Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LE RELIGIONI

SECONDA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE
 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LE RELIGIONI

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Natale.

La Befana.

La Pasqua.

Vaticano e Tasse.

Gli Abusi.

Il Battesimo.

La Confessione.

La Chiesa, i Gay, i Trans, le Donne.

La Politica.

Miracoli e Prodigi.

I Misteri.

Le Omelie.

Il Papa Emerito.

Padre Georg: il Padre molesto.

Il Papa Comunista.

Il Papa Santo.

Il Papa dimenticato.

Il Papa Buono.

Il Papa Silente.

I Santi.

I Santi Laici.

Suore e Preti.

I Padrini.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comunione e liberazione.

La Fine della Cristianità.

Il Cristianesimo e gli Scismi.

Il Diavolo.

L’Esoterismo e l’Occultusmo.

La mattanza dei cristiani.

I Templari.

Gli Atei.

I Guru.

Il Karma.

Il New Age.

I Cibi sacri.

Le Sette Religiose.

La Massoneria.

I Buddisti.

L’Ebraismo.

L’Islam.
 


 

LE RELIGIONI

SECONDA PARTE


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La «scelta religiosa», le ostilità interne e la politica: la metamorfosi di Comunione e liberazione. Storia di Antonio Polito su Il Corriere della Sera lunedì 21 agosto 2023.

Ciò che rende interessante, oserei dire inquietante, anche per noi non credenti, è la costante ricerca di senso: «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena né, per dir così, della terra intera... e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità nell’animo proprio» (Giacomo Leopardi). In fin dei conti è questo il grande bisogno della nostra epoca: «Chi ha un perché del vivere può sopportare quasi ogni come» (Friedrich Nietzsche).

Perciò e dentro Cl, con distacco, curiosità e acribia da grande cronista, è quanto mai benvenuta. Ci aiuta infatti a superare il luogo comune, così a lungo durato, secondo il quale questo movimento ecclesiale fondato dal carismatico don Luigi Giussani non sarebbe altro che la forma moderna assunta da un certo cattolicesimo integralista e affarista, dedito alle opere e al centrodestra. Niente di più superficiale. Ed è proprio la storia che racconta Ascione, dalla rivoluzione di Julian Carrón alle sue dimissioni dalla guida della Fraternità, a dimostrarlo. In libreria dal 25 agosto (208 pagine, 16,50 euro, Solferino)

Al cuore del tormento di Comunione e liberazione, come del resto di altri movimenti carismatici, c’è infatti una grande domanda che riguarda la Chiesa intera, e che si può riassumere nella profezia di Ratzinger. Nel 1969, quattro anni dopo la fine del Concilio Vaticano II e all’indomani della grande rottura del Sessantotto, nello stesso anno in cui alla Statale di Milano veniva diffuso il volantino che diede il nome al movimento di don Giussani, l’allora professor Ratzinger pre-vide quale sarebbe stato il futuro della secolarizzazione: «Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi… poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali… verrà vista molto di più come una società volontaria, in cui si entra per libera decisione… ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza… sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra».

Elaborare e praticare questo nuovo destino da «minoranza creativa» dei cristiani è stata la missione di Comunione e liberazione sotto la guida di Carrón, durata dal 2005 al 2021. Il punto su cui ha costantemente battuto, questo prete nato in Estremadura scelto a sorpresa da Giussani stesso per succedergli, è stato infatti il rifiuto di una concezione «comoda» del cristianesimo, inteso come un insieme di «regole morali, aspetti sentimentali o formalismi religiosi». Così ha aderito in pieno, fino al limite della rottura interna al movimento, al dettato di Francesco: «La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione». Per lui, come per Giussani, il Cristianesimo non è una dottrina, ma la descrizione di un evento reale, «un incontro, una storia d’amore, un avvenimento», come disse Benedetto XVI ai funerali del fondatore. Il Cristianesimo, come fu alle origini, prima che si facesse Impero, non ha bisogno del potere, ma della libertà: «La verità non si afferma che per la forza della verità stessa». Può insomma essere trasmesso solo «per invidia», per contagio: l’uomo contemporaneo ne viene attratto se può toccare con mano il senso di pienezza che solo l’incontro con Cristo può dare.

Dopo questa lunga premessa «religiosa», con cui giustamente l’autoreinquadra la vicenda di Cl nella più grande tempesta che scuote la Chiesa, diventa molto più facile capire perché don Carrón sia stato protagonista di un profondo mutamento nella vita della Fraternità. Il punto di svolta è il 1 maggio del 2012, quando con una lettera a Repubblica il presidente di Cl chiede letteralmente perdono al movimento per le vicende men che terrene, spesso penali, in cui è stato trascinato: «Provo un dolore indicibile — scrive — nel vedere che cosa abbiamo fatto della Grazia che abbiamo ricevuto. Se il movimento è continuamente identificato con la trattativa del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo averlo dato». Lo ha dato soprattutto Roberto Formigoni, detto il Celeste, il vero capo dell’ala politica di Cl, tre volte governatore della Lombardia, finito con una condanna definitiva nel 2019 a 5 anni e 10 mesi di reclusione per corruzione.

«scelta religiosa». Carrón prende coraggio, e un po’ alla volta mette alla frusta tutti i dogmi di un movimento che dovrebbe avere un solo dogma, l’amore di Cristo. Separa Cl dalla politica politicante. Prende le distanze dal conservatorismo, non partecipa al Family day, rinuncia alla retorica dei «valori non negoziabili»: «Domandiamoci da dove traggono origine i cosiddetti nuovi diritti. Ciascuno di essi pesca, in ultima istanza, in esigenze profondamente umane, il desiderio di essere padri e madri, la paura di soffrire e di morire, la ricerca della propria identità».

niente che non sia nell’alveo dell’insegnamento cristiano; anzi, ciò che di più vicino si possa immaginare alla lezione di Francesco, alla sua idea della Chiesa come un «ospedale da campo» nelle battaglie della post-modernità. Eppure, ecco il contrappasso, «il Papa che Carrón difende dalle critiche dei suoi, è il Papa che fa calare il sipario sulla gestione ciellina del prete spagnolo», scrive Ascione.

Come si sa, infatti, il cumularsi delle ostilità interne di chi non ha mai digerito la «svolta», le sponde che hanno trovato nella Curia e il sospetto del Pontefice per le leadership a vita dei movimenti carismatici, hanno spinto Carrón a dare con due anni di anticipo le dimissioni dalla presidenza della Fraternità. Questa parte del racconto nel libro è forse quella più giornalistica, ricca di rivelazioni, inediti, e . Lasceremo dunque al lettore scoprire che cosa è successo in Cl e che cosa le succederà dopo che Carrón si è messo fragorosamente da parte. Ascione fa infatti parlare numerosi protagonisti della vicenda, che aprono squarci di grande interesse.

A noi preme sottolineare che l’unico che non parli in questa ricostruzione è proprio Carrón. Oggi il prete spagnolo vive in un limbo. Tenuto all’obbedienza e votato al silenzio (un tempo questo si sarebbe chiamato ostracismo), ci manca la sua voce nel dibattito pubblico italiano, ormai così povero di idee e valori cristiani. Il fatto che invece Roberto Formigoni stia valutando la possibilità di tornare sulla scena pubblica, magari candidandosi alle europee con Fratelli d’Italia, ci dà la misura di quanto la «battaglia di Cl» sia davvero un segno dei tempi, e ci riguardi tutti.

Il Bestiario, l'Ateigna. L’Ateigna è un essere mitologico che si indigna per una preghiera fatta recitare nella classe del figlio nel periodo di Natale, ottenendo la sospensione della pericolosa maestra per 20 giorni. Giovanni Zola il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.

L’Ateigna è un animale leggendario che accetta qualsiasi ideologia e rifiuta la propria religione.

L’Ateigna è un essere mitologico che si indigna per una preghiera fatta recitare nella classe del figlio nel periodo di Natale ottenendo la sospensione della pericolosa maestra per 20 giorni. Effettivamente gli ispettori scolastici hanno rilevato fatti gravissimi commessi dalla maestra di Oristano. Si tratta di un resoconto molto crudo, sconsigliato ad un pubblico sensibile: “Reiterate preghiere e canti religiosi nelle ore disciplinari”. Orribile! La gravità è tale che ben si comprende perché un’altra maestra, quella di Castelvetrano, con presunti legami con il boss mafioso Matteo Messina Denaro, pluriassassino e mandante dell’omicidio del ragazzino di quindici anni sciolto nell’acido, sia stata sospesa solo per 10 giorni. La metà della pericolosa terrorista religiosa.

L’indignazione dell’Ateigna è sostenuta da giornalisti sensibili al mondo dell’educazione che scrivono: "Non solo – io penso – hanno fatto bene a farle un provvedimento disciplinare ma quell’insegnante andava licenziata perché ha manipolato le menti di innocenti bambini, li ha obbligati a fare un atto contro la loro volontà (a quell’età nessun bambino si oppone alla maestra); ha abusato della sua libertà d’insegnamento per imporre la propria ideologia cristiana cattolica".

E finalmente arriviamo al punto: la manipolazione delle menti dei bambini contro la loro volontà abusando dell’insegnamento per imporre la propria ideologia. Mentre l’Ateigna si straccia le vesti per una preghiera detta in classe, non si accorge – o si accorge ma non capisce - che in tutte le scuole di genere e grado italiane vengono proposti progetti ispirati alle teorie gender e omosessualiste delle associazioni LGBT. Tali progetti promuovono l’equiparazione di un orientamento sessuale e di ogni tipo di “famiglia”, la prevalenza dell’”identità di genere” sul sesso biologico, la decostruzione di ogni comportamento tipicamente maschile o femminile insinuando che si tratterebbe di arbitrarie impostazioni culturali e la sessualizzazione precoce dei giovani e dei bambini.

Due pesi due misure. Nel primo caso un trattamento punitivo da parte della scuola nei confronti di una maestra religiosa. Nel secondo, la prassi quotidiana di associazioni e dirigenti scolastici che si sostituiscono alle famiglie a scapito della libertà educativa dei genitori. Insomma meglio un figlio sessualmente confuso che un figlio credente, meglio un’educazione che insinua il dubbio sull’identità sessuale dei giovanissimi, con tutte le gravissime conseguenze psicologiche del caso, che la certezza della bontà di una fede sana.

Da apnews.com il 23 giugno 2023.

I confessionali in cui generazioni di belgi hanno ammesso i loro peccati sono accatastati in un angolo di quella che un tempo era la chiesa del Sacro Cuore. L'edificio chiuderà per due anni per far posto a un caffè e un palco per concerti, con l'intenzione di trasformare la chiesa in "un nuovo centro culturale nel cuore di Mechelen". Dietro l'angolo, un'ex chiesa francescana è ora un hotel di lusso dove la star della musica Stromae ha trascorso la sua prima notte di nozze tra le vetrate colorate.

In tutta Europa, il continente che ha alimentato il cristianesimo per la maggior parte dei due millenni, chiese, conventi e cappelle sono vuoti e sempre più abbandonati mentre i fedeli che frequentano sono sempre meno.

«È doloroso. Non lo nasconderò. D'altra parte, non è possibile un ritorno al passato» afferma Johan Bonny, vescovo di Anversa. Qualcosa deve essere fatto e ora, sempre più strutture un tempo sacre vengono riproposte per qualsiasi cosa, dai negozi di abbigliamento e pareti da arrampicata ai night club.

È un fenomeno visto in gran parte del cuore cristiano dell'Europa, dalla Germania all'Italia e in molte nazioni. È ancora più visibile nelle Fiandre. Uno studio del 2018 del gruppo di ricerca PEW ha mostrato, in Belgio, che dell'83% delle persone che afferma di essere cresciuto cristiano, solo il 55% si considera ancora tale. Solo il 10% dei belgi frequentava ancora regolarmente la chiesa.

In media, ognuna delle 300 città delle Fiandre ha circa sei chiese e spesso non abbastanza fedeli per riempirne una sola. E la loro manutenzione è un costante drenaggio delle finanze.

Mechelen, una città di 85.000 abitanti appena a nord di Bruxelles, è il centro cattolico romano del Belgio. Ha due dozzine di chiese, diverse vicino alla cattedrale di San Rumbold con il suo campanile Patrimonio dell'UNESCO. Il sindaco Bart Somers ha lavorato per anni per dare a molti degli edifici uno scopo diverso.

«Nella mia città abbiamo un birrificio in una chiesa, abbiamo un hotel in una chiesa, abbiamo un centro culturale in una chiesa, abbiamo una biblioteca in una chiesa» ha affermato Somers, che in qualità di ministro regionale fiammingo è anche coinvolto nella riqualificazione di circa 350 chiese sparse in una regione densamente popolata di 6,7 milioni.

Un importante progetto di riproposizione in Belgio è stato l'hotel Martin's Patershof a Mechelen, dove l'interno della chiesa è stato sventrato per creare stanze i cui i letti hanno testate che ricordano canne d'organo e una sala per la colazione accanto all'altare. «Spesso sentiamo che le persone vengono qui per rilassarsi e godersi il silenzio della sua antica identità» ha detto la direttrice dell'hotel Emilie De Preter.

«In albergo la gente dorme in una chiesa, magari fa sesso in una chiesa. Quindi potresti dire: eticamente, è una buona idea avere un hotel in una chiesa? Non ho avuto tante esitazioni - ha detto Somers - Sono più preoccupato per l'effettivo valore architettonico che potrebbe disperdersi».

Il valore del design è particolarmente evidente nella chiesa di Sant'Antonio da Padova a Bruxelles, oggi diventato una palestra per arrampicate. Sempre a Bruxelles, il night club Spirito ha rilevato una chiesa anglicana sconsacrata e ha come logo il disegno di un prete che bacia una suora.

Non è esattamente quello che aveva in mente il vescovo Bonny. Anche se la religione cattolica romana è in declino, il senso del sacro o il bisogno di riflessione è ancora presente nella società, che si sia religiosi, agnostici o atei. E l'aura di tranquillità che emana una chiesa è difficile da eguagliare. 

Quindi per Bonny non c'è motivo di trasformare le chiese in supermercati o discoteche: «Quelli sono luoghi di contemplazione. E non è proprio a questo che dovrebbe guardare la chiesa?». Bonny pensa che il riutilizzo più riuscito e gratificante sia stato il passaggio ad altre comunità cristiane, siano esse copte o dell'est europeo. Ma il suo cuore è pesante. Sa che non si tornerà indietro.

Estratto dell’articolo di Davide Perego per “la Verità” il 20 aprile 2023.

Un tratto comune degli ultimi tre pontificati è la messa in guardia da un rischio di perdita d’identità dell’Europa. Oggi il Vecchio continente può definirsi ancora cristiano? Quali sono le preoccupazioni della Chiesa in questa parte di mondo? Può essere ancora salvata dall’avanzata del transumanesimo e quali sono i rischi principali?

«La Chiesa guarda all’Europa con stima, sapendo che essa è nata nell’alveo del Vangelo. Basta leggere la storia. L’identità non è, come si pensa, esclusione, nazionalismo o populismo, ma è casa, storia, ideali e valori, amore e sacrificio. È condizione per dialogare con tutti, donando il meglio senza dissolversi. Senza, l’uomo non sa chi è e dove va: è apolide. Si possono avere molte dimore, ma senza una “casa” non si può essere “cittadini del mondo”, come si dice con enfasi. Si è solo dei vagabondi, degli sbandati.

L’Europa, come scriveva Novalis nel Settecento, se si allontanasse da Cristo non sarebbe più se stessa. Non è una affermazione confessionale, ma logica: grazie al Vangelo, il continente ha raggiunto la visione più alta della dignità umana. E questo è un dono da offrire al mondo intero. Ma deve essere conservato e fondato sulle sue radici storiche, religiose e culturali. Per capire meglio l’Europa, bisogna leggerla a due livelli. Quello della cultura che rumoreggia, segnata da un secolarismo che non ha niente a che fare con la giusta laicità. E quello del popolo o, meglio, dei popoli che riconoscono al fondo della propria identità la matrice cristiana. […]

Il Vangelo ha ispirato l’umanesimo, non l’umanitarismo. Questo porta al “trans umanesimo”, cioè al controllo universale con passi progressivi e, quindi, alla manipolazione giuliva e criminale dell’umano». 

L’Italia, e quasi tutto il continente europeo, sta attraversando un inverno demografico più volte denunciato. Eppure l’emergenza sembra quella dell’aborto, inteso come «diritto» negato. A suo modo di vedere, in questo deserto di famiglie, dominano motivazioni socio-economiche o, per così dire, culturali?

«L’inverno demografico è sotto gli occhi di tutti, tranne di chi predica che siamo troppi e che la Terra si sta tragicamente esaurendo. Non credo a questa narrazione. Penso che siano in atto interessi giganteschi a favore di élite sempre più ristrette: interessi di profitto e di potere. Perché, ad esempio, non si fertilizzano i deserti? Perché non si semplifica la desalinizzazione del mare? Gli esperti dicono che è possibile. 

Per quanto riguarda la diminuzione demografia, si invocano da decenni politiche familiari vere e incisive, che non diano da una parte e tolgano dall’altra. Ma ciò non basta: in certe parti del mondo, dove il livello di vita si è elevato, sono diminuiti i figli. Qui entrano motivazioni spirituali e culturali: i figli sono un bene, una grazia per tutti anche se necessariamente pongono dei limiti, ma sono limiti d’amore. Ogni volta che, per i vicoli di Genova, vedo genitori con i loro bambini, sorrido, saluto e prego per loro». […]

Estratto del'articolo di lastampa.it il 7 aprile 2023.

Pochi giorni prima di Natale aveva recitato un Ave Maria con i suoi piccoli allievi, creando tutti assieme un piccolo rosario di perline, ma per questa iniziativa è stata allontanata per 20 giorni da scuola. L’iniziativa della maestra non è stata proprio gradita: oltre alla sospensione, le sarà ridotto lo stipendio.

 Marisa Francescangeli, maestra nella scuola primaria di San Vero Milis, è senza parole. «Sto vivendo un incubo – ha confessato -. Tutto mi sarei aspettata ma non un provvedimento simile. Mi mancano i miei bambini, mi manca il mio lavoro. Non ho fatto nulla di male».

«[…] per me normalità, non mi sembrava di avere fatto nulla di grave». Ma due mamme si sono lamentate dell’accaduto con il preside […]

Estratto dell’articolo di Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” l’8 aprile 2023.

Credente? Praticante? Devota? Integralista? Con l’«Ave Maria» e il «Padre Nostro» fatti recitare ai bambini della terza elementare di una scuola di San Vero Milis, nell’Oristanese (e la sospensione per 20 giorni con decurtazione dello stipendio), la maestra Marisa ha fatto scoppiare un caso: «Non volevo […] però è un segno che mi ha dato Gesù. Quello che è accaduto è un’ingiustizia grave ed è bene che venga alla luce. Mi sento messa in croce».

 Marisa Francescangeli — 58 anni, due figli gemelli di 36, una vita nella scuola dove insegna storia, geografia e musica, mai un richiamo — afferma con orgoglio la sua fede: «Sono devota alla Madonna, è lei che intercede...». Ma premette di avere chiara la «separazione fra Stato laico e religione […]

Però, insegnando a bambini di 8 anni...

«Tutti gli alunni delle mie classi sono cattolici, non c’è nessun musulmano. Non pensavo di avere mancato di rispetto né ferito coscienze o sensibilità».

 Due mamme non hanno gradito la preghiera in classe.

«È andata così. Insegno in quella terza. Il 22 dicembre un collega si è assentato e ho dovuto sostituirlo per un’ora. Poco prima con i bambini della quarta avevamo costruito un braccialetto, un piccolo rosario con le perline. […]». «[…] Prima di uscire abbiamo recitato il “Pater” e l’“Ave Maria”. Con il braccialetto non penso di aver fatto niente di demoniaco».

E le due mamme?

«Rientrata dalle vacanze il dirigente scolastico mi ha riferito delle proteste: “Dovrà scusarsi”. Ho risposto che se erano dispiaciute, mi sarei scusata. E l’ho fatto».

 La sospensione è arrivata ugualmente.

«Mi è arrivata tre mesi dopo. Credo di non averla meritata e ora sono sommersa da solidarietà, anche delle altre mamme delle mie classi». 

Il ministro Salvini dice che punirla è stata una follia.

«È una sanzione esagerata, sproporzionata a quanto accaduto. Lo dicono tutti...». 

[…] È vero che lei ha segnato la fronte dei bambini con olio benedetto?

«No. Ho portato l’olio da Medjugorje, l’ho dato ai bambini e loro se lo sono messi l’un l’altro, come in un gioco».

 Dicono che lei il 22 dicembre ha benedetto gli alunni.

«Nessuna benedizione. Dopo il “Pater” e l’”Ave”, li ho salutati con un “Che Dio vi benedica!”: è un saluto cristiano a chi si vuol bene».

 L’accusano di sostenere nelle sue lezioni che terremoti ed eruzioni dei vulcani sono un castigo di Dio per la malvagità degli uomini.

«Non è assolutamente vero! Quante fake sui social!».

 Le attribuiscono anche posizioni polemiche contro la sessualità «liquida».

«Non ce l’ho con gli omosessuali. Ce ne sono fra amici e parenti. Ognuno è libero di fare le sue scelte». […]

Maestra sospesa per l'Ave Maria e applausi al preside del Ramadan. Christian Campigli Il Tempo l’08 aprile 2023

Un costante senso di inferiorità. Verso chi ha tradizioni diverse dalle nostre. E deve essere sostenuto in ogni modo. Anche a costo di dover annientare i nostri usi, i nostri costumi. Ciò che, da sempre, viene considerato normale, ovvio, consuetudinale. L’antitetico atteggiamento del mondo progressista su due episodi che hanno come protagonisti la scuola e il suo rapporto con la religione sono l'ennesimo esempio di quanto il politicamente corretto sia il nuovo mantra dei nipotini di Carlo Marx. E la reciprocità sia, al contrario, un concetto indispensabile se si parla di immigrati. Obsoleto se si vuol applicare agli italiani. Mercoledì la Sardegna è stata teatro di un episodio che, non fosse drammatico, sarebbe ridicolo.

Una docente è stata sospesa per venti giorni dall'insegnamento per aver fatto realizzare agli alunni un piccolo rosario con dieci perline a forma di braccialetto e di aver recitato insieme ai piccoli due preghiere: un’Ave Maria e un Padre Nostro. Protagonista dell'episodio, Marisa Francescangeli, 58 anni, maestra che insegna nella scuola primaria di San Vero Milis, in provincia di Oristano, dove segue tre diverse classi, una quarta e due terze. Il fatto è avvenuto proprio in una di queste terze l'ultimo giorno di scuola prima delle festività natalizie del 2022.

Un curriculum di prestigio, macchiato ora da un provvedimento del dirigente scolastico e dell’ufficio scolastico provinciale, dopo che due genitori si erano lamentati con la scuola per il braccialetto-rosario e le preghiere recitate in classe prima di Natale: venti giorni di stop dal 27 marzo sino al 15 aprile e una riduzione dello stipendio. Una vicenda che finirà di fronte ad un’aula di tribunale. I legali di Marisa Francescangeli stanno predisponendo il ricorso. «Riteniamo non congruo il procedimento disciplinare avviato dall’Usp di Oristano – ha affermato l’avvocato Elisabetta Mameli - E per questo, contestiamo l’azione disciplinare, che è molto articolata, ma racchiude i fatti limitatamente alle preghiere e al rosario».

Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, è stato chiamato a occuparsi del caso, sollecitato dal presidente della commissione Affari sociali e Salute della Camera, Ugo Cappellacci e dal deputato di FdI, Francesco Mura. «Siamo alla follia. Buona Santa Pasqua a questa maestra, un abbraccio ai suoi bambini», ha ricordato ieri il leader della Lega, Matteo Salvini. Una rigidità estrema, incomprensibile. Ben distante dall’atteggiamento di plauso avuto dai tromboni di sinistra al preside di un istituto superiore di Firenze. Che aveva concesso una stanza, all’interno della scuola, per consentire agli studenti musulmani di pregare durante il Ramadan.

«Siamo di fronte ad un tipico esempio della doppia morale della sinistra – hanno ricordato il capogruppo in Consiglio regionale toscano per Fratelli d’Italia, Francesco Torselli e il capogruppo a Palazzo Vecchio di Fdi, Alessandro Draghi – Tra i due episodi c’è una differenza evidente. Il preside è diventato un eroe moderno. L’insegnante una retrograda, da allontanare. È questa la società che vorrebbero imporci: aperta sì, ma solo al politicamente corretto». 

La caduta della fede cristiana e il segnale della Via Crucis. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l’8 aprile 2023.

Caro Aldo, è una Pasqua che chiede di trovare la sua origine e non rimanere come sta succedendo ai margini di quello che succede nelle coscienze e nel mondo. Vi è una religiosità da ritrovare, una religiosità vera e non sentimentale e spiritualistica, e la religiosità vera è che Dio c’entra con la vita, che Cristo muore perché accada la pace nel cuore degli uomini, in Ucraina e dovunque si combatte. Questa è la Pasqua, che la vita rinasce, e anche chi non ci crede deve paragonarsi con questo, non con una religiosità estranea alla vita! Gianni Mereghetti

Caro Gianni, Se lei avesse scritto al Corriere questa lettera nel giorno di Pasqua di qualche decennio fa, l’avrebbero considerata una bizzarria. «Ritrovare la spiritualità, la fede?». Era un’Italia che aveva esigenze materiali molto più urgenti di quella di oggi, ma forse anche per questo la fede era così forte che si poteva toccare. I nostri nonni credevano che Gesù fosse morto e risorto così come credevano che il sole sorge e tramonta. I nostri genitori vanno o sono andati regolarmente a messa ogni domenica della loro vita. Oggi non soltanto la pratica religiosa è in caduta libera, le chiese a volte sono vuote, il sacerdote è uno dei mestieri che gli italiani non vogliono più fare; al di là di questi segni esteriori, siamo davvero in crisi di spiritualità. La fede è un dono, e come il coraggio di don Abbondio «non ce lo si può dare». Ma la riflessione spirituale è una necessità dell’animo umano, che stiamo smarrendo. Sono stato in Egitto durante il Ramadan: decine di milioni di persone stanno senza mangiare e senza bere dall’alba al tramonto, e quando il muezzin dà il permesso nel ventre del Cairo si allungano tavolate spontanee dove i ricchi danno da mangiare ai poveri. Noi la quaresima non sappiamo più cosa sia. Non dico che loro siano migliori di noi. È che abbiamo allontanato l’idea di comunità, di preghiera, di sacrificio collettivo, di pratica religiosa, e nello stesso tempo abbiamo abbandonato la riflessione sulla morte e sul significato della vita. Piazza San Pietro era mezza piena per il ritorno del Papa tra i fedeli, ma la maggioranza erano pellegrini stranieri. Poi però scopri che la Via Crucis dal Colosseo è stato il programma più visto della prima serata, con quasi quattro milioni di telespettatori. Vent’anni fa un consigliere di Ciampi mi disse: «Noi parliamo di Europa, ma il nazionalismo ha un grande futuro». Non che ci sia un legame tra le due cose; ma forse anche la fede e la spiritualità hanno un grande futuro.

Cristianesimo? Perché nella civiltà di oggi diventa un "ostacolo". Gianluca Mazzini Libero Quotidiano l’8 febbraio 2023

La morte di Papa Ratzinger ha riportato in primo piano la crisi della Chiesa. Dibattito che parte da alcuni libri: da quello postumo dello stesso Ratzinger “Che cos’è il Cristianesimo” (Mondadori) a quello del suo segretario padre Georg scritto con Saverio Gaeta: “Nient’altro che la verità, la mia vita al fianco di Benedetto XVI” (Piemme). In questo contesto spicca per originalità il libro di Diego Fusaro: “La fine del Cristianesimo” (edizioni Piemme). Punto di partenza la desacralizzazione e la scristianizzazione che accompagnano l’attuale destino dell’uomo in Occidente. Spiega l’autore: «La civiltà tecnico -scientifica e del turbo -capitalismo non solo non ha più bisogno del Cristianesimo ma deve liquidarlo. Si tratta di una necessità assoluta perché il richiamo al sacro e alla trascendenza contrasta col nichilismo intrinseco al liberal-capitalismo. In una società che ha posto a valore la deregulation non c’è posto per Dio, per il Padre, per la Legge. Il Cristianesimo quindi da non essenziale diventa un ostacolo. La pretesa di proporre l’uomo come immagine divina e l’idea di proporre una Verità non utilitaristica dimostra che la religione cristiana diventa una “potenza frenante”».

Per Fusaro questo processo di desacralizzazione si manifesta a livello preoccupante del pontificato di Francesco e nel suo tentativo di scendere a patti con la civiltà dei consumi, assimilandone il lessico e la visione del mondo anche in salsa progressista. Processo che ricorda quello di Gorbaciov al tempo della Perestrojka. L’ultimo leader sovietico che per “ammodernare” il comunismo produsse il suo scioglimento nel capitalismo. «Citando Pasolini: l’opposizione al nuovo potere non può che essere un’opposizione anche di carattere religioso», aggiunge Fusaro, «siamo ad un bivio: sostenere il sacro e il trascendente oppure evaporare nel mondo neoliberale. Tendenze divergenti incarnate dagli ultimi due Papi; con Ratzinger sulla prima posizione e Bergoglio sulla seconda. L’ateismo liquido dell’attuale pontificato sta sprofondando la Chiesa nell’abisso della civiltà dei consumi. Non so se Bergoglio creda nell’Inferno ma per lui è il luogo dove inserire tutti coloro che non aderiscono ai principi neoliberali come i cosiddetti sovranisti.

Paradigmatico il caso delle chiese bruciate in Francia: attentati per cui nessuno si scandalizza e che valgono come simbolo della decadenza della Chiesa bergogliana. Mentre viene condannato chiunque osi criticare minoranze religiose accusandolo di discriminazione si può tranquillamente diffamare il cristianesimo. In questo caso è libertà di espressione». Il libro è un atto di accusa filosofico contro quella fede liquida e low cost promossa da Francesco. Un capitolo è dedicato all’islam, altro luogo di inimicizia nei confronti della civiltà tecno-capitalista. Questo perché nel mondo musulmano non è pensabile offendere Dio senza suscitare reazioni anche violente. Per Fusaro, contro lo spirito del tempo presente è irrinunciabile un’alleanza tra la Chiesa resistente al modernismo nichilista (come quella ortodossa) e le forze laiche anticapitalistiche che non intendono soggiacere al consumismo imperante. 

Estratto dell’articolo di Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 23 gennaio 2023.

 […] circa il 20% degli italiani frequenta i luoghi di culto almeno una volta alla settimana. Quasi il 30% mai. Solo 10 anni fa, però, questa relazione era inversa. Inoltre, com’è noto, la frequenza alla messa e ai luoghi di culto è sempre più una “pratica praticata” dagli anziani. […] Fra chi ha più di 65 anni, infatti, oltre il 26% afferma di andare a messa quasi ogni settimana. Una quota che si riduce al 12% fra le persone con meno di 30 anni.

Questa differenza si accentua se si considera il “genere”. Visto che, fra gli uomini, il 14% dichiara una pratica religiosa “regolare”, mentre fra le donne questa componente supera il 21 per cento. Per questo, la Chiesa resta “un” centro, se non più “il” centro, della società. Per questo suscita interesse e, come si è detto, polemiche. Alimentate, nuovamente, da cardinali e alti prelati che hanno svolto ruoli centrali nel corso del papato precedente.

Come Padre Georg, il quale, nel libro, appena pubblicato, ritorce su Papa Francesco l’accusa, rivolta in precedenza a Ratzinger, di aver creato un “cerchio magico”, che “decide anche le nomine”.

Tuttavia, la fiducia nei confronti del Pontefice si conferma molto elevata. Espressa dai due terzi degli italiani. E, anzi, un po’ di più: 68%. Lontano dai picchi toccati 10 anni fa, al momento dell’elezione, quando sfiorò il 90%. […] il Pontefice continua a ottenere una fiducia largamente maggioritaria. La più elevata, insieme al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella […] L’apprezzamento nei confronti del Papa raggiunge i livelli più elevati fra le donne e nelle classi d’età adulte e anziane. Ma è rilevante anche fra i più giovani (49%). La pratica religiosa, ovviamente, influisce sensibilmente, su questo sentimento.

