Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

PRIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Anastasia Bartoli.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.

Gegia (Francesca Antonaci).

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Seymandi.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sydne Rome.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Solarino.

Valeria Rossi.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA MUSICA NON È FINITA. Una vita da artista. Massimiliano Cellamaro su L'Indipendente il 26 Aprile 2023.

Artista. Che brutta parola! Nell’uso comune ha un’accezione negativa. In Italia è sinonimo di “personaggio che non ha voglia di lavorare”. Ma se un artista vuole emergere e soprattutto vuole vivere della propria Arte, nel nostro paese è costretto a fare i salti mortali. Vuol dire impegnarsi nella propria passione 24/7. Ventiquattro ore al giorno per tutta la settimana. Non esistono orari o feste comandate. In qualsiasi momento l’ispirazione si presenti, un artista sa che non può lasciarsela scappare. Deve passare all’azione immediatamente, prima che l’idea voli verso chi gli dedicherà l’attenzione che merita.

Ma li hai visti come si vestono? Spesso hanno l’aria trasandata, lo sguardo sognante. Sembra che vivano in un altro mondo. In effetti vivono su altre dimensioni. Da quando sono diventato papà è una fatica enorme rimbalzare da uno stato creativo alla massima lucidità e attenzione che la vita familiare richiede. Per fortuna non fumo più le canne! Ma restano comunque universi paralleli ingestibili contemporaneamente. Una Partita I.V.A., le tasse, le bollette, la spesa, niente hanno a che vedere con la fantastica vita di un artista completamente immerso nel suo universo creativo. Anzi, essere preso dai doveri quotidiani e le spese mensili mi inchioda al mondo reale, dove spazio per sognare non ce n’è. Non parlo dell’Amore infinito che provo per la mia famiglia, appartiene al mondo dell’Arte e della bellezza che devi saper coltivare. Parlo della burocrazia implicita al far parte di questa società che per un artista diventa un dedalo di vicoli in cui è facile perdersi.

Un artista per creare ha bisogno di staccare i piedi dal suolo. In un istante puoi venire rapito da un volo che non sai dove ti porta. Molti, addirittura, decidono di non posare più i piedi per terra. Ci vuole una bella dose di sensibilità. Chi è più materiale vive incollato alla realtà, crede solo a ciò che può toccare con mano. Un animo più sensibile preferisce sorvolare su futili questioni quotidiane, non è interessato alle idee che riempiono la vita dei babbani, vuole spingersi verso territori inesplorati. É difficile da spiegare, scavi così a fondo nel tuo animo da prendere il volo e librarti nell’aria, sembra un controsenso, lo so. Quando un’emozione investe un creativo ha a che fare con un animo curioso che non si fermerà alle prime impressioni. La studierà da ogni angolazione. Cercherà frasi, colori, tele, materiali, che raccontano quell’emozione per tradurla sul piano della realtà. Cosicché chi è meno sensibile la possa vedere, toccare, ascoltare. Non riuscirà mai a riportarla esattamente come l’aveva immaginata e questa è l’eterna frustrazione di noi artisti. La musica poi è la più eterea delle Arti, la più elevata. Perfino l’architettura o l’Arte della scultura vengono considerate musica congelata, scolpita nel tempo.

Quello sguardo sognante e un po’ assente, l’aria trasandata, sono segnali che ci stiamo muovendo su altre dimensioni, siamo in cerca di risposte. Intercettiamo nuovi trend, offriamo nuovi punti di vista, analizziamo l’intimo più profondo del genere umano per raccontarlo, sviscerarlo. Questi sono i principali motivi per cui un artista andrebbe valorizzato e supportato nella società moderna così poco attenta al proprio lato interiore.

L’animo profondamente maschile che caratterizza i tempi che stiamo vivendo si rivela nella musica che il mercato propone. É un’epoca in cui l’immagine conta più della musica che produci. Ciò che si vede conta più di ciò che si ascolta o percepisce. Il fine ultimo è poter ammassare più beni materiali possibili, il messaggio non è neanche così velato, anzi spudoratamente sbandierato. Le donne devono tirare fuori i cojones in un mondo che non venera il proprio lato femminile come dovrebbe. L’iperbole della tecnologia è in piena accelerazione e stiamo vivendo tempi di cambiamento tutt’altro che semplici. Soffiano forti venti di cambiamento, nessuno sa dove ci porteranno, ed è fondamentale mantenere un proprio equilibrio.

Con l’avvento dell’era digitale molte professioni sono sparite ed è una tendenza in forte aumento. Grazie al web stiamo scoprendo nuove ed infinite possibilità, nuove figure professionali nascono ogni giorno. Nel giro dei prossimi dieci anni il mondo verrà totalmente stravolto. Siamo entrati nell’era del Web3… già da un po’… e come ogni novità ce la stiamo perdendo. L’Italia risponde sempre barricandosi in vecchie sicurezze, con l’unico risultato di rimanere una piccola fortezza esclusa dall’evoluzione verso cui il resto del pianeta si sta muovendo. Non permettere agli italiani di usufruire di Chat GPT ci ha riportato in un istante indietro di dieci anni rispetto al resto del mondo. La SIAE che taglia fuori la nostra musica dai social per questioni economiche di un accordo non raggiunto, crea un danno incalcolabile ad artisti che dovrebbe tutelare. Siamo un paese che ha difficoltà a rapportarsi con le nuove tecnologie.

Tutta questa incertezza che si respira nel mondo del lavoro per gli artisti non è affatto una novità, siamo abituati ad affidarci alla sincronicità degli eventi. Ma oggi, anche chi ha un posto fisso si è dovuto arrendere all’idea che tutto può cambiare da un momento all’altro e potrebbe essere obbligato a reinventarsi. L’ansia e gli attacchi di panico sono il perfetto sintomo della paura latente creata da questa continua instabilità. Io la vedo come una possibilità di crescita. Il mio consiglio è di cogliere al balzo l’opportunità di coltivare piccoli sogni che spesso teniamo rinchiusi. Se viviamo esclusivamente nella nostra dimensione mentale rischiamo di farci inghiottire da infiniti ragionamenti alla ricerca di una spiegazione razionale. In una società che di razionalità ne dimostra ben poca. Una possibile soluzione potrebbe essere vivere un po’ più da Artista e rispondere alle proprie sensazioni passando immediatamente all’azione.

Ma che volete che ne sappiano gli artisti? Viviamo più di pancia, seguendo il cuore. Resto un inguaribile sognatore. [di Massimiliano Cellamaro, in arte Tormento]

Professor rapper: quando gli alfieri dell'hip-hop salgono in cattedra. Brutti, sporchi e cattivi? Il rap e la trap sono oggi accusati di violenza e di sessismo. Ma c’è molto altro. Come dimostra la voce degli artisti che portano parole e rime a scuola e in carcere. Da Militant A ad Amir Issaa, da Murubutu a Rancore. Emanuele Coen su L'Espresso il 7 dicembre 2023

Parlano forte e chiaro i testi di Gallagher, il trapper romano arrestato con l’accusa di aver picchiato per due anni la compagna, anche quando era incinta. Nella canzone “Drip Walk” dice: «Sto con la tua nasty mi twerka sul ca**o / Mi dice che sono razzista, drogato e coatto/ Le tiro i capelli da dietro e la sbatto». E anche le frasi di “Zitta” del trapper pavese Silent Bob non hanno bisogno di spiegazioni («Comunque, una baldracca puttana infame indegna/carabiniera a cavallo/Vedi di sparire di non farti vedere neanche in foto»). E così via. È questo il volto brutto, sporco e cattivo del rap e della trap, sotto accusa per sessismo e misoginia. Una polemica infuocata: dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e la Giornata contro la violenza sulle donne, in molti hanno puntato il dito proprio contro certi artisti, che hanno replicato a muso duro. «Quanto qualunquismo in classico stile italiano. Come se la donna non fosse mai stata trattata come un oggetto nelle fantasie degli italiani, sin dall’inizio delle televisioni private dagli anni Ottanta a oggi», ha scritto su Instagram il rapper napoletano Luché. 

C’è però un altro hip hop, che non ha nulla a che fare con le rime violente. Rapper che entrano nelle scuole e in carcere, usano le proprie canzoni per diffondere tra studenti e detenuti concetti come inclusione, rispetto, impegno civile. Si trasformano in professori ma non salgono in cattedra perché alle lezioni frontali preferiscono l’interazione con gli studenti, guardarli in faccia, stimolare le loro riflessioni. Scrivono libri, fanno lezione all’università, portano avanti progetti di “edutainment”, quando l’educazione si fonde con l’intrattenimento. Con risvolti inaspettati: la Fondazione Treccani Cultura, ad esempio, già da tempo racconta l’evoluzione della lingua attraverso i testi della nuova generazione di artisti della scena hip hop, rap, trap e indie, per trasmettere il valore di alcune parole chiave del mondo contemporaneo. E ha avviato diversi progetti – legati alla scrittura, alla lettura, al freestyle - in collaborazione con diversi rapper: Murubutu, Myss Keta, Amir Issaa. Inoltre, edulia dal Sapere Treccani ha lanciato online “Superskill – Il potere delle competenze”, nuovo format gratuito educativo che, attraverso esperienze e testimonianze video di eccellenze della cultura, dello spettacolo e dello sport, vuole ispirare e orientare i giovani nell’individuare le competenze e le caratteristiche che ognuno di noi ha in potenziale e coltivarle, per farle diventare chiavi di successo nella vita professionale e personale. Myss Keta ha contribuito con contenuti originali a questo progetto. 

IL RAPPER MURUBUTU 

«Allo specchio imitavo Jay-Z e Nas/Wu Tang dentro il walkman in giro per la città/ Poi ho capito che avevo tanto da dire/ Carta e penna e in tasca appena duemila lire/ Ma mi sentivo il re dentro il mio isolato/ E mi ha aiutato a sentirmi meno isolato», canta Amir Issaa. Cresciuto nel quartiere di Torpignattara, a Roma, figlio di un immigrato egiziano e di una donna italiana, si avvicina all’hip hop all’inizio degli anni Novanta. Con una lunga carriera da rapper alle spalle, oggi a 44 anni è in prima linea sul fronte dell’educazione nelle scuole, all’università, nei penitenziari, mondo che conosce bene perché suo padre ha trascorso diversi anni in cella. Dopo aver scritto il libro “Vivo per questo” (Chiarelettere), Issaa ha cominciato a usare il rap come strumento didattico rileggendo elementi di poetica e facendo scoprire ai ragazzi che le canzoni che ascoltano dal cellulare sono anche il risultato di un esercizio linguistico. Poi ha dato alle stampe il libro “Educazione rap” (add editore, prefazione di Paola Zukar), in cui racconta la propria esperienza e disegna un percorso che mette al centro gli studenti e la parola, le emozioni e la lingua. In queste settimane, inoltre, è impegnato in un tour nelle università degli Stati Uniti. «Per i ragazzi è chiaro che l’aspetto che più mi affascina del rap è la scrittura», dice il rapper su Zoom dal campus dell’Università di San Diego, in California: «Il lavoro sulla scrittura serve a raccontare la realtà, la propria storia e quelle altrui utilizzando le rime, costruendo uno stile. Da anni vado nelle scuole a combattere stereotipi e pregiudizi usando il potere delle parole: identità, seconde generazioni, diritti, George Floyd, periferie, America, femminismo». Eppure oggi molti rapper, ma soprattutto i trapper, siedono sul banco degli imputati, accusati di machismo e sessismo. «Attraverso i testi, a volte, passano messaggi diseducativi, ma non sto qui a fare la morale perché bisogna contestualizzare», prosegue Issaa: «A 18 anni non hai la stessa maturità che a 40. Se oggi riascolto le mie canzoni di allora non avevano dentro di sé molta saggezza. Ora invece sento una forte responsabilità verso le nuove generazioni», conclude il rapper. 

IL RAPPER MILITANT A DEGLI ASSALTI FRONTALI 

Chi non si è mai tirato indietro è Militant A, nome d’arte di Luca Mascini, che si è conquistato un posto di rispetto nella scena dell’hip hop politico, impegnato, voce e frontman dello storico gruppo Assalti Frontali. Da anni il musicista, che è anche scrittore e “arteducatore” come ama definirsi, porta nelle scuole le sue rime e in queste settimane attraversa l’Italia con il suo libro “Cambiare il mondo con il rap” (Momo Edizioni). Nel 2016, alla vigilia del referendum, il rapper scrisse insieme a sessanta bambine e bambini il “Rap della Costituzione”, mentre due anni fa registrò la canzone “Ng New Generation” con i bambini del Piccolo Coro dell’Antoniano per il festival Zecchino d’oro. Mondi lontani anni luce, ma solo in apparenza. 

Nei giorni scorsi Militant A ha affrontato con gli studenti il tema del femminicidio di Giulia Cecchettin. «Sono tutti molto coinvolti, anche se per loro resta una cosa lontana. Sanno che quando una ragazza si fidanza deve cambiare modo di vestire, ad esempio non indossare i leggins. Oggi i ragazzi apprendono molto dalla scuola, dalla famiglia, dalla musica. Il rap dunque deve fare la propria parte, ma in questa fase vedo in giro scarsa responsabilità», dice il rapper, che aggiunge: «È un dolore: spesso si dice che nel rap devi usare parole come “body”, “troia”, sennò non è autentico. Non sono d’accordo: bisogna usare un linguaggio diverso, assumersi le proprie responsabilità. Però una cosa è certa: è la società con la sua violenza a essere responsabile, quando vediamo certi ruoli riprodotti nella pubblicità, in tv, nei meccanismi del potere, i testi del rap rispecchiano la violenza della società. Mi sforzo nei laboratori a trasmettere valori di gentilezza, cura, comunità, far riflettere i ragazzi sul fatto che i problemi personali possono essere risolti insieme agli altri». 

IL RAPPER AMIR ISSAA 

Sconfinano in altri campi i rapper che vestono i panni del professore, tratteggiano percorsi inattesi. Rancore, ad esempio, 34 anni, tra i rapper più acclamati della sua generazione con i suoi racconti della realtà e di un mondo straordinario, di fantasia, dopo l’uscita dell’album “Xenoverso” e la duplice partecipazione al Festival di Sanremo (la prima nel 2019 al fianco di Daniele Silvestri in gara con la canzone “Argentovivo”, premio per il miglior testo), ha partecipato come giurato e performer alla prima edizione del Premio Strega sezione poesia. Il suo vero nome è Tarek Iurcich, padre di origine istriana e madre egiziana, ed è uno dei protagonisti del progetto scuola Abc, promosso dalla Regione Lazio con Roma Capitale. Un ciclo di incontri nei teatri con gli studenti, per parlare delle emozioni e dei sentimenti attraverso i luoghi. «Ci sono luoghi dentro di noi che già hanno la loro musica, emozioni che già fanno rima, devono solo essere scoperte», dice Rancore rivolto alla platea del Teatro Argentina, a Roma: le ragazze e i ragazzi lo applaudono fragorosamente, conoscono a memoria le sue canzoni, lo riempiono di domande. «Spero che i nostri incontri possano fornire ai ragazzi strumenti per esprimersi all’interno della creatività: la poesia, il teatro, la musica», dice il rapper in una sala del teatro. Non è scontato che un rapper salga in cattedra, metaforicamente o meno, per insegnare ai ragazzi a utilizzare la lingua italiana sotto forma di rime. Per tanti anni il rap ha scontato un certo snobismo da parte del mondo della cultura, come se non avesse dignità letteraria. Poi Kendrick Lamar nel 2017 ha vinto il Pulitzer per la musica, qualche anno fa, la prima volta per un rapper, e le cose hanno cominciato a cambiare. «Il rap è un mezzo che può essere sfruttato in mille modi, per rompere certi schemi», aggiunge Rancore. Che però rifiuta l’etichetta di professore-rapper. «A me la parola educatore non piace. Ovviamente rispetto tutti coloro che educano perché costruiscono il futuro, ma non mi si addice. Chi insegna ha studiato molto, molto più di me. Io vengo dall’intrattenimento, intendo restare in questo settore, magari indirizzandolo verso la costruzione di qualcosa, non solo dello svago», conclude. 

Scuola e rap si mescolano, intrecciano le loro strade secondo traiettorie impreviste. C’è anche chi non rifiuta affatto l’etichetta di rapper professore, anzi sale in cattedra tutti i giorni. Alessio Mariani, in arte Murubutu, è docente di Storia e Filosofia in un liceo di Reggio Emilia, la sua città, ma anche rapper affermato. Attraversa l’Italia con il talk “Scelgo le mie parole con cura”, con cui indaga tutti i possibili rapporti tra rap e letteratura. Nelle sue rime tiene insieme Dante Alighieri e Italo Calvino, i filosofi greci e James Joyce. «Gestisco bene la mia doppia vita, in cattedra e sul palco faccio la stessa cosa: veicolo in maniera accattivante contenuti culturali», sintetizza Murubutu: «La musica mi aiuta a scuola, è un linguaggio che condivido con gli studenti. Il professore aiuta il rapper a trovare ogni giorno materiale utile per le canzoni, il rapper aiuta il professore a tenerlo in mezzo ai giovani». A dimostrarlo ci sono i suoi primi sette album, completamente dedicati allo storytelling tra cui “Infernvm” col rapper Claver Gold, incentrato sulla prima delle tre cantiche del Sommo poeta. E ora ha appena pubblicato il singolo “L’avventura di due sposi”, ispirato al racconto contenuto ne “Gli amori difficili” di Italo Calvino, in occasione del centenario della nascita dello scrittore. Murubutu vive in mezzo ai giovani, che adorano la trap. Cosa pensa della deriva linguistica, del sessismo, del machismo? «Seguo la trap con molto interesse dal punto di vista antropologico», conclude il professore-rapper: «Rivela un disagio, un segnale d’allarme di cui tener conto. Non si può liquidare come fenomeno solo di moda».

Estratto dell'articolo di open.online.it venerdì 8 dicembre 2023.

Una nota della polizia penitenziaria allegata a un’indagine dei pubblici ministeri Francesco De Tommasi e Gianluca Prisco accusa due rapper. Che si sarebbero messi «al servizio» di un boss, ovvero Nazzareno Calajò detto Nazza. I cantanti sono Marracash, alias Fabio Bartolo Rizzo, e Guè Pequeno, ovvero Cosimo Fini. Nessuno dei due è indagato.

E, scrive oggi Il Fatto, nessuno dei due ha voluto commentare le accuse. Eppure il 10 luglio scorso durante un concerto all’Ippodromo di San Siro a Milano Guè ha salutato pubblicamente il boss: «Nazza libero! Free Nazza! Una mano su!». Mentre il 21 settembre scorso sul palco del Forum di Assago Marra saluta proprio Nazzareno Calaiò. E anche Kalash, alias Alessandro Calaiò, figlio del boss. 

I ringraziamenti

«Ci tengo a ringraziare la gente del mio quartiere venuta a queste serate. Mattia (Mattia Di Bella, altro cantante, in arte Young Rame), Kalash (Alessandro Calaiò), Momo e soprattutto il grande zio Nazza. Un abbraccio!», dice Marracash. E Luca Calajò, presente al concerto, manda tutto alla zia e alla moglie di Nazza: «Fai un video, lo zio che ringrazia Marracash, l’ha salutato davanti a tutti, fai fare un video allo zio». Nazzareno Calajò a luglio era in carcere con l’accusa di traffico di droga. A settembre si trovava agli arresti domiciliari.

E la polizia penitenziaria scrive: «È noto che la famiglia Calajò domini il quartiere Barona e il suo predominio lo ha ottenuto anche grazie al consenso di parte della popolazione residente, alimentato mediante numerose comparse dei principali esponenti della famiglia criminale nei videoclip di famosi cantanti rapper come Guè Pequeno, Marracash e Young Rame [...]».

La procura

La procura di Milano spiega invece che la fama e il successo dei rapper servono al tornaconto del boss. Anche per professare la sua innocenza. Mentre proprio Nazza intercettato spiega: «Altro che non servono a un cazzo i cantanti, i cantanti servono!». Gli dedicano anche le canzoni: «Adesso m’hanno fatto una canzone per me Marra, Guè e lui (Young Rame). Compongono le canzoni per me! Hai capito?! Guè pure mi ha fatto una canzone Il tipo». Il testo: «Anche se l’hai capito, tu non fare mai il nome del tipo (…) Finché comanda è meglio che godere (…) Il tipo ha più di un soldato».

Le magliette e i soldi

Non finisce qui. La procura scrive che la solidarietà dei rapper si vede anche dalla produzione di magliette con la scritta “Nazza libero” e “Verità per Nazza”. Vengono indossate dai due nei videomessaggi sui social. Anche se all’inizio Marracash fa un po’ di resistenza. A quel punto Nazza gli dà del «traditore» e dell’«infame». E allora Marracash la indossa. Dulcis in fundo, come emerge da un’intercettazione, c’è un rapper che gira alla banda il 10% degli incassi. Serviranno ad affrontare le spese di detenzione.

Paolo Crepet, rissa con Frankie Hi-Nrg: "Roba da drogati!", il 4 Dicembre 2023 su Libero Quotidiano.

Si infiamma la puntata di In altre parole, il programma del sabato sera condotto da Massimo Gramellini su Rai 3. Nella puntata del 2 dicembre, al centro c'è l'omicidio di Giulia Cecchettin, l'indagine sul profilo dell'assassino, Filippo Turetta, e sul mondo in cui crescono i giovani d'oggi.

Ospite in collegamento lo psichiatra Paolo Crepet, mentre tra gli ospiti in studio ecco anche il celebre rapper Frankie Hi-Nrg. Ad un certo punto della puntata, il discorso verte sulla musica trap, evoluzione più "violenta" del rap, un fenomeno di massa tra gli adolescenti.

E sulla musica trap, Crepet usa torni terminali: "Chi ascolta la trap diventa un drogato!", spara ad alzo zero. E ancora: "Vuol dire droga, mettere il trap vicino al romanzo noir è una cosa faticosa, quando ho letto il romanzo A sangue freddo non sono diventato un assassino". Ma Frankie Hi-Nrg eccepisce: "Questa è una sua dedizione, nessuno che ascolta diventa la trap diventa un assassino, sono deduzioni un po’ tranchant", conclude.

Dario Salvatori per Dagospia giovedì 30 novembre 2023.

Ma era proprio sicuro Alessandro Grando, sindaco di Ladispoli, di sganciare 325 mila euro (di cui 200 mila per Emis Killa e Guè) per la notte di Capodanno? La sua risposta è stata imbarazzante: “In questo modo si evita di far fuggire i giovani dalla nostra cittadina.”. Però. Sono migliaia i giovani e non giovani che tutti i santi giorni fanno i pendolari da Ladispoli a Roma e viceversa. 

Forse aveva fatto i conti con i gusti musicali dei più giovani attraverso una ricerca di mercato. Chissà. Il femminicidio non ha nulla a che vedere e non si fermerà certo facendo bisboccia l’ultimo dell’anno. No, piuttosto bisogna capire perché i nostri rappers cercano di emulare i grandi del rap, al 95% americani, neri, con una situazione territoriale molto diversa dalla nostra. 

Come si può rincorrere un genere che lo scorso luglio festeggiava i cinquant’anni? Non esiste un comparto musicale durato così tanto: non c’è riuscito il free jazz (che pure poteva contare su fior di  musicisti, da Cecil Taylor a Ornette Coleman); non c’è riuscita da dodecafonia, che fece impazzire gli accademici; non ci riuscirono i futuristi, che possedevano gli “intonarumore”.

Un genere musicale innovativo  diventa quasi sempre derivativo e difatti i rappers nostrani sono diventati padri di famiglia, hanno appeso al chiodo il cappellino, sono diventati rigorosamente mainstream e molti fra loro frequentano con piacere la tv. Rispetto al Capodanno sfumato Emis Killa è convinto  che “Nel rap esiste una cosa chiamata storytelling. Io interpreto, invento, racconto fatti che accadono.” Bravo. 

Peccato che lo storytelling esiste da centoquarantanni nel cinema, nella musica, sia in quella popolare ancor di più nel pop. Negli anni Cinquanta c’era Ciccio Busacca con i suoi “quadri”, poco più tardi Matteo Salvatore, ognuno con i problemi della propria regione. Oggi c’è  Ascanio Celestini.

Lo storytelling era fra noi anche negli anni Venti del Novecento. “Balocchi e profumi”(1929), dramma sentimentale, con una conclusione evidente, quella del tardivo pentimento della madre sconsiderata: “Per la tua piccolina/non compri mai balocchi/mamma, tu compri soltanto/i profumi per te.”. Una canzone che non ha risparmiato nessuno, da Gennaro Pasquariello  ad Anna Fougez, fino a Mina e a Renato Zero che la cita “Profumi, balocchi e maritozzi”.  E che cosa è “Il ragazzo della via Gluck”(1966) di Adriano Celentano in versione verista: “Passano gli anni/ma otto son lunghi/però quel ragazzo ne ha fatta di strada/torna e non trova gli amici che aveva.” E che dire di “My way”(1969) di Frank Sinatra, che canta “l’autunno della mia vita”, con un testo tradotto in inglese proprio per lui da Paul Anka (l’interprete di “Diana”): “Morsi più di quello che potevo mangiare”. Già lo immaginiamo. 

E se i rappers italiani hanno poco a che vedere con i colleghi americani (si fa per dire), che sono sono cresciuti nel Bronx o a Watts, periferia di Los Angeles, loro arrivano dalla middle-class, stretti nella loro cameretta. La verità è che stiamo allevando i cantanti e musicisti senza talento di tutti i tempi, consegnando a costoro denaro e popolarità, autorevolezza e una vecchiaia serena costruita  a base di clic.

Non hanno voluto studiare musica, non amano la gavetta, si nascondono fra maschere, tatuaggi, nudità inespressive. Sono i saltafila della musica. Quei tre o quattro che hanno studiato musica lo dicono a mezza bocca. Prendiamo Lazza (Jacopo Lazzarini), il milanese ventinovenne che lo scorso  è arrivato secondo al Festival di Sanremo. Dice di aver frequentato il conservatorio. Perché frequentato? Il conservatorio non si “frequenta”, non è il bar sotto casa o solo perché è a quattro passi. Lazza si è iscritto al Liceo Musicale di Milano che “propone un rapporto di collaborazione educativo con il conservatorio Giuseppe Verdi”.

Morale: lui non si diplomato né al liceo né al conservatorio. Peccato che nel resto dell’Europa ci si “laurea” in piano o in qualsiasi altro strumento, da noi ci si “diploma”. Interessante. E poi perché tutti si fermano all’ottavo anno? Di Morgan lo sappiamo. Abbandonò perché il padre si era suicidato e dunque era lui a dover portare i soldi in casa, lavorando in un piano-bar. A quindici anni?  E che razza di posto era? Gli versavano dei contributi? Probabilmente esiste la malia dell’ottavo anno. Anche per Lazza. Un autentico club. 

Sono stato molto amico di Armando Trovajoli, il grande pianista di jazz, compositore e forse sarebbe stato un grande concertista. E in qualche modo lo è stato. Mi dava dei consigli che avevano l’oro in bocca: “Guarda, se vuoi capire se un pianista è uscito dal conservatorio, guarda se  utilizza la cadenza plagale, ovvero la sottodominante tonica. E’ più morbida, delicata, meno risolutiva. Di solito viene impiegata a metà brano per creare una variazione timbrica alla cadenza iniziale”. Ad averne.

Estratto dell'articolo di Paolo Giordano per ilgiornale.it giovedì 30 novembre 2023.

[…] Il combinato disposto di fatti di cronaca (l'arresto di alcuni trapper, la spaventosa quantità di femminicidi) e della pubblicazione o della riscoperta sempre più frequente di testi violentemente misogini porta molti a chiedere un intervento, magari una censura. Come se quei testi fossero una causa e non uno specchio nel quale si riflettono gravi disagi che investigatori o psicologi sanno spiegare molto bene e che nella musica trovano al massimo una valvola di sfogo e non un detonatore.

[…] In una società liberale, chiunque ha il diritto di scrivere oscenità e l'eventuale dovere di risponderne giudizialmente, così come chiunque può criticare le oscenità, cosa che, nel caso di tanti testi, specialmente quelli misogini o ciecamente maschilisti, vale la pena fare. Ma poi basta. Come ha detto Caterina Caselli su questo Giornale, la censura non è la via giusta. Dopotutto, quando si è provato a intervenire in questa direzione, il risultato è stato addirittura controproducente.

L'ultimo esempio clamoroso è quello del Pmrc, ossia il Parents Music Resource Center voluto negli Stati Uniti di metà anni Ottanta da Tipper Gore, moglie del futuro vicepresidente Al Gore. Nel 1985 lei aveva regalato a sua figlia undicenne il disco Purple Rain di Prince, salvo poi scoprire un riferimento all'autoerotismo nel brano Darling Nikki. Patatrac. […]

Grazie all'accordo con i discografici della Riia, fu addirittura imposta l'applicazione sui dischi dell'adesivo «Explicit content» in modo da avvisare dei contenuti. Risultato? I crimini non diminuirono, l'adesivo divenne così «cool» che tanti artisti lo volevano in copertina per aumentare le vendite e il rap iniziò massicciamente ad avere testi fuorilegge diventando «gangsta» con brani come Cop killer, assassino di poliziotto, dei Body Count di Ice T. E come andò a finire?

Il gigantesco Frank Zappa (che già aveva protestato con Reagan) partecipò all'audizione pubblica in Senato accompagnato da John Denver e Dee Snider dei Twisted Sister e fu visionario come sempre. Se va avanti così, disse, finirà che «il Pmrc imporrà che i membri omosessuali di un gruppo non cantino e non vengano citati sulla copertina di un disco». E poi liquidò tutto con una delle sue battute fulminanti: «È come se si curasse la forfora tagliando la testa». Oggi ci siamo di nuovo, si invocano le ghigliottine senza capire che l'importante non è tagliare teste ma curare finalmente la forfora. 

Estratto da open.online giovedì 30 novembre 2023.

Rebecca Staffelli, figlia dell’inviato del programma Mediaset Striscia la notizia, è stata sentita in aula di tribunale dai giudici di Monza in merito alla denuncia di diffamazione e atti persecutori contro il trapper Mr. Rizzus. In un brano pubblicato su YouTube invitava i «delinquenti» della Gang 20900 – di cui farebbe parte il rapper monzese – a  «sc****e la figlia di Staffelli». Sui social, ricostruisce il Corriere della Sera, aveva minacciato anche un altro inviato di Striscia, Vittorio Brumotti, ed era stato condannato per rapina e aggressione a 2 anni e 4 mesi. 

Il tribunale di Milano, questa estate, aveva disposto la sorveglianza speciale nei suoi confronti, per le minacce e l’incitamento alla violenza nei suoi testi e sui social, e per non aver cambiato «attitudine e stile di vita» nonostante l’intervento della magistratura. [...] 

Estratto del testo di "Inseguimento" - Mr Rizzus

Siamo in giro dalle tre di notte, tre pattuglie dietro fanno inseguimento

No, non cago mai più 'ste mignotte, ogni sbaglio fatto è tipo insegnamento

Il mio amico stende altre due botte perché dice che così rimane sveglio

Tu mi parli ma chi se ne fotte, pensi sono un babbo ma sono il più sveglio

Ogni volta che sto in giro mi ricordo che sono io il re della Brianza (ehi)

Fatti un tiro di ’sta roba, questa troia dice che vuole una nuova sciarpa (ehi)

20900 stupida puttana, fumo il tuo stipendio in una settimana

Provoco un incendio dentro la tua casa, lei mo' sta venendo e poi si è innamorata 

Estratto del testo di "Faccende" - Mr Rizzus

"La mia ex è una puttana mi ha mollato ora a Monza non ci gira

Sono già stato indagato esco due secondi e mi fan la perquisa

Fra sogno un colpo di stato mentre fumo weeda fatto in prima fila

Sì sono stato arrestato scopo sta cavalla siamo in ketamina"

Gino Castaldo per "la Repubblica" -Estratti mercoledì 29 novembre 2023.

Ci manca solo la caccia alla streghe del rap, come se la causa di ogni male fosse una manciata di canzoni che sono poco garbate nei confronti delle donne, per non dire di peggio. Queste canzoni — ce ne sono di tremende — non sono la causa ma casomai parte del problema, soprattutto quando rispecchiano quel vecchio drammatico sentire di arroganza e prevaricazione maschile. Da lì a considerarle un incoraggiamento al femminicidio ce ne corre. 

Queste associazioni meccaniche sono indimostrabili e pericolosissime perché giustificano percorsi tutt’altro che scontati ed emanano un pessimo odore di censura. Un cantante ha il diritto di pubblicare un brano maschilista e prendersene la responsabilità, così come ognuno di noi ha il diritto di sostenere che quello è un brano maschilista.

A guardarsi bene in giro di canzoni discutibili ce ne sono da ogni parte, perfino nella tradizione più classica, vedi Tom Jones che cantava Delilah, né più né meno un femminicidio confessato. I crimini, quelli veri, sono un’altra cosa. Se andassimo ad analizzare i gusti musicali dei mostri che maltrattano le donne, che le ritengono oggetti di loro possesso, forse scopriremmo associazioni tutt’altro che prevedibili. 

Charles Manson, leader della setta che ha compiuto la strage di Bel Air, era un accanito fan dei Beatles, i suoi seguaci scrissero Helter skelter sul muro col sangue delle vittime. Quando i Velvet Undeground incisero il pezzo di Lou Reed intitolato Heroin in molti lo accusarono di istigare all’uso di droga e lui si difese dicendo che ciò che raccontava era l’inferno della tossicomania, altro che un incitamento. Il confine è molto labile, a volte inesistente, e questo vale per serie tv, film e videogame dove la violenza è un’apoteosi devastante; eppure nessuno si sogna di bandirli perché diseducativi o inneggianti alla barbarie. 

(…)

(ANSA mercoledì 15 novembre 2023) - Sono stati condannati rispettivamente a 6 anni e 4 mesi e 5 anni e 2 mesi i trapper Mohamed Lamine Saida, detto Simba La Rue, e Zaccaria Mouhib, ossia Baby Gang, nel processo milanese con rito abbreviato con al centro la sparatoria, avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 luglio 2022 in via di Tocqueville, vicino a corso Como, zona della movida milanese, in cui rimasero feriti due senegalesi. Lo ha deciso la settima penale di Milano che ha condannato anche altri sei giovani della loro "crew" a pene fino a 5 anni e 8 mesi.

I giudici (Tremolada-Pucci-Gallina) hanno confermato, con pene più alte rispetto a quelle chieste dalla Procura, l'impianto accusatorio dell'inchiesta coordinata dal pm Francesca Crupi e condotta da polizia e carabinieri. Riconosciute tutte le imputazioni contestate: dalla rapina, "il fatto più grave" per i giudici, fino alla rissa, alle lesioni gravi e al porto della pistola, riqualificato come detenzione di arma clandestina. 

Sono stati condannati anche Faye Ndiaga, a 5 anni e 8 mesi, colui che materialmente gambizzò i due, Eliado Tuci, 4 anni e 6 mesi, Pape Loum, a 4 anni e 5 mesi, Mounir Chakib, detto "Malippa", il manager dei trapper, a 3 anni e 8 mesi. E ancora 4 anni e 2 mesi per Alassane Faye e Andrea Rusta. Per Simba, che per l'accusa avrebbe portato quella sera la pistola, mai trovata, la Procura aveva chiesto 5 anni e 8 mesi e per Baby Gang 4 anni e 8 mesi. La condanna per quest'ultimo, a 5 anni e 2 mesi, comprende in continuazione un patteggiamento definitivo per un'altra pistola che gli fu trovata quando venne arrestato assieme agli altri nell'ottobre 2022, su ordinanza del gip Guido Salvini. Nessuno di loro è ancora in carcere.

Baby Gang, 22 anni, è stato già condannato a 4 anni e 10 mesi per una rapina in primo grado, mentre Simba, 21 anni, a 4 anni nell'altro procedimento parallelo su una "faida" tra gruppi di trapper. Il pm nel processo sulla sparatoria aveva messo in luce l'intento di "sopraffazione" del gruppo: non hanno rubato (un borsello ai due senegalesi) perché "hanno bisogno di soldi, come testimoniano i loro contratti e i loro cachet". L'ultima "resipiscenza" degli imputati, tra cui le parole, nel senso di un cambio di vita, pronunciate da Baby Gang in udienza, secondo il pm, "vale poco".

Gli imputati, difesi dai legali Niccolò Vecchioni e Jacapo Cappetta, hanno risarcito i feriti, ma per la Procura "si è trattato di qualche centinaio di euro, niente in confronto dei loro cachet". I giudici hanno comunque concesso le attenuanti generiche per tutti gli imputati, presenti in aula e che se ne sono andati senza parlare.

Estratto dell'articolo di Monica Serra per “la Stampa” venerdì 27 ottobre 2023. 

Jaguar e pallottole. Nelle finzioni dei video delle hit come nella realtà, senza capire mai davvero dove finiscano le prime e inizi la seconda. Una linea sottile varcata spesso, come documentano fascicoli di inchiesta e condanne inflitte negli ultimi anni a componenti più o meno noti delle bande di rapper e trapper rivali che dominano la scena milanese. […] 

Questa volta in carcere è finito il rapper ventiquattrenne Shiva, al secolo Andrea Arrigoni, per aver tentato di ammazzare a colpi di pistola due ragazzi della gang rivale proprio del cortile della sua etichetta discografica, Milano Ovest, in via Cusago a Settimo Milanese. La faida in atto tra i due gruppi è nota ormai a tutti, agli investigatori della Squadra mobile così come nell'ambiente musicale: da una parte Shiva e i suoi amici, dall'altra Rondo da Sosa (non indagato in questo fascicolo) e i trapper della SevenZoo di Milano, che gravitano nel quartiere di San Siro.

L'ultima battaglia di un «dissing» lanciato in primavera sui social, con insulti e accuse incrociate, e proseguito con un paio di risse – di cui una con inseguimento in via della Moscova, pieno centro di Milano – si è consumata l'11 luglio. Le due vittime, con un terzo giovane che col cellulare registrava tutto […] , poco dopo le 20 hanno varcato il cancello del cortile della casa discografica, come ricostruito dai poliziotti diretti da Marco Calì attraverso le telecamere di sorveglianza.

Nelle immagini nitide si vede Shiva con gli amici correre prima all'interno della sede, poi uscire con un'arma in pugno. Una pistola calibro 9x21 che non sarà mai ritrovata dagli investigatori e che – tra le altre cose – fa dire alla gip Stefania Donadeo che Shiva potrebbe rifarlo, potrebbe sparare ancora[…] alla vista dei due aggressori, il rapper «non si è limitato a sparare una sola volta per impaurirli ma più volte, puntando i corpi e colpendoli mentre erano in fuga», è scritto nel provvedimento. Un proiettile dopo l'altro è stato esploso «ad altezza uomo». […]

«È un agguato di una gang con passamontagna e bastone», ha detto al 112 il passante che per primo quella sera ha lanciato l'allarme. Poi ha chiesto aiuto una delle due vittime, il 25enne Alessandro R., ferito di striscio a una gamba, soccorso a un centinaio di metri dalla casa discografica. Poco e niente ha voluto dire agli agenti della Volante intervenuti, perché la prima regola in questa lotta tra bande è l'«omertà» assoluta, come sottolinea anche la gip. 

Che rimarca la «pericolosità sociale» di Shiva, sostenendo che l'unico rimedio per fermarlo è il carcere. […] Perché quello dell'11 luglio non è stato un episodio isolato. Solo il 30 agosto, a San Benedetto del Tronto per un concerto, armato di coltello avrebbe preso parte a una nuova rissa: «Non passare qua sotto… – diceva intercettato al suo addetto alla sicurezza – ci siamo scannati con uno che voleva farci brutto!».

Estratto dell'articolo di Enrico Spaccini per fanpage.it lunedì 30 ottobre 2023.

Alessandro Maria Rossi e Walter Pugliesi sono stati iscritti sul registro degli indagati per l'ipotesi di reato di violazione di domicilio. I due lottatori di Mma, il primo 25enne di Vimercate e il secondo 30enne di Lodi, la sera dell'11 luglio avrebbero tentato il pestaggio di Shiva nel cortile dell'etichetta discografica del rapper Milano Ovest di via Cusago a Settimo Milanese. Agguato poi terminato con il rapper 24enne che li ha fatti fuggire sparandogli contro. 

Come si è visto dalle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza, i due erano entrati poco dopo l'arrivo di Shiva, al secolo Andrea Arrigoni, inseguendolo fin dentro i locali della struttura. Poi, però, il rapper 24enne ha impugnato una pistola calibro 9×21 facendoli scappare e sparandogli addosso.

Per quegli avvenimenti Shiva è stato arrestato e portato in carcere a San Vittore con l'accusa di duplice tentato omicidio e porto abusivo di armi. Rossi e Pugliesi, invece, sono stati iscritti nel registro degli indagati […] 

Shiva ha raccontato che quel giorno ha sparato per difendersi da un'aggressione: "In due si sono avvicinati e mi hanno colpito spaccandomi la mandibola". Secondo l'accusa, però, il rapper avrebbe sparato con una pistola detenuta illegalmente, e non ancora ritrovata, "ad altezza d'uomo".

Estratto dell’articolo di Giulio De Santis per roma.corriere.it lunedì 30 ottobre 2023.

«Da mesi non stiamo più insieme, sono distrutta da quello che ho dovuto sopportare. Non voglio più avere nulla a che fare con lui». Alice (nome di fantasia), 29 anni, racconta così il calvario che ha vissuto. Si sfoga ma evita di nominare l’ex compagno Gabriele Magi, il trapper noto come Gallagher arrestato sabato scorso con l’accusa di averla maltrattata nei due anni in cui sono stati insieme. 

Una rimozione, quella del nome, che le 12 pagine di ordinanza di custodia cautelare spiegano attraverso gli episodi di vessazioni subite da Alice, figlia dell’ex proprietario di una nota discoteca cittadina, cuore pulsante della notti romane tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo. 

Violenze quando Alice era incinta

Ecco alcune delle tappe più amare del calvario di Alice: una costola rotta dopo un pestaggio, i calci sul viso, la spinta contro un termosifone quando lei è incinta del loro bambino. «Adesso devo pensare ai miei figli (il primo avuto da una precedente relazione, ndr), la loro serenità viene prima di ogni altra cosa», dice la ragazza, choccata dalle violenze subite. [...]

«Alterazione legata alle droghe»

Nel capo d’imputazione contro il trapper sono riassunte le tappe del calvario di Alice: il 12 luglio del 2022 Magi rientra a casa, era «strafatto, sembrava indemoniato», racconta un amico di Alice, andato a trovare la compagna di Gallagher. Che, come li vede, inveisce. Inizia a picchiarli entrambi. «Era strafatto, mi ha colpito con un calcio alla schiena così forte che mi ha fatto cadere per terra - dice lei agli inquirenti –. Avvertivo dolore perché un pezzo di costola mi si era staccato». 

Il ricordo dell’amico di Alice è ancora più grave: «Lei era in terra dolorante e Gabriele diceva di non averle fatto nulla ma, nel frattempo, le dava calci sul corpo mentre lei era distesa sul pavimento». Semplice, almeno secondo il ragazzo, spiegare perché Magi fosse così violento: «Era evidente che il suo stato di alterazione fosse collegato all’uso di droghe». 

[…]

La minaccia di usare la pistola

Gallagher reagisce tempestando la compagna di messaggi, e soprattutto arriva a minacciare l’amico, intimando di comunicargli l’indirizzo di casa altrimenti lui sarebbe andato a cercarli con la pistola. Tante volte tra il 2021 e il 2023, come raccontato nell’ordinanza, Alice ha preferito evitare una denuncia. È l’aprile di due anni fa quando Gallagher, in uno scatto d’ira, perde ancora il controllo. Ricorda Alice gli inquirenti: «Si dimostrò aggressivo, colpì molti oggetti in casa». Lei, forse intuendo quale evoluzione avrebbe potuto avere il rapporto, ha troncato la relazione. 

Poi però si è accorta di aspettare un figlio. Ha pensato di abortire, perché Gallagher faceva uso di cocaina e di psicofarmaci, come è spiegato nell’ordinanza. È stata la madre del trapper a convincerla a tenere il figlio. Alice non parla dei guai con il padre, contrario alla relazione. Lo ammette agli inquirenti lo stesso imprenditore, dicendo che «la figlia non gli ha detto niente dei litigi».

L’ultima lite lo scorso 8 settembre: in ospedale scrivono di «percosse agli arti superiori» di Alice. Scatta la denuncia, poi l’arresto. E il trapper? L’avvocato Gian Maria Nicotera dice: «Il mio assistito è sorpreso e addolorato da quanto successo».

(Adnkronos il 13 ottobre 2023) - Mohamed Lamine Saida, il trapper 21enne famoso come Simba La Rue, è stato condannato a 4 anni per rapina e lesioni nel processo con rito abbreviato sulla cosiddetta 'faida tra trapper', che aveva portato il 9 giugno 2022 anche al sequestro e al pestaggio del rapper 'rivale', Baby Touché, che però non ha mai formalizzato querela rendendo impossibile il processo per sequestro di persona. 

Il gup di Milano Rossana Mongiardo ha ratificato un patteggiamento e ha condannato gli altri imputati. Il giudice ha anche condannato Mevljudin Hetem a 3 anni e 8 mesi, mentre la 21enne Sara Ben Salha - ritenuta dagli inquirenti l''esca in carne e ossa' per il pestaggio al centro del fascicolo nelle mani della pm di Milano Francesca Crupi - è stata condannata a 3 anni 5 mesi e 10 giorni per il "concorso anomalo" nella rapina con lesioni subita da due ragazzi in via Settala, quale ipotizzata vendetta per un accoltellamento subito dal gruppo.

Al centro del processo c'è la vicenda che risale al marzo del 2022, quando due giovani, considerati vicini al gruppo del rapper Baby Touché vengono aggrediti in via Settala, in zona Porta Venezia a Milano: azioni, secondo la procura, commesse dal gruppo "per sfregio e punizione" con il fine di "mortificare"  la vittima,  un giovane che faceva parte della banda rivale. 

Il gup, che ha riconosciuto le attenuanti per gli imputati, ha ratificato il patteggiamento per Alan Cristopher Momo (3 anni, 4 mesi e 20 giorni) e ha condannato due imputati a 8 mesi (Pape Ousmane Loum e il manager Chakib Mounir detto Malippa), 10 mesi la condanna invece per Ndiaga Faye. Le motivazioni

saranno rese note tra 30 giorni.

Gli imputati, tutti difesi dall'avvocato Niccolò Vecchioni, hanno lasciato l'aula al settimo piano del Palazzo di giustizia senza rilasciare dichiarazioni, Simba La Rue si è limitato a una storia su Instagram per mostrare i giornalisti presenti. Il 21enne è anche a processo davanti alla settima penale, con l'altro noto trapper Baby Gang e altri giovani imputati, per una sparatoria avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 luglio 2022 in via di Tocqueville, zona della movida milanese, in cui rimasero feriti due senegalesi.

Estratto dell'articolo di Alice Michielon per alfemminile.it sabato 7 ottobre 2023.

Nel[…]L’hip hop, […]le donne sono una parte consistente della […] cultura, di cui si festeggia quest’anno il suo 50esimo anniversario. […] nel bene e nel male […] infatti, le donne hanno rivestito importanti ruoli all’interno della cultura hip hop sia per il modo in cui gli uomini parlavano di (e trattavano le) donne nei loro testi e fuori dallo spartito, sia per l’aspetto pionieristico di molta musica hip hop made by women.

Inoltre, l’impennata di musica hip hop attualmente creata dalle donne dimostra come il genere sia passato dall’essere uno strumento di misoginia a uno di autodeterminazione. Il tutto, anche attraverso la sessualizzazione del sé, che dalle mani d’altri passa nelle nostre (non senza, ovviamente, le solite critiche). La sessualizzazione e oggettificazione del corpo femminile ha infatti percorso, all’interno del genere musicale, una complessa giravolta che, in gran parte, segue quella compiuta dal resto della società.

[…]

 […]

Vista la considerazione data alle donne nei video e nei testi hip hop più popolari di quegli anni, secondo Michelle Wallace, firma dell’articolo del 1990 Women Rap Back, è naturale notare come molte donne abbiano deciso di utilizzare il genere stesso per elaborare critiche e sviluppare forme musicali di resistenza femminista, parlare di sesso come di atto politico, ribellarsi contro la violenza di genere, fare spazio all’innovazione della body positivity.

Parliamo di Let’s Talk About Sex di Salt-N-Pepa, dei video musicali di Missy Elliot e dei testi sessualmente espliciti di Lil’ Kim e Foxy Brown, per esempio. Istanze politiche che sono sfociate in vere e proprie insurrezioni e, purtroppo, in casi di cronaca reale. Come quando la rapper e giornalista Dee Barnes, vittima di violenza da parte de famoso rapper Dr. Dre; come Faith Evans, che spesso ha raccontato le “turbolenze” del proprio matrimonio con the Notorious B.I.G. […]

Difatti, secondo l’esperta di femminismo e cultura africane, Msia Kibona Clark, le donne del mondo hip hop degli anni Ottanta e dei primi Novanta erano “sostanzialmente invisibili”, con l’arduo compito di navigare all’interno di un sistema intriso di sessismo e molestie sessuali di ogni tipo[…]

La direttrice del Center for Black Visual Culture alla New York University spiega che nei libri di storia, le donne del rap appaiono come le eccezioni alla regola, coloro che andavano contro quelli (gli uomini) che stavano effettivamente creando la cultura hip hop. Niente di più falso: “L’hip hop non può raccontare la propria storia da subcultura a monopolizzatore della scena senza riconoscere il proprio rapporto con il genere”, nonostante la sua evidente componente misogina.

[…] però, ciò non ha mai limitato le artiste a sfondare con il rap o a innamorarsi di questo linguaggio musicale. Ne è prova l’esplosione di rapper donne negli Stati Uniti, a fronte di tutti gli ostacoli che ancora nella nostra generazione queste artiste devono affrontare. Parliamo di Missy Elliot, la prima donna nel rap a essere compresa nella Rock & Roll Hall of Fame; di Cardi B, la prima rapper a vincere il premio come Best Rap Album ai Grammy, con il suo album di esordio nel 2019.

Ma anche di Megan Thee Stallion, seconda detentrice del genere hip hop, dopo Lauryn Hill, del premio Best New Artist. E pure Nicky Minaj, […] Ma nella rappresentazione dei corpi femminili e delle donne, sia da parte degli artisti uomini che non, che cosa è cambiato da allora a oggi?

La ricercatrice Christin Smith spiega che il trattamento sessualizzante è stato preso in mano dalle vittime di esso, per poterne fare un proprio strumento di gioco. Nonostante le rapper parlassero di sex positivity già agli albori dell’hip hop, è solo a partire da artiste come Lil’ Kim e Foxy Brown che il dialogo sulla sessualità si fa più aperto e personale, catturando controversie e ipocrisia.

Le loro canzoni, infatti, erano spesso considerate “troppo sexy” (non quando però, a parlare di loro nello stesso modo, erano i colleghi maschi). Il problema, come spesso accade, risiedeva non nella sessualizzazione, ma nel fatto che queste donne la facessero propria. L’evoluzione dell’hip hop (anche) in questo senso trova il proprio picco intorno ai 2000 – 2010, con l’arrivo di Nicky Minaj e lo sviluppo della tecnologia che ha concesso all’iper democratico hip hop di diventare ancora più alla portata di tutti. […]

Il filo rosso rimane il medesimo: l’empowerment femminile. Ma se prima avveniva in contrapposizione alla sessualizzazione da parte di altri, ora la frittata è stata rigirata e le rapper raccontano la propria libertà sessuale ed economica attraverso i testi e i video delle loro canzoni. […] non la prima, ma la rapper che lo ha fatto in maniera più efficace e che ha aperto le porte alle future colleghe, è stata di nuovo Lil’ Kim con il debutto da solista Hard Core.

Questo “manifesto femminista” esprime il desiderio dell’artista di ottenere lo stesso potere, gli stessi vizi e lussi e il medesimo ruolo di leader dei suoi simili uomini.[…] . Il tema si è rivelato particolarmente caldo all’uscita del singolo WAP (Wet Ass Pussy) nel 2020, firmato Cardi B e Megan Thee Stallion. Un dibattito che raramente è stato aperto di fronte ai testi iper sessualizzanti dei loro colleghi uomini.

A 50 anni dalla nascita del genere hip hop, a fronte di tutte le sue trasformazioni e davanti all’evidente popolarità di artiste donne nel genere (che, ricordiamolo, sono sempre esistite), non ci resta quindi che una sola, grande speranza: che la corsa non si arresti e che, anzi, possa scardinare sempre di più gli stereotipi del rap e dimostrare come le donne nella musica, e non solo, possano raccontare e rappresentarsi nelle loro più numerose sfumature, autodeterminandosi senza limiti di sorta, né differenze.

Mezzo secolo di hip hop. La lingua del Bronx ora è l'esperanto della musica. Quella sera dell'11 agosto 1973, una delle strade più pericolose del mondo diventa la culla di un genere musicale che cambierà il mondo, come solo il rock'n'roll era riuscito a fare. Paolo Giordano il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.

Quella sera Cindy pensava che a casa sua nel West Bronx ci sarebbe stata solo la festa per il ritorno a scuola. Invece fu una rivoluzione, quella sera dell'11 agosto 1973. Aveva chiesto a suo fratello Clive Campbell detto Dj Kool Herc (fumava pacchetti di Kool ed era grosso come Hercules) di «mettere i dischi» e lui si presentò con due giradischi e un mixer inventando lo «scratching». Era presto, tipo le nove di sera perché tutti avevano sedici o diciassette anni, ma se oggi ovunque a tutte le ore si ascolta l'hip hop, beh, bisogna ringraziare proprio quella festicciola con Coca e patatine al 1520 della lunghissima Sedwick Avenue. Una delle strade più pericolose del mondo diventa la culla di un genere musicale che cambierà il mondo. Come soltanto il rock'n'roll era riuscito a fare, l'hip hop (termine che sembra deridere l'incedere dei militari nelle marce) ha influenzato non soltanto la musica ma pure la società oltre che, naturalmente il costume, ha litigato con la politica e ora la condiziona, ha seminato morti, è penetrato nelle generazioni vestendo suoni sempre distinti ma mai diversi. Dalle feste casalinghe ai block party nel Bronx o a Harlem, fino alla «new school», al «gansta rap», all'«alternative» e alla trap, l'hip hop si è espanso al punto che oggi nessun genere musicale è immune a un codice così fluido da adattarsi e rinnovarsi con il tempo. Un processo lento, lentissimo che è nato quando i Led Zeppelin riempivano gli stadi e i «coliseum» americani e per il resto dell'Occidente la black music era al massimo quella di James Brown e del blues e del soul firmati Motown o Stax Records, non certo quella piena di rabbia, di slang inediti o incomprensibili, di voglia bruciante di sognare diverso. La forza dell'hip hop è che non è soltanto musica, ma è una sottocultura allargata ai graffiti, alla break dance, al beatboxing e al linguaggio, sì al linguaggio, perché la lingua dell'hip hop ormai è l'esperanto più diffuso ovunque tra gli under 50. A proposito: generalmente hip hop e rap si usano come sinonimi ma non lo sono. Il rapping è per forza hip hop. Ma l'hip hop può incorporare altri elementi della cultura del movimento, come Djing, turntablism, scratching eccetera. Oggi che compie mezzo secolo, nel monte Rushmore dell'hip hop sono scolpiti i volti di Dj Kool Herc, di Grandmaster Flash, di Afrikaa Bambaataa e dei The Sugarhill Gang che nel 1979 furono i primi a registrare un brano hip hop, Rapper's delight. In Rapper's delight ci sono le coordinate che ancora adesso, rivedute e (s)correttissime, sono la guida del genere, ossia l'utilizzo di sezioni strumentali di brani preesistenti (in questo caso di Good Times degli Chic) e il cosiddetto «rapping», che è un modo di comunicare sincopato che deriva dal «toasting» giamaicano e che necessariamente mescola il contenuto, il «flow», cioè il ritmo, e la consegna, cioè la cadenza. Cresciuto sottobraccio alla tecnologia (da quando campionamenti e drum machine sono arrivati alla portata di tutti) l'hip hop è stato innanzitutto la negazione dei capisaldi della musica fino ad allora, ossia il virtuosismo vocale o strumentale e la presenza di musicisti. L'hip hop si può creare ovunque, anche da soli, anche senza strumenti. Perciò si può mescolare a tutto. E non a caso tra il 1983 e il 1986, la seconda ondata di rap assorbe il rock e, grazie soprattutto a Run Dmc, LL Cool J (che oggi è Sam Hanna in Ncis Los Angeles), Public Enemy e Beastie Boys (epocale la Walk this way con gli Aerosmith), arriva a bussare alle classifiche mondiali, a prendere nomination ai Grammy, a finire sulla copertina di Rolling Stone. A fine anni '80 il genere prima chiuso nel ghetto era salito sul tetto del mondo e da allora non ne è più sceso. Ha macinato lo sleaze metal dei Guns N'Roses, il grunge dei Nirvana, l'alternative rock fino a diventare il protagonista totale. L'hip hop è un impero miliardario. E lo è diventato anche creando misteri e leggende, offrendo in sacrificio Tupac Shakur («sparato» a Las Vegas l'8 settembre 1996, morì pochi giorni dopo) e The Notorius B.I.G. («sparato» a Los Angeles con una 9 millimetri il 9 marzo del '97) e lanciato artisti che fatturano come multinazionali. Secondo Forbes il rapper più ricco di tutti è Kanye West con 6,6 miliardi di dollari, il secondo è Jay-Z con 1,3 miliardi, il terzo è Sean Combs detto Diddy con 900 milioni e via dicendo. A produrre reddito non sono soltanto dischi o concerti, ma il gigantesco indotto di merchandising, prodotti brandizzati, linee di moda, addirittura cantine che producono vini (Snoop Dogg) o champagne (l'Armand de Brignac di Jay Z). Di certo sono incassi cento o mille volte superiori a quelli dei primi Mc, dei master of cerimonies che davano il ritmo ai block party di fine '70. E questi fatturati sono anche un paradigma di quanto sostanzialmente il rap abbia raggiunto l'obiettivo iniziale, quello della rottura dell'isolamento, dell'uscita (fisica e politica) dal ghetto. Una scintilla decisiva che però oggi è sempre più spesso parodistica, specialmente in Italia dove i «ghetti» sono molto meno definiti che quelli degli anni '80 negli States. Ma senza dubbio il «codice hip hop», anche nella fase «gangsta» con brani come Cop killer (assassino di poliziotti) di Ice T che fece arrabbiare tutti, George Bush compreso, ha aiutato a superare diffidenze razziali che avrebbero impiegato molto più tempo ad assorbirsi. È la forza della musica, una forza che spesso la politica dimentica. E senza dubbio la forza del rap è che, a differenza del rock, è un magma in continua evoluzione, quindi è sempre nuovo, nonostante tutto. Se dalla fine degli anni Novanta è il genere musicale più venduto al mondo (con qualche lieve flessione) è anche vero che i rapper di fine '90 sono lontani anni luce rispetto ai nuovi. Prendete Eminem, il primo «bianco» di strepitoso successo, il primo a «riunificare» da protagonista il popolo rap. Il suo Marhall Mathers Lp del 2000 era una bomba di inaudita violenza (anche verbale) e lui resta un generale a tre stelle del rap. Ma se si mettono a confronto quelle canzoni con quelle del nuovo disco Utopia di Travis Scott, pupillo di Kanye West e nuovo eroe della trap (c'è ancora polemica sul suo concerto al Circo Massimo di Roma del 7 agosto), sembrano di un'era geologica fa. Eppure hanno tutte il marchio hip hop. Insomma, senza rap il mondo sarebbe, penserebbe, voterebbe, si vestirebbe diverso. E probabilmente parlerebbe anche diverso perché, a parte eccezioni come Kendrick Lamar che ha vinto il Premio Pulitzer per la musica, la (multi)lingua del rap si è imposta nel dizionario globale. Aprendo a nuovi, decisivi argomenti. Ma abbassandone il livello e rimanendo stranamente al di fuori della tagliola politicamente corretta che anestetizza la comunicazione. Dopotutto, la musica popolare è spesso «disobbedienza» e, come diceva Sartre, «chi è giovane vuole ricevere ordini per poter poi disobbedire». Jim Morrison o Bob Dylan o Nick Cave disobbedivano facendo poesia. Adesso si preferisce la poetica della volgarità e chiunque decida alla fine che cosa preferisce.

Estratto dell'articolo di Alberto Piccinini per editorialedomani.it venerdì 11 agosto 2023. 

L’11 agosto 1973, cinquant’anni fa esatti, in un locale al pianterreno di un condominio del Bronx nasceva l’hip-hop. Il dj Kool Herc […]17 anni, fratello di Cindy Campbell che aveva organizzato una festa per il ritorno a scuola, acceso l’impianto (suo padre faceva di mestiere il tecnico del suono) svela ai ballerini il frutto di lunghe prove in cameretta: suona due copie dello stesso disco su due giradischi sincronizzati, in modo da allungare per molti minuti la parte ritmica di alcune canzoni, che lui chiama “break”. Taglia e cuce James Brown, Eddie Kendricks, Aretha Franklin. […]

Sono gli anni in cui il comune di New York è sull’orlo del fallimento, la città un misto affascinante di immondizia e luci, crimine e grattacieli, la raccontano Shaft, Il braccio violento della legge, e perché no Gola Profonda appena uscito. […]

Kool Herc fiuta l’aria e evita accuratamente di suonare la discomusic di Philadelphia, in grande ascesa allora: più sofisticata, con sezioni di archi, cassa in quattro ben scandita e coretti sexy. Questo lo mette una spanna di gradimento sopra gli altri dj. Sui break gli improvvisati ballerini – molti dei quali appartengono alla gang dei Black Spades che controlla il quartiere – si sfidano alla maniera di West Side Story, trasformano i gesti di combattimento nelle coreografie e spaccate che hanno visto fare a James Brown in televisione mentre cantava Got to get your feet, una delle sue hit recenti. La loro si chiamerà breakdance, appunto.

Dal party di Kool Herc nel sottoscala di casa sua alle feste nei parchi del quartiere. Rubando la corrente, secondo una leggenda diffusa ai tempi nostri dell’hip-hop delle posse e dei centri sociali. Di sicuro, senza l’appoggio delle gang feste al Bronx non se ne potevano fare: misto di autoorganizzazione e illegalità, eredità delle Black Panther e ombra delle grandi organizzazioni criminali. Era stato soprattutto Afrika Bambaata, una delle prime star internazionali negli anni Ottanta e leader della Zulu Nation, a diffondere la leggenda[…]

È stato il primo a contare le “quattro discipline” dell’hip-hop: Kool Herc inventa il djing e Grand Master Flash lo perfeziona, il suo amico Coke La Rock da il via all’Mcing, cioè il rap vero e proprio. Della breakdance e del suo legame simbolico con i combattimenti tra gang abbiamo detto. Viene del Bronx Phase II, uno dei primi graffitisti di New York, ma lo stesso Kool Herc faceva parte dei Vandals, tra i primi a lasciare le proprie tag in città. 

La storia è fiabesca. I B-boy di tutto il mondo se la raccontavano così, rendendo omaggio ai fondatori, agli innovatori e pure ai martiri. In parte è una storia inventata. […]

Eppure, festeggiare l’anniversario di una festa da ragazzini è così affascinante nella sua semplicità proprio per l’enormità di quel che ne è seguito nei 50 anni successivi: l’hip-hop da almeno due o tre decenni è la lingua franca del pop planetario, cantato in ogni lingua e stile, nella forma della trap con o senza auto-tune. Né bisogna dimenticare che dopo l’estate 1973 del party di Kool Herc passano almeno sei-sette anni perché la discografia si accorga davvero del fenomeno. 

Soltanto per la piccola Sugarhill Records di Sylvia Robinson escono nel 1979 il primo singolo rap Rapper’s Delight della Sugarhill Gang, e nel 1982 The Message di Grand Master Flash. […] 

[…]

Sembra un’impresa impossibile riuscire a tirare una linea dritta tra una serata di 50 anni fa in questo condomino del Bronx e il grumo di estetica, politica, spettacolo che l’hip-hop si è tirato dietro da allora. Ha fatto esplodere contraddizioni di ogni tipo, dalla questione dell’autorialità nell’era digitale all’autorappresentazione dell’identità afroamericana. E le “quattro discipline”? Alla figura del dj si è sostituita quella del produttore, il pc ha preso il posto di piatti e campionatori, ma l’estetica del taglia e cuci in fondo è rimasta al suo posto. Si misura in epoche il tempo passato tra le rime di The Message, tutte in battere senza pause, e i testi cubofuturisti di un qualsiasi trapper di oggi con la voce resa marziana dall’autotune. 

[…] Della breakdance resta la forma spettacolare del ballo negli show e nei video. L’eterna lotta tra quelli che taggano la metropolitana o graffitano la Galleria Vittorio Emanuele di Milano e quelli che il giorno dopo ripuliscono tutto non finisce mai, come giocare a guardie e ladri.

L’hip-hop oggi è un forza economica che fa muovere lo streaming, persino i marchi dell’alta moda, è un fucina di personaggi e storie che contano sull’affetto di almeno due-tre generazioni (e di conseguenza pure dell’odio dei vecchi verso gli ultimi arrivati).

Fenomeno (anche) sconveniente, irriducibile, coatto, rumoroso, profondamente impolitico come tutti i grandi fenomeni della cultura popolare. Afroamericano, come il blues o il jazz. Eppure impossibile da tenere ai margini: globale e dialettale. Stile maschio, Travis Scott al Circo Massimo, gladiatori. All’entrata del condominio del Bronx, a suo tempo il sindaco della città ha autorizzato ad appendere il cartello verde “Hip-hop Boulevard” sotto quello che prima segnava la “Sedgwick Avenue” al numero 1520. E noi ci facciamo la foto. Hip-hop don’t stop.

Estratto dell'articolo di Grazia Sambruna per mowmag.com il 31 luglio 2023.

[…] Samuele Bersani, a social unificati, ha voluto infatti condividere un pensiero di suo conio riguardo a "uno di questi semidei contemporanei della rima cantata". Il giudizio (universale) non è tenerissimo: "si stacca l'autotune per qualche secondo sul palco ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera...". Con chi ce l'ha? […] abbiamo più di un ragionevole sospetto sull'identità dell'illustre sciagurato. Se fosse Sfera Ebbasta?

[…] Tre giorni orsono, però, è divenuto sciaguramente virale un video di Sfera Ebbasta in grande difficoltà sul palco di uno dei suoi live. In assenza di autotune, ha belato come uno che nella vita più che il cantante può fare, forse, il pastorotto che richiama le proprie pecore. Sempre ammesso che oggi ci sia una differenza concreta tra i due mestieri. Vi agevoliamo il reperto, ascoltate responsabilmente: 

Sui social, riguardo a questo video, c'è chi spiega tale débâcle adducendo responsabilità "all'autotune impostato male". Tra i commenti al post di Bersani, infatti, arrivano anche i fan di Sfera invitandolo a una maggiore "onestà intellettuale": il loro "Icaro" non sarebbe stonato, solo vittima di un infausto problema tecnico. Aggiungiamo tale particolare per completezza d'informazione. E anche perché fa piuttosto ridere già così.

Sempre tra i commenti, interviene anche lo stesso Bersani che esprime il proprio dissenso nei confronti del termine "dissing" relativamente a quanto da lui postato. Non ce ne voglia se l'abbiamo usato comunque È oramai l'estate dei "dissing" e, inoltre, il cantautore ha messo in evidenza un problema che flagella noi tutti, almeno dalla nascita della trap nel nostro Bel Paese. […] 

Estratto dell'articolo di ilmessaggero.it il 31 luglio 2023.

