se una cosa deve accadere, accade”. Claudia Catalli su L’Espresso il 06 Febbraio 2023

Le mani tempestate di anelli, la voce graffiata dalle immancabili sigarette, la risata sfoderata ad arte per beffarsi delle convenzioni, delle rigidità, delle mediocrità. C.C., la migliore invenzione italiana assieme agli spaghetti secondo David Niven, a 84 anni ancora si emoziona: «Cinecittà e il MoMA di New York mi dedicano uno splendido omaggio: sentire che sono ancora nei pensieri degli spettatori di tutto il mondo mi dona gioia e energia». Con queste parole Claudia Cardinale commenta il tributo di Cinecittà alla sua carriera: una mostra al Moma a lei dedicata fino al 21 febbraio, il restauro di tre suoi film (La ragazza di Bube, L’udienza e Atto di dolore) e il libro curato dalla figlia Claudia Squitieri dal titolo Claudia Cardinale, l’indomabile (edito da Cinecittà ed Electa).

Indomabile è l'aggettivo che la descrive di più?

«L'ha scelto mia figlia che mi conosce come nessun altro: mi fido».

Anche da ragazza era così?

«Altroché, ero un vero garçon manqué, quello che in Italia chiamiamo “ragazzaccio”. Mi divertivo a prendere i treni in corsa da Cartagine a Tunisi, facevo a botte con i maschi, rispondevo a tono a chi faceva qualcosa di scorretto. Una volta John Wayne mi disse: “Tu sei un uomo, non una donna”, aveva ragione».

Il tempo è riuscito a domarla?

«Niente affatto, non mi sento molto cambiata da allora. Ho sempre voluto dare ascolto alla mia indomabilità, perché mi ha permesso di vivere emozioni fortissime. Nella vita, come al cinema».

Il libro è firmato da sua figlia Claudia, con cui ha un legame forte già dal nome.

«Siamo molto vicine, in effetti. Quando sono venuta a vivere in Francia, nel 1989, abitavamo insieme in un appartamento. In Italia era diverso, stavamo in una grande villa, ma io lavoravo tanto: mia figlia un giorno mi vedeva cucinare la pasta, un giorno prepararmi per il Festival di Cannes, la vita era piena. Più avanti ho potuto riprendere appieno il mio ruolo di madre e, con il tempo, l’ho vista diventare una donna e occuparsi lei di me, dei miei spostamenti, dei miei impegni, delle mie esigenze».

Come ha reagito quando ha saputo che avrebbe scritto un libro su di lei?

«Ho grande fiducia in mia figlia, mi conosce a fondo. Insieme abbiamo fondato, anche con mio figlio Patrick, la Fondazione Claudia Cardinale per proseguire le mie lotte per la difesa delle donne con Unesco e dell’ambiente insieme a Green Cross Italia».

Si batte da sempre per i diritti delle donne: a che punto siamo, nel mondo e in Italia?

«Il movimento MeToo ha fatto cambiare le cose, portando al centro del dibattito la donna con la “d” maiuscola. Purtroppo nel mondo i nostri diritti vengono ancora negati e alcune vittorie ci vengono strappate. È una battaglia che va combattuta ancora oggi e andrà proseguita per tanto tempo, fin quando non avremo più motivo di lottare».

Pensa sia arrivato il momento di una donna al Quirinale?

«Sicuramente. Vorrei che fosse una donna femminista, però. Altrimenti che senso ha?»

L’Italia è famosa nel mondo per la sua arte, per il cinema, eppure non si fa altro che tagliare fondi alla cultura. Come se lo spiega?

«Con grande tristezza. Che io ricordi l’Italia ha sempre avuto difficoltà a proteggere la sua cultura, e dire che ce n’è tanta!»

Un ricordo dell’amico Ennio Morricone?

«Che uomo. Che genio. Era pura energia, un amico splendido. Mi manca tanto».

Cosa le resta degli incontri con Marcello Mastroianni, Marlon Brando, Alain Delon e Jean Paul Belmondo?

«Ricordi indelebili. Con Delon e Belmondo eravamo molto amici, con Marcello ci legava un rapporto di profonda stima e affetto. Con Brando c’è stato solo un incontro, ne rimasi molto impressionata».

Perdoni, perché li rifiutò tutti quanti?

«Beh, anzitutto perché avevo un compagno, Franco Cristaldi!».

Che differenza c’è tra quegli attori leggendari e gli attori di oggi?

«Oggi ci sono tantissimi attori, prima erano molti meno e quelli che c’erano avevano raggiunto un livello altissimo. Ora mi pare ci sia un po’ di tutto, ma anche interpreti di grande talento».

Che opinione ha del nostro cinema, oggi?

«Fluttuante. Ogni tanto ci sono delle folgorazioni».

Da chi le piacerebbe essere diretta?

«Sento la necessità di aiutare i giovani. È così difficile fare un primo film, trovare credibilità, muovere i primi passi. Mi è capitato di recitare in diverse opere prime, quando amo una sceneggiatura mi viene naturale sostenere certi progetti. I giovani portano un’energia bella, frizzante, piena di sogni. Ma per ora preferisco godermi un po’ di riposo».

Se le chiedessi il suo film preferito, tra quelli che ha girato?

«Sarebbe come chiedermi di scegliere tra i miei figli. Posso dire che La Ragazza di Bube, che Cinecittà ha appena restaurato, rappresenta bene quel lato “indomabile” del mio carattere».

Si sentiva la diva che tutti ammiravano e premiavano?

«Non tanto. Almeno non quel tipo di caricatura della “diva” a cui siamo abituati. La mia famiglia mi ha dato una base solida».

La figura pubblica è mai diventata ingombrante per la sua vita privata?

«Sì, certo. Quando lavoravo così tanto da girare quattro o più film l’anno di tempo privato ne avevo ben poco».

Ci racconta un momento di crisi, e come l’ha superato?

«Dopo l’incontro con Pasquale Squitieri e la separazione con Franco Cristaldi le cose sono state molto difficili. Ma ho sempre creduto nel destino, non mi sono preoccupata più di tanto e poi ero innamorata, il che mi ha molto aiutato. Nei momenti duri mi sono sempre affidata alla mia famiglia, a mia sorella Blanche e a Pasquale (Squitieri, Ndr).».

È fatalista?

«Da sempre. C’è un detto arabo che amo: “Maktub”. Significa: così è scritto, se una cosa deve accadere accade. Non sono nostalgica, non ho rimpianti né rimorsi e non temo il passare del tempo. Maktub».

Ha viaggiato ovunque, dov’è “a casa”?

«La Tunisia rimane per me la terra natale. Ho amato l’Italia e ora è in Francia, dove vivo da anni, che mi sento a casa».

Guardandosi indietro, qual è il segreto della sua carriera?

«La mia professionalità. Sono sempre stata puntuale e concentrata sul lavoro».

E il valore che più l’ha aiutata?

«La libertà».

Chi sente di ringraziare per essere diventata l’indomabile?

«Franco Cristaldi, Fabio Rinaudo e tutti quelli che hanno investito tempo e pensieri su di me. L’indomabilità, però, la devo solo a me stessa».

Claudia Cardinale: «Dissi no a Brando e Delon. A Patrick avrei dovuto dire prima che era mio figlio, non mio fratello». Aldo Cazzullo e Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

L’attrice 85enne racconta: «Una relazione con Chirac? Sono solo dicerie, ma lui mi scrisse una lettera dicendo: “Sono lusingato”. John Wayne? Mi regalò una sedia»

Claude Joséphine Rose Cardinale, insomma Claudia Cardinale, ad aprile compirà 85 anni. Ma una donna italiana è come il cielo di Lombardia: «Così bello quand’è bello, così splendido, così in pace». E lei italiana — anche in Tunisia dov’è nata, anche a Parigi dove vive — si è sempre sentita; come tiene a ribadire ai lettori del Corriere.

Signora Claudia, qual è il suo primo ricordo?

«Il primo in assoluto? L’arrivo degli americani a Tunisi. Per noi era la fine della guerra. Mi ricordo un soldato che piangeva perché non aveva visto i suoi figli da mesi...».

Com’era la Tunisia della sua infanzia?

«Un’età d’oro. Un momento magico».

È vero che le sue prime lingue sono state, oltre al francese, l’arabo e il siciliano?

«Insomma... l’arabo lo parlavo pochissimo, e anche il siciliano. A casa era la lingua degli adulti: la usavano per non farsi capire».

Cosa ricorda della guerra?

«Mia madre che per farci passare la paura ci dava una zolletta di zucchero».

Lei ha sempre scelto di restare italiana, anche quando si trasferì in Francia. Perché?

«Perché mi sento italiana, anche se di cultura francese. L’ho fatto pure per onorare mio padre; che volle sempre rimanere italiano, anche sotto il protettorato francese».

Se la sente di raccontare quando fu stuprata e decise di tenere il bambino?

«L’ho già raccontato nei libri...».

Fino al settimo mese lei rimase sul set e nascose la gravidanza. Come visse quel periodo? Come nacque il rapporto con Franco Cristaldi?

«Furono mesi difficilissimi. Lontana dalla mia terra natale. Alle prese con una cultura e una lingua, quella italiana, che non capivo bene. Catapultata nel mondo del cinema, che era al tempo stesso una salvezza e un grande incognita. Cristaldi capì che ero incinta quando andai a chiedere di rompere il contratto. Il mio rapporto con lui si rafforzò in quel momento. Ero diventata trasparente».

Nel frattempo arrivò il successo con «I soliti ignoti» di Monicelli. Come andò?

«Come andò? Benissimo! (Claudia Cardinale scoppia a ridere). Fu un piccolo ruolo, ma venne notato: un piccolo miracolo. Ero Carmelina Nicosia, sorella di Ferribotte, il siciliano gelosissimo che la teneva nascosta in casa... e pensare che Tiberio Murgia in realtà era sardo. Avere un piccolo ruolo in un grande film era una strategia di Cristaldi; e aveva ragione lui».

Molti in diverse epoche l’hanno definita la donna più bella del mondo. Si è mai sentita tale?

«No. Mai. Non mi sono mai sentita veramente bella».

Perché?

«Chi lo sa... son cose che non si possono veramente spiegare. Da bambina la “bella” della famiglia era mia sorella Blanche, bionda con gli occhi blu. Bella lo era davvero, e lo è sempre stata. Io, così scura, forse sembravo più scontata: in una famiglia di siciliani, per di più in Tunisia...».

Suo figlio Patrick veniva presentato come suo fratello, fino a quando lei non raccontò la verità in un’intervista a Enzo Biagi. Come trovò il coraggio?

«Era necessario. Il coraggio vien fuori quando è necessario. Non si può prevedere».

Se tornasse indietro, rifarebbe tutto allo stesso modo? O cambierebbe qualcosa?

«Sicuramente direi la verità prima a mio figlio. Allora quel coraggio non l’ho avuto».

Com’è stato lavorare con Visconti?

«Un enorme piacere. Una lezione non solo di cinema, ma anche di vita. Poi eravamo amici; e questo non ha prezzo».

È vero che alla fine, dopo l’ictus, dirigeva gli attori con uno sguardo?

«Luchino ha sempre avuto una capacità di espressione fortissima: il suo volto dava tante indicazioni. Poi sì, è vero che dopo l’ictus questo suo talento si è rafforzato».

E con Fellini?

«Molto diverso. Divertente. Stimolante. Mi sentivo libera. In 8 e mezzo fu il primo a farmi fare la mia stessa parte...».

Cosa intende?

«A recitare con la mia stessa voce. Ad accettare la mia voce, capite? Le mie battute, le mie risposte. Fu un atto liberatorio di grande importanza. Un vero regalo che Fellini mi fece».

E Sergio Leone?

«Beh, Sergio era delizioso. Divertente, semplice. C’era una volta il West fu un’esperienza stupenda».

Lei ha recitato con John Wayne. Che tipo era?

«Molto grande! Era enorme. Molto riservato, ma anche un gentleman. Lui aveva la sua sedia da set, io no. In fondo ero una ragazzina... Così un giorno John me ne regalò una, con il mio nome, che mi ha accompagnata su tanti set. Era un gesto così dolce verso me, che ero poco più di una bambina, mentre lui era un gigante!».

E Orson Welles?

«Impressionante. Sul set di Abel Gance... Ero piccola piccola in mezzo a delle divinità».

E Sean Connery?

«Ci siamo divertiti. Faceva molto freddo sul set della Tenda Rossa, ma l’atmosfera tra noi era molto calorosa».

È vero che Mastroianni si innamorò di lei, ma lei lo respinse? Perché?

«Lui disse così. Chissà se è vero... Siamo stati amici, quello sì».

Come fu lavorare con Vittorio De Sica?

«Anche lì, ero piccolissima. E Vittorio aveva una presenza speciale».

Cristina Comencini ha detto al Corriere che suo padre Luigi «trovava meravigliosa Claudia Cardinale», ma era troppo innamorato di sua moglie... Che ricordo ne ha?

«Splendido. Con lui feci La ragazza di Bube, film appena restaurato da Cinecittà. Era un uomo molto colto e molto semplice. Parlavamo in francese, che lui sapeva benissimo. Molti anni dopo abbiamo fatto anche La storia, dal romanzo della Morante, e fu bellissimo ritrovarlo».

Ci sarà qualcuno con cui non è andata d’accordo. Monica Vitti, dicono.

«In effetti lavorare con lei non fu la migliore esperienza. La Vitti era ipnotizzante. Forte, intensa; ma era meno abituata di me a condividere la scena con un’altra donna. Non ci fu animosità; ma non ci fu neanche l’inizio di una vera amicizia».

È vero che pure sul set delle «Pistolere» i rapporti con Brigitte Bardot furono difficili?

«No. Assolutamente, anzi tutto il contrario».

Ma se litigavate di continuo!

«Ripeto: non è vero. La stampa ci voleva nemiche: BB contro CC. Ma non fu affatto così. Intanto lei era la mia “idola” assoluta. Ha qualche anno più di me: così io da ragazza, prima ancora di fare cinema, la vedevo nei film. Ero così onorata di lavorare con lei. Non c’è stata tra noi nessuna battaglia. Tant’è che per la prima del film ci siamo vestita come una coppia, lei da uomo io da donna».

Vi sentite ancora?

«Ci vogliamo un grandissimo bene. Brigitte è una gran donna. Ci siamo divertite un casino».

Qual è la differenza tra l’Italia e la Francia? E tra italiani e francesi?

«Ce ne sono tante, ma preferisco guardare alle cose comuni. Siamo entrambe europei e cugini nella storia. Poi ci sono diverse “France” come diverse “Italie”, e diversi momenti storici. Marsiglia ha qualcosa di Napoli, come Parigi ricorda Torino. E Dante, il nostro più grande poeta, si è formato con i troubadours...».

Come ricorda François Mitterrand?

«Come un grande uomo di Stato, che ha rappresentato il suo Paese con dignità e coerenza».

È vero quello che in Francia sussurrano un po’ tutti...

«Cosa?».

Che Jacques Chirac perse la testa per lei.

«Ma no! Non è assolutamente vero. Io avevo appoggiato la sua campagna elettorale, perché in quel momento mi sembrava il presidente più giusto; e così la stampa ne fece tutta una storia. Si figuri: ho detto no a Brando, a Delon e a Marcello... Chirac sarà pure stato un “homme à femmes”; ma non con me».

Non è vero allora che il presidente era a casa sua la notte dell’agosto 1997 in cui morì lady Diana?

«Non fatemi ridere. Ma no che non è vero! Pensate, le foto che ci mostravano “insieme” erano collage. Avevano tolto la faccia del mio amico Jacques Moisant e messo quella di Chirac. Ce ne siamo accorti poi, perché Moisant aveva un gusto eccentrico per i gilet. Chirac era molto imbarazzato per quella voce. Mi scrisse anche una lettera, che conservo, in cui ci rideva su anche lui. Però si diceva anche lusingato».

Come pensa allora sia nata la diceria della vostra relazione?

«Non lo so. Chirac mi aveva consegnato la Legion d’honneur; e io avevo difeso la sua candidatura pubblicamente. Questi due elementi, aggiunti alla sua reputazione di “homme à femmes”, potevano bastare a far nascere dicerie. Ma vi assicuro che fu solo una diceria».

Lei cita Delon e Brando: con loro come andò?

«Brando lo incontrai solo brevemente. Era il mio idolo. Ero molto impressionata. Alain invece è un amico. Ci siamo ritrovati spesso, sia nei film che nella vita. Insieme abbiamo condiviso l’esperienza del Gattopardo, e quella ci ha legato per sempre».

È vero che anche Tognazzi le fece una corte spietata?

«Non mi ricordo, ma è probabile...».

Cosa rappresentarono per lei gli anni di Hollywood? Marilyn, Liz Taylor, Richard Burton...

«Beh, l’America per me era un luna park. C’erano feste ovunque e incontravi, qui e là, dei miti assoluti. Mi divertivo tanto con loro in America; ma nel fondo mi sentivo europea. Così decisi di non restare».

Come nacque l’amore con Pasquale Squitieri?

«Sul set dei Guappi».

Perché sceglieste il nome Claudia anche per vostra figlia?

«Lo scelse lui, perché mi voleva sposare, e io non volevo. Così Claudia Squitieri, nostra figlia, porta il nome che avrei portato se avessi detto sì».

Perché non voleva sposare Squitieri?

«Perché volevo essere una donna indipendente. Sarà un simbolo; però in quei tempi ci tenevo. Avrei dovuto accettare...».

Com’è ora il rapporto con sua figlia Claudia?

«Con mia figlia? Ho un rapporto molto bello. Da qualche anno, oltre alle sue attività personali, segue le mie faccende. Insieme abbiamo deciso di creare una Fondazione che possa essere un tramite generazionale. Sarà lei a dirigerla».

Cosa fa la vostra Fondazione?

«Continuerà le mie battaglie per i diritti delle donne e per la difesa dell’ambiente. Due temi che da tempo porto avanti con l’Unesco e con GreenCross».

Sua figlia ha appena curato un libro sulla sua carriera, intitolato «Claudia Cardinale l’indomabile». Le piace questa parola, indomabile?

«Sono molto commossa da questo omaggio. Dal lavoro di Cinecittà ed Electa, e certo anche di Claudia. La parola indomabile mi sta bene. In qualche modo l’indipendenza e l’indomabilità sono doti che ho cercato di trasmettere a lei. Anche a suo padre Pasquale stava bene questa parola».

Cosa ha provato alla notizia della scomparsa di Gina Lollobrigida? Come la ricorda?

«È per me una grandissima tristezza la scomparsa di Gina. Era una donna così piena di energia e interessi, che non sembrava potesse spegnersi... Condivido le parole di Sophia, resterà accesa nei nostri cuori e nella memoria del cinema».

Lei crede in Dio?

«Sì. A modo mio, sì».

La morte le fa paura?

«No. O, meglio, non ci penso».

Come immagina l’Aldilà?

«Vedremo!».

E il futuro dell’Italia? Cosa consiglierebbe a un suo giovane compatriota?

«Sono tempi incerti per tutti noi. Il mondo cambia, e spesso il suo nuovo linguaggio mi sembra incomprensibile. Ma forse è così che deve essere. Ai giovani, alle ragazze in particolare, do un consiglio solo: proteggete la vostra dignità. Sempre, in ogni tempo, in ogni circostanza».

Estratto dell'articolo di Paola Jacobbi per repubblica.it l’8 gennaio 2023.

"Quando ride, i suoi occhi diventano due fessure nere, scintillanti con qualche cosa di monellesco, di scatenato, di intenso, di meridionale", così lo scrittore Alberto Moravia descriveva Claudia Cardinale, prima di intervistarla passandone in rassegna ogni parte del corpo. Se Moravia prova a ingabbiarla come sex symbol, il produttore Franco Cristaldi (che poi diventerà il suo primo marito) l'ha già ingabbiata in contratti capestro. Ne parlò la stessa Claudia in un'altra famosa intervista. Disse a Oriana Fallaci: "Sono legata alla Vides. È un contratto pesante: il Capo (Cristaldi, ndr) lo ha fatto con quattro avvocati. Non posso sposarmi, non posso ingrassare, non posso tagliarmi i capelli".

Fallaci ancora ignorava quanto fossero strette le sbarre della gabbia: Claudia ha un figlio che viene tenuto nascosto all'opinione pubblica e fatto passare per un fratellino. Si saprà la verità, comprese le tragiche condizioni del concepimento (uno stupro) solo anni dopo. […]

 Signora Cardinale, cominciamo da un numero: più di 180 film. I più noti li sappiamo a memoria. Ce n'è qualcuno che le dispiace sia dimenticato?

"La ragazza con la valigia e il suo regista Valerio Zurlini andrebbero ricordati di più. Amo quel film, un gioiello di poesia. Ci sarebbe anche l'introvabile Claretta di Squitieri".

Venne presentato a Venezia nel 1984 e, poiché raccontava l'amante di Benito Mussolini, fu travolto da polemiche.

"Pasquale ha avuto momenti di gloria e momenti difficili. Ha pagato tante cose: da un lato il nostro incontro che fece scandalo, dall'altro il suo carattere provocatorio per natura. Ma vivendoci insieme, e poi vedendolo anche dopo, quando non eravamo più una coppia, fino alla fine, so che Pasquale non ha mai smesso di essere un uomo libero. Chi ha cercato di circoscrivere il suo cinema in un'ideologia si è sbagliato". 

 Se rivede in televisione la Carmelina dei Soliti ignoti che cosa pensa? Com'era Claudia?

"Giovane! Appena sbarcata dalla Tunisia, tutta ingenuità e timidezza".

 Qual è la sua madeleine, il cibo o il profumo che la riporta in Tunisia?

"La zlabia che mangiavo a Sidi Bou Said e che si può mangiare ancora nello stesso posto. Ci ho portato mia figlia e anche mio nipote".

 Nel suo passato laggiù c'è una vicenda traumatica. Si è pentita di averne parlato?

"Mai. Allora come oggi, contro la violenza ogni parola è importante. Il #MeToo è stato un bene. Anche se non è finito e deve continuare". 

 Che cosa ricorda dell'intervista con Oriana Fallaci? In pratica, a proposito di #MeToo, diceva che lei era un pupazzo in mano al produttore/padrone.

"Me l'ero dimenticata. L'ho appena riletta, perché lei mi ha detto che voleva parlarmene. Che schiaffo! A rileggerla, mi è venuto il rimpianto di non avere mai più incontrato Oriana, anni dopo, quando mi sono emancipata da una situazione che sicuramente le doveva apparire folle".

Ma senza Cristaldi avrebbe ottenuto di più o di meno dal cinema?

"Il mio destino è stato incontrare Franco e anche di lasciarlo. Entrambi i capitoli sono la mia storia. Se non lo avessi incontrato? Non ha importanza".

 Cristaldi si vendicò cercando di bloccare la carriera sua e di Squitieri. Come?

"Nessuno si voleva mettere contro Cristaldi. Non doveva fare molto, andava da sé".

 Con Squitieri ha avuto una figlia e fatto undici film. Che cosa vi legava?

"Il nostro è stato un incontro totale, è l'uomo che mi ha aiutato a cambiare vita. Che mi ha riportato ad essere una donna e non più solo un'attrice. Eravamo entrambi due anime selvagge, c'era qualcosa di molto profondo che ci accomunava".

Quali sono stati i momenti più gioiosi con lui, che l'hanno risarcita della sua adolescenza interrotta?

"I lunghi anni, prima di avere nostra figlia, in cui abbiamo fatto l'amore! Si mangiava, si dormiva, si rideva e si faceva l'amore. Poi, certo, sono seguiti altri anni bellissimi, grazie a Claudia, con la quale ho un rapporto straordinario e che, tra le tante cose che fa, oggi mi accompagna nella costituzione di una Fondazione a mio nome attraverso la quale vuole proseguire le battaglie per i diritti delle donne e dell'ambiente che ho sempre sostenuto". […]

 Visconti, Fellini, Leone: tre grandi con cui ha lavorato. Chi metteva più soggezione?

"Nessuno dei tre. Quando c'è lavoro c'è collaborazione. Anche Luchino, personalità fortissima, poi con me era molto tenero".

 Un anno, lei girò in contemporanea 8 ½ e Il Gattopardo. Prove dettagliate con Visconti, nemmeno il copione con Fellini. Che cosa la preoccupava di più?

"Forse era più preoccupante non avere un copione. Perché si era nudi. Inoltre, per Fellini dovevo essere castana mentre per Visconti dovevo essere molto scura. Ho passato mesi a tingermi i capelli, in segreto".

Lei è parte integrante di una stagione eccezionale del cinema. Quanta consapevolezza ne aveva allora?

"Pochissima. Non potevo immaginare che quei film sarebbero durati negli anni. Quando uscì, Il Gattopardo fu un flop!".

 Vent'anni dopo Il Gattopardo, era in Amazzonia a girare un altro film mitico: Fitzcarraldo di Werner Herzog. Come andò?

"La mia più grande avventura. La parte di Klaus Kinski avrebbe dovuto farla Jason Robards ma non riuscì a stare lì nella foresta. Un giorno salì su un albero e si mise a urlare 'I want my New York steak!'. Dovette intervenire il suo psicologo. Il film fu interrotto. Poi, a causa dei ritardi, ci abbandonò anche Mick Jagger, che aveva un ruolo ma, a quel punto, doveva partire in tournée. Un giorno Herzog si accorse che quando c'ero io sul set gli indios misteriosamente si calmavano e mi chiese di stare sempre lì, con l'abito bianco di scena. Ai loro occhi ero qualcosa di speciale".

Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per “la Stampa” il 23 giugno 2023.

Se non lo raccontasse lei, con la verve di sempre, i gesti da ragazza, le battute in romanesco gentile, il verde dello sguardo allegro, si farebbe fatica a crederci. Eppure è andata proprio così. Al primo incontro con Liliana Cavani, Leone d'oro alla prossima Mostra di Venezia, Claudia Gerini ha incassato un complimento che non si aspettava: «Mi ha subito detto che le ero piaciuta tantissimo in Viaggi di nozze. Non riuscivo a crederci, ho chiamato Carlo Verdone per raccontarglielo, mi ha risposto che lo sapeva e che un altro grande fan era stato Michelangelo Antonioni».

Con la Jessica del famoso «famolo strano» e con tanti altri personaggi di una carriera iniziata da ragazzina, Gerini in questi giorni presidente della giuria dei cortometraggi al Filming Italy Sardegna Festival diretto da Tiziana Rocca e in programma a Forte Village, ha disegnato una mappa del femminile italiano, senza mai essere pedante, ma anche senza limitarsi alla superficie: 

«Sono grata a tante persone, a Gianni Boncompagni, a Carlo Verdone, ma, soprattutto a me stessa, alla mia determinazione, al mio cuore, ai miei genitori che mi hanno insegnato tanto. Per andare avanti devi contare sulla tua forza, nessuno ti regala niente. Potevo perdermi, fare scelte sbagliate, ma sono sempre stata attenta ad ascoltare la mia vocina di dentro, quella che mi guida». 

Ha fatto il grande salto dietro la macchina da presa e poi ha continuato a recitare. Ora cosa preferisce?

«Mi va sempre tanto fare l'attrice, ma, appena troverò un bel soggetto, ripeterò l'esperienza. La regia comporta un impegno molto lungo, noi attrici non siamo abituate a lavorare per dodici mesi sulla stessa cosa, comunque è stato bello, adesso guardo i registi con un altro occhio, imparo, osservo, e noto che ora anche loro mi guardano in modo diverso». 

È autrice di un libro intitolato Se chiudo gli occhi. Vita, amore e passioni di una pragmatica sognatrice. Perché lo ha chiamato così?

«Mi avevano consigliato di cambiare nome, qualcuno mi ha detto "ma che t'eri fumata?".

La verità era che volevo sottolineare il contrasto, perché io, da sempre, mi sento un po' una contraddizione in termini. Da una parte sono una sognatrice, ma dall'altra sono una che risolve problemi, abituata a fare la madre, la lavoratrice, a organizzare, però stando attenta a non diventare troppo razionale, a non mollare il lato più sentimentale». 

Si è mobilitata per le donne iraniane, si è anche tagliata una ciocca di capelli. Perché era importante farlo?

«Volevo essere parte di un movimento che accende i riflettori su questa guerra silenziosa contro le donne, ho voluto esserlo, anche se molti dicevano che gesti del genere non servono a niente, penso che sia importante parlare e far parlare di questa tragedia. Noi donne occidentali non ci rendiamo conto di quanto siamo fortunate, ci sembra tutto normale, mentre le nostre sorelle, in un'altra parte del mondo, subiscono quello che sappiamo. Bisogna fare rete e bisogna comunicare, altrimenti è come se i problemi smettessero di esistere, l'indignazione va mostrata». 

(...)

Fa parte del cast del film di Liliana Cavani L'ordine del tempo, si dice che dovrebbe essere presentato a Venezia, e poi torna a girare con i Manetti bros.

«Liliana è meravigliosa, grandissima autrice, piena di entusiasmo, curiosità e umanità. Le piace il gioco degli attori, ha girato un grande film. Con i Manetti mi sono tanto divertita, faccio una poetessa di Palmi, recito con Rocco Papaleo che organizza una colletta per invitare un noto calciatore per risollevare le sorti della squadra del paese, la U.S Palmese. Palmi è la patria della mamma dei Manetti».

È tornata a lavorare con il suo ex-marito Federico Zampaglione, che film è?

«Un horror terribile, sanguinario, The well, andremo a presentarlo a Londra, al FrightFest, per la prima volta recito con mia figlia, Linda, così sul set ci siamo ritrovati, "io, mammeta e tu"».

Estratto dell'articolo di Valerio Cappelli per il Corriere della Sera l'11 giugno 2023.  

(...) 

Claudia Gerini, ora è single?

«Sono in una fase di osservazione. Ho il binocolo. Sto vivendo una fase di grande libertà. Avevo bisogno, dopo tante convivenze, di avere una one-on-one con me stessa». 

(...)

Non solo Jessica.

«Ho fatto 86 film. Io sono Jessica, Lorenza, Maria, Giovanna. Ho recitato due settimane al Mercadante di Napoli Canzoniere italiano di Pasolini. Il primo film l’ho fatto a 16 anni, ne ho 51. Ciao ma’ di Giandomenico Curi, di cui è cosceneggiatore Roberto D’Agostino. Nella stessa estate ho fatto Roba da ricchi di Sergio Corbucci. Poco dopo ho cominciato in tv Non è la Rai . Ma l’Italia, lo sappiamo, è un Paese senza memoria, sembra sempre che non hai fatto niente». 

Ha mai avuto la paghetta dai suoi genitori?

«Mai. Ho fatto anche diversa pubblicità, con i Baci Perugina guadagnavo bei soldini.

Vengo da una famiglia umile, papà aveva un autolavaggio, in seguito entrò all’Ama, l’azienda municipalizzata di smaltimento rifiuti. Trasteverino doc, ha la quinta elementare ma sa tutto di cinema». 

Il politically correct minaccia la libertà?

«Sui social puoi dire tutto, nascondendoti dietro l’anonimato. Il mondo è pieno di bulli, c’è tanta cattiveria, sono tutti arrabbiati, pronti a spararti se sbagli una parola. La civiltà è in evoluzione, è meglio avere questi problemi di ipocrisia di quello che avevamo prima. Intendo le mani addosso degli uomini, come forma di ricatto e di potere, in qualunque ambiente di lavoro. Prima era normale».

Catherine Deneuve, Valeria Golino e altre sue colleghe dicono che bisogna distinguere tra avances, molestie e violenze.

«Vero, verissimo. Le avances, magari goffe, brutte, indesiderate, egualmente condannabili, non sono la stessa cosa di una violenza. Lo dico per rispetto di chi ha subìto una violenza inaudita. 

Mia figlia Rosa rifletteva sul fatto che gli uomini non prendono più l’ascensore per paura di venire denunciati. Io dico: meglio che gli uomini abbiano paura piuttosto che mi infilino le mani dove vogliono.

 Ci sono debiti che i maschi, tra virgolette, devono pagare, colpe reiterate nei secoli. Gli uomini oggi vengono educati a un altro tipo di comportamento. Poi possono esserci conseguenze infernali. Penso alla clausola nelle produzioni cinematografiche americane secondo cui un regista o un produttore non può fissare negli occhi un’attrice per più di tot secondi».

(...)

Lei è stata molestata?

«Certo, ci sono stati tentativi ai quali mi sono sottratta, ho avuto attenzioni anche spinte. Ero ragazzina, avevo 17 anni, sono stata fortunata e ho potuto andarmene». 

(...)

Com’è essere femme fatale da adulte?

«Posso fare l’operaia ma non un ruolo sexy? Io mi considero una femme fatale, non è che lo faccio: ci sono nata! Non posso guardare con seduzione un uomo, non posso mettere una calza velata se ho ancora un bel fisico?». 

Come vive le sconfitte, i provini falliti?

«Tanti colleghi non li vogliono fare: sono tal dei tali, come ti permetti di chiedermi un provino? Per me, invece, ti allungano la vita, ti costringono a rimescolare le carte. È un esercizio di umiltà. La sconfitta non esiste in questo mestiere ma certo che ho sofferto quando Paolo Sorrentino in The Young Pope prese Cécil de France e non me. 

In Questione di cuore Francesca Archibugi ha scelto Micaela Ramazzotti. Io sono troppo volitiva, e serviva quel tipo di fragilità, una donna un po’ inconsapevole. Giusto così. Io non ragiono con l’ego. Per il provino di Nine andai a New York, a Broadway ho cantato e ballato, mi dissero cose belle ma per quel ruolo presero Marion Cotillard. Ma penso che c’è sempre qualcos’altro».

L’incontro che l’ha sorpresa?

«Con Liliana Cavani. Ho girato il suo nuovo film, L’ordine del tempo , ispirato al romanzo di Carlo Rovelli, con Alessandro Gassman. Sul set ci diceva “dove sono i miei due comici?”. Liliana mi raccontava che stava rileggendo l’ Iliade . A 90 anni è inebriante. Un giorno mi ha detto che le ero piaciuta tanto in un film di cui non ricordava il nome. Forse è La sconosciuta di Tornatore, le ho suggerito. Faceva di no con le dita. Non ti muovere di Castellitto? Niente. Poi urlò: Jessica! Ho chiamato subito Carlo Verdone che mi ha detto: ma lo sai chi era un altro grande fan di Viaggi di nozze ? Michelangelo Antonioni. L’ho trovato divino».

Dagospia il 12 maggio 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

Claudia Gerini e quell'incontro con Brad Pitt (che era a cena con Edward Norton). Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, l'attrice ha raccontato a Geppi Cucciari e Giorgio Lauro di aver sempre preferito gli uomini dall'aspetto mediterraneo, salvo poi ricredersi quando è stata a pochi passi dal sex symbol americano. 

“Ho sempre amato gli uomini con la carnagione scura e gli occhi scuri, e quando si parlava di Pitt dicevo: vabbé, il classico americano biondo con gli occhi azzurri. Poi però...” Cosa accadde? “Ero a cena a Venezia col mio fidanzato e c'erano Brad Pitt ed Edward Norton che erano lì per presentare 'Fight Club'. A fine cena Pitt si sposto' dalla nostra parte del tavolo e devo dire che sì, era molto bello. Era molto cowboy, sensuale, sicuro di sé e giocava con un accendino.

E io, per ridere, mi sono detta: mi piacerebbe essere quell'accendino...” La sua vera passione però è un'altra: Johnny Depp. “Con lui feci una 'claudiata': andai ad una cena a Roma dove c'era anche lui, era il periodo del processo contro Amber Heard. Quando me lo presentarono me lo abbracciai e gli dissi 'io sono dalla tua parte', e aggiunsi 'i love you'”. 

Lui come reagì? “Rimase colpito. Ma non è finita qui: dopo gli scrissi il mio numero di cellulare su un bigliettino e glielo misi nel suo cappello. Purtroppo non mi richiamo'...” Si è molto scritto del suo rapporto con Carlo Verdone. “Ci sentiamo quasi tutti i giorni, ci siamo molto frequentati in quei due anni e mezzo in cui abbiamo fatto 'Viaggi di Nozze', ci siamo molto invaghiti l'uno dell'altra. 

Ad un certo punto – ha spiegato l'attrice a Un Giorno da Pecora - abbiamo avuto questo flirt ma sia io che lui eravamo in un momento di vita diverso e ho detto: 'Carlo, io in questo momento non sono adatta ad esser la tua compagna'. Insomma, mi sono un po' sottratta a questa relazione ma tra noi c'è un sentimento di grandissima amicizia”. Ora è fidanzata o single? “Sono libera da due anni. 

Gli uomini forse non mi corteggiano molto perché hanno un po' di timore, le donne indipendenti e autonome che forse spaventano...” Cambiando argomento, pare che lei sia una insospettabile campionessa di biliardino. E' vero?  “Sono bravissima, gioco in attacco. E una volta umiliai anche Matteo Renzi”. 

Quando? “Ai tempi lui era sindaco di Firenze, eravamo a casa di Fausto Brizzi. Le squadre erano io e Michele Placido contro Renzi e Brizzi. Vincemmo noi 7-2 e Renzi ci resto' malissimo, non si aspettava fossi così brava...”

Meloni dal Papa in bianco? “Io non mi sarei vestita così per andare dal Papa, è come andare ad un matrimonio vestiti di bianco, avrei messo qualcosa di lilla. Non è stato un errore fondamentale, forse poteva fare un po' più di attenzione”. Così a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, l'attrice Claudia Gerini, intervistata da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.

Claudia Gerini: "Con me Carlo Verdone voleva una storia seria. Ma ero confusa. Ora siamo grandi amici". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 22 aprile 2023.

Il 2 maggio esce in libreria l'autobiografia dell'attrice, "Se chiudo gli occhi"

Tutta la vita di Claudia Gerini in un libro. Uscirà il 2 maggio, si intitola Se chiudo gli occhi e sul web già circolano alcune anteprime. Come quella rilanciata dal settimanale Gente. E sin dal sottotitolo - Vita, amori e passioni di una pragmatica sognatrice - grande spazio all'educazione sentimentale di una delle attrici più note del cinema italiano. Dal legame con Gianni Boncompagni fino a quello con l'ex compagno Federico Zampaglione, padre di Linda, 13 anni.

Claudia Gerini si taglia una ciocca di capelli in solidarietà con Masha Amini. Da Littizzetto a Binoche, tutti gli appelli.

Nel libro, l'attrice ha finalmente raccontato come sono andate le cose con Carlo Verdone. "Dopo Sono pazzo di Iris Blond è nato un flirt. Non era una storia vera e propria. Lui voleva andare avanti, mentre io ero confusa sentimentalmente. Non ero nel momento storico di avere una relazione seria come invece voleva lui. Ci abbiamo messo un po' ad accettare questa cosa. Ora siamo grandi amici...".

Nel libro, Claudia Gerini si descrive come una ragazza libera. "Ho sempre inseguito la libertò di scegliere, di dire quello che penso, di andare via da una relazione che non funziona. Io le ho conquistate tutte queste libertà e le difendo con orgoglio"

Claudia Gerini: «Sono nata femme fatale: posso ancora fare ruoli sexy. Mi riconoscono per Jessica di Viaggi di nozze». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

L’attrice: «Vengo da una famiglia umile, ma già da bimba con gli spot Perugina guadagnavo bene»

Claudia Gerini, com’è vivere in tre, con due figlie?

«Tiro la carretta da tanti anni. Rosa ha 18 anni, studia alla New York University, Linda ne ha 13. Non alzo mai la voce, non sarei capace di dare uno schiaffo, ho avuto un unico scontro un po’ duro con Rosa, tre estati fa, la strattonai, la volevo scuotere, mi ero sentita offesa. Ricordo quell’episodio come una cosa tremenda. Non mi piace rimproverare in modo severo, ho un senso dell’armonia»

I due papà sono presenti?

«Sì, ma la quotidianità è un’altra cosa. Con Alessandro Enginoli, imprenditore, mi lasciai che Rosa aveva un anno. Con Federico Zampaglione, il padre di Linda, da cui mi sono separata sei anni fa, ci sentiamo, siamo diventati amici. Meglio una separazione civile che un matrimonio o un’unione triste».

Ora è single?

«Sono in una fase di osservazione. Ho il binocolo. Sto vivendo una fase di grande libertà. Avevo bisogno, dopo tante convivenze, di avere una one-on-one con me stessa».

Esce dalla comfort zone?

«Continuamente. Mi ritengo una delle poche attrici che si mette in gioco. Recito, ballo, canto, faccio teatro, cambio genere. Non mi incasello. A volte mi sento showgirl prima che attrice».

Non solo Jessica.

«Ho fatto 86 film. Io sono Jessica, Lorenza, Maria, Giovanna. Ho recitato due settimane al Mercadante di Napoli Canzoniere italiano di Pasolini. Il primo film l’ho fatto a 16 anni, ne ho 51. Ciao ma’ di Giandomenico Curi, di cui è cosceneggiatore Roberto D’Agostino. Nella stessa estate ho fatto Roba da ricchi di Sergio Corbucci. Poco dopo ho cominciato in tv Non è la Rai. Ma l’Italia, lo sappiamo, è un Paese senza memoria, sembra sempre che non hai fatto niente».

Ha mai avuto la paghetta dai suoi genitori?

«Mai. Ho fatto anche diversa pubblicità, con i Baci Perugina guadagnavo bei soldini. Vengo da una famiglia umile, papà aveva un autolavaggio, in seguito entrò all’Ama, l’azienda municipalizzata di smaltimento rifiuti. Trasteverino doc, ha la quinta elementare ma sa tutto di cinema».

Il politically correct minaccia la libertà?

«Sui social puoi dire tutto, nascondendoti dietro l’anonimato. Il mondo è pieno di bulli, c’è tanta cattiveria, sono tutti arrabbiati, pronti a spararti se sbagli una parola. La civiltà è in evoluzione, è meglio avere questi problemi di ipocrisia di quello che avevamo prima. Intendo le mani addosso degli uomini, come forma di ricatto e di potere, in qualunque ambiente di lavoro. Prima era normale».