[…] Il grado di apprezzamento maggiore, sotto questa prospettiva, viene espresso dagli elettori del Pd (85%) e del Terzo Polo-Azione e Italia Viva (80%). Ma anche fra chi vota per FI gli indici di consenso risultano superiori al 70% (per la precisione, 73%). L’atteggiamento verso Papa Francesco, invece, appare più tiepido, ma comunque positivo tra i sostenitori del M5S e dei Fratelli d’Italia. L’indice decisamente più basso si rileva, invece, nella base della Lega. Un aspetto che non sorprende, viste le posizioni manifestate, in diverse occasioni, dall’attuale Pontefice riguardo all’accoglienza degli immigrati. […]

Il difficile privilegio della libertà. Nel nuovo libro "Catechismo della vita spirituale" il cardinale Robert Sarah denuncia la tendenza dell'uomo a volersi sostituire a Dio. Ecco un estratto. Robert Sarah il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Pubblichiamo, per gentile concessione della Edizioni Cantagalli, un'anticipazione del nuovo libro del cardinale Robert Sarah, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, dal titolo Catechismo della vita spirituale, disponibile in libreria dal 27 gennaio 2023.

L’uomo è la più grande meraviglia visibile della creazione, perché è intelligente e libero, capace di conoscere e donarsi; ma possiede questo grande privilegio ancora in forma embrionale, a lui spetta imparare a farne il giusto utilizzo e, per così dire, a conquistarlo, giorno dopo giorno, nella sua pienezza.

La costituzione Gaudium et Spes riassume bene il pensiero della Chiesa sulla natura della vera libertà. Eccone un passaggio mirabilmente strutturato e di eccezionale chiarezza:

L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà. I nostri contemporanei stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male. La vera libertà, invece, è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in mano al suo consiglio”, che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione. Perciò la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna. L’uomo perviene a tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine mediante la scelta libera del bene e se ne procura con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti. Questa ordinazione verso Dio, la libertà dell’uomo, realmente ferita dal peccato, non può renderla effettiva in pieno se non mediante l’aiuto della grazia divina. Ogni singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita davanti al tribunale di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male.

L’uomo, dunque, diventerà veramente libero solo impegnandosi, con l’aiuto della grazia divina, a restaurare in sé l’immagine e la somiglianza con Dio che si sono guastate in seguito al peccato. In altre parole, solo l’ingresso nella vita cristiana dà accesso alla vera libertà, che è la scelta spontanea del bene. «Quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi. Non c’è vera libertà se non al servizio del bene e della giustizia. La scelta della disobbedienza e del male è un abuso della libertà e conduce alla schiavitù del peccato (cfr. Rm 6,17)».

L’uomo è pienamente uomo solo quando sceglie il bene, offrendo la propria libertà e il proprio amore in omaggio a Dio. Saper dire «sì» a Dio equivale, inseparabilmente, ad avere il coraggio di dire «no» a tutte le moderne forme di idolatria e ai piaceri illusori che il disordine morale promette. La Chiesa si trova oggi di fronte a tante miserie morali e sociali, molte delle quali derivano dal desiderio di distruggere l’orizzonte dei valori umani e cristiani che i secoli passati sono riusciti in qualche modo a stabilire, per sostituirvi un’erronea assolutizzazione della libertà. Confusamente consapevole che questa libertà è un privilegio divino, l’uomo contemporaneo vorrebbe sostituirsi a Dio, legislatore e signore di ogni cosa. Vorrebbe ridefinire la propria natura, il proprio sesso, stabilire arbitrariamente il bene e il male, anche se ciò comportasse fare di un crimine abominevole un diritto inalienabile, come per esempio l’aborto «legalizzato, sicuro e accessibile a tutti». L’uomo moderno vuole essere assolutamente autonomo rispetto a Dio e alle sue leggi. «L’empio si vanta delle sue brame, l’avaro maledice, disprezza Dio. L’empio insolente disprezza Dio: “Dio non se ne cura: Dio non esiste”; questo il suo pensiero» (Sal 10,3-4). Davanti a ciò i cristiani devono agire con coraggio, adoperarsi con magnanimità, nobiltà ed eroismo per rendere manifesta la speranza che è in loro (cfr. 1 Pt 3,15). Non possono esimersi dal far sentire la loro voce su questioni che coinvolgono la concezione della persona umana e della sua dignità. Devono rivelare agli uomini di oggi ciò che veramente è la libertà e che solo Gesù può donarla: «Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (Gv 8,36). Egli ci libera anzitutto da noi stessi, dalla schiavitù del peccato e della morte, per introdurci nella vita intima della Santissima Trinità.

Vivere in pienezza il Vangelo riproducendo in noi l’immagine del Figlio di Dio, lasciando che Gesù Cristo penetri nella nostra vita, nella nostra società, nelle nostre strutture politiche, economiche e culturali, nella ricerca scientifica e tecnologica e in tutti gli ambiti dell’esistenza umana, aiutando le persone a spalancare le porte a Cristo perché le renda veramente libere, questo è l’impegnativo compito del cristiano, la sua missione di tutti i giorni.

I Mormoni.

Chiesa ortodossa.

Chiesa ortodossa russa.

Chiesa greco-cattolica ucraina.

Protestantesimo.

I Mormoni.

Estratto dell’articolo di Massimo Gaggi per corriere.it il 16 maggio 2023.

«Una sorta di hedge fund del valore di oltre 100 miliardi di dollari di proprietà della chiesa dei mormoni, che lo ha mascherato da società filantropica». Lo denuncia davanti alle telecamere della trasmissione 60 minutes della Cbs, David Nielsen, un finanziere mormone che nel 2009 lasciò Wall Street per andare a gestire il patrimonio della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni: 

«Pensavo di andare a distribuire risorse nella comunità e invece mi sono trovato a gestire un fondo d’investimento chiamato Ensign Peak Advisors, che continuava a crescere e non dava niente a nessuno. Cresceva anche perché non pagava tasse, visto che la società era registrata come non profit. Ma i profitti li faceva, eccome». 

Nielsen se n’è andato nel 2019 e ha denunciato quello che considera un comportamento fraudolento della chiesa mormone nei confronti dell’Irs, il fisco americano. Il quale, però, ha scelto di non intervenire. È, invece, intervenuta la Sec, l’autorità che sorveglia la Borsa e i mercati finanziari. 

La Consob americana ha scoperto che nel 2019 la chiesa mormone aveva creato 13 shell company, cioè società fittizie dietro le quali nascondere una parte del patrimonio investito: 32 miliardi di dollari di azioni. Allora la chiesa che ha sede a Salt Lake City dovette pagare una multa di 5 milioni di dollari.

Oggi la chiesa mormone si difende definendo infondate le accuse di Nielsen, anche se fu proprio la sua denuncia che portò alla condanna della Sec nel 2019: «Allora sbagliammo, fummo consigliati male dai nostri avvocati. Ma Nielsen ha una visione solo parziale di quanto accade nella nostra chiesa», sostiene Chris Waddell, uno dei tre vescovi mormoni incaricati di seguirne i problemi finanziari. 

Intervistato dalla Cbs, però, Waddell rifiuta di fornire cifre sul patrimonio della chiesa. Quando la giornalista di 60 Minutes gli dice che si parla di un tesoro di 150 miliardi di dollari, il vescovo mormone risponde impassibile: «È una cifra che è stata fatta». E poi, dopo aver rifiutato di spiegare come questi soldi vengono utilizzati, si limita a concludere che il patrimonio serve a garantire la sopravvivenza della chiesa in caso di cataclismi, naturali o finanziari. […] 

Chiesa ortodossa.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La Chiesa ortodossa, ufficialmente Chiesa Cattolica Apostolica Ortodossa, è la seconda Chiesa cristiana più grande al mondo, arrivando a contare circa 220 milioni di fedeli battezzati. Essa opera come una comunione di chiese autocefale, cioè il cui capo non riconosce alcuna autorità religiosa in terra al di sopra di sé, ciascuna governata dai propri vescovi nei sinodi locali. La chiesa ortodossa non è dotata di un'autorità dottrinale o governativa centrale analoga al vescovo di Roma (il Papa), tuttavia il patriarca ecumenico di Costantinopoli è riconosciuto da tutti i vescovi come primus inter pares ("primo tra pari") e considerato come il rappresentante e il capo spirituale di tutti i cristiani ortodossi.

Essendo una delle più antiche istituzioni religiose al mondo ancora esistenti, la Chiesa ortodossa ha ricoperto un ruolo di primo piano nella storia del cristianesimo e, più in generale, in quella di tutta l'Europa orientale e sud-orientale, del Caucaso e del Vicino Oriente, plasmandone la cultura e la società.

La teologia ortodossa si basa sulla santa tradizione, che incorpora i decreti dogmatici elaborati nei sette concili ecumenici, le Scritture e l'insegnamento dei Padri della Chiesa. La Chiesa ortodossa afferma di essere “una, santa, cattolica e apostolica”, fondata da Gesù Cristo nella sua Grande Missione e che i suoi vescovi sono i successori degli apostoli. Essa, inoltre, sostiene di essere depositaria della fede cristiana originaria, come tramandata dalla santa tradizione.

I cristiani ortodossi riconoscono i sette sacramenti maggiori, di cui l'Eucaristia è il principale, celebrati liturgicamente in sinassi. La chiesa insegna che attraverso la consacrazione invocata da un sacerdote, il pane e il vino sacrificali diventano il corpo e il sangue di Cristo (transustanziazione). La Vergine Maria è venerata nella Chiesa ortodossa come Madre di Dio, ‘’Theotókos’’, e viene onorata nelle devozioni.

La Chiesa ortodossa condivise la comunione con la Chiesa cattolica romana fino al Grande Scisma del 1054, che fu il culmine delle secolari controversie tra oriente e occidente su questioni teologiche, politiche e culturali, in particolare sull'autorità pontificia. Prima del Concilio di Efeso nel 431 d.C., anche la Chiesa d'Oriente condivideva tale comunione, così come le varie Chiese ortodosse orientali prima del Concilio di Calcedonia nel 451 d.C., tutte poi separate principalmente per via di alcune differenze riguardanti la cristologia.

La maggior parte dei cristiani ortodossi orientali vive principalmente nell'Europa sudorientale e orientale, a Cipro, in Georgia e in parti della regione del Caucaso, in Siberia e nell'Estremo Oriente russo. Circa la metà dei cristiani ortodossi orientali vive nelle nazioni appartenenti nell'ex Unione Sovietica, principalmente in Russia. Vi sono comunità anche nelle ex regioni bizantine dell'Africa, nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente, tuttavia in costante diminuzione a causa delle persecuzioni religiose.

Alcune comunità sono presenti anche in molte altre parti del mondo, in particolare in Nord America, nell’Europa occidentale e in Australia, formatesi attraverso la diaspora, le conversioni e l'azione missionaria. I suoi patriarcati, che ricordano la pentarchia, e le altre chiese autocefale e autonome, riflettono una varietà di organizzazione gerarchica.

Denominazioni

Come è indicato nelle pubblicazioni del Dipartimento di Statistiche delle Nazioni Unite, le denominazioni usate dai vari stati per indicare le religioni non sono uniformi. Così i cattolici sono identificati come "cattolici" in Portogallo, ma "cattolici romani" in Germania, e il termine "ortodosso", che in Etiopia indica soprattutto appartenenza alla Chiesa ortodossa etiope, una delle Chiese ortodosse orientali, in Romania indica soprattutto l'essere membri della Chiesa ortodossa romena, una delle Chiese che in inglese e tedesco sono anch'esse chiamate orientali (usando però Eastern, un vocabolo distinto da Oriental, anche se sinonimo), ma che in lingue che non dispongono di una simile coppia di sinonimi sono chiamate bizantine o calcedonesi. Queste ultime lingue attualmente riservano l'aggettivo "orientali" per le Chiese che non accettano il Concilio di Calcedonia.

Origini e significato di "ortodossia"

Si può datare la nascita dell'ortodossia, in senso generale, intorno al IV secolo, quando il cristianesimo comincia ad allontanarsi dal paradigma giudaico-cristiano e comincia a tenere i primi concili.

«Il termine “ortodossia”, di origine greca, significa letteralmente “retta dottrina”. A questo significato primario la tradizione ecclesiale orientale ne aggiunge un secondo, complementare al primo, quello di “retta glorificazione”. I due significati esprimono la medesima realtà, cioè la professione della retta fede cristiana, sia essa formulata sul piano concettuale (dottrina) o celebrata nella liturgia della Chiesa (glorificazione)»

A partire dal quarto secolo del cristianesimo, quando la Chiesa era denominata "cattolica" nel credo niceno-costantinopolitano e negli atti ufficiali degli imperatori romani (vedi Editto di Tessalonica), anche il termine "ortodossia" entrò nell'uso cristiano (si trova negli scritti di Eusebio di Cesarea, di Giulio I, di Atanasio di Alessandria, di Basilio Magno e nel V secolo negli atti del Concilio di Efeso e del Concilio di Calcedonia) per esprimere l'adesione piena al messaggio evangelico originario di Gesù Cristo trasmesso dagli apostoli, senza le aggiunte, amputazioni e mutazioni delle eresie.

Si definiscono come ortodosse quasi tutte le Chiese cristiane. Nel canone romano della messa i sacerdoti cattolici della Chiesa latina pregano in unione con "famulo tuo Papa nostro N. et Antistite nostro N. et omnibus orthodoxis atque catholicae et apostolicae fidei cultoribus". La maggior parte di quella famiglia di Chiese alle quali si dà oggi il nome di "Chiese ortodosse orientali", e che agli occhi della Chiesa ortodossa sono eterodosse per avere rigettato il Concilio di Calcedonia, mettono l'aggettivo "ortodossa" nel proprio nome (per esempio la Chiesa ortodossa copta e la Chiesa ortodossa siriaca).

Il termine "ortodossia" diventa di uso comune per indicare precisamente la Chiesa ortodossa solo a partire dallo scisma d'Oriente del 1054, allo scopo di distinguerla dalla Chiesa cattolica.

L'ortodossia, in senso confessionale, è rappresentata in massima parte da una serie di Chiese nazionali autocefale. Queste hanno un loro sinodo e un loro Primate, e pur essendo in piena comunione sacramentale e canonica tra loro, agiscono indipendentemente l'una dall'altra dal punto di vista amministrativo. Vi sono anche Chiese autonome o semiautonome che hanno un notevole grado di autogoverno, ma non possono definirsi autogovernantesi innanzitutto perché l'elezione del loro Primate viene formalmente approvata dal Sinodo della Chiesa autocefala da cui dipendono, che in genere è il Patriarcato che le ha generate.

Va tuttavia specificato che non mancano all'interno dell'ecumene ortodossa tutta una serie di situazioni oggetto di controversie giurisdizionali, talora tali da porre in crisi la comunione di qualche particolare realtà. Specie in mancanza di un arbitrato patriarcale. Ciò può dipendere da conflitti legati a svariati motivi. Ci sono casi di controversia per l'autodeterminazione nazionale di un popolo (come nel caso delle Chiese ortodosse bielorussa e montenegrina, per ora, e che quindi non sono in comunione con le principali Chiese ortodosse), nel caso in cui il relativo Patriarcato, per suoi motivi, non voglia concederla.

Chiesa ortodossa e Chiese ortodosse

L'autore della voce "ortodossa, Chiesa" delle Enciclopedie online Treccani afferma: "In epoca contemporanea si può parlare di un'unica Chiesa ortodossa solo in senso improprio, perché nelle Chiese orientali non vi è un unico vicario, come il pontefice nella Chiesa cattolica". Afferma inoltre che la collettività delle Chiese ortodosse autocefale e autonome (delle quali queste ultime si riconoscono parti delle rispettive Chiese autocefale dalle quali dipendono) si considera "un unico organismo". Similmente, le diverse Chiese sui iuris cattoliche sono distinte (e a volte in conflitto su questioni giurisdizionali) e si riconoscono componenti dell'unico organismo che è l'unica Chiesa cattolica.

È di tale "unico organismo", sia Chiesa ortodossa che Chiesa cattolica, che si tratta quando si considerano questioni dottrinali. Si parla al singolare della dottrina della (unica) Chiesa ortodossa, non delle dottrine delle diverse Chiese ortodosse. Tutti i gruppi nazionali che formano la Chiesa ortodossa condividono la stessa fede, obbediscono allo stesso corpo di canoni sacri e celebrano la stessa liturgia bizantina. L'unico organismo della Chiesa ortodossa partecipa come tale nelle relazioni con le altre Chiese cristiane.

I nomi "Chiesa greco-ortodossa", "russo-ortodossa", "siro-ortodossa", "serbo-ortodossa", "romeno-ortodossa", ecc. sono tutti nomi dell'unica e identica Chiesa che mantiene l'unica e identica fede e prassi: le differenze culturali che esistono dentro di queste chiese non toccano l'essenza della fede come tale.

Questa comunione di Chiese riconosce un primato d'onore alla sede vescovile di Costantinopoli, costituita patriarcale dal 381, e definitasi "ecumenica" in un sinodo tenuto a Costantinopoli nel 587, nonostante le proteste romane. Il patriarcato di Costantinopoli, peraltro, era già stato promosso nella gerarchia delle sedi patriarcali da parte del Concilio di Calcedonia del 451, che in un canone (rigettato da Papa Leone I e la cui validità è contestata anche da alcuni ortodossi[) concesse "alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico, e che fosse seconda dopo di quella"; Costantinopoli veniva così elevata al di sopra delle sedi di Alessandria e Antiochia, le cui prerogative erano riconosciute a partire dal Concilio di Nicea I (325). Più tardi, con lo scisma del 1054, dal momento che la sede di Roma non era più in comunione con le Chiese unite con quella di Costantinopoli, il primato d'onore - ma non di giurisdizione - venne attribuito da queste appunto a Costantinopoli.

Le Chiese ortodosse più conosciute sono la Chiesa ortodossa greca, Chiesa ortodossa russa e la Chiesa ortodossa serba riconosciute dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli rispettivamente nel 1850, 988 e nel 1054. Di queste la seconda è numericamente maggiore. Nel suo complesso, la Chiesa ortodossa, sia euro-orientale sia medio-orientale, ecc., è per dimensioni la terza maggiore confessione cristiana: contando 250 milioni di fedeli in tutto il mondo (di cui 52 milioni nelle chiese cosiddette canoniche di rito bizantino), anche se in larga prevalenza nei paesi dell'Europa orientale, ora per opera dei fenomeni di immigrazione anche diffusa in Europa e in tutto l'Occidente.

Storia della Chiesa ortodossa

L'inizio della Chiesa ortodossa viene fatto risalire all'atto di Gesù che, nel chiamare i suoi apostoli, l'avrebbe fondata. All'inizio poi del IV secolo, il riconoscimento e legalizzazione del cristianesimo da parte dell'Impero romano comportò una tendenza di uniformare e centralizzare la Chiesa con l'assistenza del potere politico, e la sua conseguente divisione secondo l'accettazione o il rifiuto degli sviluppi concreti di tale tendenza. Di questo la prima grande manifestazione fu lo scisma che seguì il Concilio di Calcedonia del 451 e che portò alla distinzione tra quelle chiese che l'accettarono e quelle, oggi chiamate anche Chiese ortodosse orientali, che lo rigettarono.

L'attualmente esistente scissione fra la Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica è chiamata a volte il Grande Scisma, termine però applicato anche al già menzionato scisma concernente il Concilio di Calcedonia e al più recente scisma interno della Chiesa cattolica che durò quasi 40 anni dal 1378 al 1417.

Prima dello scisma fra Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica, quando cioè erano una stessa e identica realtà, le controversie teologiche che si agitavano da secoli potevano essere in qualche modo ridimensionate, come fece Massimo il Confessore nel VII secolo, durante la controversia monotelita, dando una interpretazione completamente tradizionale anche alla controversa dottrina del Filioque che allora cominciava a farsi notare.

L'ancora oggi perdurante scisma fra le sedi di Roma e di Costantinopoli, di cui solitamente si attribuisce l'inizio all'anno 1054, fu preceduto da alcune temporanee interruzioni di comunione. La prima fu lo scisma acaciano (484–519), "che in certo modo consacrò e organizzò l'autonomia bizantina, quale si attuerà in tempi ulteriori". Nel 863–867 c'è stato lo scisma foziano. Altre controversie pure disturbavano le relazioni fra Roma e Costantinopoli ma, a giudizio di Friedrich Kempf sarebbe temerario classificare tali avvenimenti come scismi, così come pure "potrebbe essere semplicemente una conseguenza del rapido succedersi dei papi il fatto che poco a poco si tralasciò nella liturgia bizantina la menzione esplicita di questi papi".

Fra le cause dell'esistente scisma si può menzionare la contestazione da parte del patriarca "ecumenico" Michele I Cerulario nei confronti di questioni da lui ritenute innovazioni o eresie della Chiesa latina, come l'uso per l'eucaristia del pane azzimo invece del lievitato, la soppressione dell'alleluia nella quaresima, l'uso di digiunare al sabato, l'uso di radersi la barba, il celibato ecclesiastico obbligatorio. Ebbe influsso anche l'antagonismo fra l'Impero bizantino e il nuovo impero di Carlo Magno e dei Franchi. E c'entravano pure le rivalità giurisdizionali sulle popolazioni slave in via di conversione al cristianesimo e per il ripristino della giurisdizione ecclesiastica del papa sui territori nel sud dell'Italia e nei Balcani passati al patriarcato di Costantinopoli dall'imperatore Leone III Isaurico come punizione dell'opposizione papale alla sua politica iconoclasta, territori però di cui l'impero bizantino stava perdendo sempre più il possesso. Nel 1054 successe a Costantinopoli uno scontro fra due personalità tempestuose, il patriarca Michele Cerulario e Umberto di Silva Candida, capo di una legazione pontificia, alla conclusione del quale questi scomunicò il patriarca e i suoi sostenitori e il patriarca scomunicò i legati e chiunque li appoggiasse.

Secondo Charles A. Frazee, la vera data dell'inizio dello scisma fra la Chiesa ortodossa e la cattolica è 1755, data del decreto patriarcale che dichiarò invalido il battesimo amministrato dai Latini: mentre le dispute giurisdizionali possono esistere dentro di una Chiesa unica, negare la validità sacramentale è una rottura di carattere essenziale.

L'ostilità reciproca era stata già fomentata dal massacro dei Latini di Costantinopoli nel 1182 e dal sacco della stessa città nel 1204 nel quadro della quarta crociata, grazie alla deviazione su Costantinopoli a richiesta di un pretendente al trono bizantino e alla reazione aggressiva di Venezia per il mancato pagamento. Fu a motivo della pressione esercitata dalla popolazione greca di Costantinopoli, di atteggiamento violentemente anti-Latino, che fu adottato il decreto del 1755, nonostante l'opposizione di alcuni vescovi ortodossi.

Quelle chiese alle quali si applica in questo articolo il termine "Chiesa ortodossa", e che dopo il Concilio di Calcedonia (451) avevano già sofferto la scissione con le Chiese ortodosse orientali, hanno così cominciato a riservare a sé il termine "ortodossia", pur senza rinunciare anche alla nozione di "cattolicità" prevista dal Credo niceno-costantinopolitano. Ciò deriva dal fatto che le Chiese di tradizione bizantina ritengono che solo nell'Ortodossia, e cioè in sé stesse, debba sussistere la "Chiesa universale" fondata da Cristo. Di cui affermano di incarnare la continuità e a cui appartengono tutti i veri battezzati. Per tali ragioni gli ortodossi, come di contro i cattolici, si percepiscono come i custodi dell'originale cristianità apostolica.

Rispetto alla Chiesa cattolica o Chiesa cattolica romana, la Chiesa bizantina non riconosce, oltre al primato papale di giurisdizione, la dottrina cattolica concernente il purgatorio (che non include le nozioni popolari di fuoco e di luogo), la processione dello Spirito Santo anche dal Figlio, l'Immacolata Concezione, l'Assunzione di Maria e tutte le altre dottrine definite dalla Chiesa cattolica dopo il 1054. La Chiesa bizantina, inoltre, differisce dalla Chiesa latina in quanto non ammette la grazia creata ma, piuttosto, crede che l'uomo sia reso partecipe delle energie divine increate. Le "differenze" arrivano fino all'uso o meno delle sedie in chiesa.

A livello pratico, la Chiesa bizantina pratica in massima parte il rito bizantino, amministra il battesimo per immersione, offre l'eucaristia ai fedeli con pane lievitato e vino in un cucchiaio. Come fanno anche alcune Chiese orientali cattoliche (non necessariamente di rito bizantino), Chiese ortodosse orientali e chiese della tradizione della Chiesa d'Oriente, la Chiesa ortodossa ammette uomini sposati agli ordini del diaconato e del presbiterato, ma non all'episcopato, e non permette il matrimonio ai chierici già ordinati. Sceglie i vescovi fra i monaci, vincolati dal voto di castità.

Fede e principi religiosi

La Chiesa ortodossa si proclama l'unica vera Chiesa cristiana, "quell'unica autentica Chiesa che conserva la continuità della vita della Chiesa, cioè l'unità della tradizione".

Le fonti fondamentali degli insegnamenti della Chiesa ortodossa sono:

La Bibbia

La Sacra Tradizione

Gli scritti dei Padri apostolici e degli Apologeti

Le decisioni dei Concili canonici concernenti la fede

I discorsi composti in epoche di dispute e di scismi, particolarmente del Grande Scisma

I discorsi che criticano gli errori del protestantesimo e della Chiesa cattolica romana

Nella Sacra Tradizione, dopo la Sacra Scrittura, alla quale appartiene il posto preminente, si trovano la liturgia e le preghiere, le decisioni dogmatiche e gli atti dei concili, le vite dei santi, il diritto canonico e la sacra iconografia.

La Trinità

Tutti i cristiani ortodossi credono in un solo Dio in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo, "uno in essenza e indiviso". Per quanto riguarda il rapporto tra Dio e la creazione, i teologi bizantini distinguono fra l'essenza eterna di Dio e le "energie increate"; si tratta di una dottrina presente già in padri della Chiesa come san Basilio o sant'Atanasio di Alessandria, ma esplicitata in modo organico da san Gregorio Palamas nel XIV secolo. L'essenza divina è inconoscibile alle creature (che siano uomini o angeli), mentre le energie o atti divini increati possono essere conosciuti attraverso l'esperienza e sono la via attraverso la quale Dio comunica all'uomo e l'uomo raggiunge la théosis o deificazione. Naturalmente sia l'essenza sia le energie sono inseparabilmente Dio; questa distinzione è tuttavia usata per spiegare come Dio possa essere assolutamente trascendente e allo stesso tempo agire all'interno della Creazione

Il Padre è la "persona" o ipostasi fonte della divinità (in ambito teologico si parla di "monarchia del Padre", dal greco mònos, solo e arché, principio), che si caratterizza per essere ingenerato; il Figlio è generato (ma non creato) eternamente dal Padre e lo Spirito Santo procede eternamente dal Padre (Gv. 15, 26). Ingenerazione, generazione e processione sono le caratteristiche che individuano le tre diverse ipostasi della Trinità, secondo i dettami dei padri del primo concilio di Nicea (325) e di quello di Costantinopoli (381), che hanno su questa base formulato il Simbolo di fede (Credo niceno-costantinopolitano) cui la Chiesa ortodossa è rimasta fedele sia nella formula sia nella sostanza.

Rispetto alla Chiesa romana, quindi, si ritiene di avere in quest'ambito "due differenze sostanziali". La prima è la processione dello Spirito Santo. I teologi ortodossi dicono che "procede solo dal Padre", o tutt'al più - in quanto energia comune alla Trinità - "procede dal Padre attraverso il Figlio", secondo l'espressione del Secondo concilio ecumenico di Nicea (l'ultimo in comune fra Occidente e Oriente). Il valore conciliare delle due espressioni le identifica come Fede comune e quindi infallibile. I teologi occidentali, seguendo la definizione del papa Leone Magno nel 447 (che ha portato all'aggiunta del Filioque al Credo), dicono che lo Spirito procede "anche dal Figlio" (Filioque) e "attraverso il Figlio" Questa secondo gli "ortodossi" introdurrebbe una "deviazione nel piano della processione eterna dello Spirito dal Padre" (cioè la "generazione" dello Spirito in quanto persona dal solo Padre, prospettiva teologica), "confondendolo con quello dell'invio dello Spirito nel mondo" (cioè l'irradiazione dell'energia salvifica dello Spirito nel mondo; prospettiva ecumenica).

La seconda differenza riguarda la "natura delle energie divine": per gli ortodossi esse "sono increate", per i cattolici "sono invece create" da Dio. Da ciò consegue anche una diversa comprensione della beatitudine dei santi: essi partecipano all'essenza di Dio secondo i cattolici e alle energie divine secondo gli orientali.

Salvezza

L'uomo fu originariamente creato perfetto, ma libero di scegliere il bene o il male; attraverso le sue azioni abbracciò la malvagità. A causa della sua caduta, egli si condannò all'Inferno; si crede che da Adamo a san Giovanni Battista tutti gli uomini restarono in un luogo separato da Dio. Ma quando venne al mondo Gesù, egli stesso fu contemporaneamente uomo perfetto e Dio perfetto. Attraverso la sua partecipazione all'umanità, la natura umana fu cambiata, permettendo agli esseri umani di partecipare alla natura divina. Questo processo di cambiamento avvenne anche retroattivamente, fino all'inizio dei tempi, salvando tutti coloro che erano venuti prima, fino ad Adamo. La salvezza, perciò, si riferisce a questo processo di riavvicinamento a Dio.

Il traguardo finale dell'ortodossia è la theosis, o unione con Dio, stato nel quale l'uomo si deifica per grazia divina. Questo è ben sintetizzato dal detto di sant'Atanasio di Alessandria: "Dio è divenuto Uomo affinché l'Uomo possa divenire Dio". Questo processo di cambiamento è un traguardo che, sulla terra, è raramente raggiunto dagli uomini, anche se alcuni lo hanno sperimentato. Certamente, l'individuo che raggiunge la deificazione (la theosis) non capisce totalmente cosa gli sia successo a causa della sua umiltà perfetta che lo rende totalmente estraneo all'orgoglio.

Tradizione

L'ortodossia, oltre alla Sacra Scrittura, si basa anche sulla Tradizione - un termine vasto che comprende la Bibbia, il Credo, le dottrine dei concili ecumenici (di cui riconosce soltanto i primi sette, perché comuni), gli scritti dei "padri della Chiesa", le leggi ortodosse (canoni), i libri liturgici, le icone, ecc.

Affidandosi alla tradizione, gli ortodossi citano san Paolo, (l'apostolo delle genti, sepolto a Roma sotto l'omonima basilica costantiniana): "Così dunque, fratelli, state saldi e ritenete gli insegnamenti che vi abbiamo trasmessi sia con la parola, sia con una nostra lettera." (Seconda lettera ai Tessalonicesi 2:15). La Chiesa ortodossa crede che lo Spirito Santo lavori attraverso la storia per mostrare costantemente la medesima verità ai membri della Chiesa e che estirpi la falsità in modo che la Verità possa mostrarsi sempre meglio nel cuore dei credenti.

Per questo la tradizione non è tanto e soltanto un insieme di testi e di norme giuridiche o di documenti provenienti da un'autorità, ma una vita che percorre e dà senso alla Chiesa, una vita testimoniata e visibile dall'esempio dei santi asceti, considerati per questo come l'incarnazione della perenne tradizione e la verace espressione della fede ortodossa.

Questo aspetto peculiare all'ortodossia sottolinea il valore esperienziale e non meramente intellettuale della tradizione. Essa non è mai ritenuta una realtà morta o museale, dal momento che passa attraverso la vita di uomini cambiati dalla fede in Cristo trasmettitori, a loro volta, della novità e della freschezza della fede apostolica e patristica. Quindi la parola di Dio non passa solo tramite la conservazione la trascrizione e la lettura di un libro, ma tramite le persone che rendono testimonianza di Cristo guidati dallo spirito di verità.