Samuele Bersani contro i trapper. E, in particolare, contro Sfera Ebbasta.  […] «Mi hanno girato un video dove uno di questi semidei contemporanei della rima "cantata" si stacca l'autotune per qualche secondo sul palco. Ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera». 

Il riferimento non può che essere a Sfera Ebbasta: da alcuni giorni, infatti, sui social gira un video del trapper che si ritrova a dover cantare senza autotune per un problema tecnico, stonando in maniera piuttosto evidente.

Un filmato diventato virale e che ha dato vita a un acceso dibattito nel quale Bersani è entrato a gamba tesa. 

La risposta

Pur non venendo menzionato esplicitamente, Sfera Ebbasta deve essersi sentito chiamato in causa, così ha lasciato su Twitter un commento che sa tanto di risposta al cantante romagnolo: «Quando il cu*o brucia - ha scritto il trapper - spesso la bocca sparla, cit della settimana».

Finita qui? Neanche per sogno. Bersani ha pubblicato un altro post in cui scrive: «Non basterebbe invece tutto l'autotune del mondo per correggere la mancanza d'ironia che c'è in giro ultimamente. Neanche settandolo nella giusta tonalità». Insomma, anche per questa settimana il "dissing" è servito.

Estratto dell'articolo di Massimo Balsamo per “il Giornale” l'1 agosto 2023.

Non si placa il dibattito su trapper e autotune. Il nuovo capitolo dello scontro ha coinvolto uno dei cantautori più amati d’Italia, Samuele Bersani. «Mi hanno girato un video dove a uno di questi semidei contemporanei della rima “cantata” si stacca l’autotune per qualche secondo sul palco, ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera», il suo j’accuse senza fare nomi e cognomi. Ma in molti hanno letto un riferimento a Sfera Ebbasta […] 

Chi non ha bisogno di aiutini è Al Bano Carrisi, che a 80 anni continua a fare emozionare tutti con la sua potenza vocale. L’artista di Cellino San Marco non ha dubbi: «La “compu-music” è la fine della musica».

Al Bano, che idea si è fatto della polemica su trapper e autotune?

«Pensandoci bene, c’è sempre una polemica sul nuovo. È così da sempre e sarà così per sempre. È così dai tempi di Wagner e di Verdi o più recentemente dai tempi dei grandi cantanti come Claudio Villa, quando c’erano quelli che criticavano gli urlatori. E poi hanno criticato gli artisti venuti dopo e le nuove forme di musica. C’è sempre una critica, ma bisogna anche capire che la musica non è nient’altro che lo specchio del tempo che viviamo. E dobbiamo saperlo accettare in un modo o nell’altro». 

Se c’è un blackout al suo concerto, lei continua a cantare senza grossi problemi. I trapper invece no: per loro è una tragedia, non possono fare più niente.

«Io sono un cantante di voce. Loro sono cantanti di computer. C’è una grossa differenza, la dimensione è diversa».

E cosa ne pensa di quella dimensione?

«Io penso che la musica purtroppo sia finita. Oggi infatti c’è la “compu-music”, ovvero la musica dei computer […] C’è anche da dire che molti critici dei cosiddetti cantanti urlatori li criticavano per aver ucciso la musica. Ma in realtà sono arrivati e sono passati. Ma c’è anche un ricordo mio personale, di quando incisi Nel sole. Alcune persone mi puntavano il dito contro: “Tu con questo tipo di musica non farai niente”. Poi quella canzone ha venduto 1 milione e 600 mila copie». 

La moda dell’autotune è sbarcata anche al Festival di Sanremo: ormai fa notizia se un artista non lo utilizza.

«Il tempo è quello e non si cambia: vince la moda del periodo. Quanto dureranno non lo sanno neanche loro. Ormai basta un computer... La vera musica è a riposo, ma c’è una tradizione antica che rimane viva». 

Negli ultimi giorni è diventato virale un video in cui lei si arrampica ad un traliccio durante un concerto, altro che trapper...

Estratto da corriere.it il 2 agosto 2023. 

Si allarga il dissing, ormai diventato un vero e proprio dibattito social, fra Samuele Bersani e Sfera Ebbasta: la discussione riguarda l’uso dell’autotune, senza cui - ha sostenuto Bersani - i trapper sono irrimediabilmente stonati. […] 

L’ultimo a dire la sua è ora il rapper Frankie Hi-Nrg Mc, intervenuto sotto a un tweet del giornalista musicale Paolo Giordano (che si schierava con Bersani): «Se è la forma a rendere bravo l’artista allora siamo fottuti», ha scritto Frankie, […] «In questo caso c’è il rant di chi vuole vedere la forma come sostanza. Rispetto e stimo Samuele da sempre, ma non sono per niente d’accordo. E te lo dice uno che “rappa perché non è capace di cantare” (vecchio adagio degli anni ‘90, promosso da persone intonate)», […]

E aggiunge ancora: «Attaccare sull’uso di un dispositivo (che è in voga da oltre vent’anni) depotenzia il critico. Se si vuole dire che qualcuno ha testi risibili lo si dica, altrimenti anche chi usa il leggio sul palco (come me) è un povero minus habens».

Secondo Frankie, non ha senso intestardirsi sul modo di espressione: «Fontana tagliava le tele. Burri squagliava plastiche con un cannello. Picasso metteva due occhi dallo stesso lato della faccia. Vado avanti? Criticare la forma è pericoloso», ha detto. […]«Sbeffeggiare qualcuno per il solo fatto che utilizza un dispositivo tecnico in voga dalla fine del secolo scorso fa apparire il critico un novello Elkann, rancoroso e fuori dal tempo. Se il tema è la pochezza autorale, si inferisca su quello».

 [...] Estratto dell'articolo di Giovanna Maria Fagnani per il "Corriere Della Sera" il 2 agosto 2023. 

[...] Sfottò, stilettate. Ma anche allusioni colte [...] e risposte bon ton [...]. È un’estate in cui arriva la consacrazione, anche sulla scena musicale italiana, del dissing : slang che indica canzoni in cui un autore insulta o denigra un collega. Solo a luglio, di queste faide musicali se ne sono viste tre, in forma ibrida: canzoni, oppure solo post sui social. [...]

l’ultimo scontro, fra Samuele Bersani e Sfera Ebbasta. A dare la miccia un post del cantautore che, senza fare nomi, sbeffeggiava i trapper. «Mi hanno girato un video dove a uno di questi semidei contemporanei della rima “cantata” si stacca l’autotune per qualche secondo sul palco, ed è stato come vedere Icaro colare a picco. Hai voglia a sbattere ali di cera...». Non c’è voluto molto ai fan per capire che ce l’aveva proprio con Sfera che, durante un concerto a Francavilla al Mare, stona sulle note di«Bang bang».

Il trapper allora usa lo stesso metodo: niente nomi, ma una «citazione della settimana» in cui dà dell’invidioso al collega, con termini coloriti. E Bersani rilancia: «Non basterebbe tutto l’autotune del mondo per correggere la mancanza d’ironia che c’è in giro ultimamente. Neanche settandolo nella giusta tonalità». [...] 

La fiammata trai due i si è accesa mentre si stava spegnendo il fuoco di paglia tra J-Ax e Paolo Meneguzzi. Quest’ultimo, in un’intervista, aveva chiamato «marchette» tormentoni come «Disco Paradise» di J-Ax, Fedez e Annalisa. Dopo le prime schermaglie sui social, lo scontro è diventato musica: il rapper ha pubblicando la hit «L’invidia del Peneguzzi», [...] Il cantautore per un attimo ha fatto il prezioso («non mi svenderò per un passaggio in radio»), per poi pubblicare un testo recitato sulle note di un de profundis.

Titolo? Il «funerale di Pappon Paradise». In altri video i toni si rilassano, ma J-Ax chiarisce: «Per me sta cosa che il pop che deve elevarsi, sperimentare, parlare di ideali è una str..., rivendico il diritto di scrivere anche per puro divertimento». [...] prima di J-Ax e Meneguzzi avevano litigato Salmo e Luché. Quest’ultimo con il brano «Estate dimmerda 2» (riferimento al pezzo di Salmo del 2017) accusava l’altro di aver riempito San Siro con 10 mila biglietti regalati.

Salmo replicava che Luchè è l’unica cosa di Napoli che «fa schifo». Cosa resterà di questi dissing ? Meneguzzi in un video si augura che «siano chiacchiere per un futuro musicale migliore. A me spaventa molto che in Italia, i vertici discografici, le radio, non ascoltino più’ la musica, che guardino i follower, che ti dicano non è importante che canti bene, l’importante è che sia trap. Questo è non amare gli artisti». E magari ci sarà anche per una riflessione sui numeri degli ascolti: riflettono la qualità? Sui social il tema è caldo.

Estratto dell'articolo di Alice Castagneri per "La Stampa" giovedì 3 agosto 2023.

[…] Samuele Bersani, […] ha puntato il dito contro Sfera Ebbasta, colpevole - senza autotune - di aver stonato. Lo strumento divide da sempre. C'è chi lo ama e chi lo odia, chi lo demonizza e chi ne abusa. Certo, corregge tutti i difetti di intonazione, ma pensare che sia l'unico motivo per cui viene usato è riduttivo. […] 

In principio c'erano il vocoder e il talk box, poi arrivò l'autotune, […] Creato dall'ingegnere elettronico – ed ex musicista - Andy Hildebrand, è stato sviluppato dalla Antares Audio Technologies nel 1997, e con il tempo è diventato – come dice Gemitaiz – «una cosa prettamente hip hop». In realtà la prima canzone che sperimenta questo effetto rivoluzionario risale al 1998 e con il rap non c'entra nulla: è stata infatti Cher nella sua Believe a raggiungere un successo mondiale con quel ritornello robotico […]

Poco dopo la rivoluzione sbarca nell'hip hop. T-Pain, tra i primi ad innamorarsi dei giochi di distorsione della voce, per parecchio si domanda se con l'autotune non «ha mandato a puttane la musica». Quando – stufo delle polemiche - decide di cantare senza, la gente si stupisce: «Pensavano davvero che il mio successo fosse basato su un software, bisogna scrivere le canzoni, trovare un buon ritmo, e tutti si concentrano su un plugin». Nel 2008 Kanye West non si fa problemi a sperimentarlo in 808s & Heartbrek. Da lì in poi lo provano praticamente tutti. Future, Lil Wayne, Drake, Travis Scott, […]

In Italia da Sfera Ebbasta in avanti, nella maggior parte delle canzoni se ne sente traccia. Basta ascoltare alcune hit di Ghali, Lazza, Capo Plaza, Anna, Achille Lauro. Il pericolo, però, non è passare da un effetto all'altro, ma omologarsi. Allora i brani suonano tutti uguali, così come le voci, ripetitive e senza anima. L'autotune, in molti casi, è uno strumento artistico vero e proprio […] Ciò che conta, anche quando si ricorre alla tecnologia, è la personalità. E alla fine se non sei originale, se non sei innovativo, se non hai talento, non sarai mai un artista, con o senza autotune. 

[…] In un'intervista di qualche tempo fa, in seguito a una litigata con niente di meno che Laura Pausini, anche Blanco si è speso in difesa di questo strumento: «Usiamo l'autotune come sfumatura, come un colore più moderno. Penso che nella trap, dove si usa molto, a volte gli artisti hanno più cose da dire rispetto a chi non lo usa. Magari le cose che canto io con l'autotune possono trasmettere più emozioni di alcuni colleghi che non lo usano».

A difenderlo non sono solo quelli della nuova generazione, ma anche quelli della vecchia guardia. Frankie hi-nrg, dopo il polverone degli ultimi giorni, sottolinea che «se è la forma a rendere bravo un artista allora siamo fottuti». Criticare la forma, in effetti, è rischioso. «Fontana tagliava le tele. Burri squagliava plastiche con un cannello. Picasso metteva due occhi dallo stesso lato della faccia. Se si vuole dire che qualcuno ha testi risibili lo si dica, altrimenti anche chi usa il leggio sul palco (come me) è un povero minus habens», dice il rapper di Quelli che benpensano. […]

 Se guardiamo al mondo della discografia, invece, l'hanno testato tutti, anche Paul McCartney. Quando uscì Get Enough, infatti, il baronetto del rock disse: «Se lo avessimo avuto ai tempi dei Beatles, lo avremmo usato tantissimo. Credo che se John Lennon non avesse avuto l'opportunità ci si sarebbe fissato. Non tanto per il fatto di aggiustare la voce, quanto di giocarci». […]

Estratto dell'articolo di Paola Italiano per “La Stampa” il 27 Novembre 2023 

«Io mi ritengo fortunato perché ho la musica. Posso anche essere triste, ma comunque mi senta ho sempre una musica da ascoltare, è la cosa che più mi ha riempito la vita. Anche perché è stata un veicolo per entrare in altri mondi: Bowie dipingeva e mi ha fatto interessare all'arte, Peter Gabriel era appassionato di tecnologia e lo sono diventato anch'io, se segui Battiato finisce che ti interessi di esoterismo. Mi ha portato in angoli insospettabili».

Carlo Massarini ha visto il primo concerto nel 1968, era Jimi Hendrix, e vedrà il prossimo l'8 dicembre, sarà Calcutta. La distanza temporale tra i due eventi e i due artisti è abissale solo se non si tiene conto che nella vita di Massarini tutta la musica è legata insieme da un collante fondamentale: è musica. E lui la ascolta ancora oggi con la curiosità di un ragazzo. 

Vivo dal Vivo è un diario di 120 concerti tra il 2010 e il 2023, con la generosissima prefazione di sua Maestà Vasco Rossi. […] Ed eccoli, 13 anni di concerti messi in fila, da Elvis Costello agli U2, da Peter Gabriel a Jovanotti, da Gotan Project ai Kraftwerk, dai beach Boys a Bombino, da Giulio Casale a Jackson Browne, da Anna Calvi a Travis Scott.

«Musica senza confini» scrive Massarini, ed è davvero un manifesto perché […] è […] raro trovare uno che dopo aver attraversato come lui oltre mezzo secolo di canzoni sia ancora alla ricerca di qualcosa di nuovo, aperto ad accogliere nuova bellezza-. […] «La musica mi piace tutta – scrive nell'introduzione – sono affascinato dai suoni che non conosco». […] 

È la passione senza pregiudizi. «Io trovo che sia importante raccontare il passato non per nostalgia, ma anche per capire quello che sta succedendo. L'esempio perfetto sono i Maneskin: c'è chi dice che non sono rock e chi li acclama come la più grande band del mondo. Non è vera nessuna delle due, ma se conosci il passato, sai quanto è difficile fare quello che hanno fatto loro».

Anche perché, sostiene Massarini, esiste in realtà un ponte tra gli Anni 60 e oggi: «Ci sono molte similitudini tra allora e oggi. Ad esempio il fatto che oggi vadano molto i singoli, più degli album, L'altra cosa molto importante è che allora come adesso ci sono due generazioni in cui la i genitori e figli non ascoltano più la stessa musica. Io non ascoltavo la musica di mio padre, mio padre non ascoltava la mia. Questa frattura si era un po' ricomposta, ora sta tornando». Vero, ma solo se non ti chiami Carlo Massarini, che i consigli musicali li accetta con entusiasmo anche dal figliuolo

Testo di Vasco Rossi – Estratto dalla prefazione del libro di Carlo Massarini “Vivo dal Vivo”

I Rolling Stones sono il mio faro. Quando ho visto Mick Jagger la prima volta, avevo tredici o quattordici anni, sono rimasto folgorato dalla loro capacità di provocare. Li ho sempre visti come punto di riferimento, da loro ho imparato che dal vivo devi dare uno spettacolo «totale», completo per contenuti, una band solida, potenza del suono, luci e scenografia che facciano sognare. È così che poi i fan tornano a casa sconvolti dalle emozioni, felici e sognanti e con qualche speranza in più. Il compito dell’artista è questo, in fondo: prenderli per mano, farli volare e far loro credere che niente è impossibile. 

Strano ma vero, nel ’90 quando esplosi con il clamoroso sold out a San Siro, Madonna faticava a vendere biglietti e anche i Rolling Stones, quell’anno. Il loro manager, allora, chiese al mio se potevamo fare qualcosa insieme. Ma come e che cosa insieme? Proprio loro, i miei idoli che aprivano il mio concerto? Non ce li vedevo. Avrei dovuto aprire io il loro concerto? Con tutto il rispetto eravamo in Italia, a casa mia e onestamente la star del sold out ero io, per una volta. Per la prima volta. Il mio rifiuto fece scalpore.

Un duetto insieme? Penso che un duetto debba avere un senso artistico ben preciso, non può essere improvvisato, a effetto o commerciale. A dirla tutta, lo avrei incontrato volentieri Mick Jagger, dietro le quinte, però. 

Nel 1990, insomma, si capovolge un trend per la musica dal vivo, gli stranieri non avevano più il monopolio degli stadi, dovevano fare i conti con noi italiani.

Oggi è normale affittare uno stadio, ma una volta non era così... Nel secolo scorso partivamo dalle balere, poi discoteche, per arrivare al massimo ai palasport o a piccole arene all’aperto. Ho visto palchi che voi umani non potete immaginare, a volte non c’era proprio niente, uno spazio vuoto tutto da organizzare. Tutto ha fatto brodo, comunque, sono esperienze che mi hanno consentito di essere quello che sono oggi, le rifarei tutte.

Dario Salvatori per Dagospia lunedì 20 novembre 2023

Lunga vita al Maestrone! Dopo  aver sfornato l’album “Canzoni da intorto”, che si è rivelato il disco fisico più venduto lo scorso anno (51 mila copie) Francesco Guccini, nonostante gli acciacchi, ha avuto la forza di mettere sul mercato “Canzoni da osteria”, un piccolo gioiello.

 Dall’alto del suo scranno cantautorale si è divertito ad impartire lezioni di folk al pubblico e ai suoi colleghi più giovani. Ma ecco la stoccata-smemoranda rilasciata a “Il Giornale” tre giorni fa: “Le canzoni del primo dopoguerra erano ignobili, con testi assurdi e illogici, come La casetta in Canadà.” 

Chiariamo. “La casetta in Canadà”(accento per la rima) non ha nulla a che vedere con il repertorio del primo dopoguerra (1915-’18). Anzi, arrivò molti anni dopo, esattamente quarant’anni. Di più. Arrivò quarta al Festival di Sanremo del 1957. Stiamo parlando di una delle canzoni più famose,  più cantate e riconoscibili della primissima fase di Sanremo, nonché una delle più rappresentative di tutto ciò che identificava la canzone italiana prima che arrivasse l’ormai imminente ciclone-Modugno.

In verità la canzone possedeva il merito di proporre una risposta all’imperante melodia strappalacrime  della maggior parte della produzione di allora. Anche la faziosità del testo nascondeva tra le pieghe frammenti tragicomici, che sono poi quelli che hanno permesso al brano di varcare otto decadi e arrivare fino a noi addirittura come un classico del repertorio per bambini, ma anche filastrocca per spot commerciali. 

A Sanremo venne interpretata da Gloria Christian insieme a il Poker di Voci e da Carla Boni, insieme al Duo Fasano e al barese Gino Latilla. Fu proprio quest’ultimo ad ottenere i maggiori consensi sfoggiando un vistoso cappello alla Davy Crockett (1786-1836). Latilla avrebbe voluto indossare anche i pantaloni sfrangiati del trapper di frontiera, cacciatore e massone, ma gli organizzatori non lo permisero. Si dovette accontentare del cappello di procione. 

“La casetta in Canadà” narra di un tale Martin che possiede una piccola casa in Canadà che gli viene disfatta da un piromane, il terribile Pinco Panco. Martin continuò a costruire altre case, in Canadà, beninteso, che puntualmente venivano incendiate da Pinco Panco, adorato dai bambini degli anni Cinquanta. Il riformismo post Sanremo era già in agguato.

Emilio Jona nel libro “Le canzoni della cattiva coscienza”(Bompiani, 1964) lancia i primi strali: “In realtà quella dell’uomo protagonista della canzone è la moderna transizione del mito di Sisifo. Soltanto due autori debosciati  potevano scriverla.”. 

Jona faceva parte del gruppo di cantanti politicizzati guidati da Giovanna Marini che occuparono il palco al Festival di Spoleto con Giancarlo Menotti disperato direttore artistico. Proprio nell’edizione del ’64. Finì a mazzate. Gianni Borgna nel suo libro “La grande evasione”(Savelli, 1980) propone e apre la sua versione marxista-leninista: “La canzone ha a che vedere con l’elogio della positività del decoro piccolo borghese all’aspirazione della casa tutta per sé”.

Il poeta pasoliniano Enzo Giannelli si schierò contro le due versioni: “Deploro la faziosità e le forzature di certi intellettuali frustrati dall’irrazionalismo del mito di Sisifo”. Il tema della “casa per tutti” era già uno slogan negli anni Trenta, al punto che Antonio Cederna, primo giornalista ambientalista, fece partire la sua analisi dal Concordato del 1929: “Libera Chiesa in libero Stato, un netto slogan separatista. Il risultato fu quello di sventrare un quartiere forse troppo attaccato a S.Pietro che possedeva una sua storia. Borgo Angelico, Borgo Vittorio, Borgo Pio, Borgo Sant’Angelo, Borgo Nuovo e Borgo Vecchio, la cosiddetta Spina, lasciarono il posto alla prossimità di via della Conciliazione. 

Il fascismo costruì case popolari in via Donna Olimpia ma gli sfrattati ebbero le prime dimore solo nel 1933. Monteverde non era nemmeno un quartiere, c’era addirittura un lago e proprio lì nacquero i Grattacieli, di cui parla Pasolini nel suo Ragazzi di vita”.

Intanto “La casetta in Canadà” incassava allori. Qualche mese dopo quel Sanremo, si invitò in Canadà Vittoria Mongardi, che trionfò al Festival di Toronto cantando la canzone che gli italiani cantavano a memoria. Con lei i canadesi furono munifici donandole  una “casetta in Canadà”, senza “pesciolini e fiori di lillà”. Intanto fioccavano innumerevoli versioni: Quartetto Cetra, Nilla Pizzi, Wilma De Angelis, Gigliola Cinquetti, Claudio Baglioni. 

In Francia Dalida arrivò al n.1 con la sua versione tradotta, “Le ranch de Maria”, subito bissata nel resto d’Europa  da Yvette Giraud e Andrè Claveau. A proposito. I due autori della canzone, entrambi milanesi, Vittorio Mascheroni (1895-1972) e Mario Panzeri (1911-1991) hanno scavalcato Mogol nella classifica delle vendite per autori: Mogol 523 milioni di dischi, Mascheroni-Panzeri 570. 

Estratto dell'articolo di Gino Castaldo per “la Repubblica” mercoledì 4 ottobre 2023.  

Chiedi chi erano i Beatles? Troppo facile. Prova invece a chiedere chi sono Thasup e Rhove […]. E quando spiegherete che si tratta di due tra gli artisti che hanno avuto più successo negli ultimi anni, molti crederanno che li stiate prendendo in giro. 

[…] nessuno sta prendendo in giro nessuno, la verità è che la nuova scena della musica ha creato sorprendenti e inedite spaccature, faglie generazionali che non si vedevano dai tempi della rivoluzione degli anni Sessanta. È una terminologia antica, da boomer, certo, ma è pur vero che dopo decenni di confusioni e sovrapposizioni, tra ragazzi e adulti ci sono ampie zone di non comunicazione. Ci sono musiche che gli adulti non solo ignorano, fanno anche fatica a comprendere, perché c’è anche una questione di linguaggio. Esattamente come decenni fa alcuni giovani artisti parlano ai loro simili, d’età e di ambiente, e non gliene importa nulla di essere capiti dagli altri.

Se andate a scorrere le classifiche ufficiali, da tempo totalmente ignorate da parte del grande pubblico, scoprirete che c’è qualche nome noto, in rarissimi casi anche nomi notissimi come Francesco Guccini, che esce “solo” col cosiddetto disco “fisico”, vende alcune migliaia di copie grazie al suo duraturo seguito, ed è sufficiente a salire in graduatoria delle vendite, ma immerso in una lista di altri nomi che non avete mai sentito nominare. 

Magari Tedua, Geolier, Thasup, VillaBanks, Shiva, eppure sono lì, sono loro i numeri uno di questa era dello streaming, stravincono, producono denaro, generano successo ma spesso in una fascia molto precisa e definita della popolazione, quella dei teenager, per non dire addirittura dei bimbi, con scarsa comunicazione all’esterno, ovvero verso la gran parte della popolazione adulta del nostro Paese.

La musica vive di compartimenti separati soprattutto da quando la dominante del mercato è diventata quella dei proventi da streaming, […] Si ascolta a raffica, non si compra mai il singolo pezzo, si paga in realtà un abbonamento generico che dà accesso a tutto, e quindi si ascolta in modo a volte indiscriminato, suggerito da playlist di genere, o in forma compulsiva, ben diversa dalla modalità che richiede di acquistare quel preciso disco perché si vuole ascoltare solo e soltanto quello.

Fanno eccezione quelli come i Pinguini Tattici Nucleari che suonano tanti concerti e riescono a produrre una percezione “fisica” della loro esistenza, anche per essere passati a Sanremo, che è una delle chiavi di volta dello scenario. 

Negli ultimi anni il festival ha sdoganato molti protagonisti della nuova scena, a partire da Achille Lauro e Mahmood, e poi Blanco, Madame, Tananai, Dargen D’Amico e altri, creando un’ulteriore spaccatura. Quelli passati da Sanremo in alcuni casi oltrepassano la linea di separazione e diventano mainstream, gli altri rimangono invisibili, sottotraccia, dominatori di mercato eppure non condivisi da tutti. […]

La musica dal vivo è diventata un universo a sé stante, rigoglioso e vitale. Ci sono concerti sempre e ovunque, […]segno che il pubblico vuole musica di tutti i generi, riempie i concerti di Ultimo così come quelli degli “invisibili”, ma riempie anche quelli dei grandi vecchi, Claudio Baglioni o Caetano Veloso che siano. Eppure questo fermento ha scarso rilievo nel mondo discografico dove invece l’imbuto si fa sempre più stretto e va verso una più commerciale fabbrica continua e serrata di singoli per adolescenti.

O per tormentoni estivi destinati a essere suonati ossessivamente e in modo sempre più invadente da qualsiasi altoparlante a disposizione nel circondario, che siano bar, stabilimenti, parchi, alberghi. Ed è un altro dei mondi separati della musica. Dove porterà tutto questo? Chiunque dica di saperlo è un mentitore. La realtà muta troppo velocemente per predirne l’esito. Non ci resta che ascoltare le voci di tutti questi diversi mondi e sperare di capire.

La grande palingenesi (nostra e) del Grande Fratello. Iniziò tutto con Taricone. Modificò la tv (e noi stessi cronisti condannati a guardarlo). Il blog di Francesco Specchia il 16 Settembre 2023 su Libero Quotidiano.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Il Grande Fratello? Be’, è qualcosa di più di un’ordalia barbarica e qualcosa di meno di una citazione orwelliana.

Trattasi della naturale evoluzione del Panopticon, del carcere ideale progettato dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, laddove s’intravvedeva un sorvegliante al controllo di galeotti ignari; nel solco di Argo, il gigante dai cento occhi della mitologia greca. Dunque, il Grande Fratello consiste in un voyeurista benedetto dagli dei che osserva una moltitudine – di certo colpevole di qualcosa- fondamentalmente indaffarata a non fare una mazza, e pagata per farlo. Che poi l’Argo, oggi, s’identifichi con lo sguardo perculante di Alfonso Signorini poco importa. La suddetta citazione dotta resta la mia scusante intellettuale per giustificare l’immenso Barnun del Grande Fratello televisivo, vincitore dell’ennesima serata tv con 2.994mila spettatori pari al 23,01%.

Certe volte, per accentuare il coté sociologico del programma - che nell’intimo ritengo latore di un’orchite invincibile - me la tiro: cito i sociologi Michel Foucault, René Schérer, e Zygmunt Bauman. E quando li cito, c’è sempre qualcuno tra i miei interlocutori, a ricordarmi che Bauman era in finale con Sabrina Mbarek vincitrice dell’edizione 2011; o che Foucault si fidanzò con Jonathan Kashanian nella quinta edizione, prima di andare all’Isola dei famosi.

STRANA DIPENDENZA Evidentemente, sono ricordi un po’ sfocati. Capita, d’altronde, quando un format televisivo accompagna senza soluzione di continuità la tua vita per ventitré anni. Io non seguo il Gfda secoli: l’ho preso come un impegno a metà tra il digiuno intermittente e le riunioni degli alcolisti anonimi. Non ho più dipendenza da Gf esattamente dal 2000 quando, costretto da Vittorio Feltri agli esordi di Libero, venni crocefisso al desk 24 ore al giorno, le mollette applicate agli occhi tipo Arancia meccanica, a recensire il format. Le puntate esalavano uno spaesamento dal sapore sadomaso, nell’osservare Sergio l’“ottusangolo” che disegnava arabeschi nell’aria; o Lorenzo Battistello (oggi esperto di gastronomia in Spagna) che declamava ricette e discuteva di politica col compianto Pietro Taricone, quando Taricone non era impegnato sotto le lenzuola a sedurre la bagnina Cristina.

Fu, di sicuro, un esperimento invasivo. Ero davanti al televisore per tre mesi, solo contro l’ignoto, per commentare il nulla che farciva il palinsesto di Canale 5 di quel «grande esperimento sociale» importato dalla Endemol di John De Mol, genio televisivo del male. Il Gf era un format rivoluzionario inquartato in una seduta di psicanalisi. Lì dentro la gente, mangiava, dormiva, prendeva il sole, faceva sesso, certe volte si appendeva a discorsi senza meta.

Accanto a me, a commentare tutto, c’era il collega Luca D’Alessandro col quale scrivemmo il primo libro satirico sugli abitatori delle casa (Diario inedito del Grande Fratello, Gremese; il secondo lo firmarono Tommaso Labranca e Dea Verna). Il buon D’Alessandro, rimase talmente sconvolto da quell’esperienza, che si buttò in politica, s’iscrisse a Forza Italia e divenne deputato della Repubblica. Lo stesso sentiero professionale percorso, anni dopo, nel Movimento Cinque Stelle, da Rocco Casalino, un allampanato ingegnere elettronico nato in Germania, omosessuale, eversivo, ambiziosissimo che aveva sfidato a colpi di congiuntivo Marina La Rosa e Salvo il piazzaiolo; e, in seguito, bazzicato Lele Mora e incrociato le telecamere con Platinette e Vittorio Sgarbi. Ecco. Casalino diventato potente portavoce del presidente del Consiglio Conte avrebbe rappresentato plasticamente il punto di snodo. Il passaggio dalla “Casa” al Palazzo (Chigi) divenne il viatico impossibile tra l’irrealtà del reality e il populismo della politica; fu la finzione che - come in un pagina di Borges - s’innestava senza permesso nel nostro quotidiano.

Nel ventennio di mezzo, nell’alternarsi dei conduttori (Bignardi, D’Urso, Marcuzzi, Signorini), tra gli ospiti del format presi “dalla strada” e le rutilanti comparse del Grande Fratello Vip fino all’edizione 2023, è scivolata gran parte della società italiana. C’era tutto. L’ascesa e la caduta del berlusconismo, il prodismo e il renzismo, Letta #staisereno, i governi tecnici (il cagnolino di Monti veniva citato più volte tra quelle mura Ikea), la parabola di Fini, l’Italia dei Valori di Di Pietro e la penombra di Gentiloni, le fiamme dei Cinque Stelle e quelle di Draghi che risolve i problemi come lo Wolf di Tarantino. Il Gf si era insinuato nel tessuto stesso della nazione.

TRA ANDREOTTI E LETTA Ricordo che se ne parlava con Giulio Andreotti nei talk show di Luciano Rispoli. Rammento le mille puntate sulla sua fenomenologia del Maurizio Costanzo Show (Costanzo fu il primo a crederci veramente). Rievoco, con allegria, le disquisizioni sulla sceneggiatura perfettamente tarocca del programma, durante gli incontri tra televisionari nei Vedrò di Enrico Letta; ossia nei think tank trentini organizzati dal futuro presidente del Consiglio e segretario de Pd ad uso delle «miglior menti over 40 di quella generazione». I think tank passarono, il Grande Fratello rimase. E, nondimeno, donò al mondo perfino qualche talento, da Luca Argentero a Eleonora Daniele; e ne rivitalizzò qualche altro da Daniele Bossari a Samantha De Grenet. Poi venne la deriva trash con tanto di sesso, fiacchi scandali, provocazioni estenuate. Tutta roba spazzata via, fortunatamente dal “new deal” di Piersilvio Berlusconi all’insegna del «no influencer e no only fans». In una versione con “vip” degni del ruolo e di “nip”, gente comune che emerge dal passato, tipo macellai romani, operaie turniste, chef italo cinesi. Il che, nella sempiterna metafora politica, rispecchia un po’ la sobrietà del governo di centrodestra: niente fuochi d’artificio, trasgressioni o fughe in avanti. Il racconto d’una normalità che continua a fare i suoi ascolti e - direbbe Signorini - la sua porca figura...

Quando l'Italia era da Oscar: la storia della famiglia Cecchi Gori. La casa produttrice della famiglia Cecchi Gori, con Mario e Vittorio, ha saputo regalare all'Italia e al suo cinema grandi trionfi, come tre premi Oscar. Tommaso Giacomelli il 2 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La figura di Mario Cecchi Gori

 Padre e figlio signori del cinema

 Le tre statuette

"And the Oscar goes to...", attimo di silenzio. In quell'istante si condensa una vita intera. L'esistenza, in fondo, si cristallizza in pochissimi attimi indimenticabili. Proprio come quello in cui la madrina della notte delle stelle, Sophia Loren, sventola con la mano la preziosa busta in cui è contenuto il nome del "Miglior Film Estero" in lizza per la settantunesima edizione del Premio Oscar. La platea non regge la tensione dell'attesa e qualcuno inizia a gridare "Roberto". La grande attrice italiana, poi, con fare emozionato sfila il cartoncino e urla a squarciagola: "Roberto! Roberto!", lasciandosi andare a un irrefrenabile grido di gioia. È l'ennesimo trionfo della genialità nostrana alla più prestigiosa kermesse dedicata al cinema. A festeggiare è Roberto Benigni, interprete e regista del delicato ma intenso "La vita è bella". Quella sera, l'attore toscano darà spettacolo, rompendo i rigidi schemi della tradizione americana, saltando sulle poltrone e agitandosi come un pazzo. Ad assistere alla scena, sorridente e sornione, c'è anche Vittorio Cecchi Gori. La gloria va divisa e una parte del bottino va anche a lui, in qualità di produttore che ha permesso di cogliere questo inestimabile traguardo. Il patron fiorentino, deus ex machina del cinema italiano, in quella notte aggiunge il terzo Oscar alla sua personale collezione. Sarà l'apice della sua carriera. È il 1997.

La figura di Mario Cecchi Gori

Il cinema italiano è da sempre il più rispettato e temuto dagli americani, tanto che ci fu un tempo in cui Hollywood ebbe davvero paura di Cinecittà. A rendere quelle creazioni così forti e dirompenti ci pensò specialmente Dino De Laurentis, del quale Mario Cecchi Gori fu l'autista personale prima di intraprendere - anche lui - la carriera di produttore cinematografico di successo a partire dagli anni '60. Autorevole, autoritario e severo, riceveva tutti nel suo grande ufficio romano con un sigaro in bocca. Leggeva in silenzio i copioni e spesso non gli piacevano. Faceva trascorrere giorni prima di dare una sentenza, poi, alzava la cornetta e convocava nel suo ufficio gli aspiranti registi per giudicarli a quattr'occhi. Talvolta li criticava aspramente, facendo volare anche le carte, ma sovente si faceva conquistare da chi ci metteva il cuore. Carlo Verdone racconta della figura di Mario Cecchi Gori come quella di un padre, pronto a dar fiducia ai suoi figli. "Fai i film meglio di come li scrivi", gli rimproverava. Un figlio, però, Mario ce l'aveva e di nome fa Vittorio. Nato dalla relazione con Valeria, conosciuta sugli spalti dello stadio comunale di Firenze, durante una partita domenicale della Fiorentina. Un altro dei grandi amori di famiglia. Con Vittorio nacque, poi, un sodalizio che ha riscritto il cinema italiano.

Padre e figlio signori del cinema

Mario e Vittorio Cecchi Gori, padre e figlio. Un duo che ha saputo iscriversi nelle pagine della grande storia italiana del secondo dopoguerra con coraggio, lungimiranza e talento. La loro casa di produzione cinematografica ha sfornato centinaia di pellicole, che hanno saputo tastare il polso e fotografare le vicende nostrane come pochi altri sono stati in grado di fare. Ci hanno fatto ridere, ci hanno fatto riflettere ed emozionare. A corredo ci sono alcuni capolavori che ancora adesso testimoniano la grandezza di un binomio - già di per sé - speciale. Tutto il meglio che il cinema italiano ha saputo offrire a livello di talento, estro e capacità recitative - nonché di regia - è passato sotto l’ala protettiva prima del placido ma burbero Mario, poi, sotto quella ingenua e vulcanica di Vittorio. Il figlio prediletto, appassionato ed eccentrico, fantasioso e fragile, tutto fuorché scaltro, che come un novello Icaro, una volta toccate le stelle è sprofondato al suolo con un tuffo roboante. Non è facile passare da Palazzo Borghese a Regina Coeli. Un impero distrutto con la forza e la rapidità di un turbine di vento, senza la guida certa e sicura del patriarca.

Le tre statuette

Oggi Vittorio ha 80 anni. Nel suo magnifico appartamento romano comprato con i soldi de "Il sorpasso", risplendono come la luce di un faro quelle tre statuette dorate che ci ricordano quanto grande fu la Cecchi Gori Group e, di conseguenza, il nostro cinema. Una è di "Mediterraneo" (miglior film straniero del 1991), una è de "Il Postino" (miglior film assoluto del 1994, seconda pellicola non in lingua straniera a vincerlo) e l'ultima è del - già citato - "La vita è bella". Dalla magnifica terrazza dell'attico che domina sulla città eterna, Vittorio può godersi ogni giorno lo spettacolo dell'arancione tramonto che irradia tiepidamente le rovine di un grande impero, come è stato anche quello della sua famiglia, fino a quando la notte non le fa prigioniere. Il vecchio Mario diceva che nei film o si piange o si ride, per questo motivo anche "Il sorpasso" di Dino Risi non lo convinceva appieno. In compenso, gli innumerevoli film prodotti dai Cecchi Gori ci hanno fatto tanto ridere, ma anche tanto piangere.

Estratto dell'articolo di Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” – articolo del 26 novembre 2022

(...)

Per Vittorio Cecchi Gori c'è una richiesta di grazia al presidente Mattarella. Ha compiuto pochi mesi fa ottant'anni, e dovendo riassumere la sua vita da imprenditore direi che tre cose hanno contato: il cinema, il calcio e le donne. Non è ancora del tutto uscito da vari cicloni giudiziari che le cronache hanno ampiamente illustrato. Qualcuno lo compatisce, c'è chi convintamente lo difende. Molti lo hanno attaccato, speculando e lucrando su un patrimonio stramiliardario. 

Che cosa ha rappresentato per lei la ricchezza?

"Quando c'è sembra naturale servirsene. Non l'ho fatto in modo dissennato. Ho acquistato immobili importanti: una villa a Beverly Hills dove ho vissuto, un appartamento a New York, che era di Donald Trump, la casa di Palazzo Borghese. Spazi prestigiosi. Un lusso funzionale alla rappresentanza. Per ospiti importanti: attori, attrici, registi, scrittori. Un mondo su cui fare colpo, oltretutto frequentato da produttori cinematografici e imprenditori della comunicazione. Non potevo certo riceverli in un appartamento di tre camere e cucina". 

(…)

E lei sta combattendo?

"Ho varie cause in piedi. Una monstre con Telecom, ci sono in ballo 900 milioni di euro". 

Che cosa ne è stato del suo patrimonio?

"Spolpato da gente senza scrupoli. Derubato perfino da alcuni avvocati che mi avrebbero dovuto difendere! Agli indici odierni quel patrimonio è calcolabile intorno a un paio di miliardi di euro". 

Da come ne parla sembra che lei non abbia colpe.

"Guardi, di errori ne ho commessi tanti. Il più grave è che negli anni della bufera io non mi sono reso conto della gravità della cosa. Non capivo che si stavano mangiando il gruppo Cecchi Gori. Ripeto, ho le mie colpe, ma sono ben poca cosa rispetto a quello che ho subito".

Mi scusi, lei ha avuto vari fallimenti per bancarotta, distrazione di fondi, le hanno perfino trovato della coca in cassaforte, l'hanno condannata in più occasioni. Tre arresti. Non è che sia proprio ben poca cosa.

"Tutto quello che è accaduto dopo il Duemila descrive quello che lei ha riassunto. Ma le cose vanno lette. Veri i fallimenti, vera la bancarotta, vere le distrazioni. Ma cominciamo col dire che era come se io rubassi a me stesso". 

Erano soldi che passavano da una sua società a un'altra?

"Esattamente. Riprovevole, non c'è dubbio, ma era diventato un meccanismo perverso. Il problema è come si fosse giunti a tutto questo". 

Prendiamoci un attimo di respiro. Chi vede in questa fase della vita?

"Pochissime persone. Non è più come un tempo quando tutti mi cercavano. Di una cosa sono felice. Continua a venirmi a trovare Maria Grazia Buccella, la nostra è stata una grande storia d'amore. Lei ha un paio d'anni più di me. Ci teniamo la mano e ci sembra di essere tornati giovani".

So che ha avuto molti innamoramenti.

"La prima infatuazione la provai per Marina Vlady, bellissima. Io dodicenne la spiavo recitare sul set e me ne innamorai. La seguivo ovunque. Con la troupe che si faceva un sacco di risate. Ho avuto diverse storie importanti. Ma credo di non essere mai stato un donnaiolo". 

I rotocalchi direbbero il contrario.

"Era soprattutto gossip". 

Si dice che fosse facile all'innamoramento. Come accadde con Ornella Muti.

"Quella fu una cottarella. Brava attrice, scanzonata, bella. Piaceva a mia madre. Dopo un po' capimmo che non eravamo nel giusto incastro". 

Si mormorò di una storia con Meryl Streep.

"Siamo stati solo amici. Doveva girare un film per me, alla fine si tirò indietro, con il contratto già firmato, perché era incinta. Lei fu adorabile: disse che invece di chiederle la penale stappai una bottiglia di Champagne per il lieto evento".

A proposito di America, nel 2018 ha coprodotto "The Irishman" con Martin Scorsese.

"Laggiù ho ancora un nome e un certo credito. Mi hanno di recente conferito la presidenza onoraria di due società americane del mio Gruppo. Quanto a Scorsese, lo incontrai la prima volta a Cannes insieme a mio padre per i diritti di Silence. Abbiamo collaborato spesso. Sono stato anche amico di Sidney Pollack. Avremmo dovuto fare un film sulla vita di Ferrari.

Era il 2004 o il 2005. Lo feci incontrare perfino con l'Avvocato Agnelli. Purtroppo Pollack si ammalò e il film è passato a Michael Mann. Dovrebbe uscire l'anno prossimo. Ho conosciuto e frequentato quasi tutti: da Richard Gere a Jack Nicholson, con cui andavo alle partite dei Lakers. Mi dispiace di non aver prodotto Seven, almeno nel nucleo iniziale era una mia idea. 

Scegliemmo Brad Pitt come protagonista, poi ebbi dei problemi societari in Italia, alcuni soci si tirarono indietro e di conseguenza dovetti rinunciare. Peccato. Però qualche anno dopo feci 300 e fu anche quello un grande successo. Ho conosciuto Mohammed Alì, ma era già malconcio. Sono stato amico di Gabriel García Márquez: volevo acquistare i diritti di Cent'anni di solitudine. Ma non volle venderli".

Perché?

"Non pensava che fosse possibile trasformarlo in un film. Andai a trovarlo a Città del Messico con Giuseppe Tornatore. Ci disse: per qualunque altro mio romanzo vi cedo i diritti ma non per Cent'anni di solitudine. Ricordo che mi invitò all'Avana, dove credo avesse una cattedra di cinema, voleva che facessi un paio di conferenze sul cinema italiano e poi farmi conoscere Fidel. Alla fine per impegni rinunciai ad andare a Cuba". 

Che cosa avrebbe detto del cinema italiano?

"Che è stato un grande cinema e che mio padre Mario, e anche il sottoscritto, hanno contribuito a renderlo tale. Pensi che questa casa dove sono tornato a vivere fu acquistata dal babbo con i ricavi del Sorpasso. Ho vinto tre Oscar con Mediterraneo, Il postino e La vita è bella, non so quanti Leoni d'Oro e David di Donatello. Il cinema è ancora la mia vita e la mia vita ha dato molto a questa arte popolare". 

(…)

Lei acquisì Tele Montecarlo che poi divenne la 7. Che cosa aveva esattamente in testa?

"Creare una piattaforma i cui asset principali sarebbero stati i diritti cinematografici e i diritti del calcio". 

Fu con questo obiettivo che lei divenne anche presidente della Fiorentina calcio?

"All'inizio no, tutta Firenze ci chiese di prendere in mano la squadra di calcio e lo facemmo volentieri. Fu un atto sentimentale. Tra l'altro il babbo e la mamma si erano conosciuti allo stadio durante una partita di Fiorentina Juventus. Il business dei diritti venne dopo. Avevo in mano le due cose più popolari in Italia: il cinema e il calcio. Era l'occasione per rendere il Gruppo Cecchi Gori protagonista". 

Si sentiva un visionario?

"Nel senso buono sì, tra l'altro con Murdoch e Telecom avevamo creato Stream, che è il progenitore di Sky. La piattaforma digitale dove poter vedere on demand calcio e cinema. Fui praticamente estromesso con un aumento mostruoso di capitale deciso completamente fuori dagli accordi siglati precedentemente". 

Ha mai avuto la percezione che le stava crollando il mondo, il suo mondo?

"Non mi sono accorto di nulla fino a quando le cose hanno cominciato a travolgermi. A quel punto ho avuto la certezza che il sistema economico finanziario e della comunicazione, che in quegli anni stava consolidando il proprio potere, aveva deciso di portarmi via tutto. È stato come sparare sulla Croce Rossa". 

Dal racconto lei ne esce più vittima sacrificale che responsabile. Non è un po' poco?

"Se si riferisce ai miei errori , beh ci sono stati e me ne assumo la responsabilità". 

Quali errori?

"Aver agito con un eccesso di individualismo e poi essermi affidato a persone che mi hanno mal consigliato. Ci sono mie responsabilità oggettive, ma c'è stata una sproporzione tra gli errori commessi, la distrazione di alcune decine di milioni di euro, e la distruzione di un gruppo che valeva miliardi".

 (…)

Italia al neon. "Non stop": da Troisi a Verdone, quando la Rai fabbricava comicità. Un format irriverente, privo di conduttore, incalzante. E con una concentrazione di talenti che mai più si sarebbe scorta nella storia del Paese. Paolo Lazzari il 26 Marzo 2023 su Il Giornale.

La Renault 4 rossa accosta al marciapiede cigolando scomposta. Paletta alzata. Tocca consegnare patente e libretto, identificandosi. Nell’abitacolo si diffonde una qual certa agitazione. Il 1978, del resto, non è il più placido degli anni possibili se vivi in Italia. Il terrorismo è un presentimento che si è infilato tra le vite della gente con veemenza tellurica. Quello alla guida consegna i documenti, contemplando gli agenti con quel volto pingue e benevolo. Il carabiniere scruta la foto, poi lancia un occhio sul tizio: non c’è dubbio, è proprio Giancarlo Magalli.

Quegli altri due però sono usciti senza niente in tasca. Intransigenti, le forze dell’ordine chiedono di scendere e declinare le rispettive generalità. Magalli si muove convulsamente, cercando di spiegare che sono con lui, che è tutto a posto. Quello più alto e sottile si fruga tra i risvolti dei jeans ed estrae una tessera, reputandola salvifica: “Ecco, leggete qui”. È bianca, con un piccolo logo blu. Sopra c’è scritto “RAI”. Equivoco sciolto? Nemmeno per idea. Uno dei carabinieri la maneggia con cura, poi lo rintuzza: “Ho capito signor La Smorfia, ma questo non è un documento”.

Strano anno, il ’78. Tempo di timori dilanianti e reflussi di vitalità. La televisione pubblica esprimeva bene la seconda porzione di questo ossimoro. Giancarlo Magalli si era rivelato un formidabile segugio di talenti comici. Lo avevano incaricato di perlustrare mezzo paese per scovare quelli più cristallini. Allora era sceso al sud, dove si era imbattuto in questo trio esuberante. Si facevano chiamare “I Saraceni”. Formazione composta da Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo De Caro. Nome troppo meridionale per sedurre il target ampio di mamma Rai. “Chiamatevi invece La Smorfia”, l’ecumenico suggerimento.

Il programma andò in onda dal 1977 al 1979. Lo battezzarono “Non stop”, perché le parole sono importanti e queste ti restituivano il senso di una trasmissione galoppante, dichiaratamente ritmica, un esilarante flusso di coscienza orientato. Il suo manifesto era una crepa dichiarata negli schemi incrostati dell’ammiraglia. Tanto per cominciare non c’era il conduttore. Sperimentazione pura. Non a caso il sottotitolo che campeggiava a intermittenza era l’emblematico “Ballata senza manovratore”. Una tv aperta e circense, dunque. Largo alle esibizioni a getto continuo, ma con il faro della qualità.

Fare in modo che le idee non si appannassero mai spettava ai quattro illuminati autori che si disimpegnavano dietro le quinte. Magalli, appunto, ma anche Alberto Testa, Enzo Trapani e Mario Pogliotti. Un quartetto che riscrisse, in quegli anni abrasivi e addensati di preoccupazioni, una pagina intera della comicità italiana. Oltre a La Smorfia, a bordo salirono calibri come i Gatti di Vicolo Miracoli, i Giancattivi, Gasparre e Zuzzurro. Ma il format si ossigenava con una quantità di affluenti. Cabaret, musica e danza premuti dentro ad uno spassoso frullatore. Così la Rai rimpiazzava, con un una magistrale sequenza di colpi da biliardo, una generazione intera di signori della risata. I Sordi, i Tognazzi e i Manfredi facevano largo ai Troisi, ai Nuti e poi anche ai Verdone, agli esordi ma già rilucente, con le pupille perennemente rivolte verso l'alto.

C’erano Ernst Thole, che con lucido sarcasmo verso i giudicanti dell’epoca interpretava il ruolo di un omosessuale. C’era la surreale esibizione della cantante britannica Nancy Nova, sempre pronta ad irrompere sul palco per intonare la sua “Akiri non stop”, totalmente scritta in una lingua inventata. C’erano i comizi di Corrado Lojacono e la mimica facciale di Jack La Cayenne. Un fantastico caos, nato a dirla tutta inizialmente da una pensata di Pippo Baudo, desideroso di aprire le porte della Rai ad una carovana di nuovi talenti, in linea con la riforma della rete.

Ci volle molto poco a farlo diventare un cult. Non durò troppo - è vero - come tutte le cose migliori, ma quell’inesauribile fucina di talenti avrebbe dominato generazioni intere a colpi di risate strappate. Quanto languono, oggi, quelle miracolose intuizioni.

La mia laurea suona il rock (e il pop). Ivano Fossati, Annalisa e gli altri «dottori» che non ti aspetti. Redazione Università su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2023.

Il cantautore genovese ha ricevuto la laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo dall’università della sua città. Dalla musica al cinema al calcio, sono tantissime le star che hanno in tasca il titolo di «dottore». Leggete chi sono

Ivano Fossati

«Una laurea così deve essere per forza inaspettata e la sorpresa sta nel fatto che altre persone pensano che nel tuo lavoro di tanti anni ci sia qualcosa di buono. Improvvisamente scopri che agli altri è piaciuto in maniera tale da doverti premiare e allora la sorpresa si raddoppia». Così Ivano Fossati ha commentato la laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo che gli è stata conferita dall’università della sua città, Genova. Una decisione, come ha spiegato l’ateneo, che «intende riconoscere la qualità di un artista che rappresenta una componente significativa della vita culturale di Genova degli ultimi 50 anni e per sottolineare la coerenza dell’attività di Ivano Fossati con alcune linee di ricerca e didattica del dipartimento, in cui ha svolto apprezzate attività di insegnamento».

Annalisa

Annalisa, fresca reduce dal successo di «Bellissima» (30 milioni di stream su Spotify), ha in tasca una laurea in fisica. Nata nel 1985 a Savona, ha studiato canto dall’età di 13 anni e si è diplomata al liceo scientifico prima di iscriversi all’Università di Torino, corso di laurea in fisica. Una scelta che, come lei stessa ha spiegato, è derivata «dalla piena coscienza dell’importanza di un titolo di studio e di una formazione culturale per la successiva ricerca di un lavoro e realizzazione personale»: «Io mi sono iscritta a fisica semplicemente perché mi piaceva. Ho iniziato fin da bambina a studiare musica e avevo intenzione di portare avanti anche quello. Quindi quando sono arrivata alla fine del liceo scientifico ho scelto una cosa più che altro che mi piacesse e che avrei potuto portare avanti insieme agli studi musicali».

Patti Smith

Solo lei poteva riuscire a rendere una canzone di Bruce Springsteen ancora più bella di quando a eseguirla è il Boss: lei è patti Smith e la canzone è Because the night, che molti telespettatori italiani conoscono per essere stata per un ventennio la sigla di Fuori Orario di Enrico Ghezzi. In Italia la vestale del punk rock americano anni Settanta ha ricevuto ben due lauree honoris causa: la prima in Lettere classiche e moderne nel 2017 a Parma, la seconda in Lingue e letterature europee e americane a Padova nel 2019.

Mr. Bean

Lo sapevate che Mr. Bean alias Rowan Atkinson ha conseguito una laurea in ingegneria elettrica presso il Queen’s College di Oxford? Ebbene sì: il grandissimo comico inglese ha iniziato a lavorare al suo personaggio più famoso, la quintessenza dell’inglese maldestro, proprio mentre studiava all’università.

Giorgio Chiellini

Classe 1984, il difensore e capitano della Juventus e bandiera della nazionale italiana, ha conseguito la maturità scientifica al liceo Federigo Enriques di Livorno con il voto lusinghiero di 92/100 e nel 2010 si è laureato in Economia e commercio a Torino (voto 109). Meno sorprendente il titolo della tesi: «Il bilancio di una società sportiva, il caso di Juventus Football Club».

Natalie Portman

L’eterea protagonista del Cigno nero, si è laureata in Psicologia ad Harvard nel 2003. Nata a Gerusalemme nel 1981, ha iniziato la sua carriera d’attrice giovanissima, recitando nel film di Luc Besson Léon al fianco di Jean Reno.

Sio

Sio, alias Simone Albrigi (1988), autore della fortunatissima serie di fumetti Scottecs, è laureato in Lingue orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Jodie Foster

L’ex bambina prodigio che a 3 anni già faceva la pubblicità del Coppertone in tv, la baby prostituta di Taxi Driver che diversi anni dopo, nei panni della giovane e tenace recluta di polizia Clarence Starling, riesce a conquistarsi il rispetto e un non scontato salvacondotto da Hannibal the cannibal Lecter nel Silenzio degli innocenti, si è laureata in letteratura inglese a Yale.

Cindy Crawford

La top model Cindy Crawford, icona dell’America rampante anni 80, ha mancato invece la laurea in ingegneria chimica: lasciò la Northwestern University per dedicarsi alla carriera di modella che le ha fruttato un patrimonio attorno ai 100 milioni di dollari. Non per niente vanta un quoziente di intelligenza altissimo: 156.

Quentin Tarantino

Meglio di lei, a Hollywood, fa solo Quentin Tarantino. Il regista di film di culto come Le Iene, Pulp Fiction, Kill Bill e Bastardi senza gloria, ha un QI di 160, pari a quello dell’autore della teoria dei buchi neri Stephen Hawking.

Hugh Grant

Hugh Grant si è laureato in letteratura inglese al New College di Oxford. Indimenticabili le sue foto in costume leopardato a un party della Piers Gaveston Society, la confraternita della gioventù dorata e debosciata di Oxford di cui ha fatto parte anche l’ex premier britannico David Cameron.

Elio (e le storie tese)

Stefano Belisari, in arte Elio, autore di canzoni di culto come Cara ti amo, dopo il diploma al Conservatorio di Milano si è iscritto al Politecnico dove si è laureato in ingegneria elettronica nel 2002.

Emma Watson

Altra laureata in letteratura inglese, questa volta però alla Brown University, è Emma Watson-Hermione. La maghetta di Harry Potter, cresciuta sotto gli occhi degli spettatori nel corso dei vari episodi della saga cinematografica, si è iscritta alla Brown nel 2009, quando era già stata nominata «attrice dal maggior incasso del decennio». Durante gli studi nella prestigiosa università dell’Ivy League, «nessuno mi ha mai chiesto un autografo», ha raccontato la Watson in un’intervista. Ma il giorno del diploma era accompagnata da una guardia del corpo nascosta sotto tocco e toga.

Claudio Baglioni

Il cantautore romano invece aveva lasciato la facoltà di Architettura dopo il successo di Questo piccolo grande amore a metà degli anni 70. E’ tornato alla Sapienza per dare gli ultimi esami ed è stato proclamato dottore discutendo una tesi sul restauro architettonico e la riqualificazione del gasometro di Roma nel 2004.

Kevin Costner

Ai suoi esordi interpretò la parte del suicida di cui si intravvedono solo i polsi tagliati nella scena iniziale del Grande Freddo (le altre scene che aveva girato furono tagliate nel montaggio finale). Kevin Costner, vincitore di un Oscar alla regia per Balla coi lupi, in seguito protagonista di una serie di memorabili flop dal budget stratosferico che lo hanno indebitato fino al collo, si è laureato - ironia della sorte - in marketing e finanza alla California State University nel 1978.

Edoardo Bennato

Nato a Bagnoli nel 1949, Edoardo Bennato si è laureato in Architettura con una tesi intitolata «Ristrutturazione della zona dei Campi Flegrei con particolare riferimento alle reti di trasporto urbano collettivo».

Gianna Nannini

La cantautrice toscana si è laureata in Lettere e filosofia a Siena nel 1994 con il massimo dei voti e la lode. Titolo della tesi: Il corpo nella voce.

Checco Zalone

Luca Medici, in arte Checco Zalone, si è laureato in Giurisprudenza a Bari, «l’unica città al mondo - come ha dichiarato lui stesso - in cui ci sono più avvocati che cittadini».

Guglielmo Stendardo

L’ex difensore della Lazio, dell’Atalanta e della Juve, non solo è laureato in Giurisprudenza ma nel 2014 ha anche superato l’esame di Stato per diventare avvocato dopo un primo tentativo fallito. Il giorno in cui ha passato l’orale presso la Corte d’Appello di Salerno ha dichiarato: «Volevo dimostrare come sia possibile conciliare la professione di calciatore con gli studi». Impresa tutt’altro che facile, visto che quando lo stesso Stendardo, alcuni mesi prima, aveva chiesto un permesso di tre giorni per andare a sostenere gli scritti, l’allenatore non solo glielo aveva negato (si era alla vigilia di una partita importante con la Roma poi finita malissimo: 3-0) ma gli aveva anche comminato una multa salata.

Carlo Verdone

Dopo la maturità classica al liceo Nazareno di Roma e prima di girare il suo primo film, Un sacco bello, Carlo Verdone si è laureato alla Sapienza in Lettere Moderne con una tesi sull’influenza della letteratura italiana nel cinema muto italiano. «Questa tesi è venuta fuori un po’ per caso - ha raccontato in un’intervista -. Tutto il mio piano di studi era stato incentrato sulla storia delle religioni dell’Oriente antico».

Renzo Arbore

Il foggiano «naturalizzato» napoletano Renzo Arbore si è laureato in Giurisprudenza alla Federico II. Di quegli anni ha raccontato: «Ero uno studente tutt’altro che eccellente. Uno così così».

Arnold Schwarzenegger

L’ex governatore della California, Arnold «Teminator» Schwarzenegger, ha al suo attivo oltre a un passato come campione di culturismo e una filmografia che va da Conan il barbaroa True Lies, anche una laurea in Economia con specializzazione in marketing dello sport all’università del Wisconsin.

Harry Styles, Pink, Drake: perché è nata la moda di lanciare oggetti ai concerti. Continua la serie di artisti colpiti da oggetti mentre si esibiscono dal vivo. Dopo Bebe Rexha, finita in ospedale per un telefonino in faccia, colpiti anche Harry Styles, Drake e Ava Max. Novella Toloni il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Bebe Rexha

 Harry Styles

 Ava Max

 Drake

 Pink

 Lil Nas X

Non importa dove, quando e neppure perché. La moda del lancio di oggetti sul palco, mentre gli artisti si esibiscono, sta diventando una tendenza pericolosa. Dalla Scandinavia a Londra, da Los Angeles a Vienna, sono sempre di più i cantanti che finiscono nel mirino di folli, che lanciano di tutto sul palco nel tentativo di essere notati o semplicemente per disturbare o finire protagonisti di qualche video virale.

La lunga sequenza di incidenti sul palco è iniziata con Bebe Rexha e si è conclusa - almeno per il momento - con il monito di Adele. Dopo i numerosi episodi avvenuti negli ultimi due mesi, nel suo ultimo concerto a Las Vegas, infatti, la cantante inglese ha letteralmente minacciato i suoi fan: "Non osate, c*** lanciarmi addosso qualcosa. È ora di finirla di tirare oggetti agli artisti". Ma vediamo insieme gli episodi avvenuti negli ultimi due mesi.

Bebe Rexha

Lo scorso giugno, mentre si stava esibendo al Pier 17, a New York, Bebe Rexha è stata colpita da un cellulare ed è stata costretta a interrompere lo show per ricorrere alle cure mediche. Tra il pubblico, un uomo ha lanciato un telefonino sul palco centrando in volto la cantante statunitense di origine albanese. L'artista si è accasciata a terra ed è subito stata soccorsa. Il concerto è stato annullato e Bebe Rexha ha lasciato il palco per andare in ospedale, dove le hanno dato tre punti di sutura sulla fronte. L'autore del folle gesto è stato identificato e denunciato, ma questo non ha fermato altri fan fuori di testa, che hanno messo nel mirino altri cantanti famosi.

Harry Styles

I più pazzi sembrano essere i fan di Harry Styles. Lo scorso novembre l'artista inglese era stato colpito ai testicoli da un panino lanciato da un fan irrequieto durante un concerto a Los Angeles. Pochi giorni fa, invece, Styles è stato nuovamente vittima di un lancio di oggetti sconsiderato, che ha rischiato di farlo finire in ospedale come la collega Bebe Rehxa. Un video diventato virale sui social, mostra Harry Styles sul palco del concerto di Vienna mentre viene colpito agli occhi da qualcosa di piccolo - forse una monetina. L'artista si copre gli occhi con la mano e la smorfia di dolore, che compare sul suo volto la dice lunga sull'esito del colpo.

Ava Max

Ava Max è stata letteralmente aggredita da uno spettatore durante il suo concerto di Los Angeles. L'episodio, avvenuto pochi giorni prima dell'incidente di Bebe Rehxa, è stato riportato da tutti i media americani. Nei numerosi filmati, che si trovano in rete, si vede un uomo - fermato dalla security - dare uno schiaffo in testa all'artista mentre questa sta cantando. Dopo l'iniziale smarrimento per l'accaduto, Ava Max ha proseguito il suo show.

Drake

È andata meglio al rapper canadese Drake, che a inizio luglio è stato colpito da uno smartphone mentre si esibiva. L'artista era sul palco dello United Center di Chicago per il live di apertura del suo "It’s All a Blur Tour”, quando è stato colpito al braccio da un telefonino lanciato da qualcuno nel pubblico. Drake ha esitato un istante e dopo avere controllato che il braccio fosse okay, ha proseguito la sua performance.

Pink

Dopo avere ricevuto in omaggio una forma gigante di brie, Pink si è vista gettare sul palco del live di Londra addirittura le spoglie di un defunto. Il fatto è avvenuto al British Summer Time di Londra lo scorso fine settimana, quando l'artista si stava esibendo dal vivo e sul palco una giovane le ha lanciato un sacchetto contente - pare - le ceneri della madre. "Questa è tua madre?” ha domandato Pink decisamente sorpresa del "regalo" mentre raccoglieva il sacchetto da terra: "Non so come mi sento a riguardo". Poi l'artista è tornata a esibirsi. Ma intanto, il video dell'accaduto è diventato virale sul web.

Lil Nas X

Ben più bizzarro l'incidente che ha visto protagonista Lil Nas x. Il controverso rapper statunitense è stato colpito a un ginocchio durante un concerto in Svezia, a Stoccolma, tappa del suo tour europeo. Mentre stava cantando davanti al pubblico, un fan nelle prime file davanti al palco gli ha lanciato un sex toy, che lo ha colpito al ginocchio senza conseguenze. A dire la verità, il cantante americano è stato molto divertito dal fatto e dopo avere raccolto il sex toy lo ha mostrato ai fan ridendo.

Quando sono iniziati i concerti negli stadi. I primi sono stati i Beatles. Poi sono arrivati Dalla, Vasco e i grandi del rock. E oggi ascoltare un cantante in un teatro è un’eccezione. Gino Castaldo su L'espresso il 19 luglio 2023.

Andiamo a vedere il concerto stasera all’Olimpico?».

«Dove, al teatro Olimpico?».

«Ma no, allo stadio…».

Il dialogo immaginario potrebbe essere avvenuto a Roma, grazie a una rapida e travolgente mutazione che ha portato gli stadi a essere un’abituale location di concerti. Solo nei giorni passati c’è stato Ultimo per ben tre date (e due ne farà a San Siro), e poi i Depeche Mode, Mengoni, Ligabue, i Pooh, praticamente a giorni alterni. Anche a San Siro si fanno più concerti che partite, anche perché se i match non si replicano, i concerti sì e i Pinguini Tattici Nucleari hanno riempito San Siro per due date, poi arriverà Blanco (che ha già domato lo stadio romano) e ancora i Muse, i Maneskin, anche loro per due date, non prima di aver già scaldato l’Olimpico.

Insomma si va allo stadio come una volta si andava nei teatri e nei palasport. Ma come è cominciata questa ennesima follia della musica dei nostri tempi? Il primo concerto che sia stato organizzato in uno stadio è quello dei Beatles allo Shea Stadium del 15 agosto 1965, una data storica dovuta alla enorme pressione che si era creata intorno al gruppo in America: furono venduti 55.000 biglietti, ma era la prima volta e la situazione tecnica era totalmente inadeguata. Come amplificazione c’erano solo tre Vox da 100 watt costruiti per l’occasione ma insufficienti e per le voci fu usato l’impianto dei cronisti delle partite di baseball. Una situazione ridicola, e infatti i quattro uscirono da questa esperienza per altri versi elettrizzante con una profonda amarezza: le urla dei fan avevano totalmente coperto la musica, e infatti di lì a pochi mesi avrebbero smesso del tutto di fare concerti.

Ma il passo era compiuto. Gradualmente gli impianti di amplificazione si adeguarono e gli stadi iniziarono a poter essere un luogo di concerto, rozzo certamente, magari anche scomodo, ma possibile. Alla fine del 1979 anche gli italiani iniziarono a utilizzare gli stadi, in occasioni speciali. I primi furono Dalla e De Gregori col tour di “Banana Republic”, poi Edoardo Bennato, e nel giro di pochi anni arrivò il ciclone Vasco, il massimo occupatore di stadi della storia. Per molto tempo l’immaginario da campi sportivi è stato legato al rock, quasi sembrò una profanazione quando arrivarono Madonna e Michael Jackson. Ora pensare ad associazioni stilistiche fa sorridere. Uno stadio non si nega più a nessuno, e non è in sé un male, se non altro è il segno di una smisurata voglia di partecipazione da parte del pubblico della musica. Del resto siamo in epoca di finzioni e artifici. L’unica cosa che sembra rimasta uguale, autentica e non truccabile, è proprio la dimensione del concerto.