Catherine Deneuve, Valeria Golino e altre sue colleghe dicono che bisogna distinguere tra avances, molestie e violenze.

«Vero, verissimo. Le avances, magari goffe, brutte, indesiderate, egualmente condannabili, non sono la stessa cosa di una violenza. Lo dico per rispetto di chi ha subìto una violenza inaudita. Mia figlia Rosa rifletteva sul fatto che gli uomini non prendono più l’ascensore per paura di venire denunciati. Io dico: meglio che gli uomini abbiano paura piuttosto che mi infilino le mani dove vogliono. Ci sono debiti che i maschi, tra virgolette, devono pagare, colpe reiterate nei secoli. Gli uomini oggi vengono educati a un altro tipo di comportamento. Poi possono esserci conseguenze infernali. Penso alla clausola nelle produzioni cinematografiche americane secondo cui un regista o un produttore non può fissare negli occhi un’attrice per più di tot secondi».

La retori ca...

«Ci sono registe che fanno film solo su donne, per le donne. Sta diventando una sorta di lobby. Io penso che non ci dovrebbe essere bisogno delle quote rosa. Così come penso che denunciare 55 anni dopo di essere stata indotta a una scena di nudo, come ha denunciato Olivia Hussey per il Romeo e Giulietta di Zeffirelli, sia una follia».

Lei è stata molestata?

«Certo, ci sono stati tentativi ai quali mi sono sottratta, ho avuto attenzioni anche spinte. Ero ragazzina, avevo 17 anni, sono stata fortunata e ho potuto andarmene».

Esiste la sorellanza?

«Le donne non fanno squadra. Shakira nella sua canzone se l’è presa più con la donna che si è portata via il suo uomo che con lui, Piqué, il calciatore. In quel modo ha venduto di più. Io amo le donne, Sabrina Impacciatore, Cristiana Capotondi, Maria Sole Tognazzi sono sorelle. E sono protettiva. Se nella casa delle vacanze spunta un ragno sul muro, sono io l’incaricata della faccenda».

Com’è essere femme fatale da adulte?

«Posso fare l’operaia ma non un ruolo sexy? Io mi considero una femme fatale, non è che lo faccio: ci sono nata! Non posso guardare con seduzione un uomo, non posso mettere una calza velata se ho ancora un bel fisico?».

Come vive le sconfitte, i provini falliti?

«Tanti colleghi non li vogliono fare: sono tal dei tali, come ti permetti di chiedermi un provino? Per me, invece, ti allungano la vita, ti costringono a rimescolare le carte. È un esercizio di umiltà. La sconfitta non esiste in questo mestiere ma certo che ho sofferto quando Paolo Sorrentino in The Young Pope prese Cécil de France e non me. In Questione di cuore Francesca Archibugi ha scelto Micaela Ramazzotti. Io sono troppo volitiva, e serviva quel tipo di fragilità, una donna un po’ inconsapevole. Giusto così. Io non ragiono con l’ego. Per il provino di Nine andai a New York, a Broadway ho cantato e ballato, mi dissero cose belle ma per quel ruolo presero Marion Cotillard. Ma penso che c’è sempre qualcos’altro».

L’incontro che l’ha sorpresa?

«Con Liliana Cavani. Ho girato il suo nuovo film, L’ordine del tempo, ispirato al romanzo di Carlo Rovelli, con Alessandro Gassman. Sul set ci diceva “dove sono i miei due comici?”. Liliana mi raccontava che stava rileggendo l’Iliade . A 90 anni è inebriante. Un giorno mi ha detto che le ero piaciuta tanto in un film di cui non ricordava il nome. F orse è La sconosciuta di Tornatore, le ho suggerito. Faceva di no con le dita. Non ti muovere di Castellitto? Niente. Poi urlò: Jessica! Ho chiamato subito Carlo Verdone che mi ha detto: ma lo sai chi era un altro grande fan di Viaggi di nozze? Michelangelo Antonioni. L’ho trovato divino».

Estratto dell’articolo di Valeria Teodonio per repubblica.it il 23 gennaio 2023.

 Claudia Koll, quando decise di fare l’attrice?

"Guardando la tv con mia nonna, da ragazzina. Era cieca, io le descrivevo quello che accadeva mentre gli attori non parlavano. Lei mi spiegava le parole difficili dei dialoghi. Mi appassionai ai film, alle storie, all’umanità dei personaggi. La decisione l’ho poi maturata dopo la fine delle superiori".

 Lei venne lanciata dal film con Tinto Brass nel 1992, ma poi ha parlato malissimo di quella esperienza. Ha detto di essere stata usata. Perché?

Preferisco non rispondere.

 È vero che pensò di smettere? Perché poi decise di continuare?

"A un certo punto ho pensato di riprendere gli studi all’università, ma poi sono arrivate proposte teatrali interessanti e da lì sono ripartita".

 Dopo il caso americano, in questi giorni anche molte attrici italiane hanno raccontato a Repubblica di aver subito delle molestie per poter fare il loro lavoro. A lei è capitato? E cosa pensa del Me Too?

"A me non è capitato. Ci sono, però, tante maniere di molestare le attrici e di condizionare le loro carriere. Quando ho visto che il rischio era quello di essere usata come una “bella cornice” a fianco di attori uomini, considerati invece per le loro capacità, ho scelto di lavorare molto sul mio talento artistico e di studiare con Susan Strasberg, che poteva comprendere bene il problema, dato che l’aveva conosciuto con Marylin Monroe (le due attrici erano amiche intime, ndr). Per quanto riguarda il movimento Me Too, mi auguro che le donne siano sempre più rispettate nella loro dignità".

 Negli ultimi anni si è dedicata ad aiutare le persone meno fortunate. Quando ha sentito il richiamo della fede?

"È stato un percorso iniziato nel 2000 che si è rafforzato durante un viaggio in Africa, nel quale sono stata testimonial delle Missioni Salesiane. Ero lì con una troupe: regista, parrucchiere, truccatore... Dovevo registrare dei video. In un villaggio ho visto un ragazzino che portava un bimbo piccolo in braccio: aveva gli occhi chiusi a causa di un'infezione. Non avevano acqua per aprirglieli. Ho preso un fazzolettino imbevuto, gli ho aperto gli occhi. E lui li ha aperti a me".

 Cosa le dà fastidio del suo passato? C'è un film che non rifarebbe?

"A dire il vero quello che mi dispiace è che le interviste siano diventate copioni nei quali sono invitata a interpretare sempre la stessa parte e con le stesse battute. Preferirei parlare di quello che non mi viene mai chiesto, di quello che rifarei". 

 Per quale motivo secondo lei nelle interviste le fanno sempre la solita domanda?

"Perché vogliono la solita risposta, che già pensano di conoscere".

(...)

Quali sono le persone che le stanno più vicino?

"Jean Marie, Natanaele, Abeba (la fidanzata di Jean Marie), mia sorella e la sua famiglia, i volontari dell’Associazione Le Opere del Padre".

 Di cosa si occupa l'associazione?

"Si occupa di evangelizzazione e di aiuto alle persone povere, spesso senzatetto e famiglie disagiate, in Italia e all’estero. In modo particolare in Africa. Cerchiamo di fare venire in Italia i bambini che non possono ricevere cure adeguate".

In una intervista ha parlato del diavolo, dal quale sarebbe stata aggredita. Si sono più verificati episodi del genere?

"La cosa importante è aver fatto l’esperienza di Dio e aver incontrato il Suo Amore che ha cambiato la mia vita".

 (...)

I suoi sembrano tutti bisogni spirituali. C'è invece qualcosa di più frivolo che ama? Cosa non può mancare nella sua casa?

"I detersivi profumati. E quando sono in macchina mi piace ascoltare le trasmissioni di musica jazz. E Radio Vaticana".

 In questa intervista lei dà l’idea di avere una vita piena e soddisfacente. Ma c’è qualcosa che le manca? Il mestiere di attrice? La grande popolarità? I guadagni?

"Quello che faccio mi appassiona. Vorrei soltanto avere più tempo".

Dagospia il 20 marzo 2023. Anticipazione da “Belve – Rai2”

 Ultimo appuntamento per Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, in prima serata il martedì su Rai2. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare.

 Claudia Pandolfi si racconta a Francesca Fagnani sin dai primi passi, nella serie Un medico in famiglia, fino alle proposte cinematografiche più impegnative, come quella di un film – mancato – con Tinto Brass.

A questo proposito, quando la Fagnani chiede alla Pandolfi se il motivo del rifiuto fosse dovuto a delle scene che avrebbe dovuto interpretare tra l’hard e il ridicolo come “giocare a m’ama non m’ama con i peli del pube”, la Pandolfi ricorda ridendo un aneddoto di quando glielo proposero: “Quando lessi quella scena chiusi il copione di botto. La protagonista sdraiata sul letto romanticamente giocava sfogliando la propria margherita.  Non me la sono sentita, ma quello con Tinto Brass fu uno dei pranzi più divertenti della mia vita”.

C’è spazio anche per il mondo privato dell’attrice, compreso il matrimonio lampo con Massimiliano Virgili, che naufragò solo dopo un mese. La Pandolfi rivela: “Il matrimonio fu un problema mio, di una che si è era ritrovata sposata, ma che non aveva alcuna intenzione di volerlo fare”.

 Quando la Fagnani le chiede come avesse trovato il coraggio di comunicare la fine dell’unione al marito, la Pandolfi ricorda: “Qualcosa avevo già detto prima del matrimonio alle persone interessate, compreso lui. Avevo parlato con i miei genitori, con le mie amiche, e tutti mi dissero che era solo una crisi prematrimoniale. L’unica persona che mi disse la verità fu Carlotta Natoli. Lei mi disse che in realtà io non volevo sposarmi”.

Valerio Cappelli per corriere.it il 15 novembre 2021.

Claudia Pandolfi vive in una piccola grande contraddizione tra vita pubblica e privata: l’attrice che rivendica il diritto alla normalità, sta vivendo il grande ritorno alla popolarità (e continua a essere vista col sopracciglio alzato dal cinema d’autore). È su Rai Uno, con Alessandro Gassmann, nella serie Un professore; sta girando per Amazon The Bad guy; al cinema è uscito Per tutta la vita di Paolo Costella. Da un set all’altro.

Eppure di sé dice: io non mi sento attrice, lo faccio.

«È un atteggiamento distaccato che ribadisco tutti i giorni. L’attrice la lascio in camerino. Io dopo scena di un film, allo stop, divento me stessa. Cerco di non mentirmi, di non avere sovrastrutture. Essere autentici migliora i rapporti».

Sono trent’anni che fa questo mestiere.

«Mi hanno conosciuta in tutte le salse. Di recente mi hanno detto: lo sai che sei simpatica. E’ una cosa buffa. Forse dipende dal fatto che prima il mio disagio fuori dal set usciva da tutti i pori, ora lo sono meno, o meglio lo sono in modo più spensierato e meno ingrugnito».

Ma lei non è affatto antipatica.

«Cosa posso dire, grazie, spesso invece risulta così. Sui set non mi isolo, è che non mi piace raccontarmi. Vorrei esistere solo nei personaggi che interpreto».

 Allora diventare famosa è stata una scocciatura…

«No, fu uno choc, stare al centro dell’attenzione non mi appartiene, quando lavoro sono protetta. Finito un set mi sento subito in un altro set, è una cosa alienante ma accade nella realtà».

Ogni volta che faccio un film penso sia l’ultimo. L’ha detto lei.

«E lo penso, sento la caducità, ogni volta vieni scelta. Poi mi giro e sono passati trent’anni. Per una che voleva fare la ginnastica artistica… Non vivo la competizione, non mi sento in gara con nessuno».

 Non era stanca di fare la poliziotta?

«Certo, infatti dopo Distretto di polizia ho girato I liceali. E per fortuna che c’è un regista come Paolo Virzì che se ne frega se ho fatto tanta tv. L’attore è uno: dove lo metti, sta».

 Ma, a parte Virzì, l’altro cinema, quello dei Festival, non la chiama.

«Non c’è un solo regista intellettuale che non mi abbia chiamato a un provino, anche quello che passa per essere il più altero di tutti, tanto avete capito di chi parlo. Lo fanno per curiosità. Non importa, io mi diverto, anche se a volte mi chiedo perché non prendono me. Non mi volete? Tié, mi diverto lo stesso. Io sono felice così. Ma poi cosa vuol dire il cinema dei Festival… Il vero mondo è fuori, quello è un mondo così astratto».

 Virzì l’ha chiamata per la terza volta.

«Quando mi chiama sono entusiasta. Coglie chiavi intime senza voyeurismo. Il mio primo film con lui è Ovosodo, mia sorella Enrica, che ha dieci anni meno di me, faceva mia sorellina, poi non ha voluto proseguire come attrice, non si divertiva, fa la segretaria di edizione al cinema. Questo nuovo film con Paolo si intitola Siccità, in una Roma dove non piove da tre anni, io sono un medico di Pronto Soccorso, una donna dura, imperscrutabile».

 Lui è un ritrattista della femminilità…

«E anche del mondo, che osserva con una sfumatura grottesca. Io sono cinica quindi andiamo d’accordo».

 Cinica?

«Cito sempre Woody Allen: “La vita è una commedia scritta da un sadico”. Arriva sempre l’inatteso, nel bene e nel male. La vita è così spiazzante… Ho fatto un altro film con Virzì, ma è di suo fratello Carlo, dove faccio la bassista punk. Nella vita strimpello la chitarra. Nel soggiorno di casa ho tutto, il pianoforte, la batteria».

Come ha cominciato?

«Michele Placido mi aveva vista a Miss Italia, era l’edizione vinta da Martina Colombari. Lì, mentendo e non mi chieda perché l’ho fatto, ancora adesso non saprei cosa rispondere, dissi che avrei voluto diventare attrice. Mica vero, mi vedevo come insegnante di ginnastica. E avrei fallito perché sono troppo alta, i muscoli, le articolazioni… Insomma mi ritrovai a girare con Placido il mio primo film, a 18 anni, Le amiche del cuore. Mi diedero otto milioni. Con i soldi mi iscrissi anche a una scuola privata, feci quattro anni in uno e mi diplomai in ragioneria».

 Quattro anni in uno?

«Eh, nell’insegnamento privato puoi».

 Immaginiamo lo studio matto e disperatissimo alla Leopardi. Ha mai fatto psicoanalisi?

«Sì, tra i venti e i trent’anni, prima del mio primo figlio, Gabriele che è del 2006. avevo bisogno di interfacciarmi con qualcuno che non fosse di famiglia, di mettere ordine… Ero piena di brufoli, avevo dolori di stomaco. Il mio corpo parlava».

 La lettera che nel 1999 scrisse al Corriere per spiegare il suo matrimonio lampo con Massimiliano Virgili, lasciato per Andrea Pezzi, nozze corte come un gatto in tangenziale…

«È stato uno sbaglio, ho capito dopo che nella vita non bisogna giustificarsi. Era un periodo turbolento. Sono passati tanti anni, sono diversa da allora: ma chi non lo è?».

 E ora si è sposata con Marco De Angelis per strada, a Barcellona, un “rito” per voi due.

«Il nostro vicino di panorama, su un ponte, aveva la tunica di sacerdote e un turbante. Si capiva che era di un’altra religione. Ci vedeva innamorati, ci ha messo una mano sulla testa e ha detto qualcosa, in una lingua che mi sembrava indiana o araba, è imbarazzante ma non l’ho decifrata. Il tutto è durato tre minuti. Di matrimonio vero non parliamo mai».

Quando torna a casa, parlerete anche voi di pro vax e no vax…

«Le regole e il bene comune vanno rispettati. Ho visto la vignetta di un figlio che chiede al padre: perché non ho i segni del vaiolo? E lui: perché il vaccino ha funzionato. Ci sono persone fragili che non possono vaccinarsi, e fin qui sono d’accordo. Ma è per loro che dobbiamo vaccinarci. Ci sono i dati. Non c’è tanto da parlare: va fatto e basta».

 Ma i suoi altri film e serie di cosa parlano?

«In Un professore faccio finalmente una romana, io che sono di Roma e non me l’hanno praticamente mai chiesto; interpreto una donna indipendente, libera, tenace, mio figlio è allievo del prof Alessandro Gassmann, con cui avevo avuto un piccolo trascorso, ci reincontriano e nasce una tenerezza. The Bad Guy è con due registi giovanissimi di Matera, competenti, divertenti ironici. Si chiamano Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana. Il protagonista è Luigi Lo Cascio, un magistrato che combatte la mafia e si trova coinvolto in ciò che combatte, io sono sua moglie, avvocatessa di successo. In Per tutta la vita c’è la domanda: se il matrimonio fosse nullo cosa faresti?».

È vero che oggi avrebbe problemi a spogliarsi sul set?

«Non mi suona proprio come frase mia, certo lo si fa con più dimestichezza in età giovane, ma se fosse giustificato dal film non avrei problemi a mostrarmi nuda in un film davanti ai miei figli. Non è la nudità, è il contesto che conta».

 Ha mai interpretato una femme fatale?

«Non lo saprei fare, scoprirebbero la magagna, non sono per niente una seduttrice».

 Dagospia il 15 novembre 2019. Da I Lunatici Radio2 

Claudia Pandolfi è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino.

 L'attrice ha parlato un po' di sé: "Sono sul set di Baby, per la seconda stagione di questa serie. Si parla di storie di ragazzi, io sono una degli adulti, faccio l'insegnante. Mi trovo bene, c'è un bel ritmo, una bella dinamica, mi trovo molto bene. Certo sono un po' la zia naturalmente, ma è una dinamica che funziona, mi sento a mio agio. Cosa sognavo di fare da bambina? La ginnasta. Non avrei mai pensato di fare l'attrice. Il mondo dello spettacolo è arrivato per caso, ho fatto la ginnasta fino a 12 anni, poi mi mandarono via dalla squadra perché ero troppo alta. A 17 anni mi è capitato per caso di fare un provino. Stavo al mare, ho partecipato a un concorso acquatico perché partecipando si entrava gratis nel posto.  Grazie a quel concorso finii a Miss Italia, e a settembre Placido volle vedere le ragazze di Miss Italia. Feci un provino con Michele Placido per un film che si chiamava 'Le amiche del cuore' e iniziai così a fare l'attrice. A 17 anni".

Ripercorrendo della sua carriera: "Un Medico in Famiglia? Ho fatto la prima e la seconda stagione, poi se avessi continuato avrei potuto chiedere cifre. Ma non c'era una strategia, sono andata via perché era finito il contratto. Se non avessi mollato il Medico in Famiglia probabilmente non avrei fatto Distretto di Polizia. E' una cosa che è nel destino degli attori. Io sono felice di aver fatto tutto quello che ho fatto, felice anche di essere andata via. Ogni volta che ho lavorato con qualcuno ho imparato qualcosa di diverso. Mamma lavorava in un'agenzia pubblicitaria, papà lavorava a Repubblica, vengo da una famiglia di persone che non erano nel mondo dello spettacolo, quindi ogni cosa che è arrivata ha destato in noi profondo stupore". 

Sulla Claudia Pandolfi mamma: "Non sono apprensiva, anzi. Lancio i bambini verso le avventure e le sfide, preferisco che sperimentino, ovviamente mettendoli al corrente di ciò che sono le avventure e le sfide. Cerco sempre di incentivarli, meglio un ginocchio sbucciato della paura di saltare. Conosco i pericoli ma è giusto che li assaggino un po' da soli". 

Sul suo matrimonio a Barcellona: "Ci ha sposato una persona con un abbigliamento buffo. Sembrava vero ciò che diceva, cioè che era un piccolo guru nella sua comunità. Aveva addosso un saio, ci ha colpito, il tutto è durato cinque minuti, ci siamo sposati così, tra sorrisi e bacetti, ci ha messo una mano sulla testa, mi sono emozionata. Sarà perché un matto ci ha sposato a Barcellona, ma è stato emozionante".

 Sulle molestie subite nella vita e nel mondo dello spettacolo: "E' vero che mi è capitato un episodio spiacevole durante la mia vita di essere umano: mi capitò nel quartiere, c'era una persona poco raccomandabile che si aggirava, ero molto piccola, avevo 10 anni. Poi mi è capitato un incontro 'curioso' tra i mille provini che ho fatto nella mia vita. Grazie a Dio però non sono mai stata molestata da nessuno".

Da "Spy" il 29 novembre 2018.

«Perché piaccio molto agli omosessuali? Perché sono un po' lesbica dentro». Lo racconta l'attrice Claudia Pandolfi al settimanale Spy, in edicola da venerdì 30 novembre. «Ho sempre voluto capire di quante sfumature fosse fatta la mia sessualità. Sono eterosessuale, non è una novità per nessuno, ma non mi sono mai preclusa nessuna strada. Sono sempre stata una donna molto aperta. Se ho ricevuto avances dalle donne? Sì, e le ho anche accettate, a dirla tutta.

Non ho mai avuto nessuna storia, sia ben chiaro, e pensate che il mio primo bacio, con una donna, lo diedi nel film “Le amiche del cuore” di Michele Placido. Poi ho giocato anche io, con delle amiche, ma a me piace scoprire l'essere umano e poco importa l'identità». Attualmente l'attrice è impegnata con la promozione del film di Pieraccioni “Se son rose” e della serie prodotta da Netflix “Baby”, ma è anche sul set del nuovo film di Riccardo Milani.

Dagospia il 15 novembre 2021.

Sono definite stazionarie ma non preoccupanti le condizioni dI Claudia Pandolfi, ricoverata da ieri al policlinico Umberto I di Roma, dopo essere stata trascinata per alcuni metri dall’auto di un paparazzo al termine di un alterco - sottoposta ad un intervento chirurgico per drenare alcuni versamenti al torace dovuti alla violenta caduta. L’attrice ha riportato anche la rottura di due costole...

Stampa.it il 15 novembre 2021.

Sono definite stazionarie ma non preoccupanti le condizioni dell\'attrice Claudia Pandolfi, ricoverata da ieri al policlinico Umberto I di Roma, dopo essere stata trascinata per alcuni metri dall\'auto di un paparazzo al termine di un alterco. La donna, nella serata di ieri, è stata sottoposta ad un intervento chirurgico per drenare alcuni versamenti al torace dovuti alla violenta caduta. L\' attrice ha riportato anche la rottura di due costole.

Per il fotografo Mauro Terranova, 43 anni, che dopo l\'incidente, avvenuto nella zona di piazza Vescovio, ha chiamato il 113 dopo essersi allontanato per autodenunciarsi, le accuse sono di lesioni aggravate ed omissione di soccorso.

Ieri Claudia Pandolfi, che ha un figlio 3 anni nato dalla sua relazione con il cantautore Roberto Angelini, stava rientrando nella sua abitazione, vicino a piazza Vescovio, quartiere bene della capitale, quando ha visto che all\'interno di una Nissan Micra scura un fotografo le aveva \"rubato\" alcuni scatti fotografici.

L\'attrice si è avvicinata al paparazzo chiedendo la restituzione del rullino e con lui avrebbe avuto una animata lite. Improvvisamente però il fotoreporter ha ingranato la marcia per allontanarsi ma l\'attrice sarebbe rimasta aggrappata allo sportello per alcuni metri.

Immediato l\'intervento dei carabinieri della compagnia Parioli e della stazione di viale Libia che hanno dato il via alle ricerche del paparazzo, ma poco dopo lo stesso fotografo ha telefonato in lacrime al 113 raccontando di aver ferito la Pandolfi. Già due anni fa Terranova fu protagonista di un\'altra vicenda ma al contrario: insieme a un suo \"collega\", Sandro Foggia, fu picchiato dal cantante Gigi D\'Alessio perchè si erano appostati davanti alla villa del cantante a Roma.


 

Andrea Scarpa per il Messaggero - Estratti lunedì 6 novembre 2023.

Il 16 novembre Claudio Amendola torna in tv con Io canto Generation, nuovo talent di Canale 5 riservato a giovanissimi aspiranti cantanti fra i dieci e i quindici anni. La scorsa settimana ha finito di girare il suo ultimo film da regista, Ari-Cassamortari, seguito dei Cassamortari dell'anno scorso.

Al telefono, però, si comincia parlando d'altro. Francesco Totti, per esempio. 

Il Capitano ha appena fatto pubblicamente pace con Luciano Spalletti: lei deve fare altrettanto con qualcuno?

«Sì, più di uno». 

La lista è lunga?

«Sì, ma non lunghissima. E forse dovrei cominciare adesso. Comunque mi fa piacere che i due, Totti e Spalletti, si siano ritrovati. È una buona notizia».

Il calcio che guarda verso l'Arabia le piace?

«Non me ne frega più niente di questo sport. Mi interessa solo la Roma. Per me è una malattia.Che mi fa soffire, ma di cui non posso fare a meno». 

Mourinhiano convinto?

«Convintissimo e fedelissimo. Un gigante». 

Su Canale 5 sarà in giuria con Orietta Berti, Al Bano, Michelle Hunziker: che c'entra lei in un programma così?

«Mi diverto. La tv è stata ed è il mio pane quotidiano ( Le Iene, Scherzi a parte, Star in the Star etc., ndr). Poi sembra che questi ragazzini siano fenomenali. Spero siano ancora puri, senza sovrastrutture. Canteranno anche con i loro maestri (Iva Zanicchi, Fausto Leali, Anna Tatangelo, Mietta, l'ex suora Cristina Scuccia e Benedetta Caretta, ndr)».

Un suo figlio l'avrebbe mai mandato a uno show così?

«Sì, certo. Ma solo dopo aver chiarito che è un gioco e che bisogna saper perdere, cosa molto importante nella vita». 

Dica la verità: dopo aver detto di averla venduta, vuole ricomprarsi la barca?

«Assolutamente no. Le cazzate si fanno una volta sola nella vita. Me la sono goduta e ho dei ricordi bellissimi, ma non era più sostenibile». 

Barca tipo D'Alema, a vela; o Briatore, a motore?

«A vela, ma non tipo D'Alema, tipo uno che gli piace andare a vela. Stai a cerca' il titolo, eh?». 

(…)

Però gioca su più campi e anche sotto rete: fa il regista ormai da anni, dice di essere più bravo a dirigere che a recitare.

«Io mi diverto a lavorare e fare il regista mi rilassa». 

In questi panni di cosa si è stupito?

«Della mia lucidità e naturalezza. Sul set mi comporto istintivamente come i grandi registi con i quali ho lavorato. Tecnicamente giro bene, sul risultato finale ognuno pensi quello che vuole». 

Ha una storia tutta sua che prima o poi le piacerebbe girare?

«Sì, da almeno quindici anni ma è triste e non so se mi va davvero di farla. Mi piace la commedia. Sono diventato molto pigro. Non voglio uscire dalla mia comfort zone. A 60 anni ci sta». 

Per arrivare fin qui cosa c'è voluto?

«Tantissima fortuna. Faccio un lavoro che so fare e non ho mai guardato il telefono». 

Mai stato disoccupato?

«Mai. Ho sempre avuto un contratto da onorare». 

E dovendo scegliere: attore o regista?

«Tutto. Adesso faccio anche la regia delle fiction tv che interpreto». 

Quindi per il clamoroso ritorno della serie "I Cesaroni", di cui tanto si parla, sarà anche regista?

«Come corre... Non gliela do questa notizia perché non sarebbe giusto. Quando sarà, se sarà, lo farà la produttrice. Mi riferivo a Il patriarca 1 e 2». 

L'errore peggiore?

«Aver smesso di studiare dopo la terza media. Dovevo continuare». 

A proposito, anni fa aveva detto che avrebbe letto i grandi autori della letteratura russa e francese: l'ha fatto?

«Lo farò... nella prossima vita. Quante ne ho dette...».

L'infarto l'ho avuto per lo stress». 

Lei ha condotto due edizioni di "Scherzi a parte": quelli telefonici li ha mai fatti?

«Sinceramente non mi hanno mai divertito». 

Riesce a dire una cosa buona del premier Meloni?

«Non ho tempo per queste cose».

È sempre stato di sinistra: se in futuro la segretaria del Pd Elly Schlein dovesse chiederle di candidarsi cosa risponderebbe?

«No, grazie. Non se ne parla».

(..) E quando ha detto di essere uno dei più grandi contribuenti di Roma di quanti soldi parlava?

«Se in un anno ho guadagnato tre miliardi, più della metà li ho versati felicemente in tasse». 

E così era fra i contribuenti più importanti?

«No. Quello che volevo dire è che io guadagno e pago tutto a mio nome. Tanta gente molto più ricca di me lavora facendo intestare a tante società. E così a volte mi è sembrato strano e "simpatico" pagare più tasse di certa gente che viaggia su altri livelli».

È ancora single, è spaventato dall'idea di innamorarsi ancora, o è di nuovo in coppia?

«Non mi va di rispondere a questa domanda (sui giornali e sul web si dice che sia legato da mesi a una costumista 45enne di nome Giorgia, ndr». 

Da cittadino romano ha un messaggio per il sindaco Gualtieri?

«Non ho più alcuna voglia di parlare di tutto quello che non va a Roma: è un tema vecchio che sembra non avere soluzione. Oggi, però, bisogna dire che le responsabilità di tutto quello che non va in città sono sicuramente da dividere al cinquanta per cento con chi ci vive. Non ne posso più di sentire quelli che si lamentano del traffico mentre parcheggiano in doppia fila. Basta».

L'ultimo stupore?

«Mai avrei pensato quando avevo vent'anni di arrivare a sessanta e vivere una realtà di guerra come quella di oggi. Mi fa schifo tutto: le follie dei politici, l'indifferenza della gente, il cinismo nauseante. Sogno che arrivino gli extraterrestri, i marziani ormai sappiamo che non ci sono, e una volta per tutte ci dicano: "Voi terrestri siete proprio deficienti". E si comportino di conseguenza».

La scintilla sul set, Rocco, le malattie: la storia d'amore tra Claudio Amendola e Francesca Neri. Dopo una relazione durata venticinque anni, Claudio Amendola e Francesca Neri si sono detti addio nel 2022, ma la loro storia rimane una delle più belle. Novella Toloni il 26 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'amore nato sul set

 Lontani ma vicini

 La nascita di Rocco

 Sei mesi di addio

 Il matrimonio a New York

 Gli anni d'oro

 La malattia di Francesca Neri

 Il malore di Amendola

 Gli anni bui e il libro

 La smentita poi l'addio

Un quarto di secolo. Tanto è durata la storia d'amore tra Francesca Neri e Claudio Amendola. Un amore sbocciato sul set e proseguito sotto ai flash dei fotografi per venticinque anni, periodo nel quale la coppia ha vissuto momenti bellissimi, forti crisi e periodi dolorosi.

L'amore nato sul set

È il 1997, Claudio Amendola e Francesca Neri vengono scelti dal regista Franco Bernini per interpretare i protagonisti del film "Le mani forti". Insieme i due attori hanno già lavorato nel film del '96 "La mia generazione", ma sul set succede qualcosa. Il feeling è immediato e la vicinanza per esigenze di copione si trasforma in qualcosa di più. Claudio è reduce da una lunga relazione con Marina Grande, dalla quale ha divorziato da pochi mesi e Francesca, che è sua coetanea, è una boccata d'ossigeno per il suo cuore. Nonostante la passione bruci sin da subito, Claudio e Francesca aspettano il 1998 per uscire allo scoperto. Ma la loro prima foto, scattata sul set del loro primo film, segna l'inizio della loro lunga relazione.

Lontani ma vicini

Il cinema li ha fatti incontrare e innamorare, ma li tiene anche distanti per lunghi periodi. La Neri è impegnata sui set di film come "Carne tremula" di Pedro Almodóvar, grazie al quale vince il Nastro d'Argento, poi viene scelta da Cristina Comencini per il film "Matrimoni". Amendola è invece impegnato sui set di "Altri uomini", "Santo Stefano" e "Mare largo". Lontano dalle cineprese, però, la coppia vive una storia d'amore travolgente ma rimasta sempre molto privata.

La nascita di Rocco

Nel 1999 Francesca Neri rimane incinta. La gravidanza, però, non la tiene lontana dal set e l'attrice recita al fianco di Francesco Nuti nel film cult "Io amo Andrea". La nascita di Rocco stravolge, però, l'equilibrio della coppia, che pochi anni dopo vive la prima forte crisi.

Sei mesi di addio

È il 2003, Rocco ha tre anni e Amendola e Francesca Neri sono professionalmente molto impegnati, il primo in tv mentre lei è sul film de "La felicità non costa niente". La coppia è sempre più distante e i due decidono di separarsi ma la decisione è soprattutto di Francesca Neri. "Io per mio figlio mi sono separata. I sei mesi di separazione da Claudio li ho voluti anche per quello: i bambini, per quanto piccoli, assorbono il disagio. Rocco era dai nonni a Trento. Io e Claudio siamo andati a riprenderlo insieme, ricordo il suo sorriso: aveva capito tutto", raccontò anni dopo per riassumere quanto accaduto nel 2003.

La cocaina, il divorzio, i premi (mai arrivati): Claudio Amendola si "confessa" a Belve

Il matrimonio a New York

Dopo tredici anni di fidanzamento Claudio e Francesca decidono di sposarsi in gran segreto a New York. L'attore romano è atteso a Madrid per una prima importante, ma in Spagna c'è anche Francesca e i due decidono di fare una pazzia, volando negli States. È l'11 dicembre 2010 e Amendola e la Neri si dicono "sì" in una gelida giornata newyorkese. Di quel giorno, però, non ci sono foto e, come tutta la loro storia d'amore, anche questo momento importante rimane privato.

Gli anni d'oro

Tra il 2011 e il 2014 la coppia vive un momento d'oro. Francesca Neri è impegnata in un paio di progetti cinematografici - vincendo il Premio Cusumano alla commedia per "Una famiglia perfetta" - mentre Amendola è il re delle fiction televisive. Insieme partecipano a numerosi eventi e si mostrano in perfetta sintonia, felici e sereni. Le riviste dedicano loro articoli e copertine.

La malattia di Francesca Neri

Dal 2015, l'attrice inizia a soffrire di forti dolori al basso ventre, che solo dopo anni scoprirà essere dovuti alla cistite interstiziale cronica. Il dolore cronico e invalidante la costringe a prendere le distanze dal mondo del cinema e dello spettacolo: il film "The Habit of Beauty" segna la fine della sua carriera.

Il malore di Amendola

Settembre 2017. Claudio Amendola è nella sua casa di Roma insieme alla moglie quando ha un malore. Dolori al petto e respiro affannato, sintomi di un infarto in corso, fanno immediatamente preoccupare Francesca, che lo convince a recarsi al pronto soccorso. L'attore viene ricoverato nel reparto di cardiochirurgia del Policlinico Umberto I a Roma, dove rimane sotto osservazione per le successive ventiquattro ore prima di venire dimesso. La vicenda rimane privata e solo un anno dopo, quando Amendola è ospite di Silvia Toffanin a Verissimo, la storia viene raccontata: "Ho smesso di fumare e ho perso dodici chili".

Il dolore di Amendola: "Mia moglie è malata"

Gli anni bui e il libro

Gli anni successivi sono difficilissimi. Claudio Amendola rimane vicino alla moglie, che soffre atrocemente tanto da pensare addirittura al suicidio. Nel settembre 2021, Claudio Amendola parla per la prima volta della malattia della compagna: "Mia moglie Francesca ha una malattia, un dolore fisico enorme, una difficoltà nel vivere le sue giornate. Anche nella malattia, cerca la forza per stare bene. Ne ha parlato nel suo libro che presenterà presto". Prima della fine dell'anno esce "Come carne viva", edito da Rizzoli, e si scopre quanto sono stati dolorosi gli ultimi anni della Neri. La coppia, però, appare molto unita anche nella sofferenza ma a inizio 2022 iniziano a circolare rumor sulla crisi.

La smentita poi l'addio

La voce di un possibile divorzio si fa insistente, Dagospia dà per certo l'addio ma Claudio Amendola sceglie il settimanale DiPiùTV per smentire le indiscrezioni. "Non è assolutamente vero, per carità. Non capisco chi possa avere messo in circolazione una voce del genere. Vi prego, non scherziamo". È agosto 2022. Pochi mesi dopo, è ottobre, la coppia annuncia la fine del loro amore. "Non c’è dolore, ma soltanto il dispiacere di non essere stati in grado di arrivare fino in fondo", ha confessato di recente Claudio Amendola parlando della fine del matrimonio. Oggi l'attrice vive la sua vita da single, mentre l'attore sembra avere ritrovato già l'amore al fianco della 45enne Giorgia.

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” l’8 aprile 2023.

Un boss potentissimo e spietato, con un occhio al Padrino («ma è solo un riferimento, la presenza e lo sguardo sono tutti miei») e il cuore al miglior cinema "crime": Claudio Amendola torna in tv protagonista e regista della serie Il Patriarca, in onda in 6 prime serate su Canale 5 dal 14 aprile.

Il suo personaggio, Nemo Bandera, è un imprenditore del settore ittico che, dietro la facciata rispettabile, gestisce un colossale narcotraffico in un immaginario paese del Meridione. E quando il medico gli diagnostica un inizio di Alzheimer, decide di "ripulire" i suoi affari e scegliere un successore all'interno della propria, avidissima famiglia.

 Tra sparatorie, sangue, passioni proibite, tradimenti e colpi di scena, le cose saranno tutt'altro che facili. Amendola, 60 anni, 3 figli e due nipoti, un avviatissimo ristorante al centro di Roma, giura che la serie si è rivelata una sfida entusiasmante.

 Perché?

«Mi è piaciuto interpretare un personaggio feroce che, all'improvviso, scopre di essere fragile e fa di tutto per riportare la famiglia nella legalità. Anche se il suo mondo lo tira sempre dentro, vorrebbe riparare al male fatto».

 (...)

Le è costato molto rivelare in tv, al programma "Belve", di essere stato in passato dipendente dalla cocaina?

«No, non mi è costato affatto perché sono fiero di essermi liberato di quella me... Uscire dalla dipendenza è stato un percorso violento e breve, ci sono riuscito pensando ai miei figli. E a loro non ho mai nascosto nulla».

 (..)

Non appartenere ai giri cinematografici che contano l'ha penalizzata?

«Sul lavoro no, ma a parte il David come non protagonista vinto nel 1992 per il film Un'altra vita, non ho mai avuto premi. Ma non me ne frega niente, è andata benissimo così».

 E la sua amata Magica come va?

«Sono un romanista contento. Lo stadio è pieno, sento l'entusiasmo, la squadra fa il suo. L'avventura in Europa League ci dà molte speranze. Mi piace Mourinho, il suo carisma, il modo in cui protegge i tifosi e la Roma».

 Parlando invece di Roma, la sua città?

«Non potrei vivere in nessun altro posto del mondo e quando parto sento subito il bisogno di tornare. Ho apprezzato il sindaco Gualtieri che ha difeso le famiglie arcobaleno, per un po' ho dimenticato le buche, i cinghiali, il degrado».

  Che sfida le manca?

«Per anni ho desiderato lavorare con Gabriele Salvatores e gliel'ho fatto sapere in tutti i modi. Ma lui niente, non mi ha mai filato. E ora non me ne frega più niente, può anche chiamarmi. Il mio sogno è un altro: fare un western».

Dagospia il 21 marzo 2023.

Claudio Amendola ospite a Belve. L’attore romano si racconta a Francesca Fagnani: “Sono stato dipendente dalla cocaina”. E, a proposito della sua separazione da Francesca Neri, per la prima volta confida: “Oggi non c’è dolore. Il dolore c’è stato prima. C’è semmai il dispiacere di non essere stato, di non essere stati, in grado di arrivare sino in fondo”.

 A proposito del suo rapporto con le droghe, quando Francesca Fagnani gli chiede se pensa di essersi fermato prima di diventare dipendente, ha ammesso: “No, ne sono stato dipendente e ne sono uscito perché c’era qualcosa di importante: i figli”. Quando la Fagnani domanda quand’è che si tocca il fondo, Amendola ammette: “Quando ti rendi conto che ti sei trovato in una situazione in cui dovevi essere lucido e non lo eri. E allora, per fortuna, lo spavento o la responsabilità che solo tu puoi avere in quel momento, ti costringono a tornare lucido. E così è stato”. È a questo punto che la Fagnani gli chiede: “Ne è uscito da solo?”. “Sì, completamente da solo”, è la risposta di Amendola. 

Infine, una divertente stoccata al presidente del senato Ignazio la russa, che proprio a Belve lo ha definito “Il più stronzo di tutti” e lo ha denunciato dopo i fischi alla Festa del Cinema nel 2011. Amendola ridendo rivela: “Ma vi ha detto a chi ha dovuto devolvere i soldi della causa persa? Ad emergency”. E la Fagnani: “Ma questa è cattiveria!”

 Ultimo appuntamento per Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, in prima serata il martedì su Rai2. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare.

Claudio Amendola, tra gli attori italiani più amati e punto di riferimento della cinematografia romana, si racconta senza sconti a Francesca Fagnani. A proposito della sua carriera, la Fagnani gli fa notare che ha costruito la sua immagine sfruttando molto la maschera del “coatto” e Amendola confessa: «Sì, mi adagiavo molto su questo agli inizi. Poi, quando tornavo a casa, i miei mi dicevano “Ma che cazzo dici, sei nato a Villa Stuart!”

 Però funzionava, e comunque ho mangiato tanti sampietrini io. Non mi sono risparmiato la strada, il muretto…». E a proposito della sua gioventù turbolenta racconta: “A 19 anni ho fatto una cazzata e sono finito a Regina Coeli. Per un succhio di benzina! Ma è stata una esperienza formativa”.