La Bibbia.

Nell'ortodossia come nel cattolicesimo, la Bibbia è interpretata usando il criterio stabilito dalla esperienza della Chiesa, che proviene, a sua volta, da quanto trasmesso dagli apostoli nella Chiesa primitiva. Il fedele seguito dal padre spirituale deve quindi operare una maturazione interiore per potere assaporare pian piano i molteplici sensi della Scrittura e il significato che essa ha nella sua vita concreta. Questa maturazione interiore è molto più di una semplice istruzione intellettuale: consiste in un progressivo ingresso del fedele nella vita e nella esperienza della Chiesa, condotto per mano con prudenza e discernimento dal padre spirituale.

Generalmente l'atteggiamento attuale del cristianesimo ortodosso nei confronti della scienza, pur avendo diversi orientamenti con alcuni fedeli che si oppongono a qualche concetto dell'evoluzione alle origini e dello sviluppo della vita, stabilisce una differenza tra il mondo creato (soggetto alle leggi naturali) e il mondo rivelato e increato (soggetto alle leggi divine). Questa differenza, secondo gli ortodossi, eviterebbe il contrasto stridente tra fede e scienza che ha caratterizzato la storia del cristianesimo occidentale. Per questo, secondo alcuni teologi tra cui il prof. Georgios Metallinos dell'Università di Atene, il contrasto fede-scienza per l'ortodossia è, piuttosto, uno pseudo-problema più che un problema, non appartenendo realmente alla sua tradizione.

L'ortodossia considera la verità come rintracciabile nel "consenso dei padri", un evidente filo conduttore di accordo che unisce gli scritti patristici della prima Chiesa e degli apostoli. Coloro i quali si mostrarono in disaccordo con quanto veniva considerato il consenso non vennero accettati come "padri" autentici. Tutti i concetti teologici devono essere in accordo con tale consenso. Anche quelli considerati come "padri" autentici possono avere qualche opinione teologica che non è universalmente condivisa, ma ciò non li rende eretici. Quindi un cristiano ortodosso non è vincolato a essere d'accordo con ogni opinione di ogni padre, ma piuttosto con il consenso complessivo dei padri, e anche qui solo su quelle questioni in cui la Chiesa ha stabilito dei punti dogmatici.

I teologi e i padri del cristianesimo ortodosso hanno usato nelle loro opere molte espressioni filosofiche greche, forse più di quanto è stato fatto nell'aperto Occidente. Essi presero a prestito alcune categorie e il vocabolario del neoplatonismo per spiegare la dottrina cristiana, ma lo fecero in modo tale da non contaminare con elementi filosofico-pagani il dato rivelato. Quando questo avveniva si era davanti a un'eresia. Per questo essi non hanno necessariamente accettato tutte le teorie ereditate dal passato. In seguito, alcuni filosofi neoplatonici non-cristiani, presero a loro volta in prestito parte del vocabolario dei teologi cristiani.

Peccato e redenzione.

In termini generali, la tradizione ortodossa rifiuta di esprimere la dottrina della redenzione in termini "legalistici" e non concorda con chi si serve di questi termini per esprimere la pratica cristiana. Seguire le regole rigidamente, senza porre il cuore, non aiuta un credente a entrare nel processo della sua salvezza ma lo trasforma, semmai, nel fariseo condannato da Cristo. Perciò il peccato non riguarda l'infrazione di un certo insieme di regole, esso è, piuttosto, il nome dato a qualsiasi comportamento che "non coglie nel segno", ossia che allontana il credente da Dio invece di avvicinarlo.

Il termine "peccato originale" usato dai cattolici è spesso rigettato dagli ortodossi, che usano l'espressione patristica "peccato ancestrale" per indicare la colpa di Adamo ed Eva, le cui conseguenze - cioè la morte fisica e spirituale - si sono abbattute su tutta l'umanità. Partecipi degli effetti collaterali del peccato primordiale, gli esseri umani nascono spiritualmente puri, ma inevitabilmente destinati a far presto i conti col peccato, che è una sorta di "malattia genetica" dell'anima i cui sintomi iniziano a manifestarsi solo col tempo. L'essere umano, per sua natura, alla nascita non è né colpevole del peccato adamitico né totalmente incapace di accogliere Dio: semmai Dio offre a tutti indiscriminatamente la possibilità di accogliere la sua Grazia increata e farsi guarire da Dio.

Infatti, nella tradizione delle Chiese ortodosse, il peccato non è considerato come una macchia dell'anima che deve essere lavata (concetto che porta l'uomo a chiudersi in sé stesso contemplando solo l'immagine di sé), ovvero come un reato da punire, quanto piuttosto, come una malattia che necessita di guarigione, una malattia che disturba il regolare rapporto con Dio, finendo per isolarlo completamente nei suoi criteri egocentrici. Proprio come per le malattie del corpo, la peccaminosità umana necessita di attenzioni e concrete terapie individuali. Lo scopo ultimo di questo processo non è riconquistare il favore di Dio, quanto, piuttosto, rimettersi sulla strada che porta a Dio, riaccendere il contatto dell'uomo con Dio in vista di un suo infinito progresso spirituale in Dio (san Gregorio di Nissa).

Come per la terapia delle malattie del corpo è necessario un medico che conosca personalmente il paziente e la storia delle sue patologie, così per la terapia del cristiano nell'ortodossia è necessaria la presenza di un padre (o una madre) spirituale, a cui confessarsi e che considera il proprio affidato con la misericordia del padre della parabola del figliol prodigo. Non è necessario che il padre (o la madre) spirituale sia un sacerdote. Solitamente i padri spirituali, appartenendo al monachesimo sono persone ricche di esperienza e di attenzione.

Il cristiano che si affida a loro apre totalmente il suo cuore rivelando anche i pensieri più nascosti ed essi, nella preghiera e con l'aiuto dell'esperienza dei santi, gli cominciano a tracciare un percorso possibile affinché la fede cristiana non sia, per colui che si affida loro, un campo di puri concetti idealistici.

Il fine del padre (o della madre) spirituale non è di tipo morale (fare in modo che il cristiano non pecchi più) quanto piuttosto di tipo spirituale (fare in modo che il cristiano senta la vivida presenza di Dio nella sua vita) e possa rispondere come Giobbe: "Di Te avevo sentito dire ma ora i miei occhi Ti vedono!". La redenzione comincia a operarsi nel momento in cui è ristabilito questo contatto tra l'uomo e Dio e l'uomo inizia il suo cammino ascendente di trasformazione per il quale è nato.

L'Incarnazione.

Questa voce o sezione sull'argomento religione è ritenuta da controllare.

Motivo: La forma sembra negare a Dio l'attributo di Onnipotente che non pare messo in discussione dalla fede cristiana in tutte le sue espressioni. A Dio non si può dare una sola possibilità, ma infinite e perfette e quindi non "poté" ma "volle". "L'unica soluzione al problema fu per Dio quella di elevare la natura decaduta dell'uomo, congiungendo la propria natura divina con la nostra natura umana. Dio poté compiere tutto questo mediante l'Incarnazione, divenendo..."

Partecipa alla discussione e/o correggi la voce. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.

La motivazione fondamentale per cui Gesù si è incarnato sulla Terra è il "destino" dell'uomo dopo la morte, di essere separato da Dio a causa della caduta di Adamo. Poiché l'uomo aveva introdotto un qualcosa di estraneo nella propria natura partecipando al male mediante la disobbedienza a Dio, l'umanità venne a trovarsi in una posizione terribile e senza via di scampo. L'unica soluzione al problema fu per Dio quella di elevare la natura decaduta dell'uomo, congiungendo la propria natura divina con la nostra natura umana. Dio volle compiere tutto questo mediante l'Incarnazione, divenendo uomo pur continuando a essere Dio. È anche per questo che Cristo Gesù è pure chiamato "Logos" (in quanto uno dei significati di Logos è quello di soluzione/risposta a un problema).

È assolutamente necessario che noi uomini accettiamo la doppia natura di Cristo, vero Dio e vero uomo. Questo è l'unico modo che abbiamo per poter scampare alla dannazione dell'inferno. L'incarnazione trasforma l'umanità stessa unendola alla Divinità. E ora, grazie a quell'incarnazione, tutto è cambiato. Come scrisse san Basilio "Dobbiamo impegnarci con tutte le forze per divenire piccoli dèi in Dio, e piccoli gesucristi in Gesù Cristo", cioè dobbiamo ricercare la perfezione in ogni azione della nostra vita quotidiana, dobbiamo sforzarci di acquisire la virtù divina.

Partecipando alla nostra umanità, Dio rende possibile all'uomo di partecipare alla sua divinità. Pur essendo vero che non potremo diventare "dèi" separati nel senso in cui lo si intende nel paganesimo, parteciperemo comunque alle energie divine increate (che sono inseparabili da Dio stesso) conservando però la nostra individualità. In altre parole: divinizzazione dell'uomo, conseguibile anche in questa vita imitando Cristo.

La Theotokos.

Molte tradizioni riguardanti la Vergine Maria, la Theotókos (Madre di Dio), datrice di vita di Dio, sono di suprema importanza teologica.

Viene inserito anche un importante inno della divina liturgia in suo onore chiamato Axion Estin, e cioè "è veramente giusto", inno liturgico che risale a un'icona mariana e a un evento che accadde sul monte Athos, sottolineando sempre la sua maternità di Dio (Theotókos).

Gli ortodossi affermano che Maria rimase vergine prima e dopo la nascita di Cristo. Questi, miracolosamente le lasciò la verginità intatta al momento del parto.

Molte delle credenze delle chiese al riguardo della Vergine Maria sono riflesse nel testo apocrifo La natività di Maria, che non venne incluso nelle Scritture, ma è considerato accurato nella sua descrizione degli eventi. Da bambina, Maria venne consacrata all'età di tre anni per servire nel tempio come vergine.

Zaccaria, allora sommo sacerdote, fece l'inimmaginabile: portò Maria nel "Santo dei Santi" come segno della sua importanza, poiché lei stessa sarebbe diventata l'arca in cui Dio avrebbe preso forma. All'età di dodici anni, le venne chiesto di rinunciare alla sua posizione e di sposarsi, ma lei desiderò rimanere per sempre vergine, in onore a Dio. Venne così deciso di darla in sposa a un parente stretto, Giuseppe, suo zio o cugino, un uomo anziano e vedovo, che si sarebbe preso cura di lei e le avrebbe permesso di mantenere la verginità. E fu così che quando giunse il tempo stabilito si sottomise al volere di Dio e permise a Cristo di prendere forma dentro di sé.

Si crede che, nella sua vita, Maria non commise peccato. Tuttavia, l'ortodossia non condivide il dogma cattolico di Immacolata concezione (concetto agostiniano); in altri termini, Maria venne purificata dall'ombra, del pur minimo, peccato ancestrale - umano, totalmente e solo al momento del concepimento di Cristo. Nella teologia della Chiesa ortodossa è molto importante comprendere che Cristo, fin dal momento del concepimento era al tempo stesso Dio perfetto e uomo perfetto. Per questo è corretto dire che Maria è in effetti la Theotokos, la datrice di vita di Dio. Questo fu oggetto di dibattito cristologico del IV e V secolo d.C.

Gli ortodossi sostengono che, dopo il parto, Maria viaggiò molto assieme al Figlio e dopo la sua resurrezione fu presente anche durante l'ascensione al cielo.

Si crede che lei fu la prima a sapere della resurrezione del figlio: l'arcangelo Gabriele le apparve nuovamente rivelandogliela. Si crede che visse fino all'età di settanta anni e chiamò miracolosamente a sé tutti gli apostoli prima di morire. Secondo la tradizione, san Tommaso arrivò tardi e non fu presente al momento della morte. Desiderando baciarle la mano un'ultima volta, aprì la tomba, ma la trovò vuota. Gli ortodossi, così come i cattolici, credono che Maria venne assunta in cielo in corpo e in spirito. Tuttavia, gli ortodossi non ne condividono la prescrizione dogmatica. In tal modo, per gli ortodossi viene sottolineata di più la dormizione di Maria che la sua assunzione in cielo, ma questa differenza è più formale che sostanziale. Per i cattolici, l'assunzione di Maria è la diretta conseguenza teologica del dogma dell'Immacolata Concezione, dogma che gli ortodossi non sottoscrivono pienamente come se fosse verità rivelata.

Comprensione del termine "mistero

Il discorso sulla fede posto nelle chiese ortodosse è, per quanto possibile, lineare e logico, nonostante si abbia a che fare con le realtà rivelate che, di loro, sono soprarazionali e non esauribili nella pura logica. D'altronde, un'esposizione senza senso logico potrebbe essere una ragione giustificata per rigettare una credenza. Le credenze rigettate vengono definite eresie. La teologia ortodossa è ricca di dimostrazioni logiche basate sul "consenso dei padri" come di sopra riferito. Nonostante ciò, vi sono alcuni punti che gli ortodossi si rifiutano di approfondire, semplicemente perché pensano che un tentativo di maggior comprensione sia controproducente, improduttivo e porti a incomprensioni ed eresie, razionalizzando quanto da noi non può essere percepito e misurato con la mente.

Tali aree della teologia vengono indicate come "misteri". I misteri non sono scappatoie. Un esempio di scappatoia potrebbe essere una dichiarazione del tipo "Dio può fare quello che vuole" in risposta a una valida domanda teologica. Un mistero, d'altra parte, solitamente si presenta quando due punti assai logici non possono essere risolti assieme, eppure devono essere entrambi veri. Un buon esempio è il seguente:

Cristo è uomo vero e completo e Dio vero e completo. Egli è veramente presente come Gesù Cristo, eppure deve essere anche veramente onnipresente allo stesso tempo. La Vergine Maria diede vita a Dio incarnato ed è quindi la Madre di Dio, eppure Dio, che è infinito e senza tempo, non ha progenitori.

Allo scopo di spiegare logicamente la nostra salvezza, tutte queste cose devono essere accettate come assolutamente vere, eppure nessuna di queste può essere spiegata soddisfacendo la razionalità umana che si muove in un campo assai limitato. Qualsiasi tentativo di spiegazione porta a una delle molte eresie condannate dalla chiesa. Un esempio:

Cristo nacque uomo e venne fatto Dio dopo la sua morte o Cristo era Dio e pretese solamente di essere uomo o la Vergine Maria diede vita solo al Gesù umano (in tutti questi casi la natura umana non viene cambiata e la nostra salvezza non viene compiuta). Naturalmente la giustificazione che segue questi tentativi è sempre: "Dio può fare quello che vuole". Questo non è mai stato accettabile per i cristiani ortodossi che comprendono che certe cose non possono essere spiegate eppure devono essere vere. Tali realtà sono i misteri rivelati che non contraddicono ma superano di molto la nostra razionalità umana. L'eresia non è altro che il tentativo, non importa se in buona o cattiva fede, di abbassare il mistero rivelato imprigionandolo negli stretti limiti razionali. Questo comporta un "razionalismo teologico" in cui non è l'uomo che sale a Dio (accettando umilmente la sua rivelazione) ma è Dio che viene abbassato alla sola comprensione dell'uomo facendolo divenire, di fatto, un idolo. Comunque va detto che il termine "eresia" tecnicamente ha un suo significato e valore semantico storico.

La resurrezione

La resurrezione di Cristo è in assoluto l'evento centrale delle Chiese ortodosse, e viene compreso in termini totalmente letterali. Gesù Cristo, il Figlio di Dio, venne crocifisso e morì, discese negli inferi, combatté la morte e vinse. Attraverso questi eventi, Egli liberò l'umanità dai vincoli dell'inferno e ritornò ai viventi come uomo e Dio. Che ogni singolo essere umano possa condividere questa immortalità, che sarebbe stata impossibile senza la resurrezione, è la principale promessa fatta da Dio nel suo nuovo patto con l'umanità, secondo la tradizione cristiana ortodossa.

In un modo o nell'altro, ogni festività dell'anno ecclesiastico ortodosso fa riferimento diretto o indiretto alla resurrezione. Ogni domenica dell'anno è dedicata alla celebrazione della resurrezione; molti credenti ortodossi si astengono dall'inginocchiarsi o prostrarsi di domenica, in osservanza di ciò (questo è stato stabilito dal primo concilio ecumenico). La tradizione ortodossa ha pochissima enfasi liturgica nella passione di Cristo, durante i giorni che portano alla crocifissione, preferendo vederla come dei passi fondamentali necessari verso la vittoria finale di alcuni giorni dopo. Analogamente la divina liturgia pone l'accento sulla risurrezione piuttosto che sull'aspetto sacrificale, enfatizzato invece nella messa cattolica. La passione non è vista in senso umanistico (la contemplazione delle sofferenze, la venerazione delle piaghe) ma sentita come modello per l'auto-negazione ascetica che il fedele di religione ortodossa è chiamato a vivere nella sua ricerca di Dio. Come Cristo, il fedele muore ai criteri di questo mondo (che non conosce Dio) per poter risorgere con Lui gloriosamente.

Santi, reliquie e morti

Per la Chiesa ortodossa un santo è tale quando gode di Dio in Paradiso, indipendentemente dal fatto che sia riconosciuto o meno sulla Terra (opinione seguita anche dalla Chiesa cattolica e da altre chiese che ammettono il culto dei santi). Secondo questa definizione Adamo ed Eva, Mosè, i vari profeti, martiri della fede, gli angeli e gli arcangeli, hanno tutti il titolo di "santo". Nella Chiesa ortodossa esiste un riconoscimento formale, detto "glorificazione", con il quale un santo viene riconosciuto dall'intera Chiesa. Non è però questo a "fare" un santo, ma semplicemente questo gli accorda un giorno nel calendario, in cui vengono celebrati dei servizi liturgici regolari in suo onore.

Recentemente, allo scopo di evitare abusi, il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha iniziato a seguire la duratura pratica di altre chiese locali, emanando speciali lettere encicliche (tomoi) nelle quali la Chiesa riconosce la venerazione popolare di un santo. La glorificazione solitamente avviene dopo che i credenti hanno già iniziato a venerare un santo. Esistono numerose prassi di venerazione locale per innumerevoli santi che non sono ancora stati riconosciuti dall'intera Chiesa ortodossa.

Un forte elemento a favore della glorificazione è la percezione della condizione "miracolosa" dei resti mortali (reliquie), anche se questo da solo non è considerato sufficiente. In alcuni paesi ortodossi è prassi di rimuovere le tombe dopo tre o cinque anni, a causa dello spazio limitato. Le ossa vengono lavate rispettosamente e poste in un ossario, spesso con il nome della persona scritto sul cranio. Occasionalmente, quando un corpo viene esumato avviene qualcosa ritenuto miracoloso, che mostra la santità della persona. Sono avvenuti numerosi episodi in cui le ossa esumate avevano improvvisamente sprigionato una fragranza di bontà indescrivibile, come se fosse un profumo di fiori; e talvolta si dice che il corpo sia stato trovato incorrotto, nonostante non sia stato imbalsamato (tradizionalmente gli ortodossi non imbalsamano i morti) e sia stato sepolto per tre anni. In alcuni casi il corpo incorrotto dei santi secerne un liquido balsamico: in questo caso il santo viene denominato mirovlita, vale a dire "colui che secerne il balsamo". Tra i mirovliti vi è Nicola di Mira, le cui reliquie sono conservate a Bari. Va rilevato che l'incorruttibilità e fragranza del corpo sono sempre state osservate anche in molti santi venerati dalla Chiesa cattolica.

Per gli ortodossi, corpo e anima compongono la persona, e alla fine, corpo e anima verranno ricomposti; quindi, il corpo di un santo condivide la santità dell'anima del santo. Anche il corpo è irradiato e santificato dalla grazia che ha santificato l'anima della persona ed è un veicolo di benedizione.

Poiché la Chiesa ortodossa non mostra reale distinzione tra i vivi e i morti, gli ortodossi trattano i santi come se fossero ancora in vita. Essi li venerano e richiedono le loro preghiere, e considerandoli fratelli e sorelle in Gesù Cristo. I santi sono venerati e amati e viene loro richiesto di intercedere per la salvezza, ma non viene loro data l'adorazione riservata esclusivamente a Dio, perché la loro santità deriva da Dio. Infatti, chiunque adori, invece che venerare, un santo, una reliquia o un'icona, è passibile di scomunica. Come regola generale, solo il clero può toccare le reliquie, allo scopo di spostarle o portarle in processione, comunque, nella venerazione il fedele bacia le reliquie per mostrare amore e rispetto verso il santo e per essere da esse benedetto. Ogni altare in ogni Chiesa ortodossa contiene reliquie, solitamente di martiri. Gli interni delle chiese sono ricoperti da icone di santi, ma non sono ammesse rappresentazioni scultoree.

I sacramenti

La Chiesa ortodossa non ha mai definito dogmaticamente il numero ufficiale dei sacramenti, ma in tempi recenti li ha di fatto riconosciuto nel numero di sette (similmente alla Chiesa cattolica), ai quali aggiunge altri riti come la tonsura monastica, la benedizione delle acque, la consacrazione delle icone. In altre parole, la Chiesa ortodossa a differenza della Chiesa cattolica, non distingue fra sacramenti e sacramentali, distinzione questa conseguente alla scolastica medievale e quindi successiva ai tempi apostolici.

I sette sacramenti, detti anche "misteri" sono battesimo, cresima, eucaristia (comunione), penitenza (confessione), unzione degli infermi, ordine sacro, matrimonio.

Il battesimo è il sacramento che apre la porta a tutti gli altri. A differenza della Chiesa cattolica, che amministra il battesimo per infusione anche se prescrive come prima formula il battesimo per immersione e quello per infusione è l'"oppure", sebbene sia diventata nei fatti la regola tra i cattolici, la Chiesa ortodossa pratica questo rito con tre immersioni integrali del candidato nel fonte battesimale, e con la formula in terza persona "Il servo di Dio N. viene battezzato nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen", nella stretta osservanza della prassi dei tempi apostolici. È da rilevare che in greco baptisma significa infatti "immersione", ragione che induce gli ortodossi a ritenere più corretto il mantenimento dell'antica prassi, in uso anche in Occidente prima dello scisma, come è provato dalla presenza di specifici edifici di culto in alcune chiese latine antiche, i battisteri. Tuttora il rito ambrosiano, fuori dall'ambito ortodosso, pratica il battesimo per triplice immersione, sebbene limitata all'occipite. La Chiesa ortodossa pratica il battesimo di infanti e adulti come momento in cui uno nasce in Cristo. La persona che entra nella vasca battesimale non è vista come quella persona che ne emerge. Perciò alla persona viene dato un nuovo nome, usando sempre ed esclusivamente il nome di un santo. Oltre ai compleanni, gli ortodossi celebrano l'onomastico di una persona che, per il suo legame con il battesimo e il santo protettore della persona, ha un profondo significato.

La cresima, equivalente della confermazione occidentale, è l'unzione che segue immediatamente il battesimo per donare al neofita lo Spirito Santo. Il rito è esteso su tutto il corpo con una serie di più unzioni col crisma benedetto dal vescovo. A differenza della Chiesa latina, il ministro ortodosso della confermazione è il sacerdote, il crisma è comunque sempre consacrato da un vescovo.

L'eucaristia, o divina liturgia, è il sacramento che perfeziona il legame di comunione con Cristo, mediante la partecipazione al suo Corpo e al suo Sangue in cui si trasformano il pane e il vino consacrati dal sacerdote. Questo processo, chiamato trasmutazione, è l'equivalente della transustanziazione cattolica ma non è definita dogmaticamente. L'eucaristia è celebrata con pane di frumento fermentato e non pane azzimo e vino rosso mescolato con acqua tiepida all'interno di un calice. La comunione è amministrata dal celebrante sotto le due specie usando un lungo cucchiaino d'oro o altro metallo prezioso, rispettando alla lettera il comando di Cristo "Prendete e bevetene tutti". Nell'Ortodossia le specie sono chiamate "Doni", mentre il pane benedetto ma non consacrato, che dopo si può dare anche ai non ortodossi, è chiamato "antidoro".

Per ricevere l'eucaristia non si esige la capacità di distinguere il pane comune da quello trasmutato, tanto che la comunione viene amministrata subito dopo il battesimo.

Mentre i cattolici identificano con le parole di Cristo all'ultima cena la formula del sacramento che compie la transustanziazione, al contrario gli ortodossi identificano la trasmutazione nella conclusione del canone eucaristico, cioè l'epiclesi o invocazione dello Spirito Santo.

La penitenza o confessione è molto simile all'equivalente occidentale, anche se ognuno deve confessarsi col proprio "padre spirituale" e in assenza del classico confessionale a grata, introdotto solo in Occidente. Inoltre la confessione è priva del contesto legalistico peccato-pena tipicamente occidentale, vedendo nella confessione piuttosto una terapia per l'anima. Infatti, a differenza che nella Chiesa cattolica, il confessore non "assolve" il penitente dai peccati bensì recita una preghiera invocando il perdono divino.

L'unzione degli infermi è data liberamente anche a coloro che soffrono solo spiritualmente. Non è mai stata riservata solo all'ultima ora (come era, un tempo, nell'estrema unzione occidentale), ma al contrario è data anche a tutti i fedeli in occasioni in cui si richieda soccorso spirituale.

L'ordine sacro è il sacramento che permette la nomina dei ministri della Chiesa, nei tre gradi di vescovo, presbitero e diacono. Solo il vescovo è eletto fra celibi (nella fattispecie monaci), mentre sacerdoti e diaconi possono esser scelti fra clero celibe e sposato indifferentemente, purché non siano persone in seconde nozze e non si sposino dopo l'ordinazione. I ministri sono eletti solo fra i maschi.

Il matrimonio è il sacramento che unisce un uomo e una donna per sempre in un vincolo indissolubile d'amore. Per questo è assolutamente mongamico ed eterosessuale. Neppure la morte di uno dei due coniugi scioglie il vincolo del matrimonio. Solo il vescovo può decidere di ammettere i suoi diocesani a seconde o terze nozze che peraltro vengono celebrate con austerità. Ove sia assolutamente venuto meno l'amore coniugale può ammettersi il divorzio.

La Chiesa cattolica riconosce la validità delle ordinazioni conferite dagli ortodossi, anche dopo la divisione tra le due chiese nel 1054. Diversamente, quantomeno dal 1896 (per decisione di papa Leone XIII), non riconosce la validità (cioè la legittima successione apostolica) delle ordinazioni conferite dalla Chiesa anglicana, nata da uno scisma della Chiesa cattolica nel 1534. Al contrario, la Chiesa ortodossa di regola non riconosce i sacramenti amministrati al di fuori di essa, ritenendo che in essa sola sussista la vera Chiesa di Cristo. Talvolta per "economia" vengono sanati atti "sacramentali" compiuti al di fuori della Chiesa ortodossa, ma la regola è l'"acribia" (il rigore).

Le ultime cose.

La Chiesa ortodossa insegna che, per coloro che credono, che amano Dio e che fanno il bene, la vita che seguirà la risurrezione dei morti e il Giudizio finale sarà di una felicità ora inconcepibile, felicità che scaturirà dalla contemplazione di Dio nella luce e nella gloria e dall'unione con lui Invece i non credenti e i trasgressori "saranno consegnati alla morte eterna, cioè al fuoco eterno, al tormento eterno, insieme ai demoni".

Secondo alcuni teologi ortodossi, il paradiso e l'inferno sono la stessa realtà: Cristo visto nella luce increata della sua divinità. Chi rifiuta l'amore e la misericordia divina, si pone in uno stato tale che l'esperienza della presenza divina verrà percepita come insopportabile e dolorosa. Questo è l'inferno il quale, però non è un luogo di assenza di Dio, ma uno stato umano in cui Dio non è goduto ma patito. Altri lo negano.

Gli ortodossi a volte distinguono i termini "Ade" e "Paradiso", che riguardano lo stato transitorio dell'anima fra morte e risurrezione, dai termini "Inferno" e "Cielo", che riguardano invece lo stato definitivo dell'anima riunita con il corpo risorto. Secondo tale distinzione, attualmente e fino al Giudizio finale stanno in Cielo solo Cristo e sua Madre, alla quale egli ha concesso la risurrezione del corpo; tutti gli altri defunti (anime soltanto) attendono la risurrezione generale. I martiri e i santi stanno essi pure, come anime ancora senza corpo, in Cielo, gli altri nel Paradiso o nell'Ade. L'Ade, che non è un luogo, è la condizione negativa dell'anima che, tormentata dalle peccaminose relazioni con Dio e con il prossimo, attende paurosa la risurrezione e il Giudizio, mentre il Paradiso è la condizione positiva dell'anima che, confortata dalle sane relazioni con Dio e con il prossimo, attende in pace gli stessi futuri avvenimenti. Alcune volte però si incontra l'uso di "Paradiso" per indicare il Cielo e l'uso di "Inferno" per indicare l'Ade.

Il Sabato delle Anime si benedice in chiesa la coliva (in greco κόλλυβα, in serbo кољиво, in bulgaro коливо), con, fra gli ingredienti, grani di frumento che ricordano Giovanni 12:24.

La Chiesa ortodossa prega ripetutamente per i defunti. Dato che Gesù è rimasto nella tomba il Sabato Santo, si celebra più volte all'anno il Sabato delle Anime (in greco Ψυχοσάββατο). Nel Vespro di Pentecoste, si prega: "Tu, che in questa conclusiva e salvifica Festa Ti sei degnato di accettare suppliche propiziatrici per coloro che sono trattenuti nell'Ade, concedendoci grandi speranze che venga inviato un sollievo ai defunti dalle pene che li stringono e refrigerio da parte tua. Ascolta noi umili e meschini che Ti preghiamo e fa riposare le anime dei Tuoi servi che già si sono addormentati, in un luogo luminoso, in un luogo erboso, in un luogo di freschezza".

L'ortodossia ritiene che, dopo la morte, l'uomo, nella sua ascesa a Dio, debba oltrepassare dei punti di blocco definiti come "stazioni di pedaggio". Nella sua salita verso Dio l'uomo incontra i "demoni dell'aria" ed è da loro provato, giudicato e tentato. Il giusto che ha vissuto santamente sulla terra attraversa velocemente queste prove senza alcun timore e terrore semplicemente perché, sulla terra, ha già superato vittoriosamente ogni tentazione che lo allontanava da Dio.

Per la Chiesa ortodossa, lo scopo della vita umana è la divinizzazione, l'acquisto di una somiglianza a Dio, processo che può prolungarsi dopo la morte in uno stato che alcuni dottori della Chiesa ortodossa chiamano purgatorio, mentre altri fanno una distinzione fra la dottrina cattolica di purificazione e quella ortodossa di crescita.

Alcuni teologi ortodossi, come pure alcuni cattolici, quali Hans Urs von Balthasar e Richard John Neuhaus, propongono l'apocatastasi, secondo la quale tutti saranno salvati, poiché il disegno salvifico non si può compiere se manca una sola creatura. Tale teoria, nella forma in cui Origene la propose, è ritenuta eretica dalla Chiesa ortodossa e fu condannata dal Concilio di Costantinopoli II, pur se si dubita se esso abbia emesso i noti XV Anatemi contro di lui.