UP

Nel nuovo regolamento sanremese, al posto delle famigerate ed evanescenti giurie demoscopiche, a votare sarà una giuria composta da quelli che lavorano nelle radio. E così questi giurati avranno un volto, e soprattutto ricorderanno al pubblico che la radio è e rimane in assoluto il veicolo più importante di trasmissione delle canzoni.

& DOWN

Guccini si stupisce del fatto che molti includano “L’avvelenata” tra le sue canzoni migliori. «Ne ho scritte dieci cento volte più belle», dice. Ma non è vero, caro Francesco. “L’avvelenata” è un capolavoro, unica nel suo genere, arguta e divertente. L’invettiva elevata ad arte. Devi fartene una ragione.

Imprenditori.

Agenti.

Imprenditori.

Imprenditori Classici.

Claudio Trotta.

Francesco Becchetti.

Imprenditori Classici.

Quegli imprenditori "classici" che creano eventi in musica. Animano la Penisola con festival e concorsi, raccolgono soldi e riempiono le piazze. Come già faceva... Vivaldi. Piera Anna Franini su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

Beatrice Rana, che il 23 gennaio inaugura la stagione della Filarmonica della Scala, è oggi la vetta del pianismo tricolore. Sta costruendo una discografia di valore, è nei cartelloni di punta, a 30 anni sta colmando il vuoto lasciato dall'ultimo grande pianista di casa nostra, Maurizio Pollini. Ma caschi il mondo, la terza settimana di luglio torna nel suo Salento dove è l'ideatrice del Festival Classiche Forme, le brillano gli occhi quando ne parla, lì esprime l'altra sua anima: quella dell'imprenditrice musicale. Sono loro, gli artisti come Rana, a trarre dal cilindro gli eventi di classica più innovativi del nostro Paese. Hanno un padre nobile: Antonio Vivaldi, modello perfetto di musicista-imprenditore. Godono di una reputazione tale da far breccia nei cuori, e non solo, di mecenati grazie ai quali supplire al mancato sostegno del settore pubblico.

In genere si attivano laddove sono cresciuti, anche perché trattandosi spesso della provincia hanno maggiori margini di manovra. Si muovono con lo stesso slancio, senso del rischio e ferrea disciplina che li sostiene quando affrontano migliaia di spettatori. Sono l'anima di stagioni e realtà non strombazzate ma che irrorano il tessuto musicale italiano, il quale ha il suo apice mediatico nella Prima della Scala: uno dei 365 giorni scanditi da eventi quotidiani lungo tutto lo Stivale.

ENRICO DINDO, VIOLONCELLISTA

La vittoria al concorso Rostropovich segnava per Enrico Dindo l'inizio di carriera e di un'amicizia molto speciale: con Rostropovich, che avrebbe usato la leva della propria leggenda per aiutare Dindo a lanciare l'orchestra I Solisti di Pavia. Dal 2001 l'ensemble ha una sua stagione al teatro Fraschini di Pavia, fa tournée, e tramite la Pavia Cello Academy fa formazione musicale anche con interventi nelle scuole. È un ente privato, dunque snello, nessun musicista ha l'approccio impiegatizio che si fiuta talvolta fra i leggii a tempo indeterminato.

CARLO FABIANO, VIOLINISTA

È il direttore artistico di Trame Sonore. Nei più bei palazzi di Mantova, trecento musicisti offrono musica da camera 16 ore al dì per cinque giorni. Giusto un musicista può inventarsi - accadde l'anno scorso - i concerti One2One, ovvero una performance per singolo uditore nella Grotta del Giardino Segreto di Palazzo Te: esperienza degna di un Principe e in barba allo sharing 4.0. Altra chicca, gli eventi nella camera in cui i Gonzaga ascoltavano l'artista in residenza, Monteverdi.

RAFFAELE PE, CONTROTENORE

Fra le stelle del barocco, sarà nel cast de Li zite ngalera presto alla Scala. Prima ha fondato La Lira di Orfeo, un collettivo di musicisti, artisti e ricercatori che progettano spettacoli di musica antica rivisti con una sensibilità contemporanea. A Lodi nell'autunno 2022 ha lanciato la Orfeo Week che dato il successo, anzitutto tra i giovani, è confermata fino al 2024 e potrebbe diventare un format esportabile. La formula prevede eventi di cultura senza barriere nel nome della trasversalità.

MAURIZIO BAGLINI, PIANISTA

L'Amiata Piano Festival è una creazione del pianista Maurizio Baglini, interprete di rango internazionale e con una personalità tale da folgorare Claudio Tipa: il mecenate nella cui tenuta di vini ColleMassari, in provincia di Grosseto, ha fatto costruire un auditorium. Il festival poi condiviso con Silvia Chiesa ha cambiato radicalmente l'offerta culturale di uno degli angoli più defilati della Toscana, l'Amiata grossetana.

MARIO MORA, DIRETTORE DI CORO

Ha fondato una scuola di musica e al suo interno il coro I Piccoli Musici. Conosciamo il coro per via dei concerti di Natale ad Assisi, in onda sulla Rai e in eurovisione. Fiorita in una località bergamasca di 3.800 anime, questa realtà ci rappresenta all'Onu, fa formazione, divulgazione, canta per i papi e i governatori, vince concorsi internazionali issando ovunque la bandiera italiana.

ENRICA CICCARELLI, PIANISTA

Dopo anni di concertiamo e di organizzazione musicale, Enrica Ciccarelli ha compreso qual è l'anello debole dei concorsi di ultima generazione. Ha provveduto lanciandone uno in proprio, il Premio Internazionale Antonio Mormone. Ha messo in campo una strategia che consente di scovare l'artista dotato di carisma, della magia che sprigiona quando entra in scena ma che una gara tradizionale difficilmente riesce a cogliere.

LUCA RANIERI, VIOLISTA

Luca Ranieri, prima viola dell'Orchestra della Rai, lanciando il Lake Music Festival ha trasformato Desenzano, Sirmione e Padenghe in calamite di eccellenze musicali. Sulle rive del Lago di Garda approdano solisti, prime parti di orchestre e docenti di scuole leggenda impegnati in masterclass e concerti, da soli e in compagnia degli allievi più talentuosi. Per l'edizione della scorsa estate, fra gli altri c'era Giuseppe Gibboni, la più bella promessa del violinismo italiano di oggi.

Claudio Trotta.

Estratto dell'articolo di Alessandra Arachi per “il Corriere della Sera” il 29 aprile 2023.

Claudio Trotta, era così buona l’amatriciana della mamma?

«Molto. Piaceva a tutti gli artisti che portavo in tour in Italia. Li facevo venire a casa e mia mamma cucinava per loro. Anche lei era un’artista, Lucy Darbi il nome d’arte. Era una ballerina acrobatica, una contorsionista, una showgirl: ad appena 23 anni ha abbandonato la carriera per la famiglia. E con mio padre mi ha aiutato ad avviare la mia di carriera, era il 1979». 

La sua carriera, ovvero la costruzione della Barley Arts, quasi 45 anni di organizzazione di concerti, più di quindicimila concerti organizzati. Il meglio della musica, nazionale e internazionale. Chi sono stati i suoi primi artisti, quelli che hanno beneficiato dei bucatini?

«Artisti non estremamente famosi ma di grande sostanza e qualità. Penso a John Martyn, uno dei più grandi cantautori scozzesi, John Renbourn, David Bromberg e Bruce Cockburn, cantautore canadese. Il primo dei Bruce della mia vita». 

Già. L’altro si chiama di cognome Springsteen. Come comincia l’avventura con il Boss?

«Con una bicicletta, in un concerto che non ho organizzato io». 

Cioè?

«Era il 1985, fu Franco Mamone il primo a portare Bruce Springsteen in Italia, a San Siro, un concerto rimasto nella storia. A me per l’organizzazione aveva voluto dare un ruolo piuttosto ridicolo: dovevo girare in bicicletta attorno allo stadio e controllare che quelli del servizio d’ordine non prendessero soldi sotto banco da chi voleva entrare». 

Poi però...

«Poi quando Franco se ne è andato, nel 1999 i concerti di Bruce ho cominciato a organizzarli io. E da lì è una storia che va avanti con trentasei concerti fatti in Italia, con tanti momenti passati insieme, anche divertenti».

Ce ne racconta qualcuno?

«Dopo il concerto di Padova, nel 2016 alloggiavamo ad Abano Terme, in un hotel pieno di tedeschi. C’era un’orchestrina che suonava il twist. Bevevamo grappa, io mi sono messo a ballare, lui rideva, mi ha detto: “Sei il king of twist”. Bruce è così». 

Così come?

«L’antitesi di qualsiasi genere di follia divistica. Bruce è uno che sta lì a salutare i pompieri, i facchini. Oppure in piena notte prende e va in giro e si mette a chiacchierare con i fan. È estroverso, ma non quando lavora. È molto rispettoso del lavoro che fa ed è rispettoso verso il pubblico. Come quella volta a Napoli». […]

Quali per esempio?

«I Sex Pistols con le loro bizze erano veramente pesanti da sopportare. I Jesus and Mary Chain una volta quando sono scesi dall’aereo la prima cosa che hanno chiesto è stata l’eroina. Li abbiamo rimessi sul primo volo. E i Motley Crue? Avevano come supporter i Guns N’ Roses: il concerto venne annullato perché tre sere prima di partire avevano avuto una notte eccessiva e hanno rischiato di morire. […] 

Qualcosa anche di Van Morrison?

«Era pieno di idiosincrasie. Voleva per contratto che lo portassi in giro io con l’automobile e ascoltavamo insieme tanta musica. Dopo il concerto mi chiedeva sempre di organizzare per fare delle jam con i suoi musicisti. Poi quando era tutto pronto guardava sdegnato e se ne andava. Però un artista al top». 

[…]

Era effettivamente così?

«Bisogna contestualizzare. C’erano stati gli anni delle contestazioni, non si voleva pagare duemila lire per un biglietto, l’equivalente di un euro, viene da ridere oggi. C’erano sì le multinazionali ma nella discografia non ce n’era una dominante come invece adesso, con una concentrazione di potere senza precedenti. C’erano promoter indipendenti territoriali». 

E i nostri artisti italiani? In tanti sono passati per la Barley Arts.

«Alcuni sono partiti con la Barley Arts».

Chi per esempio?

«Tiziano Ferro. Gli abbiamo insegnato a stare sul palco. Anche Mika l’ho lanciato io in Italia. Il suo primo concerto a Milano doveva essere ai Magazzini Generali, capienza mille persone. Poi è stato spostato all’Alcatraz, dove i posti sono tremila. Era entusiasta. Aveva sguinzagliato i collaboratori per cartolerie e laboratori teatrali in cerca di abbellimenti scenografici dell’ultimo momento. Ha una grande vocazione teatrale». 

Anche per Renato Zero c’è stata la Barley.

«Renato è simpaticissimo, un artista straordinario. Direi che ha un rapporto particolare con i soldi, riesce ad avere lo sconto anche sui fiammiferi dal tabaccaio. Ama la buona cucina, conosce in tutta Italia ristoratori di grande qualità, ma di pagare il conto non se ne parla. Se a una cena con 50 persone 48 erano suoi ospiti voleva sempre che pagassi io. In questo è il contrario di Bruce, che non mangia mai dopo i concerti e se capita è sempre generosissimo». […]

Francesco Becchetti.

Dagospia l’11 aprile 2023.Riceviamo e pubblichiamo da Francesco Becchetti

In merito alle dichiarazioni di Pupo rilasciate nei giorni scorsi, l’imprenditore Francesco Becchetti rassicura il cantante e showman che il contratto sarà rispettato, non appena messo nelle condizioni di farlo.

 In particolare, Becchetti tramite una nota stampa riferisce: “Ringrazio Pupo per aver creduto nella mia totale innocenza anche se in questi duri anni di lotta legale non lo ha mai manifestato né privatamente né tantomeno pubblicamente.

Ha aspettato una sentenza di un arbitrato internazionale per esprimerla e subito dopo rivendicare il pagamento dell'ultima trance del suo compenso.

Voglio rassicurarlo che intendo onorare, come sempre, i miei impegni quando sarò nelle condizioni di poterlo fare, ovvero, non appena mi sarà garantita la protezione diplomatica della Premier Meloni nei confronti del Primo Ministro dell’Albania, Edi Rama, protezione dovuta a garanzia dell'impresa, dello spettacolo e dei cittadini italiani”. Conclude Francesco Becchetti.

 Riepilogo della vicenda

La svolta nella vicenda è dei giorni scorsi, quando un tribunale internazionale ICSID, della Banca Mondiale, ha respinto l'istanza di revisione del lodo arbitrale promossa dall’Albania che ha riconosciuto all'unanimità a Francesco Becchetti ed altre persone oltre €120 milioni in danni, costi e interessi.

 Francesco Becchetti era il proprietario di Agon Channel, un'emittente televisiva paneuropea con 500 dipendenti con sede a Tirana, e ha trasmesso critiche al primo ministro albanese Edi Rama, al suo governo e ad altri politici. Agon è stata lanciata in Albania nell'aprile 2013 e, dal 2014, trasmetteva in Albania 24 ore su 24, sette giorni su sette, offrendo una vasta gamma di notizie e programmi di intrattenimento. Il canale è stato chiuso nell'ottobre 2015 dopo che Becchetti e sua madre, Liliana Condomitti, sono stati accusati ingiustamente di riciclaggio di denaro. I beni di Becchetti sono stati congelati, è stato emesso un mandato di arresto e sono state avviate le procedure di estradizione.

In una trasmissione televisiva nel giugno 2015, Rama ha definito Becchetti e i suoi collaboratori un "fenomeno scandaloso contro il quale abbiamo dichiarato guerra e che combatteremo fino alla fine". Ha aggiunto che il governo "farà tremare le fondamenta del sistema giudiziario". Nel frattempo, Becchetti ha presentato una richiesta di avvio di un procedimento arbitrale contro lo Stato albanese presso l'ICSID.

 Nell'ottobre 2015, Becchetti è stato costretto a sottoporsi a un arresto su appuntamento a Londra, dopo che il governo albanese aveva chiesto la sua estradizione. Ma nel luglio 2016, il Westminster Magistrates Court ha rigettato il procedimento di estradizione, definendo le prove del governo albanese "totalmente fuorvianti". L'Albania aveva annunciato un ricorso in appello, poi ritirato.

 Il tribunale dell'ICSID ha ritenuto che le azioni del governo di Rama nell'emettere mandati di arresto contro Becchetti e l'amministratore di AgonSet, Mauro De Renzis, accusandoli di evasione fiscale, falsificazione di documenti, appropriazione indebita e riciclaggio di denaro e richiedendo la loro estradizione dal Regno Unito, fossero motivate dalle critiche di Agonset al governo albanese e che la chiusura di Agonset fosse il culmine di una campagna politica contro Becchetti e altri. I tribunali di Londra che si sono pronunciati sulle richieste di estradizione hanno anche stabilito che l'Albania ha abusato e usurpato del procedimento giudiziario.

L'Interpol ha ritirato i mandati di arresto internazionale contro Becchetti e De Renzis, dopo che l'Albania non è stata in grado di giustificarli. Le “Red Notices” emesse contro i due sono state ritenute dall'Interpol non conformi alle sue regole quando l'Albania non ha fornito chiarimenti sul carattere politico, sulla mancanza di un giusto processo e sulla mancanza di basi probatorie per le accuse.

 La polizia albanese aveva fermato gli ex dipendenti e i manager di Agon e li aveva sottoposti a perquisizioni nel momento in cui essi avevano provato a lasciare il Paese. Tra questi dipendenti, definiti dal governo albanese "persone molto pericolose", c'erano giornalisti, redattori e analisti, ma anche cameraman, operatori e persino parrucchieri.

 Il Tribunale ha inoltre condannato l'Albania per espropriazione illegittima dell'emittente televisiva Agonset, in violazione dell’accordo bilaterale sugli investimenti tra Italia e Albania. In particolare, ha condannato il governo albanese a pagare a Becchetti e agli altri imprenditori la somma di €110 milioni in risarcimenti e spese. Per inquadrare l'entità di questi risarcimenti, €110 milioni equivalgono a quasi l'1% dell'intero PIL dell'Albania. Se la stessa percentuale fosse applicata agli Stati Uniti, equivarrebbe a $190 miliardi.

Dopo l'annuncio del risultato, Becchetti ha commentato: "Io e la mia famiglia siamo lieti che la nostra battaglia legale durata quattro anni e la nostra lotta contro l'arresto irregolare e la persecuzione politica siano giunte al termine. Il nostro primo pensiero va a tutte le famiglie dei dipendenti del Gruppo che hanno sofferto così ingiustamente a causa delle azioni precipitose del corrotto governo albanese. Siamo lieti che il tribunale abbia compiuto il raro passo di confermare che siamo stati oggetto di una persecuzione di Stato. Ora non vediamo l'ora di riprendere le nostre vite e le nostre attività commerciali".

Agenti.

Lucio Presta.

Beppe Caschetto

Lucio Presta.

Il Mangiafuoco calabresissimo che fa e disfa i burattini della tv. Luigi Mascheroni il 3 Aprile 2023 su Il Giornale.

È l'agente delle star: Mediaset, Rai e Sanremo sono "cosa sua". Protegge gli amici, la giura ai nemici: critici, ex clienti, giornalisti

Lucio Presta the dark side of the stars, il manager in ombra dei divi più sovraesposti è come un personaggio sorrentiniano della Grande bellezza. «In questo Paese per farsi prendere sul serio bisogna prendersi molto sul serio». E lui si Presta perfettamente alla definizione.

Definizione di Lucio Presta: procuratore, imprenditore, produttore tv. È, o è stato, l'agente, in ordine di cachet, di Benigni, Bonolis, Amadeus, Gianni Morandi, Antonella Clerici (se vuole, mandando tre WhatsApp, può farsi un Sanremo dal vivo in taverna), Venier, Cuccarini, Belén, Teo Mammucari, Ezio Greggio, Michele Santoro, Simona Ventura, Federica Panicucci, Rita Dalla Chiesa, Stefano De Martino, la Palombelli (!), la moglie Paola Perego Ma Lucio Presta definizione per definizione - è anche un Pippo Baudo all'ennesima Cosenza calabresissimo, 63 anni, anelli, riccioli e turdilli - perché come Baudo - così dice - li ha fatti e li ha distrutti tutti lui. «Questo l'ho inventato io!». Da meridionale con complesso di inferiorità e provinciale non risolto, pur assurto alla gloria professionale, Lucio Presta non riesce a godersi fino in fondo il trionfo come un Fiorello qualunque lui sì da Catania all'Olimpo sempre con la soddisfazione sotto i baffi e se ne sta lì, appollaiato sul suo deposito di dobloni, come se fosse un precario del successo con l'ossessione di essere il demiurgo della tivù italiana. Eppure come agente, alla destra di Beppe Caschetto, col quale spartisce la torta degli ascolti e la crème dei teledivi, è bravissimo. Il suo talento è saper riconoscere quello degli altri. Cinico, spiccio, schivo (ma malato di Twitter), vendicativo («Se uno vuole fare a pezzi un mio artista deve pensarci bene perché se lui oggi fa male a me, io domani posso fare male a lui. Voglio che rifletta»), facilmente irritabile (da cui il soprannome «Brucio Presta»), pragmatico da cui la legge economica che regola la sua idea di televisione «Prima di passare alla gloria meglio passare alla cassa» Presta è altrettanto bravissimo a insinuare il sospetto che se in Rai cambia l'Ad, è perché dietro c'è la sua zampa; se uno viene nominato Ceo delle Olimpiadi Milano-Cortina si intesta l'incarico, e se poi la stessa persona viene giubilata ti fa intendere che è stato lui a cambiare le carte; e se adesso il marito della Meloni fa un talk show su Rete 4 qualcuno dice che Presta ha già provato ad attribuirsi il merito

Eccellente uomo di relazioni la moglie lo chiama «Wolf», perché tutti si rivolgono a lui per risolvere i problemi è però negato per la politica. Anni fa a Cosenza si candidò a sindaco, appoggiato dai renziani, ma poi capì che non era aria, e lasciò perdere.

Vincente, consigliere, spin doctor. Lucio Presta è un po' il Richelieu di Matteo Renzi (però il terribile documentario «Firenze secondo me» non è andato molto bene, e neanche secondo i vertici del canale Nove), e un po' Mangiafuoco dei burattini dello star system: crea miti, organizza vite e carriere (pacchetto completo), architetta palinsesti, fa e disfa gli artisti, i programmi, le fasce orarie, determina soprattutto lo share. Se non fosse per lui da Bonolis alla Clerici, da Morandi a Amadues quater, quinquies, sexies - Sanremo sarebbe solo una ridente cittadina della riviera ligure.

Uomo del Sud che ha trovato il suo nord seguendo il movimento delle stelle televisive, una vita da pendolare fra LucioRai e MediaPrest, da Viale Mazzini a Cologno Monzese con un formidabile equilibrismo e un'innegabile abilità nell'antica arte del baratto Io ti do Roberto, tu mi dai il prime time, io ti presto Paolo e tu ti tieni anche Paola Lucius Augustus Presta, Imperatore di Tivulandia, si accontenta di un 12-15 per cento.

Il restante 85-88 per cento è fatto di un'infanzia cosentina fino alle elementari, poi collegio cattolico a mille chilometri da casa per punizione, a La Spezia; una discesa giovanile sulla fascia da mezzala, quando era magrissimo, 64 chili per 1,84, e lo chiamavano «Fogliolina», e oggi è sui cento ed è lo «Squalo» balena; a 14 anni cameriere, da Praia a Mare al demi-monde, cosa che gli insegna come si accontenta sempre il cliente; quindi ballerino, dieci anni di carriera e cinque edizioni di Fantastico e qui Lucio è l'eccezione in assoluto: maschio e non checca e poi la svolta: manager degli artisti tv. Primo cliente una nèmesi, retrospettivamente - Heather Parisi. «Ti pignoro!».

Pignolo, tre ore di sonno a notte, collezionista di orologi senza mai indossarne uno che è un po' come essere l'agente di Benigni senza sentire il bisogno di leggere la Comedìa tre matrimoni, quattro figli in tutto, un culto per la famigghia, «E adesso mi faccio la barca!», un'auto-agiografia (titolo: Nato con la camicia, Mondadori, anche se con il Cav non si sono mai presi), un guardaroba abbastanza basic (Adidas e giubbotto di renna), un debole per il dialetto romagnolo, chissà perché; scaramantico (odia il colore verde, tranne quello dei soldi), ricco sfondato, lui è quello che guida il Porsche portandosi nel bagagliaio un capretto per farlo allo spiedo, devoto di don Bosco, gira col porto d'armi (dice di essere stato aggredito due volte sotto casa quando abitava al Nuovo Salario, ora però non ce n'è più bisogno: vive al Fleming), impone cachet stellari - e la minchia di Ode alla Costituzione di Benigni a Sanremo, con tanto di Mattarella al seguito e caso diplomatico, fu salata assai Lucio Presta crede in due cose. Le querele, che adora. E l'amicizia: da calabro, per gli amici è pronto a tutto. In particolare a giurartela.

Amici (ex amici) con i quali Lucio Presta, uomo di percentuali e contratti, ha conti in sospeso.

Massimo Giletti: parlò male del reality La talpa, condotto da sua moglie, Paola Perego (finì a sputi e denunce). Aldo Grasso: scrisse che Presta imponeva velati ricatti alla Rai, tipo «Vi porto un fuoriclasse ma fai lavorare mia moglie Paola Perego» (controreplica via Twitter di Presta: «Grasso, sei un coglione»). Giancarlo Magalli: parlò pubblicamente della «clausola Perego», cioè «Se vuoi Bonolis prendi anche mia moglie, Paola Perego» (risposta di Presta via intervista: «Magalli è un delinquente»). Barbara d'Urso: lui la chiamò «Suora laica in paillettes che produce orrore in tv», ma adesso hanno fatto pace con photo opportunity su Twitter. E Antonio Ricci: non si sa cosa sia successo ma una volta Lucio Presta ha detto: «Ricci crede di essere il dottore della televisione. Invece è la malattia».

Frase-tormentone di Lucio Presta su Twitter: «Buongiorno a tutti, meno uno».

Frasi che piacciono molto a Lucio Presta. «Io so che gli uomini le cose se le risolvono tra loro, i quaqquaraquà se le risolvono in altra maniera». «Io non attacco mai. Proteggo i miei artisti». «Il mercato è mercato». E comunque sono sempre «Cifre fuori dalla realtà». Ma soprattutto: «Sono salesiano. Prima mi vendico, poi perdono». Del resto, è noto, sono soltanto tre le cose che Dio non conosce. Quanti ordini di suore ci sono. Cosa pensano davvero i gesuiti. E quanto sono ricchi i salesiani.

E per il resto, come dice il proverbio, «Andare a letto presto e alzarsi Presta, fanno l'uomo sano, ricco e potente».

Av salut burdel!

Il gip del Tribunale di Roma archivia l’indagine su Matteo Renzi e Lucio Presta, per finanziamento illecito. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Marzo 2023.

La vicenda era legata ai bonifici fatti dal manager tv per il documentario 'Firenze secondo me', dove il leader di Italia Viva guidava gli spettatori alla scoperta della città

Archiviazione per Matteo Renzi e Lucio Presta. Il gip di Roma ha archiviato l’inchiesta che vedeva indagati l’ex premier e oggi leader di Italia Viva Matteo Renzi, il noto manager televisivo Lucio Presta e suo figlio Niccolò Presta. L’accusa nei confronti dei tre era quella di “finanziamento illecito“. A chiedere l’archiviazione i procuratori aggiunti Paolo Ielo e Stefano Pesci della procura di Roma.

Il procedimento verteva sui rapporti economici tra Renzi e l’agente televisivo e, in particolare, i bonifici del documentario “Firenze secondo me”, che nel 2019 finirono in una relazione dell’antiriciclaggio della UIF, l ‘ Unità investigativa finanziaria della Banca d’Italia. Il documentario venne realizzato da Renzi con la casa di produzione Arcobaleno ed è andato in onda su Nove, canale del gruppo Discovery Italia, a cavallo tra il 2018 e il 2019. Un flop, con ascolti al 2%, ma evidentemente Discovery non nutriva grosse aspettative visto che pagò appena 20mila euro. L’ex segretario del Pd ottenne invece un cachet di 454 mila euro.

Non so in cosa possa sostanziarsi questo avviso di garanzia: tutte le nostre attività solo legali, lecite, legittime” – aveva dichiarato Matteo Renzi due anni fa quando venne alla luce il procedimento penale nei suoi confronti – “Si parla di una mia attività professionale che sarebbe finanziamento illecito alla politica, cosa che non sta né in cielo né in terra. Quando arriveranno gli atti potremo discutere e confrontarci“. aggiungendo in una videodiretta su Facebook, commentando l’indagine che lo coinvolgerebbe. “Io non ho paura, sono andato contro tutti e contro tutto per fare un nuovo governo. Pensate se possono farmi paura con qualche velato avvertimento e con qualche avviso di garanzia comunicato via stampa in un determinato giorno“.

Parte di quel denaro, secondo la ricostruzione fatta dagli investigatori, sarebbe servito a Renzi per ripagare il prestito di 700mila euro che aveva ricevuto dalla signora Anna Picchioni, vedova dell’imprenditore Egiziano Maestrelli, per comprare la villa di Firenze, costata un milione e 350mila euro (per 285 metri quadrati). Renzi affermò che il prestito era stato ripagato con i suoi guadagni ottenuti come conferenziere e, appunto, grazie alla realizzazione del documentario.

Ad annunciare l’archiviazione è lo stesso Lucio Presta su Twitter. “Desidero ringraziare la procura di Roma che ha svolto le indagini che mi vedevano indagato con il senatore Matteo Renzi, conclusesi con l’archiviazione – scrive Presta – Li ringrazio per aver avuto la professionalità e l’equilibrio che hanno garantito di salvaguardare la mia rispettabilità, la mia professionalità, la vita mia e quella di mio figlio Niccolò. Ringrazio i legali (Cersosimo-Lucarelli) per il grande lavoro svolto“. Redazione CdG 1947

Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 22 marzo 2023.

La vena del politico è sfociata – come è noto - in alcuni format tv da lui inventati, pagati cari e amari da Presta ma mai realizzati; e in un mandato di rappresentanza a Presta «per promuovere nel mondo la mia attività professionale esclusivamente nell’ambito dello spettacolo», costati all’agente ben 300mila euro. A cui vanno aggiunti altri 400 mila euro per l’ideazione e la conduzione del documentario “Firenze secondo me”, mossa economicamente disastrosa per la società Arcobaleno Tre controllata da Presta: costata in tutto quasi un milione, l’opera è stata venduta a Discovery Channel per appena mille euro, ad oggi nemmeno incassati.

La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione degli indagati perché, pur evidenziando come l’investimento fatto da Presta appare «estraneo» a una logica commerciale sensata, secondo la nuova legge Cartabia per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati è necessario che esista una «ragionevole previsione di condanna». Tradotto, senza prove solide che garantiscano una buona probabilità di vittoria il magistrato deve archiviare prima ancora di andare in udienza preliminare.

In questo caso, nonostante Presta abbia finora girato a Renzi 700 mila euro attraverso un’operazione che appare come «un mero costo», secondo i pm e il gip che ha accolto la richiesta di archiviazione non ci sono evidenze schiaccianti contro l’agente e Renzi: il documentario è stato effettivamente girato ed è opera «reale» forse vendibile ai posteri, mentre il contratto di esclusiva potrebbe – non è cosa da escludere a priori – portare futuri guadagni alla Arcobaleno Tre.

 Detto questo, le 20 pagine della richiesta di archiviazione descrivono la storia di un’operazione bizzarra tra l’allora segretario del Pd e un potente agente che lavora anche con la tv di Stato, con scritture private abortite, retrodatazioni, curiose trattative con le società del capo di Forza Italia Silvio Berlusconi (Mediaset e la casa editrice Mondadori) in merito all’acquisto dei diritti di “Firenze secondo me”. Con il corollario che alcune giustificazioni di Presta messe a verbale spesso vengono smentite dai fatti e da successive testimonianze di test chiave.

Soprattutto, il dispositivo di archiviazione evidenzia come l’impresa culturale Renzi-Presta sia collegata, temporalmente ed economicamente, all’acquisto di Renzi della casa di Firenze. Come già raccontato da chi scrive sull’Espresso e su Domani, la villa fu infatti acquistata grazie a un prestito (da 700 mila euro) ottenuto dall’anziana madre di alcuni imprenditori toscani amici del senatore, i Maestrelli. Soldi restituiti dal leader del Terzo Polo proprio grazie a parte della provvista ottenuta dall’Arcobaleno Tre, che in tutto ha girato a Renzi esattamente 700mila euro.

Partiamo dall’inizio della vicenda. E dal documentario “Firenze secondo me”. È il 16 giugno 2018, e i coniugi Renzi ottengono da Anna Picchioni (madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli che nel 2015, durante il governo Renzi, era stato nominato nel cda di CpdImmobiliare) il prestito con cui possono comprare la casa dei loro sogni.

Due giorni dopo, il 18 giugno, Renzi si impegna a girare alcune scene dell’opera con specifico riferimento al “Calcio fiorentino”: lo segnala un contratto «non sottoscritto» trovato dagli investigatori della Guardia di Finanza negli uffici dell’Arcobaleno Tre. Passa un mese, e il 27 luglio Renzi apre una partita iva. Gli servirà per firmare il 31 luglio il contratto da conduttore e autore del documentario, per un totale di 400mila euro. Per il film la società di Presta tra troupe e location spenderà altro mezzo milione, con un investimento totale di 920 mila euro.

 Se per gli investigatori il politico ottiene di fatto da Presta «700 mila euro e la produzione di un lungometraggio idoneo a promuovere la propria immagine pubblica», la società dell’agente «è apparsa avere riportato un mero costo».

La richiesta di archiviazione evidenzia poi che le prime trattative per piazzare il documentario in tv iniziano a luglio 2018 con Mediaset, dunque solo dopo che Renzi e Presta hanno già preso i primi accordi per girarlo. Nell’interrogatorio ai pm l’agente di Amadeus segnala come avrebbe raggiunto un accordo con gli alti dirigenti del Biscione Alessandro Salem (da lustri braccio destro di Piersilvio Berlusconi), Giorgio Restelli e Massimo Porta.

 Un patto da un milione di euro non scritto, ma «suggellato da una stretta di mano», ha detto Presta a verbale. «In seguito» scrivono ancora i pm «per via di una asserita divergenza con Salem che avrebbe voluto trasmettere la produzione in prima serata, mentre Presta insisteva per la seconda, il documentario non sarebbe stato mandato in onda. Sarebbe stato comunque pagato, così come da accordi intervenuti». Presta, in effetti, dichiara di non «avere perso nemmeno un euro dalla produzione di Firenze secondo me».

Se in una mail agli atti del 10 ottobre sembra raccontare che è Presta a lamentarsi con Salem per «il venir meno dell’impegno assunto per l’acquisto del documentario», non è chiaro come mai l’agente litighi con i dirigenti di Berlusconi che volevano dare la massima visibilità all’opera.

 La procura di Roma ha poi trovato traccia di un’altra lettera tra Mediaset e Arcobaleno Tre, che fa in effetti riferimento all’acquisto del documentario per soli 300 mila euro, ma che resterà comunque una promessa «non portata a termine». Anche un manager di RTI sentito in procura, Andrea Giudici, ha escluso che Mediaset abbia mai, per quanto a sua conoscenza, «proceduto all’acquisto».

Dunque, Presta non ha incassato un euro da nessun network tv. Da altre aziende dell’universo berlusconiano, invece, qualche denaro è arrivato. L’agente ha detto che l’esclusiva di “Firenze secondo me” «gli avrebbe procurato un contratto con Piemme», editore controllata dalla Mondadori, per pubblicare un libro dal titolo omonimo.

 Mentre i magistrati di Piazzale Clodio hanno scoperto che un contratto tra Renzi e Mondadori originato dal documentario esiste davvero. Ma pure che alla fine i 50 mila euro pattuiti sono stati poi riversati su un altro libro di Renzi, “Controcorrente”.

 Un saggio su Firenze del politico però potrebbe finalmente uscire nel 2024. La Mondadori ha firmato un contratto con Renzi e Presta, che potrebbe recuperare finalmente qualche spiccio: 16.625 euro è la somma corrisposta sul contratto firmato ad ottobre 2021. Quest’anno, invece, la casa editrice di Berlusconi forse darà alle stampe “Almanacco”, sempre a firma Renzi, volume che dovrebbe richiamare un format televisivo “5 minuti”, già venduto nel 2018 dal politico a Presta. «In forza di tale contratto alla Arcobaleno è stata corrisposta, difformemente da quanto dichiarato da Presta nell’interrogatorio, la somma di 10 mila euro, e non 40 mila».

Torniamo al torrido luglio 2018. Il giorno prima di firmare il contratto per il documentario, Renzi sigla con Presta anche una scrittura privata da 200 mila euro, con cui trasferisce al sodale i diritti di due format tv da lui ideati: il già citato “5 minuti” e “Mr Interviste”, entrambi mai realizzati. Non si sa come mai Presta e Renzi decidano improvvisamente nello stesso giorno di firmare contratti su tanti lavori d’ingegno così diversi che sommati insieme arrivano proprio ai 700 mila euro del prestito ottenuto dall’allora segretario del Pd.

Ma durante le perquisizioni gli investigatori trovano «un contratto avente pari data, medesimo oggetto, ma diverso importo di euro 500mila». Si tratta di una scrittura privata che secondo la commercialista di Presta sentita in procura sarà «poi superata», e tagliato ai 200mila euro suddetti.

 La circostanza ha fatto ipotizzare a Piazzale Clodio che il compenso che Presta voleva investire su Renzi non fosse «parametrato al valore della prestazione artistica, bensì a un risultato economico complessivo che si voleva raggiungere; ottenuto il quale (attraverso altri contratti, ndr) si è optato per un compenso inferiore a quello preventivato».

Anche il contratto da 100 mila euro con cui l’ex premier cede a Presta «i diritti di sfruttamento economico di eventuali opere future d’ingegno del senatore» è del 30 luglio 2018. Come gli altri, presenta peculiarità non banali: se «per prassi» è l’artista che paga il suo agente, «nel contratto stipulato da Renzi con l’Arcobaleno Tre invece è quest’ultima che retribuisce il rappresentato».

 Alla fine della fiera, i pm dicono che «dubbi» possono essere sollevati, che alcune affermazioni di Presta (come quelle sui soldi avuti da Mediaset) non sono state «confermate dalle indagini a riscontro», e che non si può dire con certezza se i progetti editoriali con Mondadori «siano o meno fumo negli occhi». Il «mero sospetto» è però irrilevante: piaccia o non piaccia, non essendoci prove decisive per sostenere a processo bisogna archiviare. Cartabia docet, e Renzi e Presta possono festeggiare.

Libri, doc e i misteri Mediaset. Tutti gli affari di Renzi e Presta. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 22 marzo 2023

Il senatore e il suo agente sono stati archiviati dalla procura di Roma per il reato di finanziamento illecito. Ma per i pm Presta di fatto ha perso (ad ora) 700mila euro. Usati da Renzi per restituire il prestito per la casa

Matteo Renzi e Lucio Presta sono stati archiviati dalle accuse di finanziamento illecito e sovrafatturazione, in merito ai denari (in tutto 700mila euro) che l’agente delle star ha girato cinque anni fa all’ex premier come compenso per «l’attività artistica del senatore».

La vena del politico è sfociata – come è noto - in alcuni format tv da lui inventati, pagati cari e amari da Presta ma mai realizzati; e in un mandato di rappresentanza a Presta «per promuovere nel mondo la mia attività professionale esclusivamente nell’ambito dello spettacolo», costati all’agente ben 300mila euro. A cui vanno aggiunti altri 400 mila euro per l’ideazione e la conduzione del documentario “Firenze secondo me”, mossa economicamente disastrosa per la società Arcobaleno Tre controllata da Presta: costata in tutto quasi un milione, l’opera è stata venduta a Discovery Channel per appena mille euro, ad oggi nemmeno incassati.

EFFETTO CARTABIA

La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione degli indagati perché, pur evidenziando come l’investimento fatto da Presta appare «estraneo» a una logica commerciale sensata, secondo la nuova legge Cartabia per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati è necessario che esista una «ragionevole previsione di condanna». Tradotto, senza prove solide che garantiscano una buona probabilità di vittoria il magistrato deve archiviare prima ancora di andare in udienza preliminare.

In questo caso, nonostante Presta abbia finora girato a Renzi 700 mila euro attraverso un’operazione che appare come «un mero costo», secondo i pm e il gip che ha accolto la richiesta di archiviazione non ci sono evidenze schiaccianti contro l’agente e Renzi: il documentario è stato effettivamente girato ed è opera «reale» forse vendibile ai posteri, mentre il contratto di esclusiva potrebbe – non è cosa da escludere a priori – portare futuri guadagni alla Arcobaleno Tre.

Detto questo, le 20 pagine della richiesta di archiviazione descrivono la storia di un’operazione bizzarra tra l’allora segretario del Pd e un potente agente che lavora anche con la tv di Stato, con scritture private abortite, retrodatazioni, curiose trattative con le società del capo di Forza Italia Silvio Berlusconi (Mediaset e la casa editrice Mondadori) in merito all’acquisto dei diritti di “Firenze secondo me”. Con il corollario che alcune giustificazioni di Presta messe a verbale spesso vengono smentite dai fatti e da successive testimonianze di test chiave.

Soprattutto, il dispositivo di archiviazione evidenzia come l’impresa culturale Renzi-Presta sia collegata, temporalmente ed economicamente, all’acquisto di Renzi della casa di Firenze. Come già raccontato da chi scrive sull’Espresso e su Domani, la villa fu infatti acquistata grazie a un prestito (da 700 mila euro) ottenuto dall’anziana madre di alcuni imprenditori toscani amici del senatore, i Maestrelli. Soldi restituiti dal leader del Terzo Polo proprio grazie a parte della provvista ottenuta dall’Arcobaleno Tre, che in tutto ha girato a Renzi esattamente 700mila euro.

LA TRATTATIVA CON MEDIASET

Partiamo dall’inizio della vicenda. E dal documentario “Firenze secondo me”. È il 16 giugno 2018, e i coniugi Renzi ottengono da Anna Picchioni (madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli che nel 2015, durante il governo Renzi, era stato nominato nel cda di CpdImmobiliare) il prestito con cui possono comprare la casa dei loro sogni.

Due giorni dopo, il 18 giugno, Renzi si impegna a girare alcune scene dell’opera con specifico riferimento al “Calcio fiorentino”: lo segnala un contratto «non sottoscritto» trovato dagli investigatori della Guardia di Finanza negli uffici dell’Arcobaleno Tre. Passa un mese, e il 27 luglio Renzi apre una partita iva. Gli servirà per firmare il 31 luglio il contratto da conduttore e autore del documentario, per un totale di 400mila euro. Per il film la società di Presta tra troupe e location spenderà altro mezzo milione, con un investimento totale di 920 mila euro.

Se per gli investigatori il politico ottiene di fatto da Presta «700 mila euro e la produzione di un lungometraggio idoneo a promuovere la propria immagine pubblica», la società dell’agente «è apparsa avere riportato un mero costo».

La richiesta di archiviazione evidenzia poi che le prime trattative per piazzare il documentario in tv iniziano a luglio 2018 con Mediaset, dunque solo dopo che Renzi e Presta hanno già preso i primi accordi per girarlo. Nell’interrogatorio ai pm l’agente di Amadeus segnala come avrebbe raggiunto un accordo con gli alti dirigenti del Biscione Alessandro Salem (da lustri braccio destro di Piersilvio Berlusconi), Giorgio Restelli e Massimo Porta.

Un patto da un milione di euro non scritto, ma «suggellato da una stretta di mano», ha detto Presta a verbale. «In seguito» scrivono ancora i pm «per via di una asserita divergenza con Salem che avrebbe voluto trasmettere la produzione in prima serata, mentre Presta insisteva per la seconda, il documentario non sarebbe stato mandato in onda. Sarebbe stato comunque pagato, così come da accordi intervenuti». Presta, in effetti, dichiara di non «avere perso nemmeno un euro dalla produzione di Firenze secondo me».

Se in una mail agli atti del 10 ottobre sembra raccontare che è Presta a lamentarsi con Salem per «il venir meno dell’impegno assunto per l’acquisto del documentario», non è chiaro come mai l’agente litighi con i dirigenti di Berlusconi che volevano dare la massima visibilità all’opera.

La procura di Roma ha poi trovato traccia di un’altra lettera tra Mediaset e Arcobaleno Tre, che fa in effetti riferimento all’acquisto del documentario per soli 300 mila euro, ma che resterà comunque una promessa «non portata a termine». Anche un manager di RTI sentito in procura, Andrea Giudici, ha escluso che Mediaset abbia mai, per quanto a sua conoscenza, «proceduto all’acquisto».

Dunque, Presta non ha incassato un euro da nessun network tv. Da altre aziende dell’universo berlusconiano, invece, qualche denaro è arrivato. L’agente ha detto che l’esclusiva di “Firenze secondo me” «gli avrebbe procurato un contratto con Piemme», editore controllata dalla Mondadori, per pubblicare un libro dal titolo omonimo. Mentre i magistrati di Piazzale Clodio hanno scoperto che un contratto tra Renzi e Mondadori originato dal documentario esiste davvero. Ma pure che alla fine i 50 mila euro pattuiti sono stati poi riversati su un altro libro di Renzi, “Controcorrente”.

Un saggio su Firenze del politico però potrebbe finalmente uscire nel 2024. La Mondadori ha firmato un contratto con Renzi e Presta, che potrebbe recuperare finalmente qualche spiccio: 16.625 euro è la somma corrisposta sul contratto firmato ad ottobre 2021. Quest’anno, invece, la casa editrice di Berlusconi forse darà alle stampe “Almanacco”, sempre a firma Renzi, volume che dovrebbe richiamare un format televisivo “5 minuti”, già venduto nel 2018 dal politico a Presta. «In forza di tale contratto alla Arcobaleno è stata corrisposta, difformemente da quanto dichiarato da Presta nell’interrogatorio, la somma di 10 mila euro, e non 40 mila».

SCRITTURE PRIVATE

Torniamo al torrido luglio 2018. Il giorno prima di firmare il contratto per il documentario, Renzi sigla con Presta anche una scrittura privata da 200 mila euro, con cui trasferisce al sodale i diritti di due format tv da lui ideati: il già citato “5 minuti” e “Mr Interviste”, entrambi mai realizzati. Non si sa come mai Presta e Renzi decidano improvvisamente nello stesso giorno di firmare contratti su tanti lavori d’ingegno così diversi che sommati insieme arrivano proprio ai 700 mila euro del prestito ottenuto dall’allora segretario del Pd. Ma durante le perquisizioni gli investigatori trovano «un contratto avente pari data, medesimo oggetto, ma diverso importo di euro 500mila». Si tratta di una scrittura privata che secondo la commercialista di Presta sentita in procura sarà «poi superata», e tagliato ai 200mila euro suddetti.

La circostanza ha fatto ipotizzare a Piazzale Clodio che il compenso che Presta voleva investire su Renzi non fosse «parametrato al valore della prestazione artistica, bensì a un risultato economico complessivo che si voleva raggiungere; ottenuto il quale (attraverso altri contratti, ndr) si è optato per un compenso inferiore a quello preventivato».

Anche il contratto da 100 mila euro con cui l’ex premier cede a Presta «i diritti di sfruttamento economico di eventuali opere future d’ingegno del senatore» è del 30 luglio 2018. Come gli altri, presenta peculiarità non banali: se «per prassi» è l’artista che paga il suo agente, «nel contratto stipulato da Renzi con l’Arcobaleno Tre invece è quest’ultima che retribuisce il rappresentato».

Alla fine della fiera, i pm dicono che «dubbi» possono essere sollevati, che alcune affermazioni di Presta (come quelle sui soldi avuti da Mediaset) non sono state «confermate dalle indagini a riscontro», e che non si può dire con certezza se i progetti editoriali con Mondadori «siano o meno fumo negli occhi». Il «mero sospetto» è però irrilevante: piaccia o non piaccia, non essendoci prove decisive per sostenere a processo bisogna archiviare. Cartabia docet, e Renzi e Presta possono festeggiare.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 13 febbraio 2023.

[…] Amadeus dice che se lo cacciano è per le sue idee. «Andrebbe cacciato per la mancanza di idee. Ma lo terranno lì, perché comanda Lucio Presta». […]

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano” il 13 febbraio 2023.

Il vero vincitore di Sanremo non ha dovuto aspettare la finale: Lucio Presta ha dominato il Festival dal principio. Il re degli agenti tv conduce la kermesse tramite il suo assistito Amadeus, ha piazzato Roberto Benigni […] e nella sua scuderia è passato anche Gianni Morandi.

Non bastava: Presta è finito pure nelle foto ufficiali del Quirinale per testimoniare la trasferta sanremese di Sergio Mattarella, di cui è stato regista. Se Sanremo è la gallina dalle uova d’oro della Rai, la Rai è il pollaio di Lucio Presta. […] lui è al di sopra dei capricci politici. […] come ha raccontato a Claudio Sabelli Fioretti nel 2005: “Se un direttore vuole fare a pezzi un mio artista, deve pensarci bene: se lui oggi fa male a me io domani posso fare male a lui. Voglio che rifletta. Non sono uno che vende spazzole”.

[…] il botto arriva nei primi anni 2000, quando Paolo Bonolis diventa il grande mattatore della tv italiana e fa l’elastico tra Rai e Mediaset. Con lui spicca il volo anche Lucio, ex ballerino di Fantastico negli anni ‘80. Sulla pista da ballo non ha lasciato ricordi indelebili, come agente delle star invece è diventato il migliore. Bonolis e Amadeus, appunto, ma pure sua moglie Paola Perego, Antonella Clerici, Marco Liorni, Ezio Greggio, Lorella Cuccarini, i tour teatrali di Checco Zalone e molti altri.

Il cosentino Lucio Presta è persona dai molti vezzi: nella casa di campagna alleva quattro mucche highlander, quelle col manto peloso come yak; ha un rapporto affettuoso anche con le armi perché “ho subito due rapine e sono il miglior deterrente che conosca”. […]  “Prima mi vendico e poi perdono”. […] Chiedere, tra gli altri, a Mario Orfeo e Monica Maggioni: il primo è stato silurato dalla Direzione Approfondimenti, la scorsa estate, anche per la guerra personale che gli ha mosso Lucio, la seconda è finita in black list perché nel 2017 fece chiudere il programma della moglie Perego […]

 Se attacchi Presta, Presta se ne ricorderà. Lo sanno anche giornalisti e critici tv, sottoposti a un regime di monitoraggio quasi militare: chi scrive male di un assistito di Lucio può aspettarsi chilometrici audio whatsapp con le reprimenda di Gina Cilia, la sua più stretta collaboratrice. Forse anche per questo, in genere, la stampa lo tratta con i guanti […] Il prossimo anno è ancora di Amadeus, e quindi ancora di Presta: sarà la decima edizione condotta da un suo cliente. Lui giura che sarà l’ultima, ma qualcuno pensa davvero che si ritiri a pascolare le vacche, lasciando il dominio tv al suo rivale Beppe Caschetto?

Nel frattempo però Presta ha regalato ai figli le quote di Arcobaleno Tre, la sua società storica, e poco dopo anche loro si sono disimpegnati. Poi c’è stato il pessimo affare di Firenze secondo me, il tremendo documentario con Matteo Renzi. Doveva rilanciare la popolarità dell’ex premier, è finito in un’indagine della procura di Roma, con l’ipotesi di un presunto finanziamento illecito: costato quasi un milione di euro – tra compenso per Renzi e costi di produzione – non ha incassato praticamente nulla.

Chi gliel’ha fatto fare? Forse gratitudine e affetto - Presta insieme a Simona Ercolani è stato il produttore della Leopolda nelle stagioni più brillanti, inoltre è conterraneo e grande amico del renziano Ernesto Carbone […] Nel 2017 il tentativo di limitare il suo strapotere - e quello di Caschetto - fece approvare in Vigilanza Rai una risoluzione “contro i conflitti di interessi di agenti, autori e conduttori”, poi recepita nel 2020 con una direttiva dell'ex ad Fabrizio Salini. Formalmente è ancora in vigore, nella sostanza è lettera morta: lavorano sempre, quasi solo, quei due.

Estratto dell’articolo di Leandro Palestini per www.repubblica.it del 11 ottobre 2005

 Massimo Giletti annuncia di voler querelare Lucio Presta, potente manager dei divi dello spettacolo (nella sua scuderia Benigni, Bonolis, Amadeus, Venier, Perego) per l' aggressione subìta domenica in una piazza di Roma, a Domenica in finita. Duplice la versione dei fatti. Secondo il conduttore, il manager lo avrebbe insultato, gli avrebbe sputato e «minacciato pesantemente» per aver parlato male del reality La talpa, condotto dalla ex compagna di Presta, Paola Perego.

 Il manager esclude la premeditazione, dice d'aver «incrociato casualmente» Giletti, ma confessa di avergli detto a brutto muso «che lui va in tv non per fare spettacolo, ma per tre ragioni: per smentire le voci sulla sua omosessualità; per parlare male dei colleghi; per dire che è caduto dal motorino, quando invece è stato preso a schiaffi». Massimo Giletti non entra nei dettagli, la sua versione è più sofferta. «Sono stato insultato pesantemente, minacciato e, quando mi sono girato, Presta mi ha anche sputato. Per fortuna non mi ha preso», racconta il conduttore.

«Sono rammaricato del fatto che uno non possa esprimere in tv i suoi giudizi sul valore morale di certi reality. Non so perché Presta abbia perso la testa: forse non credeva alla coppia Giletti-Baudo, e invece gli ascolti di Domenica in volano. L' altra sera il mio spazio ha fatto il 35% di share, come una volta Bonolis. Ma noi costiamo due lire». E sullo sputo di Presta aggiunge: «Credevo che i lama, quegli animali che sputano sempre, fossero confinati negli zoo». […]

Così Presta ha scavalcato i vertici Rai. Il manager di Amadeus ha trattato direttamente con il Colle. Laura Rio il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

«Invece di ringraziare, ci criticano pure». Arriva durissima la risposta di Amadeus ai consiglieri Rai infastiditi perché non sono stati messi al corrente della presenza del presidente Mattarella nella prima serata del Festival di Sanremo. Insomma - dice il presentatore - invece di festeggiare un avvenimento storico e i risultati di ascolto eclatanti (60 per cento di share), la Rai si spacca. Per questo l'irritazione del conduttore, del suo entourage e del direttore Prime Time Stefano Coletta si tocca con mano nella sala stampa di Sanremo. Irritazione che sale ancora di più quando si fa notare la «preoccupazione» del Cda perché «l'operazione Mattarella» è stata gestita passando sopra i vertici Rai da Lucio Presta, che non ha ruoli ufficiali nella tv di Stato, ma è manager del conduttore, di Morandi e di Benigni (la cui lettura della Costituzione è stata la chiave di volta per convincere Mattarella a venire a Sanremo) e di fatto organizzatore reale del Festival. «Al posto dei consiglieri - attacca Amadeus - direi grazie a qualunque persona abbia fatto in modo che il presidente fosse all'Ariston. Invece di colpevolizzarla andrei a stringergli la mano». E precisa con chiarezza che «la trattativa è stata gestita da Presta con Giovanni Grasso, portavoce del Quirinale, semplicemente perché si conoscono e si stimano da tempo». Ma perché era necessaria tutta questa segretezza? «Per ragioni di sicurezza del presidente stesso, come ci ha chiesto il Quirinale».

Al di là di questa poco convincente spiegazione, le repliche di Amadeus e del direttore Coletta («Io non mi sono per nulla sentito sminuito dall'essere tenuto all'oscuro di tutto») mostrano la totale confusione che regna ora in Rai. Come sempre succede in un momento di passaggio. Il vertice e il cda sono specchio delle larghe intese di Draghi e finché l'attuale maggioranza (leggi Giorgia Meloni, che per ora ha deciso di lasciare Fuortes al suo posto) non deciderà di metterci le mani, la situazione andrà peggiorando. Parte dei consiglieri - quelli di centrodestra - stanno cercando da tempo di buttare l'ad (espressione della sinistra draghiana) fuori dall'azienda, contestando aspetti economici e gestionali, ma lui resiste concedendo spazi e uomini alle istanze dell'attuale Governo. E quanto successo per Mattarella è lo specchio di tutto questo. In nessuna azienda «normale» operazioni come quella di Mattarella sarebbero gestite esternamente. Ma in nessuna azienda «normale» accadrebbe che, proprio nei minuti in cui Mattarella appare sul palco dell'Ariston ed entra Benigni per declamare la Costituzione, il Cda, massimo organo di governo dell'azienda medesima, protesti per quanto sta accadendo. In questa chiave, c'è, addirittura, chi insinua che il Capo dello Stato sia stato «coinvolto» in un'operazione di soccorso «rosso» all'attuale governance per mantenere ai loro posti l'ad e, a cascata, quelli che a lui sono più o meno legati, dal direttore Coletta a tutti i manager interni ed esterni più vicini al Pd. Non per nulla Salvini strepita contro il festival un giorno sì e l'altro pure. Prossimo appuntamento di scontro la presenza-non presenza di Zelensky sabato sera. Anche da questa operazione i consiglieri sono tagliati fuori.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 9 febbraio 2023.

Uno dei primi a festeggiare su Twitter lo sbarco del capo dello Stato a Sanremo è stato Matteo Renzi: «Inizio straordinario. Il presidente Mattarella in sala, Morandi che canta l’inno, Benigni show. Chapeau».

 Tanto entusiasmo potrebbe non essere casuale, visto che uno degli organizzatori dell’evento è stato Lucio Presta, l’agente delle star, da Amadeus e Benigni, ma anche e, forse, soprattutto di Renzi. Sui rapporti tra il manager e il politico, vale la pena di ricordarlo, sta indagando la Procura di Roma che nei prossimi giorni dovrà sciogliere il dilemma: chiedere il processo per i due indagati o l’archiviazione. Gli inquirenti contestano il reato di finanziamento illecito di un parlamentare e l’utilizzo e l’emissione di fatture false.

La vicenda ruota intorno a pagamenti per un valore di 700.000 euro effettuati dalla Arcobaleno Tre di Presta a Renzi, esattamente la stessa cifra che il senatore aveva ricevuto come prestito infruttifero dalla famiglia Maestrelli per l’acquisto di una villa a Firenze.

 I pm Alessandro Di Taranto e Gennaro Varone il 30 giugno del 2021 avevano inviato la Guardia di finanza a perquisire Presta e il figlio Niccolò, entrambi indagati, e anche altri soggetti, alla ricerca di materiale utile alle investigazioni.

 I contratti per prestazioni di servizi sotto la lente d’ingrandimento sono tre: uno ha portato alla produzione del documentario in quattro puntate Firenze secondo me, poi venduto al canale Discovery a una cifra molto modesta.

 C’è poi un contratto di cessione di opere d’ingegno per cui sarebbe stato effettuato il pagamento prima della realizzazione dei progetti: uno riguardava una specie di Accadde oggi in pillole di cinque minuti, un altro era, invece, un format in cui Renzi avrebbe dovuto intervistare personaggi famosi; c’era infine un mandato di rappresentanza artistica in esclusiva del fu Rottamatore da parte di Presta.

 Da mesi, però, nessuno parla di questa inchiesta e la Procura da tempo sta riflettendo su come procedere. Forse a causa di questo silenzio tombale sulla vicenda gli uomini del presidente hanno interloquito senza problemi con l’indagato Presta per la parte operativa (per esempio per capire da dove far entrare l’auto presidenziale e dove fare accomodare Mattarella e la figlia). Anche perché il manager si è presentato come responsabile organizzativo dell’evento. Per la parte artistica invece al Colle hanno avuto come interlocutori Amadeus e l’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes.

La lunga marcia per portare il presidente a Sanremo è iniziata l’anno scorso quando Amadeus decide di rivolgersi dal palco dell’Ariston al Capo dello Stato, appena riconfermato. Allora il conduttore, dopo avergli augurato buon lavoro, gli fece sapere, «a nome di tutti gli italiani», di considerarlo «un punto di riferimento».

Il conduttore svelò di aver saputo che il capo dello Stato e il fratello Piersanti nel 1978 avevano assistito all’«ultimo leggendario concerto di Mina» alla Bussola domani di Viareggio.

E per questo aveva deciso di dedicargli Grande, grande, grande, suonata dall’orchestra, una canzone «che spiega meglio di ogni cosa di ogni parola quello che pensiamo veramente di lei», aveva detto. A metà novembre Amadeus è tornato alla carica con il portavoce di Mattarella, Giovanni Grasso, chiedendo se fosse impensabile l’idea che il presidente interagisse in qualche modo con Sanremo, magari con un videomessaggio, con un collegamento o con un’intervista da realizzare prima. Grasso ne ha parlato con Mattarella che non ha dato subito l’assenso, ma quando si è orientato verso il sì è stato coinvolto anche Fuortes ed è partita l’organizzazione vera e propria dell’evento.

Dopo aver dato il suo assenso il presidente ha scelto, anziché di esternare, di partecipare da spettatore, seppur eccellente, come del resto ha fatto anche in occasione di altri eventi culturali o sportivi.

 A quel punto, come ci hanno rivelato fonti Rai, la macchina ha dovuto iniziare a lavorare a un piano, a considerare come giustificare la presenza di Mattarella, seppur in visita privata. Dal Quirinale hanno fatto sapere che il presidente stava facendo degli incontri per i 75 anni della Costituzione e hanno chiesto se fosse possibile tenere in considerazione quel tema.

 L’idea di Roberto Benigni è venuta in corso d’opera e molto probabilmente a lanciarla è stato il suo agente Presta. Al Colle era informati del fatto che il comico avrebbe parlato di alcuni articoli della Costituzione e in particolare di quello sull’arte e sulla scienza, ma non sarebbero stati a conoscenza dell’intero monologo.

 Si è a lungo discusso di chi avrebbe dovuto cantare l’inno Fratelli d’Italia. Il sogno inizialmente è stato quello di riuscire a portare al Festival Mina in persona.

Poi si è discusso di Ornella Vanoni e Patty Pravo. Qualcuno aveva pensato anche un omaggio dei Pooh. Si è ipotizzato pure il coinvolgimento di qualche grande direttore di orchestra. Alla fine la soluzione è stata trovata in casa con Gianni Morandi.

Il presidente avrebbe deciso di abbandonare il teatro dopo il preludio per evitare di ascoltare solo alcuni cantanti e lasciare gli altri a fare dietrologie.

La notizia dell’inaspettata visita privata di Mattarella è rimasta riservata sino all’ultimo sia per motivi di sicurezza (in questo periodo sono molto temuti eventuali attentanti degli anarco-insurrezionalisti) che per motivi di organizzativi.

 Infatti se fosse diventata di pubblico dominio, anche solo un giorno prima dell’arrivo del presidente, si sarebbe aperta la corsa all’occupazione di tutte le prime file da parte di ogni genere di autorità, parlamentari, prefetti, generali, sino all’ultimo sindaco ligure.

Il progetto di Bruno Vespa di mandare in onda un videomessaggio del leader ucraino Volodymyr Zelensky ha colto di sorpresa anche il Colle che ha osservato in silenzio l’evolversi del progetto sino al suo naufragio.

Il presidente, quando si è saputo del possibile contributo del capo dello Paese invaso, aveva già dato la sua disponibilità a presentarsi all’Ariston e quindi si è davvero rischiato di avere un ingorgo di capi di Stato nella città dei fiori: Mattarella il primo giorno e Zelensky l’ultimo. Le date non sono mai state in discussione. Al Quirinale hanno solo compreso che gran parte del governo non era favorevole alla carrambata e non si sono certo strappati le vesti dopo aver evitato di essere trascinati in ulteriori possibili polemiche. Che comunque sono arrivate lo stesso. Per fortuna di tutti la Procura di Roma attenderà la fine di Sanremo prima di inviare l’avviso di chiusura delle indagini o di chiedere l’archiviazione del dominus di Sanremo, Lucio Presta.

Il dominio di Presta, l’agente che occupa i vuoti della Rai. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 08 febbraio 2023

Dice il direttore artistico della 73esima edizione del Festival di Sanremo, Amadeus, che la Rai dovrebbe ringraziare Lucio Presta. Cioè il più potente degli agenti televisivi, suo manager e l’uomo che ha organizzato all’insaputa dei vertici Rai la presenza del capo dello stato, Sergio Mattarella, al teatro Ariston.

 Viene il dubbio che il ringraziamento debba essere almeno reciproco, considerato che la Rai tende a  esternalizzare di fatto il suo asset di maggior valore, l’unico che riporta gli italiani di fronte alla televisione, un palcoscenico su cui si tessono oltre che successi anche relazioni di potere.

La Arcobaleno Tre, amministrata dal figlio Niccolò, è tornata ai fasti di una volta, grazie alla produzione di Arena Suzuki, sempre con Amadeus e sponsorizzata dallo sponsor istituzionale di Sanremo. E ha investito nella MK3 entrando nel management musicale.

Dice il direttore artistico della 73esima edizione del Festival di Sanremo, Amadeus, che la Rai dovrebbe ringraziare Lucio Presta.

Cioè il più potente degli agenti televisivi, suo manager e l’uomo che ha organizzato all’insaputa dei vertici Rai la presenza del capo dello stato, Sergio Mattarella, al teatro Ariston, ad applaudire al trittico Roberto Benigni, Amadeus e Gianni Morandi, tutti suoi artisti. Viene il dubbio che il ringraziamento debba essere almeno reciproco, considerato che la Rai continua a esternalizzare il suo asset di maggior valore, l’unico che riporta gli italiani di fronte alla televisione, un palcoscenico su cui si tessono oltre che successi anche relazioni di potere.

Presta è da sempre considerato, assieme a Giuseppe Caschetto, il regista che non appare mai: il primo con un portafoglio di artisti popolari, da Ezio Greggio a Antonella Clerici, alcuni dei migliori autori televisivi e un rapporto storico con Benigni; il secondo che nell’epoca d’oro di Che tempo che fa decideva vita e morte di un prodotto culturale.

A sentire le voci che si rincorrono su di lui Presta è in grado di influire sui palinsesti e pure di influenzare le nomine apicali: gli viene attribuito anche un ruolo da protagonista nel siluramento di Mario Orfeo dalla direzione approfondimenti l’estate scorsa. Ma qui contano i numeri. La Arcobaleno Tre, amministrata dal figlio Niccolò, nel 2021 è tornata ai fasti di una volta anche grazie all’effetto Festival. E cioè a oltre un milione di utili, una soglia che non veniva superata dal 2017 quando aveva registrato 1,3 milioni di utili a fronte di oltre 10 milioni di ricavi. Non è andata sempre così.

All’approvazione del bilancio 2018, di fronte a un calo dei ricavi, la società si riprometteva di «studiare apposite strategie» per «guadagnare ulteriore spazio nel mercato televisivo», eppure l’anno 2019 si era chiuso con un rosso di 131mila euro, e con ricavi pari a 6,9 milioni di euro non in grado di coprire i costi di produzione. Tra gli imperativi, allora, c’era quello di ridurre i costi delle produzioni televisive.

Poi nel 2020 è iniziata la grancassa del Sanremo di Amadeus, la macchina perfetta per aumentare lo spazio vitale. Dopo il Sanremo 2020, nel 2021 Amadeus conduce anche Arena Suzuki, due puntate su Rai2, produzione indicata come l’origine dell’aumento dei ricavi della Arcobaleno Tre. Nel 2022, le puntate diventano tre. Lo sponsor è la Suzuki, da molti anni il marchio automobilistico di Sanremo, che dal 2021 è entrato nella rosa degli “sponsor istituzionali” a fianco di marchi come Plenitude e Costa crociere e che da quest’anno avrà anche un maxi palco in piazza: il Suzuki stage.

Sempre tra 2020 e 2021 cambiano anche le partecipazioni azionarie: nel 2020, secondo il registro delle imprese, viene depositato l’atto per lo scioglimento della Blue Box, la storica società di distribuzione con cui Presta portava in giro, tra gli altri, gli spettacoli di Benigni. Dal 2021 risulta ceduta anche la partecipazione nella Sdl 2005, di Paolo Bonolis e consorte Sonia Bruganelli, e invece entra nel portafoglio delle partecipazioni il 14,38 per cento della Milano K3 srl, cioè la società di music management fondata da Angelo Calculli, ex manager di di Achelle Lauro.

Le svolte degli ultimi anni però sono anche altre. Presta ha ceduto le sue quote nella Arcobaleno Tre a due commercialisti (restano pur ridimensionate quelle dei figli) nello stesso periodo in cui trapelava la notizia di una indagine a suo carico e del figlio Niccolò per presunto finanziamento illecito nei confronti dell’ex premier Matteo Renzi. La procura di Roma sta infatti indagando dal 2021 sui soldi versati a Renzi dalla società in varie forme, tra cui progetti televisivi pagati fuori scala e documentari mai realizzati. Le ispezioni della Guardia di finanza e pure dell’Inps sono citate nei bilanci della società, assieme alla pandemia, come causa della convocazione oltre la scadenza ordinaria dell’assemblea dei soci che ha approvato insieme il bilancio 2019 e 2020. A prescindere dall’esito delle indagini, quella con Renzi è una amicizia di lungo corso, che nel 2016 ha generato persino in una candidatura come sindaco di Cosenza per il Pd.

L’avventura politica è finita in un soffio, con un ritiro per motivi personali, mentre quella televisiva continua e va a gonfie vele.