Tornando alla sua carriera, la Fagnani gli chiede per cosa sarà ricordato, e Amendola: “Per Vacanze di Natale e i Cesaroni”. E allora la Fagnani domanda se ci sia una forma di snobismo nei suoi riguardi: “Secondo lei? Secondo me sì”. E sui motivi aggiunge: “Perché non ho mai fatto salotto, non li riconosco, non so come si chiamano, non vado alle prime”.  Allora quando la Fagnani domanda: “Insomma lei non fa parte di quello che la De Sio, qui a Belve, ha definito il circoletto”, Amendola risponde: “Il circolone semmai! Che poi varia a seconda delle stagioni, ne ho visti tanti di circoletti…”.

C’è anche spazio per i momenti più intimi della vita dell’attore. A proposito dei suoi amori rivela “sono stato amato più di quanto ho amato io. Ancora ho da imparare in materia”, e parlando dei suoi figli si commuove: “La gioia più grande? Quando mia figlia Alessia, nata prematura di 5 mesi e mezzo, ce l’ha fatta”.

Claudio Amendola: «Francesca Neri? Il dolore c’è stato, ma oggi non c’è più. C’è un errore professionale che non mi perdono». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2023

Questa intervista al regista e attore della nuova serie «Il Patriarca», su Canale 5, apre lo Speciale di 7 dedicato alle serie tv. Contrariamente alla sua natura, nella storia da lui interpretata (ne è anche regista) sarà «un uomo feroce, che non ha niente di me»

Claudio Amendola, attore, regista e sceneggiatore, nato a Roma, ha compiuto 60 anni lo scorso febbraio. Torna in tv con «Il Patriarca», serie in onda su Canale 5

Nella vita fuori dal set lui si sente «strafottente e timido» (così si è autodefinito a Belve ), del resto tutti noi camminiamo sul cornicione di una perenne contraddizione. Come capita a molti romani la sua è una inconfondibile cifra fatta di disincanto e cinismo, di sincerità e schiettezza, un impasto di magnitudine e disillusione che ha le sue radici in riva al Tevere perché a Roma si respira l’aria da capitale dell’Impero ma decaduta (sta forse qui l’origine di un cortocircuito che si procrastina da secoli).

Il suo nome e il suo volto sono legati a doppio nodo a Vacanze di Natale (nel ruolo del borgataro) e a I Cesaroni (nel ruolo del romano verace) perché la sua griffe è sempre lì, ai piedi del Colosseo (ce l’ha tatuato sul braccio insieme al gladiatore, per mettere subito le cose in chiaro. Poi ha aggiunto sulla coscia una tigre, forse per alimentare la sua fama da coatto). Sebbene sia nato da famiglia ottima e borghese, a Claudio Amendola il ruolo del coatto riesce talmente bene che tanti hanno pensato che lui sia davvero così.

Le ha dato fastidio questa nomea?

«Ma no. Anzi. Io stesso ho cavalcato quel ruolo nei primi anni di carriera; quella del coatto è una bonaria etichetta che mi sono tenuto per tanto tempo e non rinnego in nessun modo: mi sento in qualche modo coatto nell’accezione migliore del termine, un misto di spavalderia e indolenza romana».

«NEL COATTO IN FONDO MI RITROVO: LASCIAI LA SCUOLA A 16 ANNI, SONO UN MISTO DI SPAVALDERIA E INDOLENZA»

Lei è figlio degli attori Ferruccio Amendola e Rita Savagnone: il suo era un destino segnato?

«No, non c’è stata una particolare spinta da parte loro, né una particolare voglia iniziale da parte mia. Ho smesso di andare a scuola a 16 anni e prima di intraprendere questa strada ho fatto diversi lavori: il commesso, d’estate il bagnino, ho provato a lavorare in un cantiere con scarsissimi risultati, ho fatto l’apprendistato da montatore. Erano altri tempi, si trovava lavoro facilmente in tutti i campi».

Poi per fare un piacere a sua madre si concesse la possibilità del provino per la miniserie Storia d’amore e d’amicizia che divenne il suo primo test da attore.

«All’inizio tra me e me pensavo: sta’ a vedere che se ne accorgono che non è il lavoro mio, poi sono arrivati i film di Marco Risi, Soldati - 365 all’alba e Mery per sempre, e ho capito che forse era fatta».

Prodotta da Camfilm e presentata da Taodue Mediaset Group, dal 14 aprile arriva su Canale 5 la serie Il Patriarca di cui lei è sia protagonista sia regista. L’attore è generalmente un individualista che pensa a sé stesso, il regista ragiona invece in termini di collettivo: come riesce a far convivere due anime opposte?

«In realtà non sono d’accordo sulla premessa. Se l’attore è individualista è un macello, un interprete deve essere collaborativo e generoso con chi ha meno ore di volo; allo stesso tempo deve contare anche sugli altri. Per me questo orizzonte è sempre stato una bussola: l’attore che viaggia da solo è meglio se si limita a fare i monologhi a teatro. Da regista però so cogliere anche le singolarità dell’attore, le cose che ti possono mettere in difficoltà, le piccole paranoie che agitano chi fa questo mestiere».

Le sue paranoie?

«Sinceramente non ne ho mai avute, forse anche perché poche volte mi sono messo in gioco con ruoli troppo lontani da me: mi sono sempre tutelato o adagiato, scelga lei la versione che preferisce».

L’attore più paranoico con cui ha lavorato?

«Diciamo in generale che io diffido degli attori che entrano nella parte: chi si porta a casa il personaggio a me fa un po’ ridere. Va bene immedesimarsi, ma non troppo: mai oltrepassare la linea del ridicolo».

Amendola in una scena de «Il Patriarca» in onda dal 14 aprile su Canale 5 e in contemporanea streaming su Mediaset Infinity

Nel Patriarca interpreta un imprenditore (Nemo Bandera) che ha portato la sua azienda (la Deep Sea) a essere una delle più importanti della Puglia, grazie alla sua abilità negli affari, ma anche grazie a traffici illeciti che hanno la base nel porto della sua città. Feroce, brutale, senza pietà. Uno a cui nemmeno se fosse vero si direbbe che le assomiglia...

«Cerco sempre di trovare una risposta giusta a una domanda obbligatoria, ma questa volta nel personaggio che interpreto non c’è davvero niente di me».

Perché ha fatto suo questo progetto?

«Sono consapevole delle persone a cui mi rivolgo di progetto in progetto e credo che questo sia un prodotto riconoscibile per il pubblico di Canale 5. C’è una fortissima storia emotiva, a cominciare dal protagonista che nella prima scena scopre di essere malato. La malattia è il motore di tutti i movimenti sentimentali che animano la serie. Nemo Bandera è un uomo di comando, un grande imprenditore e un grande criminale, il cui potere per la prima volta viene messo in discussione da un fattore contro il quale lui non può combattere. È uno dei motivi che mi hanno fatto innamorare di questo personaggio».

Il Patriarca mescola il crime e il melò...

«Dirigere una serie così è anche una grande opportunità proprio perché in questa storia, in questa saga familiare avvincente ed emozionante, mi è stato possibile esplorare una gamma di sfumature e di toni di racconto che non sempre si trovano nelle serie tv: nel Patriarca c’è prima di tutto la parabola del potere ottenuto ad ogni costo e la fragilità su cui si regge, e poi l’importanza della famiglia, porto sicuro in cui ritrovare la serenità e la forza anche nei momenti più bui. E soprattutto ci sono le grandi emozioni che da sempre muovono le grandi storie: la vendetta, la rabbia ma anche l’amore e la generosità, la viltà e il coraggio, l’amicizia e il tradimento, le dinamiche intestine di potere e successione, le scalate: è ampio il panorama di argomenti che si intrecciano».

Le dinamiche familiari sono la chiave in cui riconoscersi...

«Sì, i movimenti emotivi più forti sono quelli familiari, sono quelli che toccano l’immaginario. Il bello del mio personaggio è raccontarne i lati deboli, mettere a nudo tutto quello che scopre della sua debolezza e della sua fallibilità; tutto quello che era la sua forza evapora, la violenza e la brutalità del passato cominciano a pesare, a ritornare indietro, il male fatto presenta il prezzo».

È una storia di viltà e coraggio, ma anche di vendetta. Lei si è mai vendicato?

«Sicuramente qualcuno si è vendicato di me, ne sono convinto, forse mi ricordo pure chi... Sono cose che appartengono a tutti. Sicuramente c’è stato qualcuno a cui non avevo dato il giusto interesse, la giusta attenzione, e poi quando c’è stata l’occasione me l’ha ridata indietro».

Un errore professionale che non si perdona?

«Non aver fatto Il bagno turco di Ozpetek, purtroppo parliamo ormai di uno o due secoli fa. È un film che non ho capito: non ho avuto il coraggio di interpretare quel ruolo».

Dipendeva dall’etichetta da macho e sex symbol che l’ha sempre accompagnata?

«Non mi ritrovavo in quel personaggio e non mi sono voluto mettere in gioco. Ho fatto un errore: sono stato proprio uno stupido».

La critica è sempre stata poco generosa con lei. Si sente snobbato? Pensa di aver ricevuto meno consensi di quelli che pensava di meritare?

«In realtà non me ne è mai importato tantissimo e ci ho fatto poco caso durante la carriera. Certo, c’è stato un tempo — durato molto poco però — in cui pensavo fosse giusto che meritassi un premio. Ma va bene lo stesso. Con il tempo sono diventato sempre più disincantato».

Schietto e sincero («Sono stato dipendente dalla cocaina per qualche anno, poi ho capito che era il caso di smettere»), lei non ha mai fatto mistero della sua militanza a sinistra. Le piace la svolta del Pd con Elly Schlein?

«Sì, mi piace. Ripongo la speranza che il nuovo corso possa riportare gente come me ad avere curiosità e passione, spero proponga qualcosa che possa risvegliarci... Del resto non è possibile che siamo tutti morti, da qualche parte staranno quelli che c’erano qualche tempo fa... penso anche che Schlein sia una nuova condottiera di cui ha bisogno anche la destra, perché senza un’opposizione intelligente, costruttiva e spietata, è pure più difficile governare. È come i registi che vogliono fare i film senza produttori: poi i soldi finiscono troppo presto».

«IL DOLORE PER L’ADDIO CON FRANCESCA NERI OGGI NON C’È PIÙ. UN DISPIACERE? CHE NON INVECCHIEREMO INSIEME»

Di Giorgia Meloni si dice sempre: finalmente una donna al comando...

«Mi colpisce soprattutto che si sottolinei continuamente che è un governo di destra. Mi sembra un po’ stupido far notare a un governo di destra che è di destra: che cosa ci si aspetta da una maggioranza cosi? Se non che prenda decisioni di destra. Poi però i nodi vengono al pettine, mi sembra stiano facendo il minimo sindacale per il loro elettorato e soprattutto nei campi dove possono farlo, all’interno dei nostri confini».

Un primo matrimonio (e due figli) con la doppiatrice Marina Grande, poi nel 1997 l’incontro sul set ( Le mani forti ) con Francesca Neri: dopo 25 anni e un figlio vi siete separati. Come sta in questo momento?

«Mi preme dire e mi piace sottolineare che c’è stato un enorme rispetto nei confronti della nostra separazione da parte del mondo dei media: forse significa che nei 25 anni in cui siamo stati insieme abbiamo seminato bene. Ho avvertito molta eleganza nel trattarla e nessuna pressione, a parte l’inevitabile rumore iniziale... Il dolore c’è stato, ma oggi non c’è più. Rimane il dispiacere di non essere riusciti ad andare fino in fondo e rispettare quello che per tanti anni ci siamo detti, ovvero il voler invecchiare insieme. Il resto rimane nella sfera più intima della mia vita e preferisco tenerlo molto, molto per me».

La faccio sdraiare sul lettino dello psicologo: ha un incubo ricorrente?

«Una volta avevo l’incubo di arrampicarmi su pareti sempre più scoscese e con sempre meno appigli. Una situazione ansiogena, ma ho scoperto che è un classico della storia dei sogni. Oggi invece dormo bene».

Le pareti son tornate a fare le pareti.

QUARANT’ANNI SUL SET - Il debutto al cinema di Claudio Amendola risale al 1983: è Mario, il protagonista di Lontano da dove di Stefania Casini e Francesca Marciano. Nello stesso anno partecipa con Barbara De Rossi alla mini serie tv Storia d’amore e d’amicizia di Franco Rossi. Da allora tra film per il cinema e la tv, serie e cortometraggi ha recitato in 74 opere in quarant’anni di carriera.

CINQUE VOLTE REGISTA - L’interesse per la regia, parabola comune a molti attori, si manifesta 10 anni fa, quando Amendola dirige il suo primo film, La mossa del pinguino, senza parteciparvi come attore. Tra gli interpreti Edoardo Leo, Ricky Memphis e Ennio Fantastichini. Da allora alla serie Il patriarca ha diretto altri due film (Il permesso - 48 ore fuori nel 2017 e I cassamortari nel 2022 e la serie Nero a metà nel 2018.

TRE FIGLI E DUE MATRIMONI - Figlio degli attori Ferruccio Amendola (scomparso nel 2001) e Rita Savagnone (83 anni), è stato sposato due volte. Dal primo matrimonio, con l’attrice e doppiatrice Marina Grande, durato dal 1983 al 1997 ha avuto due figlie: Alessia, 39 anni, doppiatrice e Giulia (34), cantante e attrice. Dal secondo matrimonio, con l’attrice Francesca Neri (59), conosciuta sul set del film Le mani forti (1997), è nato invece Rocco, 24 anni. I due attori, sposati dal 2010, si sono separati lo scorso ottobre.

Maurizio Crosetti per la Repubblica - Estratti martedì 7 novembre 2023.

Claudio che guarda altrove. Claudio protetto dalle sue mani in primo piano, quasi sempre solo. Stremato dopo un concerto o forse felice, mentre passeggia sul lungomare. Nascosto dietro gli occhiali. A braccia larghe come ali nel rito del palco, o disteso sul letto. Altrove e qui, si scrive con la congiunzione ma funzionerebbe anche col verbo, è un libro fotografico atipico, perché ci sono i ritratti di Alessandro Dobici e le parole scritte da Claudio Baglioni per Rizzoli, tracce d’autore in prima persona. Un viaggio, uno specchio. Forse, più altrove che qui. 

Abbiamo contato ben tre foto in cui lei ha in mano una matita

«Era il regalo che da bambino più amavo, e chi mi conosce me lo fa ancora: la scatola con 12 o 24 pastelli colorati. La matita è uno strumento di sogni, un ponte. La tecnologia ha un po’ ridotto il mio rapporto con la scrittura manuale, però le cose importanti le scrivo e le disegno ancora così. E la scaletta dei concerti, appoggiata sulla tastiera, resta su un foglio di carta scritto a penna».

Come vive il rapporto con l’immagine?

«In modo strano, a volte litigioso. Le foto e i frame sono il nuovo feticcio. La gente viene agli spettacoli e ormai applaude a metà, perché in una mano stringe lo smartphone che vorrebbe fermare il presente. A me sembra anche una forma di insicurezza: se non la immortali, la vita non esiste. Ma questi scatti continui sono una grave perdita di emozione, si smarrisce il momento che invece è legna da ardere in quell’istante». 

In queste foto lei pare intrappolato da un’invincibile timidezza.

«Non ero stato costruito per essere un personaggio pubblico, servirebbe una pelle diversa e io non sono nato con quel vestito addosso. Non cominciai a cantare perché afflitto da febbre artistica, ma per farmi notare dalle ragazzette, per non essere trasparente, per non restare uno scarabocchio sul grande libro del mondo. Venivo dalla periferia romana, io e i miei occhialoni. Ero un quattordicenne impacciato, timido. Un giorno mi presentarono lo scrittore Giuseppe Berto, mi chiese cosa facessi nella vita, io balbettai che scrivevo canzoni e lui, serissimo, mi disse: “Lei non sa la fortuna, in poco tempo e con poche parole può arrivare al cuore e alla mente di tutti”. Quella frase mi fece coraggio».

(...) 

Nell’ultimo suo spettacolo, “aTuttocuore”, che ha appena chiuso la stagione nelle arene e riprenderà a gennaio al coperto, lei porta in scena centinaia di figuranti e musicisti. È anche questo, l’altrove?

«Si tratta di una ricerca che procede già da qualche anno: voglio andare oltre il repertorio, che è memoria di tanti. Perché siamo artefici, non solo artisti. Cerchiamo nuove forme di espressione collettiva, con un po’ di presunzione mi piace chiamarlo teatro totale, ci aveva già provato Richard Wagner nell’Ottocento. Concerto, alla lettera, vuol dire insieme, un’assemblea non banale. Si tratta di qualcosa di molto serio e quasi sacro, una specie di messa cantata. Un gioco e un mistero». 

Baglioni, lei si sente un classico?

«Quando me lo ripetono, ringrazio e porto a casa. Prendo molto volentieri questo complimento, perché lo interpreto nell’accezione di Italo Calvino, secondo cui un classico è qualcuno che non ha smesso di dire le cose che ha da dire. Sì, spero di essere anch’io un classico, senza troppa polvere e senza muffa. La canzone è arte popolare, non per pochi ma per tutti, una forma musicale da fanfara, scende per strada, riempie di sé ogni viottolo. Disegna la nostra topografia emotiva e sentimentale, tiene insieme le vite e il tempo».

Ecco, il tempo. Come si fa a metterlo d’accordo con il desiderio?

«Forse è il tema centrale della mia vita. Il grande avversario. Gli uomini si sono inventati gli strumenti per misurarlo, ma si tratta di convenzioni. Poi, penso che un artista ponga domande e non dia risposte, io mi sento più che altro un inventore di questioni. Forse il tempo è solo un concetto, forse è una molla, qualcosa che gira. Il tempo è ellittico e alla fine si torna quello che si è sempre stati. Come la pelle, quando si colora di nuovo nella bella stagione».

Il libro – Claudio Baglioni, Altrove e qui (Rizzoli. Fotografie Alessandro Dobici, pagg. 320, euro 35. In libreria dal 7 novembre)

Sergio Barducci per Dagospia il 15 Giugno 2023.

Un pomeriggio di 50 anni fa rubarono Claudio Baglioni.

“La pellicola era pronta per la messa in onda, custodita nella palazzina Persichetti di via Teulada, conteneva il primo lungometraggio della storia dedicato a un album musicale: Gira che ti rigira amore bello. – racconta il giornalista Michele Bovi, già caporedattore centrale del Tg2 e in seguito capostruttura dell’intrattenimento di Rai1 - Il disco a 33 giri, il quarto dell’artista, era appena uscito e faceva seguito al formidabile successo del 1972 di Questo piccolo grande amore. 

Il secondo canale della Rai aveva pianificato per giugno 1973 la visione del film realizzato da Pompeo De Angelis, regista, sceneggiatore e illustratore, dipendente della Rai straordinariamente attento ai gusti musicali dei giovani: era stato lui a creare nel 1971 Speciale 3 milioni (dal numero dei cittadini dai 18 ai 21 anni allora residenti in Italia), programma cult che si era rivelato anche il trampolino di lancio di Baglioni. Pompeo aveva anche disegnato la copertina di Questo piccolo grande amore“.

In cosa consisteva il film Gira che ti rigira amore bello

“Le immagini erano state filmate nella seconda metà dell’aprile del 1973 tra Orvieto, Castelluccio e Otricoli nell’Umbria, Numana nelle Marche e gli studi romani della Rca Italiana. Era la storia di un viaggio, quello di Claudio a bordo dell’adorata Camilla, un’auto Citroën 2 cavalli di colore giallo, caratterizzato da diversi incontri: tra stravaganti autostoppisti, sensuali ragazze di campagna e Paola Massari che tre mesi dopo sarebbe diventata la signora Baglioni.

Un viaggio che terminava con Claudio che cospargeva Camilla di benzina e le dava fuoco. Con il rischio che il cantautore finisse realmente arrosto: le immagini mostrano un’impetuosa fiammata che stava per lambirlo. Il tutto tra briciole di dialogo in full immersion nelle musiche dell’album, da Amore bello a W l’Inghilterra. Quella pellicola non andò in onda, scomparve dalla palazzina Persichetti della Rai e mai più fu ritrovata”.

Il Tg2 riuscì comunque a recuperarla. Dove l’avete rintracciata?

“Duecentocinquanta minuti di quel girato, ovvero gli scarti del montaggio con i ciak delle prime scene che il regista aveva fatto ripetere, erano conservati nel caveau degli stabilimenti della Rca Italiana al chilometro 12 di via Tiburtina. Nella seconda metà degli anni Novanta dipendenti disonesti dell’azienda discografica che avevano accesso al caveau fecero uscire molto materiale inedito – provini di Lucio Battisti, Renato Zero, Lucio Dalla, Riccardo Cocciante, Eros Ramazzotti, Gianni Morandi - che riversato su musicassette era destinato ai mercatini di Roma e di Napoli. Tra i materiali venduti di contrabbando c’era anche un vhs con i 250 minuti di scarto di Gira che ti rigira amore bello, stampati in bianco e nero. Copie di quei provini e di quel vhs arrivarono per posta al mio ufficio di Saxa Rubra. Mittente anonimo. Abbastanza per incuriosirmi e indagare”. 

Nel 1998 Michele Bovi era caposervizio al desk del Tg2, ma periodicamente realizzava speciali sui retroscena del mondo della musica (plagi, censure, incisioni inedite). Come riuscì ad accedere a quei materiali?

“Un accordo esclusivo con Franco Reali, amministratore delegato della Bmg, mi consentì di trasmettere in un Tg2 Dossier dedicato alla storia della Rca, intitolato Quando andavamo a 45 giri, frammenti di 30 secondi ciascuno di tutti gli inediti ritrovati nel caveau. 

Reali mi permise anche di ristampare a colori i materiali del film di Baglioni e un’altra pellicola che era misteriosamente scomparsa dalle teche della Rai: Scappo per cantare, un primo lungometraggio del 1971 diretto da Pompeo De Angelis con Gianni Morandi, Donatello, Mauro Lusini, il gruppo femminile Le voci blu e l’attore Tino Scotti. De Angelis era andato in pensione da qualche anno. Fu entusiasta di tornare in una saletta di montaggio per riconfezionare i suoi due film che mandammo in onda, uno dopo l’altro, in una prima serata di Rai2 intitolata Canzoni segrete”.

Pompeo De Angelis fu un precursore dei lungometraggi musicali. Aveva una predilezione per Claudio Baglioni?

“Posso affermare con certezza che fu Pompeo De Angelis a lanciarlo facendolo conoscere al pubblico televisivo. Prima con Speciale 3 milioni, poi con il programma Stelle di Natale del 1971 in cui Baglioni cantava tra Aldo Fabrizi e Mia Martini”. 

Esiste un altro progetto, stavolta rimasto inedito, che aveva come protagonista Claudio Baglioni. Da quel lavoro scaturì l’ennesimo successo del cantautore: E tu…

Ci può raccontare come andò?

“A Pompeo piaceva disegnare strisce d’avventura a fumetti, ispirandosi alle coloriture del marinaio Corto Maltese di Hugo Pratt e a quelle degli orfani monelli Cino e Franco dell’americano Lyman Young. Nei primi anni Settanta Pompeo aveva creato il suo fumetto, l’avventuriero schietto e ruvido Dudù Malot, capitano di un battello a vapore che navigava nelle acque tropicali tra Cuba e Giamaica. De Angelis mi raccontò che il personaggio aveva le sembianze e il temperamento di Don Backy, il suo cantautore preferito prima di conoscere Baglioni.

Dudù Malot non era nato per una striscia destinata alla stampa, bensì per illustrare soggetto e sceneggiatura di un’opera musicale: L’isola di Dudù Malot. Cominciarono a lavorarci, ma Ennio Melis, il direttore della casa discografica Rca Italiana che gestiva il progetto, cambiò idea: aveva sotto contratto una nuova generazione di cantautori e volle affidare il ruolo del protagonista a uno di loro, Claudio Baglioni. Melis poteva contare sull’appoggio della coppia Garinei e Giovannini, capiscuola della commedia musicale italiana” 

Il progetto musical non fu realizzato. Perché?

“Per una serie di circostanze, anche paradossali. Ad esempio quella dei sopralluoghi. Pompeo raccontò che era necessario girare in Brasile e sul Rio delle Amazzoni, ma che Paola, la moglie di Claudio era terrorizzata dalla presenza laggiù dei caimani. Fu lei a convincerlo a rinunciare al progetto. L’isola di Dudù Malot non venne mai alla luce. Delle partiture scritte da Claudio con Antonio Coggio rimase solo quella dei titoli di apertura: così, con il testo ristrutturato, Dudù diventò E tu…”.

Pompeo De Angelis ci ha lasciati nel marzo del 2019. Grazie alla figlia Chiara soggetto e sceneggiatura con i disegni de L’isola di Dudù Malot diventeranno entro la fine del 2023 un fumetto in vendita nelle librerie. Claudio Baglioni potrà rivedersi e ricordare. Senza più paura dei caimani.

Claudio Baglioni: "Faccio canzoni malinconiche perché sono nato difettoso. A 71 anni ho ancora attacchi di panico sul palco". Concetto Vecchio su La Repubblica il 5 aprile 2023.

Incontro con l'artista, oltre cinquanta anni di carriera. L'infanzia nella periferia romana, i concerti, i grandi successi, i dolori e l'amore. Il nuovo tour in autunno ma, prima, il film al cinema dei suoi concerti alle Terme di Caracalla

Claudio Baglioni, quanto guadagnò con il suo primo concerto? 

"Mille lire. Mi fecero suonare tre canzoni in una serata di avanspettacolo al cinema Espero a Montesacro. Dopo portai i miei genitori in pizzeria, volevo pagare io, ma i soldi non bastarono". 

Quanti anni aveva? 

"Quindici. Mi presentai con gli occhiali, vestito da cassamortaro. Nel retropalco mi passavano davanti soubrette dai seni prosperosi, non le guardavo per paura di metterle in imbarazzo. Ovviamente non mi degnarono di uno sguardo". 

Fu il suo primo successo? 

"Macché. Non ci furono né fischi né applausi". 

Ora esce al cinema il film dei suoi concerti alle Terme di Caracalla. 

"Sarà nelle sale dal 15 al 17 maggio. L'estate scorsa mi sono esibito dodici volte a Caracalla, un fondale magnifico. Sognavo di farlo da trent'anni. L'ho realizzato con il teatro dell'Opera di Roma, sotto la direzione artistica di Giuliano Peparini. Sul palco c'erano 123 tra musicisti, coristi e performer". 

Si può vedere anche su qualche piattaforma?  

"Non lo so ancora. Il film dura due ore ed esce nei cinema proprio nei giorni del mio 72esimo compleanno". 

Nell'ultimo anno ha fatto 156 concerti nei teatri. Si allena? 

"Per forza. Anche oggi sono andato a fare una sgambata a villa Borghese, una corsa mista a camminata di dieci chilometri". 

Nascono nella corsa anche le canzoni? 

"Anche quando nuoto, d'estate a Lampedusa. È come se in mare aperto si sciogliesse il groviglio". 

La vigilia dei concerti è sempre la stessa? 

"Col tempo la preoccupazione è aumentata. L'anno scorso, alla prima tappa al teatro dell'Opera di Roma, mi sono seduto alla tastiera e mi è partito un attacco di panico". 

E cosa si fa in questi casi? 

"Eh! Ho continuato a suonare, e piano piano mi è passato". 

Di cosa ha ancora paura? 

"Avverto ancora il bisogno di meritarmi il successo. È sempre una gara con me stesso che però non vinco mai".

Ma lei ha venduto sessanta milioni di dischi. 

"Sì, ma c'è dentro di me questa voce che mi dice che deve andare tutto bene".  

I suoi concerti sono eventi da tutto esaurito. 

"Però so che non ci saranno per sempre e quindi voglio che siano un'occasione speciale per chi è venuto ad ascoltarmi". 

In autunno ricomincia con il tour.  

"Esatto, torno sulle scene con il nuovo spettacolo aTuttoCuore: dal 21 al 30 settembre sei date al Foro Italico a Roma, dal 5 al 7 ottobre tre date all'Arena di Verona e dal 12 al 14 ottobre tre date al Velodromo Paolo Borsellino di Palermo, con la direzione artistica e la regia teatrale di Giuliano Peparini". 

Nove anni fa noi di Repubblica intervistammo un avvocato che ne aveva visti più di centocinquanta. 

"Io mi meraviglio ancora adesso quando me li ritrovo davanti dopo un concerto. Sono le due di notte e ti dicono che hanno macinato centocinquanta chilometri per essere lì: 'Ho aspettato trent'anni questo momento, Claudio'". 

Si ferma sempre? 

"Quando posso sì. Nel tempo avevo attivato tutto un repertorio di battute per sdrammatizzare quell'abbraccio col pubblico. Ma mi accorgo sempre di più che forse non è la chiave giusta". 

Perché?  

"Non si può desacralizzare troppo quel momento, non lo gradiscono. Non puoi scendere troppo dal gradino di divo". 

Riesce a dormire dopo i concerti? 

"Prima di addormentarmi guardo la tv in albergo, specie le tv private, che sono lo specchio dell'Italia". 

Ogni notte un albergo diverso. 

"All'indomani cerco di lasciare la camera in ordine, col letto non sfatto. Non ho mai gettato un asciugamano per terra". 

Come mai? 

"Per rispetto della signora delle pulizie. E perché anche qui vorrei lasciare una buona opinione di me". 

Baglioni, Premio Tenco alla carriera: "Ho aspettato tanto, per anni mi hanno tenuto lontano con i pregiudizi"

dal nostro inviato Carlo Moretti22 Ottobre 2022

Che ricordo ha dei suoi genitori? 

"Papà era brigadiere dei carabinieri, un militare che scriveva poesie, prima di morire mi raccontò che da bambino gli tiravo i pantaloni perché volevo esibirmi davanti ai parenti. Mi regalò la prima chitarra. Avevo quattordici anni". 

Mamma invece? 

"Era sarta. Pigiava sui pedali della macchina da cucire senza dire una parola per ore. E io me ne stavo lì, in quel silenzio, a inseguire il ritmo del pedale. Il gusto per il dettaglio, l'attenzione acuminata, li ho affinati in quel tempo morto". 

Che educazione ha avuto? 

"Severa, rigorosa. Mamma aveva un suo talento estetico, che mi ha trasmesso. Ancora adesso quando entro nelle case degli altri ho la tentazione di spostare il posacenere o di raddrizzare i quadri alle pareti".

Essere figlio unico l'è pesato? 

"Moltissimo. Mi manca il rapporto con un fratello o una sorella, non so cosa significhi". 

Cosa le manca esattamente? 

"È come se avvertissi una mutilazione. Un giorno mamma mi spiegò che i bambini si comprano al mercato. Cominciai a mettere da parte i soldi per avere un fratellino, e quando tornai da lei con un piccolo gruzzoletto mi spiegò che nel frattempo erano rincarati". 

Com'era casa sua? 

"Ci sono tornato anni fa e mi sono accorto di quanto fosse piccola. Un giorno i miei comprarono un divano di pelle che piazzarono nel tinello, ma rimase per sempre incellofanato, nel timore che si rovinasse. Credo che sia morto per soffocamento". 

Era l'Italia del boom. 

"Si compravano le cose a rate, e poi però era peccato godersele". 

Che periferia era la sua Centocelle? 

"Allora era un bel paesino attaccato a Roma, di casette basse, viali alberati. Torreggiavano gru in ogni angolo: si costruiva nella convinzione che il futuro sarebbe stato migliore del passato". 

Avvertiva un senso di inferiorità? 

"Ambivo a partecipare alle feste di quelli del centro. Ogni tanto c'invitavano e quindi partivo con i miei amici. Ero l'unico che studiava, gli altri lavoravano già: c'era un elettrauto che chiamavamo il Galleggiante, un meccanico detto lo Spinterogeno". 

E lei? 

"Io ero Agonia, per via di un certo tono esistenzialista".

E come andava? 

"L'incontro non riusciva. Noi ci presentavamo tutti acchittati e loro indossavano jeans stracciati, maglioni slavati". 

Erano mondi inconciliabili? 

"La sorella di mio padre faceva la donna di servizio nelle case di ricchi. E certe domeniche, mentre i padroni erano al mare, ci portava a vederle: ci entravamo con lo stesso animo con cui si entra in un museo". 

Essere un ragazzo di periferia è stata una molla decisiva? 

"Penso di sì. Ma lo sono rimasto, anche adesso che abito questa casa in un quartiere residenziale di Roma. Sento che in qualche modo in centro non ci sono mai arrivato". 

Ho chiesto ad Alexa una canzone di Baglioni ed è partita con Mille giorni di te e di me. È la sua più bella? 

"Probabilmente la meglio riuscita". 

Ci si innamora ancora di più quando ci si lascia? 

"Si deve mancare all'altro, cedendo il passo solo fisicamente. Lasciare all'altro il ricordo conta più della presenza". 

Cosa ha capito delle pene d'amore? 

"Alla fine ti fanno sentire migliore". 

Cioè? 

"Avere sentimento, struggersi, è una forma di nobiltà che ti rende meno egoista". 

E l'amore per lei quanto è stato importante? 

"Molto, ma temo di non averci capito tanto. Sono stato più insegnante che alunno". 

Le chiedono ancora di cantare Questo piccolo grande amore? 

"Mille giorni di te e di me l'ha un po' soppiantata". 

Ha venduto 18 milioni di copie. 

"C'è stato un tempo in cui non la sopportavo più, come deve essere successo a De Gregori con La donna cannone e a Fossati con La mia banda suona il rock, poi abbiamo fatto pace". 

Qual è il suo album migliore? 

"Oltre".

Non La vita è adesso? 

"Scrissi i testi al bar dello Zodiaco, a Monte Mario. Ogni mattina mi sedevo ai tavoli del bar attorniato da adolescenti che si baciavano e scrivevo". 

Arrivò quattro anni dopo Strada facendo. 

"Fu una lunga gestazione. Ricordo che alla fine della registrazione a Londra me ne tornai a Roma, e in macchina verso casa lo riascoltai in cassetta. Dissi a Franco Novaro, che mi accompagnava: 'Sarà un flop totale. Non c'è un ritornello, ci sono troppe parole. Abbiamo sbagliato tutto'". 

La vita è adesso è l'album italiano più venduto di sempre. 

"Quattro milioni e mezzo di copie vendute. Partii subito per il tour e tutti le cantavano già". 

Un professore universitario sostiene che è pieno di rimandi pasoliniani. 

"Qualcosa può esserci. Pasolini l'ho letto molto, lo reputo un grandissimo poeta". 

Quali sono stati gli altri scrittori importanti? 

"Soprattutto Pavese, anche se quando lo lessi la prima volta a tredici anni non lo capii. E poi Kerouac e Montale". 

Ma lei ha capito a cosa servono le canzoni? 

"La loro forza sta nel potere di evocazione, di un ricordo, di un profumo, e di portarci da qualche parte". 

Cosa ha capito invece degli italiani? 

"Siamo anarchici mammoni. Abbiamo sempre bisogno di qualcuno che si occupi di noi: il sindaco, il parroco, il presidente della Repubblica. Pulcini che cercano una chioccia". 

Perché non fa più O' scià, il festival di Lampedusa che doveva aprire i riflettori sul dramma dei migranti? 

"E' stato un grande successo, siamo riusciti a far dialogare istituzioni e ong. Io andai anche al Parlamento europeo, e poi a Malta, dove inizialmente ci accolsero con freddezza. I politici, dopo un iniziale interesse, si sono eclissati". 

Come ha vissuto le ultime tragedie come Cutro? 

"Con dolore. Sull'accoglienza non si possono avere dubbi, e quando sento dire che se la sono cercata mi vengono i brividi". 

La destra dice: ci deve pensare l'Europa. 

"D'accordo, ma anche noi siamo l'Europa: tocca anche a noi". 

Da uomo di sinistra la convince Schlein? 

"L'ho incontrata brevemente da Fazio. Mi sembra una persona interessante. Ma sono perplesso sul riporre ogni speranza a un leader, l'abbiamo fatto con altri, in passato, e poi abbiamo visto che non ha funzionato". 

Suo figlio Giovanni ha avuto la sua "triste speranza"? 

"Mi fa impressione pensare che abbia già 40 anni, siamo simili in tante cose". 

Cosa fa? 

"È un chitarrista, compone. È molto bravo, per fortuna ha scelto di non fare il cantante così sfugge ai paragoni col padre". 

È faticoso avere una moglie come manager? 

 "Ma no. A noi è successo quello che è accaduto a tanti: si sta molto insieme, si dialoga come con nessun altro, e alla fine ci si innamora".  

È mai stato tentato dalle droghe? 

"No, mi autodopo già di mio". 

Ha ammesso che la depressione è stata "una fedele compagna di vita".

"Ogni tanto torna. Adesso però è un buon momento". 

Però le sue canzoni sono malinconiche. 

"Eh! Sono nato difettoso". 

Dopo tanti anni come mantiene il fuoco sempre acceso? 

"Non tutte le stagioni sono state uguali. Ho avuto anni molto contemplativi, specie nei Novanta. Me ne sono stato molto solo, andavo al mare d'inverno e scrivevo. Ora sono più smanioso di fare".

Il dolore è un motore in un artista? 

"È una componente essenziale, devi avere delle lacune, delle mancanze da riempire". 

Ma lei mi ha detto che poi la gara con se stesso non si vince mai. 

"Sì, ma la prossima canzone ti dà l'illusione di riaprire la partita". 

Pensa a quando arriverà la vecchiaia? 

"Quella è già qui".

La spaventa? 

"Sì, ma l'alternativa è peggio".

Claudio Cecchetto: «Max Pezzali? Indimenticabile, come persona un po’ meno». Enea Conti su Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023

Claudio Cecchetto sceglie il giorno del compleanno numero 71 per lanciare la nuova radio, fra ricordi e progetti: «Max Pezzali? Non penso più a lui» 

«Il futuro? Ho un sogno, che tutti, ma proprio tutti, aprano la loro radio personale sul web con l’indirizzo da scrivere sul biglietto da visita assieme all’indirizzo mail». Claudio Cecchetto compie il 19 aprile 71 anni e ha scelto di festeggiare nel suo ufficio di Milano dove dirige la sua nuova web radio lanciata proprio nel giorno del compleanno. «Torno da dove sono partito ma con un format nuovo. Il web è la strada maestra. Sono nato dj e morirò dj». Il passato è impossibile da dimenticare. «Quando fondai Radio Deejay le radio erano un propulsore di arte e creatività ora rispondono a logiche commerciali». Intanto nel cielo della musica popolare brillano ancora le stelle lanciate dal talent scout: da Jovanotti a Max Pezzali e gli 883. A proposito. «Max? Autore indimenticabile ma non come persona». Ma una certezza rimane «La musica mi piace tutta ma deve far festa». 

Claudio Cecchetto, compie 71 anni e lancia la sua radio. Non è la prima volta che lo fa. Che piani ha con radiocecchetto.it? 

«Bella scommessa, mi viene quasi da ridere: in questo modo ogni anno festeggerò il mio compleanno e il compleanno della radio. L’anno prossimo saranno 72 per me e appena uno per la radio. A parte gli scherzi, sono tornato da dove ero partito. Mi portò fortuna fondare Radio Deejay negli anni ottanta, vedremo come va questa nuova avventura. L’1% dei disc jockey del passato continuano a fare questo lavoro anche adesso, il 99% ha dovuto smettere. In tanti hanno voluto condividere con me i loro ricordi. Mi sono inventato il format delle audio mail per dar loro spazio e li stiamo trasmettendo. Nel pomeriggio partiamo con un format che già qualcuno ha ribattezzato la ‘cecchettata’. Mi fa sorridere, io credo solo sia il pezzo forte.

In cosa consiste la "cecchettata"?

«Ho invitato alcuni amici e ho chiesto loro di fare una prova microfono. Li trasmetteremo e gli ascoltatori dovranno inventare chi sono: ci saranno Jovanotti, Fiorello, Elena Sofia Ricci, Edoardo Leo, Max Biagi e tanti altri. Poi pian piano svelerò chi sono. Intanto sono contento di aver fondato una radio che spero possa essere trasmessa in forma “mobile” a portata di smartphone come le dirette su Instagram. Ma, lo sottolineo, non manca una sede fisica. Siamo qui in un ufficio a Milano, c’è una regia, ci sono i tecnici. La serietà non manca. Ma l’obiettivo dichiarato è sfruttare tutte le tecnologie che l’uomo ha invitato per rinvigorire la radio per farla tornare un grande media. E la strada maestra da percorrere è il web».

È il suo compleanno, abbiamo parlato di presente e futuro alla prima domanda, di solito succede nelle battute finali. Torniamo al passato, ai ricordi. Chi fu l’artista che lanciò per primo? 

«Fu Sandy Marton. Ma diciamolo il primo artista che ho lanciato è stato Claudio Cecchetto. Scherzo ma non troppo. Allora premessa, lo dico chiaramente: sono nato disc jockey e morirò disc jockey, su questo non ci piove. Era il 1981 quando uscii con il Gioca Jouer. In quel periodo i dj facevano i dischi. Io ero stonato e sono tutt’ora stonato. All’epoca ne ero già consapevole ma mi sono detto: ‘tutti i dj fanno i dischi io faccio il dj e devo essere da meno?”. Quindi ho fatto il Gioca Jouer che è un parlato. Perché abbia funzionato così tanto? Facile non era una canzone ma un gioco. Allora la ascoltò Gianni Ravera (storico patron del festival), a cui piacque molto. Mi disse all’improvviso: ‘Facciamola diventare la sigla del festival di Sanremo’. È importante perché all’epoca il festival non aveva sigle: tre serate seguite da milioni di spettatori, prima dello spettacolo venivano trasmesse immagini di fiori, barche a vela qualche volta con un sottofondo di musica classica. Insomma al termine di quella edizione, nel 1981, il discografico Freddie Naggiar della Baby Record mi disse: ‘Claudio, quest’anno il festival lo hai vinto tu, per tre sere di fila e senza essere in gara'».