La liturgia

Differenze con le altre confessioni Cristiane

Differenze tra l'Ortodossia e le due confessioni di origine occidentale (Cattolicesimo e Protestantesimo):

la Chiesa Ortodossa nel Credo niceno-costantinopolitano omette il Filioque perché:

costituisce un'aggiunta al testo originale (composto nel Concilio di Costantinopoli I) diffusa in Occidente contro l'avviso di papa Leone III e di altri papi;

non è conforme al Vangelo (Giovanni 15,26);

modifica le relazioni tra le Persone della Trinità e abbasserebbe lo Spirito Santo;

significa che Dio non può salvare le anime cristiane, ciò può legittimare gli abusi, come le conversioni forzate o l'Inquisizione;

la Chiesa Ortodossa rifiuta la dottrina di Agostino d'Ippona sulla Grazia perché:

questa dottrina, molto personale, non è condivisa da tutti i Padri della Chiesa d'oriente e d'occidente (principio di collegialità);

questa dottrina distrugge la libertà dell'uomo: se la Grazia fa tutto, cosa fa l'uomo?

la Chiesa Ortodossa battezza per immersione perché:

è da tradizione sin dalle origini della Chiesa;

è il significato stesso del termine greco baptizein;

simboleggia la totale adesione a Cristo e all'essere rivestiti di Cristo;

la Chiesa Ortodossa ignora il concetto di ospitalità eucaristica perché:

nella sacra mensa è Cristo che offre ed è offerto e che riceve e distribuisce, come è recitato nella Liturgia, quindi nessun prete, vescovo o patriarca ha diritto a interporsi tra Cristo e la coscienza dei fedeli;

se una persona è in comunione con la Chiesa, non lo farà liberamente, ma questo approccio verrà sigillato dalla comunione eucaristica;

se una persona non è in comunione con la Chiesa, la sua coscienza viene rispettata e non può essere abusata, e la comunione non sarà per lei una condanna, perché nessuna eresia può oscurare il suo rapporto con Dio.

Nel 1961 la maggior parte delle Chiese Ortodosse aderisce al Consiglio ecumenico delle Chiese. Mantengono un dialogo ecumenico con la Chiesa cattolica e la Comunione Anglicana, pur non accettando gli usi e i concetti non tradizionali da loro adottati.

Differenze con la Chiesa Cattolica

Le Chiese Ortodosse permettono l'ordinazione diaconale e presbiterale di uomini sposati. Sono tenuti al celibato e al voto di castità solo i sacerdoti celibi al momento dell'ordinazione e i monaci. I Vescovi vengono scelti solo tra i presbiteri celibi e tra i monaci.

Le Chiese Ortodosse considerano il Papa come il Patriarca d'Occidente con un ruolo di primo piano nel Concilio ecumenico, ma non come capo della Chiesa o Vicario di Cristo.

Le Chiese Ortodosse non accettano la dottrina concernente l'esistenza del purgatorio, l'eternità dell'inferno, la processione dello Spirito Santo dal Figlio, divenute ufficiali in Occidente dopo la separazione del 1054. La Chiesa bizantina, inoltre, differisce dalla Chiesa latina in quanto non ammette la grazia creata, ma, piuttosto, crede che l'uomo sia reso partecipe delle energie divine increate.

A livello pratico, la Chiesa bizantina pratica in massima parte il rito bizantino, che prevede il battesimo per immersione, offre l'eucaristia ai fedeli con pane lievitato e vino in un cucchiaio e domanda il celibato solo ai monaci e ai vescovi, ma non ai presbiteri e ai diaconi non monaci. Questo rito, tuttavia, non è il solo praticato nell'ambito dell'ortodossia, né d'altra parte è praticato solo da essa, essendovi anche alcune comunità cattoliche orientali che lo praticano, così come tali comunità non applicano il celibato ecclesiastico.

Condizioni per un'eventuale accettazione della Chiesa Cattolica in seno all'Ortodossia

La Donazione di Costantino è considerata da tutti, non solo dalla Chiesa Ortodossa, come un falso. Oggi anche la stessa Chiesa Cattolica la riconosce tale e non se ne parla in relazione alla reciproca comunione. Invece si domanda:

abbandono del Dictatus Papae (per l'ortodossia solo un concilio ecumenico può avere una tale autorità) e rifiuto dell'infallibilità papale;

revisione della riforma gregoriana, considerata dai cristiani ortodossi come una forma di autoritarismo spirituale. Tale riforma prevede anche il celibato di tutti i sacerdoti;

organizzare a Roma un VIII Concilio ecumenico per stabilire l'unità.

Nonostante le difficoltà, l'ecumenismo favorisce il dialogo tra le due Chiese.

Il 1º dicembre 2006 Benedetto XVI e il patriarca Bartolomeo I sottoscrivono una dichiarazione di intenti che per la prima volta definisce entrambi «Pastori nella Chiesa di Cristo», in rapporto al principio Extra Ecclesiam nulla salus.

Elenco delle Chiese ortodosse

Territori canonici delle distinte chiese ortodosseBartolomeo I dal 1991 è il patriarca ecumenico di Costantinopoli, primato onorifico della Chiesa ortodossa.Diffusione dell'ortodossia

     Religione dominante

     Paesi con significative minoranze (oltre il 10%)

La Chiesa ortodossa orientale è un insieme di Chiese autocefale o autonome, in comunione reciproca.

 Chiesa ortodossa russa.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La Chiesa ortodossa russa (in russo: Русская православная церковь?, traslitterato: Russkaja pravoslavnaja cerkov'), o Patriarcato di Mosca (in russo: Московский патриархат?, traslitterato: Moskovskiy patriarkhat), è una Chiesa ortodossa autocefala, guidata dal Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, precedentemente in comunione con tutte le Chiese ortodosse calcedonesi, tra le quali occupava il quinto posto, dopo il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, il Patriarcato greco-ortodosso di Alessandria, la Chiesa greco-ortodossa di Antiochia e la Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme.

Dal 2018, per decisione del sinodo dei vescovi russi, non è più in comunione con il Patriarcato di Costantinopoli, in seguito alla decisione da parte di quest'ultimo di riammettere alla piena comunione la Chiesa ortodossa ucraina (Patriarcato di Kiev), guidata da Filarete Denisenko, separatasi in precedenza dal Patriarcato di Mosca e per questo scomunicata. Nei mesi successivi, il Patriarcato di Mosca ha interrotto la comunione pure con il Patriarcato di Alessandria e con le Chiese di Grecia e di Cipro, avendo anche queste ultime riconosciuto la compagine scismatica ucraina.

Storia

La Chiesa russa fa risalire le sue origini al battesimo del principe Vladimir I di Kiev nel 988 (Vedi Conversione al cristianesimo della Rus' di Kiev).

Vescovi ortodossi russi (Charkov, 1924). Da sinistra a destra: il vescovo di Aleksandrov Stefan (Andriashenko), il vescovo di Sumy Konstantin (D'jakov), il vescovo di Starobel' Pavel (Kratirov), il vescovo di Ufa Boris (Shipulin), il vescovo di Elizavetgrad Onufrij (Gagaliuk), il vescovo di Glukhov Damaskin (Tsedrik), il vescovo di Mariupol' Antonij (Pankeev).

La Cronaca degli anni passati riferisce che nel 987, dopo una consultazione con i boiardi, Vladimir inviò dei messi nelle nazioni confinanti, i cui rappresentanti lo avevano invitato ad abbracciare le rispettive fedi, al fine di valutare quale fosse la religione migliore per il proprio regno. Il risultato è descritto nella seguente legenda apocrifa. Gli inviati riferirono che tra i musulmani della Bulgaria del Volga non c'era letizia ma solo tristezza e una grande puzza e che la loro religione era da evitare a causa dei suoi divieti contro il consumo d'alcool e di carne di maiale; a questi Vladimir aveva allora risposto "Bere è la gioia della Russia".

Le fonti russe descrivono anche l'incontro del Principe con gli inviati ebraici (che potevano essere Cazari). Dopo averli interrogati a fondo sulla loro religione rifiutò di convertirsi alla stessa con il pretesto che la perdita di Gerusalemme evidenziava che i fedeli ebraici erano stati abbandonati da Dio. Per ultimo Vladimir chiese dei cristiani. Nelle cupe chiese tedesche i suoi emissari gli riferirono che non c'era bellezza, ma dell'Hagia Sophia di Costantinopoli riferirono: "Noi non sapevamo se fossimo in cielo o sulla terra". Vladimir convertì il proprio popolo alla religione cristiana di rito greco ortodosso.

Kiev divenne capoluogo di una nuova provincia ecclesiastica, posta sotto la giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli. Successivamente il metropolita di Kiev dovette trasferirsi a Vladimir (1299) e quindi a Mosca (1325). L'ultimo metropolita fu destituito ed esiliato nel 1441, a seguito del rifiuto da parte del sinodo dei vescovi della Chiesa russa di accettare l'Unione di Firenze.

Nel 1448 il sinodo dei vescovi, che rappresentava tutto il popolo di Dio inteso come unione di clero e laicato, sancì la separazione della Chiesa russa dal Patriarcato di Costantinopoli. Da allora essa divenne autocefala. Il vescovo di Rjazan', Giona, fu eletto Metropolita di Mosca e di tutta la Russia senza chiedere l'approvazione di Costantinopoli. Solo nel 1589 il Patriarca di Costantinopoli Geremia II Tranos formalizzò, con il suo decreto, la nomina del metropolita Giobbe a patriarca di Mosca e di tutta la Russia.

Nel 1654 dopo l'elezione del patriarca Nikon fu riunito il sinodo dei vescovi al fine di ristabilire l'uniformità tra le pratiche liturgiche della Chiesa greca e di quella russa. Un secondo sinodo, tenutosi a Mosca nel 1656, approvò la revisione delle opere così come disposta dal primo concilio e lanciò un anatema sulla minoranza dissidente, che includeva una fazione dei Zelatori della Pietà e il Vescovo Pavel di Kolomna. Le riforme coincisero con la grande peste che sconvolse la Russia nel 1654 e con il periodo di terrore causato dall'approssimarsi del 1666, che molti russi credevano si sarebbe rivelato l'anno dell'apocalisse. Raskol è il nome dato allo scisma che portò alla divisione della Chiesa russa in Chiesa ortodossa ufficiale e movimento dei vecchi credenti.

Nel 1700 dopo la morte del patriarca Adriano il nuovo Patriarca non fu eletto e sostituito da un luogotenente. Il patriarcato fu abolito da Pietro il Grande il 25 gennaio 1721 e sostituito dall'istituzione del Santissimo Sinodo Governativo, i cui membri variavano da 10 a 12 membri, tra cui il Metropolita di Mosca, con a capo con un procuratore imperiale. Il Santissimo Sinodo fu abolito il 6 aprile 1918 in seguito alla rivoluzione d'ottobre e il patriarcato di Mosca fu ristabilito.

Patriarca Tichon, Mosca

Il 28 ottobre (17 novembre) 1917 al sinodo dei vescovi di tutta la Russia fu restaurato il Patriarcato. Primo patriarca dopo il lungo periodo sinodale fu scelto il 5 novembre Tichon, già eletto in giugno metropolita di Mosca (poi intronizzato il 4 dicembre).

Dopo la rivoluzione d'ottobre la Chiesa venne perseguitata perché considerata parte della fazione anti-bolscevica e molti membri del clero vennero incarcerati o uccisi dal nuovo regime. Nel corso di ciò, molti credenti sono entrati in clandestinità. É nato una chiesa sotterranea, chiamata anche "Chiesa delle Catacombe". Tuttavia, non si tratta di una singola organizzazione, ma di un fenomeno composto da molti gruppi diversi. Dopo la morte di patriarca Tichon avvenuta nel 1925, il posto di Patriarca rimase vacante. Solo nel 1937 fu eletto il nuovo patriarca Sergio I.

Negli anni venti, a seguito della rivoluzione d'ottobre, la comunità ortodossa russa all'estero si rese protagonista di uno scisma, rifondando la Chiesa ortodossa russa all'estero. La Chiesa scismatica ebbe la sua sede dapprima in Serbia, poi negli Stati Uniti a Jordanville.

A seguito di un riavvicinamento tra le due Chiese, il 17 maggio 2007 lo scisma si è ricomposto, con la firma di un atto di riunificazione da parte del patriarca russo Alessio II e del Metropolita Lavr, capo del Sinodo della Chiesa russa all'estero, nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. A seguito della firma, le due delegazioni hanno celebrato congiuntamente l'Eucaristia.

Nel 2000 è sorto il problema dell'Estonia. Divenuta l'Estonia indipendente, i suoi vescovi avevano chiesto per la loro Chiesa l'autocefalia. Offesi dal diniego moscovita ed ancor più risentiti poiché il patriarca Alessio II di padre pietroburghese, era nato in Estonia, si sono rivolti a Costantinopoli che li ha accontentati. Da allora, nel canone delle Liturgie del clero della Chiesa ortodossa russa, non si è più fatto, per qualche tempo, memoria del Patriarca di Costantinopoli. Il 27 luglio 2008, i due Patriarchi hanno concelebrato la Divina Liturgia a Kiev nell'occasione del 1020º anniversario del Battesimo della Russia, e si sono incontrati in seguito, deludendo in questo i progetti di manomessa sulla Chiesa del governo ucraino.

Patriarca Cirillo I nel giorno della sua intronizzazione, 1º febbraio 2009, Mosca

Il 1º febbraio 2009, dopo la morte del patriarca Alessio II avvenuta nel novembre 2008, il Metropolita di Kaliningrad e Smolensk Cirillo I fu eletto nuovo patriarca di Mosca e di tutta la Russia.

Organizzazione

Secondo i dati ufficiali al 12 dicembre 2008, la Chiesa ortodossa russa contava 157 diocesi in vari paesi e 29.263 parrocchie. Nel 1993 le diocesi erano 92. Vi sono 804 monasteri, dei quali in Russia 234 maschili e 244 femminili, nei paesi ex-URSS 142 maschili e 153 femminili, mentre negli altri paesi 3 maschili e 3 femminili. Vi sono 30.670 persone di clero di cui 27.216 preti e 3.454 diaconi. La Chiesa dispone inoltre di 11.051 scuole domenicali, 5 accademie, 3 università ortodosse, 2 università teologiche, 38 seminari, 39 collegi spirituali di totale 87 enti di istruzione. Inoltre vi sono 29 monasteri di tipo stauropegico, 203 podvorije e 65 skita.

Da ansa.it l'1 agosto 2022.

Un prete del patriarcato di Mosca ha tentato di colpire un rappresentante della Chiesa ucraina con la croce che portava al collo durante il funerale di un soldato ucraino in un villaggio rurale. 

Il sacerdote del patriarcato russo Anatoly Dudko è andato su tutte le furie dopo le parole del prete ucraino, che aveva accusato Vladimir Putin nella sua omelia di aver iniziato la guerra in Ucraina per difendere la fede ortodossa russa.

"È eresia...". Dal Vaticano il "siluro" al patriarca Kirill. Nico Spuntoni il 3 Luglio 2022 su Il Giornale.

La distanza tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa sembra essersi amplificata dopo la guerra in Ucraina. Le parole del cardinale Koch si inseriscono nel solco di quelle di Papa Francesco dopo la videochiamata con il patriarca di Mosca.

"È un'eresia che il patriarca osi legittimare la brutale e assurda guerra in Ucraina con ragioni pseudo-religiose". Il cardinale Kurt Koch non ha usato mezzi termini per condannare la linea tenuta dalla Chiesa ortodossa russa già all'indomani del 24 febbraio. Lo ha fatto in un'intervista concessa al quotidiano cattolico tedesco Die Tagespost.

Sono parole di particolare rilevanza non solo perché tirano in ballo l'accusa di eresia, rimpallata per secoli da Occidente a Oriente e viceversa con motivazioni teologiche, ma per la fonte da cui provengono. Koch non è un porporato qualunque, ma il prefetto del Dicastero per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, nuovo nome del Pontificio Consiglio che si occupa di ecumenismo e cura le relazioni con le altre Chiese e Comunità ecclesiali.

Il suo profilo, peraltro, è tutt'altro che barricadiero, trattandosi di un fine teologo svizzero dal carattere mite e dai toni gentili, spesso considerato anche per questo una sorta di "piccolo Joseph Ratzinger". Non bisogna dimenticare che c'era il cardinale Koch accanto a Papa Francesco nella storica videochiamata con il patriarca russo Kirill che si è svolta nel pomeriggio del 16 marzo e che ha avuto come inevitabile argomento di discussione proprio la guerra in Ucraina. Durante quel colloquio, Bergoglio aveva rimproverato il leader spirituale russo per il suo sostegno all'operazione militare di Putin, ricordandogli che "la Chiesa non deve usare il linguaggio della politica, ma il linguaggio di Gesù".

Il Papa ha raccontato i dettagli di quella videochiamata nell'intervista concessa a inizio maggio al direttore del Corsera, Luciano Fontana, spiegando che Kirill aveva iniziato la conversazione "con una carta in mano" da cui aveva letto "tutte le giustificazioni alla guerra", sentendosi rispondere che "il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin".

Una franchezza che è sintomo di quanto la guerra in Ucraina abbia condotto le relazioni tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa a uno stallo dopo decenni di lavoro sotterraneo che aveva consentito la realizzazione dello storico incontro di Cuba nel 2016. I due leader si sarebbero dovuti rivedere di persona a Gerusalemme il 14 giugno, ma il conflitto ha stravolto l'agenda fissata dalle rispettive diplomazie.

Le recenti parole di Koch sembrano certificare una distanza difficilmente colmabile a breve giro anche perché Kirill non può permettersi reazioni troppo morbide verso Roma, avendo a che fare con le pressioni interne del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa da sempre non favorevole al dialogo con i cattolici.

Non a caso, a inizio giugno il Sinodo - attribuendo la decisione al patriarca - ha silurato a sorpresa il potentissimo metropolita Hilarion di Volokolamsk dal ruolo di "ministro degli Esteri", spedendolo a Budapest. Con il gelo ecumenico calato dopo il 24 febbraio e confermato dall'intervista di Koch a Die Tagespost, la sua linea considerata eccessivamente dialogante con la Chiesa cattolica potrebbe essergli costata non solo il posto di presidente del Dipartimento degli Affari Ecclesiastici Esterni ma anche la successione a Kirill che poco tempo fa veniva data quasi per scontata.

Bergoglio torna a parlare del conflitto in Ucraina. La furia di Papa Francesco: “La guerra non è tra buoni e cattivi”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 15 Giugno 2022. 

Con la guerra in Ucraina non siamo nella favola di Cappuccetto Rosso dove è chiaro chi è il cattivo e chi è la buona. Ma chiediamoci: “Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?”. E se non fosse abbastanza chiaro, ecco due aggiunte: “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro”. L’analisi è di Papa Francesco e la conosciamo per merito de La Civiltà Cattolica che ieri ha pubblicato la trascrizione integrale del dialogo del 19 maggio tra il Pontefice e dieci direttori di altrettante riviste dei gesuiti in diversi paesi europei.

La conversazione ha spaziato a tutto campo: dalla guerra alla situazione della Chiesa e dei rapporti con gli ortodossi, dai giovani alle priorità della Compagnia di Gesù in Europa. Non sono a favore di Putin, argomenta il Papa e precisa: «Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli». Il conflitto non deve nascondere, in una visione parziale della realtà, i tanti altri disastri bellici in corso. «Ci sono altri Paesi lontani – pensiamo ad alcune zone dell’Africa, al nord della Nigeria, al nord del Congo – dove la guerra è ancora in corso e nessuno se ne cura. Pensate al Ruanda di 25 anni fa. Pensiamo al Myanmar e ai Rohingya. Il mondo è in guerra. Qualche anno fa mi è venuto in mente di dire che stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi e a bocconi. Ecco, per me oggi la terza guerra mondiale è stata dichiarata. E questo è un aspetto che dovrebbe farci riflettere. Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?

Io vivo la prima guerra nel ricordo di mio nonno sul Piave. E poi la seconda e ora la terza. E questo è un male per l’umanità, una calamità. Bisogna pensare che in un secolo si sono susseguite tre guerre mondiali, con tutto il commercio di armi che c’è dietro! Quella che è sotto i nostri occhi – aggiunge papa Francesco – è una situazione di guerra mondiale, di interessi globali, di vendita di armi e di appropriazione geopolitica, che sta martirizzando un popolo eroico». L’analisi porta con sé una domanda molto forte: chi si prenderà cura dei profughi e delle donne, quando l’emergenza sarà passata? E c’è anche un compito per le riviste dei gesuiti: impegnatevi a parlare del conflitto, a sensibilizzare, affrontando «il lato umano della guerra. Vorrei che le vostre riviste facessero capire il dramma umano della guerra. Va benissimo fare un calcolo geopolitico, studiare a fondo le cose. Lo dovete fare, perché è vostro compito. Però cercate pure di trasmettere il dramma umano della guerra, il dramma umano di una donna alla cui porta bussa il postino e che riceve una lettera con la quale la si ringrazia per aver dato un figlio alla patria, che è un eroe della patria… E così rimane sola. Riflettere su questo aiuterebbe molto l’umanità e la Chiesa. Fate le vostre riflessioni socio-politiche, senza però trascurare la riflessione umana sulla guerra».

Nella lunga riflessione il Papa si lascia andare anche a ricordi personali, parlando della visita compiuta a Redipuglia e al cimitero militare di Anzio, due momenti di grande commozione pensando a quelle migliaia di giovani morti. Quanto all’ortodosso Patriarca Kirill di Mosca, Papa Francesco taglia corto: «Ho avuto una conversazione di 40 minuti con il patriarca Kirill. Nella prima parte mi ha letto una dichiarazione in cui dava i motivi per giustificare la guerra. Quando ha finito, sono intervenuto e gli ho detto: Fratello, noi non siamo chierici di Stato, siamo pastori del popolo. Avrei dovuto incontrarlo il 14 giugno a Gerusalemme, per parlare delle nostre cose. Ma con la guerra, di comune accordo, abbiamo deciso di rimandare l’incontro a una data successiva. Spero di incontrarlo in occasione di un’assemblea generale in Kazakistan, a settembre. Spero di poterlo salutare e parlare un po’ con lui in quanto pastore».

Un altro capitolo riguarda la situazione della Chiesa. E qui il Papa avvia una riflessione molto decisa: nella Chiesa europea “vedo rinnovamento” con “movimenti, gruppi, nuovi vescovi che ricordano che c’è un Concilio alle loro spalle. Perché il Concilio che alcuni pastori ricordano meglio è quello di Trento. E non è un’assurdità quella che sto dicendo”. Altrove, specie negli Usa, il Concilio Vaticano II lo si vorrebbe semplicemente cancellare dalla storia. Il Papa ne è acutamente consapevole e lo dice senza mezzi termini, anche se non spiega in che modo si debba arginare i settori conservatori. “Il numero di gruppi di «restauratori» – ad esempio, negli Stati Uniti ce ne sono tanti – è impressionante” e “ci sono idee, comportamenti che nascono da un restaurazionismo che in fondo non ha accettato il Concilio. Il problema è proprio questo: che in alcuni contesti il Concilio non è stato ancora accettato. È anche vero che ci vuole un secolo perché un Concilio si radichi. Abbiamo ancora quarant’anni per farlo attecchire, dunque!”.

Un’altra tematica ha a che fare con la Germania. Anche qui la risposta dimostra una capacità di visione più ampia e profonda di quello che si legge di solito sui media. Papa Francesco sa quali sono le difficoltà ecclesiali ma ha deciso di aspettare e non forzare le situazioni. E lo dice, indicando una strategia precisa e consapevole: «Il problema sorge quando la via sinodale nasce dalle élite intellettuali, teologiche, e viene molto influenzata dalle pressioni esterne. Ci sono alcune diocesi dove si sta facendo la via sinodale con i fedeli, con il popolo, lentamente». Sulla diocesi di Colonia dove l’arcivescovo è contestato per la scarsa sensibilità verso le denunce di casi di abusi, papa Francesco non le manda a dire e rivela dettagli importanti: «Ho chiesto all’arcivescovo di andare via per sei mesi, in modo che le cose si calmassero e io potessi vedere con chiarezza. Perché quando le acque sono agitate, non si può vedere bene. Quando è tornato, gli ho chiesto di scrivere una lettera di dimissioni. Lui lo ha fatto e me l’ha data. E ha scritto una lettera di scuse alla diocesi. Io l’ho lasciato al suo posto per vedere cosa sarebbe successo, ma ho le sue dimissioni in mano».

Della serie: comportati bene… Intanto il direttore di una rivista on line chiede come parlare ai giovani e anche qui la risposta è pronta: «Non bisogna stare fermi»; «ai miei tempi il lavoro con i giovani era costituito da incontri di studio. Ora non funziona più così. Dobbiamo farli andare avanti con ideali concreti, opere, percorsi. I giovani trovano la loro ragione d’essere lungo la strada, mai in modo statico. Qualcuno può essere titubante perché vede i giovani senza fede, dice che non sono in grazia di Dio. Ma lasciate che se ne occupi Dio! Il vostro compito sia quello di metterli in cammino. Penso che sia la cosa migliore che possiamo fare». Questa risposta si lega con un’altra riflessione che il Papa ha già svolto nell’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” sul modo di annunciare il Vangelo oggi e sul principio che “la realtà è superiore all’idea”: non basta comunicare idee: non è sufficiente. Occorre comunicare idee che provengono dall’esperienza. Questo per me è molto importante.

Le idee devono venire dall’esperienza. Prendiamo l’esempio delle eresie, sia che esse siano teologiche sia che siano umane, perché ci sono anche eresie umane. A mio parere, un’eresia nasce quando l’idea è scollegata dalla realtà umana. Da qui la frase che qualcuno ha detto – Chesterton, se ben ricordo – che «l’eresia è un’idea impazzita». È impazzita perché ha perso la sua radice umana”. Il principio è semplice: «la realtà è superiore all’idea, e quindi bisogna dare idee e riflessioni che nascono dalla realtà». I gesuiti hanno nel “dna” il tema del “discernimento”: analizzare la realtà, riflettere bene, poi agire. Il Papa lo mette a fuoco puntando in alto: “se si lancia una pietra, le acque si agitano, tutto si muove e si può discernere. Ma se invece di lanciare una pietra, si lancia… un’equazione matematica, un teorema, allora non ci sarà alcun movimento, e dunque nessun discernimento”.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Mattia Feltri per “La Stampa” il 15 giugno 2022.  

In una conversazione riportata ieri dalla Stampa coi direttori di dieci riviste europee della Compagnia di Gesù, Papa Francesco è tornato sulla guerra d’Ucraina. La sua opinione è nota, ma nell’occasione la dettaglia: alla condanna dell’aggressore si accompagna un fremente elogio del coraggio dell’aggredito, ma con l’avvertenza che questa non è la storia di Cappuccetto Rosso, non ci sono buoni e cattivi, la questione è più complessa. 

In particolare - lo aveva già detto, lo ripete - la Nato ha abbaiato ai confini russi, forse per fomentare la guerra, perlomeno senza lo scrupolo di evitarla. Bisogna sempre accostarsi con particolare prudenza e rispetto alle parole di un pontefice, che si sia credenti oppure no.

Mi sono ricordato della volta in cui, rientrando in volo dallo Sri Lanka, una settimana dopo la strage di Charlie Hebdo (dodici morti nella redazione del giornale satirico per mano di terroristi islamici), Francesco dichiarò sacre le libertà di religione e di espressione, ma né l’una né l’altra sono illimitate: se dici una parolaccia a mia madre, spiegò, aspettati un pugno. 

Anche lì, mi pare, l’intenzione era di sollecitare una lettura delle cose senza semplificazioni manicheiste, cioè un invito, replicato ieri, alla complessità. Per la prudenza e il rispetto raccomandati prima, mi limito a dubitare che sarebbe buona cosa dare un pugno a chi insultasse mia madre, e ad aggiungere che parlare di buoni e cattivi, subito dopo o durante una mattanza, a Parigi o a Kiev, sarebbe inutile e infantile. Non sono buoni e cattivi, sono vittime e carnefici, e le ragioni dei carnefici sono qualcosa che diventa il nulla.

Il caduta di Kirill, il patriarca russo scivola sull'acqua santa e finisce a terra durante la funzione religiosa.  Il Corriere della Sera il 25 giugno 2022.

Il patriarca russo Kirill è caduto durante una funzione nella chiesa di Novorossijsk, a causa del pavimento bagnato dall’acqua santa.

Nel video si vede il religioso che mentre scende dal pulpito scivola e finisce rovinosamente a terra, poi la regia russa ha cambiato rapidamente inquadratura passando con le immagini all’esterno della chiesa

Secondo quanto riferito dall’agenzia Tass il capo della chiesa ortodossa russa non ha riportato conseguenze.

«Il pavimento è bellissimo, puoi specchiarti, è così lucido e liscio - ha detto poi Kirill durante il sermone - Ma quando l’acqua cade su di lui, anche se è acqua santa, sono le leggi della fisica a funzionare. Su questo bel pavimento sono caduto così purtroppo ma, per grazia di Dio, senza alcuna conseguenza».

"Non significa niente". La scivolata di Kirill sull’acqua santa è virale, la caduta del patriarca pro guerra perché contro il gay pride. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2022 

Scivolare sul pavimento bagnato dall’acqua santa. E’ quanto accaduto al patriarca russo Kirill durante una funzione religiosa nella chiesa di Novorossijsk. Secondo quanto afferma l’agenzia russa Tass, Kirill non avrebbe riportato conseguenze nella caduta.

“Il fatto che io sia caduto oggi non significa nulla. È solo che il pavimento è bellissimo, è così lucido e liscio. Ma quando l’acqua cade su di esso, anche l’acqua santa, le leggi della fisica funzionano ma, per grazia di Dio, senza alcuna conseguenza”, ha detto poi Kirill nel corso del sermone parlando dell’accaduto e probabilmente provando ad allontanare presunti segnali divini dopo la sua esposizione a favore della guerra.

Kirill, fedelissimo di Putin, in questi mesi di guerra non ha mai lanciato un messaggio di pace al suo zar. Anzi. A poche settimane dall’invasione russa in Ucraina, Kirill si rese protagonista di dichiarazioni aberranti. Secondo il patriarca del Cremlino (e della chiesa ortodossa russa) la guerra “è giusta” perché vanno puniti modelli di vita peccaminosi e contrari alla tradizione cristiana come “il gay pride”.

Nonostante gli appelli arrivati sia dal mondo cattolico che da quello ortodosso ucraino, Kirill in un sermone pronunciato nella Domenica del Perdono, che in Russia apre la Quaresima, approvò a inizio marzo l’invasione della Russia arrivata dopo che “per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass“, “dove c’è un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale”.

E secondo Kirill “oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo ‘felice’, il mondo del consumismo eccessivo, il mondo della ‘libertà’ visibile. Sapete cos’è questo test? E’ molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay” e le repubbliche separatiste del Donbass hanno respinto questo “test di lealtà” all’Occidente, esortandole alla resistenza contro i valori promossi dalla lobby gay.

Deliranti le sue parole secondo cui le parate gay “sono progettate per dimostrare che il peccato è una delle variazioni del comportamento umano”. “Ecco perché per entrare nel club di quei Paesi è necessario organizzare una parata del Gay Pride. E sappiamo come le persone resistono a queste richieste e come questa resistenza viene repressa con la forza. Ciò significa che si tratta di imporre con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio”.

Il patriarca Kirill licenzia Hilarion, il «vice» contrario alla guerra in Ucraina. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.  

Il patriarca di Mosca Kirill ha «licenziato» il metropolita Hilarion, finora presidente del Dipartimento relazioni esterne e quindi «ministro degli esteri» della Chiesa ortodossa russa, di fatto il numero due.

Hilarion, al quale è stata tolta anche la carica di metropolita di Volokolamsk, si era distinto in questi mesi per una posizione più moderata, mentre il patriarca ha continuato a benedire la guerra voluta dal suo alleato e amico Vladimir Putin, sposando in toto la propaganda del Cremlino. Il Sinodo della chiesa ortodossa russa ha annunciato che d’ora in poi «il Metropolita Hilarion di Volokolamsk sarà l’amministratore della Metropoli di Budapest-Ungheria, con l’esonero dalle funzioni di presidente del Dipartimento delle relazioni ecclesiastiche esterne e di membro permanente del Santo Sinodo».

Come «ministro degli esteri» e membro permanente del Sinodo ortodosso, lo sostituirà il metropolita Antonio di Korsun. Hilarion, come responsabile delle relazioni esterne, è stato l’uomo che stava preparando il nuovo incontro tra Papa Francesco e Kirill prima che l’invasione russa dell’Ucraina facesse precipitare la situazione. Alla fine l’incontro è stati rimandato dalla Santa Sede a data da destinarsi. Francesco, nell’intervista al direttore del era stato lapidario: «Il patriarca di Mosca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin». In tutto questo, Hilarion aveva cercato di smarcarsi dal suo superiore. 