Chi conosce i meccanismi della Rai dice che sarebbe meglio fare di Sanremo una produzione tutta interna, ma non c’è niente di nuovo sotto il sole: quando l’azienda è debole vince la logica spartitoria e vince il più forte, anche se si tratta di società nemmeno lontanamente comparabili all’ordine di grandezza della Rai.

Ora la più forte è quella di Presta, che deve ringraziare anche la debolezza del servizio pubblico.

Accompagnata da “Nessuno mi può giudicare” per l’ingresso si è presentata con un abito con disegnato il suo corpo: «Il corpo di noi donne non deve generare odio e vergogna», ha detto rivolgendosi a Gianni Morandi e Amadeus. Nel primo monologo di Sanremo 2023, Chiara Ferragni si è rivolta a una «bimba» leggendo una lettera che poi ha detto essere «la piccola Chiara». Sé stessa. Ha raccontato «dei selfie» che le chiedono ma anche del fatto che «non posso piacere a tutti».

In ogni momento, ha proseguito, c’era un pensiero: «Non sentirmi abbastanza». Ma si è invitata a non avere paura e ad andare avanti: «Un amico un giorno mi ha detto che nessuno fa la fila per delle montagne russe piatte. Vivile tutte senza paura, anche se la paura ti accompagnerà tante di quelle volte che perderai il conto, ma se una cosa ti fa paura probabilmente è la cosa giusta da fare». e bisogna procedere per vincere «le insicurezze nella sua testa».

«Abbiamo tutti la scritta fragile». Gli unici che potranno dare il giudizio sull’operato di una vita «sono i tuoi figli».

Molti i passaggi sulla maternità. Dalla gioia di aver avuto dei figli al rapporto con gli impegni: «La nostra cultura ci ha insegnato che una madre ha una identità», e ancora: «Quando diventi mamma però sarai ritenuta solo una mamma, e pensaci: quante volte la società fa sentire in colpa una donna perché per lavorare è lontana dai figli? Sempre. Quante volte succede per gli uomini? Mai». Le donne vengono colpevolizzate perché lavorano, gli uomini no. «Ma se tu fai tutto per i tuoi figli, sei una brava madre, magari non perfetta, ma brava». Poi è tornata sul corpo e sui giudizi: «Se nascondi il tuo corpo sei una suora, se lo mostri sei una troia».

Essere una donna «non è un limite, gridatelo a chiunque e lottate insieme ogni giorno per cambiare le cose. Io ci sto provando, anche in questo momento». Con una stoccata a un uomo che si voleva prendere il merito «di avermi creata». Alla fine, ha concluso, «andrà tutto bene, e sono fiera di te».

GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43.

Beppe Caschetto.

Marco Zonetti per Dagospia il 17 aprile 2023.

Il potentissimo agente Beppe Caschetto, che rappresenta di fatto gran parte dei conduttori dei talk di La7 (Gruber, Floris, Formigli, Telese), oltre a vari nomi importanti del mondo del giornalismo (Annunziata, Gramellini, Sottile, Bignardi, Saviano, ecc.) e dello spettacolo (Crozza, Fazio, Littizzetto, Brignano, Marcuzzi, Cucciari, De Martino, ecc.) ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera ripresa da Dagospia, nella quale si è vantato di aver raggiunto addirittura in elicottero l'isola di Vulcano per convincere Nicola Porro a prendere le redini del talk di La7 In Onda.

Correva l'anno 2011 e il programma era stato fino ad allora condotto da Luca Telese e Luisella Costamagna. La quale, a partire dalla stagione successiva, si vide sostituita per l'appunto da Porro (assistito da Caschetto per la trasmissione). 

Costamagna, non esattamente una che ha paura di mandarle a dire, ha prontamente ribattuto a Caschetto sottolineando che la sua cacciata segnò anche la fine degli ottimi ascolti del programma. La rivendicazione di Luisella corrisponde al vero? Ebbene sì. Basti guardare i dati e le date. 

In Onda condotto da Costamagna e Telese si assestava su una media del 6.7% di share con tanto di exploit, mercoledì 7 settembre 2011, che li vide conquistare la cifra record del 9.25% di share pari a 2.204.000 spettatori. Solo poche settimane più tardi, sabato 17 settembre, Luca Telese e Nicola Porro raccolsero invece il 5.88% di share, mentre il giorno dopo, domenica 18, il 2.94%. Il sabato e la domenica successivi, 24 e 25 settembre, i due dovettero accontentarsi del 3.76% e del 2.75%. 

In rete furono molti i commentatori a sottolineare il calo d'interesse e a evidenziare la cruciale mancanza di Luisella, preparata e anche di gradevole aspetto, mentre sulla stampa si parlava di "onda afflosciata" senza di lei.  

Il crollo di ascolti di In Onda dopo la defenestrazione di Costamagna dal programma è visibile anche da altri dati: lunedì 22 agosto 2011, per esempio, la coppia Costamagna-Telese conquistava il 6.96% di share pari a 1.339.000 spettatori; lunedì 20 agosto 2012, la conduzione estiva affidata alla coppia ben poco affiatata composta da Filippo Facci e Natascha Lusenti radunava il 3.26% con 587.000 individui all'ascolto; lunedì 19 agosto 2013, Luca Telese rimasto solo al timone attirava 638.000 affezionati con il 3.37% spettatori. Che sono poi più o meno i numeri da lui ottenuti in coppia con Marianna Aprile nell'estate 2022. 

Quanto a Porro, è curioso che quest'ultimo dopo aver sostituito Costamagna - come per una sorta di karma - sia stato poi a sua volta "licenziato" da Urbano Cairo, patron di La7, nel giugno 2013. La dinamica pare ricordare una delle tante versioni legate alla recente cacciata di Giletti. Porro stava infatti per trasmigrare a Rai2 a condurre Virus, ma si appellava al precedente di David Parenzo che, seppur legato da un contratto con La7, aveva ottenuto l'aspettativa per condurre La guerra dei mondi su Rai3. Cairo però, nel caso di Porro, non aveva gradito e, dopo lo scatenarsi di una sorta di "psicodramma", gli aveva dato il benservito. Quando si dice il karma.

In ogni modo, tornando a Luisella Costamagna, la sua replica a Beppe Caschetto appare corroborata dai dati, e - a fronte della popolarità accresciuta dal passaggio e relativa vittoria a Ballando con le Stelle - forse La7, orfana di Massimo Giletti, potrebbe fare un pensierino su di lei per i prossimi palinsesti estivi. Nei quali, va detto, con Otto e mezzo e diMartedì in vacanza, i talk serali di La7 non brillano certo per ascolti eclatanti. 

Beppe Caschetto: «Ho venduto una campagna pubblicitaria a 5 milioni. Alba Parietti? Fragile. Lele Mora? È stato abbandonato». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023

L’agente televisivo: «La trattativa più lunga? Quasi 72 ore». L’ex dirigente Rai: «Adoro Freccero, ma mi ha fatto un sacco di danni». Il papà e Berlusconi: «Mio padre era anticomunista. Gli portai una foto autografata del Cavaliere che diceva: “Creda di più a suo figlio”»

È più potente lei o Presta?

«Presta».

Non si butti giù.

«Giochiamo in campionati differenti. Lui corre i 100 e i 200 metri, io lavoro più sul mezzofondo».

Chi gli soffierebbe?

«Non ci ho mai pensato. Ma sarebbe emotivamente interessante lavorare con Benigni».

Com’è riuscito, lui, a portare Mattarella in tv?

«Ci siamo riusciti pure noi nel 2015, quando il presidente della Repubblica è intervenuto al programma di Fabio Fazio Viva il 25 aprile!: venne nella piazza del Quirinale ad ascoltare l’Inno nazionale. Ci aiutò Giancarlo Leone».

Beppe Caschetto è l’agente di Lilli Gruber e Giovanni Floris, Luciana Littizzetto e Virginia Raffaele, Maurizio Crozza e Neri Marcorè, Geppi Cucciari e Fabio Volo, Stefano De Martino e Lucia Annunziata. La lista è ancora lunga, come la carriera che riesce a garantire ai personaggi rappresentati dalla Itc 2000, azienda per il 70% sua, per il 15% della moglie Rossana Mignani e per il 15% della figlia Federica. Questa è la terza intervista che concede in 30 anni di carriera, davanti a un infuso di zenzero e limone.

Cominciò tutto con Bibi Ballandi.

«Lavoravo in Regione con l’assessore Alfredo Sandri. L’Emilia Romagna aveva firmato una convenzione con la Rai per realizzare in Riviera eventi televisivi importanti, e Ballandi gestiva al Bandiera gialla Beato tra le donne. Il colpo di fulmine fu a Roma a una riunione con Pingitore, autori e dirigenti Rai, un piccolo girone dantesco dove tutti litigavano. Presi la parola e si tranquillizzarono. Ballandi chiese: sapresti rifarlo?».

Prima artista: Alba Parietti.

«La raggiunsi in Sardegna il 13-14 agosto 1993. Era un astro nascente assoluto, esigentissima: in quel momento ti consentiva di parlare con chiunque, ministri e non. Fini le chiese addirittura di candidarsi come sindaco di Roma».

Un aneddoto incredibile?

«Mi si presentò un signore distinto, disse che possedeva banche e ville. Stavano facendo una grande lottizzazione a Sharm el-Sheikh e chiedeva che Alba partecipasse alla conferenza stampa a Milano con il ministro degli esteri egiziano. Era disposto a pagare un buon compenso e a darle “pure una villa”. Ai tempi io facevo fatica a fare il pieno della benzina...».

E quindi?

«Risposi va bene e gli chiesi la villa. Replicò che aveva detto tanto per dire. Ed io: no, ha parlato lei della villa e ora gliela compra. Lo fece».

Parietti racconta che vi siete lasciati perché non le rispondeva più al telefono. È vero?

«No, le rispondevo meno. Il tema era un altro: capivo di esserle poco utile professionalmente».

Impossibile.

«Alba aveva una sua inespressa fragilità: faceva solo le cose che riteneva di poter fare. Le faccio due esempi. L’agente di Mia Farrow mi cercò perché il produttore di 007, Albert Broccoli, aveva letto sul New Yorker un servizio dedicato a lei e la voleva per il ruolo di antagonista nel nuovo film di James Bond. Mi chiese come se la cavava con l’inglese, risposi che sarebbe potuta stare sei mesi in Inghilterra per perfezionarlo. Quando glielo proposi, rifiutò: che noia Londra».

L’altro esempio?

«Fece a teatro Nei panni di una bionda, un successo. Poi un giorno mi telefonò perché Franco Branciaroli l’aveva chiamata: Ronconi voleva fare una cosa teatrale con loro. Pensai: Bingo! E lei: non me la sento. Capii di essere inadeguato. Le ho voluto bene, le sono riconoscente, ma non sono un percentista: se non ci metti nulla di tuo, non ha senso fare questo lavoro».

Non è un percentista, ma prende una percentuale. Quant’è?

«Un agente guadagna dal 10 al 15 per cento».

Il contratto più importante?

«Come faccio a dirglielo? Ho venduto una breve campagna pubblicitaria a 5 milioni e stagioni televisive per qualche milione».

Chi guadagna di più, tra quelli che segue?

«Alcuni guadagnano milioni, ma generano anche ricavi per milioni».

Cura da solo le trattative?

«I contratti minori li seguono le mie assistenti: ho 14 dipendenti, tutte donne. Più un avvocato e un commercialista».

Com’è lavorare con sua figlia?

«Complicato. Fa bene, ma non vuole che il lavoro diventi la sua ragione di vita. Lo rispetto».

È anche produttore: di quale film è più fiero?

«Del Traditore , mio vecchio pallino. Grazie a Bellocchio ho avuto la percezione di giocare in un altro campionato. Tre giorni dopo averlo contattato, mi richiamò e disse: Il traditore. Non era solo un titolo, ma la sintesi di una cosa che altrimenti non avrebbe avuto senso».

Ha visto la serie tv «Call My Agent - Italia»?

«In parte: c’è un artista che rappresentiamo, Maurizio Lastrico, un talentaccio. Quando avevo visto la serie francese avevo pensato a un progetto simile in Italia, ma credo che un agente non dovrebbe mai raccontare quello che fa».

Sogna mai di mollare tutto e andare a Bali?

«C’è un tale carico, dal punto di vista emotivo, che non vorresti solo andare a Bali, vorresti proprio sparire. Se decidessi di andarmene, non mi troverebbe più nemmeno l’Interpol».

Nei primi anni Duemila i Fab 4 degli agenti eravate lei, Ballandi, Presta e Mora. Contattò Mora quando fu travolto dalle disavventure?

«Credo di averlo cercato una volta e di non essere riuscito a parlargli. Avrei voluto esprimergli solidarietà umana. Il nostro lavoro è un po’ come quella canzone di De André, ha presente? “Alla stazione c’erano tutti...”?».

...dal commissario al sagrestano.

«Lele Mora è stato organico a un mondo, e poi per ciò che ne so io è stato abbandonato».

La chiamano in tanti modi: Richelieu della televisione, Eminenza grigia, Uomo ombra, Lucio Presta della sinistra. Quale la diverte di più?

«Forse Lucio Presta della sinistra».

In effetti segue solo personaggi di sinistra.

«Seguo personaggi che mi corrispondono un po’, o forse corrispondo io a loro».

Però ha rappresentato anche Nicola Porro.

«Non solo lui. Lo proposi a La7 per fargli condurre In onda. Convinsi l’allora amministratore delegato Gianni Stella a raggiungerlo in Sicilia, dov’era in vacanza. Arrivammo in Calabria in aereo e da lì andammo in cima a Vulcano in elicottero, dove ci venne a prendere un’apecar che ci portò da lui».

Perché vi lasciaste?

«Non ci siamo lasciati. Lo avevamo seguito solo per quel programma».

Non segue più nemmeno Miriam Leone.

«Non è così. Ce ne occupiamo per la tv. Quando è stata matura per il cinema siamo stati noi a consigliarle un altro agente, perché non siamo un’agenzia di cinema: producendo film ci sarebbe un conflitto d’interessi. Fanno eccezione Luca e Paolo, Ferilli, chi è con noi da sempre».

Parla di conflitto di interessi, ma spesso in un programma si trovano diversi suoi artisti.

«E dove sarebbe il conflitto? Se io immagino che la Littizzetto possa funzionare da qualche parte, posso proporla o no? La scelta finale non è mia: chi decide pensa al bene del programma».

Lavora mai in nero?

«No, e non è una scelta virtuosa. Se sei figlio di carabiniere e cominci a fare questo mestiere a 36 anni, non sai nemmeno cosa significhi quando senti: “Quelli me li dai con l’elastico giallo”».

I suoi genitori ci sono ancora?

«No. Mio padre era anticomunista viscerale, litigavamo sempre. A 18 anni me ne andai. A 45 ho comprato una casa importante a Bologna, gliene ho dato una parte con il giardino dove poteva tenere un cane, il suo sogno. Non riusciva a capire che lavoro facessi. Non lo convinse neppure una foto autografata di Berlusconi che diceva: “Creda di più a suo figlio”».

Con quale direttore è stato più bello lavorare?

«Con Freccero, paradossalmente: è quello che mi ha fatto più danni, mi ha chiuso tanti programmi, compreso uno di Luca e Paolo che andava benissimo nell’access prime time».

È più difficile, ora, con il Governo Meloni?

«Non sono convinto che questo governo rappresenti un saccheggio. Il vero oltraggio è la regola che definisce nel triennio il periodo di competenza dell’ad e, a cascata, dei dirigenti. Il primo anno serve a capire, il secondo a cominciare a lavorare e il terzo è già di uscita...».

L’artista che segue da più tempo?

«Alessia Marcuzzi, da 30 anni. Quando la presi, il padre mi chiese cosa volessi farne. Vorrei che stesse a casa almeno un anno, risposi. Veniva dal Grande gioco dell’oca, era la ragazza nel fango. Feci almeno 20 viaggi da Gregorio Paolini di Mediaset prima di convincerlo a prenderla».

C’è un artista a cui vuole più bene?

«Sì, ma non glielo dico».

Libro preferito?

«Iliade e Odissea. Mi piace la parte in cui Ulisse sistema il conto coi Proci e poi cerca il padre».

Il film di sempre?

«Ombre rosse ».

Quello che vorrebbe produrre?

«Uno sulla Battaglia di Canne: Annibale mi piace da morire».

È scaramantico?

«Abbastanza. Una volta in Grecia mi attraversò la strada un gatto nero e per tornare allo stesso punto feci il giro dell’isola al contrario».

Gli occhiali sono un vezzo o le servono?

«Mi proteggono. Ma potrei non usarli».

La trattativa più lunga?

«Una durò 71 ore e mezzo. Il mio interlocutore arrivava ogni giorno sempre più in ritardo. Dopo la firma, sbottò: ma che uomo è lei, non le dava fastidio? E io: chi le dice che non mi desse fastidio?; non ha idea di quanto le sia costato».

Ama i proverbi. Il suo preferito?

«Male non fare, paura non avere».

Un hobby insospettabile?

«A 13 anni mi iscrissi al Club Magico Italiano: non ho più smesso di leggere i libri di magia».

L’hanno aiutata nel suo mestiere?

«Moltissimo. Perché c’è un segreto dietro ogni cosa: fa la differenza come la presenti».

Quale sfizio si è tolto con il benessere?

«Andare in vacanza come piace a me: con il mare a portata di piede».

A chi è più grato?

«A mia moglie: per tutte le volte che ha aspettato un marito che non arrivava mai a casa la sera».

(ANSA il 7 Settembre 2023) - È morto a Roma, all'età di 77 anni, il cantautore Luciano Rossi, autore di brani come Se mi lasci non vale e Ammazzate oh!. La scomparsa è avvenuta l'8 luglio e a darne notizia, a distanza di quasi due mesi, è la figlia Ilaria. Luciano Rossi era nato nella capitale il 5 settembre 1945, aveva iniziato a scrivere per altri artisti (I Gens, Rosanna Fratello, Little Tony ed altri). 

Nel 1972 pubblicò l'album Esaltarsi che però non ottenne successo, nel 1974 Rossi fu in gara a Un Disco per l'Estate con Ammazzate oh!, fu eliminato ma il brano ottenne un gran successo sulla scia del quale l'anno dopo uscì il suo secondo album Bella. Nel 1976 fu la volta dell'album Aria pulita, che contiene Senza parole e Se mi lasci non vale canzone portata poi al successo da Julio Iglesias e interpretata da tantissimi altri artisti.

Scrisse per Nicola Di Bari, I Vianella, Bobby Solo, Ornella Vanoni, Lando Fiorini, realizzò colonne sonore per il grande schermo e la sigla finale del programma televisivo Tappeto volante condotto da Luciano Rispoli su Telemontecarlo.

Dagospia mercoledì 6 settembre 2023. Comunicato

Mentre si approssima la ricorrenza della scomparsa di Lucio Battisti – il 9 settembre saranno 25 anni da quando l’Artista ci ha lasciati – non accenna ad interrompersi la querelle Battisti. 

Stavolta, ad alimentarla è stata la Sony Music, la quale nel 2017 ha iniziato l’ennesima causa contro gli Eredi di Lucio Battisti (Grazia Letizia Veronese e Luca Battisti). 

L’accusa mossa dalla Sony Music contro gli Eredi di Lucio Battisti è la stessa che Mogol aveva mosso contro di loro anni prima: aver opposto un diritto di veto a qualsiasi forma di sfruttamento economico delle opere musicali di Lucio Battisti. 

In particolare, gli Eredi di Lucio Battisti sono stati accusati dalla Sony Music di aver revocato il mandato alla SIAE per l’utilizzazione on line delle opere musicali di Lucio Battisti (in tal modo, impedendo alla Sony Music di commercializzare le registrazioni fonografiche delle canzoni interpretate da Lucio Battisti sulle principali piattaforme digitali, Spotify su tutte) e di aver ostacolato l’utilizzazione delle opere musicali di Lucio Battisti per sincronizzazioni (in tal modo, impedendo alla Sony Music di utilizzare le registrazioni fonografiche delle canzoni interpretate da Lucio Battisti in spot commerciali di noti marchi, Fiat e Barilla su tutti). 

La richiesta di risarcimento del danno monstre avanzata dalla Sony Music era stata di euro 8,5 milioni. 

La Corte d’appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, che aveva già respinto le domande della Sony Music, ha rigettato l’appello e condannato la Sony Music al pagamento delle spese processuali. 

«La decisione della Corte milanese - spiega l’avvocato Simone Veneziano, legale degli Eredi di Lucio Battisti – è significativa per almeno tre ragioni. 

In primo luogo, perché un giudice chiarisce, per la prima volta, che i contratti discografici stipulati da Lucio Battisti oltre cinquanta anni fa con i produttori fonografici danti causa di Sony Music non consentono, senza adesso il consenso (degli Eredi) di Lucio Battisti (o dei suoi Editori musicali), né di utilizzare on line le registrazioni fonografiche che incorporano le interpretazioni a suo tempo eseguite da Lucio Battisti, né di utilizzare le medesime registrazioni fonografiche per la pubblicità di prodotti commerciali. 

In secondo luogo, perché l’accoglimento della tesi di Sony Music avrebbe avuto un effetto dirompente nel settore della musica e, segnatamente, in quello dell’editoria musicale. Sony Music, infatti, ha sostenuto in giudizio che il comportamento ostruzionistico tenuto dagli Eredi di Lucio Battisti, anche nella loro veste di amministratori degli Editori musicali (Edizioni Musicali Acqua Azzurra S.r.l. e Aquilone S.r.l.) delle opere musicali di Lucio Battisti, avrebbe determinato in capo agli stessi una responsabilità da “contatto sociale”.

Siccome – sostiene Sony Music – i diritti dell’autore dell’opera musicale, dell’interprete e del produttore fonografico che fissa l’interpretazione su supporto sono diritti che si condizionerebbero l’uno con l’altro, nel senso che non sarebbe possibile lo sfruttamento della registrazione di una canzone senza che tutti gli aventi diritto (autore, interprete e produttore fonografico) abbiano espresso il loro consenso, gli Eredi di Lucio Battisti sarebbero stati obbligati a consentire a Sony Music di utilizzare le registrazioni fonografiche delle canzoni di Lucio Battisti per sincronizzazioni a scopo pubblicitario. In caso di accoglimento della tesi di Sony Music, avremmo dunque assistito all’affermazione del principio eversivo secondo il quale l’utilizzazione economica di un’opera musicale, anziché dall’autore (o dall’editore musicale), sarebbe governata dal produttore fonografico.

La decisione se, a chi e per quale corrispettivo concedere in licenza un’opera musicale non spetterebbe più all’autore (o all’editore musicale), bensì al produttore fonografico. Insomma, a “comandare” sulle opere musicali non sarebbero più gli autori (o gli editori musicali), ma le case discografiche. Chiunque invece sa perfettamente che chi voglia utilizzare, ad esempio in uno spot pubblicitario, una qualsiasi canzone deve farne richiesta, separatamente, sia al titolare della registrazione fonografica, sia all’autore (o all’editore musicale); e sa, ancor meglio, che ciascuno di tali soggetti è assolutamente libero di decidere se, a chi e per quale corrispettivo concedere la licenza.

In terzo luogo, perché gli Eredi di Lucio Battisti sono stati mandati assolti anche dall’accusa di aver violato, in qualità di amministratori degli Editori musicali (Edizioni Musicali Acqua Azzurra S.r.l. e Aquilone S.r.l.) delle opere musicali di Lucio Battisti, gli obblighi di diligenza nei confronti di Sony Music, non avendo addotto Sony Music alcuna condotta illecita degli amministratori diversa ed ulteriore rispetto a quella addebitata (peraltro, infondatamente, data l’insussistenza, come detto, di una responsabilità da “contatto sociale”) agli Editori musicali». La Sony Music ha preannunciato che proporrà ricorso in Cassazione. Gli Eredi di Lucio Battisti fanno sapere che attenderanno con serenità anche questa decisione.

Da Anthony a Eminem, è guerra ai politici. Quando la musica fa campagna elettorale. Storia di Marco Liconti su Il Giornale mercoledì 30 agosto 2023.

Chi ti ha dato il permesso? È questo il senso della lettera che Eminem ha fatto recapitare a Vivek Ramaswamy, dopo che il candidato repubblicano alla nomination 2024, durante un evento elettorale in Iowa, si era lanciato in un'interpretazione (niente male, a dire il vero) di Lose Yourself, una delle hit più celebri del rapper di Detroit. «You only get one shot, do not miss your chance to blow. This opportunity comes once in a lifetime», scandiva dal palco Ramaswamy, che a quanto pare si cimenta col rap dai tempi del college. Il messaggio: votate me, che sono il più giovane (38 anni) e il più innovativo.

Eminem, che di anni ora ne ha una cinquantina, evidentemente non ha apprezzato e ha fatto recapitare all'imprenditore di origine indiana una lettera nella quale gli contestava l'uso non autorizzato della sua musica. «Rispettiamo la richiesta dell'artista», hanno replicato dalla campagna di Ramaswamy, che però si è voluto prendere una piccola rivincita personale su X, postando una sua foto sul palco accanto a un'immagine dello stesso Eminem, ritratto con l'aria un po' dimessa. «Chi è il VERO Slim Shady?», il commento, in riferimento all'alter ego usato in passato dal rapper. Per Ramaswamy, che si propone come il «nuovo Reagan», unico in grado di attirare sulle sponde del Gop il voto dei giovani, si è trattato di un inciampo, non certo il più grave della sua campagna, dopo gli scivoloni su politica estera e Ku Klux Klan (ha paragonato una deputata afroamericana al Gran Maestro del KKK).

Lo stesso inciampo, del resto, nel quale incorse nel 1984 il vero Ronald Reagan, che tentò di utilizzare Born in the Usa di Bruce Springsteen come inno della sua campagna. Il «Boss» non la prese bene e negò il permesso. All'epoca, Springsteen sembrò prendere le distanze dalla politica in generale, per tenersi al riparo da qualsiasi strumentalizzazione. In seguito, salì sui palchi delle campagne presidenziali di Barack Obama e, nel 2020, la sua The rising fu l'inno della Convention democratica del 2020. In generale, i Repubblicani non sono fortunati con le colonne sonore. Solitamente, l'universo pop-rock Usa (con qualche eccezione, soprattutto sul versante country) pende a sinistra. Nel 2008, i Foo Fighters chiesero a John McCain di non suonare più nei suoi comizi la loro My hero e Jackson Browne gli fece causa per l'uso non autorizzato della sua Running on empty. Donald Trump ha ricevuto decine di altolà da star del calibro di Adele, Neil Young, Phil Collins, Prince, Rolling Stones, Queen e Pharrell Williams: non usare la nostra musica ai tuoi comizi. Il fatto è che negli Usa non occorre chiedere un'autorizzazione preventiva per l'impiego di un brano musicale. Per le manifestazioni pubbliche si può accedere (pagando i diritti) ai cataloghi di organizzazioni tipo Bmi o Ascap (le Siae americane).

Gli artisti che non gradiscono, possono però chiedere la rimozione dei loro brani dai cataloghi. Altro esempio, quello del fenomeno musicale del momento, il cantante folk della Virginia, Oliver Anthony, sconosciuto fino a poche settimane fa, che ha totalizzato centinaia di migliaia di ascolti e visualizzazioni sul web con la sua Richmen north of Richmond, inno country di un'America povera e disperata. I Repubblicani hanno tentato di appropriarsene in chiave anti-Biden. I Dem, per reazione, lo hanno tacciato di demagogia. Anthony ha preso le distanze da entrambi, bastonando sia a destra che a sinistra. Il problema, ha detto, è lo stato attuale della politica, a prescindere dal colore, il problema sta a Washington, troppo distante dalla vera realtà del Paese.

La tv raccontata da chi la scrive nelle pagine di Aldo Dalla Vecchia. Nicola Santini su L'Identità il 24 Maggio 2023 

S’intitola “La tivù è tutta scritta? – Il mestiere di autore”, ed è un excursus dietro le quinte del piccolo schermo, raccontato da chi ci lavora dentro da tre decenni.

Il volume riprende, ampliate e arricchite, le lezioni che l’autore tiene ogni anno al master Fare TV dell’Università Cattolica di Milano, ed è diviso in tre parti.

Nella prima, “La mia tivù. 30 anni dietro le quinte”, Dalla Vecchia ripercorre la sua attività televisiva e di giornalista di costume e spettacolo per la carta stampata, iniziata nel 1988.

Con un racconto in prima persona minuzioso e ricco di aneddoti, scopriamo l’evoluzione del mezzo televisivo dagli inizi degli anni Novanta, quando l’autore ha mosso i primi passi in televisione con il magazine settimanale Target e il rotocalco quotidiano Verissimo, entrambi in onda su Canale 5, alla Nuova Era rappresentata dai reality e cominciata il 14 settembre 2000, con la prima puntata della prima edizione di quel “Grande Fratello” che avrebbe rivoluzionato non soltanto gli ascolti, ma anche i contenuti e le modalità di fruizione del mezzo.

Dopo i reality, che hanno contrassegnato la prima decade del nuovo millennio, è la volta dei tutorial, alla base del successo clamoroso di Real Time, che si affermano a cavallo degli anni Dieci; e dei nuovi linguaggi rappresentati da realtà come Netflix, Amazon Prime Video, RaiPlay e Mediaset Infinity, che hanno ancora una volta rivoluzionato il mezzo, regalandogli una nuova giovinezza alla vigilia delle 70 primavere, all’inizio del prossimo anno (la televisione italiana, lo ricordiamo, è nata domenica 3 gennaio 1954).

Nella seconda parte, “Dentro la scatola magica – Parlano i protagonisti”,tutte le sfumature dell’essere autore televisivo, attraverso cinque lunghe interviste di Dalla Vecchia ad altrettanti colleghi, che raccontano in che cosa consiste questo mestiere, così esaltato ma in fondo così poco conosciuto: Elisa Dossena e Barbara Rempi, con una lunga esperienza, da sole e in coppia, fra Rai e Mediaset; Duccio Forzano, regista e autore che ha firmato colossi della televisione come “Che tempo che fa” e il “Festival di Sanremo” e ha lavorato ai grandi show del sabato sera con personaggi come Fiorello, Morandi, Giorgio Panariello; Micol Palmieri, colonna di programmi del daytime come “Unomattina”; Luca Tiraboschi, che ha diretto Italia 1 e creato trasmissioni come “Il Bivio” e “Mistero”.

La terza parte, “Le parole della tele – Glossario minimo”, è un vero e proprio mini-dizionario per cominciare a masticare il gergo della televisione, fra parole-chiave, tecnicismi ed espressioni di uso comune. Si va da “auricolare” a “infotainment”, da “late show” a “titoli di coda”.

Il paroliere Popy Minellono: «Composi la canzone L'italiano guardando Canale 5. Ora è più famosa di 'o Sole mio». Alessandro Chetta su Il Corriere della Sera lunedì 28 agosto 2023

Il 77enne originario di Stresa si racconta: «Celentano preferì me a Malgioglio. De Andrè mi definì anarchico individualista. La formula per la hit non c'è, bisogna scrivere anche cose che non ci piacciono ma vicine alla gente» 

L’italiano del compianto Toto Cutugno l’abbiamo ascoltata e canticchiata tutti. Ma c’è uno che l’ha scritta. «Era l’82. Un giorno mi chiama Toto, dovevo immaginare un testo per un suo arrangiamento — ricorda il 77enne Cristiano ”Popy” Minellono, uno dei nostri più grandi parolieri, piemontese come Luigi Albertelli — Sono a casa, cerco di farmi venire un’idea quando in tv vedo il programma 'Buongiorno Italia' su Canale 5... illuminazione, inizio a comporre buongiorno Italia / gli spaghetti al dente… buongiorno Italia / buongiorno Maria... e via cantando».

Allora meno male che in tv passava «Buongiorno Italia» e non «Il pranzo è servito».

Ride. «Grazie a quella minima ispirazione composi le strofe de L’italiano in cinque minuti. A Cutugno piacque molto, la proponemmo a Celentano che però rifiutò. E fu la fortuna di Toto». 

Camillo Langone ha scritto che nelle parole di quella canzone si racchiude l’ultimo momento di sovranità nazionale prima della globalizzazione.

«Ne sono felice. La considero una fotografia critica e affettuosa del mio Paese. C’è anche molto della mia infanzia insieme a tanta nostalgia».

Analisi del testo. «Un partigiano come presidente», Sandro Pertini, capo dello Stato amatissimo.

«Anche se prima della salita al Quirinale non lo conoscevo. Ero stato un periodo in Australia e, informandomi sul suo conto, mi colpì che tanti amici ne rimarcassero non la fama di economista o intellettuale bensì la militanza nella Resistenza».

«L’autoradio sempre nella mano destra / un canarino sopra la finestra».

«Eh, i ladri, piccoli e grandi, da noi non sono mai mancati. Passeggiare con l’autoradio per non lasciarla in macchina faceva parte del paesaggio urbano». 

«La bandiera in tintoria e una 600 giù di carrozzeria».

«Tiriamo fuori la bandiera solo quando vince la Nazionale, ci vergogniamo del tricolore. Chi lo espone rischia pure di essere chiamato fascista... Per quanto riguarda la 600, volevo descrivere chi vive del suo stipendio, compra l’auto ma poi finisce che non ha tanti soldi per mantenerla».

«Troppa America sui manifesti».

«Quella c’è sempre stata, dilagante ieri come oggi». 

Considera «L’italiano» un inno patriottico?

«Direi di no, anche se l’orgoglio di cantarla c’è, soprattutto negli italiani all’estero. Uso figure meno scontate dei soliti pizza, sole e mandolino. E comunque un motivo ci sarà se è la nostra canzone più famosa nel mondo insieme a Volare e ‘O sole mio».

Popy da Stresa.

«Ma nato ad Arona. A Stresa però ho vissuto e ne ho un bellissimo ricordo. Sono felice di essere piemontese; della mia regione apprezzo tanto la cucina, i formaggi, la carne di fassona, gli agnolotti del plin…». 

Figlio di attori.

«Maria Pia Arcangeli e Carlo Minello, scomparso a soli 28 anni. Anch’io ho recitato da bambino. Ho debuttato in teatro grazie a Ernesto Calindri a Milano. Seguirono le compagnie di Giorgio De Lullo e Romolo Valli e poi nel ‘65 Le avventure di Laura Storm, la serie televisiva firmata da Leo Chiosso, sodale artistico di Fred Buscaglione».

Com’è diventato paroliere?

«Lasciai il teatro. Abitavo a Brera senza una lira. Suonavo al ”Due” cantando Bob Dylan unplugged per fare qualche soldo. Qualcuno mi notò e finii a intonare Blowing in the wind per la sigla di una commedia Rai; piacque molto e Giovanni Danzi, autore di O mia bela Madunina, mi fece un contratto da cantante per le Edizioni Curci, ma riascoltando le prime registrazioni ho desistito. Non mi piacevano. Però sorse un problema: mi avevano già pagato e così accettai di fare il selezionatore di titoli stranieri; dovevo ascoltarli e decidere le cover per il mercato italiano. Poi ho preso gusto a comporre testi. Scrissi Soli si muore e da lì è partito tutto».

Ha scritto brani che hanno venduto oltre 600 milioni di dischi nel mondo, una cifra mostruosa. Quindi non sono solo canzonette.

«Da presidente della Commissione musica in Siae ho sempre combattuto la definizione ”musica leggera”; per me è musica popolare. Sfugge ai più che fare canzoni “semplici” che durino nel tempo è più difficile che comporre brani cantautorali o sperimentali. Di hit estemporanee che fanno soldi siamo pieni, invece sono rari i pezzi pop che oltre ad avere successo diventano evergreen mondiali».

Qual è la formula? (domanda retorica, se ci fosse saremmo tutti in classifica)

«Infatti non c’è. Ci sarà che vinse Sanremo l’ho inventata al telefono con Al Bano poco prima della chiusura delle selezioni per l’Ariston. Per il famoso ritornello di Mamma Maria dei Ricchi e Poveri sono partito da Barbara Ann dei Beach Boys. Certo, un bravo paroliere deve avere la capacità di scrivere anche cose che non gli piacciono ma vicine al pubblico. Un po’ come distrarsi da sé, mettersi al servizio solo della canzone: ho scritto una ballata, credo molto dettagliata, su un padre che vede la figlia crescere, anche se di figlie non ne ho avute».

Gli incontri: Celentano.

«Metà anni 70, Adriano era in crisi perché non vendeva più tanto. Il suo autore Luciano Beretta era ricoverato e qualcuno gli fece il mio nome e quello di Cristiano Malgioglio. Disse “vi metto alla prova”, cioè avrebbe ingaggiato l’autore del singolo di maggior successo. Malgioglio presentò La moglie l’amante l’amica, ma prevalsi io con Ti avrò. Per Celentano ho composto una trentina di canzoni e non ha mai obiettato nulla sui testi; su Il tempo se ne va confessò “mi hai scavato troppo dentro”. È una persona meravigliosa, purtroppo circondato da persone non altrettanto belle. Ero sempre a casa sua, poi i rapporti si sono interrotti di colpo e non so perché».

De Andrè?

«Mi definì anarchico individualista azzeccandoci in pieno, non ho mai sopportato le consorterie radical chic. Insieme scrivemmo l’album di Dori Ghezzi Mamadodori. Ammirava il fatto che riuscissi a comporre in maniera tanto sciolta pur avendo appena la quinta elementare».

Milioni di dischi ma onorificenze poche.

«Nessuna. Hanno fatto cavaliere della Repubblica pure Eros Ramazzotti, per me nulla. In Russia invece mi hanno insignito del titolo di cavaliere della Stella di Rubino, lo conferiscono a pochissimi. Il nostro ministero della Cultura ignora del tutto la musica popolare. In Italia pare esista solo Mogol, ma su Mogol mi taccio».

La musica popolare oggi?

«Mengoni è bravo e in generale mi piace che questa banda di malvestiti e mal pettinati abbia un po’ smesso col rap. Fa sperare nella rinascita della musica popolare italiana, major permettendo».

Il paroliere è un poeta, non un parolaio! Paolo D'Achille su L'Accademia della Crusca e su L'Inkiesta il 21 e 29 Aprile 2023.

È giunta da qualche giorno al nostro presidente Marazzini la seguente richiesta, da parte della SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori):

Gentilissimo Presidente,

come accennatole stamattina e su indicazione del nostro Presidente onorario Giulio Rapetti Mogol, vorremmo avere dall’Accademia della Crusca una consulenza sul termine paroliere, usato spesso in maniera colloquiale come sinonimo della parola autore. Come le abbiamo spiegato, per il nostro Presidente utilizzare questo vocabolo equivale a sminuire la portata di un’attività creativa e artistica tra le più nobili ma saremmo onorati di avere anche la vostra opinione in merito.

Tale richiesta si aggiunge a quella, pervenutaci vario tempo fa, di un lettore che voleva “sapere quando e come entra in uso la parola paroliere per indicare colui che scrive il testo di una canzone”.

Risposta

Che il più famoso paroliere italiano, il celebre Mogol, Presidente onorario della SIAE, fosse contrario all’uso del termine paroliere per indicare chi scrive i testi delle canzoni di musica leggera era noto da tempo, come risulta dai brani di due interviste rilasciate a distanza di qualche anno, che riproduciamo:

Dove sta andando la canzone italiana? Mogol, il sommo paroliere di casa nostra, non è proprio ottimista. Sta scrivendo con Oliviero Beha un libro intitolato L’ Italia non canta più per sottolineare che “mai come in questi ultimi anni il divario tra successo e qualità è stato così abnorme”. […] Eppure già prima d’incontrare Battisti, Giulio Rapetti si chiamava Mogol da un pezzo ed era un paroliere di enorme successo. “Non mi chiami paroliere, la prego” protesta. “Io sono solo un piccolo autore. Il termine paroliere sminuisce la nostra categoria. Nel mondo anglosassone ci chiamano ‘lyrics writers’, scrittori di liriche”. (Giuseppe Videtti, Io, Mogol, dico Dio ci salvi dai cantautori, “la Repubblica”, 30/11/1996, p. 37)

Anche rispetto al suo nuovo incarico, Mogol, che inorridisce quando viene chiamato “paroliere” e ribadisce di voler essere definito “autore” (“io vi chiamo giornalisti, mica giornalai”), ha idee molto chiare. (Mogol sarà consigliere del ministro della Cultura: “Il mio impegno per l’arte popolare”, Repubblica.it, 23/2/2023)

Degno di nota, in questo secondo brano, il parallelismo tra parolieri e giornalai (che si oppone a giornalisti), nonostante i due termini abbiano suffissi diversi (-iere e -aio), entrambi usati, accanto all’ormai più diffuso -ista, per indicare nomi di professione (e si può rilevare che il termine spagnolo corrispondente a paroliere è letrista).

Per cogliere la percezione negativa del termine da parte di Mogol, è opportuno rispondere all’altra domanda pervenutaci, e ricostruire la storia della parola, che i principali dizionari italiani datano al 1928, sulla base di un esempio riportato dal GDLI nel Supplemento 2009, che anticipa il passo di Moravia (del 1970) citato nel vol. XII, s.v. paroliere (identica, nelle due voci, è la definizione: “Autore del testo di una canzone di musica leggera; chi svolge professionalmente tale attività”):

G. Giannini [“Kines”, 18-XI-1928]: Pochi versi qualsiasi su una musichetta rubacchiata danno al paroliere enormemente di più di quanto una riduzione cinematografica... dà al riduttore.

A. Moravia, 17-45: Quale verità? Quella dei parolieri di San Remo?

Sul piano dell’etimologia sincronica, paroliere può essere facilmente interpretato come suffissato, da parola + -iere, suffisso tuttora produttivo per indicare i nomi di mestiere, e non sempre con connotazione negativa: se verduriere e verduraio sono (geo)sinonimi, il gelatiere è professionalmente più quotato del gelataio. Storicamente, però, si tratta di un francesismo. Lo documenta il fatto che il termine francese parolier è attestato anteriormente: il TLFi lo data al 1855, riportando anche esempi del 1863 e del 1935, ma la prima registrazione lessicografica è in Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, vol. III, Paris, Hachette, 1873, dove si precisa che si tratta di una “parola d’autore”, inventata dal critico e musicologo Castil-Blaze (citato del resto anche nel TLFi) con un valore spregiativo, per indicare l’autore di testi di opere e operette, quello che in Italia si chiama – a partire dai primi dell’Ottocento, e inizialmente anch’esso con valore spregiativo – librettista (vocabolo formato con l’aggiunta di -ista a libretto, nel significato specifico, documentato già dal Settecento, di ‘testo in versi di un melodramma o di un’opera lirica’):

PAROLIER pa-ro-lié s. m. Néologisme. Nom donné par Castil-Blaze aux auteurs des paroles dans les pièces à mettre en musique, parce qu’il prétendait que le poëte y devait être l’esclave du musicien, et fournir seulement des paroles propres à être chantées. (Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, vol. III, Paris, Hachette, 1873, s.v. Trad.: “Neologismo. Nome dato da Castil-Blaze agli autori delle parole nei testi teatrali da mettere in musica, perché egli riteneva che in essi il poeta doveva essere al servizio del musicista e fornire soltanto delle parole adatte a essere cantate”]

Dopo aver riportato un exemplum fictum (Un parolier italien) e un passo di Castil-Blaze, il lessicografo commenta:

Le mot parolier suppose que la pièce, en soi, n’a aucune valeur; ce qui est souvent vrai. Mais, appliqué aux auteurs de pièces comme la Vestale de Jouy, la Muette et le Comte Ory de Scribe, le nom de parolier serait un contre-sens. [ibid. Trad. : “La parola parolier presuppone che il testo, in sé, non abbia alcun valore poetico, il che spesso è vero. Ma, se assegnato agli autori di testi come La Vestale di Jouy o La Muta [di Portici] e Il Conte Ory di Scribe, l’appellativo di parolier sarebbe un controsenso”]

Anteriormente alla prima attestazione italiana troviamo il termine francese, al plurale e con riferimento alla Francia, anche in un giornale piemontese:

Maître Ambros a Parigi — L’opera era attesa con una certa impazienza. La giustificava il fatto di essere il libretto di Coppée e la musica dell’elegante autore della Korrigane, Charles Widor. Un’opposizione sorda si era anche manifestata prima della recita, specialmente, al dire di certi giornali, per opera d’un “syndicat de paroliers d’operette”. (Arti e scienze, “Gazzetta piemontese”, 18/5/1886)

C’è, in verità, una precedente attestazione di paroliere in italiano, ma nel senso di ‘parolaio’, ‘linguaiolo’:

Il Gherardini reca altro esempio della Città di Dio, ma nella r. crusca trovasi soltanto intransitivo e accompagnato dal con. L’ho fatto avvertire, per altre voci da me usate senza licenza dei superiori, e per risparmiarmi la noja di appuntarmi ai piuchearciultravanignorantissimi pestiferi e pestilenziali fastidiosi parolieri del conciossiafussecosaavvegnaidioché; becchini della lingua, che vanno razzolando le ossa, ma non saprebbero ricomporle in forma d’uomo e plasmarle di vita. (Filippo Zamboni, Roma nel Mille. Poema drammatico, 2a ed., Padova, Salmin, 1878, p. 435)

Si può aggiungere che in italiano, per indicare, ironicamente, il librettista è documentato – prima ancora che nascesse questa parola, la cui prima attestazione risale al 1836 – anche un derivato da parola, usato più spesso nel senso di ‘chi parla molto e in modo poco concludente’, e cioè parolaio (1817). Sempre a scopo ironico, invece di paroliere, troviamo un esempio di parolante (1965), non a caso contrapposto a musichiere ‘autore della musica di una canzone’. Ecco al riguardo i due esempi riportati nel GDLI:

Pananti, I-32: Il suggeritore ed il copista / si lagnano d’aver quanto il poeta; / abbiam sentito dir fino il lumaio / che non vuole aver men del parolaio.

Brignetti, 3-56: La gente era stata emancipata a migliori garbatezze quali dopo sarebbero stati i quiz, le pacifiche tenzoni di parolanti e musichieri.

Tornando a paroliere, tra i due esempi riportati nel GDLI ce ne sono molti altri; tra i più antichi mi pare interessante questo, tratto da Google libri:

Maestro e paroliere (l’autore dei “versi” è definito per accordo internazionale paroliere) s’incontrano. (“Il Dramma”, XIV, 1938, p. 32)

Un’impennata decisiva nell’uso del termine si ha a partire dagli anni Sessanta (proprio quelli in cui Mogol ha iniziato la sua attività), come dimostra il grafico delle frequenze di Google Ngram Viewer, in cui considero anche il femminile paroliera e il plurale maschile parolieri: 

Va detto che dalle occorrenze di paroliere (che comprendono anche quelle del femminile plurale), dovremmo scremare dai dati le occorrenze (che comunque saranno verosimilmente pochissime), in cui il termine indica qualche altra cosa, e cioè:

1) la trasmissione RAI di Lelio Luttazzi del 1962-63 intitolata “Il paroliere questo sconosciuto”, dedicata, peraltro, proprio agli autori di testi di canzoni (cfr. V.B., TV: un servizio speciale e il ritorno del «Paroliere», “Il Corriere della Sera”, 3/7/1963);

2) la rubrica tenuta sull’“Espresso” da Tullio De Mauro, a cui si riferisce questo esempio:

Il mio vecchio amico Tullio De Mauro mi ha fatto l’onore di chiamarmi in causa, nella prestigiosa rubrica Il Paroliere che tiene sull’Espresso (di questa settimana). (Beniamino Placido, Rimini Rimini e la curva sud, “la Repubblica”, 24/5/1989, p. 29);

3) il nome commerciale di un “gioco consistente nel formare parole a partire da lettere dell’alfabeto scritte sulle facce dei dadi” (GRADIT; significato registrato con la data 1986); si tratta della versione italiana del gioco da tavolo inventato dallo statunitense Alan Turoff nel 1970, denominato in inglese Boggle, introdotto in Italia dalla Casa Editrice Giochi qualche anno dopo;

4) alcune rare occorrenze della parola come aggettivo (anche al femminile e al plurale) nel senso di ‘che usa molte parole, che ha un ricco vocabolario’ (ne do un esempio: “la sua superlativa capacità paroliera”, in Ettore Paratore, Il Satyricon di Petronio. Commento, Firenze, Le Monnier, 1933, p. 185).

A parte ciò, il successo di paroliere nella musica leggera si spiega col fatto che, diversamente dalla prassi propria del melodramma e dell’opera lirica (almeno fino a Puccini), il musicista metteva in musica (“intonava”, per usare il termine tecnico) un preesistente testo drammatico in versi (sia pure non rispettandone sempre la metrica e cambiando, omettendo o ripetendo varie parole). Invece, nella canzone,

[…] il procedimento è di solito inverso. È la melodia a essere composta per prima e a offrire l’attenzione del poeta o paroliere una serie di ritmi e accenti che precostituiscono il suo schema prosodico. Il metro, quindi, precede nel lavoro del paroliere ogni altro elemento di lingua poetica, costituisce anzi il modello obbligato, astratto e concreto nello stesso tempo, che sta alla base della composizione. […]

Il nostro paroliere è […] legato fino alla fine allo schema precostituito, desunto dalla melodia, che tra gli addetti ai lavori viene chiamato “maschera” o “mascherina”. Questa pappa, eccipiente neutro, è pronta a ricevere qualunque contenuto di parole. (Fernando Bandini, Una lingua poetica di consumo, in Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana. Saggi critici e antologia di testi, a cura di Lorenzo Coveri, Novara, Interlinea, 1996, pp. 27-35: pp. 27-28)

Questa prassi era normale (e lo è tuttora, anche se molto meno frequente che in passato) nel caso delle cover, cioè delle versioni italiane di canzoni angloamericane (ma anche francesi, spagnole e tedesche), che ponevano non poche difficoltà di traduzione sul piano sillabico, dati i nuovi ritmi sincopati, tanto che «un bravo paroliere, Giorgio Calabrese, lamentava: “Ah, se l’italiano non fosse così povero di monosillabi!”» (Lorenzo Coveri, Per una storia linguistica della canzone italiana, ibid., pp. 13-24: p. 21).

Insomma, al paroliere si richiedono competenze particolari e non c’è dubbio che, data la crescita del peso della musica leggera e della cosiddetta “canzone popolare” nella cultura contemporanea, il termine – così come quello di cantautore (“cantante che interpreta brani da lui stesso composti”; GRADIT, con datazione al 1960) – si è progressivamente diffuso.

Numerose sono infatti le occorrenze negli archivi di alcuni quotidiani: 1.653 nella “Repubblica”, 2.266 nel “Corriere della Sera” e 4.800 nella “Stampa”, in cui si ha l’attestazione più antica:

Nello stesso specchio troviamo con forti percentuali i nomi dei maestri Petralia, Giuliani, Ferruzzi, Mariotti, Culotta, tutti direttori delle varie orchestrine dell’E.I.A.R. che si scambian piccoli servizi tra di loro, quelli degli editori Leonardi, Casiroli, Olivieri, che fanno capo alla Cetra, qualche paroliere, come si dice con vocabolo inventato di fresco (si è sentito il bisogno di riservare la parola «poeta» a gente di altra levatura!) che passa indifferentemente dalla parola alla musica con la massima disinvoltura, e qualche... intruso di larga fama come Mascheroni, Kramer, Bixio, Di Lazzaro che si difendono come possono, con le loro produzioni cioè. (s.s., Cronache del teatro e della radio, “La Stampa”, 21/11/1937)

Di undici anni posteriore è il più antico esempio del “Corriere della Sera”, in cui il termine è usato tra virgolette:

Il tamburo principale della banda D’Affori ha perso in questi giorni la sua baldanza. E non è proprio uno scherzo. Il poeta, per dir così, della canzonetta famosa aveva bisogno, di una rima in “pifferi”. […] Così facendo il “paroliere” senza immaginarlo andava molto vicino alla realtà… (Il tamburo principale nei guai, “Corriere della Sera”, 11/11/1948)

Tra le occorrenze successive, ce ne sono varie in cui paroliere è certamente usato con una connotazione spregiativa o comunque riduttiva, come la seguente:

Tutti i poeti veri ingaggiano un titanico corpo a corpo con la tradizione e anche quando credono di volerla distruggere, in realtà la perpetuano e la arricchiscono. La tradizione non è un bazar o un buffet, né una boutique di pret à porter, dove ognuno può pescare i frammenti che vuole, accozzandoli fra di loro alla bell’e meglio. Ma questo è quello che fanno i canzonettisti, forti del collante della melodia. I testi, quindi, sono quasi sempre messi insieme con i cascami male orecchiati della tradizione alta. Finché il poetico è identificato con la rima baciata, il sole che tramonta e lei o lui, o tutti e due, che se ne vanno lungo la battigia, magari d’inverno e in groppa a un cavallo bianco, lo stereotipo è tale che, non significando più nulla, va benissimo. Ma, se le masse giovanili sono illetterate, non sempre lo sono i parolieri. Alcuni sono di buone letture. Il che spesso è anche peggio. (Giorgio Manacorda, Il paroliere vuole vestirsi da poeta, “la Repubblica”, 6/1/1990, p. 9)

Va invece lasciato da parte quest’altro esempio tratto dalla “Stampa”: qui infatti siamo a Torino, ci si riferisce al sindaco Sergio Chiamparino, poi eletto al Parlamento, e il significato di paroliere è quello di “venditore di parole”, proprio, come si è visto, di parolaio, ma anche del francese parolier, che nel TLFi ha un’altra entrata con questo significato (simile a quello della più antica attestazione di paroliere in italiano, riportata sopra):

Il nostro sindaco forse studia da primo ministro. Non è dato sapere se si stia già impratichendo nella mansione di paroliere, ma si sa che ha alzato gli occhi e gli è sfuggito un grido di dolore alla vista delle tende di nailon svolazzanti o tristemente pendule nei cortili torinesi. E pensando all’evento olimpico che ormai incombe, ha esortato noi tutti a uno scatto d’orgoglio in nome dell’esteticamente corretto. (Margherita Oggero, Sindaco, lasciaci le tende, “La Stampa”, 31/12/2005)

In molti altri esempi giornalistici il termine ha valore puramente denotativo, come nel caso seguente:

È morto a Los Angeles per insufficienza cardiaca il paroliere e compositore americano Sammy Cahn, autore dei testi di canzoni famosissime per cantanti come Frank Sinatra e Dean Martin. (Morto Sammy Cahn autore per Sinatra, “la Repubblica”, 17/1/1993, p. 33)

Possiamo concludere con un esempio che forse potrà far riconciliare il Presidente onorario della SIAE con la parola (visto che questa viene riferita addirittura a Dante!):

Usciti tutti a riveder le stelle e complici i festeggiamenti del settimo centenario, nel 2021 abbiamo scoperto che Dante è anche un paroliere straordinario. I suoi versi sono ultramoderni. Sembrano nati apposta per essere recitati a ritmo su basi, remixati, rappati su groove elettronici. (Nicola Gallino, Dante e l’Inferno con la musica di Vivaldi e Piazzolla, “la Repubblica”, 10/11/2022, p.12)

In ogni caso, anche se paroliere aveva all’inizio un significato ironico o comunque una connotazione spregiativa (così come il francese parolier), oggi non lo ha più, se non in rapporto al contesto in cui figura. Lo dimostra la sua presenza in un documento ufficiale, la Classificazione delle professioni fornita dall’Istat, che, anche nella sua ultima versione del 2023, presenta la seguente sequenza (dal generale al particolare), in cui i parolieri sono posti accanto ai Dialoghisti e distinti da Scrittori e poeti:

2 - PROFESSIONI INTELLETTUALI, SCIENTIFICHE E DI ELEVATA SPECIALIZZAZIONE

2.5 - Specialisti in scienze umane, sociali, artistiche e gestionali

2.5.4 - Specialisti in discipline linguistiche, letterarie e documentali

2.5.4.1 - Scrittori e professioni assimilate

2.5.4.1.1 - Scrittori e poeti

2.5.4.1.2 - Dialoghisti e parolieri

Naturalmente, preferire – nell’uso individuale – una designazione alternativa è del tutto lecito, ed è anche lecito rivendicare per il paroliere il rango di “autore” a tutti gli effetti, e in certi casi di vero “poeta”, se le parole di una canzone sono davvero belle e ben riuscite. Questo serve anche a ribadire il ruolo non sempre gregario rispetto al compositore della musica. Non sembra tuttavia possibile, allo stato attuale, sostituire la parola in tutte le occasioni, perché ormai il radicamento è molto forte, e vasta la sua diffusione, anche in contesto tecnico (come mostra la categoria ISTAT). Va comunque tenuto presente che la larga diffusione di paroliere ha finito per attenuare e anzi annullare il significato spregiativo che il termine aveva all’inizio, quando è arrivato dal francese. 

Paolo D'Achille su L'Inkiesta il 29 Aprile 2023.

Dario Salvatori per Dagospia il 19 febbraio 2023.

C’è stata un’epoca nella storia del Festival di Sanremo dove ognuno incideva le canzoni di tutti gli altri.  I cantanti erano dei bambocci, a stabilire il tutto furono per primi i direttori d’orchestra, dove si formavano le “scuderie” di cantanti, ma soprattutto le case discografiche e ancor di più le case editrici musicali, autentica cassaforte della canzone.

 Quando ascoltate canzoni molto celebri negli spot pubblicitari credete che siano i cantanti originali o gli autori a percepire denaro? Macchè, sono soltanto le case editrici a guadagnarci. Gli interessi delle case erano talmente cospicui che di fronte alle eterne rivalità cadeva ogni muro di gomma: Nilla Pizzi che cantava “Tua” della sua rivale Jula di Palma, Teddy Reno che incideva “Una marcia in fa” di Gino Latilla.

Nel 1961, l’anno n cui sbarcarono in massa i cantautori, non andò bene a tutti. I più giovani pagarono pegno. Nella compilation Giorgio Gaber (che nella gara cantava “Benzina e cerini” insieme a Maria Monti) fu costretto a cantare “Patatina” di Wilma De Angelis. Potete immaginare  Gino Paoli a cantare “Al di là” di Luciano Tajoli, vincitore di quella edizione?.

 Lo sconsolato Sergio Endrigo obbligato a cantare la sconsolatissima “Pozzanghere” di Tony Renis.  “Notturno senza luna” di tal Silvia Guidi entrò nella compilation interpretata di Dick Ventuno, ovvero Luigi Tenco. L’intera facciata B della raccolta 1961 fu affidata ai Flippers (Max Catalano, Franco Bracardi, Romolo Forlai, Maurizio Catalano e Fabrizio Zampa) i quali trasformarono “24 mila baci” in un cha-cha-cha. Nel 1965 si divisero la torta la Rifi e la Ricordi, dunque la canzone vincente di quell’anno, “Se piangi se ridi” di Bobby Solo, passò nelle mani di Mina.

La stessa Ricordi fece bingo l’anno dopo con “ A la buena de Dios” dei Ribelli (unico gruppo ad entrare in finale quell’anno) affidata ai Quelli, ovvero i futuri membri della Premiata Forneria Marconi, ma soprattutto inserendo “Adesso si”, in gara con Sergio Endrigo, nella versione di Lucio Battisti.

 L’album possiede una notevole quotazione proprio per questo inserimento, anche se  la prima incisione di Battisti venne arrivò quattro mesi con il suo primo disco a suo nome, “Per una lira”.  Nel 1967, il vincitore morale di quell’edizione fu Little Tony con la sua “Cuore matto”, reinterpretata da Fausto Leali. La miscellanea del 1969 propose “Un’avventua”, in gara con Lucio Battisti e Wilson Pickett, finita nelle mani dei New Trolls. Non mancano gli interpreti che si sono sempre vergognati di aver inciso una canzone di un altro, tipo Gabriella Ferri alle prese con “Chi non lavora non fa l’amore” di Adriano Celentano, Lucio Dalla che incide “Taxi” di Antoine, Nicola Di Bari costretto ad interpretare “Come le viole”, portata in gara dal suo eterno rivale, Peppino Gagliardi.

Per non parlare di Claudio Baglioni in piena miscellanea con “Bianchi cristalli sereni” di Don Backy. La Cgd, importante casa discografica tutta italiana, mise sul mercato il Sanremo del 1969 affidando ai Camaleonti “Se tu ragazzo mio”, in gara con Gabriella Ferri e Stevie Wonder, Sergio Leonardi con “Bada bambina” di Little Tony. Il fatto che le canzoni stridessero in mano ad altri interpreti contava poco, l’importante era occupare una quota di mercato. Per esempio scegliendo Gianni Nazzaro per interpretare “Come stai” di Domenico Modugno, oppure Sergio Endrigo per la “Il cuore è uno zingaro” della coppia Nicola Di Bari-Nada.

 Ancora la Ricordi per la compilation del 1971. “Che sarà” di Jose Feliciano e Ricchi e Poveri finita nelle mani di uno svogliato Ricky Gianco e “La folle corsa” di Little Tony finita ai Leoni.

 Con l’inizio dei Settanta le canzoni del Festival di Sanremo diventarono esageratamente racchie, stessa cosa per i vincitori (Homo Sapiens, Gilda, Mino Vergnaghi, ecc.), insomma queste canzoni non se le litigava più nessuno.

 Le case discografiche giunsero ad un patto di non belligeranza: la compilation sarebbe stata affidata un anno a testa. Il che non migliorò la produzione di quel periodo. Anni affollati ma cupi, Sanremo era ormai molto lontano dal mercato, da ciò che finiva in classifica e lontano addirittura dai  gusti del pubblico di Raiuno.

Questa storia ha una morale. I cantanti non contavano nulla, a parte i notissimi, però tutti gli altri sgomitavano, anche non se non erano stati inseriti nel cast Sanremo e magari interpretare una canzone in gara costituiva un  ticket di ingresso. Era la gavetta, tesoro. Proprio quella che nessuno vuole più fare.

«Io, paroliere fantasma a Sanremo. Scrivo canzoni di successo, ma resto anonimo». Tommaso Giagni su L’Espresso il 17 Gennaio 2023.

Cede i suoi testi ad altri, che li firmano e li portano al successo. E spesso al Festival. Ma l’impegno è di rimanere sempre nell’ombra. «A volte sento i presunti cantautori raccontare di come hanno scritto i testi fatti da me e mi viene da ridere. All’Ariston va in scena il trionfo dell’apparenza»

«Capita che sto ascoltando la radio, in macchina, e passa una canzone che ho scritto io. Allora mi sbrigo a cambiare stazione». C’è un paroliere fuori dalle luci di Sanremo. Ce ne sono più di uno, in realtà, ma lui è disposto a raccontare dall’ombra. «Capita anche di leggere cosa dicono i cantautori nelle interviste, a proposito di testi miei. Perché la curiosità è inevitabile. E capita che dicano: “Questa canzone l’ho scritta in un momento strano della mia vita”...». Il Paroliere Fantasma sorride, a ridosso del 73° Festival della canzone italiana.

Ha un nome sconosciuto al grande pubblico, ma è autore di testi che il grande pubblico conosce magari a memoria. Quel nome non lo faremo, perché la segretezza è una condizione chiave nel suo mestiere. Non viene annunciato dal palco di Sanremo, non compare nel sottopancia, quando chi canta aspetta la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi. Ci sono altri nomi a firmare, anche famosi. Eppure è lui il vero autore. Per quanto, vero e falso ancora una volta non sono categorie praticabili.

Il Paroliere Fantasma mette insieme parole che a volte hanno successo, in ogni caso lontano da lui e senza che a lui siano riconducibili. Non ci dirà quali canzoni ha scritto in questi anni («Non l’ho mai detto neanche a mia madre»). Non ci dirà quale brano, nell’imminente edizione del festival, ha raggiunto la finale. Farà di più: porterà L’Espresso nelle cucine in cui si prepara il grande spettacolo della musica italiana.

«Ho iniziato cinque anni fa. Per gioco, anche se con la paura che fosse qualcosa di illegale. Alcuni cantautori delle mie parti hanno letto testi che avevo scritto e mi hanno incoraggiato. Allora ne ho proposto qualcuno a un’agente, eravamo in contatto perché l’avevo intervistata tempo prima». Il Paroliere Fantasma scrive libri e collabora con i giornali, nella vita emersa, visibile. E proviene dalla musica: «Sono un pianista, scrivo canzoni fin dall’adolescenza. Ho anche partecipato alle selezioni di Sanremo Giovani, molto tempo fa. Mi sono fatto diciotto anni di piano-bar, quindi il festival dovevo seguirlo: nei pub ti chiedono quelle canzoni già dal giorno dopo. E poi Sanremo finisce a febbraio, a maggio prendono il via i matrimoni e i pezzi devi saperli. Scoprire, in questi anni, che il pezzo che faceva piangere gli sposi non era del suo autore, ma di un ghostwriter... Ti dici: come cazzo è possibile?».

La stagionalità è un fattore importante. Tra settembre e ottobre, in tempo per le selezioni di Sanremo, il Paroliere Fantasma invia i suoi lavori. Tre alla volta, ogni anno. «L’agente scova autori per canzoni, autori che accettano di restare nell’anonimato, e sottopone i loro testi alle produzioni. Così ha fatto per me, ha mandato le mie parole a chi è dietro alle più grandi manifestazioni. Mi ha colpito questo, che ha voluto iniziare da subito in grande».

Ci parla di un sistema unico, in cui oltre a Sanremo ci sono i grandi talent televisivi, gli album, i tormentoni estivi («Magari mi chiedono dieci parole da inserire nella hit di un deejay»). Ovunque gli stessi meccanismi. La fase creativa, però, mantiene una dimensione personale, isolata. Se c’è qualcosa di autentico in questa storia, bisogna cercare lì. «Non ricevo indicazioni sui temi o su altro. So che l’estate è un tema che piace, per esempio, ma scrivo di quello che mi va. Non saprei fare in un altro modo, mi bloccherei».

All’inizio di dicembre, il Paroliere Fantasma ha saputo che uno dei suoi testi ha passato le selezioni per Sanremo 2023. Verrà interpretato sul palco dell’Ariston. Da chi, lui lo saprà in un secondo momento. «La canzone viene abbinata all’artista dalle produzioni. Indirizzano loro, a seconda degli ospiti che hanno. Io lo scopro solo poco prima dell’inizio del festival, quando vengono pubblicati i testi in gara: vado in edicola, compro Tv Sorrisi e Canzoni e vedo a chi è stato assegnato il mio».

A quel punto il Paroliere Fantasma e le parole che ha scritto saranno, apparentemente, slegati. «Studio con attenzione le piccole modifiche che sono state fatte al testo. Quasi sempre una frase, una parola qua e là, non un periodo intero. Sono cambiamenti legati alle ritmiche, agli arrangiamenti». Così come, nel momento in cui l’artista di turno aspetterà sul palco la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi, il Paroliere Fantasma sarà apparentemente uno spettatore qualunque davanti alla tv. Nonostante quel brano sia fatto di parole sue.

È un paradosso che vale per ogni campo d’applicazione del ghostwriting: una distanza improvvisa separa l’autore dall’opera (che sia un romanzo, una sceneggiatura, una canzone). Il film “The Ghost Writer” di Roman Polanski, nel 2010, mostrava la tecnica di uno scrittore al servizio delle memorie di un primo ministro. È più difficile immaginare il ricorso a un autore occulto per una cosa legata alla stretta creatività, come il testo di una canzone. Forse perché è diffusa l’idea che il gesto creativo riguardi pochissimo la tecnica e sia invece uno slancio, immediato come i sentimenti che traduce. È certo, però, che il rapporto tra creatività e inautenticità può creare un cortocircuito.

Perché fare il ghostwriter, se non per soldi? Il Paroliere Fantasma non considera altri motivi. Ed è nei soldi l’origine dell’unica frustrazione che ammette di provare in questo mestiere. «Vengo pagato dalle produzioni tramite l’agente, una parte che di volta in volta si pattuisce. Non ricevo percentuali sulle vendite. Un mio testo ha vinto un premio importantissimo: ho ricevuto 4.800 euro, la canzone in pochi mesi ha guadagnato milioni di euro».