Si ricorda di cantanti o band difficili ed ostici da assecondare come produttore? 

«Fare il mio lavoro per fortuna è sempre stata una gioia. Non ci sono artisti difficili o ostici. O meglio ci sono stati contatti con artisti che avevano questi attributi: guarda caso non hanno funzionato, non sono diventati famosi e quindi non lo sa nessuno».

Da Sandy Marton agli 883 c’è stato un interregno di un decennio. Cosa furono per lei gli anni ottanta? Cosa furono gli anni '90? 

«Gli anni ottanta furono un decennio fondamentale, importante, imprescindibile per la musica. Lo dobbiamo all’Inghilterra che già da tempo dettava – musicalmente – legge. Uscivamo dagli anni settanta dove in Italia avevano dominato i cantautori, poi qualcosa cambiò con questa british invasion fatta di funk, elettronica e new wave. Gli anni novanta furono decisamente più dance. Io mi divertii molto producendo Jovanotti e gli 883. Devo ringraziare gli anni ottanta perché quel dinamismo di cui parlavo mi permisero di lanciare e creare la “mia” Radio Deejay. Gli anni novanta furono gli anni d’oro della produzione musicale. Va però detto che gli anni ottanta furono talmente creativi e dirompenti a livello musicale che nei decenni successivi dobbiamo ammettere che è stato veramente difficile essere pionieri, se parliamo di originalità».

Ma quali sono, a proposito, i gusti musicali di Claudio Cecchetto? 

«Se sono nato disc jockey e morirò disc jockey è facile intuire che a me piace la musica che fa festa, la musica per fare festa. L’ho dimostrato con le mie produzioni. Si capisce che amo la musica in generale. Se un pezzo non mi piace sono comunque contento perché ho espresso un giudizio e se esprimo un giudizio significa che ho ascoltato e quando ascolto non sono mai infastidito. Detto questo mi piace la musica per fare festa, quella per stare insieme. Fanno eccezione certi capolavori un po’ lenti».

Ci faccia un esempio...

«Drive dei The Cars».

Parliamo del mito degli 883. Talvolta nelle canzoni è indicato come autore. Scriveva anche i pezzi?

«Assolutamente no. A firmare i pezzi dei primi album erano soprattutto Max Pezzali e Mauro Repetto. Mi consegnavano i pezzi, poi la produzione e l’arrangiamento passavano a me, Pier Paolo Peroni e Marco Guarniero. Questi ultimi due in particolare erano i Quincy Jones degli 883.

 Quale fu il singolo più entusiasmante degli 883? 

«Hanno Ucciso l’Uomo ragno cambiò la visione della musica popolare. Sei un mito fu letteralmente una bomba atomica calata sulla musica popolare. Come mitico è il fraseggio musicale iniziale inventato da Pier Paolo Peroni. E le parole. Gli 883 mi piacevano perché parlavano di amore in maniera nuova all’epoca. Il sottofondo non era l’inflazionato ‘per conquistare lei’. Le canzoni degli 883 parlavano di vita e spiattellavano debolezze. Errato chiamarle ‘sfighe’, sono debolezze». 

Ha fatto pace con Max Pezzali? 

«In questo momento non penso più a Max Pezzali. Un autore indimenticabile, come persona diciamo che lo è un po’ meno». 

Torniamo al futuro, come da copione per chiudere. Come lo vede? 

«In radio e sul web, lo dicevo prima. La prima mission della radio era artistica adesso invece è esclusivamente commerciale. Voglio tornare ad una mission artistica in radio, sul web dove chiunque potrà divertirsi. Sogno un mondo in cui nel proprio biglietto da visita una persona possa scrivere il suo indirizzo mail e il suo indirizzo radio. E poi sto lavorando per Visit Romagna, per la Notte Rosa, ho davvero tante idee in testa”.

Claudio Cecchetto: «Così resi coinquilini Sandy Marton e Fiorello nella casa di Radio Deejay. A Jovanotti lanciai un ultimatum». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2023

Claudio Cecchetto e gli anni 80: «Gerry Scotti sognava gli Usa, lo fermai in aeroporto»

Era la casa dei fuorisede di Radio DeeJay, la comune di chi sognava di vivere on air, la factory — fatte le debite proporzioni — di Claudio Cecchetto. Via Alberto da Giussano, a est del Parco Sempione, a Milano. Lì Fiorello, Sandy Marton, Marco Baldini e Franchino Tuzio («un grande manager che purtroppo non c’è più») hanno mosso i primi passi nella Milano degli anni Ottanta. Non erano i soli, perché il Pippo Baudo della radio ne ha scoperti tanti altri: Linus, Nicola Savino, Paola & Chiara, Sabrina Salerno, Fabio Volo...

Come mai mise quei quattro nella stessa casa?

«Io sono da sempre convinto che la provincia abbia più da dire rispetto alla città — spiega Cecchetto —; per chi vive in provincia la città è un traguardo; per chi già vive in una metropoli quella è solo la realtà. In linea di massima non hai stimoli per progredire, non hai traguardi. Chi arriva da fuori invece vuole spaccare tutto».

Cosa raccontano quei muri?

«Quell’abitazione serviva solo per dormire e magari per incontrare qualche ragazza. Era basica, tre stanze e una cucina di quelle che vendevano in tv, da poco. Era un ottimo punto di partenza per chi arrivava da fuori, così per loro l’unica preoccupazione era concepire un buon prodotto radiofonico, non cercare un alloggio. La radio era il vero luogo di scambio delle idee. Ho sempre dato molta importanza a creare l’ambiente adatto, confortevole. Io mettevo il miglior condizionatore, i migliori arredi: se stavano bene, ci sarebbero rimasti oltre l’orario di lavoro».

Fiorello smistava il citofono per le ragazze che cercavano Sandy Marton.

«Sandy era un vagabondo, un cittadino del mondo, la sua ultima meta era stata Ibiza. Io ne avevo sentito parlare tanto ma manco sapevo dov’era e ho pensato che molti italiani la immaginassero come un Eden, un paradiso. L’idea era fargli cantare una canzone su Ibiza così tanti, soprattutto le ragazze, avrebbero immaginato che nell’isola fossero tutti come lui. Non era vero, ma ha funzionato».

Il Fiorello privato?

«Come quello pubblico. Non è un comico che interpreta un personaggio, la sua natura è da intrattenitore. Vuole che chi ha davanti si diverta e stia bene con lui, ci sia una persona o cento. È un animatore continuo, non c’è differenza tra quando è sul palco o giù dal palco. La mia previsione era che da animatore di villaggi sarebbe diventato animatore del villaggio Italia».

Anche Marco Baldini ha iniziato da lì.

«Mi colpì subito. Gli avevo chiesto di mandarmi una cassetta per capire che tipo era, ne arrivarono 25. In lui intravidi subito la spalla per Fiorello, perché gli altri deejay non avevano capito che non dovevano fare a gara con lui, perché Fiorello vinceva sempre. Baldini era perfetto, faceva l’assist ma tutti i gol doveva farli Fiore».

Un inquilino mancato di quell’appartamento è Amadeus.

«Fu la sua forza. Mi disse che abitava a Milano da un amico che lo ospitava, ma non era vero. Dopo un mese che lo vedevo con le occhiaie pensavo fosse per serate ricche di stravizi, invece ogni giorno prendeva il treno alle 5 di mattina da Verona. Non mi disse niente per non creare problemi. Proprio questa disponibilità e voglia mi sono piaciute. Poi andò nella casa che aveva lasciato Tracy Spencer».

Gerry Scotti invece la casa ce l’aveva.

«Ma voleva andarsene da Milano. L’ho bloccato sulla scaletta di un aereo mentre stava partendo per l’America. All’epoca se dicevi che facevi il disc jockey poi ti chiedevano: sì, ma di lavoro cosa fai? Lui lavorava anche come copy per la McCann, l’agenzia di pubblicità e quello gli sembrava un lavoro più solido. Gli parlai e lo convinsi a rimanere, gli dissi che era nato per questo lavoro. Io volevo una radio fatta di persone che riconoscevi dalla voce, per me il suo timbro diverso era un plus».

L’anima di Jovanotti?

«Penso di averla capita molto prima degli altri. Tutti vedevano come era, io vedevo come sarebbe stato. Ricordo il primo incontro: partecipava a una gara musicale e si trovò contro un gruppo (i Tutu) che avevo proposto io; Lorenzo perse lo scontro diretto, ma dissi subito a un mio collaboratore: saluta i Tutu, voglio l’altro. Gli feci una telefonata da boss, un aut aut: se vieni bene, se no ne trovo un altro. Avevo paura di aver esagerato».

Uno che le è sfuggito, un inquilino mancato?

«Me lo chiedono spesso. No. Assolutamente. Ho un sesto senso che non mi ha mai tradito».

Fabio Fazio, l'ira furibonda di Claudio Lippi: "Perché è un farabutto". Libero Quotidiano il 09 giugno 2023

Claudio Lippi scatenato. Nel mirino finiscono Fabio Fazio e la Rai. A Dire, l'ex conduttore di Buona Domenica, si lascia andare a un commento piuttosto forte su Fazio e Littizzetto: "Fazio e Littizzetto? Se ne sono andati loro. Fazio ha raccontato bugie, dicendo che la pubblicità faceva incassare il triplo di quanto costava il programma. Ma se costava 450 mila euro a puntata, incassava 1 milione e 200 mila di pubblicità? Ma dai… E’ stato un farabutto Fazio: lui e la sua sorellina avevano già pronto un contratto milionario con Discovery. Ma sa che c’è? Basta pigiare il nove sul telecomando per vederli ancora, qual è il problema?".

Poi lo stesso Lippi spara su Stefano Coletta, ex direttore dell'intrattenimento prime time: "Coletta, il direttore che per fortuna non c’è più, ha fatto lavorare gay e gaie solo per il motivo di esserlo. Tanti e tante che non avevano alcuna competenza, la Rai usata per fare coming out. Ma le pare? Allora anche noi etero dovremmo fare coming out, no? Vabbè, basta, dirà che sto delirando".

"Se lui è l'egemonia...". Cacciari da godere: umilia Fabio Fazio, gelo su Rai 3

Infine parla di politica e di linguaggi dei media: "Serve un linguaggio popolare. Giorgia (Meloni, ndDM), non mi fraintenda, è una ‘popolana di Garbatella’. Ci ha vinto le elezioni parlando agli italiani e alle italiane. Serve quel linguaggio (…) Circa cinque anni fa sia Salvini che Giorgia mi chiesero una mano: volevano avere un parere, uno sguardo esterno sulla Rai, da chi la tv la conosce (…) La Rai deve entrare nelle case degli italiani dicendo ‘buonasera’. Con leggerezza e intelligenza, non con la propaganda ma nemmeno con le isole, i vip, Uomini e Donne".

La Rai contro Claudio Lippi: "Gay e 'Kultura'? Frasi estive. Con lui nessuna collaborazione in vista". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 9 Giugno 2023. 

La reazione di viale Mazzini dopo le frasi pronunciate ieri dal conduttore alla buvette di Montecitorio

"Alcune affermazioni di Claudio Lippi riportate dagli organi di informazione sono lesive della reputazione della Rai e dei propri dirigenti. Pertanto è da escludere qualsiasi tipo di collaborazione con il conduttore". Lo rende noto Viale Mazzini. "Basta con la propaganda dei Fazio e delle Annunziata. Basta con la "kultura" con la k", dice il conduttore. "Serve il linguaggio popolare di Giorgia", aggiunge, auspicando anche "meno gay e gaie" in tv che in questi anni hanno lavorato "solo per il fatto di esserlo".

Ieri a Montecitorio, il conduttore dice che cinque anni fa Matteo Salvini e Giorgia Meloni gli hanno chiesto una mano: "Volevano avere un parere, uno sguardo esterno sulla Rai, da chi la tv la conosce".

E ha risposto "che ci vuole il sorriso. La Rai deve entrare nelle case degli italiani dicendo 'buonasera'. Con leggerezza e intelligenza, non con la propaganda". Fa i nomi di Fazio e Littizzetto, "se ne sono andati loro. Fazio ha raccontato bugie, dicendo che la pubblicità faceva incassare il triplo di quanto costava il programma. Ma se costava 450mila euro a puntata, incassava 1 milione e 200mila di pubblicità?". Secondo Lippi "Fazio è stato un farabutto: lui e la sua sorellina avevano già pronto un contratto milionario con Discovery. Ma sa che c'è? Basta pigiare il nove sul telecomando per vederli ancora, qual è il problema?".

Lippi ne ha anche per Lucia Annunziata: "Propaganda, 'kultura' con la k. Ora basta. L'ha vista l'intervista alla ministra Roccella? Cattiva, aggressiva. Non è Rai quella". In Rai, sostiene, "serve un linguaggio popolare. Giorgia (Meloni, ndr) è una 'popolana di Garbatella'. Ha vinto le elezioni parlando agli italiani e alle italiane. Serve quel linguaggio lì". E parla dei progetti per il futuro: "Un programma, in prima serata su Rai1, lo vorrei chiamare 'Condominio Italia'. Parliamo di cause condominiali: quanto tempo, denaro e bile costano. Forse è meglio risolverle con un aperitivo fra condomini, no?".

L'altro è "Ieri, oggi, un vecchio format che parla di televisione, con spezzoni d'archivio". Nel mirino anche l'ex responsabile dell'Intrattenimento di prime time: "Stefano Coletta, il direttore che per fortuna non c'è più, ha fatto lavorare gay e gaie solo per il motivo di esserlo. Tanti e tante che non avevano alcuna competenza, la Rai usata per fare coming out. Ma le pare? Allora anche noi etero dovremmo fare coming out, no?"

(ANSA il 9 giugno 2023) "Ho subito un attacco alla mia privacy in modo maldestro e una grave lesione della mia immagine: sto valutando con il mio ufficio stampa e con i miei legali come contrattaccare": lo dice all'ANSA Claudio Lippi, dopo la decisione di Viale Mazzini di escludere qualsiasi tipo di collaborazione con lui in seguito ad alcune dichiarazioni riportate da organi di informazione e ritenute dall'azienda "lesive della reputazione della Rai e dei propri dirigenti". 

"Non mi riconosco nelle affermazioni che mi sono state attribuite: non userei la parola farabutto neanche per il mio nemico più acerrimo e difendo con una lotta continua la libertà di scelta sessuale", sottolinea Lippi, 78 anni. "Sono una persona perbene. E sono anche un cittadino libero e decisamente schierato con il nuovo governo, formato da persone che conosco personalmente, a partire da Berlusconi, e dal rapporto personale con Salvini e Meloni.

Conosco la capacità, la passione, l'onestà di questa coalizione nel proporre programmi che si possano mettere in pratica, cosa che, da cittadino, non ho rilevato negli ultimi anni con i precedenti governi, né nell'attuale opposizione in cui non c'è coesione. Ma non credo che si possa essere condannabili per queste idee". "Ho 59 anni di lavoro alle spalle, un pubblico che crede in me e nella mia onestà intellettuale e la difenderò fino alla morte", conclude Lippi.

Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti per “la Stampa” il 9 giugno 2023.  

«Basta con la propaganda dei Fazio e delle Annunziata. Basta con la "kultura" con la k». E già che ci siamo, «meno gay e gaie» in tv che in questi anni hanno lavorato «solo per il fatto di esserlo». Ecco lo spot della nuova Rai sovranista. Ha il volto e la voce di Claudio Lippi, il presentatore a cui il vento di centrodestra potrebbe restituire un programma sulla tv pubblica. «Veramente sto lavorando a due programmi», dice lui, bando alla modestia. Lippi, 78 anni appena compiuti, ieri era Montecitorio, sorseggiava un caffè alla buvette in compagnia di alcuni deputati di Fratelli d'Italia. Poche ore prima, di buon mattino, lo aveva preceduto Massimo Boldi.

[…] «Cinque anni fa sia Salvini che Giorgia Meloni mi chiesero una mano: volevano avere un parere, uno sguardo esterno sulla Rai, da chi la tv la conosce». 

E lei cosa ha detto?

«Che ci vuole il sorriso. La Rai deve entrare nelle case degli italiani dicendo 'buonasera'. Con leggerezza e intelligenza, non con la propaganda». 

Ovvero?

«Penso a Fazio e Littizzetto, non ho problemi a far nomi. Se ne sono andati loro. Fazio ha raccontato bugie, dicendo che la pubblicità faceva incassare il triplo di quanto costava il programma. Ma se costava 450 mila euro a puntata, incassava 1 milione e 200 mila di pubblicità? Ma dai ...». Per Lippi «Fazio è stato un farabutto: lui e la sua sorellina avevano già pronto un contratto milionario con Discovery. Ma sa che c'è? Basta pigiare il nove sul telecomando per vederli ancora, qual è il problema?».

[…] «Giorgia la conosco. È così generosa: ha rinunciato prima alla sua gioventù e ora alla famiglia per fare quello in cui crede. Anche il compagno è una brava persona». La Rai, spiega Lippi, deve avere un po' il volto di «Giorgia», figlia della borgata. «Serve un linguaggio popolare. Giorgia è una "popolana di Garbatella". Ha vinto le elezioni parlando agli italiani e alle italiane. Serve quel linguaggio lì». […] «Quali opposizioni? Litigano tutte. Il Pd prende ancora il 20%, incredibile. Ma chi li vota? Boh. Calenda si mette nelle mani di Renzi. Sembrano il gatto e la volpe. Poi, sinceramente, Calenda può fare politica? Al massimo può fare l'opinionista al bar».

[…] Due mesi fa, ospite di Rai1, domandò a un ragazzo di colore: «Ma è italiano? Allora non è un primate». Ma torniamo ai programmi. Due, dicevamo. «L'altro è "Ieri, oggi", un vecchio format che parla di televisione, con spezzoni d'archivio». Lippi giura che «è il momento di portare il talento in Rai». Obiezione. «Certo, finora non è andata così. Casalino, per esempio, si crede un grande ufficio stampa?». Ma che c'entra Casalino adesso? «Stefano Coletta, il direttore che per fortuna non c'è più, ha fatto lavorare gay e gaie solo per il motivo di esserlo. Tanti e tante che non avevano alcuna competenza, la Rai usata per fare coming out. Ma le pare? Allora anche noi etero dovremmo fare coming out, no? Vabbè, basta adesso, o dirà che sto delirando ...». […]

(ANSA il 9 giugno 2023. ) "Alcune affermazioni di Claudio Lippi riportate dagli organi di informazione sono lesive della reputazione della Rai e dei propri dirigenti. Pertanto è da escludere qualsiasi tipo di collaborazione con il conduttore". Lo rende noto Viale Mazzini, in seguito a affermazioni di Lippi riportate da La Stampa. "Basta con la propaganda dei Fazio e delle Annunziata. Basta con la "kultura" con la k", dice il conduttore. "Serve il linguaggio popolare di Giorgia", aggiunge, auspicando anche "meno gay e gaie" in tv che in questi anni hanno lavorato "solo per il fatto di esserlo".

Ieri a Montecitorio, il conduttore - si legge su La Stampa - dice che cinque anni fa Matteo Salvini e Giorgia Meloni gli hanno chiesto una mano: "Volevano avere un parere, uno sguardo esterno sulla Rai, da chi la tv la conosce". E ha risposto "che ci vuole il sorriso. La Rai deve entrare nelle case degli italiani dicendo 'buonasera'. Con leggerezza e intelligenza, non con la propaganda". 

Fa i nomi di Fazio e Littizzetto, "se ne sono andati loro. Fazio ha raccontato bugie, dicendo che la pubblicità faceva incassare il triplo di quanto costava il programma. Ma se costava 450mila euro a puntata, incassava 1 milione e 200mila di pubblicità?". Secondo Lippi "Fazio è stato un farabutto: lui e la sua sorellina avevano già pronto un contratto milionario con Discovery. Ma sa che c'è? Basta pigiare il nove sul telecomando per vederli ancora, qual è il problema?".

Lippi ne ha anche per Lucia Annunziata: "Propaganda, 'kultura' con la k. Ora basta. L'ha vista l'intervista alla ministra Roccella? Cattiva, aggressiva. Non è Rai quella". In Rai, sostiene, "serve un linguaggio popolare. Giorgia (Meloni, ndr) è una 'popolana di Garbatella'. Ha vinto le elezioni parlando agli italiani e alle italiane. Serve quel linguaggio lì". E parla dei progetti per il futuro: "Un programma, in prima serata su Rai1, lo vorrei chiamare 'Condominio Italia'. Parliamo di cause condominiali: quanto tempo, denaro e bile costano. Forse è meglio risolverle con un aperitivo fra condomini, no?".

L'altro è "Ieri, oggi, un vecchio format che parla di televisione, con spezzoni d'archivio". Nel mirino anche l'ex responsabile dell'Intrattenimento di prime time: "Stefano Coletta, il direttore che per fortuna non c'è più, ha fatto lavorare gay e gaie solo per il motivo di esserlo. Tanti e tante che non avevano alcuna competenza, la Rai usata per fare coming out. Ma le pare? Allora anche noi etero dovremmo fare coming out, no?".

Marco Zonetti per Dagospia il 10 giugno 2023

Le altisonanti dichiarazioni di Claudio Lippi su "gay e gaie" che, a suo dire, avrebbero spopolato nella Rai targata Stefano Coletta sono costate al conduttore possibili prossimi ingaggi nella tv pubblica. La Rai ha infatti preso le distanze dalle argomentazioni di Lippi definendole lesive dell'azienda ed escludendo così future collaborazioni - malgrado il conduttore avesse sottolineato di essere al lavoro su ben due programmi, uno finanche in prima serata su Rai1.

Analizzandone gli strali contro le "gaiezze", a nessuno è tornato in mente che, nell'ottobre 2001 lo stesso Lippi condusse su Italia1 un programma dal titolo Tacchi a spillo assieme a Michelle Hunziker. Difficile del resto rammentarsene, visto che andò malissimo e fu sospeso dopo sole due puntate (a fronte delle sei previste), ma il format risulta oggi alquanto interessante alla luce delle invettive di cui sopra.

Tacchi a spillo era infatti una gara tra drag queen in prove di canto, ballo e recitazione, prefiggendosi come obiettivo finale quello di proclamare uno degli otto uomini en femme con il titolo di Lady tacco a spillo. Addirittura in giuria c'era la drag queen per eccellenza Ru Paul. Il programma venne salutato dai giornali con titoloni quali "i travestiti sbarcano in Tv", "il carnevale degli uomini travestiti" e altre amenità, quindi non esattamente celebrato come la fiera dell'italica virilità, insomma.

A parte le rassomiglianze con un attuale programma voluto proprio dal vituperato Stefano Coletta e per ora congelato in frigorifero, ovvero Non sono una signora condotto da Alba Parietti, forse Lippi si è dimenticato che il suo Tacchi a spillo finì nel mirino, oltre che del Codacons, anche di Michele Bonatesta, allora membro della Commissione di Vigilanza Rai ma soprattutto vicepresidente della Consulta per l'informazione di Alleanza Nazionale, forza politica dalle cui ceneri è nato proprio Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, elogiatissima da Lippi.

Sono trascorsi oltre vent'anni, e la memoria del conduttore potrebbe fare fisiologicamente cilecca, ma è peculiare che il novello censore dei costumi fosse stato a sua volta censurato per aver portato per primo in Tv quello che, anni dopo, ha finito per stigmatizzare. Come si cambia per ricominciare, cantava Fiorella Mannoia. Lippi, purtroppo per lui, non ricomincerà affatto.

Per chiudere con una nota di colore, nella sua Storia critica della televisione italiana, Aldo Grasso insinua che Ru Paul abbia preso l'idea di RuPaul's Drag Race proprio dalla sua esperienza di giurato a Tacchi a spillo. Ah, che meraviglioso scherzo del destino sarebbe se lo stesso Lippi, che oggi tuona contro "gay e gaie", fosse l'ispiratore del programma più gaio del mondo...

Claudio Lippi: "Qualcuno mi spieghi perché non ho più lavorato. Berlusconi ci firmava assegni in bianco. Fui tradito da un amico e persi tutto". Silvia Fumarola su La Repubblica il 18 marzo 2023

A 77 anni il conduttore si racconta senza filtri. Dagli inizi all'amicizia con Berlusconi, dal successo alle delusioni professionali: "Cominciai come cantante, per aiutare la mia famiglia dopo che il socio di mio padre scappò con tutti i capitali. Corrado e Raimondo Vianello sono stati i miei maestri di vita. Oggi la tv è cambiata. La politica? Sconvolgente che non ci sia stato un premier donna fino a oggi"

Cantante, conduttore, volto popolarissimo di programmi come Giochi senza frontiere, Buona domenica, Mai dire gol, Il pranzo è servito, La corrida. Racconta che i suoi maestri sono stati Corrado e Raimondo Vianello "perché faccio parte della generazione che entrava nelle case chiedendo permesso, come mi hanno insegnato i grandi con cui ho lavorato. Oggi la tv è cambiata, ma il rapporto con la gente, anche se è da un po' che non faccio niente, è rimasto. Mi fa piacere quando mi fermano e chiedono: 'Quando torna?'". E lei che risponde? "Vorrei saperlo anch'io". Claudio Lippi, 77 anni, conserva l'ironia british che lo ha caratterizzato nella lunga carriera. Ospite di Valerio Lundini che gli chiedeva la migliore fra le tre vaccinazioni, ha risposto: "Sono come i figli, non puoi scegliere". Racconta la sua vita in altalena. Parole d'ordine: "educazione" e "rispetto", i valori che gli ha insegnato il padre. Nonno felice di una nipotina, spiega che "la tv è molto cambiata". 

Ha iniziato come cantante. 

"Vivevo solo per quello, fu un momento felicissimo, allora c'era la possibilità di fare le cover: per ognuno c'è qualcuno di Dean Martin, o i successi di Frank Sinatra. Smisi negli anni 70 quando cambiò tutto, si chiuse un'era e arrivarono i cantautori. Avevo capito che il mio lavoro si sarebbe trasformato e non volevo diventare la vittima di me stesso. Di ingiustizie ne ho vissute tante". 

La prima? 

"La subì mio padre. La ma nascita artistica fu in virtù di una fregatura solenne, papà mise tutti i risparmi di una vita in un progetto e dalla sera alla mattina scoprì che il nuovo socio era scappato con i capitali. Sembra paradossale, è stata una fortuna. Per il tipo di educazione ricevuta sarei dovuto diventare dottore commercialista, era fondamentale il pezzo di carta. Invece avevo fatto un provino e fu utile: l'anticipo serviva a vivere. Da tanto al nulla, ero io a portare i soldi a casa. Andavo a cantare in un locale di Alassio". 

Che faceva suo padre? 

"Papà era esperto di revisioni delle aziende. Persona serissima, che ci ha insegnato a comportarci in un certo modo. Non potrei essere diverso da come sono, ma a volte mi sento un dinosauro". 

L'ironia è un marchio di fabbrica: imprinting familiare? 

"Mamma era splendida. Un po' ansiosa, la classica mamma chioccia. Babbo non era ironico, forse un po' cinico, era di Viareggio. Ma a suo modo era spiritoso". 

Nel 1978 la convoca Silvio Berlusconi. Come fu l'incontro? 

"Era amico di mio fratello, due scapoloni che condividevano un pied-à-terre. 'Senti un po' perché non dici a Claudio di venire da me?'. Vado. Non aveva creato Milano 2, non aveva ancora fatto grandi cose. Aveva una villa in Via Rovani, bellissima, la sua sede. Nel salone per le riunioni c'era l'eco, era grande come la metà di piazza del Duomo. Ti dava l'immagine di uno che aveva ben chiaro quello che voleva fare. Noi non eravamo preparati, lui sì. Facevamo quello che mamma Rai confezionava: la tv dei bambini, dei ragazzi". 

Invece Berlusconi le affida un talk show, 'Lo sprolippio' su Telemilano 58. 

"Un late show, veniva la gente che lavorava la notte: gli attori, passavano gli operatori ecologici. Arrivavano coi camion, li parcheggiavano e raccontavano. Chi lavora di notte non esiste per la società. Sono passate anche delle prostitute, ho pianto in un paio di casi. C'era chi aveva un figlio e tanti problemi, erano anche situazioni drammatiche". 

Cosa aveva capito dopo quell'incontro? 

"Che Berlusconi era un visionario, un imprenditore che pensava in grande. Anche dal punto di vista delle proposte economiche, sono orfano di Berlusconi. Ricordo che feci una battuta a mio fratello: 'Ma che amici hai?'. La stessa cosa capitò quando chiamò Mike Bongiorno, aveva fatto 'Lascia o raddoppia?', 'Rischiatutto', in Rai finiva la stagione a giugno e non aveva mai avuto un contratto che prevedesse la stagione successiva. Quello che gli offrì Berlusconi fu una nuova vita. Assegni in bianco. 'Siamo di fronte a un pazzo, che cifra mettiamo?'". 

Quando si è dedicato alla politica in cuor suo gli avrebbe voluto dire: "Silvio, non farlo"? 

"Veramente glielo dissi proprio. Due anni prima andai a trovarlo a Porto Rotondo. Si raccomandò: 'Non lo dire, ma sto creando un nuovo partito. Io devo scendere in campo'. Credo di aver sentito per la prima volta la frase: 'Scendo in campo' in Sardegna. A me manca tantissimo, era un grande uomo di televisione".  

E lo considera un grande politico? 

"Considero la politica uno dei tanti virus pandemici: può beneficiare della presenza di Berlusconi o di una donna. Lui ha provato a fare delle cose. Ora abbiamo il primo presidente del Consiglio donna. Perché fino a oggi non c'è mai stata una figura femminile? È sconvolgente, perché le donne ragionano, si preparano e sono sempre più lucide. Per questo fanno paura agli uomini". 

È sempre stato dalla parte delle donne? 

"Senza le donne questo Paese non andrebbe avanti. È quello che ho insegnato a mia nipote, che ha dieci anni, e per me è la vita, è il futuro. La nonna le faceva vedere i documentari sulla natura, ha in testa l'idea di fare il medico. Anche alle bambine va spiegato subito di salvaguardare l'autonomia e non dipendere mai da un uomo. Che non vuol dire non avere rispetto della figura maschile, ma essere indipendenti. La donna è vittima di ingiustizie e mi spaventa la violenza degli uomini. Troppi femminicidi, vanno inasprite le pene". 

La sua carriera è un po' come le montagne russe. Che idea si è fatto del successo? 

"Non mi sono mai considerato un uomo arrivato, neanche ai tempi d'oro. Che poi sa, il successo è fatto di rigagnoli di acqua pulita e di acqua sporca. Ho fatto il mio lavoro con serietà, sempre. Mi considero una persona perbene, forse un po' ingenua. Non a caso negli anni 90 mi sono ritrovato a ripartire da zero, ho perso tutto per colpa di un agente che fece investimenti sbagliati. I miei guadagni erano spariti". 

Si era fidato, come suo padre. 

"Sì, mi sono trovato a rivivere quello che avevo vissuto da ragazzo, quando da un giorno all'altro ci siamo trovati senza un soldo". 

Si è rimoboccato le maniche un'altra volta. 

"Resilienza. Ma il tradimento di un amico è una ferita che non cicatrizza mai". 

Corrado cos'ha rappresentato per lei?  

"Per me era un maestro. Lui e Raimondo Vianello sono stati due modelli, ma non ho mai avuto intenzione di copiare l'incopiabile. E Corrado era il più vicino a me, come carattere. Quando è morto lui e se n'è andato Raimondo ho perso due padri, tre con quello vero. Mi hanno dato la possibilità di guardarmi dentro". 

La lezione fondamentale? 

"Corrado mi disse: 'Ricordati che può accendere un televisore un ingegnere, uno scienziato, uno in canottiera. Non importa. Chiedi sempre permesso e presentati dignitosamente. Tu sei l'ospite a casa loro'. Ecco, la logica del rispetto del pubblico ha segnato la mia vita, era la lezione di una persona che si è sempre presentata così. Oggi passano più tempo a fare i selfie che a preoccuparsi di chi c'è dall'altra parte dello schermo". 

È vero che ha detto no ai reality? 

"Sì, confesso che non mi sembra di avere il fisico giusto per interessare il pubblico e non potrei litigare per una noce di cocco. Avrei anche difficoltà a condurli, è talmente evidente la speculazione sul creare casi di cui non sentiamo il bisogno".  

Ultime esperienze: 'Domenica in' con Cristina Parodi, poi ha condotto 'La prova del cuoco' accanto a Elisa Isoardi. Le piacerebbe tornare in Rai? 

"Domenica in l'ho proprio rimossa. Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse perché non ho più lavorato. Ma non sto lì a rovinarmi la vita, lo stress fa male, ho quattro bypass bisogna salvaguardare la salute. Le persone sensibili se la prendono di più. Bisogna imparare a farsi scivolare un po' le cose". 

"La prova del cuoco", 2019 Ha rimpianti? 

"Non ho grandi rimpianti. Mi resta il dispiacere perché non ho più avuto una trasmissione mia, soprattutto dopo l'uscita da Buona domenica che poi venne affidata a Paola Perego. Lo dissi a Lucio Presta: 'Siete padroni di un contenuto, ma io in questo contenuto non so starci'. La tv che faccio deve piacermi". 

Ma se dovesse fare autocritica? 

"Ho sicuramente fatto errori per il mio carattere: non ho cercato il consenso, non ho accettato certe situazioni. A me piacciono le persone che sanno capire l'ironia, se non si può essere ironici non si può campare. Non tutti lo sono. E non sopporto la volgarità, sarà che sono il prodotto di una certa educazione".  

La tv di oggi? 

"Non sono nato per torturare affetti e non ho la fissazione del presenzialismo. Penso che potrei dare ancora qualcosa, per come sono fatto io. Mi colpisce l'affetto delle persone quando mi incontrano. Allora qualcosa di buono devo averlo fatto. Mi piace incontrare la gente, amo le piazze del centro sud: c'è un pubblico affamato di sorrisi".

Claudio Santamaria contro Roberta Bruzzone: «Ha detto che abbiamo inventato l’aborto, una bestialità». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.

Con un lungo post su Instagram, il noto attore, sposato con la giornalista Francesca Berra, ha raccontato dell’esistenza di un audio, in cui la criminologa e volto televisivo avrebbe espresso dei dubbi sulla perdita del bambino da parte della coppia

È incavolato nero Claudio Santamaria e il bersaglio della sua rabbia è la criminologa Roberta Bruzzone, volto noto di molti programmi televisivi, secondo la quale l’attore e la moglie, la giornalista Francesca Barra, avrebbero inventato la perdita del loro bambino nel 2019 (la coppia ha poi avuto una bambina di nome Atena). «Mi duole commentare simili bassezze, ma sono così incazzato che sento di doverlo fare», scrive non a caso Santamaria in un lungo post su Instagram, dove spiega quanto accaduto.

«Offende me e mia moglie»

«È stato condiviso un audio con alcune conversazioni private della criminologa Roberta Bruzzone che offende me e mia moglie @francescabarra1 (l’audio era più lungo di quello che ascoltate e riguardava anche me), sostenendo che abbiamo mentito sulla perdita del bambino: “ pare che la notizia l’abbia inventata”», prosegue lo sfogo social dell’attore, a corredo della foto della Bruzzone con il virgolettato in questione. «A me non interessa entrare nelle beghe legali fra lei e la società Emme Team che ha pubblicato anche questo audio insieme con altri nei confronti di altre persone…. e non mi interessa soffermarmi sui metodi discutibili con cui sta avvenendo tutto questo e nemmeno che un simile pensiero sia stato reso pubblico. Quello che mi sconvolge e mi fa rabbia è che una professionista che ha a che fare con i lutti, che dovrebbe essere sensibile nei confronti della morte e del dolore della perdita delle famiglie, possa averlo anche solo pensato», spiega ancora Santamaria che, comprensibilmente, è un vero fiume in piena.

«Rasenta la bestialità»

«Possiamo non stimare una persona, un collega, un vicino di casa, possiamo provare sentimenti avversi e antipatie, ma questo pensiero va oltre: rasenta la bestialità e il pettegolezzo più pericoloso e spero che le persone che coinvolgeranno la signora Bruzzone in contesti dove questo comportamento potrebbe essere incoerente con le storie che raccontate, ne terranno conto», sottolinea infatti l’attore, prima di rivelare la sofferenza vissuta dalla moglie e da tutta la famiglia per quell’aborto. «Mi sento di scrivere queste cose per me, per l’immenso e costante dolore che prova anche mia moglie per quella perdita che non avrei mai voluto farle rivivere pubblicamente e per il rispetto del dolore che abbiamo provato noi e i nostri figli e per chi vive questi drammi dovendo pure fare i conti con le schifezze partorite da una persona che ogni giorno viene invitata nei salotti televisivi e nelle vostre case giudicando fatti e persone», conclude Santamaria, che ha poi aggiunto altre Ig Story sull’argomento. Per ora la Bruzzone non ha replicato alle accuse dell’attore.

Clint Eastwood compie 93 anni: i 7 migliori film da regista. Il successo con la Trilogia del dollaro di Sergio Leone, il boom del western e l’antieroe burbero, ma anche l’amore per i biopic e per le storie scomode: semplicemente uno degli ultimi grandi maestri di cinema. Massimo Balsamo il 31 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Bird (1988)

 I ponti di Madison County (1995)

 Mystic River (2003)

 Million Dollar Baby (2004)

 Gran Torino (2008)

 American Sniper (2014)

 Richard Jewell (2019)

Clint Eastwood oggi compie 93 anni ma non ha alcuna intenzione di fermarsi. Dopo aver scritto pagine importanti della storia del cinema come attore e come regista, il genio di San Francisco è pronto a tornare sul set: a metà giugno il ritorno dietro la macchina da presa per “Juror #2”, quello che si candida a diventare il suo ultimo film. La storia con protagonista Toni Collette e Nick Hoult si svolge durante un processo per omicidio e affronta i dubbi di un giurato che poco a poco si rende conto che potrebbe esser stato lui a causare la morte della vittima in un incidente stradale.

Clint Eastwood vanta più di sessant’anni di carriera dividendosi tra recitazione, regia e produzione, senza dimenticare la sua attività di compositore. Volto di pietra del western – lanciato dalla celebre Trilogia del dollaro di Sergio Leone – ma anche antieroe duro e burbero tra drammi, thriller, commedie e polizieschi. Emblema di una certa mascolinità americana, conservatore e per questo a volte osteggiato, bravo da regista tanto quanto da attore, il Clint Eastwood cineasta s’è fatto riconoscere per uno sguardo lucido e severo e soprattutto per le sue storie crude e scomode. Questa importante ricorrenza ci consente di andare a conoscere i suoi 7 migliori film da regista.

Bird (1988)

Premiato a Cannes, agli Oscar (miglior sonoro) e ai Golden Globe (miglior regia), “Bird” è un tributo alla vita e alla musica jazz del grande sassofonista Charlie Parker, inventore del be-bop assieme a Dizzy Gillespie. Uno dei tanti biopic di Clint Eastwood con la musica protagonista, uno straordinario e sensibile omaggio a un genio stroncato a 35 anni da alcol e droga. Impressionante la prova di Forest Whitaker.

I ponti di Madison County (1995)

Tratto dall'omonimo romanzo di Robert James Waller, “I ponti di Madison County” è la sorprendente e riuscita “svolta” romantica di Clint Eastwood, qui protagonista al fianco di un’ammaliante Meryl Streep. Un grande successo al botteghino – 182 milioni guadagnati in tutto il mondo contro un budget di 22 milioni – un ritratto struggente tra felicità autentica e il retrogusto amaro tipico del cinema di Eastwood.

Mystic River (2003)

Duro, senza filtri, perentorio. “Mystic River” rientra a pieno titolo nell’elenco dei migliori film diretto da Clint Eastwood e il motivo è semplice. Una storia potente tra pedofilia, amicizia e la ferocia della vita, duro come un pugno allo stomaco. O più semplicemente il ritratto di vite segnate da traumi incancellabili. Degne di nota le performance dei protagonisti, a partire da Sean Penn e Tim Robbins, entrambi premiati con l’Oscar.

Million Dollar Baby (2004)

Quattro premi Oscar più che meritati: miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista Hillary Swank e miglior attore non protagonista a Morgan Freeman. Tratto da un racconto della raccolta “Rope Burns” di F. X. Toole, “Million Dollar Baby” è probabilmente il film più riuscito del Clint Eastwood regista. Un’altra storia potente, spiazzante, che pone lo spettatore di fronte a domande scomode.

Gran Torino (2008)

Reduce di guerra solitario e a dir poco burbero, Walt Kowalski è noto per la sua intolleranza. Un uomo che non sopporta niente e nessuno che ad un certo punto si trasforma, entrando in contatto con una famiglia di etnia Hmong, che in qualche modo diventa anche la sua. “Gran Torino” è un film sorprendente, che cambia direzione, che offre una narrazione inaspettatamente “buonista” ma senza scadere nel patetico. Il risultato è eccellente.

American Sniper (2014)

Basato sull'omonima autobiografia di Chris Kyle, “American Sniper” è un’accurata e inedita riflessione sull’Iraq. Un’opera molto classica dal punto di vista formale che racconta le assurde regole della guerra in maniera molto lucida. Sei nomination agli Oscar, un premio per il miglior montaggio sonoro. Avrebbe meritato molto di più.

Richard Jewell (2019)

Al momento penultimo film di Clint Eastwood, “Richard Jewell” completa e alza l’asticella del filone dei biopic. Il regista di San Francisco ripercorre la storia della guarda di sicurezza accusata dell'attentato dinamitardo del 27 luglio 1996 al Centennial Olympic Park di Atlanta, a ridosso delle Olimpiadi. La vicenda di un uomo prima eletto eroe e poi gettato nella polvere grazie alla gogna mediatica. Eastwood al suo zenit, con Paul Walter Hauser e Kathy Bates sugli scudi.