Nell’ultimo numero della Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, il direttore padre Antonio Spadaro ricordava due prese di posizione importanti del metropolita. In una trasmissione radiofonica del 29 gennaio sul canale Russia 24, aveva parlato con preoccupazione di ciò che stava succedendo, ricordato che «in America, in Ucraina e in Russia ci sono politici che credono che la guerra sia la decisione giusta in questa situazione», e si era detto «profondamente convinto che la guerra non sia un metodo per risolvere i problemi politici accumulati».

In una trasmissione successiva era arrivato a citare Rasputin, il quale aveva avvertito lo zar che «se la Russia fosse entrata in guerra, avrebbe minacciato l’intero Paese con conseguenze catastrofiche», arrivando non solamente alla perdita di parte delle terre russe ma anche della «Russia in quanto tale». Il sito indipendente Orthodox News ricorda oggi «lo sforzo del metropolita Hilarion di differenziarsi dall’atteggiamento aggressivo del Patriarca di Mosca e la sua piena identificazione con le richieste del Cremlino», citando alcuni episodi recenti.

Il primo è stato l’incontro con l’arcivescovo Chrysostomos di Cipro a Cipro, nell’ambito dell’Assemblea ortodossa del Consiglio mondiale delle Chiese, nonostante la Chiesa di Russia abbia interrotto la comunione eucaristica con l’arcivescovo di Cipro, dopo il riconoscimento da parte di quest’ultimo della Chiesa autocefala ucraina». A questo «è seguita la pre-conferenza del Consiglio mondiale delle Chiese (WCC) e il testo conclusivo emesso alla fine, che parlava di una condanna unanime della guerra che imperversa in Ucraina».

Hilarion «era presente all’incontro, in qualità di capo della missione della Chiesa russa, così come ha partecipato alle discussioni che hanno portato al testo finale delle conclusioni, adottato all’unanimità». Inoltre, «nelle sue recenti dichiarazioni sulle relazioni con le “Chiese ortodosse di Costantinopoli, Alessandria, Cipro e Grecia”, ha anche sottolineato che “non credo che dovremmo considerarle nemiche”, e ha parlato di “difficoltà temporanee” nella Chiesa ortodossa, che saranno superate “definitivamente” perché “si troverà una soluzione pan-ortodossa o inter-ortodossa, che permetterà di guarire le ferite inflitte al corpo dell’ortodossia mondiale e ripristinerà la piena comunione tra le Chiese». È importante notare che anche Kirill, nominato vent’ anni prima da Alessio II, era «ministro degli esteri» del Patriarcato quando il vecchio patriarca morì e gli succedette nel 2009. Hilarion era il candidato più probabile alla successione di Kirill. E magari potrebbe ancora esserlo in futuro, se alla fine Putin e il patriarca finissero in disgrazia.

Anna Zafesova per “la Stampa” il 3 giugno 2022.

Il patriarca di Mosca e di tutte le Russie può essere anche considerato intoccabile da Viktor Orban, pronto a scontrarsi con l'Unione Europea per difendere Kirill dalle sanzioni, ma le parrocchie in Ucraina non pregano più per la sua salute. 

Il capo della Chiesa ortodossa russa è l'alleato più fedele del Cremlino, che non solo ha benedetto la "operazione militare speciale" contro l'Ucraina, ma l'ha anche giustificata con la difesa dei "valori tradizionali" tanto cari sia al leader ungherese che a Vladimir Putin: la sua dichiarazione che l'invasione ha «sventato il pericolo di sfilate di Gay Pride a Donetsk» ha fatto il giro del mondo, suonando scioccante perfino per molti conservatori. 

Con i suoi orologi di lusso, le sue benedizioni delle testate atomiche e le amicizie con politici impresentabili - come Leonid Sluzky, il capo della commissione Esteri della Duma, sostenitore della pena di morte famoso per le sue molestie sessuali - il Patriarca era già un personaggio molto discusso. 

E quando ha insistito che la Russia «sta promuovendo la pace», gli ortodossi ucraini si sono ribellati: domenica 29 maggio il metropolita di Kiev Onufrij, per la prima volta, non ha menzionato nella sua liturgia domenicale il patriarca di Mosca come «grande signore e padre nostro».

A utilizzare il calcolo di Stalin, che chiedeva di quante divisioni disponesse il Vaticano, Vladimir Putin rischia di perdere un fronte intero. Due giorni prima, durante un'assemblea tenuta a Kiev e trasformata in corso d'opera in concilio, la Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca si è proclamata «autonoma e indipendente», cancellando dal suo statuto ogni menzione del suo legame subordinato alla Chiesa russa.

A Mosca aspettano a parlare di scisma, ma è evidente che la chiesa ortodossa si è spaccata sulla guerra: la posizione di Kirill è stata bollata da Onufrij come "il peccato di Caino", il sostegno a un massacro fratricida. Una presa d'atto seguita a una rivolta dei fedeli e del clero: circa 500 parrocchie avevano già dichiarato di uscire dalla giurisdizione del patriarcato di Mosca. 

Il metropolita Evlogiy di Sumy aveva smesso di pregare per la salute di Kirill sotto le bombe russe, imitato da una quindicina delle 53 diocesi ucraine. Circa 400 sacerdoti e monaci hanno sottoscritto una lettera ai patriarchi delle antiche chiese di Oriente, chiedendo di processare il patriarca di Mosca come eretico per la sua propaganda del "mondo russo" come ideologia nazionalista del putinismo.

Nonostante diverse parrocchie avessero raccolto aiuti per i militari e per i profughi, e molti esponenti del clero avessero preso posizioni molto dure nei confronti dei principali moscoviti, la situazione era diventata insostenibile. Alla rabbia dei fedeli si erano aggiunte le pressioni delle autorità di molte regioni ucraine che avevano cominciato a mettere fuori legge le attività della "chiesa di Mosca". E così, dal 27 maggio la Chiesa ortodossa ucraina si è dichiarata indipendente: ora potrà istituire parrocchie all'estero - dove sono fuggiti milioni di profughi ucraini - e ricominciare a preparare il crisma a Kiev, dopo che per più di un secolo l'olio per i sacramenti veniva inviato da Mosca. 

Uno scisma che Kirill per ora evita di dichiarare tale, anche perché dovrebbe ammettere di aver perso un terzo delle sue parrocchie e fino a due terzi delle entrate, con un patrimonio immenso di immobili e reliquie, tra cui il monastero delle Grotte di Kiev, culla dell'ortodossia della Rus. Ma soprattutto, il monastero di San Daniele di Mosca smetterebbe di venire considerato il centro religioso di "tutte le Russie", e la chiesa di Kirill si ridurrebbe di fatto a una istituzione nazionale russa, un colpo pesante all'ambizione di Putin e del suo patriarca di un nuovo impero del "mondo russo".

Non stupisce dunque che Kirill abbia voluto smussare gli angoli, parlando di «decisioni sagge per non complicare la vita dei credenti» in Ucraina. Molto meno conciliante la posizione di numerosi funzionari della Chiesa russa: Aleksandr Shipkov del dipartimento delle relazioni esterne ha pronunciato la parola proibita «scisma», sostenendo che fosse avvenuto «su ordine del dipartimento di Stato Usa».

 Una situazione complicata, anche perché dentro la Chiesa ucraina è già nato a sua volta uno scisma: praticamente tutti i 14 vescovi dei territori in mano ai russi, tra cui la Crimea, Donetsk e Novokakhovka, hanno deciso di mantenere la fedeltà a Kirill. «Ci rendiamo conto che nelle zone occupate esiste una realtà diversa», ha ammesso il metropolita Climent. È evidente che la linea dello scisma passerà dalla linea del fronte, che è soggetta a cambiamenti. Il problema è cosa resterà dopo la guerra: in Ucraina infatti esiste anche la Chiesa ortodossa dell'Ucraina, frutto dello scisma dell'indipendenza, riconosciuta nel 2018 dal patriarca di Costantinopoli Bartolomeo come autocefala, e considerata "ufficiale" dal governo.

Uno smacco a Putin cui Kirill reagì rompendo ogni contatto con il centro dell'ortodossia mondiale. Ora, la nuova chiesa indipendente di Kiev è di fronte a un dilemma drammatico: se non ricuce i rapporti con Constantinopoli rischia di restare una scheggia illegittima dell'ortodossia. Motivo per il quale Serhiy Bortnik, teologo e collaboratore di Onufrij, dice che l'indipendenza da Mosca non significa la rottura di un legame "di preghiera", forse in attesa che un giorno un cambio di regime al Cremlino trasformi anche la posizione militarista e imperialista di Kirill.

Una prudenza che potrebbe costare agli scismatici il loro futuro: molti in Ucraina continuano a considerarli troppo vicini all'invasore, e le parrocchie ribelli stanno passando nella giurisdizione dei concorrenti della Chiesa ortodossa dell'Ucraina, mentre le diocesi nei territori occupati potrebbero venire subordinate direttamente a Mosca.

Ortodossi contro ortodossi, divisi dal nazionalismo. Andrea Riccardi su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.  

Tre mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sostenuta dal patriarca Kirill, la fine del legame speciale e il distacco ufficiale della Chiesa di Kiev da Mosca.

Nel febbraio 2009 c’era un clima di festa sotto le volte della grandiosa cattedrale del Salvatore a Mosca. Veniva intronizzato il patriarca Kirill, presenti Medvedev, allora presidente della Federazione russa, e Putin primo ministro (prima di riassumere la carica presidenziale) nonché il presidente bielorusso e la leader della casata Romanov. Allora il primo patriarca, eletto dopo la fine del comunismo, affermò che, sulle sue spalle, cadeva il compito di unire i popoli ortodossi, un tempo parte dell’impero e poi dell’Urss, ma ora divisi tra vari Stati. Il patriarca si candidava come riferimento del mondo russo-ortodosso in una prospettiva sovranazionale in rapporto con il cattolicesimo e l’Europa. Sembrava una linea coerente di un discepolo — qual era Kirill — del metropolita Nikodim, amico di Roma e riformatore, morto nel 1978 in Vaticano durante un incontro con papa Luciani. Nel 2012 Kirill si era recato in Polonia per una clamorosa visita di riconciliazione tra polacchi e russi.

Già nel 2007, Putin aveva però enunciato la sua dottrina internazionale alla Munich Security Conference, accusando gli Usa di minacciare la Russia e di alimentare conflitti. Putin, che voleva riunificare il «mondo russo», nel 2008 invase la Georgia e nel 2014 annetté la Crimea. Il programma del patriarca è stato travolto dalla politica russa fino al distacco ufficiale della Chiesa ucraina da Mosca, dopo più di tre mesi di invasione russa dell’Ucraina, un trauma che ha reso il legame con il patriarcato moscovita non più accettabile. Il Concilio del 27 maggio ha condannato la guerra e chiesto ai russi di negoziare con Kiev, dissentendo dall’appoggio totale di Kirill a Putin. Inoltre ha proclamato «la piena autonomia e indipendenza» della Chiesa ortodossa ucraina da Mosca. Non uno scisma, ma la fine del legame speciale con Mosca. Nella liturgia, il metropolita Onufry, come un primate di una Chiesa autocefala, ha ricordato gli altri primati, tra cui quello di Mosca, ponendosi sullo stesso piano.

Per Mosca è una perdita grave: una Chiesa folta, molti preti e monaci, la porzione più grossa degli ortodossi ucraini. Gli altri appartengono alla Chiesa ortodossa autocefala ucraina, riconosciuta dal patriarcato di Costantinopoli nel 2018 e scomunicata da Mosca. Kirill, nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, aveva cercato di avere una posizione «imparziale» nella questione, differenziata dal governo, e non aveva partecipato, al Cremlino, all’atto di annessione della penisola alla Russia. Ma, con l’invasione russa dell’Ucraina, il patriarca non ha accolto gli appelli del metropolita di Kiev Onufry, peraltro non un nazionalista estremo, rivolti a lui e a Putin. Anzi Kirill ha dato pieno appoggio alla politica russa, suscitando proteste nel cristianesimo occidentale. Lo ha fatto secondo il modello dei suoi predecessori durante la seconda guerra mondiale con Stalin o quella in Afghanistan. Eppure Kirill era, fino a ieri, anche patriarca dei suoi «figli spirituali» ucraini, contro cui la Russia combatte.

Al di là delle sue posizioni soggettive, nella Russia di Putin in guerra si sta sprofondando in un «modello sovietico», in cui sono previsti fino a quindici anni di carcere per chi critica l’«operazione militare» in corso. Quali gli spazi di autonomia del patriarcato, così legato da sempre al Cremlino, che — ad esempio — ha promosso la costruzione di chiese russe in tante parti del mondo? La Chiesa russa si «sovietizza» più di quanto sembri, ma molti vescovi tacciono, nonostante il clima nazionalista, favorito da un’abile e distorcente informazione di Stato. La reazione del patriarcato di Mosca alle decisioni di Kiev è stata però prudente, affermando che la comunione tra le due Chiese resta.

Ora, in Ucraina, si apre una nuova partita: il rapporto tra ortodossi (ex russi) e autocefali (i cui non sono riconosciuti, perché ordinati da vescovi scomunicati). C’è poi la questione del rapporto con la Chiesa greco-cattolica (con lo stesso rito, ma unita a Roma), meno del 10% della popolazione, di ispirazione patriottica. Forse la guerra potrà mettere in moto nuovi processi di unificazione nel quadro dell’identità ucraina. È certo che la guerra mostra, pur in epoca ecumenica (o post-ecumenica), come sia difficile per le Chiese resistere all’attrazione fatale delle passioni nazionali.

Conflitti religiosi. Dio contro Dio: è la guerra delle quattro Chiese. Ci sono ortodossi obbedienti a Mosca, a Costantinopoli, autocefali e cattolici uniati. Anche l’Urss si dovette arrendere. Ezio Mauro su La Repubblica il 16 Aprile 2022.

Adesso che il Cristo degli ucraini è sceso dalla sua croce proprio nei giorni della resurrezione per risalire l’angoscia del suo ultimo Calvario, mentre il Patriarca di tutte le Russie Kirill invoca da Mosca lo stesso dio, chiamandolo a benedire la guerra di Putin, bisogna provare ad aprire il tabernacolo russo della santa fede per cercare le radici spirituali del conflitto.

Marco Leardi per ilgiornale.it il 24 aprile 2022.

Riti propiziatori, formule magiche, incantesimi e sortilegi. Inni intonati all'unisono per invocare la vittoria. Talismani e amuleti agitati contro il nemico. Tra Russia e Ucraina si sta combattendo una guerra occulta, parallela a quella sostenuta con le armi e le operazioni militari.

Un conflitto esoterico nel quale alle forze dispiegate sul campo si aggiungono quelle immateriali e misteriose evocate dall'aldilà. E non si tratta di dicerie o pittoresche leggende: nelle ultime settimane, a Mosca e Kiev, alcune streghe "accreditate" avrebbero iniziato a praticare rituali con il solo obiettivo di sostenere gli eserciti dei rispettivi paesi, nonché l'azione dei loro leader. Lo documentano, con tanto di immagini, alcuni media stranieri.

Così, dalla capitale della Russia arrivano notizie di raduni esoterici per supportare Vladimir Putin. Come riportato da Asianews, decine di donne vestite con un saio nero si sono radunate a Mosca per espimere solidarietà allo Zar e invocare per lui l'ausilio delle forze occulte.

A guidare il rito popiziatorio Aljona Polin, considerata la principale fattucchiera russa, nonché fondatrice dell'associazione delle "Grandi streghe di Russia". Già lo scorso 12 marzo, come testimoniato da alcuni video, la donna aveva convocato un consiglio generale delle streghe a sostegno di Putin. In quell'occasione erano stati pronunciati inni e formule magiche in favore del presidente, la cui immagine era stata posta al centro di un "cerchio del potere" formato dalle partecipanti al rituale.

"Che si manifesti la grande forza della Russia!", aveva ripetuto la chiromante, chiedendo agli spiriti di "dare forza e potere alla Russia e guidare correttamente il percorso del presidente Putin". Durante il rito venivano anche intonate maledizioni contro i nemici dello Zar. "Chi pretende di passare in mezzo a noi, chi ha deciso di andarsene da noi, chi mente in ogni cosa che dice, per i secoli dei secoli questi nemici saranno maledetti!".

Intanto, anche sul fronte ucraino si praticano analoghi rituali con l'opposto scopo di fermare l'avanzata russa. Secondo quanto riferito dall'agenzia Unian, infatti, le streghe di Kiev starebbero mettendo a punto un "rituale" in tre fasi per estromettere Putin dal teatro di guerra.

Il cerimoniale esoterico - a quanto si apprende - si dovrebbe svolgere in quello che è considerato un "luogo del potere" ammantato di mistero, ovvero il Monte Calvo, vicino alla capitale dell'Ucraina. Di questi rituali si dice al corrente anche padre Taras Zephlinsky, attivista della chiesa greco-ortodossa di Kiev, il quale all'AdnKronos non ha nascosto la propria preoccupazione per chi vuole "giocare con il maligno".

Tra riti magici e spiriti invocati, la drammatica attualità si fonde a superstizioni e ancestrali credenze. Le dottrine esoteriche affiancano i piani di guerra.

"Sigillo satanico". La nuova accusa dei russi a Kiev. Marco Leardi il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Simboli satanici nel quartier generale delle truppe ucraine: l'accusa arriva dall'agenzia di stampa russa Ria Novosti, con immagini e video. "Così cercavano poteri soprannaturali".

Un "sigillo satanico" nel quartier generale dell'esercito ucraino. Simboli tracciati col sangue, "segni di magia nera". L'accusa arriva dai media russi, con immagini che dovrebbero dimostrare cosa accade davvero tra i militari di Kiev. Nella guerra della propaganda, succede anche questo: l'agenzia di stampa statale di Mosca, Ria Novosti, ha comunicato che nei luoghi presidiati dalle truppe ucraine sarebbero state trovate testimonianze delle pratiche occulte eseguite dai soldati per invocare l'aiuto di forze maligne soprannaturali. L'organo vicino al Cremlino, per la verità, non ha usato alcun condizionale e anzi ha riportato come una certezza le informazioni di un proprio corrispondente.

"Segni della pratica della magia nera sono stati trovati nel quartier generale dei mortai ucraini, alla periferia del villaggio di Trekhizbenka: seguaci di forze ultraterrene hanno cercato di 'consacrare' le armi e hanno lasciato segni di sangue", ha riferito l'agenzia Ria Novosti. L'accusa rivolta alle truppe di Kiev è anche accompagnata da alcune immagini e da un video, nel quale viene mostrato un simbolo esoterico pitturato sulla parete esterna di una struttura fatiscente e ormai disabitata. "Sul muro è stato trovato un sigillo satanico", hanno affermato i media russi, localizzando il presunto scoop nella regione di Luhansk, nell'Ucraina sud-orientale.

Per decifrare quel simbolo, Ria Novosti ha anche interpellato un'esperta culturologa, Ekaterina Dais, la quale ha fornito una propria interpretazione. "Questo è un sigillo magico costituito da molte linee che si intersecano. Cosa significhi è difficile da dire con certezza, in esso puoi vedere sia il segno invertito dell'anarchia, sia parte del segno 'SS', la runa zig, che è chiaramente visibile nel settore all'estrema sinistra del cerchio", ha osservato la donna, indicando quindi una presunta matrice nazista nel disegno attribuito ai soldati ucraini. E poi l'ulteriore dettaglio: "la lettera ebraica 'zain' scritta in tedesco, che significa spada o arma".

Secondo l'esperta, il sigillo è stato utilizzato per compiere rituali che i militari di Kiev praticavano per rafforzare le loro armi o per chiedere "poteri soprannaturali per l'invio di armi". Il video pubblicato dall'agenzia russa mostra anche dei segni tracciati col sangue su un comunicato stampa ucraino nel quale si elencavano le perdite di vite umane nel Donbass. Tali segni, tuttavia, non sarebbero stati trovati altrove. Tra propaganda e suggestioni, una nuova accusa contro Kiev. In realtà, non è la prima volta che Mosca attribuisce pratiche sataniche agli ucraini.

La verità, come sempre, sta nel mezzo. Come già avevamo documentato su queste pagine, infatti, a margine di uno scontro violento combattuto con le armi, Russia e Ucraina stanno conducendo una "guerra occulta" fatta di credenze popolari, riti magici, streghe e sortilegi. Per antiche tradizioni culturali e superstizioni, né Mosca né Kiev si sono sottratte dal filone esoterico.

Chakassia, il rito degli sciamani per proteggere i soldati russi: "Una testa di toro offerta agli spiriti". Libero Quotidiano il 30 maggio 2022.

In Russia c'è chi si affida al "soprannaturale" con la speranza di dare una mano a Putin e ai suoi soldati sul campo di battaglia. E' quanto emerge da un servizio andato in onda sulla tv di Stato Channel One e ripreso dal giornalista inglese Francis Scarr. Si tratta di un filmato che mostra sciamani della Chakassia - repubblica della Federazione Russa in Siberia - mentre invocano gli "spiriti della terra", chiedendo loro di proteggere i militari impegnati nell'"operazione speciale" in Ucraina.

Il rito, che si è svolto sulle montagne del Saksary, viene spiegato dal tg in maniera dettagliata: uno sciamano, Valery Nikolayevich, entra in azione "non appena gli ultimi raggi di sole sono scomparsi all'orizzonte". Durante l'operazione la "testa di un toro viene offerta agli spiriti". A quel punto - come riporta il Messaggero - lo sciamano dice: "C'è anche qualcos'altro nel fuoco, ma non dirò cosa perché è sacro". Il servizio, poi, sottolinea che il rito è stato compiuto seguendo tutte le regole più importanti al fine di evocare i "poteri superiori". Una sorta di certificato di garanzia, insomma.   

Riti del genere, in ogni caso, sono piuttosto diffusi in Russia: non è la prima volta, infatti, che a Mosca la guerra in Ucraina viene raccontata come se fosse qualcosa di sacro. Basti pensare che sempre su Channel One a un mese dall'inizio del conflitto, il magnate ortodosso Konstantin Malofeyev disse che l'operazione militare speciale è una "guerra santa" e che le forze russe hanno a che fare addirittura con "satanisti" e "pagani". Una teoria che va oltre ogni immaginazione. 

"Testa di toro offerta agli spiriti". Sulla tv russa il rito sciamanico pro-Putin. Marco Leardi il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.

In Siberia eseguito un rito sciamanico per invocare le "forze superiori" a sostegno dell'esercito di Putin impegnato in Ucraina. Sulla tv russa le immagini dello stregone all'opera.

Una testa di toro offerta agli spiriti soprannaturali. Sacrificata per chiedere alle potenze occulte di sostenere la battaglia dello Zar. Al tramontare del sole, mentre le tenebre pendevano il sopravvento, uno sciamano ha iniziato a preparare il rito esoterico. Nessuna messa in scena, nessuna finzione: davanti alle telecamere, lo stregone pro-Putin si è pure mostrato all'opera. Sulla tv russa, la realtà ha superato la fantasia e così, durante un notiziario dell'emittente statale, sono state trasmesse le immagini di un rituale eseguito per "proteggere coloro che stanno prendendo parte all'operazione speciale in Ucraina".

Con tono serio, l'annunciatrice ha comunicato al pubblico il compimento del rito da parte degli sciamani della Chakassia, regione russa situata nella Siberia occidentale. La cerimonia, seguita e documentata da un'inviata dell'emittente Russia1, aveva come scopo proprio quello di convogliare le forze dell'aldilà sugli uomini di Putin impegnati a combattere contro Kiev. Gli sciamani - ha spiegato l'anchorwoman - "hanno chiesto agli spiriti della terra di supportare i nostri combattenti". Perché ogni arma utile a sconfiggere il nemico deve essere utilizzata; anche quella esoterica.

Nel servizio realizzato sulle montagne della Siberia, le immagini hanno seguito le fasi di preparazione della cerimonia sciamanica. "Appena i raggi del sole sono scomparsi sotto l'orizzonte, Valery Nikolayevich ha iniziato a fare gli ultimi preparativi", ha raccontato l'inviata, rivelando l'identità di quell'individuo barbuto ripreso mentre componendo una catasta di legna. "A prima vista, è un normale locale, ma in realtà è un capo sciamano". L'uomo, ha aggiunto la giornalista russa, ha coinvolto e convocato alcuni colleghi stregoni per invocare i "poteri superiori".

Nella surreale cronaca, mentre scorrevano le immagini realizzate all'imbrunire, è stato spiegato al pubblico che il rito avrebbe previsto il sacrificio di una testa di toro offerta agli spiriti. "Il rituale è stato compiuto seguendo tutti i canoni", ha aggiunto la cronista russa. Poi la parola è passata allo sciamano in persona. "C'è anche qualcos'altro dentro la catasta, ma non dirò cosa", ha aggiunto l'uomo, mantenendo la segretezza sui dettagli del rito occulto. La notizia di per sé non stupisce: già in passato avevamo registrato, proprio su queste pagine, l'avvenuto raduno di alcune streghe pro-Putin, ritrovatesi per "dare forza e potere alla Russia" attraverso le loro invocazioni.

La guerra "occulta" della Russia, tra superstizioni e riti, non si è mai interrotta. Nemmeno mentre Mosca accusava gli ucraini di ricorrere a riti esoterici definiti come satanici.

Registrata ufficialmente la chiesa di Satana Nella provincia ucraina di Cerkassy è stata ufficialmente registrata, come comunità religiosa, l'associazione dei credenti nel diavolo. Da rainews.it il 29 agosto 2014. La comunità si chiama “Bozhici” (Satanisti). Il leader degli idolatri del diavolo si chiama Serghei Neboga (Non-Dio). È la prima e, per il momento, l’unica comunità dei satanisti in tutta l’area post-sovietica che legalmente, in conformità con la Costituzione dell’Ucraina, professano la venerazione del diavolo. Sul sito ufficiale è stato comunicato che la notte di Valpurga, tra il 30 aprile e il 1 maggio scorso, è stata posta la prima pietra come fondamenta del Tempio di forze oscure a ridosso del Bosco Nero, luogo malfamato secondo la superstizione locale. Il Bosco Nero a volte viene chiamato Bosco del Diavolo. Il libro di culto è stato scritto dallo stesso Neboga e s’intitola “Prassi segreta della magia nera dei popoli slavi”. Secondo l’affermazione del fondatore della chiesa del Satana la sua comunità “è un’associazione degli stregoni e delle streghe che praticano l'idolatria del diavolo”. Neboga fa anche servizi a pagamento: diagnostica problemi e l’impatto delle forze oscure. Per risolvere “il problema” chiede la modica somma di 100 dollari. La garanzia della diagnostica corretta è del 99%. Tra i riti offerti agli adepti ci sono messe nere, nozze nere e perfino la cancellazione del battesimo. Secondo l’autorevole studioso e ricercatore ucraino Vladimir Rogatin, membro della Federation europeenne des centres de recherche et d’information sur le sectarisme (FECRIS), in Ucraina ultimamente “è stato rilevata la crescita dell’influenza e della presenza di diverse sette sataniche, oltre 100 comunità sataniche con oltre 2 mila adepti”. 

Vladmir Putin e le messe nere, il rituale per vincere la guerra: Cremlino, indiscrezioni inquietanti. Maurizio Stefanini Libero Quotidiano il 31 marzo 2022.

Streghe, sciamani, cosmisti, neopagani, adoratori, patriarchi e soprattutto misteri attorno a Putin. E misteri attorno al ministro della Difesa, il generale Sergei Shoigu. Che fine ha fatto, e se sia vero il video in cui è riapparso in pubblico dopo che non si vedeva dall'11 marzo, è il mistero più recente. Ma non l'unico, e neanche il più inquietante. Come indicano i suoi tratti asiatici, Shoigu è di Tuva: una repubblica della Federazione Russa, al confine tra Siberia e Mongolia, che fino al 1757 fu sotto alla Cina, e tra il 1921 e il 1944 fu indipendente. La lingua locale è di tipo turco, il 60% della popolazione è buddhista fedele al Dalai Lama, un altro 8% pratica forme di paganesimo sciamanico, e le due cose si mescolano spesso. Di Shoigu si diceva che fosse non solo un buddhista o uno sciamanista, ma addirittura uno sciamano e che la sua carriera fosse stata agevolata dalla capacità di propiziare a Putin forze spirituali positive. Ad esempio, si fantasticava, sacrificando lupi neri.

STRANE RIVELAZIONI

Nel 2008 lui smentì, spiegando che era stato battezzato nella fede ortodossa a 5 anni dalla mamma, che era di origine una contadina ucraina. Ma le voci sono state ricicciate a inizio del mese, attraverso una intervista al quotidiano Daily Mail di Valery Solovey, politologo ed ex professore all'Istituto di Stato di Mosca per le Relazioni Internazionali. Secondo queste rivelazioni, proprio prevedendo una possibile guerra nucleare il presidente russo avrebbe nascosto la famiglia e le persone a lui più vicine in una piccola città sotterranea super hi-tech sulle montagne dell'Altai, al confine con Mongolia, Cina e Kazakistan. E di Solovey è stato ricordato come aveva tirato fuori la storia dei riti sciamanici, venendo per ciò interrogato dalla polizia. Storie non controllate e non controllabili. Ma è vero, e pubblico, che a Mosca il 12 marzo si è riunito un Consiglio Generale delle Grandi Streghe di Russia, appunto per appoggiare lo sforzo bellico. «Chi sente, ma non sente, chi vede, ma non vede, chi c'è, c'era e ci sarà, non dimenticherà la mia parola: solleva la forza della Russia, dirigi il nostro presidente Putin sulla via della giustizia» è stato la "formula" recitata dalla Strega in capo Aljona Polin, di fronte a un centinaio di donne dedite alle arti magiche, vestite con saio e cappuccio decorato da immagini di uccelli rapaci, in una sala al cui centro c'era uno scialle con sopra un ritratto di Putin e accanto a una candela accesa.

SAN PAOLO REINCARNATO

Le streghe son tornate, si potrebbe commentare. «Abbiamo bisogno di ogni aiuto», diceva Tony Curtis in Operazione Sottoveste, nel portare anche uno sciamano filippino oltre ai pezzi di ricambio per permettere al sommergibile di tornare in mare. Anche Putin non disdegna di affiancare agli anatemi del patriarca Kirill quelli delle fattucchiere. Dmitry Utkin, il capo di quel Gruppo Wagner cui sono state subappaltate dal Cremlino operazioni militari in mezzo mondo, è un noto cultore del neo-paganesimo slavo, oltre che di militaria e simbologie naziste. A Bolshaya Yelnya, nella regione di Nizhny Novgorod, c'è una comunità di donne guidata dalla guru Svetlana Frolova che, con il nome d'arte di Maria Photina, predica l'adorazione di Putin come divinità. Vestite in tunica e sandali, il capo coperto da un velo nero, grigio e marrone, sono convinte che il presidente sia la reincarnazione di San Paolo e pregano icone che lo ritraggono. E ogni anno il 9 maggio nella commemorazione della vittoria sulla Germania nazista sfila un Reggimento Immortale che si ispira al cosmismo: idea del filosofo russo Nikolaj Fëdorov (1829-1903) secondo cui la scienza avrebbe dovuto resuscitare gli antenati, per poi colonizzare l'Universo al fine di trovare i pianeti dove far abitare la massa di umanità risorta. Putin ha riconosciuto la loro associazione, e dal 2008 ha anche istituito una licenza formale per streghe e stregoni. L'importante è che le forze spirituali siano usate a favore del regime. Nel 2019 Alexander Gabyshev, per sua autodefinizione "sciamano guerriero", si era messo in marcia verso Mosca dalla natia Sakha: altra repubblica della Federazione Russa in Siberia e con etnia locale turca, più nota ai giocatori di Risiko come Jacuzia. «Mi ha detto Dio di cacciare Putin e le parole di Dio non si mettono in discussione: Putin non è un uomo ma un demone, la Bestia», aveva spiegato. Lui lo hanno messo in manicomio.

Franca Giansoldati per “Il Messaggero” il 19 marzo 2022.