È una regola di questo gioco, sta nei patti. Il ghostwriter svolge un lavoro in cambio di un compenso, qualcun altro casomai si arricchirà. «Se non scrivessi anche altro, come invece faccio con libri e articoli, di sicuro non scriverei testi per la musica. L’anonimato mi peserebbe e sentirei di disconoscere il valore della scrittura, di non rispettarla. Invece, così rimane un gioco. E giocarci è un lusso».

Un altro lusso lo vede nell’essere riconosciuto attraverso la scrittura. Il Paroliere Fantasma si attiene al segreto sulle canzoni che hanno le sue parole, ma non nasconde l’attività di ghostwriter alle persone care. E anche quest’anno ci sarà chi, di fronte ai brani in concorso al festival, proverà a riconoscere la sua sensibilità. «Sì, ogni tanto mi beccano», ride. Anche quest’anno, nel caso, non potrà confermare né smentire. La soddisfazione correrà invisibile. Uno dei maggiori crucci di chi scrive, d’altronde, è che la sua voce sia anonima, impersonale. Forse per questo il ghostwriting richiede una maturità stilistica, sparire è per chi ha già una consistenza.

E gli altri parolieri fantasma? Esiste una rete, una solidarietà, un confronto, nell’ombra? «Ne ho conosciuti diversi. Per me una delle rivelazioni più sconvolgenti è stata scoprire che alcuni sono giovanissimi, adolescenti, magari usati per accorciare la distanza dal target. Per quanto, lo sapevo già che i ragazzi spesso sanno scrivere meglio di noi adulti. In ogni caso, è difficile che venga fuori un’amicizia. C’è una specie di titubanza: il timore di rubarsi il mestiere, di farsi sfuggire qualcosa di delicato». Si fa l’abitudine a stare nascosti, a non esporsi, e in qualche modo l’ombra protegge. È un circuito in cui non bisogna apparire.

Contemporaneamente, le serate della finale sono un evento mondano di tale portata che non esserci può equivalere, per qualcuno, a non essere. «Ci vanno tutti, a Sanremo, nei giorni del festival. Ma io finora non sono andato e anche quest’anno non andrò. Un po’ per paura. Va ricordato sempre che intorno al mio lavoro c’è una grande segretezza. È un gioco, la prima impressione che ho avuto era giusta, però è un gioco serio». Non andrà di persona, sarà uno spettatore qualunque davanti alla tv. Apparentemente, come ha fatto dall’infanzia e fino a qualche anno fa.

«L’Ariston sarà pieno, ma molto sarà falso. Un po’ come quando una figura istituzionale visita una scuola e allora viene tirato tutto a lucido. Il teatro pieno di questo febbraio non sarà, in fondo, dissimile dal teatro vuoto per la pandemia nell’edizione 2021». I cantanti in gara scenderanno in platea, si avvicineranno alle telecamere, mostrando di avvicinarsi al pubblico, di abbattere la distanza. Ma sarà una costruzione, come pure la gran parte dei momenti a prima vista spontanei. Effetti di realtà.

Il Paroliere Fantasma la mette giù lucidamente, ma senza cinismo: «Sanremo è un’industria dello spettacolo, una holding che dà lavoro a migliaia di persone. È un sistema basato sull’apparenza e non ha nulla di improvvisato. È come il metateatro, il metacinema. Io, certo, lo seguirò sempre, per tutta la vita, ma ormai non me lo godo più tanto. Mi sento preso per il culo, ho perso quell’ingenuità bambina che avevo. Scoprire che certe canzoni firmate da autentici miti, canzoni che amo, miei punti di riferimento, sono state scritte da altri...scoprire che non sono emozioni provate da quell’artista è stato uno shock. E allora ho messo in discussione tutto. Quello che ascolto è vero o è falso? Dubito di tutto, da quando scrivo testi per la musica. Mi sono creato una corazza rispetto al mondo».

Si sente un avversativo ad accompagnare la frase. In effetti il Paroliere Fantasma, dopo una pausa, dice: «Forse è tutto falso, però quella falsità produce comunque emozioni. Per questo non mi sembra un lavoro sporco: perché è legato a sentimenti veri che provo mentre scrivo. E dà emozioni vere a chi ascolta. Niente vale quanto l’emozione che viene da una canzone, no? Per fortuna esistono le canzoni... A volte questi artisti neanche sanno chi sono i loro ghostwriter, chi c’è dietro alle loro parole».

Dal 7 all’11 febbraio lui starà, come il resto del pubblico televisivo, a guardare dall’esterno il festival. «Spero che il mio testo vada a un interprete che mi piace, questo sì. Spero sempre che non abbiano assegnato le mie emozioni a qualcuno che non stimo».

Estratto dell’articolo di Mauro Masi per adnkronos.com il 2 maggio 2023.

Lunedì 1 maggio si è aperta la discussione presso la corte federale di Manhattan per la causa di presunta violazione del copyright da parte della star inglese Ed Sheeran (la canzone è “Thinking Out Loud”) nei confronti del classico di Marvin Gaye “Let’s get it on”. 

La causa è interessante per tutto il mondo della musica e non soltanto per quello anglosassone perché il motivo del contendere (peraltro non facilissimo da capire nei meandri del processo civile americano che a differenza del penale è niente affatto semplice, articolato e complesso) non è tutta la canzone nel suo insieme ma una parte di essa, diciamo la ritmica di base.

Una base costituita da accordi e arrangiamenti che secondo molti, non solo musicisti ma anche esperti legali, sarebbe di pubblico dominio. Negli USA ciò avrebbe un senso specifico perché prima del 1978 (la canzone di Gaye è del 1973) le copie di canzoni che venivano depositate al Copyright Office non proteggevano esplicitamente gli arrangiamenti.

Ma, come detto, il tema riguarda un po' tutto il mondo musicale (è in gioco la libertà di usare accordi di base e arrangiamenti largamente riprodotti) soprattutto ora che il copyright musicale è messo (e lo sarà sempre di più) a dura prova dalle possibilità offerte dai sistemi basati sull’intelligenza artificiale come chatGPT.

Ed Sheeran assolto dall'accusa di plagio. Vinta la causa a New York. Assolto Ed Sheeran a seguito dell'accusa di plagio da parte degli eredi di Ed Townsend per la canzone Thinking Out Loud. Il cantautore non ha infranto le regole del copyright. Cristina Balbo il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’accusa di plagio

 La reazione del cantante

 L’assoluzione

 Il nuovo album e la docuserie

Ed Sheeran è stato assolto dall’accusa di plagio, questo quanto fa sapere la Cnn. Infatti, nei giorni scorsi il cantautore di origine britannica era stato accusato di avere plagiato Let's Get It On, il classico del 1972 di Marvin Gaye, con la sua hit Thinking Out Loud. Stando a quanto deciso dalla giuria di Manhattan (nella giornata di oggi 4 maggio), Ed Sheeran non ha infranto alcuna legge sul copyright e, dunque, non ha copiato melodia e ritmo per realizzare il suo brano.

L’accusa di plagio

A citare l’artista in giudizio era stata la famiglia del cantautore Ed Townsend, co-autore del brano Let's Get It On. Gli eredi di Townsend sostenevano che Ed Sheeran – insieme alla co-autrice di Thinking Out Loud, Amy Wadge - avesse copiato alcuni elementi del brano del ’72; in particolare, il ritmo e la sequenza ascendente di quattro accordi. L’accusa chiedeva cento milioni di dollari all’artista inglese, e la sentenza del tribunale federale di Manhattan avrebbe dovuto stabilire se il cantante fosse costretto o meno al risarcimento dei danni.

La reazione del cantante

“Se dovessi perdere lascerò la musica” aveva detto il trentaduenne durante la prima udienza del processo, sconvolto da quanto stesse accadendo. Poi, il cantautore per esprimere il suo dissenso aveva anche cantato e suonato la chitarra proprio davanti alla giuria di Manhattan. "Traggo molta ispirazione dalle cose della mia vita e della mia famiglia", aveva spiegato Sheeran in aula; inoltre, l’autore ha anche descritto ampiamente la sua intera carriera.

L’assoluzione

Finalmente il cantante può tirare un sospiro di sollievo e ringraziare anche tutti coloro che lo hanno sostenuto; in molti - come ha fatto sapere lo stesso Ed Sheeran - gli sono stati vicino in questo momento difficile per la sua carriera. Anche se non sarebbe la prima volta in cui al cantautore accade un episodio simile: era già successo nel 2017 con la canzone Shape of You; in quel caso, fu accusato di avere copiato un brano del 2015, Oh Why di Sami Chokri e Ross O'Donoghue.

Il nuovo album e la docuserie

Adesso, Ed Sheeran può godersi a pieno l’uscita del suo nuovo album, Subtract. Un progetto nato in un contesto di dolore e che vede il cantautore ritornare alle sue origini. “All’inizio del 2022, una serie di eventi ha cambiato la mia vita, la mia salute mentale e, in definitiva, il modo in cui vedevo la musica” aveva spiegato il cantante. Infatti, il suo nuovo lavoro è nato a seguito della scoperta del tumore della moglie incinta e della morte del suo migliore amico Jamal. Subito dopo, il cantautore si era ritrovato in tribunale per difendere la sua carriera. Nel frattempo, su Disney + è già online la docuserie in cui Ed Sheeran racconta come da “semplice ragazzo balbuziente e senza il physique du rôle” sia diventato una super star.

 Non esiste più il plagio di una volta: in musica ormai tutti copiano tutti. Gino Castaldo su L’Espresso il 06 Febbraio 2023

Dopo le leggendarie dispute legali, tra Endrigo e Bacalov o Al Bano e Michael Jackson, si è passati a una sensazione diffusa di déjà-vu. Ma le leggi andrebbero riscritte

Copio, ergo sum. Non se ne può fare a meno, intrappolati come siamo nell’epoca dell’eterno ritorno, del riciclaggio, della ri-composizione. Ogni cosa sembra la copia della copia della copia. Ma anche il plagio non è più come quello di una volta, non è più il tempo in cui accusavano Ivana Spagna di aver copiato la sua “Gente come noi” da “Last Christmas” di George Michael e lei candidamente ci teneva a precisare che non aveva niente a che vedere con quella, casomai si era ispirata a “Insensitive” di Jann Arden.

Non è più il tempo delle leggendarie dispute legali tra Sergio Endrigo e Bacalov, con tanto di perizia in tribunale di Ennio Morricone, oppure di quella clamorosa che oppose nella pretura di piazzale Clodio a Roma niente di meno che Al Bano e Michael Jackson.

Non c’è neanche più la possibilità che uno come George Harrison pubblichi la sua più bella e deliziosa hit, “My sweet lord”, ammettendo poi, con la onestà che lo contraddistingueva, di aver inconsapevolmente copiato un precedente pezzo delle Chiffons intitolato “She’s so fine”, ammettendo la colpa e pagando il dovuto.

Le leggi sul plagio sono strane, e per certi versi antiche, concepite per un’epoca in cui il plagio aveva un senso, e il meccanismo più diretto: si doveva solo valutare se qualcuno aveva deliberatamente copiato da qualcun altro. E agivano con molta severità: quando gli Stones fecero causa ai Verve perché nella base di “Bitter sweet symphony” avevano utilizzato un tema strumentale di un loro pezzo, i Verve sono stati costretti a cedere interamente le royalties anche se c’era una cospicua parte originale scritta da loro.

Oggi è tutto cambiato. Assecondando un processo graduale di perdita di originalità le canzoni tendono ad assomigliarsi, e al prossimo festival di Sanremo proveremo di nuovo quella strana sensazione di déjà-vu. Qualcosa di già sentito c’è sempre, un’aria di familiarità, di conosciuto.

Un esempio per tutti: ricordate la mega-hit “Mille” di Fedez featuring Achille Lauro e Orietta Berti? Lì non è questione di plagio, casomai di bricolage. Scomponendo la canzone potremmo rintracciare un’infinità d frammenti riconducibili a qualcosa di precedente. Ma è solo un caso eclatante di un procedimento abituale. Lo fanno tutti. Come se le combinazioni si fossero esaurite e oggi scrivere una canzone voglia dire usare i materiali del passato come fossero tanti piccoli mattoncini di un gioco di costruzioni che alla fine porta a qualcosa di inedito ma che ci sembra altamente familiare. Ovvio che anche le leggi del plagio andrebbero riscritte. Se tutti copiano tutti, alla fine chi è il colpevole?

UP & DOWN

Classe 1945, Sir George Ivan Morrison, meglio noto come Van, pubblica un singolo intitolato “Worried man blues”, che potrebbe essere uscito indifferentemente nel 1958, nel 1974, oppure oggi. Ma l’unico a non essere preoccupato sembra proprio lui perché a dispetto di ogni evidenza, nel pezzo c’è vita.

Classe 1947, Sir Elton Hercules John, nato Reginald Kenneth Dwight, meglio noto come Elton, si è imbarcato per il più lungo tour d’addio della storia della musica, iniziato nel 2018 e non ancora completato, fruttando cifre sbalorditive. Un addio talmente lungo che si fa fatica a credere che sia veramente un addio.

Patria in versi. Toto Cutugno, l’italianità nella musica e la costruzione di una nazione attraverso le canzoni. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 26 Agosto 2023.

Dall’inno nazionale al pop, certi brani musicali hanno edificato l’identità popolare di molti Paesi, a partire dal nostro come racconta Leonardo Varasano in “Nazione pop”

«Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente/ E un partigiano come Presidente/ Con l’autoradio sempre nella mano destra/ E un canarino sopra a una finestra». Morto martedì, Toto Cutugno è stato attivo sulla scena musicale per cinquantotto anni; ha pubblicato ventotto album; ha vinto oltre cento milioni di dischi; ha, con quindici edizioni, un record di partecipazioni al Festival di Sanremo (pure alla pari con Al Bano, Peppino di Capri, Milva e Anna Oxa); lo ha vinto nel 1980 con “Solo noi”, giungendovi inoltre sei volte secondo, una volta terzo e due volte quarto, più altri piazzamenti con brani scritti per altri artisti; è stato nel 1990 il secondo italiano a vincere nel 1990 l’Eurovision Song Contest, dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e prima dei Måneskin nel 2021; però è stata “L’Italiano” la canzone che la folla dei fan ha intonato al suo funerale.

E “L’Italiano” è stata anche la canzone su cui si sono alla fine concentrati tutti i commenti. Inno popolare per alcuni, monumento al trash e agli stereotipi per altri, anche se poi in realtà qualche sfumatura c’era. «Buongiorno Italia con i tuoi artisti/ Con troppa America sui manifesti/ Con le canzoni, con amore, con il cuore/ Con più donne sempre meno suore». Insomma, un po’ di autocritica sui difetti e limiti nazionali in fondo c’era, mentre a destra non è mancato chi ne ha preso le distanze proprio per quel rifermento al «Presidente partigiano». Una contrapposizione tra dubbi di élite e entusiasmo di masse che in fondo inizia da subito, con appena il quinto posto al festival, ma il successo strepitoso, fino alla cover col Coro dell’Armata Rossa fonte di qualche perplessità in tempi di aggressione putiniana all’Ucraina, o alle versioni in finlandese e cinese. Una possibile storia politica del Festival di Sanremo non può non considerarla come una icona di quella Italia craxiana che prendeva slancio dalla vittoria ai Mondiali in Spagna e che si sarebbe schiantata su Tangentopoli.

Ma, appunto, una precisa analisi ne faceva “Nazione pop L’idea di patria attraverso la musica”. Un recente libro scritto per Rubettino da Leonardo Varasano, e il cui sottotitolo avrebbe dovuto essere «L’idea di nazione e la musica, dagli inni nazionali al pop. Il caso italiano». Poi è stato un po’ più sfumato, ma la stessa drammatica attualità della guerra in Ucraina si ricorda come «il tempo presente è ancora il tempo delle nazioni», anche se spesso si tratta di una idea «intiepipidita». Il «nazionalismo banale» ha però sempre bisogno di alcune forme simbolo. Prime fra tutte, quella visuale delle bandiere e quella sonora degli inni. “La Marsigliese” ne è un archetipo della nazione moderna, anche se “God save the King/Queen” ne è un esempio molto più antico.

Il rapporto tra nazione e musica, osserva Varasano, «ha avuto un valore particolarmente considerevole nei processi di emancipazione nazionale: è esemplare, in tal senso, l’importanza che un pensatore come Giuseppe Mazzini ha attribuito al canto, all’opera e alla musica in genere anche in chiave risorgimentale». Si perdoni qua l’autocitazione, ma anche l’autore di queste note si occupò di Mazzini in un libro da lui dedicato al rapporto tra canzone e letteratura. Vi si ricorda che il fondatore della Giovine Italia fu non solo un chitarrista appassionato, ma anche un pioniere della etnomusicologia, con il suo arrangiamento di un canto popolare svizzero da lui ascoltato in esilio. «Nel Novecento, poi, un celebre intellettuale come Roberto Michels ha perfino teorizzato una sociologia delle canzoni nazionali, decisamente significativa benché misconosciuta», aggiunge Varasano.

Mazzini a parte, il Risorgimento ebbe una colonna sonora formidabile nelle musiche di Giuseppe Verdi. In particolare “Va, pensiero”: si ricordava sempre in “Da Omero al rock”, in effetti perifrasi in italiano ottecentesco di quel Salmo 137 della Bibbia che è stato rifatto in una quantità di altre lingue, dal latino di Pierluigi da Palestrina all’anglo-giamaicano dei Boney M.; ma di fatto una sorta di pre-inno nazionale più volte riproposto. A volte anche in alternativa all’Inno di Mameli: il Canto degli Italiani composto all’epoca della Prima Guerra d’Indipendenza da colui che sarebbe poi divenuto un eroe e martire della Repubblica Romana, e dopo tanti anni in cui era stato trattato praticamente da anticaglia di cattivo gusto infine rilanciato alla grande da Carlo Azeglio Ciampi. C’è quasi un prima Ciampi in cui gli atleti azzurri soprattutto lo ascoltavano, e un dopo in cui lo contano a squarciagola.

L’Italia unità aveva in realtà avuto “La Marcia Reale sabauda”, che memorialisti della Grande Guerra descrivevano però spesso come «accozzaglia di note» quasi incantabile. Il fascismo vi aveva affiancato “Giovinezza”, che in realtà era stato in origine un inno goliardico e poi un canto degli arditi.

Con la repubblica si era adottato come inno provvisorio “La leggenda del Piave”: canzone scritta da un autore di popolari canzoni napoletane che l’aveva composta in un momento di gravi problemi economici, in cui aveva idealmente sovrapposto la propria volontà di affrontare i creditori all’auspicio che i soldati affrontassero gli invasori, come lui stesso racconto. E in effetti il brano aiutò sia l’Italia a vincere la guerra, sia lui a recuperare l’agiatezza economica.

Curiosamente Giovanni Ermete Gaeta, in arte E. A. Mario, oltre che autore di una canzone di vittoria come “La leggenda del Piave” lo fu anche di un canzone che parlava di sconfitta e occupazione straniera come “Tammurriata nera”, anche se pure quella cercava di affrontare la situazione con spirito positivo: «Ca tu ’o chiamme Ciccio o ’Ntuono,/ Ca tu ’o chiamme Peppe o Giro,/ Chillo…’o ninno, è niro, niro,/ Niro, niro comm’a che». Essendo un mazziniano storico, però, rifiutò una commissione di Alcide De Gasperi per scrivere un inno della Dc, e De Gasperi allora pose un veto alla “Leggenda del Piave” come inno. Dopo una proposta comunista dell’Inno di Garibaldi, si arrivò appunto a Mameli.

Una cosa poco nota che Varasano ha ritirato fuori, però è che a un certo punto Mazzini aveva commissionato a Mameli un altro testo che proprio Verdi aveva musicato, per farne un inno nazionale esplicito, dal titolo “Suona la tromba”. Ma, esattamente come accade ad esempio nel calcio quando due fuoriclasse che giocano assieme non si prendono, il paroliere di Fratelli d’Italia e il musicista di “Va, Pensiero” assieme non funzionarono, e il pezzo fu un flop.

Ma non ci sono solo gli inni ufficiali. Varsano cita Michael Billig per spiegare come l’idea di Nazione continua a proporsi in varie forme e gradazioni, e spesso in modi silenziosi, inavvertiti, «banali». Spesso non viene neppure nominata, eppure sopravvive e prospera. Le «banali profondità della coscienza nazionalista» si riproducono in una ricca molteplicità di manifestazioni. Tra queste c’è anche la musica. Ripercorrendo il legame tra musica e nazione alla luce della “Filosofia della musica” di Mazzini e dei “Prolegomena sul patriottismo” di Michels, il volume arriva fino al pop. Dall’analisi del caso italiano emerge una teoria di frasi, sintagmi, ritornelli inseriti in molte canzoni dagli anni Settanta a oggi. Nella musica popolare di massa il tema nazionale si presenta attraverso la celebrazione dell’amore o della nostalgia dell’Italia, il ricordo della storia patria, la critica al carattere e al malcostume italiani.

In particolare, c’è un filone sull’appello agli italiani in nome della critica ai vizi nazionali che dal «serva Italia» di Dante attraverso personaggi come Alfieri o Leopardi arriva al “Povera patria” di Battiato o a cose di Lucio Dalla, Roberto Vecchioni, Rino Gaetano o Venditti. Come d’altronde il filone del «Viva l’Italia» va dai citati Inni di Mameli e Garibaldi e “Leggenda del Piave” fino a Francesco De Gregori, Mino Reitano e, appunto, Cutugno.

Come scrive Varasano, «nel clima successivo al Mondiale di calcio del 1982, vinto dagli Azzurri di Bearzot in finale contro la Germania Ovest, il brano del cantautore toscano – nel tempo oggetto di molte reinterpretazioni, traduzioni e citazioni cinematografiche – esprime un evidente orgoglio patriottico, una chiara rivendicazione di italianità. L’Italia, infatti, nonostante i suoi limiti (a partire da un eccessivo filoamericanismo), è per Cutugno la nazione a cui si può essere orgogliosi di appartenere» «Lasciatemi cantare / con la chitarra in mano / Lasciatemi cantare / una canzone piano piano / Lasciatemi cantare / perché ne sono fiero / sono un italiano / un italiano vero».

Nel videoclip, girato a Parigi, appaiono alcuni dei simboli nazionali citati nel testo della canzone, come il tricolore (compare a più riprese una ragazza vestita di verde, bianco e rosso) e la pasta (gli «spaghetti al dente»). L’Italia, animata dalla vitalità della musica, viene descritta come un Paese «che non si spaventa», dal profilo borghese eppure capace di condensare il senso del proprio riscatto postbellico in «un partigiano come Presidente» (Sandro Pertini) e il proprio senso di appartenenza nella bandiera (portata «in tintoria»), nel caffè (rigorosamente «ristretto») e nel calcio (con «la moviola la domenica in Tv»). Insomma, Nazione Pop.

Michele Bovi per Dagospia il 6 febbraio 2023.

Mi chiedo se nell’edizione 2023 il Festival della canzone italiana ricorderà ‘O sole mio, ovvero la canzone italiana più famosa nel mondo e resa tale principalmente per l’interpretazione di Enrico Caruso, il mio bisnonno tenore che nacque proprio nel febbraio di 150 anni fa”.  

 È quanto si legge nella lettera inviata a Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai, da Riccardo Caruso, pronipote di Enrico e a sua volta con trascorsi di voce tenorile nel coro del Maggio Musicale Fiorentino.

Fuortes s’intende di musica importante. Gli manca solo il Teatro alla Scala di Milano, giacché prima dell’incombenza nella radiotelevisione pubblica aveva per l’appunto ricoperto incarichi di vertice a Roma tra Auditorium Parco della Musica e Teatro dell’Opera, a Bari per la Fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e a Verona per la Fondazione Arena.

Per Sanremo 2023, tra tutti i nomi annunciati da Amadeus, quali ospiti o protagonisti di celebrazioni, è mancato finora quello di Enrico Caruso, che il 25 di questo mese verrà altrove ricordato per i 150 anni dalla nascita.  Ed Enrico Caruso, come scrive il pronipote Riccardo, non è soltanto un gigante della lirica italiana ma anche il più famoso esecutore di ‘O sole mio, il brano che grazie a quell’incisione del 1916 è diventato e resta nel mondo l’inno fondamentale della canzone italiana, etichetta che dal 1951 contraddistingue il Festival di Sanremo che ha successivamente prodotto altri popolarissimi motivi quali Nel blu, dipinto di blu e Quando quando quando.

Il rischio che la Rai possa minimizzare l’evento è calcolato. I precedenti in proposito sono a dir poco sconcertanti.  Il 25 febbraio del 1973 la Rai non allestì celebrazioni per i 100 anni dalla nascita dell’artista. Addirittura il Radiocorriere Tv, all’epoca diffusissimo periodico cartaceo dell’azienda radiotelevisiva che ospitava spazi dedicati alla musica lirica, nella settimana dell’anniversario pubblicò un articolo sull’Elisir d’amore, l’opera di Gaetano Donizetti che aveva provocato il clamoroso divorzio tra Caruso e la sua Napoli, dimenticando del tutto però di citare Caruso.

Il fattaccio originario risaliva agli ultimi due giorni del dicembre del 1901. Il tenore ventisettenne arrivò al Teatro San Carlo già forte di una pregevole reputazione: il suo stile di canto era innovativo, virile e passionale. Ma il pubblico, assuefatto alle interpretazioni languide di Fernando De Lucia il tenore che all’epoca dettava legge sui palcoscenici partenopei, non sembrò apprezzare immediatamente il protagonista dell’Elisir d’amore, quel Nemorino impersonato da Caruso.

 Non ci furono fischi, come molti ancora oggi raccontano perpetuando frottole tramandate negli anni, ma solo un’accoglienza inizialmente tiepida, poi nel giro di un’ora convertita in un successo tondo. Caruso non convinse però il critico Saverio Procida che sul giornale Il Pungolo gli rimproverò una voce baritonale non adatta al ruolo di Nemorino e persino una notevole insufficienza tecnica. Ancora più pesante fu il giudizio di Procida sulla Manon Lescaut di Giacomo Puccini che Caruso interpretò subito dopo l’Elisir d’amore: “Gli mancano lo charme del cantante, la finezza dell’artista, l’eleganza dell’attore, la dizione raffinata”.

Una critica in cui Caruso ingiustamente lesse la condanna di tutta Napoli. Ferito nell’orgoglio non si esibì più nella città natale, continuò la sua carriera trionfale altrove, all’estero, soprattutto oltreoceano. Tornò a Napoli nell’estate del 1921, per morirvi all’età di 48 anni.

 Il caso dell’Elisir d’amore fu elemento centrale nella celebrazione del centenario. L’Associazione della stampa napoletana organizzò il 24 aprile del 1973 – due mesi dopo l’esatta ricorrenza - un maestoso concerto al Teatro San Carlo. Con l’orchestra diretta dall’imponente maestro Oliviero De Fabritiis si esibirono, ripercorrendo le tappe obbligate del repertorio di Caruso da l’Elisir d’amore a ‘O sole mio, le più prestigiose voci maschili della lirica mondiale: Mario Del Monaco, Ferruccio Tagliavini, Luciano Pavarotti, il francese Alain Vanzo, il russo Vladimir Atlantov.

Mancarono all’appuntamento lo svedese Nicolai Gedda afflitto da laringite e lo spagnolo Placido Domingo proveniente da San Francisco ma bloccato all’aeroporto di Londra a causa della nebbia. L’autentica perla dell’evento fu la formale riappacificazione tra la Napoli melomane e il suo più glorificato erede.

 Tra interminabili scrosci di applausi il pubblico del San Carlo accolse con commozione l’abbraccio riparatore tra il nipote di Caruso, Enrico junior, e Roberto Procida discendente del critico, che gli organizzatori avevano fatto sedere uno accanto all’altro nel palco reale.

 Lo splendido live dei cinque tenori del 24 aprile 1973 fu inciso in un disco raro, solo recentemente messo a disposizione degli appassionati su youtube dai figli di Mario Del Monaco. Non esistono invece registrazioni della Rai e neanche segnalazioni del Radiocorriere Tv nella settimana di pertinenza.

Una distrazione replicata nel 2021, a 100 anni dalla scomparsa del tenore (Napoli, 2 agosto 1921).

Nel 2020 ci fu la proposta di connettere i due anniversari 2021-2023 attraverso una serie di iniziative patrocinate e coordinate dalla Rai a livello internazionale, dal Centro produzione di Napoli a quello di Milano, fino alla sede di New York - racconta il pronipote Riccardo Caruso – La proposta veniva proprio dal consigliere d’amministrazione della Rai Riccardo Laganà ed era rivolta all’amministratore delegato Fabrizio Salini, al presidente Marcello Foa e ai colleghi consiglieri.

 L’appello di Laganà raccolse l’adesione di noi familiari, di musicisti, editori, giuristi, scrittori, giornalisti, soggetti eventualmente interessati a collaborare in concorso con le istituzioni culturali e musicali che da tempo si occupano di custodire le memorie del nostro bisnonno. Ma rimase lettera morta: il Consiglio di amministrazione Rai non inserì mai all’ordine del giorno la proposta che pure era partita da uno dei suoi membri, tra l’altro quello eletto non dalla politica ma dai dipendenti dell’azienda”.

La disattenzione del servizio pubblico radiotelevisivo è forse scaturita dalla stessa mancanza di incisività da parte della politica nei confronti dell’artista universalmente più celebre di tutti i tempi. Unica eccezione l’entusiasmo dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone che nel 1973 volle personalmente redigere la presentazione dell’opera omnia dedicata al centenario del tenore dalla sua casa discografica americana.

Ma Giovanni Leone era napoletano. In quella stessa circostanza il ministro del turismo e spettacolo Vittorio Badini Confalonieri si limitò a inviare al Teatro San Carlo un telegramma. Badini Confalonieri era torinese. Oggi con Gennaro Sangiuliano, napoletano doc alla guida del ministero della cultura, le aspettative degli appassionati di Enrico Caruso sono molto più ottimistiche. A partire dalla attesa rievocazione in questa edizione del Festival. ‘O sole mio sta ‘nfronte anche a Sanremo?

Così Milano ha regalato la colonna sonora all’Italia. Un libro a cura di Crovi e Fassina racconta le mille anime musicali meneghine. Storia vera di Celentano, Gaber e altri geni. Alessandro Gnocchi il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ogni città ha il suo suono. New York: l'avanguardia rock e minimalista, i Velvet Underground e Philip Glass. Los Angeles: il pop metal di Eddie Van Halen e dei Mötley Crüe. San Francisco: le jam session psichedeliche dei Grateful Dead. Seattle: le chitarre rumorose di Jimi Hendrix e Kurt Cobain. Londra: la British invasion dei Rolling Stones. Liverpool: il Mersey Beat dei Beatles. Potremmo proseguire all'infinito. Ci fermiamo in Italia perché un libro gigantesco per formato, contenuto e procurato divertimento prova a definire il suono di Milano. Si intitola Milano Sound System. 100 anni di suoni all'ombra del Duomo, a cura di Luca Crovi e Luca Fassina (About Cities, pagg. 320, euro 48). Aperto a decine di contributi, il libro, splendidamente illustrato, va da Adriano Celentano ad Arthur Rubinstein, con tutto quello che c'è in mezzo. In oltre mezzo secolo, è cambiato tutto. L'industria musicale è morta e rinata dalle sue ceneri. Il cantautorato locale è diventato italiano e ha lasciato (in parte) il posto al rock indigeno degli anni Novanta e al rap, che attraverso le sue ramificazioni arriva fino ai giorni nostri. Un tempo c'erano Adriano Celentano, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Celentano si divertiva a imitare le canzoni rock, trasformando l'inglese in celentanese: non diceva nulla ma suonava bene. Avete presente Prisencolinensinainciusol, brano del 1972? Era un ritorno-omaggio alle origini. Secondo una leggenda metropolitana, Adriano aveva un paroliere, Michele Del Prete, che non scrisse una parola: era il suo portafortuna ma anche un abile procacciatore di testi suggeriti, per amicizia, da gente come Mogol. A proposito. Naturalmente anche il successo del romano Lucio Battisti inizia a Milano, quando incontra il batterista dei Quelli, Franz Di Cioccio, di origine abruzzese, che poi farà la storia della musica italiana con la Premiata Forneria Marconi, band partita dalle cotolette del Quartiere Otto (quello della Triennale) e approdata agli hot dog delle arene americane.

Chi nasce, anche solo professionalmente, a Milano, eredita il gusto della innovazione. Prendiamo Giorgio Gaber. Prima cantore della realtà milanese: il Giambellino, Porta Romana bella, i trani, cioè le piccole osterie in periferia. Poi cantautore rock'n'roll con licenza di spaziare in televisione. Infine, eccezionale interprete teatrale in una serie di spettacoli in cui si mettevano in scena e si cantavano ipocrisie, tormenti e tormentoni della borghesia milanese ma non solo. Provate ad ascoltare Far finta di essere sani (1973).

Enzo Jannacci, professione medico, fece esplodere, da subito, un talento che partiva da Milano, stazione di Rogoredo, e giungeva alla Parigi surrealista. Costantemente sottovalutato, anche a causa di un carattere votato all'understatement, ha portato gli umili nella canzone italiana, con un'umanità che finirà col rivelarsi apertamente cristiana. El purtava i scarp del tennis (1964) è una lectio magistralis su come si scrive un testo di canzone insieme locale e universale.

Ecco, abbiamo toccato uno dei temi più interessanti. Quando si pensa a Milano, si pensa a una storia culturale fortemente connotata. Milano è la città del realismo coniugato alla fede religiosa. Tutti hanno il diritto di arricchirsi. Tutti hanno il dovere di ricordarsi della comunità in cui vivono. Il sistema milanese è questo: spirito imprenditoriale e spirito religioso. La società deve puntare a espandere la dignità, il benessere e il decoro. Questa identità è fortissima e si esprime in ogni aspetto. In letteratura, Alessandro Manzoni, nei Promessi sposi, ne è stato il primo e insuperato interprete. Avvicinandoci ai nostri giorni, un altro grande scrittore con i piedi ben piantati in Milano è Giovanni Testori. Figlio di un imprenditore e cristiano imperfetto, Testori è il prodotto della temperie lombarda ma ne ha colto anche il probabile tramonto (vedi il romanzo Gli angeli dello sterminio, 1992). Se dall'iperuranio della cultura scendiamo nel cortile dell'industria, beh, noteremo subito un dettaglio rivelatore nelle ville padronali che sorgono accanto ai capannoni: l'ingresso principale, spesso, quasi sempre, non si apre sulla strada ma guarda verso la fabbrica di famiglia.

Bene, è giunto il momento di verificare a che punto siamo con la Storia: esiste ancora una milanesità siffatta? Dove cercarla? Le canzoni sono sempre un'ottima spia di quanto ci accade intorno. Jannacci è stato il Manzoni della canzone milanese. Oggi non è così semplice. Gli umili hanno le stesse aspirazioni dei borghesi e usano la stessa lingua. Lo si vede chiaramente nel rap da classifica e nei suoi derivati più moderni, come la trap. I rapper non parlano la lingua degli emarginati. Cantano con le parole dei giovani, che sono uguali dappertutto, in centro e in periferia. Gli umili, forse, sono i figli degli immigrati ma non è detto che si esprimano in italiano.

Al di là di questo problema, che andrebbe indagato, possiamo dire, seguendo le pagine di Crovi e Fassina, che Milano ha sempre saputo rinnovarsi. Il nuovo rock italiano ha avuto tre capitali: Bologna, Firenze e appunto Milano. Tolto il caso dei fiorentini Litfiba, sono stati forse i gruppi milanesi a lasciare il solco più profondo. Gli Afterhours di Manuel Agnelli si sono rivelati da esportazione e se avessero insistito... Del resto, alla base del successo dei Måneskin c'è proprio una intuizione di Agnelli stesso, oggi solista. I Ritmo tribale di Andrea Scaglia sono tornati sulle scene con un album capolavoro, La rivoluzione del giorno prima, dove Milano ha un ruolo centrale. Edda, ex voce dei Ritmo tribale, è uno dei cantautori più rispettati. I Casino Royale hanno introdotto e sviluppato i suoni dell'elettronica inglese, che oggi possiamo ascoltare ovunque.

Anche il rap, come il rock, affonda le radici nei primi anni Novanta. Milano è la mecca per gli artisti di tutta Italia. J-Ax, microfono degli Articolo 31, gruppo apripista, è milanese doc. Tra i primi a trasferirsi nel capoluogo lombardo ci fu Fabri Fibra, nato a Senigallia. Marracash, siciliano, è la voce della Barona, quartiere di Milano. I Club Dogo nascono e prosperano in città. Anche l'ondata trap ha trovato la sua sede nel capoluogo lombardo.

Ci sono poi fenomeni unici. Ad esempio, l'intrecciarsi di cabaret e canzone d'autore ha dato meravigliosi risultati con Jannacci, ancora lui, e con Cochi e Renato. Una tradizione che arriva fino a Elio e le storie tese e passa per Teo Teocoli, cantante dei Quelli prima di diventare un comico. Sarebbe l'argomento di un altro libro. Crovi e Fassina, se ci siete, battete un colpo...

Costanzo, De Chiara e Morricone: come nacque “Se telefonando”. Le sirene della polizia marsigliese, un’intuizione fortunata, Mina che prende il foglio e inizia subito a intonarla: come fabbricare un successo. Paolo Lazzari il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Stretti nel clima rarefatto della loro stanzetta, i due confabulano fitto. Quello più paffuto si riavvia l’incerta criniera, fremendo. Sente che sta per avere un’epifania. L’altro soppesa accuratamente la manciata di frasi scribacchiate sul foglio, intonso fino ad un istante prima. Dalla cornetta del telefono accasciata sulla scrivania rimbalzano, lievemente metallici, gli appunti di un terzo convitato.

Su un fatto si trovano tutti d’accordo: Studio Uno è stato un congegno deflagrante. Quei gran geni di Antonello Falqui e Guido Sacerdote hanno messo su un varietà inedito ed effervescente. Dunque, irresistibile. Fare altrettanto per questa costola che sta emettendo i primi vagiti è quantomeno opportuno: Mamma Rai non accetterebbe nulla di diverso. Aria condizionata - perché è questo il titolo del nuovo programma – deve viaggiare subito spedito. E quando cerchi un acceleratore percettivo, dentro la musica puoi scorgere un alleato formidabile.

Il trio si spreme e affastella idee scoppiettanti. C’è una sigla da scrivere e, visto che il microfono lo stringerà ancora una volta Mina, magari circondata dalle fluttanti gemelle Kessler, la banalità è un nemico da contrastare senza quartiere. Fuori esplode il 1966. Al governo c’è la DC, Maurizio Costanzo ha ancora tutti i capelli e Ghigo De Chiara indossa un sorriso sornione, persuaso di essere vicino a districare la matassa. Il primo assist in realtà lo fornisce il tizio dall’altra parte della cornetta, che nel fratempo sobbolle. “Mi viene in mente il suono delle sirene della polizia marsigliese”, l’eccentrica suggestione di Ennio Morricone.

A tirarlo in ballo è stato proprio De Chiara. Ci ha lavorato insieme per uno spettacolo teatrale e ne è rimasto sedotto al punto da volerlo coinvolgere anche per la tv. Il clima retrivo degli anni Cinquanta è alle spalle da un pezzo. Ora i varietà devono essere sfrontati e disorientanti: un risultato che raggiungi soltanto se lasci il volante ai creativi. Il secondo colpetto di assestamento lo piazza Costanzo. Sono nel bel mezzo di una telefonata, quindi rinfodera le elucubrazioni galoppanti e attinge dal reale: “E se la parola giusta fosse telefono?”. De Chiara non potrebbe essere più d’accordo. L’arnese sta spopolando in quegli anni.

Adesso tocca avvitare la narrazione intorno a un tema. Al trio viene in mente che potrebbe trattarsi della fine di un amore. Una di quelle così improvvise e contundenti da riempire tutto lo spazio riservato alle parole. È successo così in fretta che nessuno dei due diretti interessati ha il tempo materiale di fornire una spiegazione. Potrebbe farlo lei, telefonando. Il condizionale usato nel testo però è un rampicante che inibisce il movimento e acuisce questa sensazione di incompiutezza. È un amore destinato a rimanere irrisolto e forse, per questo, ancora più sferzante.

Allora è deciso. L’illuminato trio si riunisce per recarsi in via Teulada, dove li attendono la regale Mina ed il suo impresario. Nello studio di registrazione troneggia un monumentale pianoforte a coda. Costanzo, le dita tremolanti, ci appoggia foglio e spartito. Lei lo afferra e inizia a studiarlo per un tempo che pare indefinito. In ossequioso silenzio, il sudore che già si lavora anche i polsini delle camicie, la geniale combriccola ripete interiormente mantrici scongiuri. Poi, d’un tratto, si consuma il pezzo di magia. Senza distogliere lo sguardo dal foglio, Mina inizia a intonare una strofa. Dapprima è un bisbiglio appena accennato. Una fessura che stappa un nuovo inizio. “Lo stupore della notte, spalancata sul mar”. Poi cresce. “Ci sorprese che eravamo, sconosciuti io e te”.

La sua voce è un balsamo che scende su tutte le parti del testo, congiungendole. Il trio dilata le iridi, compiaciuto. La cantante esprime soltanto un appunto: la strofa “Poi nel buio la tua mano d’improvviso sulla mia” potrebbe prestarsi ad ambiguità. I nostri sfregano e sbrogliano il lieve impasse volgendo il testo al plurale.

È fatta. La canzone viene incisa e Mina la presenta nel corso della sedicesima puntata di Studio Uno, il 28 maggio 1966. Diverrà un successo di respiro mondiale. Il brano, particolarmente intricato per via dei molteplici salti di tonalità e per l’estensione vocale pretesa, è in realtà il terreno di caccia d’elezione per la tigre di Cremona. Il trionfo che ne consegue, con decine di migliaia di vinili che fanno le fusa da una parte all’altra dell’oceano, è ruggente.

Riunito in un bugigattolo adiacente alla regia, il trio si distribuisce pacche reciproche. A volte basta agganciarsi a un’intuizione per flettere il corso della storia.

Barbara Costa per Dagospia il 9 aprile 2023.

Rod Stewart si è iniettato cocaina nel c*lo. Svuotando capsule antiinfluenzali, riempendole di coca, e infilandosele nel retto. Il suo naso stava marcendo, per le sniffate. Pure Ronnie Wood se l’è iniettata nel c*lo. E pure Stevie Nicks. Rod Stewart è stato operato d’urgenza per rimuovere lo sperma che s’era inghiottito succhiandoli a una flotta intera di marines.

 Gene Simmons ha la lingua di una mucca. Trapiantata. Per questo è così lunga. Jimi Hendrix non è morto, ha cambiato nome per cambiare mestiere, infatti è Morgan Freeman. Lo stesso Kurt Cobain, mica è morto, vive a Seattle, è sempre stato lì, ma nella Seattle nascosta, sotto terra, seppellita durante il grande incendio del 1889.

Ok, Kurt è morto, fooorse, ma l’hanno ucciso, chi, il Deep State che, come le rockstar campate fino a 27 anni, l’ha eliminato perché sobillatore di giovani. Guarda che Cobain è stato ammazzato dalla moglie, anzi, siamo precisi, la moglie al soldo della CIA. Courtney Love voleva uccidere anche la madre, di Cobain, e in seguito il marito della figlia Frances. Courtney è una della CIA, e tiene la polizia di Seattle per le p*lle. Prima di mettere Cobain nella bara, quelli delle pompe funebri lo hanno rasato, fatto a pezzi, tolto il cuore, e c’hanno fatto un sabba con la musica dei Pearl Jam.

Se non l’ha ucciso Courtney, Cobain ha fatto la stessa fine di Chris Cornell dei Soundgarden e di Chester Bennington dei Linkin Park, che non si sono uccisi, sono stati uccisi, perché volevano svelare una setta pedofila. Come Courtney Love, anche Charles Manson era c*lo e camicia con la CIA. Lui e la sua Family con l’omicidio di Sharon Tate non c’entrano niente: erano debiti di droga.

 Manson mi sa che in carcere l’hanno fatto fuori, lui stava bene e faceva progetti per il futuro: si voleva sposare con una 26enne, a 80 anni suonati, embè? Dopo 9 anni di fidanzamento epistolare l’ha lasciata lui scoprendo che, dopo la sua morte, la sposa avrebbe esposto il suo cadavere in una bara di vetro come Biancaneve.

Avril Lavigne si è uccisa nel 2003, depressissima per la morte del nonno. Sì, prima che diventasse famosa. Quella che vedi a tutt’oggi è una sosia trovata e pagata dalla casa discografica per non perderci i soldi investiti. Si chiama Melissa. Paul McCartney è morto – decapitato! – in un incidente d’auto nel 1966, lo sanno tutti. Sveglia: la prova non sta che Paul è scalzo sulla copertina di Abbey Road, sta nella targa della macchina sulla copertina di Abbey Road, c’è scritto “28IF”, “28 (anni) SE” non fosse morto.

 Capito? Sono decenni che un Macca-sosia ci percula (per volere dei Servizi Segreti inglesi) manco tanto uguale all’originale. Ci sono varie foto che lo dimostrano. Non erano i Beatles a celare messaggi satanici nelle loro canzoni (anche perché i Beatles non sono mai esistiti, erano tutti attori, mandati via nel 1969 quando muore il loro compositore, Adorno), chi lo fa è Taylor Swift: lei è Zeena LaVey, figlia di Anton LaVey, capo satanico. E ex amico di Marilyn Manson.

Britney Spears è stata pagata dal presidente Bush Jr. affinché con le sue mattane di droga e d’amore sviasse i media dai casini di Bush Jr. in Iraq e non solo. I presidenti degli Stati Uniti non li decide il popolo, ma una élite di ricconi a capo dello smercio mondiale di oppio. Banksy è Robert Del Naja dei Massive Attack. Robert Del Naja dei Massive Attack è Banksy. Amanda Lear era trans, i soldi per il cambio di sesso glieli ha dati Salvador Dalí. Romy Haag, drag queen ex di David Bowie, lo sa perché ha lavorato con Amanda Lear, ex di Bowie, quando Amanda il pene ce l’aveva ancora, altrimenti non sarebbe stata con David Bowie.

Pippo Franco è morto nel 1981 in Puglia, gli ha sparato il padrone del terreno da cui stava rubando mandorle. Quel che si vede da più di 40 anni è un sosia e si chiama Salatino Fulvio Franco. Gianni Morandi è coprofago conclamato. Romina Power canta le scie chimiche (“non vogliamo scie chimicheee/ nel cielo bluuu”), Robbie Williams le canta per gli alieni e, una volta, appena terminata una, “una sfera di luce si è messa a fluttuare sulla mia testa”.

 Billy Corgan, sobrio e pulito, stava a letto con una donna che si è mutata in un mostro e lui se l’è fatta sotto e ancora se la fa se solo ci ripensa. Perché Billy ai mostri ci crede e alle streghe no, e fa male, perché Beyoncé è una strega, e vola. Lo dice il suo batterista. E il marito di Beyoncé, Jay Z, vola nel tempo, lui nel 1939 era a Harlem. È documentato. E comunque Jay Z e Nicky Minaj sono la stessa persona. Jay Z beve sangue. Justin Bieber sa trasformarsi in Godzilla. E Aleksandr Dugin, prima di essere l’ideologo di Putin, era un cantante “assatanato, avvinazzato e satanizzato”, senonché un “mistico sessuale” che faceva orge ambo-sex. Le ha sempre sparate grosse.

Se vuoi scoprire se queste sono tutte colossali caz*ate, o quali sì e quali no, leggiti "Music Paranoia. Leggende Urbane, Misteri e Cospirazioni Dal Mondo Delle Sette Note", (Il Castello editore), “sordido tomo” il cui autore, Episch Porzioni, raccoglie e smonta miriadi di fake news, miti, panzane, montature, che popolano il web, e a cui in troppi credono. Sonore risate garantite. 

Barbara Costa per Dagospia sabato 2 dicembre 2023.

Io sarei anche disposta ad andarci, da uno bravo. A farmi vedere. Esaminare. Nel cervello e tra le gambe. E come no. Non che non ci abbia pensato. Il fatto è che non voglio guarire. Nossignore. Io nella mia perdizione ci sto da dio, e non ci penso proprio, a farmelo calmare, il mio clitoride, e a farlo tornare (o iniziare?) insieme al mio intelletto, alla ragione. Non serve. È dall’adolescenza che, alle prime note di "Whole Lotta Love", il mio dolce clitoride si gonfia e si contorce felice. Ogni volta. Raggiante. E non è che io non gli dia “tutto l’amore di cui hai bisogno”.

No, no, no, è lui, e io con lui, che della schiavitù dei Led Zeppelin, non vogliamo liberarcene. Ma poi come fai a uscirne se è Jimmy Page, la divinità, che lo dice, “Whole Lotta Love, io l’ho creata perché creasse dipendenza”, e tu, dimmi come si fa a smettere coi pusher lì, pronti, in agguato, con le loro dosi nuove, e che sono i libri, che sui Led Zeppelin si continuano a scrivere? Come quest’ultimo, di Matteo Palombi, luccicante fin dal titolo, "Thank You. I Led Zeppelin canzone per canzone" (Tsunami ed., dal 15/12). Eeeeeh… Mica male. Prende tutte le canzoni degli Zep – tutte!!! – e te le passa pelle a pelle. E sono lusinghe, e palpiti.

Come resistere? "Down Inside/ Woman/ You Need/ Love". Sicuro, io sto qui, arrendevole, e me ne godo lingua sulle labbra. Certo non sono come tante che stanno a pigolare parità. Sai che me ne f*tte. Io credo a altri fotti. Altri fottii. Tipo quello che mi sta inzuppando slip e quasi sedia ora che scrivo. Mi succede perché io do ascolto a Robert Plant: “Spremimi piccola/ fino a quando il succo non mi colerà giù lungo la gamba”. Che è pure tra le mie sevizie sessuali preferite.

E fa niente che Plant a quanto canta non vuole che ingoi, io alla sua “spada dorata” una “sgrullata” (per i non iniziati, lo sto citando verso per verso) non la avrei lesinata, dacché è Plant che strilla orgasmico “Babe!” per 31 volte e sta a dire che te lo spinge dentro, e per 31 volte, sia chiaro. Io Plant lo tradisco e non posso farne a meno col suo (ex) migliore amico, e cioè chi sul palco e nella scrittura gli stava accanto: lui, il padre padrone degli Zep, Jimmy Page. 

Page è la maestosità di chi comanda. È Page che gli Zeppelin li ha ideati plasmandoli di sound diabolico. È Page che “ha portato sulla scena qualcosa che doveva ancora venire”. È Page ad essere “imponente, e provocante, e rivoluzionario, e confronto inevitabile, e punto di non ritorno”. È Page parte della “sacra triade britannica delle sei corde, con Jeff Beck, e Eric Clapton”.

Col dirigibile sempre più in alto, Plant e Page litigano. Perché? Si azzardano ipotesi. La più mefistofelica: per l’esoterismo di Page. Plant ha paura delle fascinazioni di Page, ma Page non c’entra con la maledizione spaventosa che piega gli Zep: Page si fa male alla mano sinistra, Plant si frattura le gambe, Jones si esaurisce di mente, e Bonzo… lasciamo perdere. Stoni di coca, e alcool. Ero. Il dirigibile non sale più. 1977.

Muore il figlioletto di Plant. E Jones e Page non vanno al funerale. Plant li attacca negli ultimi brani Zep: “Ho degli amici/ che non mi daranno un caz*o”. E a Page: “Dov’erano le tue parole? / dov’eri andato? / dov’era il tuo aiuto? / dov’era il tuo arco…”. Poi Bonzo muore a casa di Page. Il dirigibile si schianta al suolo. Era stato più in alto, più di chiunque altro.

Io a chi ostinato mi rompe a musicalmente mettermi appresso a non so chi trapper coi mutandoni sgraziato e al mio clito molesto, il mio vaffa stavolta lo metto per iscritto: io non cambio, non mollo, e ognuno ascolti chi gli pare. Plant non si sarebbe mai lagnato a che una fan gli avesse toccato il pacco!!! Arrivarci… Si ambisca ciò che per gli Zep è la forza ipnotica del Rock “devastante, carnale, oscena”.

Allacciata “al potere rovinante del femminile sull’uomo”. Non è la misoginia Zep, no, è la donna che, nel Rock degli Zep, è “wanton song”, è un’auto, “è caramella e miele”, è “una torta alla crema”: è la donna che morde, che annienta, che ha il dominio. Di distruzione. Totale. Chi è che spreme il limone? Si prenda nota: “Nel letto degli Zep, gli squali non ci sono mai entrati, i limoni sì”.

“Noi Siamo i Vostri Signori”. Out on the tiles. Il martello degli Dei. A cui mi inchino in riverenza incondizionata. È da ineducate non ringraziare chi ti fa ribollire il sangue. Ma qualcuno lo ha visto il bridge? E, in ogni caso, “se c’è qualche plagio, accusate Robert!”.

Barbara Costa per Dagospia domenica 5 novembre 2023.

“Devo essere stata una chi*vata terribile!”, si lagnò Grace Slick dopo essersi fatta "mangiare" la frutta addosso da Jim Morrison, e solo come preliminare. Morrison, "dopo", non la richiamò più, e sebbene io sapessi che si erano rifatti e richi*vati ad Amsterdam, in tour europeo, chi sono io per mettere in dubbio le squisitezze che Stefano Mannucci, il Doctor Mann di Radiofreccia, ha scritto nel suo "Batti Il Tempo. La Musica Nella Storia. La Storia Nella Musica" (Il Castello ed.) ? Si può solo che imparare, da questa sua sontuosa enciclopedia di fatti e dei "fatti" del Rock.

E io ho imparato che Grace Slick, signora dei Jefferson Airplane, non indossava le mutande, e che, sul palco, a richiesta, ne dava "ampia" dimostrazione ai fan. Grace Slick se le è però messe – e tenute – quando è stata invitata a un thè alla Casa Bianca, e lei ci è andata con la ferma intenzione di sciogliere LSD a mo' di dolcificante nella tazza del Presidente Nixon, e col nobile fine di “aprirgli la mente” quindi farlo ragionare a chiudere la guerra in Vietnam.

Peccato che Nixon a quel thè le abbia dato buca! Grace che, oltre le mutande, per la festosa occasione si era scelta come cavaliere Abbie Hoffman, sballatissimo attivista politico che nel 1968 aveva candidato alla Casa Bianca un maiale, Pigasus, e li avevano arrestati. Lui, e pure il maiale. Grace Slick ha un grosso rimpianto, anzi due: non essersi portata a letto l’attore Peter O' Toole, e nemmeno il caz*one (non sta a insulto) di Jimi Hendrix. La sua grande amica Janis Joplin non glielo voleva dire, che lei con Hendrix ci aveva rimediato un assaggio orale… Janis Joplin, da rockstar planetaria, si era adattata a pagarli, gli uomini, per sc*parseli. Lei li spaventava.

In tournée, tappa in New Jersey, Janis mette occhi (e mani) su un 19enne sbarbatello che qualche anno dopo sarà Bruce Springsteen. Gli dice subito che se lo vuole fare, e senza giri di parole. Steve Van Zadt, futuro chitarrista di Springsteen, era lì e… ce lo giura, sono scappati a gambe levate: “Non avete idea di cos’era Janis Joplin, ci metteva paura!!! Era aggressiva e predatrice!”. 

Pore stelle, con Joni Mitchell sarebbe potuta andarvi peggio. La sua angelicità è tutta voce e facciata. Joni s’è portata a letto Leonard Cohen, David Crosby, e Graham Nash, Warren Beatty, David Geffen (mitico produttore), e Sam Shepard in tour con Bob Dylan (che Joni non ha sedotto perché “Dylan non si lava mai i denti!”) e Jackson Browne, e molti altri. Joni Mitchell “rumina boli velenosi su ognuno dei suoi amanti”, e glieli sputa, in pubblico, nei suoi brani, per imputargli violenze (false) contro le donne che hanno amato – e sposato – dopo di lei. 

"The revolution will not be televised", certo, è e sarà su internet, e Steve Jobs, da toy boy, ha avuto un flirt con Joan Baez. Fosse tutto qui. Joan Baez ha fatto sesso nientemeno che con Martin Luther King, uno che da prete lo sapeva, che “al corpo è concesso di desiderare, e il Diavolo ha fattezze da donna”. E alcuni scaltri "fratelli" di King la sapevano più lunga di lui: Charles Mingus ha toccato il record di “23 donne in una notte” e Miles Davis a Parigi si è innamorato, ricambiato, di colei che negli USA non sarebbe stata altro che “la bianca p*ttana del negro”: Juliette Gréco. Poi, vabbè, Davis scordò di dirle che in USA era già sposato, e padre. 

Ike Turner portò Tina “a un bordello di Tijuana la prima notte di nozze”. E Aretha Franklin ha partorito un figlio a 13 anni, e si vociferava che il padre fosse il padre, di lei!!! E solo in punto di morte Aretha ha confessato che il vero padre di suo figlio era un suo coetaneo “conosciuto su una pista di pattinaggio”. E che suo padre, prete, impazziva per le orge etero, a volte gay, e basta.

Al primo marito di Aretha, invece, piaceva esser il maggior p*ppone di Detroit, e picchiare Aretha ogni qualvolta avesse qualcosa in contrario. Al padre dei fratelli Wilson, fondatori dei Beach Boys, mancava un occhio e ha educato i figli obbligandoli a guardarlo fisso senza quello di vetro. È tra i motivi per cui Brian Wilson è scoppiato schizofrenico e hikikomori non diagnosticato…?

"James sc*pamiiiii!", "James f*ttimiiiii!", "ti prego, sono tuaaaaa, fammi tutto quello che vuoiiiii!", erano le grida più pudiche che adolescenti in calore schiamazzavano a James Brown ai concerti. Keith Richards si è spupazzato la figlia di Dean Martin soltanto per vendicarsi di quando Dean Martin in diretta TV ha detto che “i Rolling Stones hanno le pulci”. Che ignoranza: a lavarsi poco, nella storia del Rock, “è stato Frank Zappa”. Ne sanno qualcosa le groupie che vivevano a casa, di lui, con lui, e la di lui moglie.

Ha detto benissimo Bonzo Bonham, batterista dei Led Zeppelin: “È il Rock, amico! Pentirsene adesso non serve a niente!”.

Estratto dell'articolo di movieplayer.it il 20 aprile 2023.

Woody Harrelson e Matthew McConaughey sono noti per la loro grande amicizia e per aver condiviso il set della prima stagione della serie antologica True Detective. In una recente intervista al podcast Let's Talk Off Camera with Kelly Ripa, McConaughey ha rivelato che c'è la possibilità che i due attori siano anche fratelli e sarebbero disposti a fare anche il test del DNA, nonostante ci sia qualche dubbio da parte di Matthew.

Woody Harrelson […] Durante un'intervista al talk show The Late Show With Stephen Colbert, Harrelson ha confermato la possibilità che questa clamorosa notizia sia vera.

"Beh, posso solo dire che c'è una certa veridicità in quella teoria perché abbiamo parlato con Mamma Mac, la madre biologica di Matthew, e una volta ci ha fatto questa rivelazione... voglio dire, è pazzesco", ha detto Harrelson.

"Eravamo in Grecia a guardare la squadra degli Stati Uniti giocare la Coppa del Mondo e non so, ho menzionato qualcosa riguardo ai rimpianti. E ho detto, 'Sai, è strano che mio padre non abbia rimpianti'. E conosco Mamma Mac da molto tempo, e lei ha detto, 'Conoscevo...tuo padre'. Ed è stata la sua pausa dopo quel 'Conoscevo' che ho trovato un po' inquietante, o interessante".

[…] Partiti da questa rivelazione, i due attori hanno iniziato a indagare e hanno scoperto che il padre di Woody Harrelson, uscito di prigione, era tornato a casa durante un periodo di crisi tra i genitori di McConaughey, che poi hanno divorziato. L'ipotesi ha acquisito maggiore plausibilità quando sono emerse delle ricevute di alcune località del Texas in cui i due potrebbero essersi incontrati clandestinamente. 

"Vogliamo fare un test del DNA, ma per lui è molto più complicato", ha continuato Harrelson. "Si sente come se stesse perdendo un padre. Ma io gli ho spiegato, no, stai guadagnando un secondo padre ed un fratello".

Potrebbe essere una coincidenza, o forse no, ma Brother From Another Mother, ovvero, Fratelli da un'altra madre, è il titolo della commedia per Apple TV+ che vedrà Woody Harrelson e Matthew McConaughey riuniti sul piccolo schermo. Nella serie, i due attori daranno vita a personaggi ispirati a loro stessi e condivideranno la casa in un ranch texano con le loro famiglie.

Estratto dell'articolo di Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2023.

 Vivere a casa dei «mostri» conviene. […] È successo nel 2009, con l’attico dell’Upper East Side che appartenne a Bernie Madoff. Dopo l’arresto del finanziere newyorkese […] il governo federale requisì l’appartamento sulla 64esima […] dove Bernie viveva con la moglie Ruth e lo mise sul mercato. Lo comprò Alfred Kahn, il magnate dei giocattoli inventore dei Cabbage Patch Kids[…] «Alfred si preoccupava del karma, ma io adoravo il terrazzo», spiegò al New York Post sua moglie Patsy.

 In un’intervista con la newsletter «Airmail», fondata dall’ex direttore di Vanity Fair Graydon Carter, Kahn ha spiegato che il prezzo era stracciato rispetto al valore delle proprietà in zona. «Pensai che fosse una buona opportunità per guadagnarci». Pagò 8 milioni di dollari nel 2010, il 20% in meno del prezzo richiesto. Dopo la ristrutturazione (e il divorzio) l’ex moglie Patsy lo ha venduto per 14,5 milioni di dollari nel 2014.

Non succede solo a New York. Nel 2020 il cofondatore di Tinder, Justin Mateen, ha comprato la villa di Lori Loughlin a Bel Air per 18 milioni di dollari, quasi a metà prezzo […] dopo che l’attrice […] fu condannata a due mesi di carcere per aver pagato una mazzetta da mezzo milione per fare entrare le figlie in una delle migliori università americane […]

Certo, c’è una certa differenza tra vivere a casa di Madoff […] e crescere una famiglia a casa di Jeffrey Epstein, il miliardario pedofilo che adescò decine di ragazze e abusò di loro nelle sue dimore, prima di morire suicida in carcere.

 Eppure la sua townhouse di 40 stanze sulla 71esima nell’Upper East Side, una delle più grandi di Manhattan, è stata comprata nel 2021 per 51 milioni di dollari (35 milioni in meno del prezzo di listino) dall’australiano Michael Daffey, ex responsabile per i mercati globali di Goldman Sachs che ha fatto una fortuna con Bitcoin e secondo il Daily Mail intendeva viverci con la moglie e i quattro figli dopo aver rimosso ogni traccia del precedente inquilino. La magione di Epstein a Palm Beach in Florida è invece stata acquistata, demolita e rivenduta da un costruttore con grande profitto.

Harvey Weinstein tendeva a usare le camere d’hotel per le sue aggressioni sessuali. […] È di moda purificare la casa «maledetta», bruciando erbe. […]

Barbara Costa per Dagospia il 4 marzo 2023.

Chi di voi ha mai tolto le piattole dal pisello del suo migliore amico? O è gelosissimo della di lui moglie? O lo ha mai baciato in bocca? O salvato dalle pallottole d’un mafioso? Se non avete fatto nessuna di queste azioni, significa che non ne siete innamorati. No, la vostra non è una storia d’amore, come quella che ha legato Dean Martin e Jerry Lewis e, per chi non sa chi questi due sono stati, rimedi: Dean Martin e Jerry Lewis sono stati per 10 anni esatti, dal 24 luglio 1946 al 25 luglio 1956, la coppia di spettacolo che “ha acceso e fatto urlare l’America”. Ci credete che “eravamo più famosi dei Beatles e Elvis messi insieme”? E famosi quando si era tali perché si aveva del talento vero.

Dean Martin e Jerry Lewis, una coppia comica “che dalle risate faceva sdraiare il pubblico” in teatro, davanti alla TV, al cinema. Che quello tra Dean e Jerry sia stato un incontro “tra due che si piacciono, all’istante, e si innamorano”, in un idillio, per poi non parlarsi più, pur lavorando in coppia, e fino a odiarsi, e tradirsi, lasciarsi, facendosi male, è quanto sincero fino in fondo confessa Jerry Lewis nel suo "Dean & Me. Una storia d’amore" (Sagoma, nuova ed.).

Io ve lo dico: se cercate qualche verità sull’amore, la trovate qua. Sull’amore tra due uomini eterosessuali. La chimica è chimica. Dean e Jerry si adorano, ma tra loro non v’è amore fisico, vi son baci in bocca (di scena) e passione, per lo spettacolo, e per ciò che insieme sanno e riescono a fare, che li consuma dal primo sguardo e per la vita. Quando Dean e Jerry si conoscono, a Manhattan, hanno 28 e 19 anni. Lavoricchiano, come cantante Dean, come comico da strapazzo Jerry. E sono entrambi sposati, con un figlio Jerry, e ben 3 Dean. E s’innamorano. Umanamente. Professionalmente.

Non riescono a stare l’uno senza l’altro, “con una mano mi respingeva, con l’altra mi tirava a sé”, si rincorrono data dopo data, fino a unire forze e vite in una coppia comica demenziale che, improvvisando, spancia platee via via più vaste, espugnando Hollywood, e da lì… il mondo! Un amore dipanante nella forma di fratelli, complici, confidenti intimi.

Dean e Jerry vivono insieme 10 mesi su 12. 10 mesi in cui condividono stanze d’hotel, fife, sfoghi, ire, respiri, ansie, e capi mafia (frequentano i Gambino, i Costello, i Giancana, i Siegel, i Fischetti, i padroni della Chicago post Capone, perché senza "gli amici" nel settore non ci stai, sono loro i padroni dei circuiti dove ti esibisci, e mica puoi dir no se ti invitano ai loro matrimoni, e mica puoi parlarne male: “È gente di parola, seri galantuomini”, scrive Jerry Lewis, “meno ipocrita della maggior parte dei politici. Se hai bisogno, ti aiutano…” E chi ne dubita!?).

Dean e Jerry vivono avventure da scapoli: “Qual è un posto in cui sc*pare in pace in questa città?”, è l’idea fissa di Dean Martin in tournée. Ai tempi andava che “un vero uomo ha moglie e figli, e tutto ciò che riesce a rimorchiare”. E le consorti a casa son complici di questo andazzo. Basta essere discreti, cornificarle senza umiliarle. Senza che le prove spuntino sui giornali.

 Sbadataggine che Dean e Jerry "pagano" una volta quando, con due svalvolate, si danno ai sesso bagordi in giro per New York. Sia all’inizio quando sono nessuno che da mega star di Hollywood, Dean e Jerry in coppia sessualmente bisbocciano, e con attrici e cantanti e showgirl anche loro per lo più sposate e con prole. Così andavano le cose nei lontani '50, non tanto diversi da oggi, non vi pare? E appunto, come oggi, e come sarà sempre: quand’è che inizia la fine? Dean e Jerry iniziano ad allontanarsi quando arriva il successo quello clamoroso, che li assale con orde di fan urlanti.

È un crescendo silenzioso di rancore e non detto che isola Dean da Jerry perché è Jerry l’unico apprezzato dalla critica, qualsiasi cosa facciano. Jerry è la mente, il genio, quello bravo, Dean il belloccio, con una bella voce, la spalla. Jerry è l’insostituibile, Dean è intercambiabile. Queste le recensioni. Per 10 anni!!! Tant’è che, quando si separano, i media decretano la caduta di Dean Martin e l’ascesa di Jerry Lewis.