Barbara Costa per Dagospia domenica 19 novembre 2023.

Questa luminosa creatura non arriva neanche al metro e mezzo. Il diametro del suo davanzale varia, il volume delle sue labbrone pure. È nel porno da appena un anno e, sebbene sia incredibile, dobbiamo metterla nella categoria milf! CJ Miles, tra i più nuovi e lucenti fuochi d’artificio porno, ha 39 anni, e ditemi un po’: chi tra voi non è mai andato a dare una sbirciatina ai suoi social? CJ Miles fa porno da poco ma è una web-star da tempo.

Ostenta su Instagram 2,4 milioni di followers e su OnlyFans è una che tocca cifre da capogiro –150 mila dollari al mese! ma, rimanga tra noi, mi sa che sono di più – e che CJ al contrario di altre onlyfansette li incameri sul serio è fuor di dubbio. I conti sono presto fatti: per scoprire chi su OnlyFans è un divo e chi invece uno scappato di casa, serve guardare lo score: più esso si avvicina allo zero, più si è su OnlyFans celebri. Lo score di CJ Miles è 0,1. Siamo al top.

E ora preparate i fazzoletti, e per una volta non per asciugarvi zampilli d’erezione, ma lacrime di commozione! CJ Miles – il cui vero nome è Christianne – ha un passato disgraziatissimo. Nata nella sventura, cresciuta nella miseria più nera. CJ te lo dice e se lo rivendica, che lei tutto per i soldi fa e mai ne è sazia. CJ è filippina, nata a Manila in una famiglia sgarrupata da ogni lato. Lei è la minore di 3 figli cresciuti a botte e privazioni. 

Il padre se n’è andato che lei aveva 4 anni per trovare lavoro all’estero, ma è tornato più scannato di prima. La madre li ha svezzati a lividi per infine abbandonarli. CJ è divenuta così una senzatetto. Non aveva nemmeno le scarpe e andava a scuola a piedi scalza in un tragitto pari a 2 ore. In questa desolazione, ha completato gli studi per trovare lavoro alla Dell in qualità di centralinista, per uno stipendio miserrimo.

Ma è alla Dell che si è innamorata la prima volta, d’un americano che, dopo averla a sesso strapazzata per bene e col suo totale consenso, se n’è tornato negli USA dalla moglie. Per divorziare. CJ è riuscita ad entrare negli USA grazie al visto da fidanzata da sposare in terra americana entro 90 giorni. Sì, la stessa cosa che fa vedere il reality TV! Solo che CJ, giunta in Texas, si è ritrovata a vivere nella stessa casa con la suocera e la cognata e col marito americano che se l’è sposata per riempirla di schiaffoni. 

Un giorno CJ ha scoperto che 'sto bifolco era pieno di sexy profili social e di amanti rimorchiate sui social. Allora s’è messa sui social pure lei, e lì l’ha contattata uno che le ha promesso 500 dollari per foto hot. Ha accettato. È stato il suo primo colpo di fortuna. Costui era fotografo vero, professionista, non un maniaco, e l’ha introdotta nel giro. CJ è diventata amica di una stripper filippina che si spogliava a Las Vegas, Francine Dee.

Le ha insegnato "tutto". Come posare, come "intrattenere" gli uomini nei locali, ballare e spogliarsi per loro. CJ ha fatto la stripper per 14 anni. Per 14 anni ha vissuto solo di notte, dalle 24 alle 9 del mattino: “Io piacevo più delle altre per il mio fisico minuto”. CJ ha ballato per club di prim’ordine, è qui che “fai i soldi”, è qui che “i clienti non ti importunano, non possono, se qualcuno si avvicina è bloccato dalla security”. Si è fidanzata con un giocatore di poker suo ammiratore. L’ha lasciato per noia.

CJ si è ritrovata senza lavoro con la pandemia. Ma lei già stava su OnlyFans da un po’, a postare clip osé da solista, e clip osé di sesso con diversi sc*pamici. “Dal 2020 le mie entrate su OF sono stellari”, ed è su OF che i boss del porno l’hanno "scoperta". Oggi CJ fa porno in esclusiva per "Brazzers", è in "Brazzers House", serie ZZ di successo.

E CJ non molla OF, pur se “far porno su OF costa di più, rispetto ai set”. E CJ investe nel mattone. Una sua villona è location che affitta ai set porno. E CJ manda denaro a chi, della sua sciagurata famiglia, mamma, sorella, fratello e 4 nipoti, è rimasta a vivere a Manila. CJ, lei “non porto rancore, mi ucciderebbe”. Nemmeno all’ex marito picchiatore e traditore? “No. È grazie a lui che sono entrata legalmente negli USA”.

Dario Salvatori per Dagospia il 24 gennaio 2023.

Ieri tutti i quotidiani a testate unificate hanno riportato una intervista a Colapesce e Dimartino. Praticamente una velina. Oggetto: la loro prossima partecipazione al Festival di Sanremo, dove saranno in gara con il brano “Splash”. Scontata la curiosità dei cronisti, un po’ meno quella dei due interpreti: “E’ una canzone che ha due livelli  di lettura. Può alludere a qualcosa di brutale, ma che  racconta anche il peso delle aspettative e di come queste influenzino la nostra vita. E’ un brano sulla direzione che pensiamo stia prendendo la nostra vita. Le aspettative logorano l’anima. La canzone è una grande metafora. Per chiunque ascolti  il significato è aperto". Urca.

 Una  delle strategie  che propone il brano è di quelle che non si dimenticano: “Come stronzi galleggiare per non sentire il peso delle aspettative.” Beh, a questo punto non è proprio la “musica leggerissima” del 2021 che doveva anestetizzare la pandemia. E le influenze? “Luigi Tenco di –Mi sono innamorato di te-, Domenico Modugno di –Vecchio frac- e –Nel blu dipinto di blu-, Peppino Di Capri di –Mondo crudel-, Lucio Battisti di –Anima latina-“

 Se fossero nati in America Colapesce e Dimartino sarebbero depositari del nuovo easy-listening, di quella musica che piace agli studenti bianchi, provenienti dalla costosissima Juilliard non certo dalla Berklee che invece è frequentata da italiani e latini. Park Avenue e Simon&Garfunkel centrifugati. In Italia il loro genere suggerisce Erasmus, Luiss, aperitivo tutto l’anno, il “corsivo” di Tik Tok, Roma nord.

A pensare che con lo splash c’è chi  ci campa. I Beach Boys, per esempio, da sessanta anni. In Italia e nelle canzoni italiane è un termine proletario, da fagottari con le melanzane alla parmigiana. Però “Domenica d’agosto”(1969), scritta da Gianni Morandi e portata al successo da Bobby Solo, dimostrò che gli steccati ideologici e culturali  poco contavano quando le canzoni avevano gli ingredienti giusti per catturare  il pubblico: “Domenica d’agosto, che caldo fa/la spiaggia è un girarrosto, non servirà/bere una bibita/se in fondo all’anima sogno l’oceano, Splash!”. Brano entrato negli spot televisivi.

 Ancor più proletario il ritornello di “Pinne, fucile ed occhiali”(1962) proposto da Edoardo Vianello: “Con le pinne, fucile ed occhiali/ quando il mare è una tavola blu/ sotto un cielo di mille colori/ ci tuffiamo con la testa all’ingiù. Splash!”. Indispensabile l’armamentario da sub della domenica. Proto  trash la copertina: Vianello con lo smoking, goffo e immerso nell’acqua, a suo agio  Maria Grazia Buccella in versione sirena. Una delle canzoni più campionate del cantante romano.

Tornando in America come dimenticare “Splish splash”(1958), di Bobby Darin (1936-1973), italo-americano (Roberto Cossotto) del Bronx, talmente bravo che l’anno dopo già interpretava Kurt Weil. I fans del rock and roll lo odiavano un po’ perché aveva sposato Sandra Dee(1942-2005), la reginetta dei teen film. Ai teenagers piaceva lei, non Marilyn Monroe, considerata un mito da “adulti”. Non a caso in “Grease” Olivia Newton John per sedurre John Travolta sguaina un’arma infallibile: “Look at me! I’m Sandra Dee!”.

Intanto il termine splash era entrato in tutti i comparti. Anche a Cape Canaveral per esempio. Quando il 23 marzo 1965 decollò Gemini 3, il primo volo spaziale effettuato con una capsula con un equipaggio composto da due astronauti, Gus Grison e John Watts Young, il termine era già in uso. Mentre gli astronauti scendevano cantavano “Blue  moon”, ma da quel giorno non si chiamò più ammaraggio bensì “splash down”.

Colapesce Dimartino : «La nostra sfida a Sanremo? Cantare i disagi esistenziali». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.

Il duo di artisti siciliani torna al Festival di Sanremo con «Splash», un brano sulla solitudine

Da raffinati cantautori indie al successo nazional popolare. «Musica leggerissima», tormentone del Sanremo 2021, ha cambiato la carriera di Colapesce Dimartino ma non l’ha fatta sbandare. Dopo 5 dischi di platino, i meme sui social e i balletti dei baby club, era facile rimanere accecati dai flash della fama e cercare di replicare la formula vincente. La coppia torna in gara al Festival con «Splash», una canzone che cerca un’altra strada fra vintage battistiano e malinconia esistenziale. «Fare una “Musica leggerissima 2” sarebbe stato un errore», dice Dimartino, all’anagrafe Antonio Di Martino, quello dei due con la barba. Aggiunge il baffo Colapesce, vero nome Lorenzo Urciullo: «È stata anche la scommessa di proseguire l’indagine sulla canzone d’autore italiana».

«Splash» parla del peso delle aspettative...

D: «È un brano sulla direzione che pensiamo stia prendendo la nostra società».

C: «Le aspettative logorano l’anima. Vivere a Milano amplifica queste sensazioni. Antonio si è immaginato le persone che camminano in strada e trascinano un carretto pieno di problemi e aspettative».

D: «Vanno in salita e nessuno aiuta l’altro. Le aspettative non ti fanno vivere, metti le tue energie in quello che ti attende e non nel momento che vivi».

E le vostre aspettative per il ritorno a Sanremo?

D: «Anche i parenti ci chiedono un altro tormentone. Mio padre quando ascoltò “Musica leggerissima” disse quella che per ora è l’unica cosa bella che ha detto su una mia canzone. Questa volta non si espresso, non so che pensare...».

C: «Il nostro team ha capito l’anima del progetto e la rispetta. Mia mamma non ha ancora sentito il pezzo, ma mi ha detto “speriamo che sia una hit”».

Se c’è un filo conduttore con «Musica leggerissima» è il tormento esistenziale: là c’era il buco nero della depressione, qui la solitudine davanti al lavoro, alle relazioni, alla metropoli...

D: «È la nostra indagine su dove stiamo andando come esseri umani. Dopo la pandemia la gente è tornata a credere nel futuro ma in modo diverso. Sappiamo tutti che tutto può finire all’improvviso».

Lo «splash» che chiude la canzone è un gesto tragico o una fuga in spiaggia, un rifiuto del sistema?

C: «Suicidio o libertà? Il finale è aperto. “Splash” è una parola divertente e inquietante allo stesso tempo».

Il brano è nella colonna sonora di «La primavera della mia vita», film che esce il 20 febbraio e che vi vede sceneggiatori e protagonisti nel ruolo di due musicisti ex amici.

C: «Io sono quello più focalizzato sul lato commerciale; lui è quello mistico. Abbiamo estremizzato due lati che abbiamo entrambi. Quando scriviamo insieme alla fine siamo come Camera e Senato, continue variazioni e passaggi reciproci per arrivare a una versione condivisa».

E se il vostro Sanremo fosse un film?

D: «Un dramedy, un po’ dramma e un po’ commedia, in stile Requiem for a Dream di Darren Aronofsky».

C: «E anche po’ Vacanze di Natale».

Estratto dell’articolo di Francesca Scorcucchi per il Corriere della Sera il 4 febbraio 2023.

Fare l’attore è il destreggiarsi su una corda tesa dalla quale è tanto facile cadere quanto è difficile rialzarsi. Ne sa qualcosa l’irlandese Colin Farrell la cui carriera, lanciata da Joel Schumacher, ha rischiato di essere irrimediabilmente rovinata da Oliver Stone, che nel 2004 lo volle protagonista del flop Alexander : «Leggevo le recensioni e mi vergognavo di me stesso». 

 Scelte rigorose e registi intelligenti (Woody Allen, Terry Gilliam, Yorgos Lanthimos) gli hanno consentito di rialzarsi. Ora finalmente arrivano i riconoscimenti. Gli spiriti dell’Isola , in Italia dal 2 febbraio, lo vede tornare a recitare con Brendan Gleeson, diretto da Martin McDonagh come ai tempi di In Bruges – la coscienza dell’assassino. The Banshees of Inisherin, questo il titolo originale, gli ha appena fatto ottenere una nomination agli Oscar come migliore attore. […]

[…] Gli amici veri sono quelli dell’infanzia?

«E dell’adolescenza, fino ai quattordici anni. Sono amicizie che non necessitano di annaffiature regolari. Puoi andare, vivere la tua vita e quando ritorni sai che ci sono. Capita che viaggi, che non mi faccia sentire per un po’, ma quando riprendo il contatto è come se non fosse mai stato interrotto».

 Sa di avere a che fare con un artista.

«Orson Wells raccontò una volta, in un’intervista, di aver sempre messo l’amicizia prima dell’arte: hai mai fatto lavorare un amico? Certo. È mai stata una scelta sbagliata? Sì. Lo rifaresti? Assolutamente sì!, diceva. Grandioso». 

L’idea di tornare a lavorare insieme dopo «In Bruges» c’è da anni, vero? 

«Vero, tempo fa Martin McDonagh mi mandò un copione, poi non successe nulla. Anni dopo ricevetti un’altra versione, restava in piedi solo l’idea: un amico che non vuole più l’altro. Il resto era tutto diverso. Nella prima versione c’era più azione e, confesso, il mio personaggio era più fico. L’amor proprio era ferito ma era l’idea giusta e la storia risultava più commovente». 

Chi è Pádraic? 

«È un uomo semplice. Gli basta un cielo azzurro, i prati verdi e le onde che si infrangono sulla spiaggia per essere felice. Non capisce le preoccupazioni delle menti più complesse. Nel film ho dovuto interpretare la perdita della sua innocenza. Scopre che l’umanità può essere crudele e che non ci deve essere una necessaria spiegazione alla crudeltà». 

Si ha l’impressione che usi le sopracciglia come uno strumento di recitazione. 

«Si muovevano indipendentemente dalle mie intenzioni, ma hanno aiutato, a quanto pare». 

Colin Farrell: «Il mio serbatoio di lacrime è senza fondo». di PAOLA PIACENZA su Io Donna il 14 Gennaio 2023.

Nella vita ha attraversato di tutto. Forse è proprio per questo che rifugge le interviste. In questa (rara), l’attore che con il personaggio di un uomo semplice ma capace di scatenare una guerra ha vinto la coppa Volpi, i Golden Globes lo scorso 10 gennaio e ora punta all’Oscar, racconta di come quelle esperienze abbiano fatto di lui l’uomo che è. Capace di grandi commozioni. A partire dal menu della colazione

«Pane e latte! Non dico bugie. Pane e latte!». L’eccitazione di Colin Farrell, al pensiero della colazione che faceva sul set di Gli spiriti dell’isola (vincitore di tre premi gli ultimi Golden Globes) ricorda la grazia infantile del suo personaggio, Pádraic Súilleabháin, un uomo che, negli anni Venti del secolo scorso, sull’immaginaria isola di Inershin, ha solo due certezze, la pinta che l’attende al pub alle due del pomeriggio dopo il lavoro al pascolo.

E il fatto che la berrà insieme all’amico di sempre, Colm Doherty (interpretato da Brendan Gleeson). Il film, che dal 2 febbraio sarà al cinema, insieme alla commozione per il catering, ha portato all’attore dublinese la coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia, e da lì un’infilata di altri premi che stanno sapientemente pavimentando il suo cammino verso l’Oscar.

Per l’uomo “dalle sopracciglia emotive”, che non concede quasi più interviste ai giornali (finiscono sempre per rievocare un passato con più di un falso movimento, diffusione on line di un filmato hard, rehab per la disintossicazione da alcol e droga), tornare a casa, in Irlanda, usare il proprio accento («interpretare americani è divertente, ma non c’è posto come casa»), lavorare con lo stesso regista, Martin McDonagh e lo stesso collega con cui girò In Bruges nel 2008, è stato come mettere in fila una collezione di madeleine.

«Tornare a casa è sempre un’esperienza profonda, di più con il tempo che passa. E questa volta, per me non c’erano barriere, non c’erano luoghi dove potevo nascondermi. Ogni volta imparo qualcosa e forse stavolta ho capito che non si può vivere nel passato, perché il futuro bisogna giocarselo, ma avendo ben chiaro da dove si viene. Per me ora è chiaro da dove vengo, i tre mesi di riprese del film sono stati una rivelazione: riconoscevo il suono della brezza notturna, la quiete interrotta solo dal belare degli animali nei campi. In un posto come quello in un secondo ti appropri di cent’anni di vita. Non ce l’hai quella sensazione a Dublino. Certamente non a Los Angeles. C’è sempre una macchina del tempo che si mette in moto quando interpreti un film in costume, ma questa è stata per me una macchina del tempo molto particolare. Ha coinciso con una straordinaria semplificazione dell’esistenza. Andavo in bicicletta dal set al cottage dove abitavo, i sapori del cibo mi riportavano all’infanzia. E il 99 per cento di me diceva: “Oh Dio, questo è meraviglioso”».

L’1 per cento rimanente è quello che Farrell ha elaborato durante un recente incontro pubblico in America con Jamie Lee Curtis sull’arte dell’attore: «Le uniche due certezze che ho sono che moriremo e che commetteremo gravi errori». Curtis, che evidentemente sa di cosa parla, replica: «Lo sapevi prima di diventare sobrio?». Farrell: «No. Avevo dei sospetti, prima di disintossicarmi, di quanto potesse essere dolorosa la vita. Ora, a volte, do alla vita grande importanza. E altre volte, sono frivolo come lo ero quando avevo sei anni in una buona giornata».

Farrell, che grave (come in questo film) o frivolo (come nei molti filmoni che ha interpretato, presto lo rivedremo nella serie tv in cui interpreta il Pinguino, il nemico di Batman), non smette di sedurci, ormai vive in California da molti anni, il centro della modernità e del calcolo delle calorie, dove pane e latte probabilmente non sono un’opzione: «Non credo che sarei rimasto lì se non avessi due figli, James 18 anni, Henry 12. Se non fosse per loro, che sono cresciuti lì, credo che l’America mi avrebbe trattenuto solo per qualche anno e poi sarei tornato a casa. Ma non sono infelice. C’è così tanto amore per me a Los Angeles grazie ai miei figli e alla mia famiglia. Ma so che quando sono in giro per il mondo e dico: “Ora vado a casa”, per ragioni pratiche intendo Los Angeles. Ma poi, quando sono lì e parlo di “casa” penso all’Irlanda. E quel “casa” lo pronuncio due ottave più giù. Molto, molto più profondo».

Gli spiriti dell’isola è qualcosa di più di un ritorno a casa in versione baritonale, è uno studio piuttosto accurato del maschile. L’amicizia tra Pádraic e Colm avrebbe potuto andare avanti fino alla fine dei tempi tra pinte e chiacchiere, se Martin McDonagh – che aveva dichiarato di non volere a nessun costo che qualcun altro riunisse i “suoi” due attori prima di lui – non avesse deciso che una rottura era inevitabile: Pádraic è un uomo semplice, Colm fa musica ed è capace di elementari pensieri filosofici. Perciò decide che l’immortalità non se la vuole giocare tra mucche e asini, ma consegnando al mondo qualcosa di bello e armonioso. E per fare questo deve chiudere con Pádraic. La comunicazione è brutale: «Non mi piaci più». Basta poco per innescare una guerra, anche in persone pacifiche, anche in un Eden senza strade asfaltate. Soprattutto se dalla vicina costa arrivano gli echi della battaglia: la guerra civile irlandese, altro conflitto fratricida.

Certe volte l’unica decisione saggia da prendere è lasciare l’Eden, partire. Non è un caso che a farlo sia l’unico personaggio femminile del film, la sorella di Pádraic, Siobhan (la brava Kerry Condon). «Tutti devono pagare un prezzo per le decisioni che prendono, inclusa Siobhan» chiosa Farrell. «Non so quale sia il suo, forse la felicità, forse la solitudine, certamente il suo futuro sarà in assenza di guerra, e questa è giustamente una prerogativa femminile. Ci sono stati giorni in cui mi sono sentito profondamente triste. Sono convinto che ogni volta che versi una lacrima in una scena la vai a prendere in un luogo che è tuo, un personale serbatoio di lacrime che hai alimentato nella tua vita, con le tue azioni, gli incontri, le rotture, i dolori. Sono lacrime che a un certo punto devono uscire. Ci sono stati giorni in cui è stata dura, entravamo in zone emotive poco confortevoli, ma in ogni caso il risultato finale è sempre stata gioia. Perché nuotavamo nelle acque del senso della vita, non capita spesso».

Ha mai deciso di rompere con qualcuno perché sentiva fosse arrivato il momento per la sua vita di prendere un’altra direzione? chiediamo. «È un buon momento questo per fare una pausa e andare al bagno?» (ride). «Le prime rotture che ho avuto nella vita sono state uno shock. Mi chiedevo: “Perché deve essere così brutale, quando io ancora voglio bene a questa persona?” Ricordo me stesso in ginocchio implorare: “Ti prego, lasciami andare”, e fare di tutto perché quello che stava accadendo non fosse una lacerazione crudele. Ci vuole coraggio per capire che una relazione è finita. E fare – con grazia se possibile – quello che è necessario». iO Donna

I Coma Cose in concerto: «Il nostro primo live fu uno showcase all'una di notte durante la Design Week 2016». Raffaella Oliva su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2023 

«L’esibizione in un orario assurdo, era tutto sgangherato e bellissimo». Il duo al Fabrique: restiamo outsider 

I Coma Cose: Fausto «Lama» Zanardelli e California alias Francesca Mesiano

Da commessi in un negozio di zaini in Ticinese a protagonisti del pop italiano. In 7 anni i Coma Cose hanno raggiunto una platea sempre più ampia e trasversale, diventando un progetto mainstream. Ci sono riusciti restando in bilico tra cantautorato indie, pop e rap, combinando le loro variegate influenze in una personale formula fatta anche di testi ricchi di citazioni e giochi di parole e approdata al Festival di Sanremo già due volte, l’ultima quest’anno con «L’addio».

«Però portiamo ancora nel cuore il nostro primo live, uno showcase durante la Design Week 2016», dicono Fausto «Lama» Zanardelli e California alias Francesca Mesiano, in concerto martedì e mercoledì al Fabrique. «Suonammo qualche pezzo in un orario assurdo, verso l’una di notte. Era ancora tutto sgangherato, folle, ma divertente. Fu il punto di partenza». Le date milanesi fanno parte di un tour primaverile interamente sold out. Sul palco con i Coma Cose, i Mama-kass, produttori con loro sin dagli esordi, più un trio violoncello, chitarra, batteria. 

«Abbiamo sempre avuto un batterista, ma un tempo cantavamo più su sequenze, ora che abbiamo più musica suonata il coinvolgimento è maggiore. E siamo felici di notare che tra i fan molti sono gli stessi degli inizi, così che il live diventa anche un momento di ritrovo». Oltre a classici di repertorio come «Anima lattina» e «Mancarsi», in scaletta le tracce di «Un meraviglioso modo di salvarsi», il terzo album del duo uscito a fine 2022. «Dentro c’è meno Milano, viaggiamo tanto per lavoro e questo si riflette nella scrittura, e c’è meno rap, linguaggio che sentiamo meno vicino. Mentre sono presenti riferimenti alla new wave, a Talking Heads e LCD Soundsystem, e alla psichedelia di Beatles e Flaming Lips».

Si cresce, si cambia e capita di entrare in crisi, come hanno raccontato Fausto e Francesca, coppia anche nella vita. «Crisi superata, e ci chiediamo quanto abbia influito il fatto di lavorare assieme», confida lei, classe 1990, originaria di Pordenone. «Di sicuro c’entra che per noi è stato tutto una prima volta: la prima relazione duratura, il primo contatto con il successo. Ma le crisi sono inevitabili, perché l’esistenza è un grande compromesso. L’importante è parlarsi e venirsi incontro». 

Tra i due è Fausto, bresciano, classe ’81, quello che bazzicava nella musica da più tempo. «Quando sono nati i Coma Cose avevo già un’età in cui non avevo più voglia di inseguire lo stereotipo della popstar: quella è una chimera che hai da giovane, poi un po’ la vita e l’ambiente musicale ti disilludono, un po’ maturi e ti dai altre priorità. Per cui per me la nostra musica era una valvola di sfogo, qualcosa di intimo che non credevo potesse diventare così popolare». È accaduto, invece, in un’era dominata dai social che impone velocità ed esposizione costante. «Cose che non si sposano col fare musica e a volte è frustrante. Servono misura e onestà intellettuale, non siamo tra quelli che fanno tutto ciò che il marketing manager dice loro di fare, né ci va di prendere posizione su ogni questione. Abbiamo dei punti fermi, per il resto meglio ammettere di non sapere. Come diciamo in “La resistenza”, evitiamo di cadere nella trappola di dire che una volta era meglio e in quella dei paragoni con gli altri. Mai smettere di incuriosirsi e di cercare la bellezza nel presente».  

Coma_Cose: «Siamo binari paralleli uniti dalle traversine, non una cosa unica». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

Il duo torna a Sanremo due anni dopo l’esordio e la sfida è misurarsi con le aspettative del pubblico che non è più solo quello dell’Indie: «Abbiamo entrambi perso un po’ di spigoli. Lui è meno pesante, io ho messo un po’ la testa a posto»

Non amano gli addii e anche per questo la loro canzone L’addio è piena di un amore senza soluzione. Il nuovo album dei Coma_Cose, Un meraviglioso modo di salvarsi, ha molti pezzi che rimbalzano dentro, da Chiamami a La resistenza, ma il duo ha scelto una canzone che è dichiarazione di vita e di poetica per tornare a Sanremo, due anni dopo la loro prima volta, quando Fiamme negli occhi incantò per testo, musica ed esibizione. Se nel 2021 la paura era di venire fraintesi, o di passare inosservati, oggi la sfida è misurarsi con le aspettative di un pubblico che non è più quello dell’indie, dove si sono fatti conoscere nel 2019 con Hype Aura, ma il grande pubblico. La gioia di cantare e di raccontarsi, però, è sempre la stessa, pura e semplice, come la miscela di freschezza e malinconia che i due artisti emanano anche seduti su un divano, nello studio di Asian Fake a Milano, l’etichetta che li produce. Lui è Fausto Zanardelli (il soprannome Lama viene da una rima sull’attore Lorenzo Lamas), nato a Salò nel 1978; lei è Francesca Mesiano, nome d’arte California (preferito ad Alabama), trasferitasi a Milano da Pordenone, dov’è nata nel 1990. Due storie, due generazioni, due mondi, due stili che han trovato un equilibrio: Fausto Lama scrive i testi e le canzoni, funambolo paesaggista di suoni e parole che viaggia nel tempo attraverso gli stili musicali, dal cantautorato all’elettronica, passando per il rap; California, voce fresca, animo punk, interpreta e istiga, ispira e innesca sin dall’inizio del loro sodalizio, quando nel 2015 convinse Fausto Lama a riprovarci con la musica, dopo una carriera da rapper al capolinea. L’amore è arrivato presto, ma il primo sguardo, scopriamo, era ignifugo.

Qual è stata la vostra prima uscita?

California «Beh, il karaoke dove abbiamo cantato assieme...»

Fausto Lama «Sì, il karaoke fu galeotto, però ricordo un altro primo incontro». California «Dici la festa dell’inaugurazione del negozio?»

Fausto Lama «Lì ci siamo solo presentati, ciao, come due persone che passano, e si salutano. Io poi sono andato via, ho fatto serata con amici e sono tornato a casa. E a casa tu eri lì, eri venuta con gli altri due che vivevano con me...

California «Vero. Non ricordavo...»

Fausto Lama «Ci siamo seduti sul divanetto, poi i miei amici sono andati a dormire e noi ci siamo messi a parlare».

Di musica?

California «No, fortunatamente non subito, che quando un musicista parla di musica è un po’ pesante...»

E di cosa avete parlato?

Fausto Lama «Non ricordo esattamente, ma ricordo che parlavamo senza malizia. Forse perché entrambi eravamo a cavallo di relazioni che finivano, eravamo senza malizia o secondi fini...»

California «Eravamo liberi»

Fausto Lama «Non volevamo avere relazioni, nessuno dei due era a caccia, e ricordo che il giorno dopo mi dissi ma che bella chiacchierata. Poi quando ci siamo rivisti è scattato qualcosa, ma credo che il primo incontro abbia avuto questa circostanza fortunata, perché se uno dei due non fosse stato allineato chissà...».

California «Comunque l’altro giorno guardavo il nostro Instagram, ho visto la nostra prima foto».

Fausto Lama «Quella in macchina».

California «Sì, e comunque era tipo giugno 2015. Tra poco sono 8 anni. Chi l’avrebbe detto?».

Il nuovo album è arrivato dopo una pausa di riflessione che vi siete presi. L’uno dall’altra. O l’una dall’altro. Avete lasciato Milano per un mese e lei, Fausto, è tornato a Salò, mentre lei, California, a Pordenone. Cosa vi ha spinto a questa separazione?

Fausto Lama «Stavamo lavorando a un pezzo “up”, come si dice in gergo, cioè entusiasta, happy... felice. E c’era una strana tensione sulle canzoni, forse non era quella canzone che dovevamo inseguire».

California «Non veniva fuori, no, ci mancava energia». Fausto Lama «Ne abbiamo parlato, era una esigenza comune, e poi una mattina, dopo un caffè, ci siamo salutati, sull’uscio. Una cosa naturale. Noi non ci siamo lasciati, ma la pausa era una necessità».

Avete due gatti, chi li ha tenuti?

Fausto Lama «La prima settimana c’era la cat sitter, poi ci siamo alternati noi». California «A Milano sono stata una settimana io, lui era a Salò, poi lui a Milano e io a Pordenone...».

Chi ha fatto la prima mossa per tornare a vivere assieme?

Fausto Lama «Io le ho mandato una canzone, che poi è entrata nel disco, Sei di vetro. Quella canzone dice un sentimento che torna anche nel brano di Sanremo, perché abbiamo maturato la consapevolezza di questa nostra unione. Questa complicità ha un’energia che va oltre il rapporto di coppia e quindi è meglio portarla su due piani diversi. Siamo usciti dall’ossessione che le due cose debbano combaciare, possono stare anche separate, e solo così essere libere. Ora abbiamo un approccio meno umorale, con una tranquillità che ci permette di vivere le nostre fragilità emotive in modo più sereno. Siamo due binari paralleli, che sono sempre uniti dalle traversine, questo ci trasforma in noi, ma non un binario unico. La canzone parla del fatto che tu ( si rivolge a California, ndr) sei una persona che ha valore, bellezza e potere grazie alla tua fragilità, è la tua entità, e lo sarà sempre, anche se te ne andrai per il mondo: è una promessa matura di amore».

California, che reazione ha avuto quando l’ha ascoltata?

California «Ho pianto, io piango molto, ed è stato un pianto liberatorio, di malinconia e felicità, una sensazione strana, perché racconta chi ero prima, da quando ci siamo conosciuti a chi sono oggi: Fausto mi ha fatto capire quante fasi abbiamo vissuto e questa cosa dà molto valore al tempo passato assieme. Si cresce e ci si contamina, noi siamo molto cambiati».

In cosa?

California «Abbiamo entrambi perso un po’ di spigoli. Lui è meno pesante, io ho messo un po’ la testa a posto».

C’è un aspetto dell’altro cui non potreste rinunciare?

California «La passione di Fausto per la musica, non ho mai visto un’ossessione così totalizzante che non viene mai meno. Una cosa bella e invidiabile»

Fausto Lama «La sua ironia, è una persona molto buffa, nella vita privata, intima, fa strane vocine, imita, fa personaggi immaginari».

Nella vostra vita avete fatto esperienza di un addio?

California «Forse alle mie amicizie di Pordenone, arrivata a Milano le ho perse e invidio chi ha mantenuto gli amici dell’infanzia. Giorni fa mi ha scritto una mia amica, la migliore amica, non la sentivo da 15 anni e ha ascoltato una mia canzone e ha detto che le sembrava che fossimo ancora lì, che fosse solo ieri che cantavamo assieme i Sangue misto».

Fausto Lama «Anche io ho perso degli amici, ma io non so dire o dare addio, sono un accumulatore. Forse anche per questo io cerco una relazione totalizzante. Noi due siamo amici prima di tutto, siamo compagni, amanti, e lavoriamo assieme. È totalizzante ma ne vale la pena, sennò tutto è vacuo. Mi farebbe un po’ paura dopo una relazione così totalizzante dover pensare che non ci sia più. Certo, poi magari un giorno usciamo e ci scanniamo. Ma per ora no. Il brano L’addio dice che in fin dei conti l’addio non è una possibilità. La canzone nega questa possibilità. E quindi l’addio è la potenza di evocazione di un luogo, l’addio a quello che eri. Un luogo metaforico di come eri, di come stavi... La caducità della vita è vera, ma è anche una menzogna, tutto è registrato nel cervello, se è stato importante».

L’idea dell’addio è inaccettabile?

Fausto Lama «Non lo accetti perché altrimenti ti condanni a vivere solo quel giorno per quello che vale; ed è bello cogliere l’attimo, ma io sono anche quello che ho fatto prima, che ho promesso...».

California «Altrimenti perde valore. Una persona che per te è stata importante non può sparire del tutto dalla tua vita».

Estratto dell’articolo di Francesco Vicario per “Gente” domenica 13 agosto 2023.

Chiudete gli occhi e pensate a un seduttore contemporaneo. Vi verrà di sicuro in mente un tatuo-palestrato, genere “Temptation Island”, tutto ammiccamenti (magari favoriti da qualche punturina di botox) e congiuntivi zoppicanti. Poi apriteli, gli occhi, e guardate il signore classe 1952. 

Corrado Tedeschi sembra essere nato in abito sartoriale e cravatta. Forma che in questo caso è al contempo sostanza, tratto distintivo di un uomo che val la pena conoscere in una chiacchierata d'estate inoltrata, in cui emergerà il tema dell'amore, parte integrante di una vita segnata dalla fama e che oggi ben si presta al bilancio. Con qualche sorpresa.

Ecco, a proposito di giacca e cravatta: lei ne ha fatto una firma. Molte signore si chiederanno: dove sono finiti gli uomini così?

«Siamo qua, siamo pochi, ma resistiamo in nome della gentilezza, nel senso dantesco della nobiltà d'animo, qualità che oggi viene scambiata per debolezza. Ma d'altra parte sono cresciuto così, figlio di un ammiraglio di Marina che due ore prima di morire si presentò a tavola, appunto, in giacca e cravatta. […]». 

A che età ha scoperto questa predisposizione?

«(Ride, ndr). Nell'estate dei miei 14 anni. Ero a Londra a imparare l'inglese con mio fratello Umberto, di quattro anni più grande. Sta di fatto che una sera, in un pub, conosciamo questo ragazzo napoletano, pure lui 18enne, come Umberto. Loro si mettono a chiacchierare e a un certo punto si avvicinano tre ragazze inglesi. Insomma, dopo un po' decidiamo di muoverci, e il napoletano dice: "Andiamo tutti a casa mia"».

Cliché.

«Certo, fino a quando, in taxi, ci dice che casa sua è Buckingham Palace». 

Prego?

«Figuriamoci, pensiamo. E invece l'auto si avvicina al palazzo, arriviamo al cancello e le guardie non solo ci fanno passare, ma lo salutano come fosse uno di casa». 

Adesso non mi di dica che l'allora principe Carlo parlava napoletano...

«Il ragazzo era in effetti di casa, ma perché a Buckingham Palace ci lavorava, faceva il cameriere. Arrivammo al suo appartamentino, mettemmo un disco e finita la musica si spensero le luci. Io ero stato scelto da Diane, dieci anni più di me, che mi illuminò sulla conformazione dell'anatomia femminile. E portava i collant. Una notte indimenticabile». 

E chissà quante altre notti indimenticabili, Tedeschi. Lei ha vissuto, da volto televisivo, l'edonismo berlusconiano degli Anni 80.

«[…] Di giorno ero il classico dirigente in doppiopetto e bottoni dorati, di notte infilavo i jeans e andavo nelle radio private locali. Fu la mia ex moglie, Francesca, la mamma di mio figlio Jacopo, a iscrivermi a un concorso in Rai, “Un volto per gli Anni 80”. Lo vinsi – la prova finale consisteva in un’intervista a Gianni Boncompagni, che mi aiutò tantissimo – e iniziai. Poi arrivarono Doppio slalom e Il gioco delle coppie, per Canale 5».

Periodo d’oro.

«Si guadagnava tantissimo, è vero, anche se i soldi non sono mai stati il punto car- dine della mia vita. Ma soprattutto, che sensazione fantastica, la mattina chiude- vo il portone di casa alle mie spalle e non sapevo che cosa sarebbe successo quel giorno. Ero drogato di felicità, pur non avendo mai assunto sostanze». 

Più assediato dalle fan o dalle star?

«Non entrerò nei dettagli, altrimenti che gentiluomo sarei? Ma di quegli anni conservo il ricordo di una bella storia, con Rossana Casale. Poi qualche disastro l’ho combinato. A volte ho tenuto i piedi in due scarpe. E l’ho pagata». […] 

Dopodiché, la lucina rossa della diretta le manca?

«Non posso negarlo». 

E perché si è spenta?

«Io ho sempre condotto programmi che hanno fatto più ascolti di quelli che venivano richiesti. Per qualcuno questi risultati contano, per altri no». 

È un discorso che vale sia per la Rai che per Mediaset?

«Mediaset è un’azienda privata e possono fare quello che vogliono. Poi certo, se devo dirla tutta, dopo anni e anni di successi clamorosi mi hanno un po’ dimenticato. In Rai ho condotto molte trasmissioni come Cominciamo bene, poi ho avuto contratti da ospite, ma negli ultimi due anni, invece, niente.

Nella televisione pubblica bisogna sempre fare i conti con due elementi: gli agenti potenti e la politica. Ci si stupisce di qualche conduttore che se ne va, vedi Fazio, ma non c’è niente di scandaloso: si chiama alternanza. E non è certo andato a stare male». […]

Estratto dell’articolo di Costantino della Gherardesca per “il Foglio” il 13 aprile 2023.

[…] Cazzo e figa. Sono l’eterno grande rimosso dell’immaginario collettivo: quasi mai mostrati, ma sempre suggeriti. O almeno così è stato fino a quando sono arrivati i sacerdoti della post-liberazione sessuale. Le persone che predicano la sex positivity e beatificano il nudo come forma di empowerment sono riuscite a realizzare il sogno proibito dei bacchettoni di ogni epoca: hanno disinnescato il sesso. Lo hanno ridotto a una caratteristica identitaria, un trip esclusivamente linguistico, cancellando il corpo.

Storicamente la comunità queer ha sempre voluto allontanarsi dal modello di famiglia imposto dalla società: quello in cui si è costretti a riprodursi solo nell’ambito di una precisa unità economica monogama (maschio+femmina), attenendosi a regole di convivenza talmente rigide che metterebbero ansia anche a un dominionista della Carinzia.

 Le persone queer della mia generazione volevano organizzare concerti acid rock in una comune poliamorosa sull’isola di Oahu, quelle di oggi sognano di essere un parlamentare scandinavo a Strasburgo e, nel frattempo, hanno imparato come far fare yoga al proprio bambino mentre ancora nuota placido, sicuro nell’utero di papà.

 […]

Steve Mcqueen. Ci sono due uomini che l’imperialismo ha dovuto annientare senza pietà per imporre i propri valori. Il primo è stato eliminato in modo tutto sommato onesto e senza troppe false narrative: Saddam Hussein. Il secondo, invece, è stato inizialmente accettato e celebrato per poi essere cancellato, decennio dopo decennio, annientando attentamente ogni tratto della sua personalità: Steve Mcqueen.

Grazie a un’imponente opera di revisionismo storico, i suoi film sono stati rimossi dalla memoria del pianeta e Mcqueen, campione mondiale di autodistruzione, è stato ribrandizzato come testimonial di orologi e abiti sportivi. Nel 1968, mentre i cinema del Sunset Strip proiettavano Bullitt, Steve Mcqueen era impegnato a bere, scopare e assumere quantitativi olimpionici di cocaina, una dieta quotidiana arricchita da una media di due pacchetti di sigarette al giorno.

 Oggi, nell’anno del Signore 2023, se cerchi di scaricare un film di Steve Mcqueen su Stremio, il tuo ip viene immediatamente segnalato alla Commissione europea, che ti farà prelevare da una camionetta nera: un modello di van molto vintage, prodotto esclusivamente in Argentina.

[…]

 Vivere da soli. La solitudine è vista con estremo sospetto. Se hai già commesso il reato di non avere figli, non potrai permetterti anche il lusso di non avere un animale domestico. Che la produca un neonato o il tuo lagotto romagnolo, ciascuno di noi ha il dovere di maneggiare una quota fissa di merda.

 […]

 Risolvere un problema. Un maschio alfa che propone di risolvere un problema nel 2023 è accolto più o meno con lo stesso entusiasmo che si riserva a chi propone un infanticidio. Essendo una controversa manifestazione delle gioie del patriarcato, il maschio aggiustatutto può esercitare la sua funzione solo in assenza, ovvero restando fuori dall’inquadratura. Come in quegli austeri video tutorial in cui, con inquadrature strettissime su mani e attrezzi, un uomo a caso ripara una sedia o sabbia un parafango, senza mai mostrarsi in volto.