Dopo gli esorcismi fatti da un gruppo di sacerdoti in Ucraina nel tentativo di liberare dal Male il presidente russo Vladimir Putin, adesso arriva anche l'anatema da parte di uno dei più noti teologi: il vescovo di Chieti, monsignor Bruno Forte. Commentando la scelta di Putin di citare nel discorso alla nazione fatto allo stadio di Mosca un passo del Vangelo di Giovanni («Non c'è' amore più' grande di dare la propria vita per i propri amici») a giustificazione della guerra in corso, Forte ha spiegato che si tratta «di un atto sacrilego», una «bestemmia». Una terribile offesa a Dio.

Per l'arcivescovo «il presidente russo è evidente che non riesce più' a trovare argomenti per giustificare questa follia, una aggressione ingiustificata e totalmente immorale». Poi riferisce - in una intervista all'Ansa - di una evidente strumentalizzazione del Vangelo finalizzata ad una auto-giustificazione. Le vittime innocenti che stanno morendo per colpa di questa aggressione non possono essere giustificate con parole evangeliche che dicono l'opposto, l'amore per gli altri e l'amore perfino per i nemici».

Un’altra condanna arriva da padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica e spin doctor di Papa Francesco: «La politica non deve usurpare il linguaggio di Gesù' per giustificare l'odio. La retorica religiosa del potere e della violenza è blasfema». Proprio oggi Papa Francesco ha confermato di avere invitato tutti i vescovi del mondo a unirsi nella preghiera per la pace e la consacrazione della Russia e dell'Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, secondo la profezia della Madonna di Fatima. La celebrazione è prevista per le ore 17 di venerdì 25 marzo, Festa dell'Annunciazione, nella Basilica di San Pietro. Lo stesso atto, lo stesso giorno, sarà compiuto da tutti i vescovi del mondo e dal cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, al santuario portoghese di Fatima come inviato del Papa.

La guerra resta un terreno complicato per il Vaticano. Il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha raccontato a Vida Nueva, il settimanale spagnolo, di essere rimasto di stucco davanti a questa escalation visto che aveva avuto rassicurazioni di altro genere da parte delle autorità russe. «Ho vissuto l'inizio della guerra in Ucraina con una certa sorpresa e, allo stesso tempo, con profonda tristezza. Ero a conoscenza delle richieste della Federazione Russa in merito alla sicurezza della regione, ma speravo che rispettassero le promesse, ripetute più volte, anche dai più alti livelli, che non avrebbero invaso l'Ucraina.

Speravo anche che gli intensi contatti diplomatici che vari leader occidentali avevano mantenuto fino a quel momento con il Cremlino potessero produrre un risultato positivo. Allo stesso modo, confidavo nelle dichiarazioni della parte russa secondo cui intendeva non agire in contrasto con le disposizioni degli accordi di Minsk. Successivamente ho pensato che l'invio di truppe russe sarebbe stato limitato ai territori sotto il controllo dei separatisti nel Donbass, e non oltre. In conclusione sì, temevo che la situazione potesse peggiorare, ma non mi aspettavo che raggiungesse le proporzioni attuali. La speranza e il desiderio che ciò che stiamo vivendo oggi non si realizzasse era decisamente più grande di ogni altra paura».

Di fronte ad una aggressione di questo genere, aggiunge il cardinale, vi è sempre «il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese». Giustifica moralmente gli aiuti che gli altri paesi europei stanno inviando a Kyev contro l'invasione russa? «L'uso delle armi – ha risposto - non è mai qualcosa di desiderabile, perché comporta sempre un rischio molto alto di togliere la vita alle persone o causare lesioni gravi e terribili danni materiali.

Tuttavia - prosegue - il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi. Allo stesso tempo - afferma ancora Parolin - entrambe le parti devono astenersi dall'uso di armi proibite e rispettare pienamente il diritto umanitario internazionale per proteggere i civili e le persone fuori dal combattimento. D'altra parte, sebbene gli aiuti militari all'Ucraina possano essere comprensibili, la ricerca di una soluzione negoziata».

Marco Imarisio per “il Corriere della Sera” il 5 maggio 2022.

«Colloquiare con Kirill è più noioso che guardare il golf alla televisione». E se lo dice lui, forse c'è del vero. Andrej Kuraev, protodiacono della Chiesa ortodossa, sessantenne professore di teologia e filosofia, è stato a lungo il principale collaboratore del patriarca, l'uomo che ha costruito le fondamenta della sua dottrina. Fino al 24 febbraio. 

Quel giorno, una delle figure religiose più amate e rispettate di Russia, divenne un paria per la sua stessa comunità ecclesiastica. Perché si schierò in modo netto contro la cosiddetta Operazione militare speciale, con parole che segnavano una scelta di campo. Era già passato all'opposizione, ma quello fu il suo passo d'addio, imposto dall'alto. 

Le similitudini tra la massima autorità temporale russa e quella politica passano anche per i metodi. Il giorno dopo, Kirill dichiarò aperto il processo di privazione di ogni grado ecclesiastico. 

Kuraev è tornato a farsi sentire ieri. Con toni per nulla sfumati, anzi. «Papa Francesco ha espresso concetti molto profondi durante l'intervista con il Corriere della Sera. E tentò di farlo anche durante il colloquio con il patriarca, durante il quale Kirill si limitò a tenere la solita lezione di propaganda politica. Per questo è noioso colloquiare con lui.

Non ascolta». 

L'uomo a cui guarda quella parte non piccola di monaci che vivono con disagio le dichiarazioni da comandante in capo del patriarca, giudica non casuale il fatto che il Papa abbia parlato il giorno dopo una predica alla cattedrale dell'Annunciazione di Mosca, dove Kirill ha sostenuto che la Russia non ha attaccato nessuno e non vuole combattere nessuno. «Sembra uno scherzo del Signore» dice Kuraev.

«Egli ha letteralmente messo uno specchio di fronte ai nostri slavofili convinti che i cattolici abbiano il "culto della personalità" e che tutto da quelle parti si incentra sul potere e sul denaro. Adesso, con un Pontefice che in umiltà si propone per venire a Mosca nel nome della pace, capiscono che contrasto di personalità esista tra i due. E poi, la sua frase sul chierichetto è la più pungente. Pronunciandola pubblicamente, il Papa sta dicendo di escludere Kirill dal novero dei suoi possibili interlocutori».

C'è una reazione importante anche dal fronte laico. Novaya Gazeta, il giornale diretto dal premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, costretto a sospendere le pubblicazioni dopo l'approvazione della nuova legge sulla censura, ma ancora attivo sul web, ha pubblicato ieri sera un editoriale firmato da Aleksej Malyutin, il suo esperto di religioni. «Tra Francesco e Kirill andò in scena un conflitto sui valori. Uno voleva la pace, l'altro parlava del tempo di volo dei missili lanciati sull'Ucraina. I particolari di quel mancato dialogo stupiscono persino chi è abituato alla consueta retorica militarista del capo della Chiesa ortodossa». 

Ma la delicatezza di una eventuale visita di Francesco a Mosca appare ancora più evidente dalle reazioni al suo annuncio. L'Unione dei cittadini ortodossi e l'Associazione degli esperti ortodossi, due organizzazioni di destra radicale della Chiesa che fino al 24 febbraio erano considerate marginali ma che ora sostengono con foga le tesi del Cremlino e di Kirill, hanno promesso al papa «una accoglienza dura». 

Invece il capo dell'Unione mondiale dei vecchi credenti Leonid Sevastianov ha giudicato «necessario» il suo viaggio. «Sappia Francesco che qui troverà molti più amici di quanto possa immaginare». Non esiste una sola Chiesa. Neppure in Russia.

R. Cas. per “la Repubblica” il 5 maggio 2022. 

Sergej Chapnin è sempre stato un precursore. Nel 2015, in un saggio profetico, stigmatizzò la nostalgia per il "Paese forte" della Chiesa Russa Ortodossa, o "Chiesa dell'impero" come la chiamò. Parole che gli costarono il licenziamento dopo sei anni alla guida del Giornale del Patriarcato di Mosca. E lo scorso marzo è stato tra i primi a invocare le sanzioni contro il patriarca Kirill. «È responsabile. Ha fornito la base ideologica e la giustificazione morale dell'operazione militare russa in Ucraina», dice da New York dove oggi è senior fellow presso il Centro di Studi Cristiano Ortodossi della Fordham University.

Conosce il patriarca sin dagli Anni '90. È giusto sanzionarlo?

«Conoscevo "Kirill il metropolita", persona affabile. "Kirill il patriarca" è un'altra persona. Pensa solo a soldi e potere. Le sanzioni aiuteranno a individuare i suoi fondi nascosti. Sono soldi rubati alla Chiesa». 

Nel saggio che le costò il lavoro parlava di "nuova religiosità ibrida". Che cosa intendeva?

«Con Alessio II, c'è stata una rinascita della Chiesa puramente formale fatta di rituali e retorica, ma non di fede. Una rinascita culminata in una sorta d'ideologia geopolitica: l'ambizione neo-imperiale che Vladimir Putin e il patriarca Kirill condividono».

Si riferisce al concetto di "Russkij Mir", Mondo Russo?

«È uno dei loro concetti chiave. L'idea è che Russia, Bielorussia e Ucraina facciano parte di una sorta di trinità spirituale. Non puoi separarle. Perciò quando Kiev ha chiesto di aderire a Ue e Nato, per Putin non è stato solo un tradimento politico, ma una catastrofe spirituale». 

Che ruolo ha quella che ha chiamato "Chiesa dell'Impero"?

«Nell'ideologia di Putin gli imperi russi sono tre: l'impero dei Romanov, l'impero di Stalin e l'impero di Putin stesso. Nel mezzo ci sono stati dei traditori: Lenin, Gorbaciov ed Eltsin. Quando vent' anni fa la Chiesa Russa Ortodossa ha canonizzato l'ultimo zar, Nicola I, con lui ha canonizzato tutto l'impero dei Romanov. Putin ha poi riabilitato Stalin come colui che vinse il nazismo. E ora spetta alla Chiesa costruire la figura imperiale di Putin come difensore della fede cristiana nel mondo».

Chi guadagna di più dall'altro in questa partnership? Kirill o Putin?

«Per Putin, Kirill è il leader della "corporazione" religiosa della Federazione. Alla pari dei leader delle altre corporazioni: energia atomica, petrolio, etc. È Kirill ad avere più bisogno di Putin: tutti i suoi soldi, potere e influenza sono fondati su questa partnership con lo Stato». 

C'è dissenso nel clero?

«È difficile decifrarne gli umori. La maggioranza sta in silenzio, perché in Russia è impossibile parlare pubblicamente».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 5 maggio 2022.

L'8 marzo, durante le celebrazioni della Domenica del perdono nella cattedrale di Mosca, il patriarca Kirill aveva spiegato quali erano le vere ragioni della guerra di Vladimir Putin. Prima di Lavrov, prima e meglio del propagandista in capo Solovyov. Disse in sostanza Kirill: è una guerra santa contro l'Occidente corrotto e omosessuale. «La guerra è in corso perché la gente non vuole le parate gay nel Donbass. Oggi esiste un test, una specie di passaggio per entrare in quel mondo "felice", il mondo del consumo eccessivo, della "libertà" visibile. Sapete cos' è questo test? È molto semplice e allo stesso tempo terribile: una parata gay».

Secondo Kirill l'Occidente organizzava il genocidio dei popoli che si rifiutano di organizzare parate gay. L'Unione europea ha deciso infine di trattarlo come uno dei capi della propaganda guerrafondaia putiniana, «da lui minacce all'integrità dell'Ucraina», c'è scritto nella bozza delle sanzioni, e dunque la Commissione ha proposto formalmente il congelamento dei beni e il divieto di viaggio: una lista nera che comprende ufficiali militari (a partire dai responsabili dei crimini di Bucha) e uomini d'affari vicini al Cremlino.

Ma che asset potrà mai avere, il pio religioso, che spedì aiuti e mascherine per il Covid alla Puglia (il governatore Emiliano lo ringraziò con un video solenne, «un grande uomo e grande amico del popolo pugliese»), l'uomo che, nel 2012, benedì il terzo mandato di Putin, gridandogli in chiesa «hai svolto personalmente un ruolo enorme nel correggere la curvatura della nostra storia, Vladimir Vladimirovich!»? 

In realtà, mentre combatteva l'Occidente corrotto e l'ossessione del consumo, Kirill consumava, a sua volta. E non poco. La Chiesa ortodossa russa ha definito «un'assurdità» le voci di ville sul Mar Nero e yacht, conti in Svizzera e orologi da decine di migliaia di euro (ma con un Breguet da 30 mila dollari è stato fotografato dieci giorni fa). Eppure, inchieste giornalistiche indipendenti russe dicono il contrario.

Novaya Gazeta scrisse (senza mai arretrare) che Kirill era intestatario di conti correnti che da un minimo di 4 miliardi di dollari potevano arrivare a otto: in Svizzera, Austria e Italia. Novaya scrisse che la cifra esatta era difficile da quantificare perché «il patriarca ha preferito mantenere i suoi risparmi in banche svizzere, da dove solo negli ultimi anni sono stati parzialmente trasferiti in Austria e in Italia (probabilmente sotto le garanzie del Vaticano)».

Nel libro «Russia' s Dead End», Andrei Kovalev, ex membro dello staff di Gorbachev, scrisse - sulla base di documenti che fu possibile consultare solo per breve periodo, alla fine dell'Unione sovietica - che Vladimir Mihailovic Gundyaev (questo il vero nome di Kirill) aveva un passato di più che probabile agente del Kgb, l'agente "Mihailov". Ovviamente il patrirca lo nega. Certo è invece che i monaci ortodossi in teoria fanno voto di non possesso quando vengono ordinati, ma ciò non sembra aver fermato l'accumulo di Kirill. Secondo un'inchiesta di "Proekt", il patriarca possiederebbe, lui e due dei suoi cugini di secondo grado, immobili per 2,87 milioni di dollari a Mosca e Pietroburgo.

Una sua seconda cugina di 73 anni, Lidia Leonova, possiede a Mosca una casa di circa 600mila dollari su Gagarinsky Pereulok, più una di 533mila dollari a Pietroburgo sul Kryukov Canal. L'appartamento sul canale è una storia nella storia interessante, le fu donato nel 2001 da un uomo d'affari, Alexander Dmitrievich, grande amico di Kirill, pochi mesi dopo che il sindaco di Mosca aveva ritirato le pretese del Comune in un contenzioso contro quello che, secondo "Proekt", era un presunto partner commerciale di Dmitrievich, un italiano di nome Nicola Savoretti (uno dei non pochi contatti italiani del religioso).

Savoretti replicò che Kirill non si era adoperato per la risoluzione di quella vicenda, e di non avere progetti in comune con Dmitrievich. Molte carte in possesso di collettivi di coraggiosi giornalisti russi hanno poi consentito di ricostruire che Kirill avrebbe una residenza sul Mar Nero vicino a Gelendzhik, la cui costruzione è stata stimata in un miliardo di dollari, che appartiene formalmente alla Chiesa ortodossa russa ma dove non è permesso libero accesso nemmeno ai vescovi, rilevò Novaya Gazeta.

La residenza di Gelendzhik, casualmente, è non lontano dal celebre "Palazzo di Putin", raccontato nei dettagli dall'inchiesta di Alexey Navalny. Kirill possiederebbe poi uno chalet vicino a Zurigo, più azioni in una serie di oggetti immobiliari tra Mosca, Smolensk e Kaliningrad, senza contare venti residenze formalmente appartenenti a varie organizzazioni religiose centralizzate e locali della Chiesa ortodossa russa. 

Gli asset in Russia saranno difficili da toccare, ma i conti correnti si trovano in Europa e in Svizzera, e potrebbero essere abbastanza facilmente attaccati. Kirill definì la presidenza Putin «un miracolo di Dio». Miracolo dorato, naturalmente, come le icone ortodosse di Andrej Rublëv.

Guerra Santa Ue a Kirill. Il patriarca-miliardario: "Non temo Bruxelles. E il Papa sbaglia i toni". Serena Sartini il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'ipotesi di sanzioni anche al capo della Chiesa russa: "È responsabile delle minacce all'integrità ucraina". La replica: "Impossibile intimidirci". Poi la risposta al Pontefice: "Incontro travisato, così dialogo difficile".

È in totale contrapposizione con Papa Francesco. Ha da sempre sostenuto la guerra, definendola «giusta» e appoggiato il fedelissimo amico Vladimir Putin. Nel mirino dell'Unione europea, dopo oltre due mesi di guerra in Ucraina, è finito anche il Patriarca ortodosso di Mosca e di tutte le Russie, Kirill. L'Europa unita ha infatti deciso di colpire anche il capo della chiesa ortodossa perché «ritenuto responsabile del sostegno o dell'attuazione di azioni o politiche che minano o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina», recita il testo del sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia.

Un patrimonio di quattro miliardi di dollari, ville sul Mar Nero, yacht e conti bancari in Svizzera. Secondo le accuse dell'opposizione, impossibili da verificare, il numero uno del patriarcato di Mosca sarebbe da considerare un oligarca, a tutti gli effetti da inserire nella lista nera delle persone che l'Ue vuole sanzionare con conseguente divieto di ingresso nell'Ue e congelamento dei beni. La Chiesa ortodossa russa replica esprimendo «scetticismo» e rispedendo le accuse al mittente. «Vorrei ricordare agli autori delle iniziative sanzionatorie che il Patriarca proviene da una famiglia i cui membri sono stati oggetto di repressione per decenni a causa della loro fede, durante il periodo dell'ateismo militante comunista», ha precisato il portavoce della Chiesa ortodossa russa, Vladimir Legoyda. «Nessuno di loro ha avuto paura di reclusione o rappresaglie - ha ricordato -, quindi bisogna essere completamente estranei alla storia della nostra Chiesa per intimidire il suo clero e i suoi credenti, inserendoli in liste nere. Più le sanzioni diventano indiscriminate, più mancano di buon senso, più lontano diventa il raggiungimento della pace, per la quale la Chiesa ortodossa russa prega con la benedizione di Sua Santità il Patriarca a ogni liturgia».

Eppure le parole di Kirill non sembrano affatto indirizzate alla pace. Tanto che il Patriarca continua a non definire l'attacco russo in Ucraina come «guerra». «La Russia non ha mai attaccato nessuno nella sua storia, ha solo protetto i suoi confini», ha detto in un sermone nella Cattedrale dell'Arcangelo al Cremlino. «Noi non vogliamo combattere nessuno. La Russia non ha mai attaccato nessuno. Sorprendentemente, un Paese grande e forte non ha mai attaccato nessuno, ha solo protetto i suoi confini. Dio conceda che il nostro Paese rimanga forte, potente e amato da Dio fino alla fine dei tempi». Kirill non teme affatto le sanzioni dell'Unione europea che potrebbero essere approvate nelle prossime ore. «Il possibile inserimento del patriarca Kirill nella lista delle sanzioni dell'Ue non ha nulla a che fare con il buon senso, la chiesa non si spaventerà di essere inclusa in alcune lista», ha aggiunto il portavoce della chiesa ortodossa.

Il Patriarcato di Mosca è intervenuto duramente anche per ribattere alle parole di Papa Francesco che, in una intervista al Corriere della Sera, ha definito Kirill un «chierichetto di Putin». «È deplorevole - ha sottolineato il Patriarcato - che un mese e mezzo dopo il colloquio con il Patriarca Kirill, Papa Francesco abbia scelto il tono sbagliato per trasmettere il contenuto di questo colloquio. È improbabile che tali dichiarazioni possano contribuire all'instaurazione di un dialogo costruttivo tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa russa, che è particolarmente necessario in questo momento».

Kirill, al secolo Vladimir Michajlovic Gundjaev, è nato a Leningrado (l'attuale San Pietroburgo) il 20 novembre 1946. Eletto il 27 gennaio 2009 con 508 voti su 702, Kirill guida 165 milioni di fedeli sparsi per il mondo. Si vocifera che abbia conosciuto Putin quando entrambi erano agenti del Kgb. Con il capo del Cremlino, è legato da una lunga amicizia, consolidata anche dalla sua inclinazione al lusso. Tra gli hobby del Patriarca, infatti, figurano lo sci alpino, l'allevamento dei cani di razza, lo sci acquatico e gli orologi di pregio, come il Brequet da 30mila dollari esibito dieci anni fa durante un incontro ufficiale e poi «cancellato» con Photoshop dopo le proteste dei fedeli. Kirill ha sempre negato l'esistenza di enormi ricchezze, ma secondo le stime della rivista indipendente russa Novaya Gazeta, il Patriarca avrebbe dai 4 agli 8 miliardi di dollari.

La fede in guerra. Nel suo delirio bellicista, il patriarca Kirill è sempre più isolato. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 28 Aprile 2022.

Il capo della chiesa ortodossa russa è ormai oggetto di disprezzo e di derisione di gran parte del suo clero. Per migliorare la reputazione, ha perfino fatto passare una formale lettera di auguri di Papa Francesco come segno di dialogo e vicinanza da parte di Roma.

Per alcuni sarebbe un’ennesima riprova d’ininterrotto dialogo della Chiesa di Roma col patriarcato di Mosca, e di rapporti null’affatto incrinati tra le due Santità, che pur si sarebbero dovute riabbracciare in giugno a Gerusalemme – il rinvio sine die del secondo incontro, dopo quello del 2016 in una sala dell’aeroporto di L’Avana, avrebbe infatti rischiato di generare «molta confusione», come ha detto Papa Francesco sollecito nel trasmettere a Kirill una breve lettera di auguri in occasione della Pasqua che le Chiese ortodosse hanno celebrato il 24 aprile secondo il computo del Calendario giuliano. Una lettura, questa, che già si dava due giorni fa, sia pur con ulteriori e diversificate considerazioni di merito, col diffondersi della notizia della missiva papale.

Eppure, il fatto che a pubblicarne domenica il testo fosse stata per prima Mosca, e solo l’indomani Oltretevere con ampi passaggi della stessa, avrebbe dovuto indurre a maggiore cautela valutativa e a un ridimensionamento della portata di tali auguri. Auguri che, come da prassi oramai consolidata, sono rivolti annualmente in occasione della Pasqua a ogni patriarca, cui sono stati espressi, anche questa volta, con parole uguali per tutti. Insomma, nessuna novità né tantomeno unicità nella lettera a Kirill, a eccezione della più ampia riformulazione del quarto capoverso riguardante l’offensiva russa in Ucraina, che così suona: «Possa lo Spirito Santo trasformare i nostri cuori e renderci veri operatori di pace, specialmente per l’Ucraina dilaniata dalla guerra, affinché il grande passaggio pasquale dalla morte alla nuova vita in Cristo diventi quanto prima una realtà per il popolo ucraino, che anela a una nuova alba che porrà fine all’oscurità della guerra».

Parole inequivocabili quelle di Francesco, che sono scivolate addosso a Kirill, intento piuttosto – o chi per lui dal suo entourage – a surrettiziamente presentarsi quale interlocutore privilegiato del vescovo di Roma e degno di un credito che non ha mai pienamente avuto presso i suoi omologhi e che ha pressoché perso del tutto con il servile sostegno all’”operazione speciale” della Federazione Russa in Ucraina. D’altra parte, nessuno degli altri patriarchi s’è sognato di dar notizia e, meno che mai, far pubblicare il benaugurante scritto bergogliano, per giunta considerato di routine.

Un’operazione, dunque, autopromozionale e nulla più da parte di Kirill, che già lunedì ha fatto carta straccia dell’appello di Francesco con l’omelia pronunciata nella cattedrale della Dormizione: una vera e propria laus belli fondata sulla solita tesi della “Santa Russia”, che il patriarca moscovita aveva ancora una volta esplicitato, il 27 febbraio scorso, nei termini di unica terra composta da Bielorussia, Russia e Ucraina. A essere questa volta svolta scomodato Ivan III, che «dopo aver fatto molto per unire tutte le terre intorno a Mosca, decise che Mosca doveva diventare la capitale del grande stato» e pose fine a «l’invasione degli stranieri, il conflitto civile, la confusione dei pensieri, la perdita dell’identità nazionale». Da qui il parallelismo coi presenti tempi, nei quali «noi, come popolo, ci troviamo di fronte a molti problemi associati all’aggravarsi della situazione intorno al nostro Paese». Necessario, dunque, chiedere al Signore non solo «di preservare la pace». Ma anche «di rafforzare la nostra Patria e di unire tutta la Russia. Una tale preghiera dovrebbe soprattutto risuonare in queste mura storiche. Siamo nel tempio, che è un santuario nazionale e allo stesso tempo un tempio commemorativo, creato come segno dell’unificazione di tutte le terre russe».

In un crescendo di toni, caratterizzato dall’impiego di tutto l’armamentario lessicale bellicistico e dalla legittimazione del trionfo militare, che non è solo «fisico» e non è «solo vittoria dell’arma con cui il soldato affronta il nemico. Ma è sempre una vittoria dello spirito», si tocca poi il trito argomento dei «nuovi pseudovalori. Ma dobbiamo preservare la nostra, se volete, vocazione speciale: preservare la fede ortodossa, preservare l’unità del nostro popolo, non soccombere a nessuna tentazione e promessa».

Poi il passaggio più sconcertante: «I nostri devoti eroici antenati, compresi coloro che costruirono questa cattedrale, avevano ben capito tutto ciò. E, quindi, le cattedrali furono edificate come fortezze, perché si rendevano conto che, a un certo punto, ci si sarebbe dovuti difendere dietro le loro mura. Cosa, questa, che è accaduta più volte nella storia della nostra Patria. Basti ricordare l’eroica difesa di Smolensk, quando il nemico passò attraverso le mura di cinta e rimase solo la cattedrale come ultima roccaforte e rifugio per i difensori della città. E non volevano cedere la cattedrale: il tempio fu fatto saltare in aria e sepolto sotto gli archi dei suoi difensori, che rimasero imbattuti. Che tutti questi meravigliosi esempi eroici ci ispirino oggi a difendere la Patria, a difendere la nostra vera indipendenza dai potenti centri di potere che esistono attualmente sulla terra. Che il Signore ci custodisca nella vera libertà». Quel Signore, che invocato subito dopo perché «custodisca il nostro esercito, le nostre autorità e tutti coloro da cui oggi dipende soprattutto la difesa della nostra Patria», è nuovamente protagonista nella conclusione del sermone. Non già tuttavia come Dio della pace o amorevole Padre comune, i cui figli in Ucraina patiscono morte, miseria, distruzione (a essi Kirill non riserva neppure una parola). Ma come il Signore e Padre del cielo, cui ci si rivolge perché «la sua misericordia […] si estenda sulla nostra terra, sulla nostra Patria, come si è estesa nella sua storia millenaria, soprattutto nei momenti più pericolosi e critici di essa. Possa il Signore custodire la nostra terra, il nostro popolo, la nostra Chiesa, le autorità e l’esercito per molti e buoni anni!».

Non meraviglia pertanto che il clero della Chiesa ortodossa russa mostri sempre più insofferenza per un patriarca che ha scambiato il messaggio evangelico con proclami bellicistici. E non è solo questione di metropoliti che non ne citano più il nome nelle divine liturgie o di aperte condanne della guerra fratricida, come quella avanzata agli inizi di marzo da 233 sacerdoti e diaconi. Ma di aperta ridicolizzazione e derisione di Sua Santità Kirill I, al punto che in ambiti seminariali s’è coniato il nuovo termine verbale cirillizzare (кириллить), per indicare un chiacchierio pio e allo stesso tempo del tutto irresponsabile, in cui il religioso e il politico sono strettamente intrecciati.

Secondo Sergej Chapnin «è esattamente ciò che vediamo nei sermoni del patriarca Kirill». Del quale il teologo, giornalista e scrittore moscovita ha una conoscenza diretta e difficilmente eguagliabile, essendo stato dal 2009 al 2015 direttore del Giornale del Patriarcato di Mosca (Журнала Московской Патриархии) nonché segretario della Commissione della Presenza interconciliare per i Rapporti tra Chiesa, Stato e Società. Incarichi che, alla pari di innumerevoli altri, erano stati concessi a Chapnin su disposizione di Kirill, estimatore delle sue competenze e capacitò. Salvo, però, a metterlo alla porta nel 2015 con l’intensificarsi di posizioni critiche sullo stato attuale della Chiesa ortodossa russa da parte del brillante e indipendente pensatore.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 28 aprile 2022.

No, Kirill non è Francesco. Non nel senso del romano Pontefice, papa Bergoglio. Ma nel senso del Santo poverello di Assisi. Il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, colui che nel 2012 ha definito Vladimir Putin “il miracolo di Dio”, che ha benedetto nella cattedrale di Cristo Salvatore i missili nucleari, e che ha dichiarato la guerra santa in Ucraina, è tutt’altro che un asceta, è anche lui un oligarca. Con un patrimonio stimato da oppositori in 4 miliardi di dollari.

Per questo i ministri degli Esteri della Ue stanno studiando sanzioni anche nei suoi confronti, come per gli altri oligarchi. Il 24 aprile il ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis ha pubblicamente chiesto restrizioni. 

Pericolo tanto concreto che, su Interfax, la Chiesa ortodossa russa ha definito “un non senso” la proposta di Vilnius di chiedere sanzioni contro Kirill. “Un non senso imporre sanzioni su leader religiosi, è contrario al senso comune”. Con ciò stesso confermando, però, l’esistenza di un patrimonio personale di Kirill aggredibile all’estero. Il Patriarca ha sempre negato alla radice di essere ricco, parlando di “non sense”.

Certo sarebbe un non senso sanzionare il Santo poverello di Assisi, ma certamente non è questo il caso, visto che chi ha benedetto la guerra in Ucraina avrebbe, secondo un report del 2006 pubblicato da Forbes nel 2020 un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre un articolo di Novaya Gazeta (la rivista su cui scriveva la giornalista uccisa Anna Politkovskaja e diretta dal premio Nobel Dmitri Muratov, chiusa il 5 aprile scorso) stimava nel 2019 una ricchezza tra 4 e 8 miliardi di dollari. Cifre non  verificate e comunque non verificabili. Il consistente patrimonio personale sarebbe frutto dalle esenzioni fiscali statali russe su una porzione consistente della manifattura di tabacco e di birra, almeno in passato.

Quando Forbes France gli ha posto domande sulla sua ricchezza il Patriarca Kirill ha risposto: "L'ascesi è soprattutto diretta alla lotta con le passioni. La passione è un problema in quanto può inghiottirci e renderci suoi schiavi. La sete inestinguibile di potere, di certe cose materiali o di denaro sono esempi distruttivi delle passioni di cui molte persone soffrono oggi". 

Il capo religioso è quindi sospettato di possedere ricchezze personali, parte delle quali all’estero, anche in Svizzera e in paradisi offshore. Alcuni sospettano addirittura che il Patriarca sia perfino l'intestatario fittizio di beni di Putin, Lavrov e altri. 

Secondo alcune fonti pubbliche (peraltro difficili da verificare, data la natura altamente confidenziale della clientela bancaria) Kirill avrebbe conti bancari anche in Italia, Austria e Spagna. A chiedere le sanzioni a suo carico è oggi su Repubblica l’esperta di diritti umani Hanna Hopko che ha definito il patriarca Kirill “in realtà uno dei politici di più alto rango della Russia di Putin”. 

Indagini sono in corso in tutt’ Europa. A tutto ciò si aggiungono i beni in Russia: una villa vicina quella di Putin a Gelendzhik sul Mar nero e un superyatch su cui è stato fotografato in costume da bagno. La passione di Kirill per gli orologi di lusso ha dato luogo in passato a curiosi photoshop delle immagini del Patriarca, che hanno eliminato l’orologio al suo polso, ma non il suo riflesso. In ogni caso è molto interessante il sistema di finanziamento della Chiesa ortodossa russa grazie alle esenzioni fiscali sulla produzione di tabacco e di birra, che sarebbe alla base di tanta ricchezza.

La prima attività di import di sigarette e tabacco è valsa a Kirilli, il “Papa di Putin”, il nomignolo di “Tobacco Metropolitan”. Kirill sostiene di aver preso le distanze da questi affari. Ma secondo gli oppositori di Putin sono queste attivita  economiche milionarie che hanno permesso a tutta la Chiesa ortodossa russa di prosperare, già a partire dai primi anni Novanta.