Però, quando si lasciano, dopo aver mai litigato una volta, ma accoltellandosi sui giornali, in astioso silenzio se faccia a faccia… che succede? Che dopo il flop del primo film solista, Dean Martin diventa cantante e showman e attore di grido lavorando con Brando, Montgomery Clift, John Wayne (e ne sto dimenticando), mentre Jerry Lewis… dopo i primi botti, cade nella tossicodipendenza da Percodan, fino a puntarsi una pistola carica in bocca. Ma non si spara.

 Dean Martin e Jerry Lewis si perdono per 20 anni. È Frank Sinatra, amicissimo dei due (il quale però al divorzio tra Dean e Jerry sceglie Dean, facendolo entrare nel suo "Rat Pack", gruppo di cantanti, attori, adorabili mascalzoni, e grande è la gelosia di Jerry, che l’aveva capito, subito!, che Dean lo avrebbe tradito con Frank, che Dean si era innamorato di Frank “quel wop cocco di mamma!” e wop sta per "italiano" e sta a insulto come "nigger" sta a "negro", ma tra questi uomini sono affettuosi complimenti: capito, conformisti più cancel-culturisti?).

Frank Sinatra che, nel 1976, in diretta TV, fa riabbracciare Dean Martin e Jerry Lewis. E tra i due la storia d’amore rinasce, esclusivamente telefonica – ed è sempre Jerry a chiamare – fino alla morte di Dean, il giorno di Natale 1995. E per i seguenti 22 anni, fino a che Jerry muore, Jerry sogna Dean, almeno una volta al mese, “e urlo nel sonno”.

La vita procede secondo regole misteriose. La vita è troppo breve. Tutto finisce sicché, a chi volete bene, diteglielo. Dean Martin ha detto a Jerry Lewis “ti voglio bene” una volta sola, festeggiava 72 anni, e torta e festa gliele aveva pagate Jerry. Dean che a Jerry mai ha fatto un regalo. Jerry che a Dean l’ha soffocato, di regali, e da quando non avevano un soldo bucato. Non ci si innamora né si ama allo stesso modo. Mai. Non lo fa nemmeno il pubblico che “è una giungla, di animali, e sente la paura: in un secondo può rivoltartisi contro”. E cambiare canale.

Estratto dell'articolo di Eugenia Nicolosi per alfemminile.com il 29 gennaio 2023.

Il concetto di famiglia si evolve

Al netto delle accuse reciproche e delle angherie che si sono scambiati negli ultimi anni, la coppia formata da Woody Allen e Mia Farrow è nota, oltre che per i successi di entrambi, per aver scelto di non convivere: negli oltre vent'anni di unione i due intellettuali e artisti hanno vissuto in due appartamenti separati, niente di meno che, dal gigantesco Central Park, diventando così pionieri delle coppie “Lat”, acronimo di “Living apart together” ovvero una coppia non convivente.

 Sono gli unici? No, anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre vivevano separati. E non sono nemmeno da considerare mosche bianche. Le famiglie aristocratiche, dalle famiglie reali in giù, non hanno mai condiviso gli appartamenti che pure si trovavano all'interno dello stesso palazzo, o castello. Da Versailles alle reggie italiane, re e regine avevano due residenze separate che si trovavano in due ali distinte dell'edificio.

 (…)

Una relazione Lat è quella vissuta da una coppia dello stesso sesso o del sesso opposto che sta insieme e che fa tutto insieme tranne che condividere la stessa casa: la dimensione di coppia è comunque rispettata e trattata allo stesso modo delle coppie sposate o delle conviventi di fatto nonostante le due persone costituiscano due nuclei familiari separati. A volte in questi nuclei in cui possono esistere altre persone, come bambini avuti da precedenti unioni, fratelli, sorelle o genitori. Una ricerca diffusa dalla StatLine (come l'Istat, però dei Paesi Bassi) rivela che quattro donne su dieci preferiscono avere una relazione così piuttosto che fare parte di una coppia convivente, e sono il doppio degli uomini che invece preferirebbero la stabilità di una convivenza.

 (…)

I motivi dietro la voglia di non convivere

Ma, quali sono i motivi per cui le coppie scelgono di trovare nuovi modi per stare insieme? In primo luogo come detto, ci sono coppie che vivono lontane in quanto hanno un lavoro in città diverse e lasciare un buon lavoro per accettarne uno mediocre oggi come oggi è rischioso. Molte di queste coppie non vedono l'ora che arrivi il momento in cui uno di loro andrà in pensione per poter andare finalmente a vivere insieme.

 Tuttavia, ci sono quelle coppie che vivono nella stessa città ma che hanno in casa figli nati dalla precedente relazione e che non desiderano costruire una famiglia allargata. In alcuni casi è un supposto benessere dei bambini che viene posto prima delle esigenze e dei desideri personali del genitore. Altre coppie si trovano in situazioni simili a questa per via della convivenza con genitori anziani di cui prendersi cura non possono, quindi, o non desiderano, trasferirsi altrove.

Una terza motivazione a non convivere è l'aver avuto brutte esperienze nella precedente convivenza e il desiderio di non commettere lo stesso errore (ci sono persone che semplicemente non vogliono convivere con nessuno ma non lo sanno finché non provano). Infine, ci sono coppie di persone che hanno vissuto insieme per decenni e che quando si trovano in pensione potrebbero dividersi a causa della volontà di uno dei due di andare a stare vicino ai figli o ai nipoti. E l'altro invece resta dov'era.

 Comunque sia sono esempi: non è necessario trovare una spiegazione al perché una coppia decide di vivere in case separate.

 Coppie famose che non sono conviventi

Si dice che la distanza alimenti i fuochi più forti e spenga le scintille, la pensano forse così alcune coppie famose che hanno scelto di non convivere pur avendo figli insieme ed essendo regolarmente “coniugi” grazie a matrimoni da copione.

Partiamo da Gwyneth Paltrow che sebbene sia sposata con il suo secondo marito, il produttore Brad Falchuk, da settembre del 2018, la coppia ha scelto consapevolmente di non convivere per tutto il primo anno di matrimonio. In un'intervista del 2019 sul The Times, Paltrow ha spiegato che la coppia ha trascorso quattro notti a settimana insieme, trascorrendo le restanti tre nelle loro rispettive case con i loro rispettivi figli nati dai precedenti matrimoni.

 La ex Posh Spice Vittoria e il calciatore David Beckham non vivono esattamente in residenze separate ma hanno due separate “ali” di una stessa gigantesca villa nell'Oxfordshire (come le famiglie reali). Julia Roberts e Danny Moder sono sposati da 16 anni ma la star di Pretty Woman e il direttore della fotografia non condividono le ville: a quanto pare Moder trascorre gran parte del suo tempo in una villa da 9 milioni di dollari di fronte alla casa di Roberts.

L'attrice Helena Bonham Carter e il regista Tim Burton hanno vissuto a lati separati di una enorme proprietà per tutti e 13 gli anni del loro matrimonio, "ci vediamo tanto quanto qualsiasi altra coppia ma la nostra relazione è migliorata da quando abbiamo scelto di avere uno spazio personale in cui ritirarci" ha detto l'attrice al The Telegraph

Hollywood regina del cinema: ecco quali Paesi producono più film ogni anno. Gli Stati Uniti sono irraggiungibili: l'anno scorso sono state prodotte 1.362 pellicole. Sul podio due nazioni europee. Gianluca Lo Nostro il 5 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Nonostante sia stata scossa dal recente sciopero di attori e sceneggiatori che ha paralizzato l'intera industria per buona parte del 2023, Hollywood rimane ancora la regina del cinema. D'altronde che la cinematografia, perlomeno quella mainstream, fosse americanocentrica non era certo un mistero. Gli Stati Uniti sono il primo Paese al mondo per numero di film realizzati ogni anno. Nel 2022, negli Usa sono state pubblicate 1.362 pellicole. Le produzioni americane sono quelle non solo più consolidate, ma che possono contare su una disponibilità economica che all'estero non c'è.

Al secondo posto si colloca la Francia, ma la distanza con Hollywood è siderale: lo scorso anno la nazione transalpina ha prodotto 395 film in tutto. Il cinema francese è sempre stato uno dei più attivi fuori dagli Stati Uniti, sia per quanto riguarda le commedie che per i film drammatici, d'autore e i documentari, grazie ai suoi registi e attori di fama internazionale come Roman Polanski, Jean Reno e Vincent Cassel.

Chiude il podio il Regno Unito, dove hanno visto la luce 295 tra lungometraggi e cortometraggi. I film britannici sono talvolta frutto di uno sforzo congiunto e parte di una produzione più ampia allargata ad altri Paesi: basti pensare alle opere di Christopher Nolan, celebre cineasta inglese abituato ormai a fare la spola tra Londra e l'America per i suoi lavori internazionali.

In quarta posizione, con 287 film, c'è poi l'India, patria di "Bollywood", genere spiccatamente indiano di stampo commerciale e con sede a Mumbai.

L'Italia chiude la parte alta della classifica con 199 produzioni soltanto nel 2022, un numero che si è confermato nel tempo. La maggioranza di queste vengono girate a Roma o comunque nel Lazio, nei set di Cinecittà. La Capitale ospita i principali studi televisivi e cinematografici italiani, attirando così tutti i talenti in cerca di successo dietro e davanti alla macchina da presa provenienti dalle altre regioni dello Stivale. Gianluca Lo Nostro

Elvira Notari, la storia sconosciuta della regina di Napoli che ha inventato il cinema italiano. L’affermazione in un mondo di uomini, il trionfo, la censura fascista. La vita della prima regista del muto, ha ispirato il romanzo “La figlia del Vesuvio” di Emanuele Coen. Stefania Auci su L'Espresso il 13 settembre 2023

Nella vita ci sono dei lampi, istanti che fanno vedere altri mondi, altre prospettive, altre vite. Ricordo ancora il lampo che, qualche anno fa, si accese nella mia mente quando la mia editor Cristina Prasso, appassionata di cinema delle origini, mi parlò di una regista a me del tutto ignota, Elvira Notari. Vidi – in un istante, appunto – una di quelle donne forti, coraggiose e innovative che troppo spesso sono trascurate o dimenticate, non soltanto perché gli uomini hanno sempre rubato loro la scena, ma anche perché quelle donne hanno seminato tanto, diffusamente, e noi adesso vediamo gli alberi e i frutti del loro lavoro, senza più pensare a quanto sono profonde le radici. Purtroppo, però, quel lampo si era spento subito, sostituito da altri personaggi e altre storie. Chi vive d'immaginazione non può seguire ogni voce: diventerebbe pazzo. E anche così non è che sia facile mantenere almeno una parvenza di equilibrio. 

Ringrazio quindi di cuore Emanuele Coen perché, con il suo romanzo «La figlia del Vesuvio» (Sem) è riuscito a riaccendere quel lampo e a trattenerlo, illuminando così con mano ferma e sensibile la straordinaria vita di Elvira Notari, la prima regista italiana e una delle prime a livello mondiale, accanto alla pioniera Alice Guy-Blaché, la segretaria di Leon Gaumont che creò, in America, nel 1910, una casa di produzione tutta sua. Una vita che comincia in sordina, com’è destino per quasi tutte le donne di fine Ottocento (Elvira nasce nel febbraio 1875): figlia di un rappresentante di commercio e di una casalinga, Elvira Coda trascorre l'adolescenza a Salerno, ma poi è costretta a trasferirsi a Napoli per seguire il padre e, dopo un primo momento di sconforto, scopre la bellezza abbagliante, sontuosa e tragica di quella città: se ne innamora, insomma, la vuole, in un certo senso, possedere. E, in un modo tutto suo (e molto moderno), ci riesce: il marito Nicola Notari – sposato a 27 anni, nel 1902 – è un pittore di scarso successo, ma si fa apprezzare come colorista prima di fotografie e poi di film (all'epoca, le pellicole vengono colorate a mano, fotogramma per fotogramma) e lei lo aiuta, sfruttando quelle doti di precisione e di caparbietà che la caratterizzano (nel bene e nel male). 

Si chiama Dora Film – Edoardo, Dora e Maria sono i loro tre figli – la casa di produzione che è il coronamento di quella meticolosa analisi visiva della realtà, il primo, decisivo passo non soltanto verso la conquista dell'immagine di Napoli, ma anche del suo cuore e delle sue contraddizioni. Da un lato, infatti, la Dora Film annuncia, orgogliosa, nelle sue pubblicità, che i suoi film (anzi: “le sue films”, come si diceva allora) sono “dal vero” e mostrano fatti “in real time” (come si direbbe oggi): per esempio, nel 1912, durante la guerra di Libia, propone la “Guerra italo-turca tra scugnizzi napoletani”, nata dall’osservazione fortuita di una violenta baruffa tra due bande di ragazzini che, appunto, giocavano alla guerra... tirando pietre anche all'indirizzo di Nicola Notari che filmava la scena. Dall'altro, però, a partire dal 1915, c'è ben di più: proprio come Alice Guy-Blaché aveva già intuito, nel 1896, le infinite possibilità di coinvolgimento della narrazione cinematografica in rapporto alla “semplice” registrazione della realtà, così Elvira attinge a piene mani all'immaginario che scorre sicuramente nelle vene di Napoli ma anche dell'Italia intera, anche se si tende a dimenticarlo in favore della cultura “alta”. Ed è proprio qui che il romanzo di Coen si accende ancora di più e coglie con elegante, essenziale, precisa vivacità luci e ombre della sua protagonista. Cosa non facile perché la personalità e la storia di Elvira Notari sono una continua sorpresa. 

C'è la donna «di casa», che coinvolge l'intera famiglia nell'avventura della Dora Film (il figlio Edoardo avrà un particolare – per quanto effimero – successo in una serie di film nel ruolo dello scugnizzo Gennariello); c'è la donna d'affari che intuisce la potenza emotiva e commerciale dei romanzi d'appendice (lettrice di Carolina Invernizio e di Matilde Serao, porterà sullo schermo il romanzo “Raffaella o i misteri del vecchio mercato” – con il titolo “Il nano rosso” – della prima e cercherà inutilmente di convincere la seconda a cederle i diritti di “Sterminator Vesevo”, il diario dell'eruzione del Vesuvio dell'aprile 1906) e delle canzoni popolari, soprattutto quelle del Festival di Piedigrotta (“‘A Santanotte” e “Piccerella”, entrambi del 1922, e “Fantasia ‘e surdate”, del 1927, gli unici suoi tre film completi rimasti), di cui acquista i diritti, elabora un soggetto in armonia con il testo e poi presenta il film con la canzone “in sincrono”; c'è la regista severissima (soprannominata “il generale” o “la marescialla”), ma dall'occhio infallibile per individuare angoli e scorci di quella che è ormai la sua Napoli, per riprenderli con efficacia e per far recitare gli attori – spesso presi dalla strada – con la massima spontaneità possibile (all'interno della Dora Film nasce anche una scuola di recitazione); c'è la donna che osserva e racconta con tutta la schiettezza e tutti gli eccessi del melodramma (della sceneggiata) il destino del corpo femminile, il suo uso e abuso, come si ribella e come si piega ai desideri maschili: un discorso complesso, approfondito da Giuliana Bruno nel suo fondamentale saggio dedicato proprio a Notari, “Rovine con vista”… 

E il successo, per Elvira e per la sua casa di produzione, arriva. È un successo travolgente, segnato addirittura da esplosioni di isterismo collettivo, come in occasione della prima del film “A’ legge”, tratto da due canzoni di Pacifico Vento, con la Galleria Vittorio Emanuele debordante di persone in fremente attesa. Un successo che valica addirittura l'oceano, con la creazione della Dora Film d'America, con le pellicole che viaggiano per nave insieme con i cantanti che devono “interpretare” il film e i numerosi emigranti italiani a New York che si struggono nel vedere immagini così vere della patria e ad ascoltare le sue canzoni. 

Ma poi arriva anche il declino. È sempre arduo raccontare i momenti tragici nella vita di un personaggio senza dimostrare troppa pietà o senza, al contrario, sminuirlo, ma anche qui lo stile asciutto e controllato di Coen riesce a comunicare tutta la dignità e la comprensione che Elvira Notari merita. Il complesso succedersi di colpi sferrati alla sua attività – dalla censura che si accanisce non soltanto per i numerosi sottintesi sessuali dei film, ma addirittura perché le didascalie, essendo in dialetto, non sono in “corretta lingua italiana”, all'avvento del sonoro che rivoluziona l'apparato tecnico della produzione e dei teatri – induce a pensare che non sia tanto Notari che si allontana dal cinema, ma viceversa. Come un figlio ormai cresciuto che abbandona la casa materna e si avvia verso un destino magari non radioso, ma affascinante. A me, invece, dopo aver letto questo romanzo, è venuta voglia di rimanere lì, accanto a Elvira, e ascoltare ancora una volta la sua storia. Perché le radici, quando sono così ben raccontate, sono anche più belle degli alberi e dei loro frutti.

Estratto dell'articolo di Paola Jacobbi per "Il Venerdì di Repubblica" sabato 9 settembre 2023.  

A diciassette anni appena compiuti Dante Spinotti si trovava in volo su un DC 8 semivuoto diretto a Nairobi. […] Oggi Spinotti ha appena compiuto 80 anni e qualche mese fa ha finito di girare un film, il settantacinquesimo, di cui è protagonista il suo coetaneo Robert De Niro: Wise Guys, la regia è di Barry Levinson e uscirà l'anno prossimo.

In mezzo, […] c'è una vita avventurosa come direttore della fotografia che ha lavorato al fianco di tanti autori del cinema italiano e internazionale. Due volte candidato all'Oscar (nel 1998 per L.A Confidential e nel 2000 per Insider – Dentro la verità), Spinotti pubblica ora la sua autobiografia. Si intitola Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta (La nave di Teseo) e l'ha scritta con Nicola Lucchi.

[…]

A Hollywood lei si fece la fama di quello che rendeva belle le attrici. Sono davvero così vanitose come si pensa?

«Più che vanitose, sono insicure. Ho avuto un'esperienza semitraumatica con Barbra Streisand. Simpaticissima e generosa nella vita ma quando è ripresa, diventa di un'insicurezza pestifera e fastidiosa. Il set di L'amore ha due facce, film di cui lei era protagonista e regista, è l'unico che io abbia lasciato in vita mia. Era impossibile. Un giorno girammo una scena in un ristorante con lei e Jeff Bridges. Per tutto il giorno pretese solo suoi primi piani.

 Rimase un'ultima mezz'ora per fare un campo largo di tutto l'ambiente e il controcampo sul povero Jeff. In più, la truccatrice di Barbra stava continuamente appiccicata al mio monitor e diceva la sua su luci, ombre, inquadrature. Insopportabile. Quando le dissi che me ne andavo, Barbra cercò di minimizzare: "Quello tra regista e direttore della fotografia è come un matrimonio, si litiga e poi si fa la pace". Le risposi: "Nei matrimoni si divorzia, anche"».

È andata meglio con Michelle Pfeiffer.

«Lei è stupenda. La prima volta che ci siamo incontrati era per il film Paura d'amare. Mi chiese di non farla troppo bella perché il ruolo era quello di una ragazza semplice che lavora in una tavola calda, sempre un po' spettinata e stanca. Molti anni dopo ci siamo ritrovati sul set di Ant Man and the Wasp e le ho chiesto "Vuoi sempre che non ti faccia troppo bella?". Lei ha riso e ha risposto: "No, anzi. Stavolta se puoi ringiovaniscimi un po'". Poi mi ha dato un bacino a fior di labbra».

Quindi il direttore della fotografia è una specie di seduttore?

«No, non in quel senso! Però per le attrici è una figura essenziale, infatti ai tempi dello studio system, ogni grande diva aveva, da contratto, un direttore della fotografia personale. Comunque, ammetto che certe volte, nel mio entusiasmo creativo, guardavo attraverso il mirino queste donne bellissime e dentro di me pensavo: "Avrai anche un marito, un fidanzato o un amante ma in questo esatto momento, sei mia". […]». 

E gli attori maschi sono insicuri come le donne?

«Dipende. Russell Crowe lo è. Un caso patologico. Ha sempre paura di non essere ripreso e valorizzato abbastanza. Altri non fanno una piega, almeno apparentemente. Si affidano alle scelte del regista e del direttore della fotografia».

[…] Tra i grandi registi italiani che ha conosciuto bene c'è stato Ermanno Olmi. Come fu la lavorazione della Leggenda del santo bevitore?

«Bella ma complicata. Il protagonista era Rutger Hauer, il quale aveva deciso di non stare in albergo con la troupe, ma di alloggiare nella propria roulotte parcheggiata in giro per Parigi. In più, lui e Ermanno faticavano a comunicare, perché Olmi non parlava una parola d'inglese. Quindi, ogni tanto gli urlava in bergamasco: "Rudighe! Ostia!"».

Avete voluto lo streaming? La faccia è mia e me la gestisco io, e altre rimostranze hollywoodiane. Guia Soncini su L'Inkiesta sabato 15 luglio 2023.

Le star protestano perché i produttori vogliono scansionare l’immagine degli attori per poterla riusare all’infinito, senza consenso e senza compenso. Sull’evoluzione dell’intrattenimento urge imparare le lezioni di Robert Altman e di Black Mirror, ma anche quella di Pippo Baudo

«È un concetto interessante, quello di eliminare gli scrittori dal processo artistico. Se troviamo il modo di liberarci anche di attori e registi, forse si inizia a ragionare». Lo diceva, trentun anni fa, il produttore interpretato da Tim Robbins nel più favoloso film di Altman, “I protagonisti”.

Era lo stesso film in cui, alcuni decenni prima dei social e degli slogan politici che stanno nella misura d’un tweet, gli scrittori potevano prosperare o perire a seconda della loro capacità di convincere i produttori della buona idea d’un film nel tempo necessario ad andare da un piano all’altro in ascensore. Non vorrei ripetere tutti i giorni che le opere di fantasia, qualora siano opere di genio, funzionano da editoriali meglio degli editoriali e da saggistica meglio della saggistica, quindi facciamo finta che non l’abbia rimarcato.

Tra i miei primi lavori ci furono alcuni irrilevanti programmi televisivi che firmavo come autrice. Non avevo io per prima contezza di che lavoro fosse fare l’autrice televisiva: avevo venti e poco più anni, e l’idea romantica, mutuata appunto dai film americani, che gli autori (che lì sono appunto writer, come gli sceneggiatori dei film e i romanzieri: gente che scrive) scrivessero quel che i conduttori dovevano dire.

Come funziona in Italia – dove l’autore televisivo è la dama di compagnia del conduttore nel migliore dei casi e della moglie del conduttore nei peggiori – s’incaricò di svelarmelo la vita servendosi d’una soubrette non amabilissima, che una sera in camerino alzò un sopracciglio e mi disse: «Tu pensi di poter dire a me cosa devo fare? Tu devi stare un po’ con Baudo, per vedere come tratta gli autori». (Pensai: magari, con Baudo, almeno imparerei un mestiere. Lo penso ancora).

Ma quel che m’importa raccontare qui è un altro dettaglio di quegli anni, cioè la conversazione sempre uguale «Che lavoro fai?» «L’autrice televisiva» «E cosa significa?». Seguiva spiegazione del fatto che, quando la valletta leggeva la telepromozione dal gobbo, il gobbo l’avevo scritto io (con tutto quello che avevano speso per farmi studiare). Seguiva stuporone perché, scoprii in quegli anni, il pubblico medio è convinto che il mondo dello spettacolo sia fatto di gente che entra in scena e dice un po’ quel che le viene in mente.

Tutto questo preambolo per dire che lo sciopero americano di cui scrivevo dieci settimane fa si è finalmente fatto interessante. Mentre gli sceneggiatori continuavano a picchettare nell’indifferenza del grande pubblico (di quello americano, per non dire di quello italiano, che non ha mai ben capito che differenza ci sia tra sceneggiatore e scenografo), è scaduto il contratto collettivo degli attori, i loro sindacalisti sono andati a trattare uscendone con poche pive e molto sacco, e da oggi sono in sciopero anche loro. (Alla prima londinese di “Oppenheimer”, Matt Damon ha detto che, se fosse scattato uno sciopero, il cast si sarebbe ritirato dalla promozione del film: quindi niente più foto dalle prime di Barbie e filmati di Tom Cruise che racconta nei talk-show come s’è lanciato in moto dal dirupo?).

Avevo detto di non voler ripetere tutti i giorni la stessa storia della vita che imita l’arte e l’arte che spiega la cronaca meglio di coloro preposti a spiegarla, quindi ora mi limito a trascrivervi la dichiarazione del portavoce del sindacato degli attori, uscito dalla trattativa. «Hanno proposto che gli attori non in primo piano vengano scansionati, prendano un giorno di paga, e poi la produzione sarà proprietaria della scansione, della loro immagine, e potrà usarla per il resto dell’eternità in ogni progetto che voglia, senza consenso e senza compenso».

Ho promesso di non trarre io la conclusione, quindi mi metto comoda e aspetto che vi accorgiate da soli che l’altroieri i produttori americani hanno proposto al sindacato degli attori il sistema che Charlie Brooker ha ideato per “Joan is awful”, la prima puntata della stagione di “Black Mirror” uscita due mesi fa. Nell’epoca che consuma tutto a bocconcini, immagino che sui social stia già girando (o comincerà presto a girare), come commento all’attualità, la scena in cui Salma Hayek s’incazza tantissimo perché stanno usando la sua immagine per un progetto che le fa schifo, e chi se ne importa se gli ho ceduto i diritti, mica potevo prevedere che finisse così.

Charlie Brooker ha sì inventato un colosso dello streaming che crea un’intera serie con la scansione di un’attrice famosa, ma non la pratica, che raccontano sia già in uso per esempio per le scene di massa nei film di supereroi: la Marvel ti scansiona così può aggiungerti in altre scene senza bisogno di farti girare di nuovo, e ciò che ha scansionato – cioè: tu – è perpetuamente suo.

È, tra l’altro, dopo mesi di inutili articoli paranoici sull’intelligenza artificiale che ci sostituirà tutti e i lavori d’ingegno non esisteranno più, il primo esempio concreto del modo in cui si potranno distruggere posti di lavoro con l’aiuto dell’intelligenza artificiale: non per i lavori d’ingegno, ma per quelli d’immagine (sì, lo so che pensate che fare l’attore sia un lavoro d’ingegno: è perché non avete abbastanza ingegno da capire quando non serve averne).

L’eroina di giovedì era Fran Drescher, che con Fran Fine (ebrea di Queens, nell’adattamento italiano Francesca Cacace, ciociara) ha allevato a fine Novecento intere generazioni di femmine frivole e maschi omosessuali. A novembre “La tata” compie trent’anni: andava in onda quando la tv era una cosa che guardavamo tutti assieme e che guardavamo in tv, il che permetteva ai produttori di guadagnarci moltissimo e quindi a sceneggiatori e attori di guadagnare benone.

Adesso non è più così. La parabola è stata la stessa dei giornali: a distanza di qualche anno, i produttori cinematografici come già gli editori si sono fatti truffare dalle nuove tecnologie, terrorizzati di perdere chissà quale treno, e hanno deciso di spostare il loro giro d’affari da posti che permettevano loro di guadagnare (le sale cinematografiche, le edicole) a un posto che nessuno ha ancora capito come diavolo monetizzare (l’internet).

Adesso Fran Drescher è a capo del sindacato degli attori (l’ultima volta che il Sag aveva scioperato, il suo presidente era un certo Ronald Reagan), e ha fatto un discorso che quelli che non sanno parlare definirebbero “virale”. Ha tentato di procurarsi empatia da chi fa lavori normali e pensa che un attore di Hollywood sia comunque un privilegiato dicendo che alle multinazionali «importa più di Wall Street che di voi».

Sugli americani ha fatto moltissimo colpo: la riterrebbero l’erede di Di Vittorio, se solo sapessero che è esistito Di Vittorio. Nel paese più impreparato sul tema dei diritti dei lavoratori, lo scandalo di qualche giorno fa era un articolo di Deadline che riferiva come lo scopo dei produttori sia non concedere nulla agli sceneggiatori finché, dopo mesi che non lavorano, non sapranno più come pagare il mutuo e cederanno. I commentatori americani trasecolavano per la perfidia come può fare solo gente che non sa chi fosse Margaret Thatcher e come andò coi minatori.

Drescher eroina dei lavoratori arriva pochi giorni dopo Drescher responsabile d’alto tradimento, giacché l’internet è perentoria ma è anche afflitta da disturbo della memoria a breve termine. Lunedì, Kim Kardashian ha instagrammato una foto di lei e Fran Drescher alla sfilata di Dolce e Gabbana. L’internet, un posto dove anche la gente che di lavoro dovrebbe capire il mondo diventa stolida, si era indignata. Taffy Brodesser-Akner aveva twittato che il fatto che la presidente del sindacato degli attori, tre giorni prima della scadenza del contratto nazionale, fosse a una sfilata in Italia andava interpretato come uno sprezzante «che mangino brioche». Evidentemente convinta, Taffy, che in Europa si vada ancora in nave e che quindi Drescher non fosse in grado d’essere ad Alberobello di domenica e a Los Angeles di mercoledì.

Giovedì, nella conferenza stampa che annunciava la fine delle trattative e lo sciopero, alla Drescher è toccato spiegare ai giornalisti – gente il cui mestiere consiste ormai nel riportare lo sdegno social come fosse meritevole di risposta – che per un’attrice andare a una sfilata è un lavoro: «Ero lì a camminare coi tacchi sui sanpietrini».

Adesso che lo sciopero è di facce famose, al pubblico importerà, o comunque non ci accorgeremo di niente finché non inizieremo a non avere più roba nuova da guardare, nella bulimia da streaming? Considerato che per svuotare i magazzini dai film e dalle serie già pronte ci vorrà almeno un semestre, quante volte i mutui hollywoodiani dovranno nel frattempo venire congelati?

Forse si può fare qualcosa per far guadagnare decentemente i lavoratori dello spettacolo in tempi di piattaforme semigratuite che producono più di ciò su cui è possibile guadagnare e anche più di ciò che abbia senso guardare.

Non molto si può fare per l’instupidimento di un’epoca piena di piattaforme sulle quali guardare ogni settimana nuove produzioni mediocri e ridondanti, ma su nessuna delle quali è possibile guardare “I protagonisti”.

Sciopero a Hollywood: star e autori spengono la fabbrica dei sogni. Storia di Marco Liconti l'8 Luglio 2023 su Il Giornale.

Su Hollywood si è scatenata la Tempesta Perfetta. Allo sciopero degli 11mila sceneggiatori della Writers Guild of America, iniziato a maggio e senza soluzioni in vista, si è aggiunto quello degli attori. Il tutto, in un contesto finanziario in cui studios e piattaforme streaming, cresciuti più di quanto il mercato potesse assorbire, da mesi si trovano alle prese con tagli di costi e personale e ridimensionamento delle produzioni. Il Sag-Aftra, il sindacato che in America rappresenta 160mila attori ha deciso di paralizzare la Mecca del cinema, dopo che mercoledì si sono interrotte senza un accordo le trattative per il rinnovo del contratto collettivo.

Già il mese scorso, in vista dello scontro, il 98% degli iscritti aveva votato a favore della serrata. Ironia della sorte, l'annuncio della serrata è giunto all'indomani di quello delle candidature agli Emmy, l'Oscar della tv: in testa Succession e The last of us, entrambi show targati Hbo. «Le aziende si sono rifiutate di impegnarsi in modo significativo su alcuni argomenti e su altri ci hanno completamente ostacolato. Fino a quando non negozieranno in buona fede, non possiamo pensare di raggiungere un accordo», ha dichiarato Fran Drescher, la star di The Nanny, presidente del sindacato.

L'ultima volta che sceneggiatori e attori scioperarono insieme fu nel 1960. Leader del sindacato dei performer era all'epoca Ronald Reagan. Al 1980, l'anno in cui Reagan vinse la Casa Bianca, risale invece l'ultimo sciopero dei soli attori. Portavoce del sindacato era Ed Asner, il mitico «Lou Grant» dell'omonima serie tv. Anche allora, a scatenare la protesta fu uno un inflection point, una cambiamento epocale dell'industria: l'avvento delle videocassette e la richiesta degli attori di ricevere una quota delle royalties dalle vendite dei vari Betamax e Vhs (i Dvd sarebbero arrivati decenni dopo). Stavolta, come nel caso degli sceneggiatori, la rivoluzione è lo streaming, che ha modificato le modalità di fruizione di film e serie tv, e dall'intelligenza artificiale, che minaccia in un futuro abbastanza prossimo di sostituire (almeno in parte) l'elemento umano.

Volti dello sciopero sono nomi di peso, come Meryl Streep e Jennifer Lawrence, prime firmatarie di una lettera che ha poi avuto migliaia di adesioni, nella quale hanno chiesto alla leadership del sindacato di adottare una linea dura con la controparte, la Alliance of Motion Picture and Television Producers (Amptp), la stessa degli sceneggiatori. Secondo gli attori, all'enorme aumento delle produzioni giunto con l'avvento dello streaming, laddove un tempo i canali di fruizione erano limitati alle sale, ai grandi network e all'home video, non ha coinciso un analogo aumento dei compensi, rimasti al palo - ed è chiaro che qui si parla della massa, non certo delle superstar. Inoltre, gli attori reclamano la loro fetta di royalties dalle repliche dei loro show, riproducibili all'infinito grazie ai nuovi sistemi. L'Amptp, che rappresenta colossi come Amazon, Apple, Cbs, Disney, Nbc Universal, Netflix, Paramount, Sony e Warner Bros. Discovery, ha per ora fatto muro.

Altro motivo di scontro è quello dell'IA, l'intelligenza artificiale, che potrebbe presto prendere il posto degli attori in carne ed ossa. La sigla che rappresenta gli studios ha sostenuto che l'offerta fatta agli attori è «rivoluzionaria» e ne proteggerà le «fattezze digitali». Gli attori temono però che in un universo tecnologico in rapidissima evoluzione, la formulazione di un nuovo contratto di lunga durata rischi di non rispecchiare quanto potrebbe accadere di qui a pochi anni, o addirittura mesi. Lo sciopero degli sceneggiatori ha già paralizzato le riprese di gran parte dei film e degli show tv. Quello dei performer che potrebbe protrarsi per mesi, porterà alla chiusura dei pochi set rimasti aperti. Ci aspetta una stagione di repliche per le quali, peraltro, gli attori non riceveranno le percentuali che reclamano.

Fran Drescher, da tata a sindacalista: chi è l'attrice che ha fermato Hollywood. Come l'attrice della sitcom La tata ha superato traumi e sofferenze per diventare la leader sindacale che oggi guida gli attori Usa allo sciopero. Valerio Chiapparino il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

Non è bastata una tata per scongiurare lo sciopero degli attori di Hollywood che, a partire da oggi, per la prima volta dal 1960 si aggiungerà a quello già in corso degli sceneggiatori. Una sconfitta per Fran Drescher, la presidente di Sag-Aftra, il potente sindacato americano che rappresenta 160mila artisti del cinema e della tv. In Italia questo nome potrebbe suonare molto meno famigliare di Francesca Cacace (Fran Fine nella serie originale), la svampita tata, appunto, della celebre sitcom che ha alleggerito i pomeriggi di molti spettatori negli anni Novanta.

Chi lo scorso weekend ha visto la foto di questa splendida 65enne in posa accanto a Kim Kardashan per le sfilate di Dolce e Gabbana in Puglia avrà pensato che il tempo, almeno per lei, si sia fermato. Proprio il viaggio in Italia è stato attaccato e definito da molti come inopportuno. In risposta alle critiche, la sindacalista si è difesa sostenendo che si è trattato di un viaggio di lavoro e che è sempre rimasta in collegamento su tre fusi orari diversi preoccupandosi anche dei suoi genitori che vivono in Florida.

L’ex tata, diventata paladina dei diritti dei lavoratori del mondo dello spettacolo, sta cercando, senza successo sino ad ora, di strappare alle majors aumenti salariali, il ricalcolo dei diritti d’immagine e le tutele sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Ma chi è Fran Drescher e come è arrivata ad occupare un posto al vertice dell’organizzazione che un tempo fu di Ronald Reagan?

Fran Drescher con John Travolta in una scena del film La febbre del sabato sera.

Il cancro e il matrimonio

Le telecamere, si sa, spesso ingannano e la donna solare e ancora giovanile che sembra aver stretto un patto col diavolo nasconde un passato piuttosto doloroso. Ne ha parlato lei stessa qualche anno fa confidandosi con la rivista di moda InStyle. Qui ha raccontato di aver subito uno stupro sotto la minaccia di una pistola durante una rapina in casa nel 1985, un trauma che riuscirà ad affrontare solo molti anni più tardi. Quando le luci del telefilm La Tata si spengono arriva, nel 2000, la diagnosi di un cancro all’utero. Quello è il momento in cui abbassa le difese e si libera del complesso da superwoman. La sua reazione al male è straordinaria e liberatoria. Pubblica un libro, Cancer Schmancer, che esorcizza la paura della malattia e ricopre anche il ruolo di “ambasciatrice” per la salute femminile sotto la presidenza di George W. Bush continuando poi ad impegnarsi anche sul fronte legislativo per l’approvazione di una legge sul tema.

Con la fine delle riprese de La Tata nel 1999 termina anche il suo matrimonio con Peter Marc Jacobson, co-produttore dello show. “Ci siamo incontrati quando avevamo 15 anni”, racconta Fran aggiungendo che il suo ex marito “realizzò di essere gay e la cosa curiosa è che fu lui a perdere la testa quando lo lasciai. Uno dei lati positivi dell’esperienza del cancro è che ci ha permesso di riscoprire la nostra amicizia. Lui è ancora la mia anima gemella”.

Fran Drescher oggi

Dopo il telefilm che l’ha resa famosa appare sporadicamente in altre produzioni televisive, l’ultima della NBC dura appena 12 episodi prima di essere cancellata nel 2020. Negli anni di Donald Trump e di Alexandra Ocasio-Cortez il suo impegno da attivista di sinistra diventa sempre più marcato e le fa guadagnare la copertina del New York Magazine e il titolo di “La vostra nuova icona anticapitalista". Nel 2021 Fran Drescher vince l’elezione a rappresentante degli attori dopo un’intensa campagna contro il rivale Matthew Modine che accusa la collega di diffondere falsità sul suo conto.

Il giudizio sull’operato di Fran Drescher come rappresentante sindacale non è totalmente positivo, specie nell’ultima fase che ha portato alla chiusura totale nei confronti degli studi di produzione e di streaming. Nonostante ciò, buona parte della stampa americana ha mostrato apprezzamenti per il discorso appassionato con cui la sindacalista ha annunciato l’inizio di uno sciopero che avrà ripercussioni sulla vita di milioni di lavoratori. Tutti si chiedono quale sarà adesso la prossima mossa della Drescher per uscire dall'impasse. Uno spoiler della strategia dell'ex tata potrebbe venire dalle sue parole, anche queste affidate tempo fa alla rivista Instyle. “La vita non si ferma. È necessario essere fluidi o si rimane bloccati. Bisogna cercare di dare un senso anche a quello che non lo ha e aprirsi a percorrere una strada che non avresti mai preso”. Chissà se basterà ad arrivare al lieto fine di questo film.

Hollywood, perché attori e sceneggiatori sono in sciopero: paghe basse ‘grazie’ allo streaming e rischio intelligenza artificiale. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2023

Hollywood incrocia le braccia e gli attori scioperano per la prima volta dal 1980, il primo sciopero in assoluto in 63 anni che vede a braccetto attori e sceneggiatori, quest’ultimi già in protesta da inizio maggio. “Quello che succede a noi succede a tutti gli altri lavoratori, quando i datori di lavoro rendono Wall Street e la sete di profitto la loro priorità e dimenticano le persone essenziali che fanno muovere la macchina” commenta Fran Drescher, la presidente della Sag-Aftra, il sindacato che riunisce ben 160mila attori di Hollywood, ha confermato lo sciopero votato all’unanimità, invitato quindi gli iscritti a interrompere quindi da domani la partecipazione ai set cinematografici ed alle serie televisive.

Sciopero che arriva dopo il fallimento delle trattative, durate oltre un mese, tra i principali studi americani e il sindacato degli attori che denunciava paghe “insulse”. Una decisione che dovrebbe paralizzare completamente Hollywood. “Il consiglio nazionale di SAG-AFTRA ha votato all’unanimità un ordine di sciopero contro studi e emittenti”, ha annunciato nella serata di giovedì 13 luglio Duncan Crabtree-Ireland, direttore esecutivo nazionale del sindacato.

“Dopo più di quattro settimane di trattative”, il precedente accordo è scaduto mercoledì sera a mezzanotte senza alcuna speranza di conciliazione, aveva rilevato in giornata il sindacato SAG-AFTRA, principale rappresentante degli attori americani. Le sue posizioni sono troppo lontane da quelle dell’Alliance of Film and Television Producers (AMPTP), che riunisce storici gruppi cinematografici come Disney, NBC Universal, Paramount, Warner Bros Discovery e Sony, e piattaforme digitali come Netflix, Amazon o Sony. Mela. “Le risposte dell’AMPTP alle proposte più importanti del sindacato sono state offensive e irrispettose nei confronti del nostro contributo vitale a questo settore. I datori di lavoro si sono rifiutati di essere coinvolti in modo significativo su alcune questioni e su altre ci hanno completamente ignorato “, ha scritto il sindacato.

Le richieste di attori e sceneggiatori

Sia attori che sceneggiatori chiedono un aumento del loro compenso, in ribasso nell’era dello streaming. Vogliono anche garanzie sull’uso dell’intelligenza artificiale, per evitare che l’IA generi script o cloni la loro voce e immagine. Lo sciopero degli attori è un duro colpo per i capi degli studi e delle piattaforme di streaming. Da maggio le uniche produzioni che hanno deciso di girare lo fanno sulla base di sceneggiature già completate in primavera, senza poterle modificare. Questo è particolarmente vero per il prequel de Il Signore degli Anelli finanziato da Amazon, The Rings of Power. Ma, senza attori, le riprese semplicemente non sarebbero possibili.

Estratto dell’intervento di Michele Bovi da benhurunaltrofilm.it il 14 luglio 2023.

Nel suo libro di memorie “La mia vita nella CIA”, l’ex direttore dell’agenzia William Colby che fece l’agente segreto a Roma per tutti gli anni Cinquanta, racconta di come fosse facile nel periodo della Dolce vita infiltrare agenti con la copertura di aspiranti attori del cinema. Alcuni attori dichiaratamente sospettati di aver avuto ruoli nell’intelligence compaiono anche in Ben-Hur di William Wyler, realizzato a Cinecittà tra il 1958 e il 1959. Aveva lavorato per l’intelligence Ferdy Mayne che interpreta il comandante della nave che mette in salvo il protagonista Ben-Hur e il console Quinto Arrio. 

Mayne era nato in Germania da famiglia ebrea. Nel 1932 i genitori per proteggerlo dai nazisti lo avevano mandato a studiare in Inghilterra. All’inizio della guerra fu reclutato nel servizio segreto del Regno Unito. Lo racconta nel libro “La guerra di una ragazza” Joan Miller assistente personale di Maxwell Knight, all’epoca dirigente del controspionaggio britannico. Il primo film in cui nel dopoguerra Ferdy Mayne recitò fu Una notte con te diretto da Terence Young, il regista dei primi film dell’agente 007 James Bond.

Un altro attore del cast di Ben-Hur sospettato di spionaggio finì nel mirino delle autorità italiane di sicurezza, che ne chiesero l’espulsione dal nostro Paese. Si chamava Hubert Gillis De Poliolo marito di una delle protagoniste degli anni d’oro della Dolce vita: la pittrice Dorothy Schoulemann De Poliolo. Lui principe, lei di conseguenza principessa. Lui di origine belga con passaporto portoghese; lei americana, dopo essersi aggiudicata il titolo di Miss Florida, aveva cominciato giovanissima a girare il mondo. Hubert e Dorothy si erano conosciuti a Cuba e sposati poco dopo. Dal 1957 vivevano a Roma in un appartamento in zona Parioli. Il principe era titolare di un’agenzia di collocamento per lo spettacolo. Di lui scrisse il Corriere della sera: “Aveva anche una notevole mole di rapporti cinematografici con l’estero, particolarmente con la Turchia e altri Paesi orientali”. 

Lei dipingeva ritratti: ne aveva fatto uno a Richard Nixon all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti.

Lui interpretò in Ben-Hur il ruolo di un ufficiale romano. Lei recitò in L’avventura di Michelangelo Antonioni, assieme a Monica Vitti e alle amiche nobildonne Esmeralda Ruspoli e Angela Tomasi di Lampedusa. Quella partecipazione lasciò il segno. Il procuratore della repubblica di Milano Carmelo Spagnuolo nell’ottobre del 1960 fece sequestrare il film per una scena interpretata da Dorothy De Poliolo con l’attore Gabriele Ferzetti, ritenuta dal magistrato offensiva della morale pubblica. 

Il principe Hubert Gillis De Poliolo era spesso all’estero. La principessa Dorothy era sempre sui giornali: figura di spicco delle cronache mondane. Non c’era salotto aristocratico con vista rotocalco che non ospitasse la principessa Dorothy De Poliolo. Faceva parte del cosiddetto “bel mondo romano” che comprendeva l’ex imperatrice di Persia Soraya, i principi Raimondo e Filippo Orsini, la principessa Doris Pignatelli, il principe Memé Borghese, il duca Serra di Cassano, e di volta in volta ospiti come i duchi di Windsor, la principessa Grace di Monaco, ma anche il fisico statunitense Robert Oppenheimer, il filosofo britannico Aldous Huxley, gli attori Peter Ustinov, Fernandel, Brigitte Bardot, Marilyn Monroe.

Dorothy De Poliolo, originaria dell’Illinois come il protagonista di Ben-Hur Charlton Heston, riuscì a utilizzare un cocchio della spettacolare corsa delle quadrighe di Ben-Hur appena ultimate quelle riprese, mentre il resto del film era ancora in lavorazione. 

Accadde nel dicembre del 1958. Il derby cittadino di calcio si era chiuso con la vittoria della Roma per 3 a 1 e la principessa, tifosa della Lazio, dovette pagare il pegno di una scommessa fatta con il pittore Antonio Privitera, romanista. A bordo del cocchio usato nel film da Messala i due attraversarono la capitale, dal Campidoglio a Porta Pinciana. Privitera vestito da auriga, Dorothy  

De Poliolo da schiava comunque armata di tela e pennello.

Della scommessa scrissero tutti i giornali del mondo. La Domenica del Corriere dedicò il retro copertina alla nobile schiava affidando alle matite colorate di Walter Molino la descrizione dell’episodio. 

Nonostante il principe Hubert fosse tra gli interpreti di Ben-Hur e la principessa Dorothy avesse così clamorosamente promosso il film, la coppia Gillis De Poliolo non fu invitata alla serata di gala per la prima proiezione il 6 ottobre del 1960 al cinema Capitol di Roma. Colpa di un infortunio in odore di spionaggio. Esattamente 8 mesi prima l’ufficio stranieri della Questura di Roma aveva chiesto l’espulsione di entrambi dall’Italia. Il provvedimento era stato tuttavia sospeso nel giro di 24 ore dal nostro ministero degli Esteri con la motivazione “in attesa di ulteriori accertamenti”. In realtà nulla fu più ulteriormente accertato, ma il pregiudizio rimase, rafforzato da un identico provvedimento di espulsione adottato poco dopo dal governo francese nei confronti di Hubert Gillis De Poliolo. Il principe-centurione in odore di spionaggio era tollerato a Roma. Ma non a Parigi.

Michele Bovi per Dagospia il 10 giugno 2023

È nata prima Guardo gli asini che volano la canzone del film “I diavoli volanti” che rese popolarissima in Italia la coppia di comici americani Stan Laurel e Oliver Hardy o A Zonzo, successo evergreen del cantante torinese Ernesto Bonino? I ritornelli sono identici, gli autori sono gli stessi, un apparente auto-plagio. Attorno alle origini e all’esecuzione di quei due brani permangono abbagli, controversie e misteri.

Nell’archivio delle opere musicali della Siae Guardo gli asini che volano è depositato come titolo alterativo all’originale A Zonzo, con i nomi del compositore Gino Filippini e del paroliere Riccardo Morbelli e quello delle edizioni Curci. 

Il deposito risale al 1942 anno di pubblicazione di A Zonzo e mentre l’etichetta del disco riporta la dicitura “Dal film I diavoli volanti”, lo spartito aggiunge altri dettagli: “Dal film Aci-Europa I diavoli volanti con Stan Laurel e Oliver Hardy”. Pertanto, al contrario di quanto si è sempre letto, gli asini di Stanlio e Ollio precedettero la canzone-cult di Ernesto Bonino.

Il film “The Flying Deuces” uscì negli Stati Uniti nel 1939 con Oliver Hardy che cantava Shine On Harvest Moon, uno dei brani più popolari della Broadway di inizio Novecento. La versione italiana “I diavoli volanti” fu realizzata nel 1941 negli studi romani della Aci-Europa Film e proiettata nelle nostre sale cinematografiche nei primi mesi del 1942, con Ollio che intona Guardo gli asini che volano in subentro a Shine On Harvest Moon, forte di una perfetta consonanza labiale: non si percepisce la sostituzione del motivo americano con quello italiano, identica sequenza, nessun trucco di montaggio.

La casa di produzione Aci (Anonima cinematografica italiana) fondata nel novembre del 1940 da Vittorio Mussolini aveva acquisito due mesi dopo l’Europa Film dando vita alla nuova società Aci-Europa Film. Una ricerca della storica Carla Nardi sull’attività dell’Enaipe (Ente nazionale acquisti importazioni pellicole estere) attraverso la documentazione conservata nell’Archivio dello Stato rivela che Benito Mussolini, molto attento al cinema hollywodiano inteso come strumento di propaganda, era un ammiratore dei due comici americani, guardava i loro film in proiezioni private a Villa Torlonia e nel 1937 incaricò il figlio Vittorio di incontrare in America Hal Roach produttore delle loro pellicole per stabilire un rapporto che portasse alla realizzazione di una serie di film tratte da opere liriche, nel primo dei quali Stan Laurel e Oliver Hardy avrebbero dovuto parodiare il Rigoletto di Giuseppe Verdi.

Nacque così la società RAM, acronimo di “Roach and Mussolini”, con un capitale iniziale di sei milioni di dollari, che riuscì di fatto a produrre soltanto pochi cinegiornali di propaganda per l’Italia. Nella ricerca sono focalizzati alcuni aspetti relativi all’applicazione pratica della politica subalterna al Regime, come doppiaggio e mediazione culturale, con la curiosa consuetudine di italianizzare gli inserti musicali delle pellicole straniere.

Le voci italiane di Stan Laurel e Oliver Hardy dal 1937 erano quelle di Mauro Zambuto, figlio di Gero Zambuto, un doppiatore che aveva lavorato per gli americani della Walt Disney Company, e di Alberto Sordi al debutto nel mondo della cinematografia. Zambuto fu Stanlio e Sordi fu Ollio fino all’ultimo film della coppia “Atollo K” del 1951. Mauro Zambuto era un genio poliedrico che si divise sempre tra Italia e Stati Uniti. A Roma divenne docente di Fisica Teorica nella scuola fondata da Enrico Fermi e nel 1952 si trasferì a New York per dirigere l’Italian Film Export la società che curava l’importazione in America dei film italiani e la loro sincronizzazione, e contemporaneamente per lavorare alla Rca come ingegnere a un progetto dell’azienda britannica Marconi sullo sviluppo dei tubi a raggi catodici.

La Metro-Goldwyn-Mayer lo volle come consulente alla tecnica del suono e agli effetti speciali del kolossal “Ben-Hur” del 1959. Zambuto diventò poi direttore del dipartimento di sincronizzazione della casa di produzione statunitense Paramount. Lasciò il cinema negli anni Ottanta per tornare alla sua primaria vocazione, l’insegnamento, e accettò la cattedra di Elettrodinamica Quantistica nella facoltà di Fisica dell’Università del New Jersey.

Zambuto era quindi uno dei massimi esperti al mondo di tecnica di sincronizzazione: chi meglio di lui poteva confezionare il testo della canzoncina affinché sembrasse proprio l’originale intonato da Ollio? È verosimile che il musicista Gino Filippini, già famoso per aver composto nel 1939 il capolavoro di Odoardo Spadaro Sulla carrozzella, abbia lavorato assieme a Zambuto per confezionare il motivo Guardo gli asini che volano, poi dal cinema dirottato alla discografia per diventare con le parole scritte dal drammaturgo Riccardo Morbelli l’incantevole A Zonzo portato al successo da Ernesto Bonino. I malintesi a proposito di quei due brani sono diversi. Ad esempio non fu il direttore d’orchestra dell’Eiar (antenata della Rai) Cinico Angelini a curare l’arrangiamento della registrazione di Bonino, come si è letto finora, bensì il maestro Carlo Zeme, altro direttore d’orchestra dell’Eiar.

E c’è ancora di peggio. Chi per anni ha ritenuto possibile l’attribuzione dell’adattamento del testo della canzone regina de “I diavoli volanti” ad Alberto Sordi oggi deve fare i conti con chi addirittura mette in dubbio che sia la voce di Sordi a interpretarla. A cantare Guardo gli asili che volano è Ollio, ma Sordi aveva dato al tenore Oliver Hardy una voce italiana da basso, mentre nella canzone il tono, le cadenze e le inflessioni anglosassoni suonano a favore della voce di Stanlio, ovvero quella di Mauro Zambuto.

A sostenere la tesi di Zambuto interprete del popolare brano sono numerosi appassionati italiani di Stanlio e Ollio, tra cui l’avvocato novarese Antonio Costa Barbé che ha intrattenuto una fitta corrispondenza con Mauro Zambuto prima della sua scomparsa avvenuta nel 2011 (su YouTube si rintracciano alcune conversazioni telefoniche tra i due). Costa Barbé ha anche incaricato Matteo Pace, uno dei maggiori esperti italiani di registrazioni da studio, di effettuare una perizia per stabilire definitivamente la verità su quell’interpretazione.

“Pace mi ha detto che non ha ancora sufficiente materiale per dare una risposta precisa – spiega l’avvocato Costa Barbé – Mi sono impegnato a farglielo avere. In realtà Alberto Sordi non ha mai affermato di essere l’esecutore di Guardo gli asini che volano: ha sempre e soltanto sostenuto di essere stato per 14 anni il doppiatore italiano di Oliver Hardy in coppia con lo Stan Laurel di Mauro Zambuto, ossia la sacrosanta verità”. Nel 1984, per il programma televisivo Fantastico 5, Alberto Sordi con Heather Parisi ricrearono la coppia Stanlio e Ollio e in quella circostanza l’attore cantò proprio Guardo gli asini che volano. “Sordi la cantò nella sua naturale tonalità di basso – spiega l’avvocato Costa Barbé – ben diversa da quella del film”. Insomma l’avvocato novarese non ha dubbi: per quella canzone fu Stanlio a prestare la voce a Ollio.

Articolo del “New York Times” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 9 giugno 2023.

I mitici studi cinematografici di Cinecittà a Roma sono pieni come non lo sono mai stati, perché le produzioni sono attratte dagli incentivi fiscali, dagli alti valori di produzione e dal glamour italiano. Scrive il NYT. 

Oltre l'ingresso monumentale di Cinecittà Studios, enormi schermi sovrastano quello che normalmente è il prato anteriore dello studio cinematografico, racchiudendo un ampio backlot - e off-limits - per il film "Queer" del regista Luca Guadagnino, interpretato da Daniel Craig.

Lo Studio 5, un palcoscenico amato da Federico Fellini, è stato riconfigurato in una serie di stanze e cortili medievali per un adattamento Netflix del "Decamerone" di Boccaccio. Non lontano, il regista britannico Joe Wright ha requisito cinque studios per la serie in otto episodi "M: Son of the Century", basata sul romanzo best-seller di Antonio Scurati sui primi anni di Benito Mussolini. 

In una recente mattinata, gli operai della troupe si sono arrampicati sulle impalcature per stringere i bulloni e far passare i cavi su un enorme set, originariamente costruito per "Rome" della HBO, che presto farà da sfondo a "Those About to Die", la serie sui gladiatori di Roland Emmerich con Anthony Hopkins. 

Dopo decenni di alterne fortune, i favolosi studios di Roma - pronunciati Chi-neh-chi-TAH - sembrano rivivere un momento scintillante simile a quello degli anni Cinquanta e Sessanta, quando le star e i registi americani e britannici affollavano Roma e la grande Via Veneto, fiancheggiata da alberghi nel centro della città, era un vivace ritrovo per i paparazzi a caccia di celebrità. 

Allora Cinecittà era conosciuta come "Hollywood sul Tevere". Oltre a molti classici del neorealismo italiano e del genere spaghetti western, vi furono girati film di spada e sabbia come "Ben Hur", "Quo Vadis" e "Cleopatra", oltre a "Vacanze Romane" e "La Pantera Rosa".

Negli ultimi due anni, "siamo passati dal 30% di occupazione al 100%", ha dichiarato Nicola Maccanico, amministratore delegato di Cinecittà. Per ottenere nuovi contratti, è stato sufficiente, ha aggiunto, modernizzare le strutture e promuovere le sue troupe di artigiani altamente qualificati, ostentare la sua posizione in una delle città più belle e storiche del mondo e sfruttare i generosi incentivi fiscali dell'Italia per le produzioni straniere.

La sua sfida, ha detto, era quella di far sì che le produzioni continuassero ad arrivare. 

Maccanico è diventato amministratore delegato due anni fa: un momento particolarmente fortunato, che ha coinciso con un forte aumento della domanda di nuovi contenuti, spinta dai servizi di streaming. 

Ma sa che per rimanere competitiva in un mercato di nicchia con concorrenti come lo Studio Babelsberg, vicino a Berlino, o i Pinewood Studios, alle porte di Londra, Cinecittà deve investire continuamente in se stessa e nei suoi servizi. E crescere. 

Fondata nel 1937 da Mussolini per promuovere il cinema italiano e, in parte, per realizzare film di propaganda fascista, Cinecittà sta introducendo un importante rinnovamento utilizzando i fondi dell'Unione Europea per la ripresa della pandemia.

Quattro palcoscenici esistenti saranno ristrutturati e altri cinque saranno costruiti entro il 2026. Un palcoscenico è già stato dotato di una gigantesca parete LED high-tech che consente di aggiungere effetti virtuali durante la produzione. In questi pomeriggi, il palcoscenico era occupato da una troupe che stava girando una scena della serie Mussolini, con disegni astratti colorati in rosa pallido e blu che danzavano sullo schermo. Durante la visita al set, Wright ha enigmaticamente descritto l'estetica della serie come "piuttosto stravagante" e "piuttosto caleidoscopica". 

Maccanico ha dichiarato che la tecnologia degli effetti virtuali ha ampliato enormemente il potenziale cinematografico di Cinecittà, rendendo sostenibili "sviluppi narrativi che prima sarebbero stati impossibili a causa delle limitazioni di budget".

Anche lo sconto fiscale del 40% sui costi di produzione per i film e le serie televisive internazionali è stato un forte richiamo per l'Italia. 

Nei suoi 90 anni di storia, lo studio ha avuto la sua parte di bassi, ma anche di alti. A un certo punto è stato utilizzato soprattutto per le serie televisive italiane. (Solo il set del "Grande Fratello", andato in onda per la prima volta nel 2000, è ancora operativo). Anche in tempi di magra, Cinecittà ha mantenuto nel suo organico artigiani come falegnami, saldatori e pittori di set. 

In una recente mattinata, Paolo Perugini, caposquadra della falegnameria di Cinecittà, stava armeggiando con un computer collegato a una sega industriale che tagliava decine di pannelli identici che, una volta verniciati, sarebbero stati utilizzati sul set di un film di kung fu (progetto ancora segreto). 

Il suo team di falegnami era al lavoro su tre produzioni, ha detto, ma negli ultimi anni ne aveva lavorate fino a otto contemporaneamente. Il lavoro è aumentato notevolmente da quando la pandemia di coronavirus ha iniziato a diminuire, ha detto. "Non ci fermiamo mai", ha detto. "Per fortuna". 

L'anno scorso, Cinecittà ha firmato un accordo quinquennale con il gruppo di produzione Fremantle per l'affitto continuo di sei palcoscenici nel sito. (Attualmente sono occupati da "M" di Wright e "Queer" di Guadagnino). 

Maccanico ha detto che sta cercando di sviluppare partnership simili con "produttori indipendenti, servizi di streaming o - perché no? - altri studios", aggiungendo: "Ecco perché la crescita è importante, perché ci permette di andare in questa direzione".

La seconda fase del piano di crescita di Maccanico prevede un accordo con un gruppo controllato dallo Stato per l'acquisto di un terreno di 75 acri non lontano dagli studios originali. Lo sviluppo di questo sito si avvarrà anche di una parte dei 262 milioni di euro provenienti dalla sovvenzione dell'Unione Europea per rendere gli studios più attraenti per le grandi produzioni. 

Il fatto che così tante grandi produzioni siano già a Roma ha già dato una spinta agli abitanti del luogo e alle aziende che producono film. "È stata una forza trainante positiva", ha detto Maccanico. "L'unica cosa che non possiamo fare è far decollare di nuovo Via Veneto", ha aggiunto, "perché gli attori non si comportano più come una volta".

Marina Valensise per “il Messaggero” il 13 dicembre 2021. La commedia all'italiana si fonda sulla satira, anche politica, del costume contemporaneo e racconta storie che si potrebbero trattare anche tragicamente, ma lo fa in modo lieve, scanzonato, sardonico, beffardo, a volte persino surreale. La grande stagione degli anni Sessanta inizia almeno trent' anni prima, come espediente per evitare la censura fascista, poi come reazione al neorealismo, al cinema verità imposto dalla miseria, dalla necessità di risparmiare, e quindi come via traversa e antiretorica, fondata sul comico, sullo sberleffo, per trattare di problemi attuali e seri, in forma di intrattenimento, ma dando voce non solo all'autobiografia, ma all'introspezione italiana nelle sue pieghe più autentiche. Tanto i caratteri, i personaggi, le situazioni, le trame dei film di De Sica, Dino Risi, Monicelli, Germi, Zampa, Sordi, Sonego, Lattuada sono il riflesso di tipi umani reali, tanto infinite le corrispondenze tra cinema e vita Aldo Fabrizi, per esempio, romanissimo, veracissimo, popolarissimo, aveva 37 anni quando si impose in Campo de' Fiori, firmando la sceneggiatura con Fellini, Piero Tellini e Mario Bonnard, e interpretando un pescivendolo infatuato di una bella signora nei guai. In Roma città aperta è lui a interpretare il prete che prima della mitragliata delle SS contro la Magnani dà una padellata in testa a un malato di scorbuto per trasformarlo in un finto moribondo, con un passaggio dal tragico al comico degno del teatro elisabettiano, che fra l'altro segna la sopravvivenza del neorealismo attraverso la stessa commedia all'italiana. È una delle tante spigolature offerte dalla ristampa di quest' opera pubblicata nel 1985 e sempre attuale. Più che un saggio o un libro di storia, trattasi di un repertorio ragionato di tutti i film, noti e meno noti, ignoti e del tutto dimenticati, dei loro antesignani nel fascismo, all'epoca dei telefoni bianchi, e dei loro concorrenti americani ai tempi dell'invasione delle major, ma anche dei registi, da Fellini a De Sica, da Germi a Lattuada, passando per Dino Risi, Visconti, e Pasolini, per citarne soli alcuni, e degli attori, da Sordi a Gassmann, da Tognazzi a Manfredi, da Macario a Totò, da Rascel a Franchi e Ingrassia, dalla Valeri a Monica Vitti a Laura Antonelli, senza dimenticare le grandi star come la Loren e la Lollobrigida, che hanno dominato il cinema del dopoguerra. Per il figlio della leggendaria Suso Cecchi d'Amico, che fu la sceneggiatrice di Visconti e di tantissimi altri, ed era a sua volta la figlia del principe della critica, Emilio Cecchi, e la moglie del musicologo più brillante d'Italia, Fedele d'Amico, questa rassegna sull'industria del cinema che include prezzi, produzioni, incassi, è anche un'autobiografia involontaria dove i ricordi personali scorrono sottotraccia. Ecco allora l'esordio di un comico sconosciuto, tal Alberto Sordi, scoperto da Masolino in un'arena all'aperto a Santa Marinella, prima che diventasse il protagonista del cinema italiano, regista, attore e interprete, premiato da incassi ragguardevoli come i 3 miliardi de Il medico della mutua diretto da Luigi Zampa, ma che aveva alle spalle una lunghissima gavetta iniziata a sedici anni come doppiatore di Oliver Hardy, col suo accento americano in tonalità da basso profondo, e continuata come autore radiofonico inseguendo il divismo coi Compagnucci della Parrocchietta, il conte Claro e Mario Pio. Ecco il torneo di ping pong organizzato sempre da Masolino sul terrazzo della casa di Castiglioncello, per placare l'ira di Gassman, dopo che la troupe del Sorpasso era stata battuta in una partitella di calcio da una squadra di vacanzieri. Ecco Franco Cristaldi in estasi a Venezia davanti all'apparizione del bikini verde smeraldo di una moretta dal sorriso smagliante, una tale Claudia Cardinale, sbarcata da Tunisi. E cosi alla fine della fiera, resta solo da sperare che dopo la ristampa arrivi pure un nuovo libro di memorie inedite e retroscena gustosi.

Tutte le volte di James Bond in Italia, ecco le location che hanno ospitato 007. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 29 settembre 2021. E venne il giorno dell’attesa prima di “No Time To Die” venticinquesimo film della saga di 007 e ultimo con Daniel Craig nei panni di James Bond, film che ha come location Matera ma anche Altamura e Maratea.

Le vicende di Bond nel corso della sua lunga vita cinematografica hanno spesso avuto come scenari incantevoli posti italiani segnati dalle riprese dei film girati. Una breve guida per ricordare inseguimenti e vicende tricolori dell’agente segreto più famoso della storia del cinema

DALLA RUSSIA CON AMORE- 1963

Il secondo film della saga, si conclude a Venezia, città molto glamour e internazionale. Arrivo lagunare con l’Orient Express con la prima bond girl italiana, Daniela Bianchi. Hotel Danieli e luna di miele veneziana sui titoli di coda. Ma le riprese sono in studio e il Canal Grande è solo riprodotto per l’unica avventura italiana di Sean Connery

AGENTE 007, LA SPIA CHE MI AMAVA-1977

Secondo film con interprete Roger Moore e la produzione scopre la Sardegna per scene molto spettacolari. La Lotus anfibia emerge sulla spiaggia di Capriccioli. In Costa Smeralda è collocata l’Atlantide marina del cattivo di turno. Si vedono Palau, la baia di Cala di Volpe e il suo esclusivo hotel, San Pantaleo ma c’è anche l’hotel Pitrizza.

MOONRAKER, OPERAZIONE SPAZIO-1979

Torna Venezia, e questa volta plain-air. Bond- Moore alle prese con inseguimenti su calli e gondole veneziane con il cinese Chang. Un godibile inserto italiano prima dello spazio.

AGENTE 007- SOLO PER I TUOI OCCHI-1981

Roger Moore resta in Veneto a Cortina. È accolta da Bibi, bella campionessa di pattinaggio su ghiaccio e da un folto gruppo di killer cattivi sugli sci. Nel corso del tempo diversi raduni organizzati da bondisti con raduno di auto e star della saga. Perché un Bond è per sempre.

CASINO ROYALE- 2006

Alla sua prima volta Daniel Craig trova godibili scene italiane e grandi giacimenti culturali. La villa del Balbianello con vista mozzafiato sul lago di Como è il buon retiro di Bond con Eva Green che registra un bacio sotto il celebre balcone.