Davanti a un problema da risolvere, il maschio deve esercitare un livello di discrezione vicino all’invisibilità. Questo perché, soprattutto in presenza di un etero dominante, anche il problema più semplice smette di essere una condizione temporanea e diventa una qualità inerente all’oggetto/persona/situazione di turno. Per esempio, in tempi lontani trasportare merci da una sponda all’altra di un fiume era considerato un problema concreto, affrontabile con una soluzione altrettanto concreta: un ponte.

 Oggigiorno, poiché la difficoltà non va superata ma celebrata, un rimedio è visto come un’aggressione, e quindi il ponte diventa problematico, perché limiterebbe i guadagni delle tribù autoctone che detengono il monopolio mafioso del traghettamento merci. […]

Estratto dell’articolo di Anna Lupini per lastampa.it il 13 aprile 2023.

Il nome da uomo del Rinascimento è confermato dalla conversazione. Costantino della Gherardesca, presentatore televisivo e opinionista diventato popolare con il programma Pechino Express e più di recente alla guida del format Quattro matrimoni, è una persona dai molteplici interessi, in grado di mescolare piacevolmente l'alto e il basso.

 (…) "Quello che vorrei che fosse chiaro - ci tiene a precisare - è che anche se ho fatto sesso e ho avuto relazioni nella vita, e non ho problemi ad ammetterlo nè tantomeno peli sulla lingua, non sono mai state un nodo centrale della mia esistenza. La musica e l'arte invece lo sono". Quando lo incontriamo, grazie alla tecnologia, Costantino è a Milano nella sua casa "vicino alla Questura, ben felice di vivere in una zona che si addice alle famose sciure milanesi."

 Se le dico "primo amore" cosa le viene in mente?

"Mi viene in mente la musica. Perché ero un ragazzo goffo. Goffo a tal punto che quando decenni dopo ho partecipato a Ballando con le stelle con Milly Carlucci, in un'esperienza quasi meta televisiva che è stata la più divertente della mia vita, la redazione ha ricevuto due lettere da due neurologi, che dicevano "non potete essere così severi, prendere in giro Costantino della Gherardesca, perché si vede che ha problemi di mobilità sin dall'infanzia" (…)

Io ero la goffaggine, non solo con le persone, anche nell'unico sport che si praticava, ovvero il calcetto, perché siamo in Italia. Entravi nell'adolescenza, volevi fuggire dal modello della famiglia tradizionale, se ti sentivi omosessuale, ma allo stesso tempo vedevi in televisione, leggevi nelle riviste, questa realtà dell'AIDS. Amici di famiglia che morivano poco dopo essere diagnosticati. Sentivi storie di persone che venivano trattate come lebbrose, addirittura a New York quando morivano venivano buttati via nei sacchi della spazzatura, non gli veniva data una sepoltura e quindi c'era questa paura, questo terrore misto a una strana emozione.

Perché dall'altro lato c'era la cultura omosessuale che dominava il mondo dell'arte e del teatro in una New York che era ancora culla dell'arte. La cultura omosessuale era la realtà che influenzava tutte le altre, tanto che molti fenomeni tra cui il punk pescavano dall'immaginario omosessuale gay. In un certo senso, anche se eri nella tua cameretta, bastavano le poche notizie che ti arrivavano, bastavano pochi incontri per avere moltissime emozioni. E gli incontri li facevo proprio quando andavo a comprare la musica, perché in quel momento non c'era ancora Napster".

 (…)Quindi è uscito da quella cameretta, ci sarà stato un primo amore.

"L'inglese era la lingua con cui decodificavo il mondo, dai 9 anni in poi. In inglese "love" significa sia "amare" che "voler bene". È un confine più blando, posso amare anche te e il tuo maglione. In italiano invece "amare" si trascina dietro un po' di Garcia Lorca e sinceramente non ho mai vissuto l'amore per le persone come qualcosa di drammatico. Perché ero una persona sempre con molti interessi, con una vita movimentata, viaggiavo tanto anche da ragazzino, ero precoce, non ero una persona che si realizzava grazie al consenso e all'approvazione di un'altra persona. Fortunatamente”.

(…)

Le prime volte sono stato con delle donne. Si pensava che fosse un passaggio da fare. Sì sono omosessuale, molto bene. Ma provo prima con le donne. Era così, anche se ora appare inconcepibile. Sono andato con delle donne, non mi era dispiaciuto, ma verso gli uomini c'erano più sentimenti, appunto perché sono omosessuale e ho avuto con enorme ritardo una cotta per un uomo greco a Londra, credo fosse di Creta, ma è passato molto tempo e non ricordo...

 (...)

 In quegli anni che importanza aveva l'aspetto fisico, forse non si era ossessionati come adesso.

"Non ce ne fregava molto, ma dovevi esser magro. E si soffriva tantissimo perché bisognava esser magri, e io non lo ero mai: ingrassavo perché c'era una tale pressione per essere magri che ti metteva ansia e mangiavi e quindi era una cosa deleteria. Però non mi piacevano gli uomini magri come volevo essere io. Gli uomini considerati fighi in città erano repellenti per me dal punto di vista sessuale. Mi ricordo che ce n'era uno, che al giorno d'oggi è un noto art director che mi faceva il filo e io ci ho provato in tutti i modi a starci insieme ma poi non ce l'ho fatta: era magrissimo, aveva capelli lunghi con la frangia e metteva i tacchi, non lo trovavo sexy. Segretamente mi piaceva Ben Affleck, senza dirlo ai miei amici modaioli, sennò sarei stato radiato dalla cerchia”.

Detto questo, ci sono persone che si realizzano attraverso le conquiste sessuali, i miei interessi erano altri. Non ho peli sulla lingua. Nella mia vita ho fatto sesso, non faccio come quegli attori del cinema che fanno gli eunuchi quando fanno le interviste, però non me ne è mai fregato più di tanto. Più avanti nel tempo uno ha l'idea che se conquisti delle persone che sono dei modelli, dei "manzi" questo ti aiuta. Ma questa è una cosa che accomuna tutti gli uomini, etero o omosessuali, di tutti i tipi. Anche i più radicali progressisti, hanno un piccolo Berlusconi dentro di loro”.

 Ha mai fatto una follia per amore?

Ho fatto follie per l'amore dell'arte. Ho attraversato Manila, cinque ore di macchina, per vedere una mostra di un artista, Apichatpong Weerasethakul, che è anche un regista. Ho sfidato la mia agorafobia in modo brutale per andare alla reunion dei Black Sabbath nel 2000 e sono voluto rimanere fino alla fine per sentire Paranoid, i miei amici si sono molto arrabbiati con me perché si sono ritrovati nella calca e abbiamo impiegato più di un'ora ad uscirne, per l'amore verso la musica reggae sono andato nei ghetti di Kingston, che è una cosa pericolosa perché sono molto omofobi, tanto che per giustificare la mia presenza lì raccontavo di avere una moglie. Cose buffe le ho fatte per interesse verso una determinata cosa. Il massimo della follia per un uomo, invece, è stato avere un amante ad Abu Dahbi, e quindi volavo spesso per raggiungerlo, ma avevo le miglia però, quindi non era così folle. Anche se all'epoca le relazioni in contesti islamici erano una novità”.

Ha detto di recente di non essere molto attirato da una relazione, cos'è che non le va di fare?

Condividere lo spazio con una persona e nello specifico con un uomo comporta compromessi abbastanza fastidiosi. Un uomo, tanto per cominciare, è un uomo: occupa più spazio, puzza di più rispetto a una donna. Lei sa che i peli attirano le zanzare? Alla base del pelo si accumula il sudore ed è una delle cose che attira la zanzara verso l'essere umano. Tant'è che molte volte su consiglio dei medici, facendo programmi all'estero, tra cui anche Pechino Express, ci siamo dovuti depilare completamente. Gli uomini facilmente puzzano, e io tengo moltissimo all'odore, tant'è che l'unica qualità che accomuna tutte le persone che mi sono vicine è che hanno un odore gradevole. Un uomo facilmente russa, l'idea di condividere il bagno...”

Le pesa la quotidianità nel rapporto di coppia?

Se dice quotidianità mi viene direttamente un attacco di panico”.

 Ha detto "dai non belli ci si aspetta troppa dedizione"...

Spero di non essere una spugna marina, ma la cosa che ho che ha sempre interessato i miei partner è il carattere, il fatto che sono un cantastorie, ho qualcosa da dire, da raccontare, da me si aspettano che racconti, che condivida. Una volta ricordo di una persona con cui stavo che si offese perché raccontai un quadro ad un'ospite a una mia cena. È come se dovessi vivere facendo delle presentazioni, dei racconti su un palco, cosa che sinceramente è faticoso. Si aspettano delle performance, un cicerone, invece vorrei essere Salma Hayek”.

 Lucio Dalla cantava "telefona tra vent'anni". Lei a chi vorrebbe telefonare?

Tra vent'anni vorrei avere ancora acceso il boiler che tiene in vita gli interessi e le passioni, come lo avevo a 16 anni, vorrei telefonare ancora a qualche musicista californiano o a qualche artista thailandese, per farmi raccontare la propria visione del mondo in quel momento. Per me la cosa più importante è la ricerca, non voglio usare la parola intellettuale, ma la ricerca di informazioni su quello che esiste nei nostri tempi e anche storiografica”.

Ci ha parlato di arte e di musica. Il cinema fa parte dei suoi interessi?

Non riesco a seguire anche il cinema ma per quel poco che so posso dire che quando eravamo giovani per noi il cinema era il mezzo dove trovavamo le nostre identità, ci ritrovavamo nei personaggi dei film, cosa che adesso non accade più. Non mi ritrovo nell'Uomo Ragno, mentre Matt Dillon nei film di Gus Van Sant era il massimo della vita. Martin Scorsese come regista ha formato il modo di pensare, ancora oggi penso che il suo modo di usare la musica nei film sia stato il migliore di tutti: ha reso popolare il contrasto, magari c'era una scena di una sparatoria con il sottofondo di una brano delle Ronettes o delle Shangri-Las. E' un maestro assoluto, tutto ciò che vedo che non rispetta e o non tiene conto di quello che Scorsese ha stabilito lo guardo con sospetto”.

La differenza maggiore tra gli anni della sua giovinezza e oggi?

Quelli erano gli anni del voyerismo, io vedevo Matt Dillon e volevo ammirarlo. Questi sono gli anni dell'esibizionismo, completamente diverso il modo di pensare. Oggi chiunque vuole farsi vedere, anche se ha tre follower. Noi volevamo guardare nascosti nell'ombra, come guardoni, o come antropologi e questa è la grande differenza”.

(…)

Estratto dell'articolo di Federico Rocca per “Vanity Fair” Il 6 marzo 2023.

l salone doppio di casa sua  è pieno di libri e opere d’arte contemporanea. La sensazione è quella di un ordine maniacale, ma camuffato benissimo. Costantino della Gherardesca è in pigiama di seta rosso e blazer scuro, alle 11 del mattino. Mi accomodo su uno dei divani in pelle blu e mi porge un piccolo bicchiere di ceramica con una tisana.

«È tedesca!».

 Ho letto molte sue interviste.  Le piace raccontarsi?

«Non mi piace raccontarmi, mi piace raccontare: è il mio lavoro. A volte in un’intervista si riesce a farlo meglio che in tv, dove si deve essere estremamente didascalici».

 Googlando il suo nome, come prima ricerca compare…

«Moglie, lo so. Non me lo spiego: forse la gente pensa che sia come uno di quegli omosessuali di potere degli anni ’60 con le mogli farlocche. Sfortunatamente non ne ho una».

 Sfortunatamente?

«Sarebbe molto elegante, talmente paradossale che non sembrerebbe più un triste nascondiglio, come in Lontano dal paradiso. Sarebbe un po’ una cosa alla Leonard e Felicia Bernstein, che stavano assieme per amicizia. In fondo mi trovo meglio con le donne».

 (...)

 Pechino Express ripartirà a breve: dopo 10 anni non si è stufato?

«No, perché il programma è il racconto di decine di nazioni nel mondo. Certo, dipende tutto sempre da quella in cui giriamo. Taiwan è stata indimenticabile».

 Ha mai toccato culture nelle quali si è imbattuto, invece, in questioni socialmente inaccettabili?

«In un altro programma, Le spose di Costantino. In Uganda ho intervistato un attivista per i diritti gay che, nonostante due lauree, aveva deciso di non andarsene, rischiando la vita in un Paese in cui vengono pubblicati nomi e foto delle persone omosessuali esortando la popolazione al loro linciaggio».

 Definirebbe casuale il suo debutto nel mondo dello spettacolo?

«C’è sempre stata una certa intenzionalità. Ho studiato teatro in un collegio dove era passato anche Daniel Day-Lewis. Solo che lui era più bravo. Negli spettacoli per pochi eletti del dipartimento ufficiale ero un cane, ma in quelli pop degli studenti un fenomeno».

 Piero Chiambretti è stato il suo Pigmalione?

«Sicuramente. Mi ha insegnato molte cose sulla tv. Per esempio che non vanno mai fatti preamboli».

 Altri maestri dei primi anni?

«Gianni Boncompagni. E Irene Ghergo: mi ha insegnato che la televisione è donna».

 Non sembrerebbe. Pensiamo anche solo a Sanremo…

«L’unica grande celebrity mai esistita in Italia è Mina. Andava a comprare le banane ed era accerchiata dai paparazzi. Un fenomeno mediatico che definirei ben più importante della conduzione di Sanremo».

 Molto spesso ha dichiarato di lavorare per soldi. Sono davvero così importanti?

«È una cosa che dico per smascherare la gigantesca ipocrisia di chi parla del mondo dell’arte − che sia arte contemporanea o becera tv − come se il denaro non fosse parte della realtà».

Apre lentamente un wafer monoporzione e ancor più lentamente lo gusta, come fosse una delle sue risposte.

 «Non sono economicamente ambizioso, l’avarizia è una delle qualità più spregevoli che esistano. I soldi servono per accorciare le distanze, in tutti i sensi». 

(...)

 Nel 2015 ha detto: «Forse tra due  o tre programmi tv sarò abbastanza ricco per poter pensare ad avere un fidanzato».

«Ho fatto 600 programmi ma sono ancora single. Che meraviglia».

 Non le piacerebbe avere una persona vicina?

«Mi piacerebbe, ma al momento non me lo posso permettere. Ma non per venalità! È un lavoro stare in coppia...».

 

È troppo concentrato sulla carriera?

«Forse ora sono molto più calmo, forse potrei avere tempo per dare attenzione anche a un altro essere umano. Ma per me è molto difficile accettare una persona nei miei spazi privati. Gli uomini poi sono ingombranti. Se almeno fossi eterosessuale e avessi una relazione con una giapponese...».

 Non è obbligatorio condividere il letto.

«Lo pensavo anche io, ma ho imparato a fare questa cosa orrenda che chiamano “compromessi”».

 Ha dichiarato di essere stato innamorato «raramente, forse  solo una volta, ma brevemente».

«Ho fatto davvero di tutto per conquistare questa persona, e ci sono riuscito. Ma con uno sforzo enorme, che se adesso penso a una persona che un po’ mi piace, il ricordo di quella fatica mi fa dire: Ah, sti cazzi!».

 Ma non è mica detto che tutte le volte debba essere così faticoso.

«Da noi, non belli, si aspettano sempre tanta dedizione, tanta».

 È anche giornalista. Che domanda si farebbe per avere una bella risposta?

«Mi chiederei: secondo lei la globalizzazione, che in tanti hanno criticato nei nostri anni formativi − basti ricordare gli scontri di Genova −, è un fenomeno tangibile, esiste realmente?».

Ecco, si risponda.

«No, secondo me l’autarchia è sempre dietro l’angolo. C’è sempre meno attenzione e interesse riguardo alla cultura, all’arte e alla musica, per esempio, lontane».

 Che domanda non si farebbe, invece, per non irritarla?

«Era molto grasso, ora è dimagrito. Come ha fatto?».

 (...)

Che cosa guarda in tv?

«In realtà ascolto molta radio, soprattutto BBC Radio Six».

 Ha un guilty pleasure televisivo?

«Be’, Rai 1. Il canale che più rappresenta l’Italia».

Quali colleghi le piacciono?

«Corrado, il mio preferito in assoluto».

 Viventi?

«Fabio Fazio, una persona molto forte, un ninja. Fiorello è bravo, un talento naturale. Sa sentire e trasmettere l’entusiasmo per il quotidiano, al contrario di me. Milly è bravissima, beneducata, civile».

 Si ritiene chic?

«No».

 Un radical chic?

«Nell’accezione originale del termine, il radical chic era molto ricco. Io non lo sono abbastanza per esserlo davvero. Anche se dicono che lo sia: diciamo che è vero...».

È snob?

«Senza nobiltà... Chi mi conosce pensa che lo sia molto meno  di quanto sembri».

 Lei, poi, nobile lo è davvero.  Trash lo è mai stato?

«Spessissimo, felicemente. Sono cresciuto guardando il trash vero, quello di Divine e John Waters».

 Nel 2018 il titolo di un pezzo di Rolling Stone era: «Costantino della Gherardesca è sopravvalutato». Lei come si sente?

«Guardi, né sopra né sotto: io mi sento valutato per quello che sono. Ma tengo sempre bene in mente quello che Boncompagni diceva: se noi fossimo a Hollywood, staremmo a pulire i gradini dello studio».

Costantino Vitagliano: «Ero nei privé con DiCaprio e uscivo con Beyoncé. Non ho mai fatto il gigolò». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

L’ex re dei tronisti: «Avevo quattro guardie del corpo perché le fan mi strappavano i vestiti. Ora investo nella crioterapia»

Prima pagina del Corriere della sera, anno 2004. Aldo Cazzullo scriveva: «La parte che fu dei giovani Werther e Holden, di Sal Paradise e di Siddharta, dei personaggi in cui una o più generazioni si riconobbero, è in questo tempo di Costantino Vitagliano, 29 anni, detto Costa».

Costantino, se lo ricorda quell’articolo?

«Che anni... Stavo scattando il calendario di Max facevo quello che sognavo quando stavo nelle case popolari. Presentai il mio libro nella piazzetta di Porto Cervo e dovettero chiuderla, c’erano Raiuno, Raidue... Per Flavio Briatore e Bruno Vespa non l’avevano mai chiusa. Pensavo: io non sono nessuno, ho la terza media, veramente riesco a muovere tutta ’sta roba? E, allora, pompavo più che potevo».

Pompava per fare che?

«Soldi, soldi, soldi. Vengo dal nulla. Non ho mai fatto vacanze fino ai 16 anni. Oggi ho la casa a Milano Marittima, ho cose che da piccolo le vedevo sui giornali e in tv. Coi primi soldi, ho fatto andare papà in pensione. Non mi capacitavo di quel successo: in barca da Briatore, stavo con modelle e star di Hollywood, ma i paparazzi cercavano me».

Mi dica una star che snobbarono per lei.

«Non ha capito: arrivavo al Billionaire e c’era la folla fuori solo per vedermi entrare. Arrivavo alle tre di notte, col volo privato, dopo aver fatto il giro delle discoteche d’Italia, tre a sera: solo coi locali fatturavo qualche milione l’anno».

Com’erano le case popolari da cui veniva?

«Palazzoni in via Calvairate a Milano, dove ti dovevi arrangiare ogni giorno. Di quelli che giocavano a pallone con me, qualcuno sta in galera».

Lei come s’arrangiava?

«Io, a 16 anni, sono andato a lavorare nel bar di mio zio. Poi Enzo Jannacci e Paolo Rossi mi hanno preso a lavare i bicchieri al Bolgia Umana e lì sono passato alla sala a fare il ragazzo immagine. Poi mi sono fatto il fisico in palestra, sono diventato cubista, spogliarellista. Però non ho mai fatto il gigolò o il mantenuto o il pornoattore, tutte cose che mi hanno chiesto. Dopo, ho fatto il valletto da Paolo Limiti, ho fatto Casa Vianello. Sfilavo, posavo, portavo il book: 15 anni di gavetta. Ho lavorato pure con Fabio Fazio».

Esplose nel 2003, come tronista a Uomini e Donne, passando poi a Buona Domenica. Il «Costa» nacque da un’idea di De Filippi e Maurizio Costanzo?

«Idee non ce n’erano. Io ero uno dei tanti. Ma Maria, a Uomini e donne, ogni giorno mi dava più spazio: funzionavo».

Era lo sciupafemmine che ne baciava una e diceva: non ho sentito niente.

«Era un mondo diverso. Oggi le donne neanche sanno come lo vogliono un uomo. Quelli che funzionano adesso mi arrivano all’ascella, sono grandi come il mio braccio».

Si fidanzò con Alessandra Pierelli e raccontavate la vostra storia da Costanzo la domenica. Stavate davvero insieme?

«Era tutto vero, in quei 40 minuti di tv. Poi, avevo altre vite, mi beccavano con le ragazze Jacuzzi e ad Ale in diretta, io dicevo che era un set...».

Quando ha capito che era diventato un fenomeno?

«Quando Costanzo mi mostrava i dati di ascolto e mi diceva: tu sei qui, un picco enorme. Poi, a Milano, ho fatto Stranamore, Scherzi a parte . Erano gli anni di Lele Mora e ne ho pagato le conseguenze come tanti della sua agenzia. Vivevo nel palazzo dove aveva la sede lui. Per anni mi ha detto: prima o poi, verrai a lavorare da me. Poi, verso i 26, facevo il muflone a Quelli che il calcio e pensai che stavo diventando vecchio, allora mi feci convincere».

L’episodio più incredibile della sua carriera?

«Trovarmi con Tom Cruise e Brad Pitt fra i corpi più sexy in una lista americana».

Cosa ricorda delle donne?

«S’infilavano nelle macchine, nei camerini. In crociera, ne trovai a letto una vestita da Wonder Woman».

Quello di Mora era un impero e sembrava incarnare tutto il male della tv.

«Per me, è stato come un padre, mi ha fatto scoprire come guadagnare, come apparire. Con lui avevo l’agenda piena per cinque anni. Mi faceva sponsorizzare da testa a piedi: portavo le mutande a vista perché mi pagavano».

Come spendeva i soldi?

«Avevo appartamenti che affittavo, ristoranti, pizzerie. Comprai una Bentley da 240 mila euro, e Ferrari, Lamborghini. Ora l’auto la noleggio se mi serve. Ma vedo gli aspiranti influencer che si fanno la foto davanti alla Ferrari di un altro... Io ho fatto esperienze vere. Questi se li lasci senza telefono che fanno? Io ho vissuto cinque anni a Madrid, Leo DiCaprio stava sempre nel privé con me. Sono stato a petto nudo in consolle mentre Phil Collins suonava la batteria. In Sardegna, uscivo con Beyoncé e Jay Z, mi compravo i diamanti come loro, prima dei rapper di oggi».

Aldo Grasso scrisse su 7: «Quanto tempo ci metteremo per accorgerci che un Paese che ha per eroe Costa è un Paese ridicolo? ».

«Oggi gli idoli sono tiktoker e youtuber. Fanno video brutti, volgari, da diventare ebeti. Io vendevo il bello, loro che vendono? A mia figlia, sette anni, dico: stacca il telefono e fai l’altalena».

Perché visse a Madrid?

«Per gli attacchi di panico. Mi venivano dopo le serate. Odiavo sentir ripetere il mio nome, odiavo trovarmi su tutte le affissioni. Viaggiavo con quattro guardie del corpo, se no tornavo nudo: mi strappavano i vestiti. Quando atterravo a Bari, fuori, c’erano quattromila persone e la polizia doveva chiudere l’aeroporto. Il fisico c’era, ma ha ceduto la testa. A un certo punto mi ero detto: sono a posto per tutta la vita, non ho più bisogno di guadagnare. Ho rallentato, ma sono arrivati gli attacchi. Sono andato a vivere in Spagna, ma sono diventato Costa anche lì e sono tornato».

Le è rimasto abbastanza da vivere di rendita?

«Ho un negozio e appartamenti, ma non so stare fermo: sono socio e testimonial di centri di Crioterapia e ne sto aprendo uno mio a Milano. La crio è il futuro, fa bene a osteoporosi, cellulite, invecchiamento... L’altro giorno sono andato a meno 180 gradi in tre minuti, la pelle è diventata un’altra. Poi faccio sfilate, presento eventi».

Perché non va più in tv?

«Farò una prima serata Rai. Per il resto, non vado perché ormai pagano poco».

Che cosa le manca dei tempi d’oro?

«Avere 27 anni e una vita davanti per spaccare».

Il volo, la castità, le nozze mancate: la storia d'amore tra Cristiana Capotondi e Andrea Pezzi. Novella Toloni il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

La relazione tra Cristiana Capotondi e Andrea Pezzi è nata nel 2006 da un incontro fortuito ed è durata quindici anni. Ma la rottura definitiva, comunicata un anno dopo l'addio, non li ha davvero allontanati

Tabella dei contenuti

 L'incontro su un aereo

 La frequentazione privata

 I primi screzi in pubblico

 Il periodo della castità

 Le voci di una gravidanza

 Le nozze mai celebrate

 L'addio a sorpresa

 La gravidanza di Cristiana Capotondi

 La nascita di Anna e l'annuncio

Nessuno avrebbe scommesso sulla fine della relazione tra Andrea Pezzi e Cristiana Capotondi. La coppia, insieme dal 2006 al 2021, è stata sempre riservata ma molto innamorata. Stima, sostegno e amore sono sempre stati in cima alla lista delle priorità dell'attrice e del compagno che, pur essendosi lasciati, rimangono oggi in ottimi rapporti. A dimostrarlo c'è il gesto fatto da Pezzi un anno fa, rimasto accanto all'ex compagna durante l'attesa della figlia avuta da un altro uomo.

L'incontro su un aereo

È il 2007 e Cristiana Capotondi è reduce dallo strepitoso successo di "Notte prima degli esami di Fausto Brizzi" e "Come tu mi vuoi". Dopo una breve relazione con il collega Nicolas Vaporidis, Cristiana è concentrata sul lavoro, ma durante un viaggio in aereo incontra Andrea Pezzi. I due già si conoscono grazie alla partecipazione dell'attrice alla trasmissione "Kitchen" condotta proprio da Pezzi su Mtv ed è Cristiana a fare il primo passo. "Mi ha rimorchiato", confesserà ironico Pezzi anni dopo.

La frequentazione privata

Pezzi e Capotondi iniziano a frequentarsi al riparo dall'attenzione dei media. I due cercano di mantenere un basso profilo evitando di mostrarsi in pubblico, ma la relazione si fa subito seria e profonda. Cristiana è impegnata nel sociale e sul set del remake televisivo di "Rebecca, la prima moglie" di Alfred Hitchcock al fianco di Alessio Boni e Mariangela Melato. Mentre Andrea, lasciando il mondo televisivo, apre una società - Ovo - che produce documentari video per il piccolo schermo. Intervistata da Visto, però, l'attrice nega di essere impegnata sentimentalmente e si dichiara single: "Sono libera e casta, non me ne vergogno e non me ne preoccupo".

I primi screzi in pubblico

La storia d'amore tra Pezzi e Cristiana Capotondi non è tutta rose e fiori. È il 2013 e la coppia viene sorpresa a litigare in pieno giorno alla stazione Termini di Roma. I paparazzi li immortalano mentre discutono animatamente con tanto di bronci e gesti concitati e le foto finiscono su Novella 2000, che parla di prima crisi per la coppia. Ma si tratta solo di voci e sulla coppia torna il sereno.

Il periodo della castità

È il 2014 e Cristiana Capotondi rilascia un'intervista molto intima al settimanale Oggi, confessando di avere praticato la castità con Andrea Pezzi per rafforzare il suo ruolo di donna nella coppia. "Non sono stata io a chiedere, ma lui a consigliarmi. Intuiva che avevo necessità di crescere come donna: noi siamo spesso dipendenti dall’apprezzamento altrui e per sentirci sicure, forti, belle, ne abbiamo bisogno", confessa l'attrice, che conclude: "Essere casta è esercizio importante per una donna, prova di consapevolezza e libertà".

A spiegare i motivi che hanno spinto la coppia a praticare l'astinenza sessuale è anche Pezzi, il quale racconta: "Durante una cena ci rimase male perché una ragazza di una certa età, molto intelligente, l'aveva dialetticamente messa in crisi. Le ho detto che non era bella come lei e che era normale una cosa del genere con una donna di quarant’anni, così ha deciso di provare con me a capire se riusciva ad avere una relazione meno fisica e più mentale". Per loro la pratica dell'astinenza rappresenta un valore aggiunto alla coppia.

Casta Cristiana: la Capotondi rinuncia al sesso per un anno

Le voci di una gravidanza

Un anno dopo, è il 2014, per la stampa l'attrice è in dolce attesa. Le voci si rincorrono sui settimanali di cronaca rosa e le foto, che la rivista Chi "ruba" alla coppia durante un weekend trascorso a Portofino, sembrano confermarlo. Nelle immagini Cristiana Capotondi si sfiora la pancia in un paio di occasioni, lasciando credere ai paparazzi che è incinta. Ma la conferma della gravidanza non arriva e alla mostra del cinema di Venezia, dove Cristiana e Andrea sfilano insieme mesi dopo, il suo ventre piatto non lascia dubbi. Non c'è alcun bambino in arrivo.

Le nozze mai celebrate

Sui social Andrea e Cristiana condividono poco della loro relazione, ma non mancano alcuni scatti a testimoniare la loro profonda sintonia. Il viaggio in Israele nel 2018 e le vacanze in barca con il mare a fare da cornice al loro amore nel 2019. A maggio del 2019, la Capotondi è ospite di Caterina Balivo nel programma "Vieni da me" e in quell'occasione fa una confessione. "Un giorno chiederò ad Andrea di sposarmi, ormai c'è questo gioco tra noi", ricordando come il primo passo sia stato fatto da lei e dunque anche quello più importante. Ma le nozze non arriveranno mai. In compenso la coppia sfila nuovamente sul red carpet di Venezia e il bacio davanti ai fotografi suggella l'amore.

L'addio a sorpresa

È l'estate del 2021, da un anno Cristiana Capotondi è capo delegazione della Nazionale di calcio femminile dell'Italia e si dedica ad altre attività parallele al cinema alcune delle quali nel sociale. L'amore con Andrea Pezzi è arrivato al capolinea. La stima è profonda ma a unirli non c'è più la condivisione di progetti, così l'attrice e il compagno decidono di separarsi. Logisticamente, però, la coppia rimane a vivere sotto lo stesso tetto e si prende del tempo per comunicare l'addio ufficiale alla stampa. Per tutti sono ancora una coppia.

La gravidanza di Cristiana Capotondi

Gennaio 2022. Cristiana Capotondi scopre di essere incinta. Il figlio è di un uomo che l'attrice ha frequentato subito dopo essersi lasciata con Pezzi (di cui non si conosce l'identità), ma la stampa non sa della fine della loro storia e per tutti la bambina che Cristiana aspetta è di Andrea. La rivista Diva e Donna anticipa in esclusiva la notizia della dolce attesa e Pezzi sceglie di rimanerle vicino per nove mesi anche se le loro vite hanno già intrapreso strade diverse. È il segno che tra loro l'affetto non è mai scemato.

La nascita di Anna e l'annuncio

Il 16 settembre 2022 viene alla luce Anna e l'attrice decide di rilasciare un comunicato stampa ufficiale: "Quando ho scoperto di aspettare un figlio da un’altra persona, la mia lunga relazione di 15 anni con Andrea Pezzi si era interrotta già da diversi mesi. Mi è venuto naturale cercare la protezione e la complicità di Andrea, tanto rimane forte il nostro affetto e il nostro legame". Poche ore dopo arriva anche la nota di Andrea Pezzi a sancire l'addio a un rapporto che non si è mai definitivamente interrotto. "Quando Cristiana ha scoperto di aspettare un bambino, pur non essendo io il padre, mi ha chiesto di restarle accanto nella fase lunga e delicata della gravidanza. Voleva proteggere un momento così importante. Oggi più che mai, a Cristiana va tutta la mia ammirazione e la mia stima", scrive Andrea Pezzi. Di loro, oggi, si sa pochissimo. L'attrice è impegnata a crescere la piccola Anna, che ha compiuto da poco un anno, mentre Pezzi è impegnato nel campo della comunicazione digitale. Al suo fianco non ci sarebbe, però, alcuna donna.

Capotondi e la maturità: «Un disastro il tema. Da allora ho l’ansia del foglio bianco». Storia di Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 20 giugno 2023.   

Parla piano al telefono Cristiana Capotondi, non vuole svegliare la sua bimba, Anna. È una delle attrici più affermate del nostro spettacolo, da poco è anche diventata mamma. Eppure, complice un film diventato un cult per più di una generazione come Notte prima degli esami, per lei è piuttosto facile abbandonare per un attimo i suoi 42 anni e tornare con la mente alla notte che in tanti hanno appena vissuto: quella che ti porta a sentirti grande di colpo, la notte prima degli esami, appunto. «Mi sono trovata spesso a pensarci: sono passati 24 anni da quella notte e 17 dal film, posso dire di avere una doppia maturità».

Come mai la maturità è un passaggio tanto simbolico?

«Rappresenta un passaggio. È un salto quantico: entri nel mondo degli adulti. Ti ritrovi a condividere con tanti quel sentimento di spaesamento legato al pensiero della scelta sul da farsi dopo: smettiamo di essere tutti uguali. Qualcuno inizia a lavorare, sei meno parte di un gruppo».

Lei però aveva già preso la sua scelta, allora. Vero?

«Avevo già iniziato a lavorare, ero una ragazzina con una fortuna in più rispetto agli altri: sapevo cosa volevo fare. Ma il disorientamento l’ho avuto alla scelta dell’università: ho optato per Scienze della Comunicazione per portare avanti il mio lavoro anche se amavo le materie scientifiche. Avrei voluto fare Fisica o Ingegneria Navale, ma c’era la frequenza obbligatoria».

Passano le generazioni ma «Notte prima degli esami» resta un film che parla a chi si affaccia alla maturità.

«Tocca un tema e dei sentimenti universali, tutti ci si sono riconosciuti. Se penso poi a quanti mi dicono di sognare ancora l’esame di maturità, anche a distanza di tanti anni, ecco che si capisce la portata di questa che, di fatto, è la prima prova della nostra vita».

Che studentessa era?

«Studiosa anche se abbastanza indisciplinata: ho sofferto molto il banco, la sedentarietà. Invece amavo le dinamiche della classe, il rapporto con i compagni, quello con i professori. Mi piaceva la vita comune, la scuola è un progetto di condivisione. Finirla significa interrompere quella dimensione: quella quotidianità non ci sarebbe più stata».

La dimensione del set di un film non la rievoca?

«Quella è più la dimensione della gita, in effetti».

E come andò la maturità?

«Ho sbagliato tutto il compito di italiano, sono andata in palla. L’ho consegnato mezzo vuoto, non sapevo cosa scrivere e da allora ho l’ansia del foglio bianco. Solo di recente ho imparato a disinnescare quel meccanismo. Poi mi ricordo la scena meravigliosa di un rotolo di carta igienica che abbiamo visto srotolarsi alla finestra, dal piano sopra: c’erano scritti i risultati della prova di matematica... rivivo l’ansia all’idea che i professori lo vedessero».

Compagni di banco?

«Ho avuto maschi e femmine: passavo dal fare la scritta artistica sul diario alla compagna al giocare a battaglia navale e picchiarsi sotto il banco con il compagno. Per anni abbiamo fatto le pizzate di classe, poi mi sono trasferita».

Un professore che le è restato nel cuore?

«Ne dovrei citare tre: quelli di Storia e Filosofia, di Fisica e Matematica e di Inglese: sono stati dei punti di riferimento capaci di andare oltre l’insegnamento. E mi è rimasta nel cuore anche la mia prima squadra di calcio femminile: quelle partite erano diventate il nostro momento preferito. Ci venivano a bussare in classe per uscire a fare allenamento in cortile. Siamo arrivate ai campionati regionali».

Copiare è ammesso?

«Provare ad aiutare chi ha bisogno, senza sostituirsi a lui, fa parte della maturità... certo, non devi farti beccare anche se credo che anche i prof lo pensino, in fondo».

Alice De André, nipote di Fabrizio: «A 24 anni vivo senza tv, non capisco i talk show. Nonno Faber organizzò una colletta per un tartufo bianco». Anna Gandolfi su Il Corriere della Sera sabato 11 novembre 2023.

Alice de André è la più piccola dei 4 figli di Cristiano, ha scelto di stare a Milano: «Offre molto ma toglie altrettanto. Vivo in un bilocale in affitto, la sera non esco da sola: ho paura». La carriera da attrice, il volontariato con i ragazzi Asperger e le tempeste social

Alice De André, 24 anni, e il nonno Fabrizio De André, scomparso nel 1999

«Eravamo vestite da farfalle: le altre si muovevano leggiadre, io sembravo una falena spiaccicata. Non paga, ho pensato di piantarmi in mezzo al palco e sgolarmi: ciao Milano!!! Mio padre era in visibilio: guardatela, è la nuova Nina Hagen. La mamma - ed è una che mi dice brava, brava, brava - dopo lo spettacolo si è avvicinata: amore, magari cambiamo progetto...».

L’avete cambiato.

«Mamma (Sabrina La Rosa, ndr) era ballerina della Scala, sognava per me un futuro danzante. Dopo il saggio al Carcano - avevo 7 anni - ha gettato la spugna».

Ed eccola attrice.

«Studio teatro da sempre».

Anche se la musica...

«Strimpello. Poi, certo, la musica di famiglia». 

E che famiglia. Alice De André è nipote di Fabrizio, l’indimenticato Faber della canzone italiana, e figlia più giovane di Cristiano, pure musicista. Ventiquattro anni, i tratti del nonno evidenti nel viso, vive a Milano e da attrice si fa strada: sullo schermo la vedremo nella fiction Rai su Paolo Villaggio, a teatro in progetti che si moltiplicano (il 20 novembre al Parioli di Roma con Comedy lab e il 2 dicembre al Politeatro di Milano con Il Cuore). Ancora: il 14 novembre,nell’Aula magna del Palazzo di Giustizia di Milano, parteciperà al racconto della «giustizia secondo de André». «Quando è stato rapito, nel 1979, non si è costituito parte civile contro gli esecutori materiali — ricorda —. I mandanti invece non li ha perdonati: erano benestanti, non sequestravano per sopravvivere e volevano solo arricchirsi».

Che ricordi ha di Faber?

«È morto l’11 gennaio 1999, io sono nata il 12 maggio. Quella al pancione di mamma fu l’unica sua carezza fisica per me. Tuttavia è presentissimo: sono cresciuta con le sue canzoni e i racconti di famiglia».

Un aneddoto a cui è affezionata?

«Si avvicina il Natale: vi piacerebbe la colletta per il tartufo».

Ci piace.

«Il nonno era un godereccio. Stufo di ricevere calze e maglioni ha decretato: fate colletta e regalatemi un tartufo bianco. Da allora, mentre gli altri si accontentavano di una scaglietta, lui si beava della sua cascata profumata nel piatto. Poi ci sono i racconti di Pippo Carcassi: migliore amico di Mauro, fratello del nonno, doveva recuperare Faber e Paolo Villaggio nei carruggi di Genova dove, “per amore di verità”, si fermavano a discutere con le prostitute, con gli ultimi tanto presenti nelle canzoni».

Cosa succedeva?

«Che dovevano arrivare quelli seri, Pippo e Mauro, a tirarli fuori da guai. Anche quando vedo il balconcino della casa a Portobello di Gallura, la stessa in cui mio padre si è rifugiato lasciandosi alle spalle Milano, vorrei viaggiare nel tempo».

Per tornare a...?

«A quando il nonno riuniva in Sardegna Villaggio, Walter Chiari, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni. Si esibivano a turno dalla balaustra, 15 minuti a testa. La scena delle polpette di Fantozzi («Tu mangia?») è nata lì, idem la torta a forma di seno della Grande abbuffata: Tognazzi era un cuoco eccezionale».

Recita nella fiction su Villaggio, amicissimo di suo nonno.

«Vesto i panni di un’amica di gioventù di Maura, la moglie. Divertente: sul set mi sono trovata affiancata dal nonno ragazzo».

Lei vive a Milano ma è nata in Sardegna.

«A Tempio Pausania: mamma e papà erano all’agriturismo L’Agnata. Tempiesa barrosa, mi chiamano ancora oggi. Testarda».

Sull’isola passa molti mesi l’anno.

«Quando torno a Milano è dura. La città dà molto - sfido ad avere servizi come ce ne sono qui - ma toglie altrettanto. Tosta, per chi ha la mia età. Ho amici che non ce la fanno, se vuoi essere autonomo non riesci a mantenerti in questa città. Io ho la fortuna di convivere con il mio fidanzato, dividiamo le spese».

Dove abitate?

«Al Ticinese, in un bilocale in affitto».

È coetanea di chi si accampa protestando per i prezzi delle case.

«Chi tenta di comprare parla di interessi altissimi. Gli studenti stanno in 15 metri quadrati: non è giusto. E ci lamentiamo se i giovani lasciano la città...».

È anche coetanea di ragazze che sui social denunciano aggressioni.

«Un’amica era al parco Sempione con il cane: è stata seguita da un tizio che ansimava e diceva cose irripetibili. Cerco di non uscire sola o, se capita, di stare al telefono. Pensare di crescere a Milano i figli, in futuro, mi preoccupa».

Il teatro per lei è lavoro e non solo: sta preparando un laboratorio con ragazzi Asperger.