Uno di noi...Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 28 aprile 2022.

Avendo sentito dire da più parti che quello in corso era uno scontro di civiltà tra il bieco capitalismo occidentale e le nobili tradizioni di Santa Madre Russia, mi sono avvicinato alla biografia del patriarca con un misto di invidia e venerazione. Il particolare che in gioventù il papa di Putin fosse stato una spia del Kgb (proprio come Putin) rendeva ancora più affascinante la sua conversione spirituale: in fondo anche Fra Cristoforo aveva cominciato maluccio. Mi erano rimasti nella memoria i discorsi nei quali Kirill se la prendeva con il denaro, i vizi e il lusso ostentato. «I nuovi idoli creati dall’Occidente», li chiamava. Perciò potete immaginare quanto mi abbia stupito apprendere che quegli idoli nessuno li adora più di lui, che possiederebbe una villa in Svizzera e una sul Mar Nero accanto a quella del compare Putin, oltre a un patrimonio personale stimato dagli oppositori in 4 miliardi di dollari, ottenuto con generose percentuali sul commercio di alcol e tabacchi. Sulle prime ci sono rimasto un po’ male. È vero che in Italia abbiamo avuto i papi simoniaci del Rinascimento, però abbiamo avuto anche il Rinascimento, mentre il contributo del patriarca Kirill allo sviluppo delle arti si sarebbe finora limitato alla foto che lo ritrae su un megayacht in costume da bagno. Poi però mi sono detto: vuoi vedere che lavora ancora per i servizi segreti? Una spia infiltrata tra le storture del capitalismo perché in missione per conto di Io.

(ANSA il 14 aprile 2022) Sono giunti a circa 400 i sacerdoti della Chiesa ucraina sotto la giurisdizione del Patriarcato di Mosca che si appellano collettivamente al Consiglio dei Primati delle Chiese Antiche Orientali (la più alta corte dell'ortodossia mondiale) contro il patriarca di Mosca Kirill, citandolo in giudizio. Lo scrive Orthodox Times. 

I 400 sacerdoti sostengono che Kirill predica la dottrina del "mondo russo", che si discosta dall'insegnamento ortodosso e andrebbe condannata come eresia. E addebitano a Kirill crimini morali nel benedire la guerra contro l'Ucraina e sostenere pienamente le azioni aggressive delle truppe russe sul suolo ucraino. Il clero spera che il Consiglio dei Primati consideri il loro appello e prenda la decisione giusta. "Stiamo assistendo alle brutali azioni dell'esercito russo contro il popolo ucraino, approvate dal patriarca Kirill. Come sacerdoti della Chiesa e come semplici cristiani, siamo sempre stati e saremo sempre con il nostro popolo, con coloro che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Sosteniamo pienamente le autorità statali ucraine e le forze armate ucraine nella loro lotta contro l'aggressore", affermano i sacerdoti nel loro appello. Ritengono inoltre che le attività del patriarca di Mosca rappresentino una minaccia per l'ortodossia ecumenica.

Gli autori del testo invitano il Consiglio a "esaminare le dichiarazioni pubbliche di Kirill sulla guerra contro l'Ucraina, a valutarle alla luce delle Sacre Scritture e della Sacra Tradizione della Chiesa", e di privare Kirill del diritto del trono patriarcale. "La tragedia che si sta svolgendo oggi in Ucraina è anche il risultato della politica perseguita dal patriarca Kirill durante il suo incarico di capo della Chiesa russa. Ovviamente, questa è già una sfida per l'intero mondo ortodosso", afferma padre Andriy Pinchuk, che ha caricato il testo dell'appello e i nomi dei suoi firmatari sul suo account Facebook personale. Allo stesso tempo, nel mondo ecumenico, si intensificano le pressioni sul Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) nei confronti del patriarca di Mosca, anche per espellere la Chiesa ortodossa russa dal Concilio. Il segretario generale del Cec, il rev. Ioan Sauca, della Chiesa rumena, ha però finora 'congelato' la proposta di espellere la Chiesa ortodossa russa, sostenendo che ciò si discosterebbe dalla missione storica del Cec di rafforzare il dialogo universale, rinviando tuttavia la competenza e la decisione al Comitato centrale in calendario a giugno.

Da ansa.it il 27 marzo 2022.

"C'è bisogno di ripudiare al guerra luogo di morte, dove i padri e le madri seppelliscono i figli, dove gli uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono". Lo ha detto il Papa all'Angelus tornando a pregare per la pace in Ucraina.

"E' passato più di un mese dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina, dall'inizio di questa guerra crudele e insensata che come ogni guerra rappresenta una sconfitta per tutti, per tutti noi", ha ricordato. Francesco ha parlato della "bestialità della guerra", "atto barbaro e sacrilego". "La guerra non può essere qualcosa di inevitabile", ha sottolineato il Pontefice.

"La guerra non devasta solo il presente ma anche l'avvenire di una società. Ho letto che dall'inizio dell'aggressione in Ucraina un bambino su due è stato sfollato dal Paese. Questo vuol dire distruggere il futuro, provocare traumi drammatici nei più piccoli innocenti". Lo ha detto il Papa all'Angelus.

"La guerra non può essere qualcosa di inevitabile. Non dobbiamo abituarci alla guerra, dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell'impegno di domani perché se da questa vicenda usciremo come prima saremo in qualche modo tutti colpevoli". Lo ha detto il Papa all'Angelus.

"Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l'umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell'uomo prima che sia lei a cancellare l'uomo dalla storia". "Prego per ogni responsabile politico - ha proseguito il Papa - di riflettere su questo, di impegnarsi su questo e, guardando alla martoriata Ucraina, di capire come ogni giorno di guerra peggiora la situazione per tutti". "Perciò - ha concluso - rinnovo il mio appello: basta, ci si fermi, tacciano le armi, si tratti seriamente per la pace".

Libero Quotidiano il 06 aprile 2022

Papa Francesco pronto a incontrare Kirill, il patriarca di tutte le Russie. Eppure i dubbi sulla posizione di Vladimir, nome laico dell'arcivescovo ortodosso, sono molti. Basta pensare che a inizio guerra in Ucraina Kirill si è detto favorevole, ricordando che "dobbiamo difenderci". Ma non è tutto. Figlio e nipote di preti, l'arcivescovo nato a Leningrado - la stessa città natale dell'amico Vladimir Putin - vanta un passato nel Kgb. Un'esperienza che ha portato la politica a proteggere la sua lunga carriera religiosa.

Tra le iniziative per cui si ricorda il patriarca c'è quella "della pace". Kirill, dopo la nomina a patriarca di Mosca nel 2009, è diventato dal 2006 co-presidente della Conferenza mondiale religiosa per la pace. Poi nel 2011 si è recato in Siria chiedendo la fine del conflitto: "Si può risolvere ogni problema pacificamente, con il dialogo. L'essenziale è che non venga versato sangue", diceva. E ancora: nel 2012 ha promosso un viaggio in Polonia per rappacificarsi con gli ortodossi polacchi. Infine nel 2016, l'incontro a Cuba con Bergoglio.

Eppure la facciata nasconde tanti gialli e tanti interrogativi. Kirill infatti non si nasconde e appoggia la campagna di riabilitazione di Stalin, al punto che inizia a pregare pubblicamente perché alla santa Russia non venga meno la chiesa ucraina. A questo punto le domanda sono due: si può considerare vero il suo ecumenismo? Ha senso che il papa continui a dialogare con lui? Difficile dimenticare le sue controverse parole sul matrimonio omosessuale come segno dell'avvicinarsi dell'apocalisse.

Cesare Martinetti per “la Stampa” il 3 aprile 2022.

La seconda guerra ucraina, consustanziale e parallela a quella che si volge sul campo, è una feroce guerra tra Chiese che credono nello stesso Dio. Il patriarca Kirill di Mosca, appoggiando con passione la guerra, ha offerto a Vladimir Putin una copertura teologica difficile da capire in Occidente. Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose, è stato protagonista del dialogo tra i cattolici e l'Oriente, fin dagli Anni 70, quando Kirill venne per la prima volta a Bose.

Si sarebbe mai immaginato che quel giovane e brillante prete ortodosso sarebbe salito sui carri armati di Putin in guerra contro cristiani ucraini?

«Sono stato sorpreso. Io l'ho conosciuto bene. L'ho incontrato la prima volta alla fine degli Anni 70, quando accompagnava il metropolita Nicodim. Poi è venuto ancora ai convegni ecumenici di Bose: lo ricordo molto convinto e attivo nel dialogo ecumenico, un uomo aperto che conosceva bene l'Occidente. Successivamente l'ho incontrato a Mosca nel 2004, quando sono stato inviato da papa Wojtyla in delegazione con il cardinale Kasper per restituire l'icona trafugata della Madonna di Kazan. Ci fu una straordinaria accoglienza nella splendida cattedrale di Cristo Salvatore». 

E come spiega la sua adesione alla guerra?

«Mi ha sorpreso perché lo si pensava determinato nel mantenere vivo lo spirito ecumenico soprattutto dopo l'incontro a Cuba con Francesco in cui - dobbiamo dirlo - il Papa si è umiliato, accettando di vederlo quasi di sfuggita in una sala d'aeroporto. Ma non dimentichiamo che gli ortodossi sono diffidenti verso il Papato e come Chiese si sentono sorelle deboli di fronte alla sorella forte, la Chiesa cattolica, molto organizzata e presente in tutto il mondo».

Però nei sermoni di Kirill c'è qualcosa di più: ha dato una giustificazione teologica alla guerra di Putin. Perché?

«Tutto quello che dibattiamo in Occidente grazie alla nostra modernità arriva agli ortodossi russi in un cono d'ombra che è quello occidentale-americano e cioè del grande e storico nemico. Per molto tempo, per loro, l'ecumenismo è stato un prodotto dell'Occidente, che veniva dalla pluralità delle confessioni, dalla tolleranza, realtà per loro sconosciute. Ciò che per loro è lotta metafisica tra il bene e il male ed è manifestazione dell'Anticristo, per noi è un'acquisizione dei diritti civili (ad esempio nei confronti degli omosessuali). D'altronde, noi cattolici eravamo sulle loro posizioni 50 anni fa, né più né meno. E sono convinto che una parte della Chiesa cattolica la pensi ancora così. Solo, non si ha più il coraggio di dirlo pubblicamente».

E come ha reagito la Chiesa ucraina alla crociata di Kirill?

«Intanto va detto che in Ucraina ci sono quattro Chiese cristiane: una ortodossa in comunione con Mosca, altre due ortodosse, una in comunione con Costantinopoli, l'altra patriarcale autocefala, e infine una cattolica uniate, cioè di rito bizantino. 

Solo il patriarca Onufri, metropolita della Chiesa ucraina in comunione con Mosca, ha espresso una posizione sapiente, invitando i fedeli a difendere la patria ucraina ma non odiare il popolo russo. Al contrario, le gerarchie delle altre Chiese hanno risposto benedicendo le armi, invitando i combattenti a schiacciare il nemico e a maledire il patriarca Kirill. Siamo nel pieno di una guerra di religioni, altro che ecumenismo!». 

A sentir questi racconti, sembra di tornare indietro di secoli. Com' è possibile?

«Per capirlo bisogna ripassare un po' la storia ed è quello che manca nel dibattito su Kirill. Le Chiese ortodosse non sono nostre contemporanee: hanno vissuto sotto il regime sovietico o sotto l'impero ottomano e questo ha impedito loro l'accesso alla modernità. 

È mancato quello che per noi ha rappresentato l'Illuminismo e la Rivoluzione francese. Alla caduta del comunismo la Russia è stata invasa da missionari polacchi e da organizzazioni cattoliche occidentali che facevano proselitismo. Gli ortodossi hanno reagito difendendo il loro territorio "canonico", un concetto sconosciuto a noi cattolici». 

E dopo la rivoluzione ucraina cos' è successo?

«Alcune volte, preti russi sono stati attaccati, le chiese sono state chiuse, i religiosi perseguitati e, anche ultimamente, il Parlamento ucraino ha approvato delle leggi persecutorie nei confronti degli ortodossi in comunione con Mosca. 

In verità, in Ucraina c'era tutto un humus di guerra di religione, ma nessuno ci badava. E poi questa guerra vergognosa è stata preparata: ho molti contatti con religiosi russi e ucraini che mi raccontavano che da mesi dalla Polonia entravano in Ucraina colonne di carri armati e carri con i missili». 

Ma Putin cos'ha fatto per meritarsi una «sinfonia» così entusiasta da parte di Kirill?

«Putin negli anni è diventato il grande protettore della Chiesa russa, ovunque nel mondo.

È come un Carlo Magno d'Oriente. Dice di essere cristiano, non manca mai ai riti. Sostiene e finanzia la ricostruzione delle chiese ortodosse in Medio Oriente, ricostruisce quelle distrutte dalla guerra in Siria; a Gerusalemme ha finanziato enormi lavori, e sul monte Athos in Grecia ha restaurato il grande monastero di Panteleimon, in rovina fin dagli Anni 20. Tutto questo fa sì che la Chiesa si sia piegata a lui. E ci sono vescovi ancora più patriottici di Kirill, come il metropolita Tikhon, padre spirituale di Putin e - si dice - possibile prossimo patriarca».

Perché la religione è così importante in quei Paesi?

«Perché fa parte dell'identità, come in Polonia e in Ungheria. L'unico Paese in cui non conta più nulla è la Bulgaria, perché il comunismo è riuscito a fare un deserto».

Una religiosità che sopravvive in un mondo dove le cose si risolvono con la guerra e dove le manifestazioni della fede sono fisiche, le code anche nella nuovissima cattedrale di Mosca per il bacio delle reliquie. È spiritualità o superstizione?

«È l'Oriente, dove la fede non è solo un fenomeno intellettuale. Noi abbiamo inventato la formula della "fede pensata", non solo matura e profonda, ma che si dà delle ragioni attraverso il pensiero. In Oriente non hanno questa dimensione, per loro la fede ha una profondità spirituale che coinvolge tutta la persona. Non sono capaci della preghiera mentale. Pregano con il corpo, si genuflettono, si segnano in continuazione, hanno bisogno di baciare le icone e nelle chiese non ci sono sedie, perché bisogna pregare in uno stato di vigilanza fisica. I loro santi parlano con gli orsi, con gli alberi e con la natura». 

Incomprensibile per noi? 

«Sì. La religione senza l'uso della ragione diventa facilmente magìa o fanatismo. Lo diceva Benedetto XVI: l'Illuminismo è stato un grande dono perché, dando il primato alla ragione, ha liberato la religione dal fanatismo e dalla magia».  

Qual è la sua ragione di speranza? 

«Io sono amico del metropolita Ilarione, il numero due del Patriarcato, incaricato di tenere i rapporti con le Chiese estere e vicinissimo al patriarca. È un monaco spirituale e intellettuale raffinatissimo, è venuto a Bose, abbiamo fatto viaggi ecumenici insieme, e nella mia casa editrice ho pubblicato i suoi libri. Lui in questo momento è silente, e questo significa che non tutta la Chiesa è pienamente d'accordo con Kirill. Confido, prima o poi, Ilarione faccia sentire la sua voce, che è certamente una voce ecumenica e di pace».

Alessio Esposito per ilmessaggero.it il 7 aprile 2022.

È morto di Covid il politico russo Vladimir Zhirinovsky, leader del partito liberaldemocratico. Figura chiave nella storia post-sovietica del paese, l'ultra-nazionalista è deceduto all'età di 75 anni. Il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha spiegato che Zhirinovsky era ricoverato dall'inizio di febbraio per Covid ed è morto dopo una «malattia grave e prolungata».

Lo scorso 22 dicembre, in quello che è stato il suo ultimo discorso al parlamento russo, il leader liberaldemocratico rivelò che l'invasione dell'Ucraina sarebbe iniziata il 22 febbraio. La sua previsione si è poi rivelata errata di sole 24 ore. In quell'occasione Zhirinovsky parlò di una «nuova direzione nella politica estera russa». Da quel giorno del politico si sono perse le tracce: almeno fino ad oggi, quando è stata annunciata la sua morte, causata dal Covid e dalle complicanze di patologie pregresse.

Il presidente russo Vladimir Putin ha inviato alla Duma un messaggio di condoglianze per la morte di Vladimir Zhirinovsky. A segnalarlo è l'ufficio stampa del Cremlino, ripreso dalla Tass. «Vladimir Zhirinovsky era un politico esperto, un uomo energico e aperto, un eccezionale oratore e polemista - dichiara Putin - è stato il fondatore e il leader inflessibile di uno dei più antichi partiti politici del paese. Ha fatto molto per la formazione e lo sviluppo del parlamentarismo russo, della legislazione interna e ha voluto sinceramente dare un contributo a risolvere i problemi principali del Paese». Zhirinovsky, prosegue Putin, «ha sempre difeso la posizione patriottica e gli interessi della Russia di fronte a chiunque e nelle discussioni più importanti».

Lucetta Scaraffia  per il Resto del Carlino il 9 aprile 2022.

Se si guarda a Kirill, patriarca di tutte le Russie, sembra di venire trasportati indietro nel tempo. Non sono solo le parole, decisamente desuete, con cui ha benedetto l'invasione dell'Ucraina, considerata una «guerra metafisica contro le forze del male» (in questo caso rappresentate dal degrado morale dell'occidente), o con cui ha approvato ogni forma di combattimento dei soldati russi «per difendere la loro patria» dopo la scoperta degli orrori perpetrati a Bucha.

Desueta è anche la sua vita: figlio e nipote di preti, destinato quindi a fare carriera nella chiesa ortodossa - a partire da Leningrado, sua città natale, che è la stessa di Putin - e a farla come fedele alleato dello stato, quale esso sia. 

In questa storia apparentemente lineare si intrecciano però anche elementi diversi: suo nonno è stato relegato da Stalin nei terribili gulag delle isole Solovki, accusato di fare attività religiosa, cioè di non essersi allineato alle direttive del regime comunista. Vladimir invece - è questo il nome laico di Kirill - nel regime si trova benissimo, tanto da diventare negli anni settanta agente del Kgb. La sua carriera religiosa avviene quindi sempre sotto l'ombrello protettore della politica, e in particolare dell'amico personale Putin.

Kirill, dopo la nomina a patriarca di Mosca nel 2009, sa bene come si deve muovere un capo religioso di questi tempi, e si distingue come paladino della pace. Dal 2006 è co-presidente della Conferenza mondiale religiosa per la pace e, forse anche in tale veste, nel 2011 si reca in Siria alle soglie del conflitto, rivolgendosi ai contendenti con un appello: «Si può risolvere ogni problema pacificamente, con il dialogo. L'essenziale è che non venga versato sangue».

Nel 2012 promuove un viaggio in Polonia per rappacificarsi con gli ortodossi polacchi. Infine, nel 2016, l'incontro a Cuba con papa Francesco lo lancia anche come protagonista dell'ecumenismo. Ma si tratta di una facciata piena di crepe: Kirill non ha remore nell'appoggiare la campagna di riabilitazione di Stalin, e comincia a pregare pubblicamente perché alla santa Russia non venga meno la chiesa ucraina, dove ormai gli ortodossi sono divisi in tre comunità, di cui una sola ancora legata a Mosca.

Non è una questione di poco peso: per gli ortodossi russi il legame con Kiev, luogo di fondazione della loro chiesa, è simbolicamente fondamentale, e così più in concreto l'appartenenza alla loro chiesa delle popolose e ferventi comunità ucraine: senza gli ucraini il patriarcato di Mosca è poca cosa, perde la possibilità di presentarsi come alternativa al patriarca di Costantinopoli. Si può considerare vero il suo ecumenismo? Ha senso che il papa continui a dialogare con lui? L'ecumenismo si deve basare sull'onestà degli intenti di quanti, al di là dei secolari conflitti teologici, condividono la fede in Cristo. E si può considerare cristiano chi pensa che il matrimonio omosessuale è segno dell'avvicinarsi dell'apocalisse, mentre benedice orribili eccidi di innocenti?

Dio salvi la Russia. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022

Un’inchiesta sulla storia e il vero ruolo di Kirill, patriarca della Chiesa ortodossa di Mosca e di tutte le Russie e sul progetto religioso e politico che lo lega a Vladimir Putin.

Dio salvi la Russia di Alice Cohen e Samuel Lieven

VOCE FUORI CAMPO L'uomo che sta indossando le vesti è Kirill, il Patriarca di Mosca, l'incarnazione del potere della Chiesa ortodossa russa. Una chiesa russa che si sta espandendo rapidamente anche all'estero a partire da Parigi dove Kirill, nel 2016, ha consacrato la nuova cattedrale ortodossa. Kirill lo troviamo spesso a fianco dei potenti: Barack Obama, Papa Francesco, il presidente cinese Xi Jinping, seduto con il leader siriano Bashar al-Assad e, ovviamente, con Vladimir Putin. I due sono alleati e stanno creando insieme una nuova identità russa ultraconservatrice, uno rafforza l’altro. Per capire il potere che Kirill ha acquisito negli ultimi trent’anni, basta osservare la trasformazione dello skyline di Mosca, diventata una capitale dalle luccicanti cupole dorate. Dal 2010 sono state costruite una cinquantina di chiese e quasi altrettante sono in lavorazione. Mosca è la sede del Patriarcato, sede della Chiesa Ortodossa. Dietro le mura di questo monastero, custodito da una manciata di cosacchi, si nasconde un'istituzione misteriosa e inaccessibile. Il patriarca Kirill presiede oltre trentaseimila parrocchie e più di cento milioni di fedeli, ovvero circa un terzo dei cristiani ortodossi del mondo.

JEAN-FRANÇOIS COLOSIMO TEOLOGO E DIRETTORE EDITIONS DU CERF - PARIGI Il piano di Kirill è quello di innalzare la Chiesa russa come potere universale, una Chiesa la cui influenza si fa sentire in tutti gli ambiti della vita, nella politica, nella società, ma anche, ovviamente, a livello internazionale.

VOCE FUORI CAMPO Dal suo quartier generale di Mosca, Kirill è chiaro sulla sua intenzione di non limitarsi al ruolo di guida spirituale.

KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Sono criticato ma non credo di avere scelte. Un patriarca deve poter rappresentare adeguatamente la Chiesa, parlando ai singoli e, soprattutto, ai capi di Stato e ai rappresentanti del mondo della politica, dell'economia, della cultura. 24/09/2015

KIRILL: Signor presidente, per me è una gioia essere qui

MAHMOUD ABBAS: Grazie molte, sono felice di incontrarla Kirill: grazie molte

VOCE FUORI CAMPO Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità nazionale palestinese, è venuto a visitare il patriarca.

KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Siamo molto preoccupati per la situazione in Medio Oriente, in Siria e in Iraq: il pericolo di atti terroristici in Medio Oriente è ancora molto reale.

MAHMOUD ABBAS – PRESIDENTE DELL’AUTORITA’ NAZIONALE PALESTINESE Abbiamo unito le forze con gli altri paesi che promuovono la sicurezza e la pace, in particolare il governo russo che sta conducendo questa battaglia.

VOCE FUORI CAMPO Per i palestinesi l’obiettivo di questi incontri è rafforzare il sostegno della Russia, ma questo coinvolge anche il Patriarcato.

SOTTOTITOLI KIRILL: Vorrei omaggiare con alcuni doni la vostra delegazione

MAHMOUD ABBAS: Gerusalemme è vostra quanto nostra. L’abbiamo sempre protetta. Voi e noi.

NICOLAS KAZARIAN – DOCENTE DI ORTODOSSIA INSTITUT SAINT SERGE - PARIGI Tra i palestinesi ci sono molti cristiani ortodossi e la loro protezione per il patriarca Kirill è una delle ragioni della presenza della Russia nell’area. VOCE FUORI CAMPO L'altro luogo di Kirill a Mosca è la Cattedrale di Cristo Salvatore, una cattedrale simbolo della rinascita religiosa del Paese. Piscina in epoca sovietica, è stata ricostruita nel 1995. Kirill non è qui per celebrare una messa. Attraverso i sotterranei della cattedrale incontra gli uomini più potenti della Russia, quelli del cerchio magico di Putin: il presidente della Duma, l'assemblea nazionale russa, il primo vice-capo di stato maggiore dell'ufficio esecutivo presidenziale e il capo della Corte costituzionale.

SOTTOTITOLI 1 NOVEMBRE 2017 KIRILL: Dio vi aiuti nel vostro impegno. Andiamo

VOCE FUORI CAMPO I NOVEMBRE 2017 Tutti partecipano al Consiglio mondiale del popolo russo, un forum annuale fondato da Kirill quando l'Unione Sovietica crollò. L’obiettivo era quello di unire la nazione attorno alla Chiesa in un momento in cui l'impero stava cadendo a pezzi. Nella sala e sul palco, sacerdoti, membri dell'esercito, la frangia nazionalista della società civile. E, soprattutto, rappresentanti dei principali partiti politici: Russia Unita, il partito di Putin, l'estrema destra e persino il Partito Comunista. Il tema del Concilio quest'anno è la Russia nel XXI secolo.

KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE 1 NOVEMBRE 2017 La famiglia e la società sono esposte agli stessi pericoli: gli eccessi della legge sui minori, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la crescita del transumanesimo, tutti questi tentativi di dare una definizione distorta al concetto di essere umano.

VOCE FUORI CAMPO Un forum in cui il leader di estrema destra Vladimir Žirinovskij si muove a suo agio ed è un aperto sostenitore di Kirill.

VLADIMIR ŽIRINOVSKIJ - PARTITO LIBERAL-DEMOCRATICO DI RUSSIA Ognuno avrà una foto, non fate chiasso. Andiamo, vieni, vieni qui, mettiti qua. Questa è la tua o la mia faccia? Mi vedi? Così, scatta! Chi altro? Ok, ora basta.

VLADIMIR ŽIRINOVSKIJ – PARTITO LIBERAL-DEMOCRATICO DI RUSSIA Non siamo uno stato religioso, ma abbiamo chiuso con l'ateismo. Oggi la Chiesa svolge lo stesso ruolo che aveva ai tempi dello Zar.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Zhirinovsky, che aveva predetto e previsto con esattezza il giorno e l’ora dell’invasione in Ucraina, è stato colpito in questi giorni dal virus, si era anche diffusa la notizia di una sua presunta morte, poi smentita dal portavoce del Cremlino Peskov. Però, da giorni non si sa più qual è lo stato reale delle sue condizioni. Comunque, il leader della destra russa pensava a una chiesa che tornasse agli splendori dell’epoca dello zar, quando il patriarca era l’uomo più potente dopo lo zar perché la chiesa incarnava la spiritualità, la cultura, il nazionalismo di un’intera società. Poi, però, nell’epoca della rivoluzione bolscevica, tra il 1919 al ’39, il clero fu in qualche modo perseguitato, furono arrestati e furono anche deportati i sacerdoti. E nel 1939 le chiese erano state quasi tutte distrutte. Poi, nel 1943, Stalin aveva bisogno di cementare il popolo e di rafforzare il morale delle truppe da impiegare al fronte nella guerra contro il nazismo e rispolvera l’utilità e la missione della chiesa russa. Alla fine della guerra militari e clero sfilarono sotto Stalin, la chiesa era diventata un ingranaggio dell’Unione Sovietica. E poi, finita la guerra, le persecuzioni ricominciarono. Tuttavia, nel 1965, Kirill, figlio di sacerdoti, nipote di sacerdoti anche perseguitati, decide di entrare in seminario. La sua fu una carriera velocissima, brillantissima: dopo sei anni fu inviato a Ginevra presso l’assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, una sorta di Onu cristiana: è lì che Kirill impara il linguaggio della politica, della diplomazia perché è sotto il controllo degli apparati sovietici. Ecco, ma Kirill, ha giocato una partita tutta sua o ha lavorato per enti esterni?

SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA UFFICIALE DEL PATRIARCATO DI MOSCA significa che il KGB ha approvato la sua nomina. Tutti i leader delle delegazioni che sono stati inviati all’estero hanno scritto rapporti al Comitato per gli affari religiosi. E una copia va al KGB. Quindi, fin da giovane, Kirill ha avuto legami con il KGB.

VOCE FUORI CAMPO 4 DICEMBRE 2017 Oggi la Chiesa ortodossa russa ha riacquistato il suo splendore. E quando ha celebrato il centenario del Patriarcato, lo ha fatto con tutto lo splendore di un’istituzione. Kirill ha invitato i patriarchi delle 14 Chiese che compongono la galassia ortodossa, comprese quelle di Egitto, Canada, Grecia e Repubbliche Ceca e Slovacca. Apparire l'uomo che detta l’agenda alla comunità ortodossa è la sua ambizione. 400 arcivescovi e migliaia di credenti. Ma è soprattutto il preludio di un singolare evento religioso e geopolitico. Tutti i capi ortodossi sono stati invitati nella residenza presidenziale di Vladimir Putin a trenta chilometri da Mosca, una specie di secondo Cremlino. Putin non è ancora arrivato. Il vero tema dell’incontro è la difesa dei cristiani perseguitati in Medio Oriente, il cavallo di battaglia di Kirill, una questione particolarmente rilevante visto il conflitto in Siria.

CYRILL BRETT –DOCENTE DI FILOSOFIA SCIENCES PO - PARIGI L'obiettivo della Chiesa ortodossa in Siria è in primo luogo quello di fornire supporto alle proprie truppe russe. E la seconda missione è… La Chiesa Ortodossa Russa sta investendo molto nel restauro dei monasteri, nel sostegno alle parrocchie ortodosse, ma anche alle altre … in Siria. Non c'è dubbio che, in Siria, dopo la guerra, la Chiesa ortodossa russa avrà recuperato posizioni che potrebbero far traballare il panorama religioso e quello culturale e sociale.

VOCE FUORI CAMPO Grazie all'aiuto dato ai cristiani perseguitati, Kirill sta guadagnando maggiore influenza sulle altre Chiese ortodosse: si sta posizionando al centro del gioco come il padrino dell'Ortodossia in Medio Oriente.

PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA 4 DICEMBRE 2017 Purtroppo, in questo secondo decennio del XXI secolo, ci troviamo di fronte a qualcosa che pensavamo appartenesse al passato: la persecuzione religiosa e, in particolare, la persecuzione dei cristiani. La situazione in Siria merita la nostra particolare attenzione. Molte chiese e monasteri cristiani sono stati saccheggiati e distrutti. Da diversi anni lo Stato russo, insieme alla Chiesa ortodossa russa e ad altre organizzazioni religiose, fornisce aiuti umanitari alle vittime in Siria.

VOCE FUORI CAMPO Dopo dieci minuti dall'inizio della riunione, alle telecamere viene chiesto di lasciare la stanza e tornare due ore dopo per immortalare un altro incontro. Un discorso finale in scena per le telecamere, con un patriarca che era all'incontro precedente! Il Patriarca di Antiochia di Damasco, Siria.

PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA Santità, sono lieto di incontrarla faccia a faccia. VOCE FUORI CAMPO Una sequenza di due minuti e mezzo affinché il patriarca possa rendere un sentito omaggio alla Russia di Vladimir Putin.

GIOVANNI X YAZIGI – PATRIARCA GRECO ORTODOSSO DI ANTIOCHIA E DI TUTTO L’ORIENTE Desidero esprimere ancora una volta la mia profonda gratitudine a lei, Eccellenza, e alla Russia per tutto ciò che ha fatto e continua a fare in Medio Oriente, e specialmente in Siria.