Per il Daily Telegraph all’epoca la più bella location di sempre di James Bond. Ma anche nel finale del film appare un’altra stupenda villa lariana, una sorta di castello, ovvero Villa Castello. E in mezzo al film ritorna Venezia. Bond approda in barca a Bacino San Marco , si vede il Canal Grande, il Mercato del Pesce di Rialto, piazza San Marco non può mancare, il conservatorio Benedetto Marcello. Suspence e bellezza non mancano per uno dei più grandi incassi di sempre.

QUANTUM OF SOLACE-2008

Trionfa Siena in questa avventura di Bond con inseguimento durante un Palio ricostruito in piazza del Campo ma ci si rincorre anche sui tetti della città storica toscana. Sulla Gardesana occidentale inseguimento automobilistico che registrò un pauroso incidente con uno stuntman che rischiò la vita sul set. Scene di azione anche tra le cave di Talamone e i marmi di Carrara. Alcune guide riportane scene girate anche a Craco e Maratea ma si è trattato solo di sopralluoghi. Ora è arrivato il vero momento della Basilicata con “No Time No Die”.

SPECTRE -2015

Finalmente la città eterna. Anche Roma accoglie 007 con un inseguimento notturno che tocca i monumenti tra i più conosciuti al mondo. Strade chiuse e compensi per tutti. Da Trastavere alla Nomentana si sfreccia su Piazza Navona, Fontana di Trevi, via delle Quattro Fontane, luoghi della “Grande Bellezza”, Ponte Milvio.  

È stato anche realizzato l’ebook “Discover Roma with Jamed Bond” – Guide to Spectre film locations, con una serie di descrizioni e aneddoti legati ai luoghi di Spectre a Roma illustrato con acquerelli originali. Monica Bellucci nei panni della Bond girl incontra Daniel Craig nel colonnato del Museo della Civiltà romana adattato per esigenza di copione a Cimitero del Verano.

Sette sataniche, sincretismo e stragi: ecco i santoni neri di Hollywood. Matteo Carnieletto e Andrea Indini il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. C'è un (lungo) filo esoterico che collega la fondazione di Hollywood e la sede del cinema internazionale. California, 1886. Il sole si infrange sulla terra, rendendola incandescente, mentre un uomo di origini cinesi spinge un carro pieno di legna. Suda e impreca per il gran caldo. All'improvviso incontra un imprenditore, Hobart Johnstone Whitley, il quale gli chiede cosa sta facendo: "I hooly-wood", risponde il carrettiere, intendendo "I'm hauling wood" (sto trasportando del legname). L'imprenditore ha un'epifania, un'irruzione del sacro nella quotidianità, che saranno una costante in questa fetta di mondo. Capisce male, o forse lo fa apposta, e decide di chiamare questo luogo tra le colline della California "Hollywood", il bosco di agrifoglio. È l'inizio di una storia nuova, in cui la luce del sole si mescola alle tenebre del satanismo e dell'occultismo. A partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, migliaia di persone si riversano verso la West Coast. Cercano l'oro. Inseguono un sogno. Vengono dalle parti più disparate del mondo e credono in fedi diverse. Ci sono protestanti e cattolici. Bianchi, indiani e neri. Litigano, a volte si ammazzano anche, ma alla fine si amalgano. Anche spiritualmente. Scrive Jesùs Palacios, autore di Satana a Hollywood (Edizioni NPE), che la California diventa "il luogo ideale per mescolanze e sincretismi, il luogo ideale perché a poco a poco la vecchia fede di indebolisse e si evolvesse in nuove credenze e superstizioni... Affinché proliferassero altresì imbroglioni, santoni, predicatori e falsi profeti". Sembra quasi che tutti si siano dati appuntamento lì. Negli anni Venti del XX secolo arriva Jiddu Krishamurti. Sopracciglia folte, occhi profondi e lineamenti da statua. Riesce ad ammaliare tutti, ma soprattutto le donne. Ottiene una rendita di cinquecento sterline l'anno. Un'enormità per l'epoca. Viene invitato a tutte le feste e incontra i personaggi più importanti dell'epoca, tra cui l'astrofisico Edwin Hubble e Greta Garbo, che rimane folgorata da lui. Più passa il tempo e più Krishamurti ottiene consensi: "Sempre radicato a Ojai e nelle vicinanze di Hollywood, avrebbe trovato di nuovo il sostegno della comunità cinematografica grazie a Mary Zimbalist, vedova del profuttore Sam Zimbalist, deceduto nel 1958 durante le riprese di Ben-Hur. Sarebbe diventata lei, a partire dal 1964, la sua principale fonte di finanziamento; gli costruì una casa nuova a Ojai, lo invitava spesso nella sua villa di Malibù e contribuiva di tanto in tanto alla sua stbailità economica, tenendo conto che il maestro fu imbranato fino alla fine dei suoi giorni in ambito finanziario". Il 17 febbraio del 1986 Krishamurti muore a Pine Cottage. Non vuole alcuna celebrazione. Sparisce per sempre. Nel vuoto. Con il passare del tempo, però, accanto all'esoterismo comincia a muoversi il culto per il demonio. Howard Stanton Lavey ne è il fondatore. Nato, l'11 aprile del 1930 a Chicago, a soli 36 anni rivela che è giunta l'Era di Satana e, in poco tempo, si circonda di un numero sempre più cospicuo di fedeli e conquista le bionde più belle di Hollywood. Dopo la seconda guerra mondiale frequenta per un breve tempo Marylin Monroe, consumata per lo più "sotto l'ombra di uno degli edifici più magici e spettacolari dell'architetto e occultista Frank Lloyd Wright a San Francisco, ispirato dall'achitettura maya e azteca del Messico dell'era precolombiana". Ma è con Jayne Mansfield che LaVey crea il legame più profondo: inizialmente l'attrice non lo considera più di tanto ma, non appena lo vede in abiti sacerdotali neri, impazzisce per lui e se ne innamora. Si dice addirittura che LaVey le abbia chiesto la mano e che l'avesse introdotta in alcuni circoli sacerdotali occulti. Accanto al satanista girano avvocati, artisti, anche agenti dei servizi segreti. Sono tutti alla sua corte e partecipano a riti terribili, fatti con candele nere e teschi umani. Nel 1968 apre la prima chiesa dedicata al culto luciferino e, qualche anno più tardi, scrive La Bibbia satanica: "L'opera - scrive Palacios - parla di invertire la morale tradizionale e fornisce una guida teorica e pratica (il libro contiene preghiere, incantesimi e cerimonie magiche) per l'uomo nuovo che dominerà il mondo del futuro, incentrata su un egoismo attivo un tantino darwinista, sul sesso libero, l'amoralità e una sorta di realismo religioso tipicamente ateo e umanista". Strane morti accompagnano la vita di Lavey e che tinteggiano, in una lunga scia di sangue, le colline della California. Ma come si è potuti arrivare a tutto questo? Secondo Michel Houellebecq, che ne Le particelle elementari, che quest'estate La Nave di Teseo ha riportato in liberia, si è dedicato a questo tema. La strada è lunga ed è indissolubilmente legata ai cambiamenti che, dopo il secondo dopo guerra, attraversarono il Vecchio continente: "Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo - si legge nell'incipit - di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia rapporti saltuari con altri uomini. Visse in un'epoca infelice e travagliata". Nel volume, lo scrittore francese analizza il legame sotteso tra la liberazione sessuale, di cui il Sessantotto si fa portatore sconvolgendo definitivamente i consumi dell'Occidente, e gli omicidi compiuti dai satanisti. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1998, è il racconto (crudo e disilluso) di due vite agli antipodi: Michel Djerzinski, biologo molecolare che spende tutta la sua vita per dare alla vita stessa un significato che sembra non esserci, e il fratellastro Bruno che, invece, cerca quel medesimo significato in un'onnivora attività sessuale devastata e devastante. Sono entrambi i prodotti di una rivoluzione culturale che ha lasciato nudo l'uomo, spogliato di una tradizione millenaria e in balìa di un voyeristico egoismo. Houellebecq accompagna il lettore per mano in un tour virtuale dentro e fuori le comunità hippy, i raduni new age, i campeggi per nudisti e i club per scambisti, che nella seconda metà del secolo scorso sono sorti in Francia. Quello che emerge è un vuoto cosmico che lascia le anime solo dinnanzi alla propria vacuità. Ma, se nel Sessantotto questa spinta emotiva, che ha portato alla disgregazione della famiglia e dei legami famigliari, viene ammantata da un'aurea di novità, sul finire degli anni Ottanta scema in una compulsiva reiterazione di canoni fallimentari che, però, sono ormai tanto permeati all'interno della nostra società da essere dati per scontati e, quindi, passivamente accettati. Finita l'euforia, che ha drogato gli anni Settanta (poi sfociati nella violenza ideologica del terrorismo), quello che rimane degli ex sessantottini è una triste "congrega" di ex ribelli (non più giovani) in cerca di emozioni ormai sciupate. E così il sesso si fa sempre più estremo e le droghe sempre più pesanti. È proprio tra gli "scarti" del Sessantotto (pochi soggetti a dire la verità) che Houellebecq intravede l'insinuarsi del germe del satanismo. Ne Le particelle elementari viene dato spazio, anche se per poche pagine, a un personaggio che sin dall'inizio appare oscuro e turpe: David Di Meola, figlio della cultura hippy che, dopo aver fallito come musicista rock, si butta prima sul sesso estremo e poi sul mercato degli snuff movie ammantandolo dei tetri simboli satanici. Il passaggio da violenza sessuale a omicidio è brevissimo. Ma sufficiente a macchiare di sangue un'intera generazione. Nel saggio Il disagio della civiltà (Feltrinelli), Sigmund Freud indaga, tra le altre cose, sul rapporto tra sessualità e morte, due concetti che la nostra mente fatica a tenere insieme. Eppure certi disvalori si sono fatti portatori di una sessualità forzata che in alcune sacche della società è accettata e condivisa (si pensi al masochismo e al sadismo), mentre in situazioni al limite sfocia negli stupri e negli omicidi rituali. Per Houellebecq questa deriva è la diretta conseguenza del materialismo più puro. Un altro figlio di questa degenerazione è sicuramente Charles Manson (venticinque anni più tardi scimmiottato dal cantante pseudo-satanista Marilyn Manson) la cui ombra sembra calare anche su alcuni capitoli de Le particelle elementari. Rileggendo la storia di Hollywood non deve affatto stupire se nel 1967, dopo aver girovagato per mezza America (dall'Oregon all'Ariziona, dallo stato di Washington al New Mexico), decide di insediare la sua Family (così venivano chiamati i suoi adepti) nella periferia di Los Angeles. Tra loro c'erano anche molte ragazze (tutte giovani, tutte molto belle). Nel romanzo Le ragazze (Einaudi) Emma Cline le descrive così: "Parevano appena ripescate da un lago [...] Stavano giocando con una soglia pericolosa, bellezza e bruttezza allo stesso tempo, e attraversavano il parco lasciandosi alle spalle una scia di improvvisa allerta. Le madri si guardavano intorno cercando i figli piccoli, spinte da una sensazione a cui non avrebbero saputo dare un nome. Le altre giovani prendevano per mano i fidanzati". Ancora una volta: eros e violenza, vita e morte. Che rimangono impregnate nella terra. "C'è gente che dice che questo posto è impregnato di una forza malefica", racconta una segretaria a John Waters mentre è in visita al ranch di Manson. Il male lì sembra non essersene mai andato. Alberga in quella terra e non se ne vuole più andare via. Del resto Charles lo accoglie, anzi lo invoca, per lungo tempo. Raduna attorno a sé un gruppo di hippy ai quali propone una nuova vita spirituale. Scrive Palacios che la "famiglia Manson" frequenta "riunioni notturne degli Angeli dell'Inferno, sette e comunità religiose piuttosto singolari come la crowleyana Loggia Solare dell'Ordine del Tempio d'Oriente (Oto) o l'orientalista Fonte del mondo, ispirata dagli insegnamenti pacidisti di Krishna Venta, che annoverava tra i suoi membri Shorty Shea, impiegato nel ranch, e una delle vittime della Famiglia, il cuio corpo, teoricamente smembrato e cosparso nel desrto, non fu mai ritrovato". Charles li fomenta. Promette loro il sangue e, infine, glielo concede. Accade tutto in una notte, quella tra l'8 e il 9 agosto del 1969: quattro suoi "figli spirituali" entrano nella casa di Sharon Tate e regista Roman Polanski. L'ordine è uno solo: "Uccidere tutti i presenti, nella maniera più macabra possibile". Così sarà. Alcuni degli ospiti verranno uccisi a colpi di coltello, altri furono freddati con armi da fuoco. La Tate chiede pietà per il figlio che ha in grembo, ma non c'è nulla da fare. È l'helter skelter - questo il nome del massacro, preso in prestito da una canzone dei Beatles - e non possono esserci sopravvissuti. Il sangue deve essere ovunque, perfino sui muri della casa. Immaginare un altro finale è difficile, ma non impossibile. Ci ha provato il re dello splatter Quentin Tarantino. C'era una volta a... Hollywood riscrive quella mattanza dandogli un altro finale. E prova a liberare Hollywood dai suoi mali. Ma è solo fiction. E Hollywood rimane quella che è.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue occidentale e Cristiani nel mirino. Con Fausto Biloslavo ho invece scritto Verità infoibate. Nel dicembre del 2016, subito dopo la liberazione di Aleppo, ho intervistato il presidente siriano Bashar al Assad. Nel 2019 ho vinto il premio Prokhorenko-Paolicchi per i miei scritti sulla Siria.  

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del

Leonardo Colombati per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. Esiste un posto, in Italia, famoso in tutto il mondo, che il turista straniero non visita mai. Sta a Roma, sulla Tuscolana, e non ha nemmeno cent' anni. In sé, poi, non è poi tutta questa gran cosa: una serie di anonimi padiglioni, uffici e capannoni. In uno di questi, davanti a un immenso fondale che riproduce un cielo, sospesi a diversa altezza su due piccoli ponti attaccati con le funi ai tralicci del soffitto, due pittori in canottiera e coi cappellini fatti col giornale muovono i lunghi pennelli con lentezza da acquario, i secchi della vernice accanto. Tutto intorno è silenzio. Si sente solo il fruscio delle spatole sul fondale già quasi interamente dipinto. «Oh, a Ce'...» «Che voi?» «Vattela a pijà...» Così, in uno dei suoi ultimi film, Fellini descrive il Teatro 5 di Cinecittà, forse il luogo - insieme alla Firenze di Lorenzo de' Medici e al Vaticano di Giulio II - dove si è concentrato il più alto tasso di creatività e genio italico: una città dentro la città, più grande del suo contenitore, che riesce ad allargare i suoi confini fino ad abbracciare il mondo intero. Qui dentro, se batti il ciak, Visconti litiga ancora con Anna Magnani durante le riprese di Bellissima, Pasolini chiacchiera con Orson Welles in una pausa di lavorazione de La ricotta, e Mastroianni con gli occhi bistrati e un cappellaccio nero divide il cestino con gli operatori di ripresa. Il film si chiama 8 e ½ , il regista è Fellini. Mastroianni fa la parte di Guido, che poi è Fellini: un regista in crisi che non sa che film fare. E che alla fine imparerà, donandocela, una delle più liberatorie e gioiose lezioni su sé stesso e sulla vita che un'opera d'arte abbia mai saputo offrire. Il soggetto è di Fellini - che ha appena letto Jung: «la creatività e il gioco stanno l'una accanto all'altro» - e di Ennio Flaiano lo scrittore più ferocemente anti-italiano e al tempo stesso più tenacemente arci-italiano, che vuole chiamare il film La bella confusione. Di confusione ce n'è tanta, ed è davvero bellissima. Alla fine, poi, spuntano, in bianco, tutti i personaggi inventati dal regista, e si prendono per mano, con Guido che ne decide i movimenti, elettrizzato, felice, al megafono: «prendetevi per mano!» urla, e comincia il girotondo al suono di una fanfara di clown, finché non scende la notte e un bambino suona le ultime note su un flauto per poi sparire nel buio. A realizzare l'equivalente filmico della Cappella Sistina c'è voluta la creatività del più grande raccontatore di sogni dai tempi di Artemidoro (Federico); del più corrosivo scrittore italiano del dopoguerra (Ennio); di un attore smisurato e umano, troppo umano, come Marcello; e del prodigo Angelo Rizzoli, un miliardario che annotava giornalmente debiti, crediti e liquidità sul pacchetto di sigarette Turmac. Intanto, nel silenzio riverberato del grande Teatro 5 vuoto, il primo pittore si rivolge di nuovo al secondo: «A Ce'... No, stavo a pensà 'na cosa...» «Cosa?». «Perché non te la vai a pijà...?» e scoppia a ridere, felice come un bambino. Da quando 8 e ½ uscì nelle sale, nel 1963, esiste nei dizionari la parola «felliniano». «Avevo sempre sognato, da grande, di fare l'aggettivo. Ne sono lusingato. Credo però che fregnacciaro sia il termine giusto» dirà Fellini. Trent' anni dopo, il 1° novembre 1993 una processione folta e silenziosa si dirige al Teatro 5, completamente vuoto, ad eccezione di una grande pedana con moquette azzurra su cui è stata sistemata una bara monumentale dalle borchie dorate. Due carabinieri in grande uniforme, ai lati del feretro di Fellini, sembrano due enormi fiori dal pennacchio rosso. Dietro la cassa, un grande cielo limpido, con le nuvole bianche: è il fondale utilizzato per Intervista, il film di Fellini che originariamente doveva chiamarsi Cinecittà. Quella notte, quando la bara è stata portata via e tutto è di nuovo in silenzio, continua il dialogo tra i due pittori: «A Ce'», fa il primo. E l'altro, sbuffando: «Uuhhhh!». «Sai chi t' ho incontrato ieri? Moccoletto. Sai che m' ha detto?» «No.» «M' ha detto che te la devi annà a pijà...!» Titoli di coda. 

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 14 giugno 2021. Parlando di cinema, meglio cominciare dal finale: spiega sempre la storia che si è appena vista. E la storia che stiamo per raccontare, quella di Renato Casaro, uno fra i più celebri cartellonisti cinematografici che l'Italia abbia mai avuto, si conclude, almeno dal punto di vista artistico - il maestro sta benissimo: ha 85 anni e si diverte ancora con i pennelli - con Quentin Tarantino, regista innamorato del cinema italiano di genere, che sta girando il suo C'era una volta a Hollywood, uscito nel 2019. Per la scenografia gli servono dei manifesti di finti B-movies - crime action e spaghetti western - interpretati dall'attore protagonista, Leonardo DiCaprio: film inventati ma credibili, tipo Operazione Dyn-o-mite! o Uccidimi subito Ringo, disse il Gringo. Aveva bisogno di un maestro. E a chi chiede di dipingerli? A Renato Casaro il cinema è sempre piaciuto, fin da ragazzo, quando - erano i primi anni '50 -, per entrare gratis nelle sale, si mise a creare le grandi sagome degli attori, pezzi unici dipinti a mano, da mettere all'ingresso del Cinema Teatro Garibaldi o del Cinema Esperia, nella sua città, Treviso. Che oggi, per sdebitarsi di tanta gloria ricevuta, gli dedica una grande mostra - titolo icastico: Renato Casaro -, divisa in tre sedi cittadine: «L'ultimo cartellonista del cinema» al Museo della Collezione Salce, nella chiesa di Santa Margherita, «Treviso, Roma, Hollywood» ai Musei civici di Santa Caterina e «Dall'idea al manifesto» al complesso di San Gaetano. Curata da Roberto Festi e Eugenio Manzato, da oggi al 31 dicembre, tra schizzi a matita, bozzetti, foto di scena, prove, varianti (per i diversi mercati, italiano e internazionale: qui ad esempio c'è Mai dire mai, per i cinema tedeschi Sag Niemals Nie, ma Sean Connery è sempre impeccabile in smoking e Walther PP d'ordinanza), e poi locandine, manifesti, a due e a quattro fogli, per le sale cinematografiche o per l'affissione stradale (ecco Sapore di mare, ecco Amadeus con tutti i personaggi racchiusi nella sagoma nera del compositore...), la mostra racconta fantasia, creatività, artigianalità che diventa arte, occhio e capacità di sintesi dell'uomo che dipinse il cinema. «Quando dovevo fare un manifesto, la cosa essenziale, una volta capita la trama, era togliere, togliere, togliere. Quello che restava di solito era l'immagine giusta». Classe 1935, ma di anni ne dimostra 65, T-shirt, sahariana e scarpe da tennis, Renato Casaro dopo una vita a Roma ha perso l'accento veneto e guadagnato una certa impassibilità romana, anche se nel 1984 si trasferì per un lungo periodo a Monaco di Baviera. «Oggi il manifesto non è più fondamentale - ammette mentre ci accompagna lungo le sedi, le sale e i 300 pezzi della mostra scelti tra una carriera che è lunga 1500 manifesti -. Un tempo invece seguiva il film importante ma dava anche importanza al film». Casaro, autodidatta puro, ha dato molta importanza a molti film. Nel '53, a 18 anni, è già a Roma, nello studio di Augusto Favalli. Il suo primo manifesto è Criminali contro il mondo, del '55. Studia i maestri italiani della pubblicità e gli illustratori americani come Norman Rockwell, gli Impressionisti e la pittura di Rembrandt, più avanti persino gli iperealisti giapponesi Passano due anni e apre un suo studio privato a Cinecittà («Un'industria che allora dava lavoro a non sai quante persone dai tecnici agli sceneggiatori, dalle comparse ai costumisti, dagli arredatori a noi pittori»). Prima si firma «C. Renè», poi con il suo nome. A Roma vive l'epoca d'oro del cinema: gli anni '60 e '70. Conquista i registi italiani e americani almeno un maestro per lettera dell'alfabeto: Annaud, Bertolucci, Coppola, fino a Tornatore, Verdone e Zeffirelli Lo chiamano Hollywood e le major: Fox, United Artists, MGM, Columbia Lo vogliono i grandi autori come i distributori dei film di cassetta Lui accontenta tutti, arriva a realizzare anche cento manifesti l'anno: «Dallo schizzo iniziale al poster finito ci volevano 4-5 giorni Lavoravo anche su più film contemporaneamente. Agli inizi avevo un collaboratore per il lettering, poi ho sempre fatto da solo. Mai mancato una consegna. Magari quando arrivava il fattorino a ritirare il manifesto non era ancora asciugato del tutto, e mi è capitato di metterlo sul radiatore della macchina, ma non tardavo di un giorno». Li faceva vedendo solo le foto di scena, a volte i trailer, raramente qualche girato «giornaliero», quando andava bene leggendo il soggetto. Ma il risultato soddisfaceva sempre tutti. I registi, che si fidavano ciecamente («Certo, lavorare con Leone e Bertolucci mi creava un po' di apprensione... ma ad esempio il manifesto dell'Ultimo imperatore dicono tutti sia un capolavoro, con il bambino inondato da un fascio di luce...») e i distributori, che un giorno dovevano accontentare il pubblico di cinefili, un altro gli amanti del cinema di genere Eccoli qui, tutti i generi reinventati da Casaro, prima a colpi di pennello e poi, dalla fine degli anni '70, di aerografo, «che dà maggior realismo all'immagine, avvicina ancora di più alla fotografia...»: l'horror (qui c'è Il laccio rosso, con la testa di una donna strangolata «a tutto schermo»), il peplum (a decine, uno più bello dell'altro), il western (fra i tantissimi, il nostro preferito è 7 dollari su rosso), il giallo (c'è il magnifico L'orologiaio di Saint-Paul, tratto da Simenon, con Philippe Noiret visto dietro il vetro del negozio con la scritta dell'insegna a specchio), i film di Franco e Ciccio (il cult movie I 2 sanculotti, dove la cosa migliore del film è il manifesto), la commedia (tantissimi titoli di Sordi), i musicarelli, la trilogia di Rambo. E poi tutti i film della coppia Terence Hill e Bud Spencer («Una volta mi dissero che senza i miei manifesti i loro film non avrebbero avuto così successo»), i capolavori della storia del cinema (come C'era una volta in America: qui ci sono diversi bozzetti, locandine e la versione tedesca con i volti dei quattro protagonisti in oro su sfondo nero) e i suoi personalissimi capolavori: Balla coi lupi («Dicono sia perfetto, scelsi l'immagine di Kevin Costner che da soldato si trasforma in indiano truccandosi il volto coi colori americani bianco e rosso sullo sfondo blu») e soprattutto Nikita («Lei di spalle che gira dietro una parete sporca di sangue, e tu non sai se sta andando via, e dove, con chi... È il lavoro che amo di più»). E poi i nostri personalissimi capolavori. Ne citiamo tre. La riedizione del 1962 per l'Italia di Rapina a mano armata di Kubrick (Casaro si fece scattare delle foto con un mitra in mano mentre fingeva di essere colpito a morte, poi scelse quella a cui ispirarsi per il manifesto), Misery non deve morire (il volto di Kathy Bates, una macchina per scrivere e una baita avvolti nel buio) e Opera di Dario Argento, con gli occhi tenuti aperti da spilli fissati con lo scotch come fossero due palchi di teatro... E il film, infatti, era tutto lì. L'arte di dipingere il cinema.

Quando Tirrenia era la Hollywood sull’Arno. Paolo Lazzari su larno.ilgiornale.it  il 15 gennaio 2021. Se tendete bene l’orecchio e lasciate che i ricordi flettano i pensieri, le sentite anche voi. Un tramestio di voci ispeziona i corridoi in rifacimento. Quella sequela di volti amati dalla tradizione del cinema popolare crea una pausa dalla tristezza. C’è il fascino luminoso di Sophia Loren e c’è il sorriso aperto di Marcello Mastroianni. Quell’espressione imperiosa di Vittorio Gassman ed il volto benevolo di Vittorio De Sica. Ci sono Elio Petri e Sergio Corbucci e, con loro, decine di altri attori di un livello quasi irriverente, circondati da spalle più modeste, registi indaffarati, tecnici del suono, direttori della fotografia, comparse e semplici maestranze. Dove ci siamo infilati, dite? Richiesta legittima. Il posto è una piega del tempo incisa tra gli anni Trenta e i Sessanta, in Toscana. Precisamente, a Tirrenia. Se a qualcuno avanzasse una macchina del tempo, farebbe bene ad alzare la mano. Niente indifferenziato: soffiamo via la polvere ed accomodiamoci. Lancette indietro quasi di un secolo. Avete licenza di sgranare gli occhi ed allargare la bocca. Del resto, il “Pisorno” è uno spettacolo maestoso. Lo hanno chiamato così perché Tirrenia è terra di confine: con un piede sei nella città della torre pendente, l’altro affonda nell’Ardenza. Nel 1930 questi sono gli studi cinematografici più importanti d’Italia: lo rimarranno per tre decenni, fatto salvo il tetro interludio della seconda guerra mondiale, quando la cittadella del cinema verrà occupata prima dai tedeschi, poi dagli Alleati. Gli Studios sono costruiti durante il fascismo. La forma era quella rimbalzata nella testa del drammaturgo Gioacchino Forzano, ma servì l’iniezione di pragmatismo dell’architetto Antonio Valente perché i pensieri iniziassero a camminare davvero. Il regime bonificò l’intera area poiché la ritenne strategica: proprio in mezzo a due città, l’Arno ad un passo, il mare che si estende come un balsamo che lima le scarificazioni dell’anima, i monti a poca distanza. I denari necessari per finanziare un’opera così colossale vennero per la maggior parte sborsati dalla famiglia Agnelli. Breve stacco. Seguite la telecamera. Nel 1935 gli studi di Tirrenia assumono la denominazione ufficiale di “Pisorno“: se pensate che gli Universal Studios di Hollywood verranno inaugurati soltanto nel 1964, d’un tratto il quadro assume tinte più nitide. La Toscana è il vero centro del mondo cinematografico. Una culla del jet set internazionale che produce pellicole a manovella: quando la guerra stende un provvisorio sipario sono già ottanta i film girati da queste parti. Il secondo conflitto mondiale infligge un duro colpo al Pisorno. Gli anni che dovevano collimare con la ripresa assumono il retrogusto inospitale della disfatta. I fasti del tempo andato vengono presi a picconate, perché l’economia dell’Italia del dopoguerra gira ancora intorno all’essenziale e il cinema, in tutta sincerità, poteva considerarsi un lussuoso passatempo. Ma proprio quando la malinconia sembra avviluppare ogni cosa, la trama viene percorsa da un sussulto inatteso. Se non avete avuto fretta di tornare nel 2021 (perché dovreste, a conti fatti?) mettetevi di lato. L’Alfa Romeo che ruggisce sopra il viale di ghiaia che conduce agli Studios è pilotata da Carlo Ponti, produttore cinematografico a capo della Cosmopolitan Film e, a tempo perso, marito affettuoso di Sophia Loren. Osservatelo bene mentre si avvia all’ingresso, il gessato impeccabile crivellato da raggi riluttanti. Sta per staccare un assegno per acquistare tutta la baracca. Qualche settimana dopo gli operai sviteranno l’insegna: ora la città del cinema si chiama Cosmopolitan. La nuova era è propellente sano. Ossigeno che erompe in stanze asfittiche. Tornano i grandi attori. I maestri della regia sono di nuovo di casa. Il grande gigante intorpidito si scuote e riparte a pieno ritmo. Il successo però non ha un animo stanziale: si diverte a distribuire sferzate di felicità, senza concedere esclusive. In meno di un decennio la nuova ondata di fortuna degli Studios toscani si dissipa, complice anche l’ascesa di Cinecittà. Nel 1969 il Cosmopolitan getta la spugna. Quei monumentali spazi tornano ad imperlarsi di polvere e tristezza. Per l’ultimo stralcio di luce bisogna attendere il 1987, quando i fratelli Taviani decidono di ricostruire qui una Hollywood in miniatura per girare il pittoresco Good Morning Babilonia. Oggi questi luoghi sono in ristrutturazione e, per la maggior parte, diventeranno residenze alberghiere. Eppure, se vi trovate da quelle parti, fate un tentativo. Mollate il presente. Scaricate l’orologio. Socchiudete le palpebre ed evitate di trasalire: la Hollywood sull’Arno ha ancora molte cose da sussurrarvi.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” domenica 30 luglio 2023.

La prima revenge song era roba grossa. In How Do You Sleep at Night, di John Lennon, registrata con George Harrison e Yoko Ono per l'album Imagine del 1971, John si scagliava contro Paul McCartney che se n'era andato dai Beatles e aveva chiesto con successo al tribunale di Londra di dichiarare disciolta la società legale della band. Gli cantava come facesse a dormire di notte dopo quel che aveva combinato, la canzone era potente e carica di pathos musicale: ma ricordata più per il testo, ovviamente. 

[…] Tempi eroici, personaggi mitici. Adesso più modestamente va così, nel pop: i risentimenti sono ripresi e si stanno facendo sempre più numerosi, e sono soprattutto femminili e amorosi. Nel trionfo dei social, quando si scopre che la canzone di una star vomita veleno verso un ex che si è comportato da carogna, nasce subito un'attenzione spasmodica e parte la caccia al reprobo, per lo più personaggio semisconosciuto, forse sfigato. Si punta al maschile senza indecisioni, perché sono le ragazze della musica quelle afflitte dai peggiori profittatori. […]

Va ricordato che a riattizzare il clamore sulle revenge songs come vengono chiamate, è stata Shakira, le cui vicende personali sono state amplificate dal fatto che il traditore – il calciatore Piqué – era famoso quanto lei. Spietata nella sua confessione del subìto tradimento, si è buttata sul sarcasmo («Le donne non piangono più, le donne fatturano») con paragoni velenosi in Music Session Vol. 53: «Hai cambiato un Rolex con un Casio, una Ferrari con una Twingo». […]

La più illustre delle vittime contemporanee di maschi senza sensibilità che si è sfogata in note resta Lady Gaga. Il suo matrimonio con Christian Carino era fissato per l'autunno 2019.

Ma non se ne fece nulla, e nel maggio successivo dentro l'album Chromatica appena uscito, si poteva ascoltare com'era finita. Nel brano Fun Tonight, cantava la riservatissima Lady: «Ami i paparazzi, ami la fama/ anche se sai che mi provoca dolore/ Sento di essere in un inferno di prigione/ Se grido te ne vai/ Quando sono triste, vuoi solo giocare/ Ne ho abbastanza, perché rimango?».

Quasi contemporaneamente, Miley Cyrus interpreta in Flowers la storia che tre anni prima l'ha portata al divorzio dall'attore Liam Hemsworth: «Posso comprarmi i fiori da sola, scrivere il mio nome sulla sabbia/ Parlare con me stessa per ore... sì, posso amarmi meglio di quanto possa fare tu». Taylor Swift, che di queste canzoni ne ha cantate parecchie ai suoi fidanzati, è nota nel campo soprattutto per Dear John, che dovrebbe essere ispirata al collega John Meyer. Beyoncé ha cantato i tradimenti di suo marito Jay-Z in varie occasioni, fino all'album intero Lemonade che è un inno alla rabbia coniugale.

 E comunque la madre di queste ragazze, molto più sottile e perfida di tutte quante messe insieme, fu Carly Simon a fine '72 con You're so vain, che incrociava i ritratti di 3 compagni che avevano in comune l'esser vanitosi. […]

Achille Lauro: «Scrivere canzoni è stata una terapia, ero un adolescente turbolento». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2023.

L’artista torna con «Stupidi ragazzi», brano elettronico che parla d’amore: «Credo in un sentimento maturo, in cui si costruisce»

Nuovo capitolo artistico, nuovo sound per Achille Lauro, tornato con «Stupidi ragazzi», singolo che punta sull’elettronica e si rifà «a sonorità londinesi e berlinesi, filone non molto esplorato in Italia».

Chi sono questi «Stupidi ragazzi»?

«II pezzo fa una riflessione su esperienze autobiografiche. È una ballad intima che ha una visione dell’amore cinica e personale. Ciò non vuol dire che io non creda nell’amore e non lo idealizzi, ma è difficile, ci vuole molto impegno».

Uno sguardo adulto.

«Io credo nell’amore maturo. L’amore non è l’attrazione iniziale che può capitare tutti i giorni, ma sono due persone che vogliono costruire qualcosa. Stare insieme non è semplice: si cresce, si cambia e non è detto che se stai 10 anni con una persona rimanga la stessa che hai conosciuto».

Lei si sente cresciuto?

«Sto vivendo tanto e ho una visione più matura di quel che sono stato. È un momento bello, in cui sono libero. Mi sono dedicato alla musica, ho viaggiato, mi piacerebbe anche andare a stare un po’ a New York, e sento che posso fare quello che mi va, anche la cosa più fuori moda possibile».

E quando riguarda la sua carriera fin qui cosa vede?

«Che ho fatto un percorso pazzesco. Ogni disco è una fase diversa, ho fatto 5 Sanremo, un tour con orchestra. A 33 anni ho difficoltà a trovare quel che non ho fatto».

Bilancio molto positivo...

«Sono un esponente del mondo contemporaneo abbastanza importante e sto cercando ciò che si trova solamente in me. Achille Lauro può piacere o non piacere, ma bisogna ammettere che la mia identità è abbastanza unica».

C’è chi ha visto in Rosa Chemical delle somiglianze con lei, è d’accordo?

«Non attacco mai i giovani, per alcuni il modello può essere Elvis o chissà chi, per altri può essere Achille Lauro. Se vedo un ragazzo che si esprime come me, vuol dire che ho fatto un gran percorso. Ma al di là di Rosa, penso ci sia stata un’onda partita da quel che ho fatto. Anche a Sanremo, non voglio essere presuntuoso, ma quello del 2019 non era come oggi. Prima i ragazzi stavano nelle gabbie, inquadrati, ora cercano di essere se stessi».

La sua immagine fluida ha fatto scuola?

«Al di là del fluido, io ho cercato di portare sul palco la mia anima. Se sono stato percepito come uno stendardo di libertà, fluidità, essere chi si vuol essere, ne sono contento. Ma non mi sono mai proclamato paladino di qualcosa, ho fatto quel che sentivo».

Tornerà a Sanremo?

«In questi anni penso che col Festival ci siamo dati tanto a vicenda e siamo cresciuti insieme. Stavolta non so, magari lasciamo spazio ad altri».

Sta lavorando a un disco?

«Ho tanta musica, con una forte identità. Ma mi voglio prendere il mio tempo, esplorare, provare, sbagliare».

A proposito di sbagli: è pentito della sua partecipazione all’Eurovision 2022 per San Marino?

«No, io per la mia musica colgo le occasioni che ci sono. Ho cercato di portarla a un panorama internazionale e sono andato lì con la mia visione».

L’anno prossimo sarà a «Una nessuna centomila». Le sta a cuore il tema della violenza sulle donne?

«Mi sta a cuore il tema della violenza in generale, cerco di prendere parte alle cause giuste. L’anno scorso ho realizzato un progetto stupendo andando a parlare nelle scuole e concludendo con un discorso all’Onu. Ma faccio anche cose che nessuno sa nel sociale, è il mio modo di dare».

Fedez si sta battendo per il bonus psicologo: che ne pensa?

«Tante persone crescono sole, confrontarsi è importante. Una volta chi aveva bisogno dello psicologo era malvisto, invece è determinante, specie per i giovani dopo la pandemia. Io sono stato fortunato perché scrivere è anche conoscersi e curarsi. Se non avessi scritto non so che farei oggi, c’era qualunque rischio».

A cosa si riferisce?

«Vengo da una situazione familiare complessa, dalla periferia violenta. Ero un turbolento minorenne e scrivere è stata una specie di terapia».

Si sente capito?

«Non mi aspetto che la gente mi capisca, ma cerco di essere sempre un po’ più avanti e spero che questo crei dibattito. Tanti che mi hanno visto con la tutina a Sanremo avranno detto “questo da dove è uscito”, ma sono tutt’altro che un prodotto di marketing».

C’è sostanza, intende?

«Nulla di quel che mi è capitato è successo a caso. Tutto è l’esatta trasposizione di quel che ho in mente. In Italia c’è un pregiudizio: si pensa che un artista sia esibizionista, anziché capire che c’è un pensiero dietro».

Ada Alberti: “Il mio segreto? Non indossare una maschera”. Redazione su L'Identità l'8 Luglio 2023 

di FRANCESCO URRU

Con una famiglia in gran parte astrologa, non poteva che diventare anche lei una figlia delle stelle e amica delle costellazioni. Da giovane guardava l’astrologia da miscredente, ma il papà la introdusse nella materia: dopo poco fu amore a prima vista. Col passare del tempo grazie alla sua compostezza, bravura e portamento è approdata in tv con una rubrica tutta sua. Da ben 17 anni ci racconta cosa prevedono per noi gli astri. Vive splendidamente in una famiglia allargata dove regna la pace e la serenità. L’Identità incontra la regina delle stelle, Ada Alberti

Lei è nata in una famiglia di astrologi: papà, zia mamma, i cugini. Che ricordi da piccola ha del lavoro che facevano i suoi familiari?

Preciso subito che mia mamma non era l’astrologa Lucia Alberti. Non c’entra nulla. Mia madre era fantastica e aveva solo un intuito formidabile. Io però ho sempre seguito mio padre. Lui dipingeva, ed io ho fatto il liceo artistico, facendo diverse mostre d’arte. Poi cambiò, si mise a disegnare mobili ed io lavorai in diversi studi di ingegneri, architetti; ho fatto l’arredatrice, la pittrice. Le faccio questa premessa perché, quando ero quindicenne, mio padre era astrologo e studiava la materia. Nonostante lo seguissi in ogni cosa che facesse, gli dissi “Papà, io ti ho seguo in tutto, ti stimo in tutto ma questa cosa dell’astrologia non la capisco perché non credo che attraverso la data di nascita si possa arrivare alla vita della persona”. Lui mi guardò e mi rispose “Sai che ti dico? Tu hai mai letto qualcosa in merito?”. Ovviamente no, ero a digiuno della materia. Mi regalò l’enciclopedia sull’astrologia e un libro sulla storia dell’astrologia, dicendomi “Tu inizia a leggere, poi parleremo”. Iniziai a studiare i calcoli astronomici, anche non ero portata per i numeri. Mi presero un insegnante di sostegno, risultò poi anche lui appassionato di astrologia e mi spiegò come fare i calcoli. Ovviamente il primo calcolo astronomico che feci fu il mio e con i dati e l’orario di nascita precisi. Tutto tornava, nel senso che il risultato corrispondeva con il mio essere. Ovviamente l’interpretazione che si faceva allora non è la stessa rapida di adesso. Quello che mi fece proseguire però con l’astrologia fu la richiesta di una professoressa del liceo artistico che frequentavo, una donna bellissima e di classe a cui andavano dietro tutti, alunni inclusi; un giorno mi disse “Ada io so che studi l’astrologia, voglio sapere se mi sposerò”. Ai tempi ci mettevi una settimana per fare un quadro astrale e interpretarlo. Quando vidi delle congiunzioni astrali particolari, andai a leggere sul libro e scoprii che la professoressa non poteva avere figli. Successivamente, in maniera delicata, le feci la domanda: mi confermò di aver avuto un brutto intervento che l’aveva privata della maternità. A 23 anni mi sentii pronta per fare l’astrologa e dopo aver studiato, conosciuto, approfondito da maestri ed esperti, aprii a Catania il mio primo studio di astrologia; a 25 anni ne aprii un secondo a Roma perché mi chiamò Rai 1, mi volevano in un programma in Rai. Cercavano chi fosse il migliore astrologo in Sicilia, prima fu fatto il nome di mio padre, poi il mio. Pensavo fosse uno scherzo, poi arrivò una lettera, vennero a casa per parlare per questa una rubrica. Rifiutai, perché la situazione mi sembrava un po’ ambigua; in ogni caso sono arrivata lo stesso ad avere una rubrica in tv, un po’ come Branko, che aveva un modo di raccontare magnifico e affascinante. Credo di avere un’ottima parlantina, chiara e sicura e pensai “perché no, sono brava in quel che faccio”; vorrei avere più tempo per parlare e spiegare perché ho 2 minuti e mezzo. A monte di tutto devo dire grazie a Mediaset perché mantiene il mio spazio da 17 anni: vuol dire che i risultati in termini di share ci sono. Devo ringraziare l’Azienda che mi ha permesso di essere presente in tutto questo tempo.

Prima che lei iniziasse a fare l’astrologa, quando ne parlava con gli amici o veniva fuori l’argomento, che commenti si sentiva dire?

Guardi, io faccio una divisione tra conoscenti e amici, anche se cambio città mantenendo i rapporti. Conoscenti ne ho tantissimi, amici veri ne ho da quando avevo cinque anni, per esempio, loro mi conosco benissimo; una mia ex compagna del liceo artistico mi ha fatto notare che, quando giro le dita sono in contatto con qualcuno, essendo anche sensitiva. I conoscenti mi sfruttano come dei pazzi: un esempio capitato a cena al ristorante. È mia abitudine guardarmi intorno e mi cattura l’attenzione un signore. Dietro di lui aveva una figura, una persona e vengo attratta dalla situazione. Sono andata da questa persona per dirgli che avevo necessità di parlargli. Gli spiegai che una persona vicina a lui e voleva comunicargli un messaggio; specifico che le anime non comunicano, trasmettono col pensiero. Gli riportai la missiva e mi chiese chi io vedessi. Dalla descrizione lui capii che era la madre. Tornando alla domanda che mi ha fatto inizialmente, prima che diventassi famosa tutti dicevano di non credere, di non seguire, poi diventavano “pazzi” per le cose che dicevo che erano vere. diventavano tutti curiosi nel sentirsi dire certe cose da una ragazza di 15 anni, tutte cose che poi si sono avverate: non è facile, stupisce.

Ha un ingrediente segreto che le fa affrontare le giornate col sorriso?

Il segreto piò essere quello di affrontare la gente senza maschera, con la verità senza imbrogliare. Ammetto che per problemi di famiglia il sorriso un po’ si è perso. Il sorriso ora lo sto recuperando in mezzo alla natura, circondandomi di vita vera.

Quale peculiarità deve avere chi fa l’astrologia in tv?

Sicuramente la sicurezza di quello che dice, e magari un po’ più di tempo per parlare; poi la materia, conoscere quello che si dice. Alcuni pensano che io abbia il gobbo davanti, invece, vado a braccio perché so di cosa parlo.

C’è qualcosa che la rende insicura o la inquieta?

Insicura no, inquieta sì, a livello politico ma non riesco ancora a capire bene di che cosa si tratta, a livello mondiale intendo.

Facendo un quadro astrologico della sua famiglia allargata che cosa ne viene fuori?

Cosa vuole che venga fuori? Stiamo tutti bene! Quando ti relazioni con una per donna come Alba (Parietti, ndr) che è una persona estremamente intelligente e intuitiva non può esserci che un grande rispetto tra noi; con Francesco (Oppini, figlio di Franco, ndr) stessa cosa, è un ragazzo sveglio.

Ha un progetto che è in cantiere e che vorrebbe realizzare?

Sì, ma non posso dire nulla. Se non hai qualcuno che ti aiuta di potente, resti dove sei, lei lo sa meglio di me.

Estratto dell’articolo di repubblica.it domenica 22 ottobre 2023.

La popstar Adele ha raccontato durante un concerto a Las Vegas, fra lo stupore del pubblico, che era un alcolista. Ma che ha smesso da circa tre mesi. Una confessione che il pubblico non si aspettava da una donna di successo come lei. La cantante sta vivendo un periodo fortunato, con il fidanzato Rich Paul e il figlio, Angelo, di 11 anni. Ma l’alcol, e in particolare il vino, è stato difficile da lasciare. Adele, infatti, ha rivelato di aver avuto un passato da alcolista per molti anni. […]

Durante il suo show a Las Vegas sul palco del Colosseum Ceasar’s Palace, Adele con un bicchiere di vino in mano si è messa a dialogare con un fan, che le ha detto che stava bevendo da diverse ore. A quel punto Adele ha spiazzato tutti: «Goditi il tuo whisky sour. Sono molto, molto invidiosa». La frase ha lasciato tutti stupiti, e la cantante ha voluto spiegarsi meglio: «Ho smesso di bere circa 3 mesi fa. Però, la sobrietà è noiosa. Durante i miei vent'anni, ero quasi una vera e propria alcolista. Così, ho deciso di darci un taglio. Ho rinunciato anche alla caffeina».

E poi ha aggiunto che le manca molto l'alcol, e che la decisione di smettere è arrivata dopo i lockdown per il Covid. Durante le quarantene era arrivata a bere quattro bottiglie di vino al giorno, prima di pranzo. Così la star ha descritto quel periodo: “Volevo ultimare il mio album, 30. Però stavamo sempre in casa ubriachi”. […]  “È una noia adesso. Sono stata un’alcolista borderline per quasi tutti i miei vent’anni, mi manca molto”, confessa durante il concerto. 

E non è la prima volta che Adele parla della sua difficile relazione con l’alcool. Lo aveva già fatto nel 2022, in un’intervista con Oprah Winfrey, in cui aveva raccontato che i suoi problemi con l’alcool sono derivati dall’alcolismo di suo padre: “Ho sempre avuto una stretta relazione con l’alcool. Ne sono sempre stata affascinata. È ciò che ha tenuto mio padre lontano da me, quindi ho sempre voluto sapere cosa c’era di così bello”.

La cantante aveva raccontato nello show di Oprah Winfrey di aver smesso di bere dopo la morte del padre, Mark Evans, per un cancro all’intestino nel 2021. Il trauma l’aveva portata ad allontanarsi dall’alcol per poi riprendere, in un continuo tira e molla che ora sembra essere finito. Il periodo peggiore […]

Le confessioni di Adele: "Durante il lockdown ho bevuto anche 4 bottiglie di vino al giorno". La Repubblica il 29 Marzo 2023

La cantante lo ha rivelato durante un concerto nella sua residenza al Caesar Palace di Las Vegas. E ha poi rivelato: "Di questi concerti verrà fatto un film"

Da quando ha eliminato l’alcol dalla sua vita ha perso 45 chili. Ora si capisce come abbia potuto ingrassare così tanto. Sabato scorso, durante un concerto a Las Vegas, Adele ha confessato che in pieno lockdown ha bevuto fino a quattro bottiglie di vino. Anche di mattina, prima di pranzo. La confessione è arrivata mentre si esibiva al The Colosseum del Caesars Palace per Weekends with Adele. "Ricordo quando sono venuta qui durante il Covid, in lockdown. Erano le 11 e mi ero già bevuta quattro bottiglie di vino. Nel 2020 eravamo tutti a casa, praticamente sempre ubriachi".

La sua residenza a Las Vegas è stata un successo, ogni sera sold out. "Questa esperienza mi ha riportata in vita, qui mi sento al sicuro. Di solito mi vengono le farfalle nello stomaco, mi innervosisco, prego e incrocio le dita sul palco, ma questi spettacoli non mi rendono affatto ansiosa. Sono stati i quattro mesi migliori della mia carriera, gli show mi hanno dato tanta gioia e ho adorato farli».

Da qui la decisione di Adele di ripetere l’esperienza dal prossimo agosto a fine autunno. "Esibirmi davanti a quattromila persone per 34 notti non è sufficiente, quindi tornerò", quindi Adele ha rivelato che sulla residenza a Las Vegas verrà realizzato un film "in modo che tutti possano vedere lo spettacolo".

Celentano dopo Sanremo: «Ho letto i giornali, ora è certo che non posso tornare in tv». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023

Su Instagram il Molleggiato sembra riferirsi alla gara canora conclusasi ieri sera senza nominarla direttamente

Dopo i complimenti, venerdì, a Amadeus, conduttore e direttore artistico del Festival di Sanremo per aver portato per la prima volta il Presidente della Repubblica all’Ariston, e a Madame, la «grande novità di quest’anno per il pezzo e la straordinaria interpretazione», oggi Adriano Celentano, cantante, attore, provocatore sulla scena artistica da sessant’anni, scrive su Instagram: «Ho letto i giornali... Ora è certo: non potrò più tornare in televisione». Il «molleggiato» non la nomina direttamente, ma il riferimento sembra chiaro alle polemiche sulla manifestazione canora. L’ex ragazzo della via Gluck non potrà più portare le sue provocazioni sul palco o in studio.

Celentano ha partecipato al Festival di Sanremo cinque volte, vincendolo nel 1970, con «Chi non lavora non fa l’amore». Alla sua prima volta, nel 1961, esordì voltando le spalle alla platea in sala e a quella televisiva. Un gesto provocatorio in un festival fino a quel momento modello di bon ton e perbenismo. Un gesto che ruppe gli argini. Un anno dopo, «osò» sfidare il dominio delle case discografiche creando il Clan, una etichetta indipendente che riuniva una squadra di artisti-amici. Per non parlare del suo sostegno alla causa ambientalista quando ancora l’ambientalismo non era una causa: l'arruffato processo di urbanizzazione delle città finì nel mirino della canzone «Il ragazzo della via Gluck».

Adriano Celentano compie 85 anni: storia dell’orologiaio che vendette 200 milioni di dischi in rock senza sapere l’inglese

Premendo il tasto forwarding arriviamo velocemente al 3 ottobre 1987. Su Rai1, l’ammiraglia di Viale Mazzini, va in onda il primo dei silenzi di Adriano Celentano. Una svolta epocale nell’intrattenimento televisivo. A «Fantastico», durante un discusso monologo sulla caccia alla vigilia dei referendum abrogativi del 1987, il cantante invita gli elettori a scrivere sulla scheda la frase riportata sulla lavagna, «La caccia e contro l’amore» (dopo aver mostrato un cruento filmato di Greenpeace che documentava il massacro di cuccioli di foca da parte dei cacciatori per il mercato delle pellicce). Dimentico del fatto che scrivere frasi sulla scheda avrebbe comportato l’annullamento del voto, Celentano fu processato. La frase fece scalpore anche per l’errore commesso da Celentano di non accentare la «è» (errore che fu uno dei pretesti per incoronarsi «Re degli ignoranti»). Sui silenzi Celentano ha costruito una intera carriera. Se non è questa provocazione...

Dario Salvatori per Dagospia il 6 gennaio 2023.

Chissà se questa mattina Mina ha preso il telefono e ha fatto gli auguri di compleanno ad Adriano Celentano. Il rito si celebra da sessantacinque anni. Non è poco. Se era cartaceo cominciava sempre così: “Tanto Auguri! Molleggiatino mio!”. Nei Sessanta era spesso telefonico: “A pensarci bene a me sembra di non essere mai stata adulta. Subito responsabilizzata. Subito vecchia, quasi. Tu no. Tu ragazzo forever. Non ti sei mai stancato di fare casino.”

 Nei Settanta, il decennio in cui si sono frequentati di meno, bastava un segnale materno da parte della Tigre: “Da un paio di  pantaloni improbabili alla voglia di cantare il Celeste. Beato te!”.

 Nei dorati anni Ottanta gli auguri erano  quasi sempre materni: “Sei sempre in testa al gruppo, senza farsi sorpassare da immeritevoli inseguitori capaci di giovanilismi e modernismo, ma non di giovinezza o di modernità. Mi domando se ti possano aver salvato le proverbiali pause.”

 Ecco i Novanta: “E ti metti ad urlare di foche, petrolio, armi, cibo, dischi, ladri di verità. Solitamente tutti smettono di voler cambiare il mondo ad una certa età, quella bruttissima della resa, quando la delusione incombe e zittisce.”.

 Gli auguri del 2000 iniziano sempre così: “Ciao dove sei?”. Sono arrivati i cellulari, vicini ma invadenti, plastici ma inguardabili, con quell’antennone  che spunta da tutte le parti. Anche  chi ha cantato “Se telefonando” si adegua: “Dimmi che non è vero! Tu settant’anni! No, non è possibile. Mi sembrano passati cinque minuti da quando eravamo ragazzi. Oddio…ragazzi…”.

Arriva il nuovo secolo: tutto diventa liquido, addirittura le canzoni, i social, i video messaggi, i podcast, le app… Come saranno stati oggi  gli auguri di Mina ad Adriano? Proviamo. “85 anni il giorno della Befana solo te potevi festeggiarli. Non saranno certo loro a fermarti. Di questo sono più che sicura. Auguri, Adriano! Auguri davvero.”

 Quando fece il provino per l’Inter davanti al grande Giuseppe Meazza. Anche quella volta era già in controtempo. Era il 1952, la prima volta che i neroazzurri vincevano lo scudetto due anni di fila. A guidare l’attacco c’erano Lorenzi, Nyers, Amadei, Skoglund. Posti in piedi per tutti. E Peppin’ lo scartò.

 Molleggiato chi? Jack La Cayenne! Si esibiva al circo come ballerino di boogie-woogie, il rock and roll non era ancora arrivato, si faceva chiamare Torquato il Molleggiato. Poi semplicemente Molleggiato. E dunque Adriano doveva fare qualcosa di più: Supermolleggiato!

Bastò “Il tuo bacio è come un rock” e si comprò la Giulietta Sprint. Del resto le sue canzoni parlavano di emancipazione femminile, prendiamo “Che dritta!”(1960):

Si chiama Gabriella/ le piace far la bulla/ lei fuma le Mentola/si fa bruciar la gola/ per la misera che dritta/ senza la Giulietta/niente da far/ lei vuole  il tipo sui trenta/capelli tinta polenta/le piace far la grinta se vuol baciar.”

 Nel 1962 fonda il Clan con tutti i suoi amici. Mutuato dal Clan Sinatra. Non a caso  nei suoi uffici milanesi c’erano solo posacenere con una sorridente immagine di Sinatra. Così c’era più gusto a spegnere  la sigaretta sulla faccia di “The Voice”.

 Nel 1962 il primo ad arrivare al Clan è Ricky Gianco, che sente un brano appena uscito, “Stand by me”, cantato da Ben E. King. Il testo lo scrive Don Backy in una notte. In italiano diventa “Pregherò” però non lo incide Gianco ma il Boss e diventa un disco da un milione di copie. A Ricky propone di fare il “seguito”, “Lei vedrà”, ovvero la storia della non vedente che riacquista la vista.

 “Pregherò” coincide con la crisi mistica di Celentano. Bruciando tutti i mistici che sarebbero venuti dopo: George Harrison, John Lennon, Carlos Santana, Brian Wilson, Donovan, John McLaughlin e dozzine d altri. Il suo nume tutelare è padre Ugolino Vagnozzi. Sarà lui a sposarlo con Claudia Mori (ex fidanzata del calciatore della Roma Francisco Ramon Loiacono) nel 1964 e ad ufficiare  di nuovo la coppia  nel matrimonio dei cinquant’anni.

 Si chiudono gli anni spensierati del Clan e per Adriano arriva il momento ecologico,  naturalista ma soprattutto moralista. Un periodo che si apre con “Il ragazzo della via Gluck”, il suo brano più autobiografico, presentato al Festival di Sanremo del 1966, che non entra nemmeno in finale. Celentano diventa ambientalista, Dc, anti sindacalista, cattolico ma estraneo a l’ortodossia, si salva con l’ironia del baratro reazionario. Si impegna senza limiti, difende il suo diritto a dire cazzate.

 Arriva il “Fantastico” del 1987 e Celentano cambia stile ma non troppo, inventa la “pause”, lui che ha sempre frequentato il rock and roll in battere, crea dei “ritardi” jazzistici, cari a Nat King Cole. Uno storico come Arturo C. Quintavalle apre l’antifona: “Il –Fantastico- di Celentano serve per far capire e per capire noi stessi, serve per aprire rapporti diversi fra noi e il mondo, fra l’Europa e il Paesi della povertà, ma anche fra noi e gli spettacoli che alcuni si ostinano a definire –leggeri-. Apriti cielo. Le proteste dei delusi e si spiegano i consensi entusiastici di altri.

Celentano mi ha sempre annoiata. Oltre tutto, ora che è vecchio avrebbe potuto imparare qualcosa”  (Camilla Cederna)

 “Bisogna cacciarlo subito. Perché è incapace, presuntuoso, arrogante, maleducato, perché perde il suo tempo facendo un mestiere che non è capace di fare. (Roberto Gervaso)

 Non ho visto –Fantastico- perché il sabato sera io esco. Spero che lo facciano anche i telespettatori.”  (Beppe Grillo)

 “E’ uno svitato che parla a vanvera”  (Indro Montanelli)

 “Ho visto la trasmissione, purtroppo, e avrei potuto risparmiarmi il disturbo.”

(Pippo Baudo)

 “Se fossi il direttore della Rai lo butterei fuori” (Edmondo Bernacca)

 “L’irresistibile gag del sabato sera è –il cretino di talento-.” (Giorgio Bocca)

L’esibizione mi è parsa il tipico esempio di fascismo emozionale. Celentano dovrebbe concludere la sua esibizione a –Fantastico- come nel film –Quinto potere-, cioè uccidendosi.” (Roberto d’Agostino)

LE CANZONI

Le gemme

Il tuo bacio è come un rock (1959)

Il ribelle (1959)

Teddy girl (1959)

Che dritta” (1960)

ADRIANO CELENTANO E BEPPE GRILLO

24 mila baci (1961)

Stai lontana da me (1962)

Non mi dir (1965)

La festa (1965)

Il ragazzo della via Gluck (1966)

Mondo in mi 7° (1966)

Torno sui miei passi (1967)

Azzurro (1968)

Prisencolinensinainciusol (1972)

Svalutation (1976)

Acqua e sale (1998)

 Racchie

Furore (1961)

Grazie, prego, scusi (1962)

E voi ballate (1965)

Storia d’amore (1969)

Chi non lavora non fa l’amore (1970)

Sotto le lenzuola (1971)

Bellissima (1974)

Un’altra volta chiudi la porta (1975)

Il tempo se ne va (1980)

Giornata nein (1982)

Uomo (1982)

Jungla di città (1983)

Uh… uh… (1983)

Susanna (1985)

Adriano Celentano compie 85 anni: storia dell’orologiaio che vendette 200 milioni di dischi in rock senza sapere l’inglese. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Il Molleggiato è arrivato al traguardo con una parabola che sembra quella di un extraterrestre, a partire da quel lontano 1954 in cui scoprì la «musica nuova»

Come ogni extraterrestre che si rispetti, è arrivato sul nostro pianeta grazie alle comete. In occasione del suo 85esimo compleanno è giusto ricordare che Adriano Celentano è nato due volte: la prima, il 6 gennaio 1938 in una modesta palazzina a due piani di via Gluck 14 a Milano (dove, peraltro, incredibilmente, non c’è una targa che lo ricordi). La seconda, in un giorno imprecisato del 1954, quando un amico arrivò di corsa nel negozio d’orologiaio del signor Tranquillo Galvani dove Adriano lavorava come apprendista e gli disse che era arrivata una musica nuova, il rock’n’roll di Bill Haley and the Comets. “Quando l’ho sentito, è come se mi fosse entrato un fulmine nella testa”, raccontò Celentano molti anni dopo all’amica Fernanda Pivano, in quella che è probabilmente la più bella intervista di una carriera straordinaria (nel libro “Complice la musica”, Bur). Elvis Presley non era ancora arrivato in Italia, i Comets di Haley erano ancora un fenomeno di nicchia che lui capì immediatamente, tra i primissimi nel nostro Paese.

E così, lui che era l’unico in famiglia a non aver mai suonato strumenti – il papà, immigrato dalla Puglia, amava il mandolino – diventò musicista: cominciò in periferia, nella sala da ballo della Cooperativa Filocantanti di via Arese nei pressi di viale Zara, cantando “L’orologio matto”, cioè “Rock around the clock” (la generazione successiva la conoscerà come sigla di “Happy Days”), in italiano, con quattro amici detti i “Rock Boys”. “Piaceva talmente, anche perché era il primo a far questo genere, che a un certo punto si divertiva a portar via clienti da una sala per travasarli in un’altra dove rifaceva il numero”, scrisse sull’Espresso Camilla Cederna elogiando quell’adolescente che aveva inventato “un tipo di cantante assolutamente nuovo e tutto italiano, in cui il milanese felicemente si fonde con il meridionale”.

Non renderebbe giustizia al giovane Celentano – e neanche al signore 85enne di oggi, che ha ancora una stanza della villa adibita a laboratorio d’orologeria: il suo vero mestiere, la musica è il suo hobby, dice spesso scherzando – classificarlo come genio spontaneo della musica, come fenomeno capace d’imparare in un istante il rock’n’roll senza sapere l’inglese e arrivando così a vendere 200 milioni di dischi attraverso sette decenni, e a recitare in film campioni d’incassi senza aver mai formalmente studiato recitazione, a finire primo e secondo nello stesso Sanremo sottolineando pragmaticamente che se avesse portato tre canzoni sarebbe arrivato anche terzo, e a creare un fenomeno mediatico (e politico) con il suo “Fantastico” televisivo, quando ordinò al pubblico di spegnere la tv per 5 minuti e 8 milioni d’italiani (due terzi dei voti della Dc, il doppio del Psi) obbedirono.

Perché il genio di Celentano non esisterebbe senza il talento dell’orologiaio: smontare e rimontare un meccanismo complicatissimo per capire come funziona, e imparare a rimetterlo insieme, come fece da ragazzino – quand’era ancora un fiulett – con il grande orologio del bar sotto casa che s’era rotto, e lo riportò perfettamente in funzione nell’ammirazione generale. Smontare e studiare maniacalmente la chitarra elettrica dei Comets, la voce di Haley, il blues a 12 misure, i fianchi di Presley che accompagnavano quella che in America veniva vista come “musica del demonio” ma lui rese subito amichevole, travolgente, calorosa – in una parola, italiana, smontare la recitazione di Brando ne Il selvaggio, gli sketch di Jerry Lewis.

I suoi grandi successi – “greatest hits” come dicono quelli che a differenza di Celentano sanno l’inglese ma non hanno venduto 200 milioni di dischi – sono troppi per elencarli, da “24.000 baci” a “Il tuo bacio e’ come un rock”, ma basta “Azzurro” per riassumere tutto Celentano: scritta da Paolo Conte, dal ’68 in poi è stata cantata da legioni di artisti in tutto il mondo, “cover” di extra lusso da Mina a Régine, ma la versione di Celentano non è soltanto la prima, è in un certo senso l’unica (ci perdoni l’avvocato Conte, che resta uno dei grandi compositori della nostra epoca) perché diversa da tutte le altre, inimitabile in quel modo sfuggente che è la cifra di Celentano da quasi settant’anni.

Federico Fellini aveva capito tutto subito, vedendo su una rivista le foto di un concerto allo Smeraldo di Milano (oggi è un grande magazzino di alimentari) nel quale uno sconosciuto cantante rockettaro aveva provocato disordini tra i fans, e l’aveva convocato a Roma per “La dolce vita”. Forse per l’unica volta nella sua vita, intimidito davanti al maestro, tacque. Disse soltanto, quando Fellini spiegò che la protagonista era Anita Ekberg, “Urca”, e bastò quello. Sposato da 59 anni con Claudia Mori, tre figli (Rosita, Giacomo, e Rosalinda), disse 12 anni fa a Fernanda Pivano che il suo progetto per il futuro era quello “di saltellare ancora un po’”, che è l’augurio migliore da dedicargli anche oggi.

Adriano Celentano compie 85 anni: tutto quello che non sapete di lui. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Il compleanno del Molleggiato

Compie 85 anni proprio oggi Adriano Celentano, cantautore, attore e showman a tutto tondo. Il Molleggiato (soprannome che deve al modo di ballare particolarmente dinoccolato che l’ha contraddistinto a inizio carriera) è nato il 6 gennaio 1938 a Milano, in via Gluck 14, quella via che diventerà celebre con la sua canzone del 1966.

Il ragazzo della via Gluck

I genitori di Adriano Celentano sono di origine pugliese: arrivano nel nord Italia da Foggia per cercare lavoro, stabilendosi prima in Piemonte e poi in Lombardia, nella casa milanese di via Gluck (una strada non distante dalla stazione Centrale, che ne costeggia i binari). Rievocando la sua infanzia nella famosissima canzone che portò a Sanremo nel 1966 - «Il ragazzo della via Gluck», appunto - Celentano precorre i tempi e per la prima volta fa entrare il tema dell’ecologia nella musica, parlando di speculazione edilizia. A dispetto del successo che poi riscuote, a Sanremo il brano si piazza negli ultimi posti della classifica, non riuscendo ad arrivare in finale.

L’amore con Claudia Mori

Adriano Celentano e Claudia Mori sono sposati da 58 anni: la «coppia più bella del mondo» (come cantano nel celebre duetto) si conosce nel 1963, durante la lavorazione del film «Uno strano tipo». Si sposano l’anno dopo, in segreto, nella chiesa di San Francesco a Grosseto, e hanno tre figli: Rosita, nata nel 1965, Giacomo (1966) e Rosalinda (1968). Il sodalizio fra Celentano e Mori è anche professionale, visto che è lei a essere amministratrice delegata della «Clan Celentano srl» e a farsi spesso sua portavoce.

La prima fidanzata, Milena Cantù

Quando Celentano conobbe (e sposò) Claudia Mori, era in realtà già impegnato: il cantante era fidanzato dal 1958 con Milena Cantù, conosciuta quando faceva la commessa in una profumeria e poi lanciata come cantante con il Clan Celentano. Cantù, in seguitò, sposò Fausto Leali (da cui divorziò nel 1983) e proseguì l’attività artistica come autrice di testi.

Cinque volte a Sanremo

Celentano è uno dei primi artisti ad appassionarsi al rock in Italia e a travolgere il pubblico con la sua ventata di cambiamento. Nel 1961 partecipa al Festival di Sanremo con il brano «24mila baci» insieme a Little Tony e scandalizza tutti perché volta le spalle alla platea per qualche secondo: «Il mio era un genere nuovo, il rock era qualcosa di sovversivo. Andavano per la maggiore Villa, Tajoli, Tonina Torielli e a me non dava retta nessuno. Quando portai 24 mila baci a Sanremo mi dicevano che ero un violento. Per un festival di Sanremo ero quasi una provocazione con quei movimenti del corpo. Ci fu perfino una interrogazione parlamentare perché, per qualche attimo, voltai le spalle al pubblico dei telespettatori», racconta poi lui stesso a Mario Luzzatto Fegiz. A Sanremo torna altre quattro volte come concorrente, vincendolo nel 1970 in coppia con la moglie Claudia Mori con il brano «Chi non lavora non fa l’amore». In anni più recenti, invece, il Molleggiato è stato al Festival come ospite.