«La Scuola Futuro Lavoro di via Ondina Valla, dedicata a chi ha questa particolare forma di autismo, è stata fondata dal compagno di mia madre, Massimo Montini. L’ha voluta pensando a suo figlio Roberto, che ha tre anni in meno di me e considero mio fratello. Quando ero piccola gli parlavo e lui, se non aveva voglia, non mi rispondeva; stavamo a tavola e lui si alzava. Non capivo e rimanevo male. Finché un giorno Roberto - che è intelligentissimo e sui dinosauri potrebbe tenere cento lezioni - è venuto da me e ha chiesto: “Ma perché sono così?”. Allora ho iniziato a capire quanto fosse consapevole, quanto cercasse strumenti che non trovava. Il teatro porta a contatto con sé stessi: ho provato a proporlo. Dopo un percorso pilota - ho visto i ragazzi aprirsi, ho imparato moltissimo - ora terrò un laboratorio tutto l’anno».

La sua è una famiglia allargata.

«Non ce ne stiamo a passare le feste in armonia». 

Qui serve un inciso sull’albero genealogico. Alice è la quarta figlia di Cristiano De André, nata dall’unione con Sabrina La Rosa (che in seguito si è legata a Montini). Cristiano dalla prima moglie Carmen de Cespedes ha avuto altri tre figli: Fabrizia, nata nel 1987, e i gemelli Filippo e Francesca (classe 1990). 

Suo padre parla spesso di lei sui social.

«Abbiamo un bellissimo rapporto. Poi c’è Filippo, va d’accordo con tutti, lo stimo tanto per questo».

Invece Francesca, che ha partecipato anche al Grande Fratello, non ha fatto mistero di turbolenze in famiglia e di litigate con papà.

«Mio parere: certe cose non sono fatte per essere portate in televisione».

L’ha anche detto pubblicamente quando è stato messo in piazza proprio il naufragio della relazione di Francesca.

«E sono stata linciata».

Ma aveva difeso sua sorella.

«Mi fa piacere che sia stato inteso così, perché ho ricevuto critiche in senso opposto. Dunque mi farò i fatti miei: l’egoismo a volte è sano».

Le hanno mai chiesto di partecipare a trasmissioni o salotti?

«Sì. Non fa per me. Salotti in stile D’Urso non li capivo e non li capisco né per chi è oggetto di gossip, né per chi sta a guardare».

Che programmi segue?

«Film, serie. Sono una ventenne senza la televisione. Quando ho traslocato e l’ho mollata è stata una liberazione».

Cristiano De André compie 60 anni: il rapporto con il padre, l’aneddoto su Chaplin, la vita privata, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Il cantautore, figlio di Fabrizio De André e della sua prima moglie Enrica Rignon, è nato a Genova il 29 dicembre 1962

Il secondo nome di Faber

«È un traguardo esserci arrivato, ho superato mio padre di qualche mese, ma mi riesce difficile sentirmi più vecchio di lui. È difficile sentirsi alla sua altezza. Se guardo le foto da giovane lo vedo sempre con lo sguardo del bambino». Così diceva al Corriere qualche mese fa Cristiano De André a proposito del suo 60mo compleanno, che cade proprio oggi. Figlio del cantautore Fabrizio De André (1940–1999) e della sua prima moglie Enrica "Puny" Rignon (1933–2004), è nato a Genova il 29 dicembre 1962 e deve il suo nome al secondo nome di suo padre. Ma questa non è l’unica curiosità su di lui

Il rapporto con il padre

Cristiano e suo padre Fabrizio hanno avuto un rapporto molto burrascoso. Nella sua autobiografia «La versione di C.» il cantautore ha raccontato di un papà spesso assente negli anni della sua infanzia, che vedeva poco perché lui lavorava di notte, dei suoi problemi con l’alcool (una battaglia che anche Cristiano combatterà in età adulta): «Alla fine però esce il senso del perdono - diceva nel 2016 al Corriere -. Che c’era già stato con lui ancora in vita. Essere padre non è nel Dna di tutti. Lui ha avuto problemi nell’infanzia e nell’adolescenza, li ha poi avuti con me e io li ho avuti con i miei figli». Dopo anni turbolenti ci fu un riavvicinamento, quando Fabrizio chiese a Cristiano di lavorare con lui come arrangiatore e polistrumentista nel tour di «Anime salve»: «È stato il periodo più intenso che ho vissuto insieme a lui sia dal punto di vista professionale sia umano. Abbiamo avuto molto tempo per stare insieme, per parlarci come non avevamo mai fatto, per conoscerci meglio. Per fortuna c’è stato questo momento altrimenti oggi avrei il rimpianto di non averlo vissuto».

L’aneddoto su Charlie Chaplin

Cristiano De André ha raccontato in questa intervista al Corriere un curioso aneddoto della sua infanzia: «Una sera, al ristorante dell’Hotel Beau-Rivage di Losanna. Avrò avuto 5-6 anni. Mi accompagnò in fondo alla sala dove c’era un uomo di una certa età che mi fece salire sulle sue ginocchia. Era Charlie Chaplin. Che inforcando due panini con le forchette mi fece la famosa danza dei panini del film “La febbre dell’oro”. Sono cose che ti rimangono impresse per tutta la vita».

Gli inizi come cantautore

Il primo incontro di Cristiano De André con la musica risale a quando aveva 12 anni: «Mi chiudevo in camera e suonavo la chitarra, mi allenavo per ore - ha raccontato sempre al Corriere -. Poi grazie a una compagnia di ragazzi di Genova imparavo nuovi accordi, quelli che mio padre non mi voleva insegnare. Diceva che con il mio cognome fare il suo mestiere non sarebbe stato facile. Avrebbe preferito che frequentassi veterinaria così mi sarei occupato dell’azienda agricola di Tempio Pausania. Io ho insistito, discutevamo. Poi alla fine mi ha iscritto al conservatorio di violino, però...». Nei primi anni Ottanta Cristiano fonda i Tempi Duri con alcuni musicisti di Verona e, in seguito allo scioglimento del gruppo, nel 1985 il cantautore partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo con la canzone «Bella più di me». Arriverà quarto nella sezione Giovani, ma vincerà il Premio della critica.

Sul palco dell’Ariston

Cristiano De André tornerà al Festival di Sanremo dopo otto anni, nel 1993, con il brano «Dietro la porta»: arriverà secondo e otterrà il premio della Critica e il Premio Volare («Questa è la seconda soddisfazione che mi dai dopo il dentice pescato a sei anni! Complimenti C., sono orgoglioso di te», gli disse suo padre all’epoca). Nel 2014 parteciperà ancora a Sanremo con «Invisibili», e otterrà il Premio della Critica Mia Martini e il Premio Sergio Bardotti per il miglior testo.

II docu-film

Nel 2021 è arrivato al cinema «DeAndré DeAndré - Storia di un impiegato», opera prima da regista di Roberta Lena: il docu-film, presentato alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Fuori Concorso, ha come protagonista Cristiano De André, che ha riproposto al pubblico italiano in un tour durato due anni il concept album di Faber «Storia di un impiegato».

Vita privata

Il cantautore ha quattro figli: dalla prima compagna Carmen De Cespedes ha avuto Fabrizia (1986, che lo ha reso nonno nel 2018) e i gemelli Filippo e Francesca (1990). Con quest’ultima il rapporto è molto tormentato: «È un momento difficile per Francesca, lo è sempre stato - diceva qualche mese fa Cristiano al Corriere -. Mi auguro che riesca a capire un po’ di cose e a mettere la testa a posto. Purtroppo viviamo in una società dove oggi si può avere successo raccontando il peggio di se stessi. E questo forse è il punto più basso che abbiamo raggiunto». Dalla relazione con Sabrina La Rosa è nata Alice (1999). Parlando sempre della vita privata di Cristiano De André è stata molto chiacchierata in passato la relazione con Alba Parietti, un legame speciale, oggi quasi fraterno: «Quando ti vedo, vedo una parte di me, fai parte di tanti ricordi di tante vite incrociate insieme, di tanti momenti indimenticabili o meno che ci fa piacere ricordare - ha scritto su Instagram lo scorso anno la showgirl, che conosce il cantautore da 40 anni -. Sono passati anni, ci siamo vissuti in tutti i modi, come amici, come amanti e adesso ci siamo finalmente ritrovati come fratelli per la vita».

Giusy Cascio per “Tv Sorrisi e Canzoni” - Estratti martedì 7 novembre 2023.

Nelle radio impazza “Ancora ancora ancora – Mark Ronson remix”, la versione del celebre produttore e dj inglese del mitico brano portato al successo da Mina nel 1978 e scritto da Cristiano Malgioglio. 

Una hit senza tempo che, reinterpretata musicalmente da Ronson, è stata scelta dalla casa di moda Gucci come colonna sonora delle sfilate all’ultima settimana della moda di Milano. 

«E così è diventata un successo planetario, sensualissimo» dice Malgioglio, che sul brano ha delle rivelazioni esclusive da fare a Sorrisi... 

Cristiano, lei è entusiasta della cover di Mark Ronson, molto moderna. La trova rispettosa dell’originale, con il suo testo e la musica di Gianpietro Felisatti e l’arrangiamento di Alberto Nicorelli?

«Estremamente rispettosa. Mark Ronson ha saputo colorare una melodia già bellissima e struggente rendendola ancora più coinvolgente con una ritmica meravigliosa. Ha reso il brano maestoso. Ma nel mondo lui è il numero uno degli arrangiatori».

Quindi lo conosceva già? Magari siete anche amici?

«Lo conoscevo di nome, di fama. Perché Ronson ha lavorato con grandi artiste: Amy Winehouse, Britney Spears, Christina Aguilera, Beyoncé, Lady Gaga, e Miley Cyrus... Tante volte in passato ho pensato che sarebbe stato bellissimo che fosse lui a remixare un mio pezzo. Il destino ha esaudito un mio grande desiderio. E chissà, magari adesso avremo l’occasione di incontrarci e diventeremo amici». 

Che effetto le fa sapere che il brano è stato scelto da Gucci come colonna sonora per le sue sfilate?

«Sono felicissimo, perché adoro la moda e da sempre amo sperimentare, giocare con gli abiti e divertirmi con i look stravaganti. I miei stilisti di riferimento, fin dagli Anni 70 e 80, sono stati il giapponese Kansai Yamamoto e il francese Jean-Paul Gaultier. Grazie alla sfilata di Gucci, anche Julia Roberts si è incuriosita e ha apprezzato il remix di Ronson: “Di chi è questa splendida voce?” si è chiesta. E ora anche i ragazzi più giovani, compresi gli stranieri, cantano Mina grazie a una mia canzone di 45 anni fa».

Ma com’è nato il testo di “Ancora ancora ancora”? Ci racconti tutti i dettagli.

«È una storia bellissima e molto travagliata, a dire il vero. In quel periodo io avevo scritto un brano per Mina che mi sembrava perfetto. Mi ricordo ancora il nostro incontro, aveva un vestito bianco a fiorellini e una pelle bellissima, bianchissima. Era stupenda, soprattutto grazie alla sua risata inconfondibile e contagiosa. 

La canzone si intitolava “Io ti amo da allora” e avevo dato a Mina il testo che ho il piacere di pubblicare adesso su Sorrisi, come regalo per i vostri lettori. Peccato che a Mina non piacesse: “Fattelo fritto!” mi disse. Desiderava qualcosa di molto più sensuale da cantare sul palco della Bussola (storico locale a Marina di Pietrasanta, in Versilia, ndr)».

Quindi?

«Quindi Mina mi diede 24 ore di tempo per portarle un testo nuovo. Sono tornato a casa disperato per la sua bocciatura, per quel rifiuto. Ricordo che mi misi a piangere. Non sapevo proprio da che parte cominciare. Ero chiuso in cucina, a mangiare grissini e parmigiano, mi sembrava di non avere più idee». 

E invece?

«E invece a un certo punto suonò il telefono, in modo... insistente. Io all’inizio non volevo rispondere, perché poteva essere una delle mie amiche cantanti famose che rompeva le scatole in quel momento difficile. Poi invece ho pensato alla mia povera mamma, che era lontana, in Sicilia: “Magari è lei”, mi sono detto. E ho alzato la cornetta con la tachicardia rispondendo non “pronto?” ma “mamma?”». 

Era davvero lei, la signora Carla, la sua mamma?

«No, non era lei. Era un’altra persona, che conoscevo benissimo. Sono rimasto pietrificato: ho sentito la voce di un mio vecchio amore, la storia più bella della mia vita che era finita sei mesi prima. E con un sussurro mi ha chiesto: “Ma tu, mi ami ancora?”. Io gli ho risposto di sì. E di nuovo, quella sua voce: “Dimmelo ancora, ancora, ancora”. E in un istante è stato di nuovo l’amore più straordinario, passionale e fortissimo di sempre». 

Quando ha messo giù il telefono che cosa è successo?

«Ho mollato il parmigiano e i grissini e ho scritto il testo di “Ancora ancora ancora” in due minuti. L’ho portato alla casa discografica di Mina in tempo, l’indomani, anche in meno di 24 ore. Era struggente, proprio come voleva lei. L’ho capito dai suoi occhi che mi sorridevano. Il resto è storia». 

L’ha mai rivisto, all’epoca, quel suo grande amore?

«Certo che l’ho rivisto, ma come tutte le cose belle poi la relazione è finita, tempo dopo». 

Ma oggi quale altra artista potrebbe cantare “Ancora ancora ancora”?

«Anni fa Liza Minnelli mi ha confidato che l’avrebbe cantata volentieri. Le sarebbe piaciuto farne un duetto insieme con Mina. Ma loro non si sono incontrate. Oggi? Servirebbe una voce possente, un po’ “sporca”: a me non dispiacerebbe Anastacia». 

Voci italiane?

«Non vedo artiste adatte. Se fosse ancora in vita, Giuni Russo sarebbe perfetta, la sua voce era unica». 

(...) 

IL PRIMO TESTO BOCCIATO DA MINA:  IO TI AMO D’ALLORA 

Sono notti che ti aspetto

Con chi stai maledetto tu

Questo amore è così incerto

L’ho vissuto allo scoperto, sì

So che l’altra sta godendo

Mentre io sono a pezzi, qui 

Sento addosso il tuo sudore

e quel bacio pieno di dolore perché...

Io ti penso d’allora Nel mio letto d’allora Che momenti allora Eri mio allora

Se dormivi allora

Ti guardavo allora

Non mi sentivo sola

Eri la vita allora... 

Devo uscire, devo andare

Devo solo dimenticarti, si

Ti ho amato maledizione

ero solo la tua seduzione per te

lo ti penso d'allora 

Nel mio letto d'allora

Che momenti allora

Eri mio allora

Se dormivi allora

Ti guardavo allora

Non mi sentivo sola

Eri la vita allora.

LA VERSIONE DEFINITIVA APPROVATA E CANTATA DA MINA 

Se vuoi andare ti capisco

se mi lasci

ti tradisco, sì.

Ma se dormo sul tuo petto

di amarti io non smetto no, no, no 

Tu stupendo

sei in amore

sensuale sul mio cuore, sì

se poi strappo un tuo lamento

è importante questo mio momento solo perché... 

Io ti chiedo ancora

il tuo corpo ancora

le tue braccia ancora

di abbracciarmi ancora

di amarmi ancora

di pigliarmi ancora

farmi morire ancora

perché ti amo ancora. 

Confusione è la tua mente quando ama completamente, sì, con le sue percezioni

mette a punto le mie

[inclinazioni

solo perché...

Io ti chiedo ancora

la tua bocca ancora

le tue mani ancora

sul mio collo ancora di restare ancora consumarmi ancora perché ti amo ancora ancora ancora ancora.

Estratto dell’articolo di Betta Carbone per “Diva e Donna” mercoledì 18 ottobre 2023.

Se hai Cristiano Malgioglio, dall'altra parte del telefono, pare sempre di avere, con lui, un esercito di dive. «La mia amica Carla Bruni, la mia amica Ursula Andress, la mia amica Jennifer Lopez». Lui, che da 50 anni scrive canzoni per nomi come Mina, Patty Pravo, Vanoni, è davvero il miglior amico che ogni famoso vorrebbe avere. Pare che Rocco Siffredi, per la serie tv autobiografica, volesse la canzone più celebre scritta da Malgioglio, Ancora, ancora, ancora: «L’ho sentito anche io», fa il modesto Cristiano; uno dei pochi che quando lo stai intervistando, hai dietro la claque delle figlie adoranti.

«I giovani mi vogliono bene, mi fermano per strada, mi acclamano. Specie quando dico alle famiglie di abbracciare i propri figli se sono gay», confida. Ma la confidenza che oggi Zia Malgi vuole affidarci è un’altra. 

Riguarda qualcuna delle sue mitiche amiche?

«Sì, Jennifer Lopez. Sono un suo fan accanito da sempre, l’unica per la quale potrei diventare etero. La prima volta che l’ho vista, eravamo entrambi ospite a Tele Madrid, nel 1997, lei era agli inizi e io pensai subito: “Che talento meraviglioso, che femminilità!”. Poi l’ho rivista a Sanremo, nel 2010, lei era con il marito Marc Anthony, un cantante che amo alla follia.

Ma quella volta volevo incontrare lei! Le mandai un mazzo di rose bianche, e JLo dopo che si esibì mi venne a cercare dietro le quinte: “Dónde está Cristiano?”, alla faccia del suo staff che non faceva avvicinare nessuno. Così, tempo dopo, decisi di tatuarmi una rosa e il suo nome, JLo». 

Un tatuaggio dove?

«Sulla gamba. Pensai di coprirci anche un neo. Vado da questo tatuatore e mentre sono lì, all’improvviso, dico: “No, fallo più spostato, non coprire il neo”. Non so perché, sentii come una voce che mi disse così. Poi, sei anni fa, succede una cosa strana. Io dovevo partire per la promozione della mia canzone 

Mi sono innamorato di tuo marito, un grandissimo successo. Avevo la tv accesa, e io non l’accendo ma, e vedo questo medico, il professor Mercuri, che parla di nei, dei controlli da fare. Mi stavo vestendo dopo la doccia, vedo quel neo sulla gamba, non coperto col tatuaggio, e penso:

“Devo farmelo vedere”. Riesco ad avere un appuntamento con questo professore bravissimo. “Deve operarsi subito”, mi dice. Ma come? Devo partire, mi aspettano in Brasile per il mio disco, dico. Niente, non partii, mi operai subito. Era un melanoma, quel neo. Tempo dopo il professore mi disse che avevo 5 mesi di vita. 

Vedi, non possono essere coincidenze: io quel neo lo notai la prima volta per quella storia del tatuaggio di JLo. Poi decisi di non coprirlo, per uno strano impulso. Poi, per caso ho sentito in tv quell’invito a controllarsi i nei. Allora penso che davvero JLo e il professore mi hanno salvato la vita. E a tutti dico fate prevenzione, fate tutti i controlli, sempre! È importante. Non sarei qui oggi».

E oggi è uno dei pochi volti tv presenza fissa sia su Rai Uno, a Tale e quale show, sia su Canale 5, dove Maria De Filippi l’ha riconfermato ad Amici.

«In tv ho due mamme. Con Mamma Rai sono nato e cresciuto. Mamma Mediaset mi ha adottato. Ho sofferto per tante porte chiuse in faccia, ma ho se- minato bene. E un bravo professionista, prima o poi raccoglie». […] 

E Maria De Filippi?

«Mi piace assai. Che professionista, che sensibilità! Mi ha emozionato riconfermandomi, non ci credevo. Per lei ho rimandato un progetto in Spagna. Anche se mi chiamasse Pedro Almodovar per fare un film, il mio sogno da una vita, per Maria gli direi di no!».

Si rivede nei giovani di Amici?

«Beh, loro hanno delle opportunità pazzesche. A me chiudevano tutte le porte in faccia. Avevo già la faccia dipinta, come oggi quel cantante, aspetta, bravo eh... Ah sì, Achille Lauro. Ma io con il look ho fatto già tutto. Mia mamma mi diceva: “Ma non diventerai mai come Gianni Morandi”. E Io: “Mamma, ma io voglio diventare Cristiano Malgioglio!”. E ce l’ho fatta. Perché sono sincero. 

Non ho mai finto di essere ciò che non sono. Per esempio: Io quando scrivo canzoni, mi sento donna, scrivo da donna e solo per le donne. Infatti ho un sacco di amiche donne, che se raccontassi in un libro tutto quello che so di loro... diventerei ricco. Ma non tra- disco le mie amiche».

E da qualcuno si è sentito tradito?

«Diciamo che mi è dispiaciuto molto che nel suo libro Miguel Bosé non si è ricordato che per lui mi sono speso tantissimo: i discografici non lo volevano perché, diciamolo, non è che avesse una grandissima voce. Mi ricordo che una volta telefonò a sua mamma, Lucia Bosè, con me davanti, e le disse: “Malgioglio vuole scrivermi una canzone”. E la madre: “Ma figurati! Lui scrive per Mina, mica per uno come te!”».

E del suo amore turco che cosa ci dice?

«Quando vado a Istanbul, dove ho questa casa che amo, stiamo benissimo. A distanza le storie durano perché è sempre come se fosse la prima volta. Solo che lui parla solo turco, nemmeno una parola di inglese. Io non capisco nulla di quello che mi dice. Ma per fortuna comunichiamo con le carezze».

Estratto dell’articolo di Anna Paola Merone per il “Corriere del Mezzogiorno” giovedì 10 agosto 2023.

«Ho voluto rendere omaggio a Federico Salvatore. Un grande artista scomparso troppo presto, un poeta non compreso fino in fondo che avrebbe meritato ben altro successo». Cristiano Malgioglio ha inciso Sulla porta, la canzone che nel 1996 il cantautore napoletano portò a Sanremo. […] 

[…] Dal 1996 ad oggi, sul fronte dell’omofobia, qualcosa è cambiato?

«Non ne sono così sicuro, non siamo su una strada in discesa. Questo pezzo mi ha colpito perché racconta l’omofobia che esiste in molte famiglie, che ferisce di più di quella che si incontra fuori casa. Ci sono ancora madri che buttano in strada i figli omosessuali — ed è successo di recente a Napoli — una cosa orribile. E al Nord accade più che al Sud». 

I suoi come hanno preso la sua omosessualità?

«Io ho vissuto un miracolo. I miei genitori sono stati felici. Non ho mai avuto problemi, neanche nel lavoro. Senza scadere nella volgarità bisogna poter essere quello che si è, ovunque». 

[…] Che estate sarà la sua?

«Ho in programma alcune serate e a settembre c’è l’uscita del mio disco con Bungaro. L’ho rinviata a dopo l’estate per non mischiarmi ad una serie di tormentoni stile reggaeton che è giusto abbiano il loro spazio insieme a giovani che cercano notorietà. E poi sempre dopo l’estate ricomincia Tale e quale show con Carlo Conti».

Come si chiama il suo disco in uscita?

«Vita porno. Ma non il porno nel senso di quello che si può immaginare. Porno in senso ironico, per sottolineare quello che sta accadendo in questo mondo. Con le nostre vite esposte, urlate. Una forma di pornografia in senso lato. Un pezzo ballabile che fa riflettere». […]

Dagonews il 17 febbraio 2023.

Cristiano Malgioglio, ospite di Nunzia De Girolamo nella prossima puntata di Ciao Maschio in onda domani in seconda serata su Rai1, è tornato su alcune sue dichiarazioni contro i baci omosessuali in pubblico e i matrimoni gay.

 Nel 2014, ospite de ‘’La Zanzara’’ dichiarò: ‘’ Due uomini non devono baciarsi in strada. Ci sono i bambini. Se avessimo più pudore potremmo ottenere tantissimi risultati", aggiungendo di non battersi per il matrimonio tra omosessuali: "Mi sembra una battaglia antica, vecchia. Io non mi sposerei mai e non adotterei mai dei bambini’’.

 A distanza di anni, Malgioglio ritorna su quelle frasi e, senza mezza termini, le definisce ‘’infelici’’. ‘’Dissi quelle cose, perché poco tempo prima - chiosa - mi trovato con i miei nipotini che, vedendo due persone dello stesso sesso baciarsi per strada, mi chiesero delle spiegazioni’’.

Che fatica l’egocentrismo di Cristiano Malgioglio. Beatrice Dondi su L’Espresso il 19 dicembre 2023.

Presente in ogni canale, ospite in ogni programma e ormai anche padrone di casa. Votato duramente a parlare di sé. Sempre e comunque. Altro che Sisifo

La prima volta che Ted Neeley indossò la tunica di Jesus Christ Superstar era il 1973. Cinquant’anni dopo è ancora lì, in giro per i teatri, a moltiplicare pani, pesci e canzoni, con la differenza che ormai alla fine dello spettacolo benedice il pubblico in sala, ormai posseduto dalla parte. Ecco, più o meno la medesima sindrome che ha colpito Cristiano Malgioglio.

Sarà perché la radice del nome è la stessa, sarà anche che in tv c’è talmente bisogno di un’idea qualsiasi che ci si fa andare bene parecchio, sta di fatto che da quando il paroliere di chiara e meritata fama si è buttato nel piccolo schermo è rimasto incastrato per amor di share dentro un ego smisurato, come quei costumi gonfiabili dove per muoverti devi portarti in giro sfilze di addominali non tuoi.

Cintura nera di amicizie («L’ho vista, l’ho incontrata, l’ho abbracciata»), divino tra le divine («Meloni settima donna più potente secondo Forbes, sai chi è la prima? Io») e cugino di terzo grado di Lady Gaga, appare in tv a un ritmo tale per cui ci si aspetta di vederlo nei videocitofoni a breve, costretto a recitare una litania senza sosta, neanche fosse la poesia di Natale in piedi sulla sedia.

Così col suo bagaglio linguistico atipico e quel vezzo di ordinare le consonanti in modo del tutto casuale, sposta le sue acconciature impegnative da “Ballando” a “Tale Quale”, e poi Cattelan, Venier, De Filippi, Fiorello, Fialdini.

E più aumentano le apparizioni più il nostro ragioniere di nascita, autore di canzoni indimenticabili di crescita e capace di passare da “L’importante è finire” a “Danzando Danzando mi sono preso Fernando”, si incastra dietro gli occhiali scuri, per ricominciare con l’auto citazione del giorno dopo. Come un Sisifo disinvolto, porta sulle sue spalline il peso della responsabilità perché, dicono, il personaggio funziona. Anche se per cosa non è ancora dato saperlo.

Monocorde nei complimenti («Bellissimo, meraviglioso» a tratti anche «Stupendo»), nelle stroncature si fa più creativo (il suo “J Lo da discount” all’Eurovision ha scatenato una crisi diplomatica con la Spagna), ma è talmente abituato a parlare di sé che nella relazione con gli altri gli scappa da ridere. Inevitabile dunque che gli affidassero anche un programma di interviste tutto suo (“Mi casa es tu casa” su Rai Due) dove fa le domande all’ospite solo per affrettarsi a rispondere in sua vece. Che lavoraccio, o come direbbe qualcuno, una vera croce.

Dagospia il 14 gennaio 2023. Da I Lunatici 

Cristiano Malgioglio è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte su Rai Radio2 (anche sul 202 del digitale terrestre) da mezzanotte alle quattro, live su anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa.

 Malgioglio ha parlato un po' di se: "Sono molto cattolico, ho un rapporto con la religione molto forte anche se non sono un praticante. Credo molto, credo in Sant'Antonio che per la mia vita è stato qualcosa di miracoloso, così come è stata miracolosa la Madonna. Nella Madonna rivedo mia madre. Voglio andare a Fatima, ci vado spesso, è una cosa mia che porto nel cuore e che spero di trasmettere anche ai miei amici.

Se mi è mai capitato un miracolo? Sì, cinque anni fa. Avevo inciso il pezzo 'Mi sono innamorato di tuo marito', stavo per partire per il Brasile. Un giorno stavo spalmando crema sulle gambe dopo aver fatto la doccia, avevo visto un neo di cui non mi ero mai accorto. Accendendo per puro caso la televisione, trovai un programma in cui il Prof. Mercuri stava parlando proprio dei nei. Mi sembrò una strana coincidenza, cercai di fissare con il professore un appuntamento il prima possibile, ci andai, gli raccontai di questo neo e del fatto che sarei dovuto partire per il Brasile.

Mi disse che bisognava toglierlo subito e che poi avrebbe dovuto controllarlo. Grazie a Dio non ho dovuto fare la chemio, sono stato miracolato, quando sono stato a Fatima alla madonnina non ho chiesto assolutamente nulla. Quel neo se non fosse stato trattato così in quel momento forse adesso mi avrebbe impedito di essere qui a parlare. Bisogna fare prevenzione, è importante".

 Sul Malgioglio da bambino: "Ero una bambola elettrica. Non stavo mai ferma, saltavo ovunque, ballavo ovunque, la maestra chiamava sempre a casa perché non stavo mai calmo. Quando mi sono accorto che avrei fatto questo lavoro? Quando mia madre mi ha partorito. Ci sono nato. Ero un neonato e già pensavo di diventare una starlette.

In me c'è sempre stato qualcosa di diverso dagli altri. Magari i bambini andavano a giocare a pallone, io restavo a leggere i giornali d'attualità. Avevo preso una cotta incredibile per Marlon Brando. Come se fosse stato la mia fidanzata. Gli dedicai anche una canzone. Sono stato il primo a parlare di omosessualità nelle canzoni. Se lo facessi adesso penso che non lo accetterebbero. Alla mia epoca era molto più facile cantare certe canzoni.

 Prima eravamo più liberi nel linguaggio, ora bisogna stare attenti a quello che si dice. Basta una cosa da niente per far esplodere una cosa. Io non conosco la volgarità, questo mi salva. Non conosco le parolacce, ho avuto una grande educazione".

Su alcuni suoi testi: "Su l'Importante è finire' o 'Ancora ancora ancora' o 'Gelato al cioccolato', ci hanno fatto una favola. Non sono stato in Africa, così come non è vero che 'L'importante è finire' si sarebbe dovuta chiamare 'L'importante è venire'. Io ero diverso dagli altri, all'epoca si cantavano canzoni tipo 'Finché la barca va', io amavo essere crudo. Ma ho sempre usato una sensualità elegante".

 Sulle star incontrate: "In quarant'anni di lavoro, ho voluto far crescere un Cristiano Malgioglio diverso da tutti gli altri. Ho sempre cercato un'immagine, sono riuscito ad essere il personaggio che avrei voluto essere. Ho incontrato Cameron Diaz. Una volta quando arrivò Jennifer Aniston, le chiesi come avesse fatto a farsi scappare un bonazzo come Brad Pitt. Lei si mise a urlare in un modo che mi ha sconvolto. Ho ancora il suono di questa voce stridula di questa donna che mi rimproverava per averle fatto quella domanda".

Su 'Mi casa es tu casa': "Adoro Tale e Quale show e ho adorato Mi casa es tu casa. Mi ha fatto male che i critici mi abbiano dato dell'egocentrico. Non lo sono. Sono molto timido. A Milano abito in centro, alcune volte prendo strade sconosciute per non farmi riconoscere. In qual programma ero a casa mia, parlavo con i miei amici. Io non sono un intervistatore o un giornalista. Mi piacerebbe riprendere questo programma, partito sotto i Mondiali, sotto alle feste di Natale, ma è stato un programma elegante, bello, con personaggi tipo Mara Venier che mi hanno emozionato.

Anche Chiambretti e Pieraccioni mi sono piaciuti molto, come ascoltare i racconti di Ilona Staller donna e madre. Mi è dispiaciuto quanto accaduto con Heater Parisi sul suo rapporto con la Cuccarini. Ci sono rimasto molto male. Avrebbe potuto dirmi la verità. E' come se mi avesse preso in giro. Spero in futuro di poter avere anche la Cuccarini, la adoro, ma senza parlare di questa situazione, perché ormai è passata. Doveva venire Anastacia, ma ha avuto dei problemi".

Sul 2023: "Mi sposo! Ma pensa se quello che mi vuole sposare non lo fa perché mi ama ma perché vuole la mia eredità. No, scherzo. Mi voglio sposare con me stesso. Mi godo 'Tale e quale show"; poi spero di andare a Liverpool insieme a Gabriele Corsi, per l'Eurovision. Cosa farò dopo non lo so. Sto scrivendo un libro ma ho paura di farlo pubblicare, è molto forte nei contenuti. A volte ho questa forma di timidezza"".

Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" il 10 luglio 2022.

Dietro l’immagine di uno dei personaggi più sfavillanti dello spettacolo italiano, c’è la storia di un ragazzo siciliano cresciuto in una famiglia molto riservata. «Nessuno mi ha mai chiesto nulla in casa, rispetto alla mia sfera più privata — racconta Cristiano Malgioglio con quella parlata che è ormai parte della sua firma —. Da ragazzo, avrò avuto 15 anni, tappezzavo la mia camera con le immagini dei divi americani che amavo: James Dean, Montgomery Clift... mio padre si limitava a chiedere a mia madre perché suo figlio appende tutte queste foto e lei gli rispondeva: “ Vedrai che gli passerà”».

Oggi ha sul comodino una foto di Channing Tatum, e non è una battuta. «Lo amo», è il commento. E tanto basta. Cristiano Malgioglio è così: autenticamente simpatico, con una mente veloce al servizio di una miniera di racconti. «So di avere una doppia immagine: quando sono in scena mi trasformo rispetto a chi sono nella vita di tutti i giorni, in cui al massimo vado a fare la spesa al supermercato... ho solo un problema quando mi trovo davanti ai pomodori».

Prego?

«Non posso non fermarmi a guardarli, adoro tutto ciò che è rosso. Anche quando vedo un’anguria aperta non mi so trattenere, è come se fossi di fronte a un gioiello, divento pazzo. Ho chiamato un mio amico analista e gli ho chiesto: ma che devo fare per questo problema? Mi ha detto: ti fa stare bene? Benissimo, allora continua a guardare pomodori».

La sua carriera è iniziata grazie a un incontro fortunato: Fabrizio De Andrè.

«I miei non volevano facessi questo lavoro, quindi non mi davano soldi. Così sono andato a lavorare in posta, smistavo i telegrammi. Avevo scelto però di spostarmi in Liguria, un po’ perché mia sorella abitava a Genova e un po’ perché lì c’era Gino Paoli: avevo scelto l’ufficio postale del suo comune perché il mio sogno era vederlo, dopo che per anni da ragazzino mi cullavo con la musica delle sue canzoni. Facevo le scuole serali e al mattino andavo a lavorare in posta».

 In quegli anni ha conosciuto De André.

«Lo andavo a disturbare in continuazione. Un giorno mi ha ricevuto e sono riuscito a fargli sentire le mie canzoni. A quel punto mi aveva promesso di farmi conoscere il capo della Ricordi, a Milano, e sapendo che non avevo soldi nemmeno per il treno, mi aveva pagato il biglietto in prima classe, una meraviglia. Lì, ho conosciuto Dori Ghezzi: li ho fatti incontrare e da quella sera non si sono più lasciati».

E per lei? Cosa rappresenta l’amore?

«In famiglia non ne ho mai parlato. Mia madre quando mi vedeva arrivare con qualcuno mi diceva cose del tipo: questo tuo amico non mi piace, questo mi sta simpatico. Nulla più. Solo un mio nipote, di recente, mi ha chiesto: ma tu ce l’hai un uomo? Non mi ero mai sentito dire una cosa del genere e mi ha fatto un certo effetto. Gli ho risposto che sì, ce l’ho. Ho una bella storia con un ragazzo che vive a Istanbul, anche se la pandemia ha un po’ distrutto il feeling. Stare ogni sera a gesticolare davanti al cellulare — perché lui parla solo turco e io no —, mi ha fatto venire i reumatismi alle braccia. Ora abbiamo ripreso a vederci, vorrei prendere una casa lì».

Ha mai avuto il desiderio di sposarsi?

«Mai. Anche perché sono infedele di natura. Prendo cotte di continuo, neanche fossi un 18enne in spiaggia. Ma non sono geloso, neppure delle persone con cui ho lavorato».

Mina, per esempio.

«Lei mi ha spalancato le porte con “L’importante è finire”, che secondo i moralisti voleva dire tutt’altra cosa rispetto al suo significato. Non ci sentiamo così spesso ma so che mi vuole bene. Io adoro la sua risata. Poi Iva Zanicchi, Raffaella Carrà... ho scritto un po’ per tutte. Solo con Ornella Vanoni non ho un bel rapporto: una volta mi ero arrabbiato io con lei perché aveva cambiato una parte del testo di Amico mio, amore mio. Tempo dopo mi chiamò lei una notte perché voleva interpretare una canzone che era già stata assegnata a Iva Zanicchi: mi attaccò il telefono. Di recente l’ho vista al cinema... non mi ha salutato, ma non è un problema, io la amo».

Di Raffaella Carrà era amico?

«Pochi giorni prima che morisse mi aveva telefonato dicendomi: “Senti, mi devi fare un regalo: rimani come sei, perché quando arrivi tu la tv cambia colore”. Non capivo. Dieci giorni è morta: non potevo crederci. Avevamo lavorato assieme, lei mi aveva chiesto di scriverle una canzone d’amore, come quelle che facevo per Mina e nacque Forte, forte, forte. Avevo rifiutato di lavorare a A far l’amore comincia tu, dicendo a Boncompagni: questa canzone è terribile, non andrà da nessuna parte. Manca molto. Ora dedico una parte del mio spettacolo a lei».

 Sono tante le donne della sua vita.

«Le amo. Avevo due sorelle, una purtroppo non c’è più: è stato un dolore terribile, era la mia fan più accanita. L’altra vive in Sicilia ma è più chiusa. Quando prenota una visita medica e le dicono: si chiama Malgioglio come Cristiano, mi chiama: “Allora sei davvero famoso”. Ma io in Sicilia da quando è morta mia mamma non torno più volentieri. Mi fa male. Vado a salutare lei e i miei nipoti ma non mi soffermo».

 Ha amato anche tante donne famose.

«Tantissime. Jane Russell: quando mi sono offerto di aiutarla perché camminava male mi ha insultato. Poi l’ho conquistata dandole il mio specchio per truccarsi: da un lato ingigantisce l’immagine. Era estasiata, se lo è portata via. Jennifer Lopez me la sono anche tatuata su una gamba: l’ho conosciuta quando non era famosa, per il suo primo film, Selena, e mi ha dato una sensazione potentissima: per lei sarei potuto diventare etero. Poi Cher, forse la più generosa, io la veneravo: in un’occasione, mentre beveva dell’acqua si è strozzata e ha iniziato a tossire. Mi sono detto: ma come, anche questa tossisce come tutti noi? Mi pareva incredibile. E ancora Ursula Andress, che aspetta la mia pasta con le sarde... Ma il sogno era conoscere Sophia Loren».

Avverato?

«Sì, grazie a sua sorella che ha organizzato. Prima di vederla ho finito una bottiglia di coramina tanto ero agitato. Quando ha aperto la porta di casa le sono caduto tra le braccia».

 Un’altra sua grande amica è stata Maria Schneider, vero?

«Ne ero forse un po’ innamorato. Lei mi chiamava marituzzo mio. Apparteneva alla mia stessa religione, come sono solito dire. Aveva capito che ero gay, ci siamo incontrati e mai più lasciati. Era fragile e sensibile, voleva più di tutto far dimenticare Ultimo tango a Parigi che l’aveva distrutta. L’ha aiutata molto Brigitte Bardot, anche economicamente e le sono riconoscente».

Ha mai sofferto per l’omofobia?

«No e devo dire che mi sono sempre vestito come mi pareva: tacchi, trucco... eravamo più moderni allora di oggi. Certo, ripensandoci ho avuto porte chiuse in faccia forse perché ero gay, ma al momento non avevo associato la cosa».

 La musica è il suo talento, il cinema la sua passione. E la televisione?

«La tv mi ha fatto diventare Malgioglio, il personaggio, questa sorta di puffo che diverte e si diverte. Ho molti amici anche in questo ambiente, ma non li frequento, salvo rare occasioni. Ora grazie a Coletta avrò un mio programma su Rai3, non vedo l’ora. Il mio sogno da ragazzo era diventare David Letterman. Avevo dei paranti a New York e li avevo fatti impazzire per avere i biglietti del suo show. Quando ci sono riusciti sono subito partito: in puntata doveva esserci proprio Cher, magnifico. Invece mi sono trovato Yoko Ono e ho assistito a una delle esibizioni più brutte mai ascoltate: era un urlo continuo, sono rimasto sconvolto».

Come è nato invece il suo ciuffo?

«Per un caso, e dire che se tanti artisti stranieri mi riconoscono è per il ciuffo. Mi faccio da sempre io la tinta ma un giorno, al negozio in cui mi rifornivo, si erano sbagliati e mi avevano dato una polverina diversa. Mi si era formato così questo ciuffo color kaki. Ero disperato, ma poi ho provato a insistere: mi sono fatto una ciocchettina, e ancora una... iniziavo a piacermi. Mi sono detto: ma sembro un pulcino, adoro. Finché ho creato questa massa. Ora ho una formula per farlo, segreta come quella della Coca-Cola. Prevede anche miele, aceto e cannella più altri dieci ingredienti, puoi farci anche il panettone».

La sua canzone della vita?

«I Close My Eyes and Count to Ten, di Dusty Springfield. Mi riporta al mio primo ragazzo, Phillip, un marinaio conosciuto in Liguria che mi prendeva in giro perché baciavo con la bocca chiusa. Non ero capace. Così lui metteva questo disco e diceva: quando dice che conta fino a dieci, lì tu apri la bocca. Lo seguivo in tutti i porti, per la disperazione di mia madre che non capiva questi miei spostamenti. A Barcellona ci siamo lasciati e ho passato per due anni le pene dell’inferno. Un giorno mi ha telefonato, anni dopo: si era sposato e aveva chiamato il figlio Cristiano».

 Sogni per il futuro?

«Detesto i premi, mi mettono angoscia. Solo per un Oscar potrei cedere, ma per ora ho solo prestato la voce a un cane del film per bambini Show Dogs. I produttori americani sentendo la versione doppiata volevano farmela rifare. “Questo cagnolino è gay”, dicevano. Ma io ho detto: o così o niente, quindi è rimasta. Dunque il cane l’ho già fatto, ma il sogno sarebbe recitare per Almodovar. Certo, se non mi chiama ora però, quando? Faccio un suo film a 100 anni?».