La parentela con Alessandra Celentano

Adriano Celentano è lo zio di Alessandra Celentano, ex ballerina e coreografa, molto nota perché è insegnante di danza (super severa) al talent show di Mediaset «Amici di Maria De Filippi»: il padre, Alessandro Celentano, era fratello maggiore di Adriano ed è morto nel 2009.

Chiuso in casa durante la pandemia

«Io e Claudia siamo chiusi in casa da un anno praticamente, ci hanno portato il vestito a righe come i carcerati». L’anno scorso Adriano Celentano è intervenuto a sorpresa a «Domenica In» tramite collegamento telefonico e ha raccontato come stava vivendo la pandemia. Ha poi aggiunto che sia lui sia la moglie Claudia Mori avrebbero fatto quanto prima il vaccino: «Volevo dirti che io non mi sono mai vaccinato, ma questa volta sono d’accordo di farlo e anche Claudia», ha detto il Molleggiato.

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” domenica 29 ottobre 2023.

Ha 78 anni e la barba bianca, ma è sempre un vulcano di passione, entusiasmo e parole a raffica che - se fosse in tv - sarebbero continuamente interrotte dal beep del politicamente corretto. Adriano Pappalardo, basta il nome. […] 

Come se la passa?

«Benissimo. Per due motivi: lo scorso 23 settembre Amadeus mi ha invitato a Verona per Arena Suzuki, una delle sue serate musicali su Rai1, e mi sono esibito di fronte a quattro generazioni che mi hanno accolto con un affetto incredibile. E fra loro c'era anche mio figlio Laerte.

La prima volta che ero stato all'Arena, quarantadue anni fa, il patron del Festivalbar, Vittorio Salvetti, neanche mi voleva. Era stato costretto a chiamarmi per via del clamoroso successo di Ricominciamo. In prima fila c'era anche mio padre, che non aveva mai creduto nelle mie scelte. Dopo avermi visto, nel camerino mi prese per un braccio per dirmi: "Sono orgoglioso di te. Bravo Adriano"». 

E il secondo?

«Sono soddisfatto e sereno: faccio i miei concerti e non vado più in tv a fare reality, talent show e via dicendo. Mi sono stufato: oggi non dico più "sì" quando in realtà vorrei dire "no"». 

È successo spesso il contrario?

«No. Però a volte per contratto mi sono trovato a fare cose che non mi piacevano e io sono uno che ha sempre fatto di testa sua.

In tv ho avuto anche la fortuna di lavorare con la più brava di tutti, Simona Ventura». 

Quest'anno anche Simona Ventura partecipa a "Ballando con le stelle": Milly Carlucci non l'ha mai invitata alla gara?

«No. E non accetterei mai».

Perché in giuria c'è Selvaggia Lucarelli , mamma del suo unico nipote (Leon, 18 anni, nato dal matrimonio, durato dal 2004 al 2007, fra la giornalista e Laerte Pappalardo, 47)?

«No. Perché non mi piace essere giudicato, anche se già so di non saper ballare. Solo se mi offrissero 400 mila euro, andrei e mi lancerei anche in un tango argentino. Altrimenti non se ne parla. Per l'Isola dei famosi guadagnai solo 30mila euro». 

La separazione fra Selvaggia Lucarelli e suo figlio fu un po' complicata: adesso che rapporti ha con lei?

«Normalissimi. Quando la vedo in tv la seguo. È brava. La stimo. È una donna che ha fatto quello che fatto, se n'è andata a Milano, ma va bene così. È tutto a posto».

[…] 

Per quale motivo l'ultimo disco l'ha inciso nel 1988?

«Per colpa di Battisti. Nel 1971 Claudio Fabi, papà di Niccolò, mi presentò a Lucio, che mi mise sotto contratto con la sua etichetta Numero Uno - sua e di Mogol - quella con Gianna Nannini, Pfm, Bruno Lauzi, Tony Renis e tanti altri. Ero uno sconosciuto e diventai un fenomeno. Gli devo tutto. Da allora passammo quattordici anni sempre insieme. Facevamo surf, immersione, vela. E anche delle grandissime mangiate. Poi si separò da Mogol, perché voleva fare altro, e insieme incidemmo due album scritti da me e prodotti da lui, di cui sono orgogliosissimo: Immersione nel 1982 e Oh! Era ora nel 1983. Insieme eravamo trent'anni avanti a tutti. Dopo lui si mise a fare altro e a me passò la voglia. Sentivo di aver detto tutto. Pasquale Panella, però, l'autore dei testi del secondo Battisti, gliel'ho fatto scoprire io. Aveva scritto per me».

A lei piace di più Battisti con Mogol o Panella?

«Fantastico con tutti e due. Sono sincero: non so scegliere». 

È vero che Lucio Battisti non amava tanto Mina?

«Non posso dirlo, dai». 

Questa storia circola da anni.

«Diciamo che la voce gli piaceva tanto ma spesso - diceva - l'emozione dentro la canzone non c'era». 

E perché ce l'aveva così tanto con Claudio Baglioni?

«Lucio registrò album in Inghilterra e Baglioni, dopo di lui, scelse stesso studio, produttore e arrangiatore... Se in studio non cantavo bene, bloccava tutto e diceva: "Così non va, mi sembri Baglioni...". Era fatto così».

Come arrivò al cinema?

«Grazie a Sergio Corbucci, che nel 1984 mi venne a cercare per propormi di lavorare in A tu per tu con Paolo Villaggio e Marisa Laurito. In seguito recitai con Marco Risi (L'ultimo Capodanno, ndr), Monica Bellucci, Beppe Fiorello, Claudio Santamaria, Ricky Tognazzi (Canone inverso, ndr), Riccardo Scamarcio (in Quasi orfano, ndr), in teatro con Johnny Dorelli (Aggiungi un posto a tavola, ndr), in tv con Michele Placido (La Piovra, ndr)». 

Se negli Anni 70 e 80 si fosse schierato politicamente avrebbe potuto avere di più?

«Certo. L'hanno fatto tutti, o quasi. Io però non ho mai chiesto favori a un politico, né a un dirigente Rai o Mediaset, non ho mai preso una tessera, né sono mai stato a quelle serate elettorali dove leccando si otteneva sempre qualcosa. Io devo ringraziare solo me stesso e la mia voce. Anche se sono caduto spesso, rialzandomi sempre con dignità».

Nel 2016 i era esposto con il Movimento 5 Stelle, però.

«È vero. E mi sono scottato, che delusione... Mi piaceva, Beppe Grillo. A Roma votai anche per la Raggi sindaco. Non lo farò mai più, né per loro né per altri». 

Dopo il brutto incidente del 2016 va ancora in parapendio?

«Certo. L'ultima volta dieci giorni fa. Senza non vivo. Mi piace il contatto con la natura e quando volo mi sento un ragazzino. Ho il brevetto per l'aliante, il deltaplano e il parapendio». 

Si stava ammazzando: cosa sbagliò?

«Un amico mi convinse ad andare con lui, anche se la giornata non era buona. Poi il cielo si ripulì, mi lanciai, e durante una manovra si chiuse l'ala all'improvviso e feci un salto di sette metri. Pensai di morire. Mi spaccai il malleolo e un paio di costole, una di queste mi pizzicò un polmone. Dopo otto mesi in carrozzina, però, sono tornato lassù». 

Dopo l'imbarazzante lite con Antonio Zequila a "Domenica In", nel 2006, con Mara Venier ha mai avuto un chiarimento?

«Sì, dopo due anni. Siamo tornati amici. È una persona speciale». 

[…]

Uno come Fedez le piace?

«No. Se lo vedo in tv cambio canale». 

Sul Nove ha Peter Gomez ha detto che le piace Sfera Ebbasta: conferma? E perché?

«Ahahahah (ride, ndr)... L'ho detto così, per dire. Non lo conosco e non lo voglio conoscere. Quelle canzoni, con quei testi sulle droghe e contro le donne, non appartengono al mio mondo». 

La cosa da fare assolutamente nei prossimi anni?

«Cantare in teatro i miei ultimi due album per fare capire a tanta gente che non sono solo quello di Ricominciamo». 

 Quando sarà, fra cent'anni, che fine farà: inferno o paradiso? «Purgatorio di sicuro. Poi deciderà Lui. E se sarà inferno, aspetterò l'era glaciale. Qui non si molla mai (ride, ndr)».

Cacciata salutata da Recep Tayyip Erdogan con queste parole: «Ci ha reso orgogliosi il fatto che l’Azerbaigian abbia portato avanti l’operazione militare in tempi brevi e con il massimo rispetto per i civili». Testuale. 

Non bastasse, il presidente turco ha aggiunto alla sua perorazione in difesa di Hamas qualche altra parola sulla guerra in corso: «Avevamo buone intenzioni, ma sono andate alla malora. Avevamo in programma di andare in Israele, ma non ci andremo. La metà delle vittime palestinesi sono bambini, cui vanno aggiunte donne e anziani. Un massacro che sta raggiungendo le dimensioni di un genocidio». Rileggiamo: genocidio. Esattamente quella parola contro cui da anni si ribella furioso quando qualcuno osa accostarla alla mattanza degli armeni in Turchia un secolo fa. Due pesi, due misure.

Adriano Pappalardo: «Io e Battisti a fare surf, non l’ho mai visto così felice. Renato Zero era mio fan e mi chiese una foto insieme». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023

Adriano Pappalardo: «Venditti è un grande amico, ma per poco il mio dobermann non gli staccava una mano. Mio nipote Leon mi ha fatto cantare al telefonino per la sua classe» 

«Provino alla Numero Uno in Galleria del Corso a Milano. Tre stanze più ingresso. Mi accoglie Claudio Fabi, papà di Niccolò. “Lucio non lo chiamo sennò si arrabbia”. Si mette al pianoforte. “Cantami Yesterday alla tua maniera”. Attacco. A metà brano la porta si spalanca e sbuca un capoccione di ricci con il foulard alla gola. Battisti. Quasi mi viene una paralisi. Mi guarda. “E questo chi è?”. “Un mio artista, lo porto alla Durium”, risponde Fabi. Lucio caccia un urlo per chiamare Mogol: “Giulio! Giulioooo! Viè qua”. E a me: “Come te chiami? Pappachè? Pappachì? A’ Clà, e tu me lo vuoi fregare? No, sto Pappafico me lo piglio io”». E questo fu il primo incontro (1970) tra Adriano Pappalardo — 78 anni e ruggito inconfondibile («Ci provo a parlare piano ma urlare mi viene naturale») – e il suo mentore/produttore/amico Lucio Battisti.

Al secondo diede una testata al muro.

«Avevamo improvvisato una jam session, io, lui, Mario Lavezzi e Alberto Radius. Tirammo per un’ora e mezza. Preso dalla foga, mi dimenavo. E diedi una craniata allo spigolo, mi colava il sangue sulla fronte però continuavo a cantare. Lucio si preoccupò. “Oh, che ti sei fatto male?”».

Niente nome d’arte?

«Alla firma del contratto, Mogol era dubbioso. “Pappalardo sembra uno che vende cavalli alle macellerie”. Propose Adrian Peppard. Lucio non era convinto. “Senti Giulio, questo è grande e grosso, ha gli occhi piccoli e neri e un gargarozzo che pare l’ottavo colle di Roma, lasciamogli il suo. O fa il botto o il pubblico lo manda a quel paese”».

Il suo collo in effetti è leggenda. Se l’è mai misurato?

«No, però non era così enorme, solo che quando cantavo spingevo col diaframma e mi si gonfiava la giugulare, le telecamere mi inquadravano sempre lì e parevo King Kong. Renzo Arbore raccontò che portavo una protesi».

E questo suo vocione, quando le è comparso?

«Boh, verso i 14 anni, mica a cinque. Quando dissi a mio padre Giuseppe, elettricista, che volevo cantare, rispose: “Mi prenderà in giro tutto il paese”. Facevo il liceo classico con la media del sei, a parte 4 in condotta e 8 in greco. Al terzo anno smisi di andarci. Uscivo alle 8 e mi nascondevo da zio Franco che suonava il bombardino nella banda, mi rimettevo a dormire fino a mezzogiorno, facevo colazione e tornavo a casa all’una e mezza. Quando portai la pagella con “Non classificato”, papà mi tirò una scarpa».

Nel 1972 fece furore al Festivalbar con “È ancora giorno” di Mogol-Battisti.

«In sala di incisione cantavo a occhi chiusi, concentrato. A un tratto sentii una voce in tre tonalità più alte. Mi voltai, era Lucio. Poi però voleva cancellarla. “Non solo ti regalo il pezzo ma pure il coretto? Ma vaff... va”. Alla fine la lasciò. E si piazzò seconda in una hit parade piena di brani di Battisti, dietro a I giardini di marzo. E Lucio: “A’ Pappafì, mica vorrai arrivare primo eh?”».

Diventaste inseparabili.

«Abitava a cento metri da me. Andavamo a fare surf a Bracciano, lui era bravo, ma restava sempre vicino alla riva. Un giorno gli proposi di arrivare ad Anguillara. “Sei matto?” Aveva paura che cadessi e affogassi. Ce l’abbiamo fatta. E non l’ho mai visto così felice».

Lo convinse a correre.

«Lucio era piazzatello, aveva le gambe grosse, io già correvo la 10 km. “Puoi farlo anche tu, ti alleno io”. “No che mi viene l’infarto”. Si convinse. Dopo due mesi si presentò con una ruota contametri. Ai 5 km mi abbracciò».

Negli studi della Rca conobbe un sacco di gente.

«Lucio Dalla suonava il piffero e faceva strani vocalizzi. Claudio Baglioni cantava le stornellate: “Me so magnato er fegato…”. Una sera, al Cenacolo, ritrovo per artisti, vidi Ennio Melis giocare a carte con un capellone con i Ray-Ban. “Ma chi è?”, chiesi. “Venditti, ha scritto un pezzo forte, Roma Capoccia, questo sfonda”. Antonello è uno dei due amici veri nella musica. Tempo fa l’ho incontrato a via Cola di Rienzo, lui a piedi io in auto, dietro c’era il dobermann di mia moglie, che gli si è lanciato addosso. “ Ahò,a momenti me stacca ‘na mano”».

L’altro è Renato Zero.

«A una presentazione per la stampa arrivò questo tizio vestito di pizzo, lo guardavano tutti ridendo. Mi si avvicinò al trucco. “Ciao, mi chiamo Renato, sono un tuo ammiratore facciamo una foto insieme?”. Da allora diventammo amici. Quando è nato mio figlio Laerte voleva fargli da padrino, poi l’ho battezzato io al mare, senza prete. Un giorno stavo al semaforo con la mia Harley, un tipo su una Smart mi suonava il clacson, mi sono girato pronto a mandarcelo. “Non mi riconosci, so’ Renatino!”»

Non c’è Adriano senza “Ricominciamo”.

«Era il 1979, venivo da quattro anni di insuccessi, non mi voleva più nessuno. C’era questa musica. Luigi Albertelli mi chiese: “Cosa vorresti dire?”. “Vorrei aprire una finestra e mandare tutti affan…o”».

«E lasciami gridare/Lasciami sfogare/Io senza amore non so stare».

«Ho venduto 5 milioni di copie. Con la versione spagnola Recomencemos ho battuto pure Julio Iglesias».

Al cinema debuttò in “A tu per tu”di Sergio Corbucci con Dorelli e Villaggio.

«In una scena dovevo cacciare di casa Villaggio, prendendolo per un orecchio. Non regolai bene la forza. “Ahi! A momenti me lo stacchi”, urlò Paolo. Sul set di Rimini Rimini incontrai Laura Antonelli, una dea. Le confessai: “Ti amo, ma sono sposato”».

Ex suocero di Selvaggia Lucarelli. Come va tra voi?

«Quando mio figlio mi annunciò che si sposava, gli ho detto: “Io non metto il dito”. I primi due anni tutto bene, poi c’è stato qualche scontro, ma ora le voglio un gran bene, è la madre di mio nipote Leon, guai a chi me la tocca”».

E con Leon?

«Ha voluto che gli cantassi Ricominciamo sul telefonino per tre compagne di classe e il professore. “Nonno, sono tutti tuoi fan”».

In tv va poco e niente.

«Non mi piace più, ci sono solo reality e altre putt...e».

Pure lei però andò all’”Isola dei Famosi”. E fu bandito dalla Rai dopo un litigio trash con Antonio Zequila a “Domenica In”.

«Fu colpa sua, urlò che voleva tagliarmi la gola. E di Mara Venier, che lo lasciò fare per il 25 per cento di share. Io ho avuto il meglio, con Baudo e la Carrà. Faccio solo quello che mi va. Ma ai miei concerti è pieno di ragazzini».

Franco Giubilei per “Specchio – la Stampa” il 10 aprile 2023.

Un successo colossale è un'arma a doppio taglio, perché la canzone finisce per confondersi col cantante, stringendolo in un abbraccio soffocante: «La cosa che mi distrugge è che appena salgo su un palco il pubblico mi chiede Ricominciamo e io la canto, certo, ma non ce la faccio più... Questa canzone sarà il mio epitaffio».

 Adriano Pappalardo ovviamente è conscio di quanto gli abbia dato un pezzo da sette milioni di copie di cui realizzò una versione in spagnolo che da sola ne fece due milioni e mezzo, ma tutto ha un prezzo, perché d'altra parte «ci si è dimenticati la canzoni che ho fatto con Lucio (Battisti, ndr)».

[…]  «Ho 78 anni e resto un incazzato di natura, faccio sub e parapendio, lo sport è sempre stato una mia grande passione». Tanto grande da aver coinvolto a suo tempo anche Lucio Battisti, l'artista cui lo lega una storia fatta di musica e amicizia: «Lucio non faceva neanche venti metri a piedi ma io lo allenai ai dieci chilometri di corsa. Insieme abbiamo fatto anche pattinaggio a rotelle, vela e surf, pure d'inverno», ricorda il cantante.

 […]

 A tredici anni, oltre tutto, il piccolo Adriano aveva già un vocione impressionante: «Da bambino facevo paura anche a mio padre, poi un giorno sentii una voce e mi dissi: tu devi cantare, e sarai pure il numero uno». La gavetta allora passava dai concerti nei ristoranti - «pagato 5mila lire a sera o con un piatto di spaghetti» -, poi qualcuno lo sentì cantare, le cose cominciarono a ingranare, arrivò il primo contratto e le canzoni scritte per lui da Battisti.

Se il successo arrivò fu anche merito di sua moglie Lisa Giovanoli, al suo fianco da cinquant'anni, di cui ricorda il ruolo chiave quando Ricominciamo venne proposta al Festivalbar: «Salvetti (il patron, ndr) non la volle e mia moglie ebbe l'idea di proporla alle radio: arrivò al terzo posto in classifica e allora mi presero come superospite all'Arena di Verona».

 […] alla fine degli Anni 60 lo sentirono cantare e lo invitarono a Milano: «Era la nuova etichetta di Lucio, mi chiesero di cantare Yesterday e a un certo punto si spalanca la porta, vedo un capoccione riccio col foulard, era Battisti che diceva "Hai sentito che voce, ma chi è, Pappa chi..?"».

Una svolta decisiva che lo porta al grande pubblico: «Con È ancora giorno ho venduto cinque milioni di copie, Lucio mi fece anche la terza voce in falsetto». La collaborazione fra i due continua, poi Battisti parte per gli Usa, ma al suo ritorno si rifà vivo: «Era innamorato dei Talking Heads, mi disse di scrivere e ne nacquero due lp. Lucio si fece presentare Pasquale Panella con cui cominciò a lavorare».

Un'amicizia che si consolida fra corse insieme e serate in trattoria. «Gli piaceva molto mangiare bene, poi si ammalò e una sera alla tv seppi che era morto». Un dolore enorme e un concerto a Roma con Formula 3 ed Equipe 84 per ricordarlo.

 Poi la vita è andata avanti, fra il cinema con Corbucci e L'isola dei famosi in tv, fino all'allontanamento dalle scene che oggi non sembra pesargli granché: «In tv non ci vado più, la trovo orribile». Dietro le quinte, la figura fondamentale della moglie, cui ogni tanto si rivolge anche durante la nostra chiacchierata: «È la mia compagna, la mia sposa, la mia amante».

Dal podcast "One More Time" venerdì 8 dicembre 2023.

“Avevo 22 anni quando è scomparsa mia sorella, ero già qua in Italia. Mia madre e mia sorella sono partite  per fare un viaggio, sono andate nei Caraibi, poi quando sono tornate indietro le hanno rapite e le hanno uccise tutte e due. Non sappiamo niente di più. Quando lo racconto le persone rimangono basite perché lo racconto con tanta tranquillità. 

La verità è che loro sono dentro di me. Io le ricordo con tanto amore, ricordo mia madre quando ballava le canzoni di Bob Marley… voglio ricordarmi questi momenti. Ho cercato di tenermi il meglio di loro”. Così Ainett Stephens intervistata da Luca Casadei nella nuova puntata del podcast One More Time di OnePodcast. 

Una storia tristemente nota, che la celebre modella e showgirl venezuelana – famosa in Italia come la “gatta nera” del Mercante in fiera - ha reso pubblica un paio di anni fa, ma senza mai entrare nel profondo del complicato rapporto con la madre. Racconta a Casadei: “A livello di relazioni con altri bambini la mia è stata un’infanzia molto gioiosa. Ma mia madre non è mai stata una madre affettuosa, era molto fredda, lavorava tutto il giorno ed era molto severa. Noi eravamo tutti molto indipendenti.

Adesso che sono una donna mi rendo conto che con i miei fratelli non abbiamo mai affrontato veramente il tema della perdita di mia madre. Abbiamo avuto tante mancanze emotive, troppe cose dolorose, e siamo cresciuti come piante selvagge. Non abbiamo avuto nessuno che ci ha veramente seguito” . “Io ho vissuto qualche anno con mia nonna e posso dire che tutto ciò che sono lo devo a lei. Quando mia nonna mi preparava il panzerotto fritto io me lo ricordo, perché lei lo faceva con amore. Invece mia mamma lo faceva quasi per dovere. Sono quelle piccole cose che i bambini colgono”. 

Nell’intervista parla del contesto familiare nel quale è vissuta - “Eravamo 8 fratelli. Mia madre ci ha cresciuti da sola, mio padre provvedeva solo economicamente. Vengo da una città venezuelana di periferia, abitavo in un quartiere carino, eravamo una famiglia povera ma le cose basiche le avevamo” – ed emergono violenze e traumi che l’hanno profondamente segnata: “Abbiamo vissuto delle violenze da parte di un marito di mia madre. Per qualunque cosa ci picchiava. Arrivava la polizia in casa, lui minacciava mia madre con un coltello, l’attaccava al muro… io avevo 5 o 6 anni”

Un’infanzia e un’adolescenza segnata anche dal bullismo e dal razzismo di cui è stata vittima: “Il venezuelano tipico è olivastro e c’è un grosso problema di razzismo – oggi mi dicono un po’ meno ma allora era molto molto grave - e quindi ogni giorno a scuola ero bullizzata e derisa perché ero nera, è arrivato un momento che non volevo nemmeno andare più a scuola. 

Al casting per Miss Venezuela avevo 17 anni, eravamo 54 ragazze, ero l’unica nera e mi prendevano tutte in giro. Ho fatto il casting solo perché ha insistito mia mamma, però poi ho vinto e sono stata ammessa al concorso. Ma mi sono accorta di essere bella solo quando sono arrivata in Italia”. 

È proprio l’arrivo in Italia a dare una svolta alla vita di Ainett Stephens. Qua comincerà a lavorare come modella e poi come showgirl: “I miei fratelli quando mia madre è morta sono rimasti letteralmente in mezzo di strada. Hanno vissuto situazioni di pericolo. Io ero già in Italia ma non aveva la disponibilità economica per aiutarli. Poi da Dio è arrivato questo grande dono e nel giro di un anno improvvisamente ho iniziato a lavorare in tv e tutto è cambiato”.

Nella lunga intervista Ainett parla anche di suo figlio, a cui a due anni è stato diagnosticato l’autismo: “Dopo due anni dalla sua nascita ci siamo accorti che qualcosa non andava. A due anni ha smesso di parlare, saltava, giocava ma non parlava. Lo abbiamo portato da una neuropsichiatra e appena Christopher è entrato, lo ha osservato per qualche minuto e ho capito subito da come lo guardava che c’era qualcosa che non andava. Abbiamo fatto ulteriori analisi e la diagnosi è stata di autismo”. 

“A noi questa notizia c’è arrivata “senza anestesia”… Io ho sofferto tantissimo, forse più del padre, nel senso che l’ho presa con più dramma”. “Non si può guarire. Dovevamo decidere quale percorso riabilitativo scegliere, ce ne sono tanti, ed eravamo ancora sotto choc. Poi devi parlare con i parenti, e io ho aspettato tanti mesi… devi avere il tempo di metabolizzare, realizzare e accettare soprattutto” 

Un percorso di accettazione complesso, che l’ha portata a vivere un periodo di grande depressione, dal quale è uscita cercando conforto e forza nella fede: “La perdita di mia madre in maniera tragica e questa diagnosi sono state le prove più dure della mia vita. È stata come una valanga. Ero depressa, l’ho capito dopo, non volevo uscire, continuavo a mangiare, ero ingrassata. Mi sentivo inutile, avevo l’autostima molto bassa.

È durata un anno e mezzo. Poi quando stavo per toccare il fondo ho capito che avevo bisogno di aiuto. Ho chiamato una mia carissima amica e le ho detto che stavo male e che volevo pregare per la mia famiglia e per mio figlio. Ognuno trova conforto come meglio crede, io mi sono sentita di trovarlo in Dio e per me è stato più efficace che se fossi andata dallo psicologo ” 

L’intervista prosegue con il racconto della sua rinnovata consapevolezza e della loro vita quotidiana oggi: “Christopher oggi ha 8 anni, va a scuola. Non socializza ma è molto amato grazie a Dio. Fa sport, fa tutto, comunica solo in modo diverso. (…) L’autismo è un problema di comunicazione e lo spettro autistico è molto ampio, i bambini autistici hanno tutti caratteristiche diverse. La cosa importante, fondamentale, è la diagnosi precoce”

Barbara Costa per Dagospia il 17 giugno 2023.

“Era mia madre. E è stata un’ottima madre. Mi ha amato molto, mi ha dato tutto. Anche la droga. Noi due avevamo una relazione speciale. Unica. Io per lei ero come un uomo con la moglie. Nulla di incestuoso, anche se la gente a volte pensava fossimo sposati”. A dirlo è Ari, 23 anni di differenza con mamma sua, e che questa "unione" non ricalcasse il classico rapporto tra una madre e un figlio, quasi nessuno l’ha sottolineato quando un mese fa Ari è morto. È complicato parlarne. L’incesto non c’è, ma si sfiora. E può una madre essere amatissima se ti mette l’eroina in vena? E qui, la risposta è atroce, può non piacere, fare orrore, ma è un sì.

Questo Ari di cui non posso scrivere il legittimo cognome è stato per decenni un viso e un uomo noto alle cronache, perché Ari era il figlio di Nico, “bellezza di classe mondiale”, top model, attrice, Superstar di Andy Warhol, e cantante dei Velvet Underground, poi cantante solista di un rock che puoi definire solo da suicidio. E Ari, questo Ari, era figlio suo e di Alain Delon. 

Se nel riportare la morte pur inquietante di un tal "figlio di" famose testate come il "Corriere della Sera" si sono in aggettivi sperperate (“trovato morto il presunto figlio illegittimo di Alain Delon”) è perché il signor Delon fin dal concepimento ha negato codesta paternità. Lo fa ancora oggi. È una storia folle, da soap-opera (e che in ogni dettaglio e retroscena Jennifer Otter Bickerdike narra in "Nico", Auditorium ed.) un dramma che manda fuori di testa: perché Ari è stato cresciuto dalla nonna paterna, Édith, la madre di Delon. 

Delon imperterrito ha negato sempre negato che Ari fosse figlio suo. La madre, di Delon, ha cresciuto il figlio del figlio non come suo nipote ma come figlio, suo, apponendogli il cognome del suo secondo marito. La sto facendo troppo contorta? Eppure è andata così!!! E la droga? E l’eroina tra mamma e figlio??? E lo pseudo-quasi-incesto? Vi dico tutto. Nico, celebre e celebrata top model, conosce Alain Delon in Italia, a Ischia, sul set di "Plein Soleil", film dove in un primo momento avrebbe dovuto recitare.

Lei è libera, Delon no: è fidanzato con Romy Schneider. A Ischia Nico e Alain non fanno sesso. Fanno sesso una volta sola, pochi mesi dopo, a New York. Concependo Ari. Nico da subito lo dichiara, “è figlio di Delon”, ma mai ha venduto parola ai media, o preteso da Delon soldi, o un matrimonio riparatore. Le sarebbe piaciuto sì, essere riamata come lei ha amato Delon, ma, per Delon, Nico è stata una notte di sesso, e basta. E Nico tiene Ari. Da sola. 

Nico torna a lavorare, nella moda, e come attrice, poco dopo il parto di Ari. Nico deve mantenere sé stessa, Ari, e sua madre, a cui lascia Ari. E qui iniziano i guai. Perché la madre di Nico è schizzata e paranoide: quando viene internata, Nico, sola, mette l’orgoglio da parte, e chiede aiuto alla madre di Delon. Nonna Delon non ha dubbi: “per istinto e per somiglianza fisica”, è nipote suo. Avverte Alain Delon, che si inca*za e per vie legali le impone di scegliere tra lui e “quel bambino”.

Nonna Delon tiene il nipote e rompe con Delon che, da ricco, raccontano manco l’aiuti (nonna Delon “fa la commessa per mantenersi”). Nico e la "suocera" si accordano nel crescere tutte e due Ari, alternandosi. Ari vive con nonna Delon, a Parigi, e con mamma Nico, a New York. Dentro la Factory di Warhol. Gli fa da baby-sitter la drag queen Mario. Circondato da drogati, Ari cresce scombinato, “mangia soltanto patatine fritte”, e beve “ogni cosa mi capitasse a tiro, residui di vodka, whisky”, e inghiotte pillole, e ero spalmata su chewin gum.

Con Ari in crisi epatica, Nico ricorre alla "suocera". E però nonna Delon, davanti alla vita bizzarra di Nico, senza il consenso di Nico, adotta Ari, gli cambia identità in "Christian Aaron Boulogne" (nonna Delon è vedova, risposata Boulogne), e non permette a Nico di vederlo più per 10 anni. 

Sono gli anni in cui Nico cade, peggio, sprofonda nell’eroina, anni in cui Nico diventa ancora più famosa: da diva junkie consuma amanti su amanti, uomini che si chiamano Bob Dylan, Brian Jones (“dava il miglior sesso, quando poteva”), Lou Reed, John Cale, Jackson Browne, Jim Morrison (“il miglior pene che abbia mai avuto dentro di me: ci picchiavamo, ci piaceva la sensazione. Ci siamo scambiati il sangue, porto il suo sangue con me. Jim mi ha dato il peyote”), Iggy Pop (“Nico mi ha insegnato il cunnilingus, e lasciato lo scolo”) e Philippe Garrel, con cui vive in un appartamento a Parigi senza mobili, luce, gas, né acqua, ma pareti tinte nere. Qui Nico vi porta il toy-boy Lutz Graf-Ulbrich, a viverci in ménage-à-trois, e ad iniziarlo all’ero. A quanto pare, Nico solo a Leonard Cohen ha detto no, mandandolo in pezzi. 

Nico e Ari si rivedono quando lui ha 19 anni, lei 42. Nico fa dei dischi che quasi nessuno compra, venduti tramite questo slogan: “Perché perdere tempo a suicidarvi quando potete ascoltare lei?”. Nico per campare ruba, e con l’ero, per l’ero, uccide il suo fascino. Veste con tuniche e stracci, neri, ha i capelli, neri, e zero igiene. Puzza. Per scelta sua. E Ari è egli stesso eroinomane. Sebbene ex di Nico ripetano sia stata lei ad iniziarlo all’ero, Ari è chiaro: “Ho iniziato a 17 anni e mia madre non c’entra niente. C’entra la mia attrazione per la siringa, e l’orgoglio per le mie pupille dilatate”.

Inizia così una relazione tossica in vena e nei sentimenti tra una madre e un figlio per anni divisi, che ora vivono, insieme, fanno uso di droga, insieme, e dormono, insieme, “a letto, abbracciati, a cullarci”. E Ari è geloso dei fidanzati della madre e contento se la lasciano: “Aveva me al suo fianco. Suo figlio, padre, e compagno”. 

Nico è morta a 49 anni, cadendo da una bici, a Ibiza, dove viveva con Ari. Stava andando a comprare hashish. Era fuori dall’ero da un po’. Ari s’è venduto le dosi di metadone della madre, per l’ero. Dilapidato le royalties ereditate, per l’ero. Passato anni e anni in cura psichiatrica. Sottoposto a non so quanti elettroshock. Mai una volta Alain Delon si è fatto vivo con lui. Mica era figlio suo. 

Estratto dell'articolo di Danilo Ceccarelli per “La Stampa” l'11 maggio 2023.

Come ho già detto in passato. se c’è una cosa di cui sono fiero è la mia carriera». Impossibile dare torto ad Alain Delon, che nella breve prefazione di «Amours et mémoires», la sua biografia pubblicata in Francia dalle Editions de la Martinière, si lascia andare a ricordi ed emozioni come forse mai aveva fatto prima d'ora. 

L'immagine del sex symbol inarrivabile dallo sguardo seducente diventato nel tempo un'icona mondiale si accosta alla storia dell'uomo che cerca di aprirsi al suo pubblico attraverso le sue memorie.  Nel volume Denitza Bantcheva e Liliana Rosca, collaboratrice dell'attore francese, ripercorrono la vita e i lavori di uno dei mostri sacri del cinema mondiale 

(...)

«La belva del cinema francese», lo definisce Costa-Gavras nel suo commento. Ma soprattutto, il vero motore dell'attore è stato l'amore per le donne: «Per loro ho voluto essere il migliore, il più bello, il più forte». E forse c'è riuscito, almeno a leggere le lettere ricevute da alcune di loro. 

Come quella di Mireille Darc, attrice scomparsa nel 2017 con la quale Delon intrattenne una relazione durata fino al 1983. «Volevo abbracciarti molto forte», si legge nel messaggio scritto nel 2007 in cui dice al suo ex compagno di non perdere mai la «fragilità», che rappresenta la sua vera «forza».

Brigitte Bardot, invece, lo paragona a una «belva» in un'epistola ironica e affettuosa, nella quale definisce il suo amico un «dominante» che «nasconde la sua vulnerabilità nella solitudine». Proprio sul rapporto con Bibi, interviene lo stesso Delon chiarendo una volta per tutte uno dei gossip più chiacchierati della sua generazione: «Per quanto sorprendente possa sembrare, siamo stati solo amici, non è successo niente di più», garantisce spiegando che ancora oggi si sente spesso al telefono con la Bardot. Ma tra i messaggi più toccanti, c'è quello postumo scritto dalla star francese nel 1982 a Romy Schneider, il suo primo vero amore scomparso proprio in quell'anno.

«Eravamo della stessa razza mia Puppelé, parlavamo la stessa lingua», sostiene l'attore in uno straziante ricordo di quella che è stata la sua compagna fino alla metà degli Anni Sessanta. «Ti guardo dormire, mi dicono che sei morta. Penso a te, a me, a noi», recita la lettera. Delon ricorda il loro incontro, il colpo di fulmine e la passione di quel periodo. «Abbiamo vissuto più di cinque anni l'uno accanto all'altra (...) Poi la vita, la nostra vita che non riguarda nessuno, ci ha separati». 

I due si conobbero sul set di «Christine» nel 1958. Inizialmente la vedette franco-tedesca, già celebre allora per aver interpretato Sissi, vedeva quel giovane francesino ancora semisconosciuto come un semplice Dongiovanni. La scintilla scattò poco dopo, dando vita ad una delle più celebri storie d'amore.

Immancabile, tra i ricordi dei suoi amori, quello dedicato a Nathalie, «la sola Madame Delon» e madre di Anthony, ma anche a Rosalie van Breemen, modella olandese con la quale fece altri due figli: Anouchka Alain-Fabien. Storie di grandi passioni, ma anche di amicizie maturate nel tempo. Tra queste quella con Claudia Cardinale, compagna di lavoro alla fine degli Anni Cinquanta in «Rocco e i suoi fratelli» e ne «Il Gattopardo», entrambi diretti da Luchino Visconti. 

«Per noi aveva uno sguardo molto affettuoso», racconta l'attrice parlando del regista che aveva preso sotto la sua ala protettrice due talenti ancora giovanissimi. Sophia Loren, invece, ricorda di quando gli parlò di Fellini durante un viaggio in Messico. La biografia a tratti sembra una confessione, in altri il semplice ricordo della vita di un attore che è anche un pezzo di '900, che dedica l'opera al pubblico, in particolare i giovani, e al «cinefili del futuro»

Estratto dell'articolo di Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 6 marzo 2023

«Non ho mai sognato di essere un attore. Sono entrato nella professione e ho continuato a recitare grazie alle donne e per le donne». Sono le parole della leggenda del cinema francese, Alain Delon, nella prefazione delle sue memorie uscite ieri per le Éditions de la Martinière, Alain Delon. Amours et mémoires. Impreziosito da foto inedite che passano in rassegna la formidabile carriera dell’attore oggi 87enne, il volume è stato curato da Denitza Bantcheva, sua stretta collaboratrice, che ha raccolto le testimonianze di alcuni giganti della settima arte francese.  

[…]

Sofia Loren, Claudia Cardinale, Jane Birkin e Nathalie Baye manifestano una ad una il loro affetto per il divo dagli occhi blu, lui, rievoca le donne della sua vita, Nathalie, l’unica moglie, madre del figlio Anthony, Rosalie van Breemen, con cui ha avuto i figli Alain Jr eAnouchka, alcune delle sue conquiste, come Brigitte Auber, Mireille Darc, Michèle Cordoue, ma soprattutto lei, quella che ha amato più di tutte: Romy Schneider. È a lei che ha dedicato una lettera postuma, pubblicata nel libro, a quella ragazza austriaca che aveva solo vent’anni quando si conobbero nel lontano 1958, durante le riprese del film L’amante pura di Pierre Gaspard-Huit. […]

«Mia Puppelé (“bambolina” in tedesco, ndr), sei arrivata da Vienna e io ti aspettavo a Parigi, con un mazzo di fiori tra le braccia. Io mi sono innamorato perdutamente di te e tu ti sei innamorata di me», scrive Alain nella sua lettera postuma a Romy. «Spesso ci siamo fatti questa domanda sugli innamorati: chi si è innamorato per primo? Tu o io? Abbiamo contato: “Uno, due, tre!” e ci siamo detti, “Né tu né io”! Insieme... L’uomo che sono è quello che ti conosceva meglio, che ti capiva meglio». 

Sei anni dopo il primo incontro, per decisione di Alain, la loro storia finì. Romy, tuttavia, come conferma questa lettera postuma, ha sempre avuto un posto speciale nel cuore dell’attore francese. Nel volume, dedicato “ai giovani e ai cinefili del futuro”, Delon scrive che «l’amore lo ha sempre portato a superarsi» e confida di aver voluto «essere il migliore, il più bello, il più forte» per le donne della sua vita. […] 

A proposito di donne, uno spazio importante è dedicato al rapporto con Brigitte Bardot. Nel 1961, Delon recitò accanto alla bionda più bella di Francia nel film Les Amours célèbres di Michel Boisrond. All’epoca, circolavano molti rumors su un flirt durante il set tra i due simboli della bellezza made in France, tra il Samurai e BB. Ma Delon, a distanza di sessant’anni, ha voluto mettere le cose in chiaro: tra noi due è stata soltanto amicizia.  «Per quanto sorprendente possa essere, tra noi due non c’è mai stato nulla. Da 65 anni, abbiamo le migliori relazioni amichevoli che possano esserci». […]

Estratto dell’articolo di Roberto Pavanello per “la Stampa” lunedì 28 agosto 2023

Alan Sorrenti sta scrivendo la sua autobiografia ed è difficile pensare che avrà problemi a riempire le pagine. Succede quando hai 72 anni e la tua vita somiglia a un film: «Ogni tanto ho bisogno di aiuto – racconta il cantautore, in una pausa del tour estivo - . 

Quest’inverno ero in Costa Rica, stavo scrivendo della festa del proletariato giovanile Re Nudo al Parco Lambro quando mi ha chiamato Luca Pollini, uno degli organizzatori. Che coincidenza. Così gli ho chiesto in che anno ci suonai. Era il 1974. Mi ha mandato la locandina, in cartellone c’era anche Franco Battiato». 

[…] Sono arcinoti i versi che le dedicò Battiato, da fan deluso, “Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro”. Tu rispondesti che se avesse fatto il suo stesso viaggio a Los Angeles, avrebbe capito. Non ti dispiace non averlo più incontrato per parlare con lui?

«Sì, ma non perché ci fosse bisogno di una riappacificazione. Tant’è che fece anche la cover del mio brano Le tue radici. Peccato per la versione dance, ma ciascuno è libero di fare la musica che vuole.

Ho invece potuto abbracciare pochi mesi prima della sua morte Pino Daniele. Facemmo Figli delle stelle a un suo concerto. Nel camerino mi confessò che avrebbe voluto ridare vita al Neapolitan Power. Sarebbe stato un bel rilancio anche per lui». 

Il tuo nuovo disco, Oltre la zona sicura, è stato prodotto da Ceri. Nella musica l’età conta?

«No, conta la visione che si ha. Magari io ho più esperienza di Ceri, ma lui conosce meglio i suoni nuovi. Mi ha aiutato a veicolare i contenuti di un album che avevo quasi già scritto per intero». […] 

Torniamo al 1972, hai poco più di vent’anni e diventi un nome importante del progressive: qual è il ricordo più nitido di quel periodo?

«Il lavoro in studio. Per il secondo album, Come un incensiere all’alba di un villaggio deserto, io, Toni Esposito e gli altri italiani affittammo un appartamento a Londra, ma stavamo sempre in studio, giorno e notte». 

Scusi, ma chi cucinava? Tu o Toni?

«Mangiare credo che mangiassimo… ma cucinare proprio no. Toni è bravo col pesce, ma a Londra che vuoi fare?».

Qualche anno dopo arrivarono Los Angeles, la svolta pop e il grande successo di pubblico: Figli delle stelle, L’unica donna per me, Non so che darei sono tre hit che hanno superato il tempo e le mode. Qual è la loro magia?

«Suonano bene. Figli delle stelle ha anche un testo speciale che parla dell’appartenenza all’universo dell’essere umano. I giovani oggi ci si ritrovano anche più che in passato. Nelle altre due l’adolescente si identificava, allora come oggi. Ceri ha centrato il punto: “Tu scrivi delle cose chiare e semplici”». 

Successo fa rima con eccesso, ti ritieni un sopravvissuto? Vasco direbbe “supervissuto”.

«Sì. Dopo quel successo pop tornai al rock con La strada brucia e Angeli di strada con i Toto. Senza il cantante, naturalmente. Era il mio rifiuto del mondo effimero delle star. Ero e sono un esploratore della musica. Quando nel ’79 vinsi il Festivalbar dissi: “Volete che mi atteggi da superstar? Ok”. 

Pretesi di entrare all’Arena di Verona con la RollsRoyce cabrio di un amico. Mi divertii, ma era l’addio a quel mondo, non era roba mia. Credevo che il pubblico mi avrebbe seguito, invece è arrivato l’insuccesso». […] 

Nel 1983 ci sono i 33 giorni di carcere con l’accusa, infondata, di spaccio di sostanze stupefacenti, dopo la denuncia della tua futura ex moglie. Chiudi gli occhi: qual è la prima immagine che ti viene in mente?

«L’isolamento, durato una settimana, credo. Fu davvero un colpo. Non avevo paura ma mi diede la possibilità di interrogarmi sul tipo di vita che stavo conducendo. Poi mi ritrovai in cella con esponenti della Nuova Famiglia.

Vissi tutto come un’esperienza nuova e scrivevo per i giornali raccontando come si viveva in carcere. Ricordo che venni invitato nella cella di un “capobanda”, gli cantai Dicitencello vuje, da quel momento ogni mio possibile problema in carcere era risolto». 

Roberto Baggio ha raccontato che senza il buddismo non sarebbe riuscito più a giocare a calcio, tanto era il dolore alle ginocchia. A te cosa ha aiutata a fare?

«A salvarmi totalmente. Per me non è stata una questione di ossa, ma di vita. Dopo tanta ricchezza creativa mi accorsi che stavo iniziando a inaridirmi. Avere incontrato il buddismo della Sokka Gakkai mi ha fatto capire che avevo vissuto solo per me e non per gli altri. Il valore si costruisce insieme. Mi ha aperto nuove porte, permesso di ritrovare la mia luce e vedere quella che c’è negli altri.». […]

Estratto dell'articolo di Carlo Moretti per “la Repubblica” il 29 giugno 2023.

Per la rivista inglese Mojo , che lo celebra nel numero di luglio, l’album Aria di Alan Sorrenti del 1972 è “un tesoro nascosto”, un “esempio sublime” del miglior rock progressive di tutti i tempi. 

Eppure Sorrenti non è certo un artista da riscoprire: Figli delle stelle è diventato un sempreverde e a ottobre l’artista napoletano ha pubblicato Oltre la zona sicura , un nuovo disco che, dice, «mi fa sentire di essere tornato da dove sono partito: sono indipendente e ho ritrovato un pubblico giovane lontano dal mainstream». In questi giorni, poi, Sorrenti, 72 anni, torna on the road con un fitto tour: sabato 30 sarà alla Triennale di Milano , il 2 luglio a Giovinazzo (Bari) per Porto Rubino , il 9 ad Arezzo per il Mengo Fest e poi proseguirà fino alla fine di agosto. 

Dev’essere stata una bella sorpresa essere celebrato dal paese che il rock progressive l’ha inventato: come nacque “Aria”?

«Passavo molto tempo a Londra e tornando scrivevo musica chitarra e voce, la registravo su cassette. Qualcuno ebbe l’idea di girarle a un funzionario Rai che si chiamava Paolo Giaccio e trasmetteva brani di emergenti alla radio: la mia musica ebbe tantissime reazioni positive. E così nacque Aria. Tornai a Londra per registrare Come un vecchio incensiere , la prima facciata è musica contemporanea, me la ispirò il film La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky».

Album con lo spirito del tempo.

«In quegli anni si leggeva Le porte della percezione di Aldous Huxley, era il tempo dell’Lsd. Come amo chiamarli, quelli erano “gli stati alterati di musica”. Vedevo altro, percepivo il cosmo, un mondo più ampio. Da qui sono nate tante cose, scelte di vita, gusto nella musica, nella lettura, nella scrittura. In Aria sono fluite le esperienze vissute e le rivelazioni a cui quelle esperienze mi avevano portato. Ho avuto anche qualche esperienza di musica dal vivo in stati alterati, come al festival di Parco Lambro nel ’74: pensavo di poter tenere tutto sotto controllo e invece ogni volta che iniziavo un pezzo sconfinavo in qualcos’altro. La cosa straordinaria è che tutti gli altri mi seguivano in questo mio viaggio, tutto insomma aveva un senso». 

(...)

Nel ‘79 con “Tu sei l’unica donna per me” vinse al Festivalbar: arrivò all’Arena di Verona in Rolls Royce.

«Dissi: se la facciamo allora facciamola come si deve. La Rolls decapottabile era di un mio amico, mi divertivo a esagerare ma non credo che mi rendessi conto di cosa realmente succedeva». 

La notorietà irruppe nella vita privata con gossip e liti, nell’83 lei finisce in prigione.

«Fu per un episodio di gelosia folle della mia ex, che mi fece passare per uno spacciatore di droga. C’era il desiderio di farmi male, ci sono relazioni che poi scoppiano, in realtà tra noi c’erano già le pratiche di divorzio. Fui al centro di una tempesta perfetta, il ciclone che coinvolse per altre vie anche Tortora. A Rebibbia in quei 33 giorni c’erano i camorristi della Nuova Famiglia, nell’ora d’aria incontravo Ali Agca, che aveva sparato al Papa. Fu un’esperienza molto forte, mentre ero in cella scrivevo per i giornali raccontando come stavano veramente le cose. La testa l’ho poi ritrovata solo grazie al buddismo». 

Come?

«Grazie a una forza incredibile che mi ha aiutato a liberarmi dalla schiavitù dell’ego, dando un senso a tutto ciò che di buono e anche di meno buono avevo fatto finora. Il mio collegamento con il cosmo doveva ritrovare la sua strada: è successo con il buddismo, in maniera più terrena».

Alba Parietti: «Il MeToo? Quello italiano è stato una barzelletta». Cosa insegna l’assoluzione di Kevin Spacey? Parla l’opinionista tv: «Io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 luglio 2023

Cosa resta del MeToo? È la domanda che si pone all’indomani dell’assoluzione di Kevin Spacey, diventato suo malgrado il simbolo di un movimento che ha sconquassato il mondo dello spettacolo in ogni parte del mondo. Cadute le accuse, svanisce anche la gogna. E forse l’attore americano potrà riprendersi la carriera che gli è stata sottratta. Ma cosa è cambiato, intanto, dentro quel sistema che si voleva smantellare? Per quel che riguarda l’Italia «assolutamente nulla», risponde Alba Parietti. «Il MeToo interessa soprattutto perché riguarda personaggi famosi, è il gusto del gossip - aggiunge la conduttrice e opinionista tv -. Ci siamo limitati a guardare la punta dell’iceberg, senza badare a quello che c’era sotto. E senza prendere coscienza di ciò che accade nel mondo, dove ogni giorno alle donne sono negati i diritti fondamentali. Ecco perché bisognerebbe estendere la nostra visione e smettere di piangersi addosso. Altrimenti facciamo le Elkann sul treno per Foggia».

Il MeToo italiano: caccia alla streghe o una rivoluzione mancata?

In America tutto è partito da due casi eclatanti, Weinstein ed Epstein, vicende documentate e arcinote. In Italia, il MeToo è stata un po’ una barzelletta: si è parlato di un unico caso, il caso Brizzi, assunto come capro espiatorio. Intanto il sistema è rimasto intatto. Tanto nel mondo dello spettacolo, quanto negli altri ambiti lavorativi dove ci sono tante situazioni che non hanno la stessa risonanza mediatica. Se c’è stata una caccia alle streghe? Prenda il caso di Roman Polanski, che ha pagato un prezzo altissimo per le accuse che gli sono state rivolte. Accuse che mi hanno molto stupita, e nelle quali non rivedo la persona che ho conosciuto per anni.

Ritiene che nel suo ambiente alcune vicende siano state strumentalizzate?

Bisogna imparare ad essere intellettualmente onesti. Io non giudico nessuna donna. Qualsiasi persona ha diritto di sognare la più fantastica delle carriere, senza accettare compromessi. Ma sono altrettanto convinta che questo sia possibile in pochissimi casi. Perché per ogni persona di talento, ce ne sono altrettante pronte a tutto per fare carriera. E bisogna ammettere che è la regola del gioco.

Accettare compromessi?

Scardinare questo tipo di sistema è molto - molto complicato. Perché c’è una grande capacità in questo lavoro di scavalcare gli altri senza alcun tipo di scrupolo morale. Io posso permettermi di dire che in 46 anni di carriera non ho mai accettato un compromesso.

Le è capitato di trovarsi in situazioni spiacevoli?

Due in particolare, molto inquietanti. Ho avuto la forza di reagire e di uscirne senza grosse conseguenze. Ma anche senza vantaggi per la mia carriera. Una volta, quando avevo 18 anni, ho ricevuto delle avances da parte di una persona che si trovava in una posizione di potere. Sono rimasta paralizzata, ma per fortuna avevo di fronte una persona non violenta che ha capito la situazione. E io purtroppo l’ho considerato un episodio normale. Il meglio che potessi sperare è che questa persona non mi perseguitasse lavorativamente per un rifiuto.

Ci ha più ripensato negli anni?

Ho cercato di limitare i danni. Non l’ho raccontato a nessuno, non volevo farne un caso. S’immagina un mondo in cui nessun produttore o regista importante ci prova con un’attrice? Crede che possa succedere? Dovrebbe, ma è un’utopia. Un giorno un grosso dirigente disse al mio agente: “Ricorda che la Parietti che non ha santi in paradiso”. Vede: certamente si può fare carriera anche senza accettare compromessi, ma facendo cento volte più fatica. E questo non è un lavoro per persone deboli. Ci sono i lupi e gli agnelli, ma gli agnelli devono imparare a diventare dei falchi ed essere capaci di difendersi.

Si potrebbe obiettare che non sono le donne a doversi difendere, ma gli uomini a dover cambiare.

Mi creda, nessuno è più femminista di me. Però io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose.

Come le si potrebbe cambiare, a suo parere?

Le donne devono imparare a difendersi culturalmente. Certo gli uomini devono cambiare per primi, ma anche le donne devono appropriarsi del diritto di non stare al gioco. E di sottrarsi a questo schema di scambio. Oggi si è perso il senso della morale e della vita. Vedo un analfabetismo totale dei sentimenti, un mondo mercificato e brutto da vedere.

E al contempo siamo diventati “puritani”, come sostiene qualcuno?

Se parla del politicamente corretto, ci siamo tolti soltanto il gusto della battuta. Un’ipocrisia totale. Perché non si può più dire nulla, ma sul piano dei diritti non è cambiato nulla.

Ma tornando al discorso precedente, per una donna che trova il coraggio di denunciare le cose non sono mai semplici. Il rischio è di finire sul banco degli imputati, fuori e dentro i tribunali.

Quando una donna denuncia viene sempre giudicata, lo abbiamo visto nei casi più eclatanti, come nella vicenda Genovesi. Si diceva: “Ah, ma queste ragazze facevano le escort”. Come se significasse che sono schiave. Il problema è il giudizio, che spesso viene proprio dalle donne. Una donna che fa la escort e viene violentata, è una donna violentata. Punto. Bisogna sempre distinguere tra una scelta consapevole da parte delle donne, che possono accettare dei compromessi e non vanno giudicate per questo. Ma quando non c’è una scelta, si tratta di violenza. A qualunque livello.

Che idea si è fatta del caso LaRussa Jr? Il presidente del Senato ha ricevuto duri attacchi per le parole pronunciate in difesa del figlio, ed è diventato anche un bersaglio delle femministe che hanno affisso dei manifesti in segno di protesta.

Credo che abbia ragione Meloni, quando dice che se fosse stato suo figlio avrebbe scelto di restare in silenzio. Sono abituata a non giudicare mai prima di conoscere i fatti. E questo deve valere anche per il presidente La Russa. Ma non mi piace fare la forcaiola, i processi si fanno in tribunale.

Jet privato, dentista e ristrutturazioni. Alba Parietti: "Negli affari so intuire la potenzialità". Parsimoniosa, ma con un grande sesto senso per gli immobili, che sono diventati ormai il suo secondo lavoro. Così Alba Parietti, con testa e buon gusto, non crede nelle criptovalute, ma punta tutto sul mattone. Roberta Damiata il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il gusto per il bello, respirato e vissuto fin da piccola, una carriera brillante come showgirl, scrittrice, presentatrice e opinionista. che non ha però spostato il suo baricentro. Piuttosto da "solido pianeta" è stata proprio lei, Alba Parietti, a decidere quale satellite doveva girarle intorno, usando la testa e quel carattere indipendente che l'ha sempre contraddistinta. Così mentre per definizione il suo lavoro principale porta "leggerezza", la solidità è insita in lei e in quel suo essere un'acuta formica, che ha imparato dagli errori, soprattutto quelli economici, decidendo poi di investire sul suo gusto personale che è diventato: "Un secondo lavoro e un'importante fonte di guadagno" come racconta nella nostra intervista. 

Che rapporto ha con i soldi?

"Molto sano secondo me. A volte vengo considerata una persona parsimoniosa, ma in realtà non mi sono mai fatta mancare niente e ho sempre considerato il denaro come il mezzo per poter essere una donna completamente libera. I soldi nella mia vita, hanno significato indipendenza e fiducia in me stessa, la possibilità di poter scegliere in ogni momento, con chi stare, cosa fare e chi poter aiutare e, soprattutto, non avere costrizioni rispetto alle necessità".

Si considera fortunata?

"Molto, perché a 28 anni la mia vita è cambiata. Improvvisamente mi sono trovata a essere una donna completamente indipendente sul piano economico e forse direi anche qualcosa di più. Nonostante questo però, non ho mai buttato via i soldi, li ho reinvestiti e spesi in case".

Ricorda i primi che ha guadagnato? Come li ha utilizzati?

"Ho cominciato molto presto ad essere economicamente indipendente. Avevo 14 anni quando ho iniziato a lavorare con le prime televisioni e le radio private di Torino e già prima di ottenere la grande notorietà, avevo comunque guadagnato molto bene. Con i primi soldi ho comprato una macchina, dei vestiti, li ho utilizzati per sistemare i denti, ma soprattutto per non dipendere dai miei genitori".

Tutto questo a 14 anni?

"Sì, prima come segretaria, ricordo che prendevo al telefono le dediche per la radio, poi ho cominciato a registrare gli stacchetti e ad andare in onda sia in radio che in tv. Man mano che avanzavo, guadagnavo sempre di più. I miei primi contributi ho iniziato a versarli a quell'età".

C'è un investimento che non rifarebbe?

"Ha perso dei soldi in un momento di crisi generale dell'economia, ma ho saputo anche reagire decidendo poi di investire nelle case, che mi hanno dato modo di avere una grande solidità. Come tutte le persone che non sono al dentro della materia, posso aver sbagliato qualche forma di investimento, ma mai in maniera importante".

Investire sulle case è stata una sua decisione o qualcuno l'ha consigliata?

"Sono molto brava a ristrutturare immobili, sono diventati per me un secondo lavoro, oltre che una fonte di guadagno. Una parte delle case queste le ho messe a reddito dopo averle rinnovate. Ho chiesto aiuto a persone capaci, ma ho un certo talento per arredare, modificare, per questo non ho mai avuto bisogno di architetti, ma solo di ingegneri strutturali, perché per il resto uso il mio gusto personale, che, devo dire, piace molto. Le ho sempre rivendute a prezzi molto più alti rispetto a quelli che le avevo acquistate. Spesso li ho solo arredati, ma in maniera così carina che non sono rimaste vuote per più di cinque minuti".

Ha mai giocato in borsa o magari acquistato criptovalute?

"A quelle (le criptovalute), non ho mai creduto, sarà forse perché avevo già fatto investimenti sbagliati con alcuni fondi simili, ma ho capito molto presto a cosa fare attenzione. Questo però non significa che sono un genio della finanza, anzi pur avendoli lasciati in mano a grandi professionisti del settore, non sono mai riuscita a ricavare cifre importanti. Al contrario ho guadagnato molto bene con gli immobili".

Quale è stata la spesa più folle che ha fatto?

"Un aereo privato".

Comprato o affittato?

"Per comprarlo avrei dovuto essere un magnate, l'ho affittato una volta".

Quanto le è costato?

"Non ricordo bene è passato un po' di tempo, mi sembra 11 milioni. Un'altra spesa importante è stata una casa in Sardegna, quando si affittavano a 50 milioni al mese, dove ho invitato tutta la mia famiglia. Era un modo per far star bene tutti. Ovviamente l'ho fatto nei momenti di grande guadagno, quando arrivavo a prendere 100 milioni per una trasmissione, quindi la spesa era compatibile con il mio stato. Poi mi sono ridimensionata molto".

Pensa di avere il fiuto per gli affari?

"No, ho fiuto per quello che so fare bene. Non sono 'navigata' per gli affari, ma ho un grante talento, quello di avere gusto. Sono una persona che ha occhio per vedere le cose che possono migliorare con poco sforzo. Quando scelgo una casa non commetto errori, so valutarla bene, capisco i punti di forza e come valorizzarli, riesco a vederne le potenzialità. Questo è un tipo di talento che ho anche con gli esseri umani, capisco subito se in una persona c'è talento, e così anche gli oggetti".

Come ha affinato questo "senso"?

"Non pretendo di avere un gusto universale, però, crescendo con un nonno e una madre artisti, e intendo a livello alto, sono stata circondata da arte e bellezza. Ho avuto la possibilità di vivere situazioni di condivisione straordinaria. Sono cose che non si possono mettere in discussione. È così che si impara".

Hai mai paura di rimanere senza soldi?

"Sì, questa è una sensazione atavica vissuta fin da piccola, perché mio padre ha fatto la guerra e patito la fame, e mi ha un po' cresciuta con la paura della miseria. Per questo a volte mi accusano di essere una persona che non si gode abbastanza la vita, ma a me non sembra di farlo. Preferisco spendere per le cose utili, piuttosto che buttare i soldi per sciocchezze. Piuttosto ho aiutato mio figlio ad avere una casa sua, che magari avrebbe potuto realizzare vent'anni dopo e questo mi sembra molto. Per il resto ho sempre avuto la fortuna di essere vestita dai più grandi stilisti, perché mi hanno voluta come testimonial, personalmente non ho mai speso più di 300 € per una borsa".

Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il Corriere della Sera il 20 giugno 2023.

Leopardata dalla testa ai piedi e con i capelli cotonati frisè passò e ripassò davanti alla Rai di Torino.

«Quando mia madre mi vide conciata così si mise a piangere, lei che non aveva pianto nemmeno al funerale della sua. E al ritorno mi mise la testa sotto al rubinetto. Avevo 17 anni ma ne dimostravo 20, ora che ne ho 61 mi dicono che ne dimostro sempre 20, beh, facciamo 30», se la ride Alba. «La vanità è un mio difetto eppure lo ostento». 

La passerella era mirata.

«C’era Enzo Trapani che registrava Non Stop , con Verdone, I Gatti, Troisi. Volevo farmi notare. Mi abbordò Jerry Calà, il “tampinatore” del gruppo. Prese il mio numero, mi corteggiava, non un gran complimento, visto che ci provava con tutte. La verità è che non la davo a nessuno, ero solo una bravissima allumeuse, fisico androgino, sedere brasiliano, 1 e 76, bionda, imitavo Dalila Di Lazzaro, avevo sciami di uomini dietro. Mi chiedevano: “Che hai, il miele?” Li attiravo ma poi scappavo». 

Jerry no, Franco Oppini sì.

«Dopo un giro notturno per le vie di Torino, Franco mi invitò per un weekend in Romagna. Andai con un’amica che si fidanzò subito con Jerry. Lui era impegnato, lasciò l’altra e io feci la parte della ruba-mariti anche se di solito sono i mariti a volere essere rubati. Ci innamorammo e fu subito Francesco» (il figlio). 

All’asilo dalle suore con un baby Marco Travaglio.

«Mi faceva i dispetti: passavo vestita di bianco e mi schizzava con le pozzanghere».

Subito bella.

«A 10 anni sembravo una ninfa, per mamma somigliavo alla Venere di Botticelli».

Innamorata di Baglioni 

«E chi non lo era? Creai un club di fedelissime di Claudio, la cassetta della posta si intasò di lettere, papà ebbe una crisi di nervi. Siamo amici, il suo è stato il primo concerto che ho visto con Fabio».

Una particina in «Sapore di Mare» dei Vanzina 

«Breve ma iconica comparsata, nella famosa scena finale. Nella vita ci vuole talento ma anche fortuna».

Voleva fare la cantante e non molla, anche se a “Tale e Quale” il suo amico Cristiano Malgioglio la stronca tappandosi le orecchie.

«Una gag tra noi. Non sono male come interprete, so emozionare, se avessi studiato avrei sfondato. Come attrice potevo fare meglio. Pierce Brosnan mi voleva a tutti i costi per 007 GoldenEye , ma io non avevo voglia di studiare l’inglese, volevo godermi la vita, Beppe Caschetto è ancora lì che piange. Occasioni così non ne ho più avute». 

Quando intonò «Etienne» (“La Piscina”, Raitre, 1991) fu subito feroce parodia.

«Lì ero atroce, ammetto». 

Era nata la «selvaggeria».

«Ero una sexy cialtrona. Un’idea di Angelo Guglielmi, che mi adorava. Sono sempre piaciuta agli intellettuali». 

Lo sgabello di Galagoal.

«Di calcio capivo poco, però conoscevo la tv. Mai caduta, la classe non è acqua».

I calciatori apprezzavano.

«Ci provarono in tanti, ci riuscì solo uno, stop».

E Maradona?

«Non ero il suo tipo, gli piacevano più... semplici. Generoso, travolgente, che serate con lui e Gianni Minà».

Le inviavano tir di regali .

«Auto e gioielli, pure gli emiri. Mi telefonava Gianni Agnelli, gentile e discreto. Però mi è sempre piaciuto snobbare i ricchi. Ho avuto storie solo con uomini che mi attraevano, magari discutibili, ma non che mi fossero utili». 

Sanremo con Baudo, Milly Carlucci e Brigitte Nielsen.

«La mia consacrazione. Pippo mi diede la grande occasione, ma l’anno seguente, al Dopofestival, non mi voleva, mi trattava malissimo. Come Enrico VIII, che prima prende moglie e poi la fa chiudere in prigione». 

Anche con Boncompagni bisticciò alla seconda edizione di “Macao” (Rai2, 1998): via dopo una puntata.

«Come un ragazzino viziato, Gianni si era stancato del suo giocherello. Mi faceva dispetti: non mi inquadrava, usava le luci sbagliate». 

(...)

Non girò “Così fan tutte” ma accettò “Il Macellaio” .

«Il film di Tinto Brass, un maestro, era troppo spinto, avevo un bimbo piccolo. L’altro era d’autore, magari noioso, non volgare, nel contratto però avevo vietato inquadrature ravvicinate». 

(...) 

«Coscia lunga della Sinistra» fu il nome di battaglia.

«La coscia resta, la Sinistra no. Azzeccato, ne vado fiera».

E questa Rai «meloniana»?

«Appena sono arrivati i nuovi, si è sbloccato il mio show Non sono una signora , dal 29 giugno, 5 prime serate su Rai2. Quindi bene, forse tutto questo bacchettonismo non c’è. Del resto chi non ha mai sognato di essere una drag queen ? Quanto a me, non sarò più una signora».

Eh?

«Nel senso che non mi sposerò con Fabio. Ho incontrato l’uomo giusto, per gioco mi chiama “la definitiva”. Mi piace il termine fidanzata, cerco l’emozione che mantiene viva la passione. Ha due ex mogli con cui vado d’accordissimo».

(...)

Ivan Rota per Dagospia il 17 febbraio 2023.

La sirena Alba Parietti.

Quale sarà il segreto della strega highlander Alba Parietti?

La Parietti ventenne, ancora prima di aver conquistato il mitico Lambert , aver fatto svenire Alain Delon per la rabbia di non averla saputa far innamorare , aver fatto girare la testa alle più grandi star del cinema mondiale , da Jack Nicholson a Mel  Gibson  e altre star presenti alla festa del festival di Venezia come raccontava il New Yorker.

Cosa avrà’ mai la diabolica coscia lunga della  sinistra ?Quale sarà il suo asso nella manica? Sul Corriere in un’intervista a Candida Morvillo svelato suo segreto attraverso la dichiarazione di Sandy Marton sex symbol degli anni degli anni 80 che dice di aver scoperto il sesso attraverso di lei.

Ora possiamo considerare senza ombra di dubbio Fabio Adami un uomo veramente fortunato

Estratto dell’articolo di Alessandra Paolini per la Repubblica il 30 aprile 2023.

Signora Alba Parietti, è pronta? Parliamo d’amore? “Ma sì! Mi coglie nel momento giusto: un anno fa ho incontrato il mio principe azzurro. Pensi che mi manda le rose ogni mese, per il nostro anniversario…”.  A sessant’anni compiuti, la donna che nel ’90 sedus