 Si sente una persona fortunata?

«Mi sento miracolato. Ho scoperto per caso di avere un tumore maligno. Mi spalmavo la crema sulle gambe, e non lo faccio mai: ho visto un neo. Dovevo partire per il Brasile, sulla scia del successo di Mi sono innamorato di tuo marito. Per scrupolo mi sono fatto controllare e hanno deciso di operarmi subito, dicendo addirittura che altrimenti avrei avuto pochi mesi di vita. In quel punto avrei dovuto fare il tatuaggio di Jennifer Lopez, all’inizio. Poi, per mostrarlo di più ho preferito l’esterno della gamba. Se non avessi cambiato idea non me ne sarei mai accorto: posso dire che Jennifer Lopez ha fatto il miracolo».

Cristina Comencini: «Papà Luigi con le attrici? Amava troppo mamma. Mio figlio Carlo Calenda da piccolo non stava mai fermo». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

La regista: «Ero in Lotta continua, tenevo i bimbi alle compagne e mio figlio Carlo Calenda giocava con loro». «Mamma morì prima di compiere novant’anni: non volle festeggiare, “lasciatemi andare da papà”. Al funerale tagliammo la torta»

Cristina Comencini, qual è il suo primo ricordo?

«Il lettino di mia sorella, nata dopo di me, accanto al lettone dei miei genitori. Eleonora dormiva con loro».

E lei era gelosa?

«Questo non lo so. Però un pomeriggio mi svegliai urlando: non volevo più la tata, solo la mamma».

E il primo ricordo pubblico?

«L’invasione della Baia dei Porci, la crisi di Cuba. Papà cominciò ad accumulare latte condensato, pasta, viveri. Pensai che fosse impazzito. Ma lui, come quelli della sua generazione, aveva sempre la guerra in testa. Noi mai. Noi la guerra non sappiamo cosa sia. Loro lo sapevano».

Com’è stata la sua infanzia?

«Stupenda e selvaggia. Abitavamo alla Camilluccia e avevamo un grande cortile, dove passavo le giornate. Uscivo in bicicletta, giocavo a cavalcare il cane lupo di papà, Dago. La sera mi chiamavano perché tornassi a casa. Non giocavo con le bambole, non studiavo mai, a scuola andavo male. Non riuscivo a stare ferma».

Com’era suo padre, Luigi Comencini?

«Era nato a Salò, figlio di un ingegnere bresciano e di una svizzera di religione valdese. Papà era moralista, severo, taciturno, ma dolce con i bambini».

E sua madre?

«Era figlia di una principessa napoletana. Aristocrazia decaduta: “Non potremmo venderci un po’ di titoli?” chiedeva sorridendo suo fratello. Papà la incontrò a teatro, a una commedia di Eduardo. Fu attratto dalla sua risata. Si rividero a pranzo alla fiaschetteria Beltramme, che era il ritrovo della gente del cinema, da Lattuada a Carlo Ponti. Fu l’inizio di una grande storia d’amore, durata tutta la vita. Mio padre era un po’ anomalo…».

Cioè?

«Al tempo era considerato normale che il regista andasse a letto con l’attrice, come il pittore con la modella. Ma papà era troppo innamorato di mamma. Credo che trovasse meravigliosa Claudia Cardinale; ma lui non era quel tipo d’uomo. Anche se mi accorsi che sul set si trasformava».

In che modo?

«Era rispettosissimo dei tecnici, degli elettricisti. Ma con gli attori manteneva un certo distacco, una sua durezza. Aveva un rapporto speciale solo con i piccoli. Era convinto che l’infanzia fosse l’unico momento della vita davvero libero».

In effetti Comencini ha portato in tv i due grandi libri di formazione degli italiani, Pinocchio e Cuore.

«Sempre e solo maschietti. Un giorno gli chiesi: papà, e le femminucce? Mi rispose: le bambine sono già donne».

E lei?

«Dissi: “Ma come papà, nemmeno la libertà dell’infanzia ci volete lasciare?”. La sorte volle dargli solo figlie femmine: oltre a Eleonora e me, Paola, la più grande, e Francesca, la più piccola. Non voleva che facessimo il suo mestiere; invece tutte e quattro abbiamo lavorato nel cinema. Comunque, Pinocchio resta un capolavoro».

Franco e Ciccio erano il gatto e la volpe.

«Come fata turchina fu scelta, o forse imposta, la Lollobrigida, con cui mio padre non andava d’accordo. Così la trasformò in una streghina. Nel libro di Collodi, Pinocchio diventa un bambino soltanto alla fine; ma un film non può reggersi su un burattino. Così mio padre e Suso Cecchi D’Amico ebbero un’idea geniale: Pinocchio è un bambino che la fata turchina trasforma in burattino quando si comporta male».

Com’era Suso Cecchi D’Amico?

«Ho imparato molto da lei. Insieme abbiamo sceneggiato “Cuore”. Non era una che si metteva a insegnare, ma mi dava fiducia: “Tu cosa faresti?”. L’altra mia grande maestra è stata Natalia Ginzburg».

Perché?

«Le mandai un racconto lungo firmato con il mio nome, e me lo rimandò indietro. Tempo dopo, le feci avere un romanzo, “Le pagine strappate”, firmato con il cognome del mio secondo marito, Tozzi. Mi chiamò dopo 48 ore: aveva deciso di pubblicarlo. Un’emozione grandissima, rimasi muta al telefono».

Per suo padre lei è stata anche attrice, in «Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano».

«Ovviamente avevo una parte molto castigata: la conversa, abbottonata sino al collo, che si innamora del giovane Casanova, in un primo tempo ricambiata. Ma quando lei gli dice “vivremo poveri ma avremo tanti bambini”, lui impallidisce e si rifugia tra le braccia di due cugine allegre».

Lei ha avuto davvero un bambino giovanissima.

«Avevo fatto la scuola francese, che dura un anno di meno. Nell’estate della maturità partii con il mio fidanzato, Fabio Calenda, e ritornai incinta. Ne parlai a mia madre. In bagno, il luogo delle confidenze».

Cosa le disse?

«L’anno prima aveva perso un bambino: il maschio sempre atteso e mai arrivato. Mi disse: tienilo, il tuo, ma non sentirti obbligata a sposarti. Dette da mamma, che era molto cattolica, quelle parole furono importanti».

Com’era Carlo da piccolo?

«Come me: non voleva mai stare fermo. Vivacissimo. Neanche lui amava la scuola, anche se non fu mai bocciato: faceva il suo, poi usciva a giocare. Aveva molti amichetti, che un po’ dirigeva. Prima ancora lo ricordo in piedi nel box, mentre con due compagni di università ripetevo le lezioni d’economia…».

Il suo maestro era Federico Caffè. Che idea si è fatto sulla sua scomparsa?

«Caffè era un monaco dell’insegnamento. Misogino, dall’identità sessuale irrisolta. Forse non si è suicidato, si è rinchiuso da qualche parte. Di certo si è tolto dal mondo. Come Maiorana. E un po’ come Ettore Scola: che non scomparve, si ritirò».

Come mai sceglieste Carlo per il ruolo di Enrico, il protagonista di Cuore?

«Era lì… e con il nonno aveva un rapporto speciale».

Anche Carlo diventò padre molto presto.

«E io diventai nonna a 35 anni».

Cosa gli disse?

«Gli consigliai di fare il papà senza rinunciare a nulla. Così prese la licenza liceale, poi la laurea. In famiglia siamo sempre stati così: quando arrivava un bambino, era una cosa bella, non un problema; e se ci sono problemi, si risolvono. Subito dopo nacque Luigi, il figlio che ho avuto da Riccardo Tozzi, il produttore».

Come mai finì tra lei e Fabio Calenda?

«Per giovinezza. Avemmo anche una figlia, Giulia. Ma eravamo troppo piccoli, con tutto ancora da fare. Le strade si separarono».

È vero che lei era in Lotta continua?

«Sì. Al seguito di Fabio. Non ero una vera militante; anche perché avevo orrore degli scontri di piazza, come di qualsiasi forma di violenza. Il mio compito era prendermi cura dei figli delle compagne. Che quindi giocavano con Carlo».

Il suo ultimo libro, Flashback, è la storia di quattro donne in epoche diverse. Ma tutto comincia con un’amnesia. Proprio come in un altro suo libro, «La bestia nel cuore», da cui trasse il film che rappresentò l’Italia all’Oscar.

«“La bestia nel cuore” prende spunto da un fatto di cronaca: un fratello e una sorella, figli di un professore del liceo Tasso, abusati dal padre, senza che la madre, pur sapendolo, intervenisse. La realtà, rimossa, prima o poi ritorna, anche dopo decenni».

Lei ha mai subito molestie nel suo lavoro?

«Sul lavoro, no. Come quasi tutte le giovani donne ho avuto l’esperienza degli esibizionisti per strada, di quelli che ti mettono le mani addosso sugli autobus. Ma so che molte attrici hanno dovuto sottostare a molestie e ricatti».

Del MeToo si discute molto. È giusto denunciare anni o appunto decenni dopo?

«Certo che è giusto! A volte occorre molto tempo per elaborare quel che è accaduto, per trovare il coraggio di raccontarlo. Spesso la donna è vittima due volte: dell’uomo e del senso di vergogna che prova, come se fosse lei la colpevole».

Lei ha diretto Asia Argento.

«Quando aveva tredici anni. Una ragazza sensibilissima e bellissima, molto bisognosa di affetto. Ci eravamo perse di vista, ci siamo riviste da poco».

E cosa le ha detto?

«L’ho abbracciata».

Quindi ha fatto bene a denunciare Weinstein?

«Ha fatto benissimo».

Altre sue attrici sono Giovanna Mezzogiorno…

«Istintiva, generosa, viscerale: degna di suo padre».

E Margherita Buy, di cui si dice che reciti sempre un po’ se stessa: la donna di sinistra, all’apparenza insicura, nevrotica…

«Non sono d’accordo. Certo, i registi tendono a collocarti sempre nella stessa parte. Ma Margherita è una grande attrice. E nella parte entra sino in fondo. Quando giravamo “Il più bel giorno della mia vita” sentivamo un suono che il fonico non riusciva a togliere. Non capivamo cosa fosse. Era il battito del suo cuore».

E Virna Lisi?

«Mi ricordava mia madre: brusca, sprucida; una signora borghese che si trasformava in una grande attrice. Quando fui candidata all’Oscar mi regalò un grosso corno, contro le invidie».

Quanto c’è di autobiografico nel suo ultimo libro?

«In Flashback non c’è nulla che non sia vero. Ricostruisco cose che sarebbero svanite, o chiuse in una scatola che nessuno apre».

Una delle quattro protagoniste vive al tempo della Rivoluzione bolscevica. Un periodo cui lei ha dedicato un altro libro che ha fatto discutere, «L’illusione del bene».

«Il comunismo è stato una tragedia. Rimossa. La sinistra italiana ha evitato di fare i conti sino in fondo con il passato. Le difficoltà del Partito democratico si spiegano anche così. Per quel romanzo fui attaccata dall’Unità. Mi confortò una lettera di Ezio Mauro, che mi scrisse: finalmente qualcuno ha scritto il libro che mancava sul comunismo italiano».

Poi, al tempo di «Se non ora quando», lei scese in campo contro Berlusconi.

«Che non fu mai nominato. Ci schierammo per la dignità delle donne: un milione di persone in tutta Italia, attrici e suore, scrittrici e operaie. Forse la più grande manifestazione nella storia del nostro Paese».

Le donne italiane hanno fatto passi avanti enormi.

«Certo. Ma ci vuole molto tempo per superare millenni di sottomissione. Ricordo una conferenza a Salina, in cui dissi che la rivoluzione delle donne era riuscita, senza spargimento di sangue. Intervenne Vittorio Taviani, il regista: “Un po’ di sangue sarà sparso”. Aveva ragione: guardi il martirio delle iraniane».

Cosa pensa di Giorgia Meloni?

«Una donna che ha fatto un enorme lavoro, in un mondo del tutto maschile. Ha avuto carattere, fortuna, capacità. Ma se ci è riuscita, è anche grazie al movimento delle donne; pure se lei non lo rivendica».

Cos’ha votato alle ultime elezioni?

«Ovviamente per Azione».

È stato un errore non fare l’accordo con il Pd?

«Ma Carlo l’aveva fatto, e ne era felice. Poi si è visto smontare l’accordo firmato. L’hanno boicottato in ogni modo. Resto convinta che attorno ad Azione possa nascere il partito riformista che manca all’Italia».

Perché è finita anche con il suo secondo marito?

«Perché dopo quarant’anni le cose cambiano. Non pensi mai di essere capace di separarti; eppure accade. È un grande dolore; ma ci vogliamo sempre molto bene. Ora ho un compagno francese, François Caillat, autore di documentari. Viviamo tra Roma e Parigi».

Crede in Dio?

«Non lo so. Ci penso. Con la mia nonna svizzera ho frequentato la chiesa valdese di piazza Cavour: la pastora Maria Bonafede era una figura straordinaria».

Ha paura della morte?

«Per ora no. Troppe cose da fare».

Come pensa l’Aldilà?

«Qualcosa di noi resta, anche se non la coscienza individuale. Siamo tante piccole onde nel mare, che si infrangono e si ricompongono».

Come fu la morte dei suoi genitori?

«Mio padre se ne andò dopo una lunga malattia. Il Parkinson lo spense poco a poco; alla fine non era più lui, ma fu comunque una lacerazione. Mia madre morì prima di compiere novant’anni: non volle festeggiare, “lasciatemi andare da papà”. Al funerale tagliammo la torta che le avevamo preparato per il compleanno».

Cristina D’Avena: «Non ho guadagnato molto, i testi non sono miei. I figli? Ho perso tempo, fossi madre sarei più felice». Luca Caglio su Il Corriere della Sera il 19 Giugno 2023.

Il trasferimento da Bologna a Milano per cantare le sigle dei cartoni animati. «Spesso andavo ad Arcore da Berlusconi. Ai miei concerti fan di ogni età. La svolta sexy? Mi è sempre piaciuto mostrare le forme, sono tutta al naturale»

Passa il tempo ma lo spirito resta quello di una bimba. L’immagine, quasi immutata, lei che non ancora maggiorenne diventò la cantrice dei cartoni animati su Canale 5, l’artista delle sigle evergreen dei primi anni 80: Bambino Pinocchio, La canzone dei Puffi, Kiss me Licia. Un successo targato Five Record, l’etichetta fondata da Silvio Berlusconi che la portò a Milano strappandola a Bologna. Cristina D’avena non ha età. E oggi continua a girare l’Italia per i suoi live, «viaggi» a ritroso verso un mondo spensierato, ritirando premi — l’ultimo al Best Movie Comics and Games — ed esibendosi anche nelle discoteche: Gigi Dag? Cristy Dav, signori.    

Si trasferì a Milano a 17 anni.

«L’alba di Canale 5. Cercavano una voce per la sigla di Pinocchio, era il 1981, e ai provini scelsero me. Mi spinsero i frati dell’Antoniano, già cantavo nel Piccolo coro. Firmai un contratto e per oltre 20 anni abitai al Jolly residence di Milano 2, tuttora il mio posto del cuore. Ma all’inizio ero controllata a vista, pedinata». 

Da chi?

«Da un ex carabiniere a cavallo, Giuseppe, inviato da mio padre che non voleva stare in pensiero. Giuseppe gli riferiva tutto: incontri, uscite, umori. Un uomo incorruttibile. Tra le poche concessioni, qualche cena a San Babila con colleghi e attori di teatro. Seguiva una passeggiata in via Monte Napoleone, poi a letto».

Anche Berlusconi la teneva d’occhio?

«Era il mio riferimento, sempre presente se avevo un problema. Mi invitava spesso ad Arcore con il mio staff, anche per un giorno intero, per coinvolgermi nello sviluppo della tv per ragazzi: “Sorridi sempre, Cristina, e testa alta”. E poi chiacchiere, risate, fiori al mio compleanno. Amava i suoi dipendenti: veniva a farci visita negli studi».

Lei vanta 40 anni di carriera. Qualcosa che ancora non sappiamo?

«Che in auto sono un navigatore vivente, conosco tutte le strade. Ma soffro di claustrofobia: gallerie e traffico non li reggo. E andando avanti con l’età peggioro. Così suggerisco percorsi alternativi “molestando” il mio staff. L’autista, sant’uomo. Almeno sono di compagnia. Ora che ci penso ci sarebbe materiale per uno spassoso format tv — “In viaggio con Cristina” — o per un libro. Che poi sarebbe anche una guida gastronomica: un ristorante per ogni uscita dell’autostrada. Quanti pranzi fuori casello. E quanti camionisti mi chiamerebbero…». 

Si è forse stancata di cantare?

«Affatto. Sono ancora troppo bimba per smettere e sogno un musical a teatro: i tempi sono maturi. E ai concerti sento l’energia dei primi tempi, cos’è la routine? Ogni spettacolo è diverso: discoteche, locali rock, piazze. Ho un pubblico che mi segue da decenni, di ogni età, nonni e nipoti. E saltano anche le ragazze con il pancione: “Mio figlio ancora deve nascere ma già conosce Occhi di gatto”». 

Ha guadagnato molto?

«Non ho scritto io i testi, dunque nessun incasso per i diritti d’autore. Ma ho venduto 7 milioni di dischi e funziono ancora. Quando presi la patente mi regalai una Bmw cabrio, la mia prima macchina. Ricordo mio padre sconvolto: “Ma quanto hai speso?”. L’ho conservata, ogni tanto la accarezzo». 

L’esibizione indimenticabile?

«Sono stata la prima donna solista a cantare al Forum di Assago. Fu negli anni 90, per un evento benefico dell’Airc». 

Non c’è mai stata una «nuova D’Avena». Lei non ha eredi, è unica.

«In realtà diverse artiste ci hanno provato con la Disney, ma in Italia siamo più conservatori. La mia voce è un marchio sull’infanzia, quasi un vincolo parentale rinsaldato dalla nostalgia per un tempo magico, spensierato, quando gli influencer erano gli eroi dei cartoon. Poi ci sono io, la persona, il  rapporto genuino con i fan. Mai stata snob. Mi riconosco un grande pregio: la disponibilità». 

Anche la sua infanzia è stata magica: cantò «Il valzer del moscerino», a 3 anni, arrivando terza allo Zecchino d’oro.

«Ma alle elementari mi invidiavano per altro. Ero la bambina che “parlava” con Babbo Natale, quella che riceveva risposta alle letterine. Lo stesso privilegio con la Befana. A scuola portavo le “prove", poi la maestra annunciava: “Cristina ha ricevuto una lettera dalla Lapponia!”. Anch’io sono stata una eroina. Merito del mio papà, medico, severo sì ma capace di grandi gesti. Ho cercato quegli scritti in ogni quaderno, purtroppo non li ho più ritrovati». 

E sua madre?

«Casalinga. Da lei tanto amore e tanti consigli. E il dono più prezioso, Clarissa, mia sorella più piccola di dieci anni che oggi lavora per me: ufficio stampa. Una peperina, io invece più serafica. Siamo diverse ma ci cerchiamo in continuazione». 

Senza musica?

«Avrei fatto il medico, come papà, la mia vocazione. Ho lasciato l’università di Bologna all’ultimo anno. Mi sarei specializzata in neuropsichiatria infantile, per aiutare i bimbi problematici, quelli che io chiamo “bimbi speciali”. Un’attitudine che oggi riesco a soddisfare quando mi scrivono i genitori: “Il piccolo è in ospedale e mangia solo se ascolta i tuoi brani”. Allora gli mando un video. Ecco cosa intendo per disponibilità: restituire una piccola parte dell’affetto ricevuto».

Si rimprovera qualcosa?

«La recitazione. Potevo approfondirla e avere più opportunità».

Altre passioni?

«Decorare piatti in ceramica con disegni astratti. E ricamare».    

Parlava dei bambini. Lei non ha avuto figli. Si sente incompleta?

«Ho lavorato tanto senza guardare l’ora, ecco, l’orologio biologico che non fa sconti. Quando mi sono resa conto che era tardi, d’aver perso tempo, sì: mi è dispiaciuto. Fossi madre sarei più felice. Non so se sarà un rimpianto, di certo non è un pensiero che mi assilla, un’ossessione. Perché mi sento una donna realizzata, inserita, apprezzata».    

È anche innamorata?

«Innamorata e molto riservata. Non dirò di chi né lui cosa fa. Solo che viviamo fra Bologna e Milano».

Tre anni fa, su Instagram, pubblicò alcuni scatti bombastici, in bikini.  Una pioggia di like affogò la sua immagine di fatina innocente. 

«Si parlò di svolta sexy, di provocazioni, come se volessi ricercare una nuova ribalta. Per delle foto estive in costume, al mare? Ma capisco: Instagram è una vetrina di "curve" e io ero una insospettabile. In realtà mi è sempre piaciuto mostrare la mia femminilità, anche ai concerti, le mie forme. Meno le gambe, infatti indosso gonne lunghe».     

I suoi follower sono impazziti, ora la guardano con occhi diversi a giudicare dai commenti…

«Premessa: non ho ricevuto proposte indecenti. Complimenti coloriti sì, e fanno piacere alla mia età. C’è chi vorrebbe “puffarmi” e chi avrebbe “perso qualche diottria” solo a guardarmi. Qualcuno mi attribuisce “elisir di giovinezza”, altri si dichiarano innamorati da quando erano bambini, ma ora non solo per le canzoni. Sappiate che per alcune foto ho usato filtri migliorativi». 

È mai andata dal chirurgo per un ritocchino?

«Sono tutta al naturale ma non giudico chi l’ha fatto. Oggi c’è una tendenza prematura all’imitazione, ragazze che a 18 anni si sentono già insicure. Eppure le imperfezioni ci rendono uniche, perché correggerle? Ma se le star dei social esibiscono solo doti fisiche... Io ho qualche chilo in più ma non mi odio. Quando posso vado in palestra». 

Che rapporto ha con la comunità Lgbtq+?

«Sono stata a numerose serate pride in tutt'Italia nella veste di artista. Tutta la comunità arcobaleno sa della mia vicinanza».

Crede in Dio?

«Si, cattolica praticante. Sono molto legata a sant’Antonio da Padova».

La fede, la tv, l'amore: la trasformazione di suor Cristina Scuccia. A nove anni di distanza dalla vittoria di The Voice ecco com'è cambiata la vita dell'ex suor Cristina, che oggi vive una seconda vita tra la Spagna e l'Isola dei famosi. Novella Toloni il 4 Giugno 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'esordio in tv a The voice of Italy

 Il tapiro d'Oro per "Like a Virgin"

 Il periodo difficile

 L'esordio in teatro con un musical

 Ballando con le stelle

 Il ritorno a Verissimo

 Lo sbarco in Honduras

Esattamente nove anni fa suor Cristina vinceva la finale di The Voice of Italy, il talent canoro con l'indimenticata Raffaella Carrà. Da quell'anno - era il 2014 - tante cose sono successe nella vita della monaca siciliana: il ruolo in un musical, la partecipazione a Ballando con le stelle, la crisi spirituale, l'addio ai voti e la fuga in Spagna per poi tornare in Italia e accettare di partecipare all'Isola dei famosi. Quella compiuta dall'ex suor Cristina - oggi per tutti Cristina Scuccia - è una vera e propria trasformazione.

L'esordio in tv a The voice of Italy

L'esordio televisivo di suor Cristina avviene nel marzo 2014. Lei ha 25 anni, è siciliana ma vive a Milano ed è una suora Orsolina della Sacra Famiglia. Si presenta alle Blind Audition del talent canoro di Rai Due con il brano No One di Alicia Keys e conquista tutti. I quattro giudici si girano ma solo J-Ax riesce a portarla nel suo team. Il New York Times le dedica addirittura un articolo parlando di lei come "il nuovo fenomeno musicale italiano". Da quel momento suor Cristina diventa un vero e proprio idolo televisivo, superando le puntate e arrivando dritta in finale, dove stravince con il 62% dei consensi al televoto. Grazie alla vittoria di The Voice, suor Cristina vince un contratto discografico con la Univeral Music e il 10 novembre 2014 pubblica il suo primo album "Sister Cristina".

Il tapiro d'Oro per "Like a Virgin"

Quattro mesi dopo il trionfo a The Voice, la monaca siciliana esce con il suo primo disco anticipato dalla pubblicazione del singolo "Like a virgin" (cover del brano di Madonna) e per questo riceve il suo primo tapiro d'Oro da Striscia la Notizia. Valerio Staffelli la raggiunge in uno dei suoi appuntamenti promozionali per il disco e le consegna il goliardico premio a seguito delle critiche ricevute dai vescovi del Cei. Suor Cristina sembra essere pronta ad approdare anche sul palco dell'Ariston ma un "no" dalle Orsoline e uno dal Cei frenano gli entusiasmi. A fine 2014 la siciliana riesce a incontrare papa Francesco in Udienza Generale a San Pietro e in quell'occasione, gli regala il suo album.

Il periodo difficile

Nonostante gli impegni, le ospitate in tv e il tour promozionale del suo album (che arriva addirittura in Franca e Giappone con ottimi risultati), suor Cristina ammette di avere vissuto un momento duro dopo la vittoria di The Voice. "Ero seguita dai paparazzi e mi sembrava tutto surreale. Avevo attacchi di panico", racconto qualche anno fa. La monaca è di fatto un personaggio pubblico tanto da attirare le attenzioni morbose di uno stalker, che nel 2015 viene arrestato. L'uomo, un 42enne belga, si giustificò dicendo di volerla solo conoscere e fare qualche selfie ma l'insistenza e i pedinamenti sotto al convento costrinsero suor Cristina e altre monache a sporgere denuncia.

Ora parla Suor Cristina: "Io vittima di stalking non di semplice selfie"

L'esordio in teatro con un musical

Dal 2015 al 2017 suor Cristina vive una nuova esperienza fuori dal convento. Viene scelta per interpretare il ruolo della novizia suor Maria Roberta nel musical "Sister Act". La tournée dura due anni e la porta a girare l'Italia con grandi soddisfazioni. Il teatro la conquista tanto da farla entrare nel cast anche di un altro progetto "Titanic - Il musical". La siciliana partecipa, però, anche a diversi eventi religiosi, esibendosi dal vivo a Cracovia in occasione del World Youth Day 2016. Poi la Scuccia si dedica nuovamente alla musica pubblicando un secondo album intitolato "Felice".

Ballando con le stelle

Nel 2019 Milly Carlucci la vuole nel cast di Ballando con le stelle. Suor Cristina accetta e torna in tv da protagonista. Ballare per lei che veste gli abiti sacri risulta, però, complesso. La monaca non può rimanere da sola con il suo ballerino Stefano Oradei, e per la prima volta nella storia del programma la concorrente si esibisce con tre insegnanti (oltre a Oradei, le due danzatrici Jessica De Bona e Giulia Antonelli). Nonostante l'impegno suor Cristina viene eliminata all'ottava puntata. Prima della fine del 2019 la siciliana rinnova i voti perpetui e il pubblico la vede per l'ultima volta in tv con Enrico Papi nel game show di Tv8 Name That Tune - Indovina la canzone. Poi, complice la pandemia, Cristina sparisce dalla scena pubblica.

Suor Cristina sbotta contro Zazzaroni: "Non posso strusciarmi sul ballerino"

Il ritorno a Verissimo

Novembre 2022. Da quasi due anni di suor Cristina non si sa più niente, ma la sua ospitata viene annunciata a Verissimo su Canale 5. Quando la siciliana fa il suo ingresso in studio vestita con un tailleur rosso senza gli abiti sacri e il velo, la notizia è chiara a tutti. "Ho scelto di seguire il mio cuore", rivela a Silvia Toffanin, svelando di avere rinunciato ai voti definitivamente dopo un anno sabbatico e confessando di essersi trasferita in Spagna, dove fa la cameriera. Il suo sogno è quello di fare la cantante e proprio la musica l'ha spinta a lasciare il convento. Dopo la prima ospitata Cristina Scuccia torna a Verissimo altre due volte, prima per annunciare l'uscita del suo nuovo singolo, poi per parlare della partecipazione all'Isola dei famosi.

Lo sbarco in Honduras

Ad aprile 2023 Cristina Scuccia annuncia di essere una concorrente ufficiale del reality di Ilary Blasi. Lei si dice pronta a volersi mettere alla prova in Honduras ma di non essere pronta a mostrarsi in bikini davanti alle telecamere. Di amore parla solo come un argomento da affrontare più avanti e ancora lontano dalla sua nuova vita più proiettata sulla sua rinascita. All'Isola, però, dopo un mese di sopravvivenza Cristina lascia cadere i veli: svela di avere conosciuto una persona in Spagna prima di entrare nel reality e di essersi innamorata. Parla addirittura di maternità, mentre sul web si fanno sempre più insistenti le voci di una sua presunta omosessualità e del possibile coming out in Honduras. La trasformazione compiuta in questi nove anni sembra, però, non essersi ancora compiuta completamente e molti sospettano che altre rivelazioni potrebbero presto arrivare da lei stessa.

"La tua relazione? Per me...". La reazione della madre di suor Cristina al suo nuovo amore. Cristina Balbo il 30 Maggio 2023 su Il Giornale.

Grandi emozioni ieri sera all'Isola dei Famosi per Cristina Scuccia che, dopo aver confessato di provare un sentimento forte per una persona, ha ricevuto un messaggio inaspettato da parte della madre

Tabella dei contenuti

 Le parole della mamma dell’ex suor Cristina

 La reazione di Cristina Scuccia

 Il desiderio di maternità di Cristina Scuccia

È andata in onda ieri sera una nuova puntata dell’Isola dei Famosi e come spesso accade, è stato dedicato un momento a Cristina Succia che nelle ultime settimane – come non mai – sta facendo discutere parecchio di sè. Infatti, la naufraga – dopo averne parlato con i compagni d’avventura - proprio nella scorsa puntata ha rivelato in diretta di avere una relazione con una persona di cui per il momento non vuole svelare l’identità. A fare preoccupare l’ex suora, però, l’eventuale reazione della madre che fino alla partenza della Scuccia era stata tenuta all’oscuro di tutto.

Le parole della mamma dell’ex suor Cristina

Nonostante la preoccupazione della Scuccia – che ha trascorso giorni in Honduras in totale apprensione – la madre ha deciso di farle una sorpresa. Quest’ultima, infatti, nella puntata di ieri sera ha fatto recapitare un messaggio sull’Isola per rassicurare la figlia, rivolgendo lei parole di conforto e comprensione: “Come dice Papa Francesco, l'amore per una figlia è un grande dono e la tua felicità è la mia. Qui ti seguiamo tutti, i nipotini non vedono l'ora di rivederti. Spero queste mie righe possano arrivare a te. Aspetto il tuo ritorno per abbracciarti e parlare da sole di ciò che desideri. Sarò sempre con te”.

La reazione di Cristina Scuccia

La naufraga non è riuscita a trattenere l’emozione – e le lacrime – dopo avere ascoltato il messaggio della mamma, e poi ha confessato: "Non avevo dubbi che sarebbe stato così, so quanto mia mamma mi ama, so che vuole la mia felicità”. Poi, ha aggiunto che la madre ha già accettato un suo grande cambiamento nonostante temesse di deluderla e così, ha affermato: “Ho già vissuto un cambiamento radicale, temevo di deluderla e lei ha capito la mia scelta, anche mio padre prima di morire mi aveva capita. ‘È nostra figlia, dobbiamo accettare tutto ciò che desidera’, diceva". Infine, la Scuccia ha concluso spiegando che affronterà l’argomento con la madre una volta terminata l’esperienza honduregna: “Spero di poter parlare con mia madre fuori da qui di questo amore che non vedo l'ora di ritrovare quando uscirò e che al momento voglio custodire, perché è una cosa nuova che sta nascendo, anche dentro di me".

Il desiderio di maternità di Cristina Scuccia

A fare discutere in questi giorni anche le recenti dichiarazioni della naufraga, che non ha nascosto ai compagni il suo desiderio di maternità, ammettendo anche di avere sognato un neonato; proprio su questo ha voluto porre l’accento ieri sera la padrona di casa, Ilary Blasi, che ha chiesto direttamente alla Scuccia cosa stesse provando soprattutto a seguito delle rivelazioni fatte al resto del gruppo: “Sentimenti così forti non li ho mai provati nella mia vita, in adolescenza ho avuto storie, ma non così importanti. Mi trovo anche in imbarazzo a parlare di sentimenti dopo il mio percorso. Spero di poter far conoscere questa persona a mia madre". Insomma, adesso non ci resta altro che attendere per scoprire chi è la persona misteriosa che ha fatto “perdere la testa” all’ex suor Cristina.

Cristina Scuccia all'Isola, Suor Anna Alfieri: «Un’ inversione totale rispetto alle scelte precedenti». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023

Il Cavaliere al Merito della Repubblica italiana ha commentato l’ingresso dell’ex suora nel reality show: “Noi siamo il risultato di certe decisioni, non possiamo azzerare il passato”. 

Continua a far parlare e discutere la presenza di Cristina Scuccia all’Isola dei Famosi. Quella che era conosciuto come Suor Cristina continua infatti a essere criticata e attaccata sui social e fuori. L’ultimo attacco celebre, in ordine cronologico, è quello Suor Anna Monia Alfieri, Cavaliere al Merito della Repubblica italiana che ha commentato così l’ingresso all’Adnkronos di Cristina nel reality show: microfoni dell'Adnkronos: «Non mi ha stupito l'uscita di Cristina Scuccia dalla vita religiosa, mi sono invece particolarmente dispiaciuta del suo percorso dopo l'uscita dalla vita religiosa. Già dalle origini, da quando partecipò a 'The voice of Italy', mi chiedevo quale valore aggiunto potesse dare questa esperienza alla sua vita religiosa. Cantare? Potremmo dire che c'è il valore aggiunto di evangelizzare, forse. Ma ballare? Quando nella nostra vita facciamo delle scelte fondamentali, tutto il nostro esistere ne è influenzato. Cristina Scuccia ha una bellissima voce, potrebbe puntare su quella con un percorso serio, faticoso. Le scorciatoie non aiutano mai».

Suor Anna poi ha espresso anche il suo personale dispiacere per la scelta: Infine, Suor Anna ha detto: «Non giudico, lei avrà la sua coscienza, i suoi consiglieri, e sarei curiosa di sapere chi sono, ma mi sono dispiaciuta di quanto fatto dopo: dalle canzoni sensuali fino all'Isola dei famosi, mi sembrano delle scelte che rappresentano una inversione a U rispetto a quelle precedenti. Noi siamo il risultato di certe decisioni, non possiamo azzerare il passato. Se avessi potuto parlarle e consigliarla le avrei detto di prendersi il tempo per rielaborare le scelte fatte, i propri obiettivi, la direzione da seguire. Ho provato una sorta di dispiacere per il cammino intrapreso dopo l'uscita dalla vocazione e che mi pare vada a sciupare tutto un passato».

"Troppo sexy". Ma l'ex suor Cristina non ci sta: così replica alle accuse. A pochi giorni dal debutto all'Isola dei famosi, l'ex suor Cristina ha voluto rispondere a chi critica il suo cambiamento: "L'unico giudizio che m'importa è quello del Signore". Novella Toloni il 5 Aprile 2023 su Il Giornale.

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 La replica di suor Cristina

 L'esperienza all'Isola dei famosi

Da quando ha svestito gli abiti sacri, Cristina Scuccia - da tutti conosciuta come suor Cristina - è stata criticata su più fronti. Il ritorno in tv, con le ospitate a Verissimo e la prossima partecipazione all'Isola dei famosi, l'hanno messa nel mirino del pubblico e il popolo dei social è stato a tratti durissimo con lei per il suo cambiamento esteriore. "E' sempre in tv", l'hanno accusata di recente sul web. E a queste critiche si sono aggiunte quelle legate all'uscita del suo nuovo singolo. Nel videoclip l'ex suor Cristina appare sexy e disinibita e questo l'ha fatta finire di nuovo al centro della polemica. Ma lei, sulle pagine di Repubblica, si è difesa: "Mi criticavano da suora e mi criticano adesso, ma chi siamo noi per giudicare?".

Subito dopo la pubblicazione del suo brano "La felicità è una direzione", sul web il popolo dei social si è letteralmente diviso. Da una parte ci sono quelli che sostengono la sua rinascita laica senza rinnegare il passato, dall'altra ci sono i più critici che vedono nella sua trasformazione un'ostentazione eccessiva. E così, sotto ai suoi post Instagram, si sono accumulate tante lusinghe quanto critiche mettendo al centro di una vera bufera mediatica.

"L'amore di un uomo...". L'ex suor Cristina e la rivelazione a Verissimo

La replica di suor Cristina

Il commento più ricorrente che si legge sui social è quello di essere diventata "troppo sexy" rispetto al suo passato monastico. Ma se su Instagram l'ex suor Cristina si è guardata bene dal rispondere agli hater, sulle pagine di Repubblica la Scuccia si è lasciata andare a un amaro sfogo legato proprio al suo recente cambiamento: "A una donna non si perdona quasi niente, figurarsi a un’ex religiosa. Ma l'unico giudizio che m'importa è quello del Signore. E a chi parla senza conoscermi, dico: mi farò conoscere meglio. Del resto, siamo tutti creature imperfette e fragili".

L'esperienza all'Isola dei famosi

Dopo quindici anni di comunità e undici di velo, una crisi profonda l'ha convinta a svestire i panni religiosi per inseguire il suo sogno di cantare. Ma vista la corte serrata fattale da alcuni programmi televisivi, Cristina Scuccia ha deciso di mettersi in gioco anche in un reality. L'ex suora è una concorrente ufficiale dell'Isola dei famosi (al via lunedì 17 aprile su Canale 5), ma in questo momento parlare dell'avventura in Honduras non è una sua priorità: "Adesso penso solo alla nuova canzone, vivo l'attimo e poi si vedrà. Una cosa però l’ho capita: la ricerca della felicità ci appartiene, Dio non ci vuole tristi". E lei cercherà di farsi conoscere mettendosi alla prova sulle spiagge bianche di Cayo Cochinos.

L'amore, il piercing, la maternità: le rivelazioni dell'ex suor Cristina. Novella Toloni il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ospite per la seconda volta in pochi giorni di Verissimo, Cristina Scuccia ha raccontato com'è la sua nuova vita in Spagna

Temeva di avere deluso il pubblico e tutti quelli che avevano creduto in lei, che per quindici anni è stata suor Cristina. Invece avere abbandonato gli abiti sacri e essere tornata in tv per raccontare il suo passo indietro l'ha vista finire al centro dell'attenzione mediatica e travolta dall'affetto della gente. "Avevo paura e invece ho ricevuto tanti messaggi di stima", ha raccontato Cristina Scuccia nello studio di Verissimo, dove è tornata per la seconda volta in pochi giorni per parlare della sua nuova vita.

"L'intervista della scorsa settimana è stata una liberazione. Come se mi fossi tolta un peso", ha confessato la siciliana, che non ha nascosto i timori provati all'idea di dovere dare spiegazioni sulla sua scelta di vita: "Accetto il mio passato, alla fine non sto facendo niente di male". In Spagna, dove lavora come cameriera, Cristina sta facendo tutte quelle esperienze che da suora non aveva mai potuto fare: "Uscire a cena con nuovi amici, bere, ballare".

Gli abiti sacri

A Silvia Toffanin, la Scuccia ha raccontato che uno dei momenti più belli della sua vita è stato quando ha indossato gli abiti di suora e che la prima volta che li ha tolti per vivere la sua nuova vita, le sensazioni sono state contrastanti: "Era un momento molto delicato. Andavo in Sicilia da mio padre che non stava bene. Sono uscita con i jeans e le catene, in stile "rock", e le suore mentre mi accompagnavano mi dicevano: 'Ma davvero esci così?'. In treno mandavo emoji con le farfalle a chiunque, mi sentivo sbocciare ma anche frenata da quello che mi stava accadendo e dalla situazione di mio padre".

"L’euforia del successo". La ex suor Cristina indigna l'Avvenire

Dal velo al piercing

Oltre agli abiti comuni, un paio di pantaloni neri e una camicetta, l'ex suor Cristina ha mostrato un altro segno del cambiamento: un piercing al naso. "L'ho fatto da poco, era una delle tante prime volte", ha svelato la Scuccia raccontando cosa, da adolescente, l'aveva sempre frenata: "Volevo ma mia mamma mi frenava. Ora invece penso che non faccia la differenza ma nel momento in cui l'ho fatto, qualche mese fa, mi ha aiutata a esprimere la mia determinazione. Un segno di questo momento di cambiamento". Tirare le somme di un anno lontano dal convento non è facile, ma le idee per Cristina sono abbastanza chiare: "Quest'anno mi sono testata come persona e mi sento soddisfatta e felice del cammino fatto".

I giudizi

Cristina si è commossa per il videomessaggio della madre e ricordando il padre scomparso di recente. Poi ha replicato a chi ha messo in discussione la sua scelta di vita, dando la colpa al successo, che le avrebbe fatto perdere la strada e la vocazione. "Semmai il successo mi ha messo davanti a me stessa e ha attivato il cambiamento. Non rinnego il mio passato perché mi hanno resa una donna, perché mi sento più forte dentro. Vivo ogni attimo e senza la paura del passato", ha spiegato, raccontando che le Orsoline sono sempre in contatto con lei e la appoggiano.

Diventare mamma

Prima di congedarsi c'è stato anche spazio per parlare di amore e maternità. Tutte cose nuove delle quali Cristina fatica ancora a pensare. "E' una di quelle cose a cui non sono preparata. Ma sinceramente un senso di maternità c'è. Semmai un giorno arriverà, perché no. Ma ora sono centrata su me stessa, non penso all'amore figuriamoci a diventare madre", ha concluso la Scuccia.