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, Putin in Siria ha allentato un pochettino la presa: da quando è partita la guerra in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, l'aviazione di Mosca ha condotto in Siria 300 raid aerei rispetto ai 1200 di febbraio, ecco, contro postazioni di gruppi anti-governativi, non solo quelli affiliati all’Isis. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani, in Siria, in oltre dieci anni di conflitto, in un conflitto che si è disputato lontano dalle telecamere, si contano più di 6,6 milioni di rifugiati siriani nel mondo, 100.000 gli scomparsi, 15.000 le persone morte torturate per mano delle forze governative siriane. Ora, la Russia è stata chiamata proprio da Assad nel 2015, Assad il controverso e discusso leader di Damasco. Il fatto che Putin abbia ospitato nella sua dimora il patriarca di Damasco in sede appartata vuol dire solo una cosa, che la diplomazia russa si offre come difensore dei cristiani in Medio Oriente, soprattutto i cristiani perseguitati e Kirill è il braccio spirituale di Putin, ha a cuore il tema della persecuzione perché suo nonno era stato perseguitato e si offre come punto di riferimento dei cristiani ortodossi in Medio Oriente ma non solo di quelli ortodossi. Ora, c’è un tema però, che secondo il direttore del giornale del patriarcato, Sergei Chapnin, che si è dimesso nel 2015 e che conosce benissimo i segreti del patriarca Kirill, Kirill avrebbe avuto contatti stretti con il Kgb, cioè con quell’organo di sicurezza supremo dell'URSS, che aveva proprio tra i suoi compiti il controspionaggio, in patria e all’estero. Ora, il Kgb fu abolito nel 1991 ma è sopravvissuto in varie forme, tanto è vero che ancora oggi l’establishment e l'élite russa proviene da quel mondo. E Kirill è stato funzionale per mantenere il consenso in patria di Putin.

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, stiamo parlando di Putin e del ruolo del Patriarca di Mosca Kirill. Putin serve a Kirill perché Kirill vuole diventare il punto di riferimento mondiale della Chiesa ortodossa e prendere il posto, cioè, del patriarca di Costantinopoli, mentre Kirill serve a Putin per mantenere un certo consenso interno. Il rapporto tra i due si cementa nel 2012, quando un gruppo di donne, le Pussy Riot, che erano nate per difendere e tutelare i diritti delle donne in Russia, entrano invece nella contestazione per i brogli elettorali. All’improvviso entrano nella cattedrale simbolo di Mosca, la Cristo Salvatore, e mettono in scena una protesta contro Putin, una protesta che assume una dimensione internazionale, rischia di incrinare l’immagine di Putin. Ma arriva la ciambella di salvataggio. Ecco, Kirill utilizza l’indignazione dei fedeli per la performance sacrilega, la usa per ricompattare i fedeli intorno alla figura di Putin: mette insieme, cioè, paragona l’offesa a Putin come se fosse un’offesa a Dio.

VOCE FUORI CAMPO 22 NOVEMBRE 2016 Quando Kirill festeggia il suo compleanno, il suo ospite d'onore è Vladimir Putin. Un compleanno festeggiato in pompa magna, trasmesso in diretta dalla televisione russa.

NIKITA MICHALKOV – REGISTA È una giornata meravigliosa. Noi, qui, e i nostri milioni di telespettatori celebriamo il favoloso settantesimo compleanno di Sua Santità il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia,

Kirill. VLADIMIR PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA Incarni l'autorità della Chiesa ortodossa russa. Sei il devoto custode delle sue tradizioni e delle azioni dei suoi membri che hanno svolto un ruolo incalcolabile nell'affermazione dei valori cristiani così come nell'emergere e nello sviluppo dello stato russo.

VOCE FUORI CAMPO Putin non perde occasione per ostentare la sua vicinanza a Kirill e per sottolineare la sua fede cristiana. Per lui la chiesa è una leva di influenza. Vladimir Putin si presenta come un cristiano ortodosso. Nella festa dell'Epifania fa un tuffo nelle acque gelide tradizionalmente benedette, in ricordo del battesimo di Cristo. Il sodalizio tra Kirill e Putin si è cementato quando il Cremlino ha dovuto affrontare le proteste. Nell'inverno del 2011 migliaia di persone sono scese in piazza contro il governo, sospettato di frode alle elezioni generali di quello stesso anno.

SOTTOTITOLI Russia libera da Putin! Vogliamo elezioni libere! Russia libera da Putin!

VOCE FUORI CAMPO 21 FEBBRAIO 2012 Le proteste sono andate avanti per sei mesi. In questo contesto le Pussy Riot hanno fatto irruzione nella cattedrale di Cristo Salvatore. Hanno eseguito la loro preghiera punk politica, un Te Deum iconoclasta che attacca Kirill e, soprattutto, Vladimir Putin.

SOTTOTITOLI Kirill crede in Putin Meglio credere in Dio, parassita! Combatti per i diritti, scordati i riti Unisciti alla protesta, Santa Vergine Maria Vergine, madre di Dio, bandisci Putin

VOCE FUORI CAMPO Un evento visto milioni di volte su Internet. Le persone coinvolte sono state condannate a due anni in un campo di prigionia. Tutto questo ha avuto un profondo impatto sulla società russa.

SOTTOTITOLI Un giorno Dio vi punirà!

SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA DEL PATRIARCATO DI MOSCA L’accusa principale alle Pussy Riot è che hanno recitato una preghiera che diceva: "Madre di Dio, bandisci Putin". Tutti percepivano che la reazione di Putin era troppo dura. La Chiesa avrebbe anche sorvolato: quello che è successo dopo è una reazione all'umiliazione del presidente.

VOCE FUORI CAMPO 22 APRILE 2012 Due mesi dopo, Kirill si è recato tra la folla e ha radunato i fedeli per una preghiera di massa.

KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Oggi siamo vittime di un attacco non paragonabile a quelli del passato. Ma è un attacco pericoloso. Il vero atto di blasfemia, sacrilegio e beffa del sacro è presentato come espressione legittima di libertà umana. Questo approccio può trasformare un evento microscopico in un fenomeno di proporzioni enormi e preoccupa chiunque sia un credente.

SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA DEL PATRIARCATO DI MOSCA Kirill ha organizzato una preghiera di massa fuori dalla Cattedrale di Cristo Salvatore per mostrare quanto fosse attiva la Chiesa. Hanno partecipato i sacerdoti di tutte le altre regioni, che sono stati trasportati in autobus. Uno spettacolo gigantesco messo in scena per un solo spettatore: Putin. Il patriarca ha sfruttato l'irritazione del presidente per assicurarsi di ottenere la legislazione che desiderava.

VOCE FUORI CAMPO 4 NOVEMBRE 2017 Nella giornata dell'Unità Nazionale Russa, il 4 novembre, Kirill e Vladimir Putin inaugurano una mostra che celebra la nazione russa. Una mostra che inizia con una preghiera e un bacio. Quest'anno la mostra è dedicata al futuro della Russia. La Russia deve accelerare il passo per superare l'Occidente. Una modernizzazione che è possibile solo se la Russia rimane ancorata ai valori tradizionali, valori evidenziati in un video sui presunti pericoli che dovrà affrontare la Russia di domani. Uno scenario allarmistico, quanto improbabile.

ESTRATTO DEL VIDEO DELL’ESPOSIZIONE SULLA RUSSIA DEL FUTURO Per la prima volta a metà del ventunesimo secolo, ci saranno tanti musulmani quanti cristiani. I musulmani che sono migrati in Europa cambieranno le politiche degli stati e le loro relazioni sociali. Nel 2050 la tecnologia dell’utero artificiale sarà una realtà. Le donne non dovranno portare bambini in grembo. Gli uomini non serviranno più per la riproduzione. La fertilizzazione sarà possibile grazie allo sperma artificiale, cresciuto da cellule staminali di embrioni. Nella maggioranza dei paesi sarà legale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che porterà a una crisi della famiglia tradizionale e a una riduzione della natalità.

ALEXANDER BAUNOV - POLITOLOGO CARNEGIE MOSCOW CENTER - MOSCA C'è un solo tema che unisce Chiesa e Stato, ed è il tema del contrasto tra omosessuali ed eterosessuali. Dopo il 2012, dopo che lo Stato ha iniziato a utilizzare il tema del matrimonio tra persone dello stesso sesso nella sua propaganda, il sentimento antieuropeo ha iniziato a crescere. Cominciarono a dire che l'Europa aveva preso la strada sbagliata e che noi russi eravamo rimasti sulla strada giusta.

KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Possiamo vedere come l'Occidente stia perdendo ciò che ci legava ad esso. Non vediamo più la società occidentale come una società che condivide i nostri stessi valori.

VOCE FUORI CAMPO Nel dicembre 2016 il patriarca ha visitato la Francia. Ha tenuto una conferenza stampa improvvisata al seminario russo di Epinay sous-Sénart. Di fronte alle domande della stampa sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, Kirill ha ribadito la sua posizione.

KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE 5 DICEMBRE 2016 Non chiediamo una posizione più dura nei confronti di coloro che hanno un diverso orientamento sessuale ma siamo fermamente contrari all'idea di metterli sullo stesso piano delle persone che si sono sposate davanti a Dio, hanno partorito figli e stanno perpetuando il genere umano. In nessun caso il piano di Dio può essere alterato da dottrine o legislazioni politiche.

VOCE FUORI CAMPO Kirill è in Francia per consacrare la nuova cattedrale ortodossa, la Santissima Trinità: costruita vicino alla Tour Eiffel per un costo di 150 milioni di euro, concordata tra Vladimir Putin e Nicolas Sarkozy, ma interamente pagata dallo Stato russo.

SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA DEL PATRIARCATO DI MOSCA Questo è un complesso con status diplomatico: comprende la chiesa, l'ambasciata e il centro culturale. È un modello in miniatura della Russia con la Chiesa russa al centro.

JEAN-FRANÇOIS COLOSIMO – TEOLOGO E DIRETTORE EDITIONS DU CERFPARIGI L'immagine di una Russia capace di tornare sulla scena internazionale coinvolge necessariamente l'ortodossia russa perché è il segno identitario più distintivo. L'America ha Hollywood e la Coca Cola, e la Russia ha le sue liturgie con icone, incensi, sacerdoti colorati.

VOCE FUORI CAMPO Parte della numerosa comunità russa si è presentata per la consacrazione. Questa cattedrale è uno strumento di soft power russo perché consente di riunire sia i vecchi emigrati della rivoluzione sia i nuovi, partiti negli anni Novanta sotto il nome della Chiesa.

KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Ci sono molti russi in Francia, molti cristiani ortodossi. Abbiamo l'obbligo di compiere la nostra missione pastorale. Per tutto il Novecento abbiamo avuto una chiesa in un garage, in rue Petel. Riesci a immaginare, un garage trasformato in chiesa?

VOCE FUORI CAMPO In realtà Parigi aveva già una cattedrale russo-ortodossa nell'ottavo arrondissement. Ma la Chiesa è sotto la supervisione dell'altro patriarcato concorrente di Krill, quello di Costantinopoli.

ALEXANDER BAUNOV - POLITOLOGO CARNEGIE MOSCOW CENTER- MOSCA Kirill è il capo della più grande Chiesa ortodossa ma il capo del mondo ortodosso è il Patriarca di Costantinopoli. Questo paradosso infastidisce Kirill, che vuole diventare la voce principale del mondo ortodosso nel suo dialogo con Roma. Vorrebbe che tutte le altre Chiese ortodosse seguissero i suoi suggerimenti sui valori morali e le sue posizioni politiche a livello internazionale, e il Patriarca di Costantinopoli interferisce. Ed è per questo che c'è una tensione costante tra loro.

VOCE FUORI CAMPO Il Patriarca esercita la sua potenza politica e numerica contro Costantinopoli. Ma il punto debole di Kirill è l'Ucraina. Negli ultimi anni alcuni credenti ortodossi ucraini si sono allontanati dalla chiesa di Kirill. Quando, nel 2014, sono scoppiati disordini in piazza Maidan, a Kiev, parte della popolazione ha voluto rivolgersi ulteriormente a ovest, mentre gli altri guardavano alla Russia. Una crisi che si era aggravata col dispiegamento di truppe da parte del Cremlino per annettere la Crimea. La crisi ucraina è sempre stata la grande incognita di Kirill: rischia di compromettere la sua ambizione di influenzare. Per questo è alleato di Putin.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Kirill ha giustificato la guerra in Ucraina come se fosse una guerra santa, una lotta, uno scontro di civiltà, una crociata contro i gay e contro il transumanesimo, cioè contro quella filosofia, che era nata in California, che prevede l’evoluzione dell’uomo attraverso la tecnologia. Però, Kirill rischia di fare un autogol, di aprire la via a uno scissionismo, a una scissione con la chiesa ucraina e, soprattutto, con il mondo dei cristiani ortodossi. Ecco, era già successo negli anni Novanta che si erano aperte alcune crepe con la chiesa ucraina, quando in Ucraina si era proclamata l’indipendenza, crepe che si erano poi allargate nel 2014 con l’invasione della Russia in Donbass e in Crimea. E poi, nel 2018, c’era stata addirittura la consacrazione di una chiesa ufficiale ucraina da parte del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, consacrazione, l’avversario di Kirill proprio, consacrazione che era stata in qualche modo spinta dall’allora presidente ucraino Poroshenko, filo Usa e atlantista convinto. Ecco, questo aveva fatto irritare Putin e Kirill, che erano certi che l’Ucraina dovesse appartenere come territorio ma anche come spiritualità alla Russia. Ora, dopo le bombe, dopo l’omelia del 6 marzo che ha giustificato le bombe in Ucraina, un centinaio di chiese ortodosse filorusse si sono sostanzialmente staccate e hanno aderito alla chiesa ucraina. La stessa cosa l’ha fatta una chiesa ortodossa nei Paesi Bassi, ad Amsterdam, che era punto di riferimento degli ortodossi russi nei Paesi Bassi. Ecco, questo per dire cosa: che Kirill, col fatto di giustificare la guerra, rischia l’isolamento mondiale con un paradosso, se ce lo concedete: che da una parte vuole essere il punto di riferimento dei cristiani perseguitati in Siria, dall’altra giustifica chi i cristiani in Ucraina li bombarda.

Il conflitto in Ucraina non ha cause solo geopolitiche, ma anche ideologico-religiose. Nel Paese esistono due Chiese Ortodosse: una fa capo al Patriarca Filarete e comprende il 60% della popolazione, l'altra – con il Metropolita Onofrio – riconosce come Patriarca quello di Mosca. CARLO JEAN su Il Quotidiano del Sud il 26 Marzo 2022.

Esiste in Occidente, in particolare in Italia e, soprattutto, nel Vaticano, un grande imbarazzo nell’affrontare i rapporti della Chiesa Ortodossa russa e con le messianiche affermazioni di Putin sugli obiettivi di quella che chiama “operazione militare speciale” volta non solo a denazificare l’Ucraina, ma a liberarla dal peccato, cioè dalla “banda di gay che la governerebbe”. Tale imbarazzo deriva anche dagli stretti rapporti fra il Cremlino e il Patriarcato di Mosca. Putin è affascinato dall’Ortodossia. La trova funzionale ai suoi obiettivi di restaurare la Russia nello status di grande potenza.

La Chiesa Ortodossa ha recuperato il rango e il peso politico che aveva ai tempi degli Zar. È portatrice dell’ideologia della Russkiy Mir, o “mondo russo”, della Terza Roma, erede dei valori al tempo stesso mistici e imperiali della tradizione e destinata a salvare il mondo. L’Ortodossia è legata alla politica. Il Patriarca Kirill ha fornito una giustificazione non solo ideologica, ma anche teologica all’aggressione all’Ucraina. È stato spinto, al riguardo, dal fatto che in Ucraina esistono due Chiese Ortodosse: la prima, autocefala, cioè nazionale ucraina, fa capo al Patriarca Filarete e comprende il 60% della popolazione del paese. La seconda, con il Metropolita Onofrio, con sede sempre a Kiev, ma critica dell’aggressione russa e del Patriarca Kirill, ne ha il 25% e riconosce come Patriarca quello di Mosca (la popolazione restante è uniate, cioè cattolica di rito greco, concentrata nell’Ovest del paese, o ateo). Fra le due chiese ortodosse corre cattivo sangue, accentuatosi con l’aggressione russa (in circa metà delle diocesi che fanno capo al Patriarcato di Mosca, non è stato più menzionato Kirill, il quale aveva benedetto l’aggressione, certamente anche nella speranza di riassorbire sotto di lui anche la chiesa autocefala che, sotto pressione dell’allora presidente Porošenko, nel 2015, si era legata al Patriarca di Costantinopoli, per sottolineare il sui distacco da Mosca, che si era annessa la Crimea.

Il fatto che la guerra in Ucraina non abbia cause solo geopolitiche, ma anche ideologico-religiose è divenuto evidente ai telespettatori italiani con gli interventi televisivi di Alexander Dugin, il principale esponente della Scuola Eurasista ipernazionalista russa, oggi consigliere e ispiratore ideologico di Putin. Avevo conosciuto a Mosca negli anni ’90 questo strano personaggio che sembra uscito da un libro di Dostoevskij. Allora era capo del Centro Geopolitico della Duma (a proposito, è un grande estimatore del vino italiano!). Per lui, l’attacco all’Ucraina investe l’identità e il futuro non solo dell’Ortodossia e della Russia, ma la loro missione “divina” nel mondo. Esso deve essere salvato dal materialismo, dal consumismo e da “forze oscure” che lo stanno dominando e corrompendo e di cui sarebbe prova, al tempo stesso evidente e inquietante, la tolleranza dimostrata, come dice Kirill, nei riguardi dell’“amore contro natura”. Esse avrebbero avuto il sopravvento in Ucraina con la “rivoluzione arancione”. Il mondo, in particolare i paesi continentali dell’Eurasia (che considera estesa da Dublino a Vladivostok) possono essere salvate dalla corruzione delle potenze marittime dell’anglo-sfera solo dalla rigenerazione dei valori tradizionali della Russia, che si espanderebbe grazie alle sue ricchezze naturali. Senza di esse, l’Europa non potrebbe sopravvivere. La Russia sarebbe in grado di farle pagare con la sua moneta, liberandoli dalla schiavitù del dollaro. Tutte le sue teorie sono contenute in un ampio saggio (di oltre 500 pagine) “The Foundation of Geopolitics; the Geopolitical Future of Russia”.

Ai politici e alle opinioni pubbliche occidentali può sembrare una follia paranoica, ma secondo la mia conoscenza (ho frequentato per otto anni la Moscow School of Political Studies e fatto/partecipato a conferenze, soprattutto all’Accademia dello Stato Maggiore Generale), per la “Russia profonda” e anche per taluni esponenti del potere politico di Mosca è invece del tutto normale pensarla così. I telespettatori italiani sono stati di certo sconcertati quando Dugin ha tranquillamente affermato che il motivo dell’aggressione all’Ucraina era quello di liberare il paese dalla “banda di gay” che lo domina e di “salvare il mondo dal peccato”. Sarebbe comunque interessante conoscere perché, come e da chi sia stato escluso da trasmissioni, ad esempio da “Controcorrente” del 23 marzo scorso.

Più che meravigliarmi della cosa – già affermata da Kirill nel suo appello ai militari russi il giorno prima dell’inizio dell’aggressione all’Ucraina, dove li incitava a combattere con valore per il popolo russo, in una guerra che dichiarava in pratica non solo giusta, ma santa – devo confessare, che essa mi ha divertito. Mi sarei aspettato che l’On.le Zan si precipitasse a imitare il tebano Gorgida, fondatore dell’eroico “battaglione sacro” e corresse in Ucraina. Invece niente! Neppure una flebile protesta. Solo un rinnovato appello alla pace (senza beninteso precisare se fosse la pace di Putin o quella di Zelensky, come se la cosa non avesse importanza) e alla cessazione delle uccisioni e distruzioni.

Non è un appunto al prode Onorevole citato. Anche il Vaticano non ha fatto molto meglio. Ha deplorato l’aggressione, ma non l’aggressore. Non ha criticato Kirill per il discorso inviato alle Forze Armate russe prima dell’aggressione (e non mi si venga a dire che i soldati non sapevano di andare ad attaccare l’Ucraina, perché addormentati come affermano i prigionieri russi alla propaganda di Kiev!), né per il fatto di essersi schierato a favore al 100% del regime, di cui è una delle colonne, né infine di aver lasciato affermare che l’esercito russo è in Ucraina a combattere “l’Anticristo”.

La razionalità, ragionevolezza e moderazione della Santa Sede, proprie della cultura occidentale, sono le ragioni profonde del suo appeasement. L’invito a Kirill di andare a Kiev con Papa Francesco dimostra una carenza di intelligence. Nel caso migliore, gli ucraini avrebbero accolto a sassate il Patriarca. La visita sarebbe terminata nel ridicolo.

Un altro episodio di eccesso di cautela che mi è sembrato tale è quello verificatosi in un’intervista di Lucia Annunziata e mons. Spadaro di Civiltà Cattolica. L’Alto Prelato, per dimostrare la fermezza del Vaticano nel prendere posizione sulla crisi ucraina, adduceva il fatto che il Papa avesse parlato di “guerra” e non, come Putin, di “operazione militare speciale”. La brava conduttrice ha sorriso comprensiva. Forse perché aveva ricordato che la dottrina tradizionale cattolica della “guerra giusta”, consolidata da più di quindici secoli e ribadita nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1985 e nella lettera di Giovanni Paolo II del giugno 1982 all’Assemblea Generale dell’ONU, che spense le polemiche create dalla “Lettera dei vescovi americani sulle armi nucleari”, sembra sia stata ufficialmente sconfessata. Confesso di esserne rimasto molto stupito. Non vedo come senza tale millenaria dottrina, la Santa Sede possa parlare di pace e di guerra. Beninteso, potrà esaltare il pacifismo o raccomandare al “Cuore di Maria” le vittime, oppure potrà essere strumentalizzata dai belligeranti per la propaganda di guerra, come Zelensky tenta di fare. Ma la pace è altra cosa. Non per nulla i teologi hanno sempre collocato la guerra giusta nella categoria teologica della Caritas. Non in quella della justitia, con una sola eccezione: quando c’era da sostenere la colonizzazione spagnola e portoghese, gabellate per “cristianizzazione degli indi”.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. 

Niccolò Zancan per “La Stampa” il 24 marzo 2022.

È l'inizio di uno scisma nella chiesa ortodossa. Padre Giobbe Oshaanskyi, abate del monastero della Santa Resurrezione di Leopoli, è il primo ad averlo annunciato ai suoi fedeli. 

«Non è stata una decisione facile. Ho vissuto sotto il patriarcato di Mosca per tanti anni. Ma è dal primo giorno che ci penso, dal 24 febbraio. Non posso più stare con una chiesa che benedice la guerra».

È una giornata di primavera. Suonano gli allarmi antiaerei e suonano i clacson nella città caotica. I profughi sono adesso 211 mila, altri stanno arrivando con un treno da Zaporizhia, dove essere stati sfollati da Mariupol. Tutte le storie finiscono a Leopoli, la porta dell'Ucraina sull'Occidente. 

Ma anche questa città ormai si sente accerchiata. Senza più amici, e in preda ai sospetti. Dove anche una parola pronunciata in russo da un giornalista malaccorto può innescare una reazione.

Non si può più dire «sbasibo». Gli scienziati hanno lanciato un appello per blandire i ricercatori russi dalle riviste. Nelle radio locali i cittadini russi vengono chiamati «zombie»: «Perché non vogliono vedere, non vogliono capire». 

E anche l'amicizia con i vicini bielorussi è sempre più in discussione, visto che ormai diverse fonti ufficiali, compresa la Nato, parlano di un possibile attacco imminente. 

A domanda precisa rivolta all'uomo che sovrintende le sirene antiaeree nella regione di Loepoli, il signor Maxim Kozyntsky risponde così: «Dei quattro allarmi di ieri, due hanno segnalato il pericolo dovuto al lancio di missili Iskander dal territorio della Repubblica Bielorussa, uno riguardava un raid di aerei strategici russi decollati dal Mar Nero, la quarta volta era la minaccia di un attacco missilistico».

Tutto questo per spiegare dove ha preso sua decisione, il monaco Giobbe Oshaanskyi. Via Pekarska, dopo la l'Università che ospita le facoltà di Medicina. C'è un vecchio edificio in ristrutturazione. Rappresenta una stratificazione di epoche. 

Era stato un monastero cattolico, è stato un ospedale militare ai tempi dell'Unione Sovietica e adesso è un monastero ortodosso in Ucraina che non vuole più rispondere a Sua Santità Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Ecco padre Giobbe Oshaanskyi sulla porta, ha 33 anni.

Ha studiato a Roma, «Diritto canonico orientale» al Collegio Capranica. Ha fatto costruire una piccola chiesa tutta con pietre portate dalla Grecia, perché dopo gli studi di Roma è andato a farsi monaco sul Monte Athos. 

«Per me non esisteva il problema della divisione fra russi e ucraini. I miei parrocchiani non hanno mai sentito la propaganda russa. Io parlavo della vita spirituale e basta, parlavo del Cristo. Perché la gente veniva qui per sentire la parola di dio, non la politica. Ma la guerra è una situazione straordinaria che obbliga tutti a reagire.

In guerra non è possibile non prendere parte. E visto che il patriarcato di Mosca non reagisce come dire, obiettivamente, io non posso più stare in silenzio. Non vedevo più il senso di stare con questa chiesa. Punto e basta». 

È un addio alla grande chiesa di Mosca. Per cercare riparo sotto il piccolo ombrello della chiesa autocefala ucraina riconosciuta solo nel 2018. Padre Giobbe Oshaanskyi è stato il primo. Lo ha seguito l'arciprete Ihor Derkach, rettore della Chiesa della Santa Intercessione a Chervonograd. Altri due monaci si sono aggiunti ieri.

Cosa li accomuna tutti? Non possono accettare le parole del patriarca di Mosca Kirill, queste parole: «Ciò che sta accadendo oggi nell'ambito delle relazioni internazionali non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Si tratta della salvezza umana, di dove andrà a finire l'umanità». 

Non possono accettare che questa guerra sia stata benedetta dalla più alta carica ecclesiastica russa. Sono 12 mila le chiese ortodosse in Ucraina che rispondono ancora direttamente al patriarcato di Mosca. Dodicimila meno quattro, per ora.

Una è la chiesa di padre Giobbe Oshaanskyi a Leopoli: «La mia decisione ha suscitato molte reazioni. Positive e negative. Mi hanno detto che sono un sacerdote coraggioso, uno dei pochi del patriarcato che ha avuto il coraggio di dire la verità e non tenere una doppia morale. 

E cioè, dire: sì, è stata benedetta la guerra, però la guerra non c'entra niente con la fede. Non è vero. C'entra eccome! La chiesa che benedice la guerra è sotto eresia, e questa eresia si chiama mondo russo, e io non voglio avere niente in comune».

A questo punto gli domandiamo in che modo la chiesa russa stia raccontando la guerra contro l'Ucraina ai suoi fedeli, ed ecco la riposta del monaco: «La vede come la chiesa cattolica vedeva le crociate. Loro pensano di combattere per la fede, pensano di aiutare il popolo ucraino a liberarsi dallo spirito dell'occidente, cioè la gay propaganda e altre cose assurde». 

Stanno arrivando altri profughi nella chiesa della Santa Resurrezione di Leopoli. Dormono nelle poche stanze già ristrutturate del monastero. «Anche la mia famiglia è dovuta sfollare da Kiev. Quello che sta succedendo in Ucraina è sotto gli occhi di tutti. 

Non giudico l'Europa, ma sono convinto che l'Europa debba pensare al suo futuro. Perché se l'Ucraina perde, la Russia andrà a denazificare la Polonia e poi Berlino. Questa è una guerra della Russia contro l'occidente». Padre Oshaanskyi, è preoccupato per la sua scelta? «Ho fatto quello che mi ha dettato la coscienza».

Massimo Franco per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2022.  

Il governo russo non vuole che papa Francesco accetti l'invito di Volodymyr Zelenski ad andare a Kiev. E ha fatto sapere in modo pressante al Vaticano che quel viaggio potrebbe provocare una tensione inedita nelle relazioni tra Mosca e la Roma papale. «Se visitasse l'Ucraina adesso, farebbe un favore non tanto a Zelenski ma agli Stati Uniti», sarebbe stato il messaggio trasmesso alla Segreteria di Stato; e con parole insieme irritate e allarmate.

Una visita di Bergoglio nella capitale ucraina accerchiata dalle truppe russe darebbe corpo a quell'isolamento internazionale che Vladimir Putin già vive in modo quasi ossessivo dopo la sua aggressione militare. E pazienza se il viaggio è altamente improbabile, nonostante le rassicurazioni di Kiev sulle eventuali misure a protezione del Papa: prima occorrerebbe un «cessate il fuoco». In seguito alla telefonata dell'altroieri tra Francesco e il presidente ucraino, prima del discorso di Zelenski al Parlamento italiano, la posizione vaticana diventa delicata. 

Da una parte, Francesco ha fatto sapere di essere pronto a tutto pur di innescare un negoziato che fermi la guerra. Dall'altra, andare a Kiev verrebbe visto inevitabilmente come un appoggio oggettivo ai nemici di Putin da parte di una Santa Sede che ha tentato invano, finora, una mediazione; senza schierarsi con l'Occidente, è vero, ma additando con nettezza le responsabilità di Mosca.

È una vicenda intricata, perché mostra le incognite e le incertezze di una diplomazia vaticana che si sta rendendo conto dei limiti del suo approccio; e di quanto l'invasione russa abbia cambiato gli schemi e reso fragile le coordinate del passato. A velare l'impossibilità di un negoziato non basta la volontà tenace di pacificare il conflitto. Proprio nel momento in cui si sta consumando una guerra tra nazioni cristiane, il Vaticano si ritrova senza strumenti e margini in grado di fermarla.

E lo scontro tra ortodossi ucraini e russi, e il rischio di infilare i cattolici in questa faida politico-religiosa, è un fattore ulteriore di tensione. Di fatto, Francesco verrebbe considerato come schierato con la parte antirussa del mondo ortodosso. Anche per questo, qualcuno nelle ultime ore aveva ipotizzato una visita a Kiev di Francesco insieme con il patriarca russo Kirill. 

Ma l'ostilità della popolazione nei confronti del capo ortodosso che ha definito «giusta» l'aggressione di Putin, e puntato il dito contro l'Occidente «anticristiano», l'ha fatta accantonare subito: la presenza di Kirill verrebbe vissuta dagli ucraini come una provocazione. Rimane soltanto il nervosismo di un governo russo intenzionato a far capire che un gesto ulteriore di Francesco in favore del governo di Kiev sarebbe visto come un passo falso.

Lo schiaccerebbe, a sentire gli uomini del Cremlino, sull'Unione Europea ma soprattutto sugli Stati Uniti: prospettiva tutt' altro che scontata ma che, di nuovo, lascia capire quanto sia difficile non schierarsi e non aderire a un'alleanza internazionale quando un trauma come la guerra costringe in qualche modo a prendere posizione. A complicare ulteriormente le cose è la potenziale tensione che si potrebbe creare presto tra Santa Sede e governo italiano. È filtrata la notizia di un prossimo passaggio delle consegne all'ambasciata russa presso la Santa Sede.

Il problema è che al posto di Aleksandr Adveev, diplomatico apprezzato in Vaticano, in Italia dal 2013, secondo Il Messaggero Mosca avrebbe scelto Alexei Paramonov: il direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri, che nei giorni scorsi ha minacciato ritorsioni contro l'Italia per il suo appoggio all'Ucraina. 

E ha rinfacciato al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, i controversi aiuti russi durante la pandemia. Il tentativo del Vaticano sembra quello di attenuare l'effetto delle dichiarazioni di Paramonov, e di farne emergere i meriti nel dialogo tra Santa Sede e Mosca. Ma l'imbarazzo è evidente: tanto che non si capisce nemmeno se alla fine quella designazione sarà confermata o no. È verosimile che nel primo caso si aprirebbe un fronte diplomatico col governo di Mario Draghi: non solo russo ma vaticano. Ci si muove insomma su un terreno sempre più scivoloso, per tutti. E, almeno per ora, senza un regista in grado di indicare una via d'uscita o anche soltanto un compromesso. 

Papa Francesco scomunica le armi? L'Osservatore Romano si ribella: clamoroso scontro in Vaticano. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il  25 marzo 2022

Ad accogliere il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, giunto a Bruxelles per chiedere agli alleati della Nato di aumentare la loro spesa militare, ci sono le parole di Papa Francesco: «Mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil per l'acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!». Si vis pacem para bellum, cioè l'idea che preparare la guerra sia la strategia indicata a perseguire la pace, è un motto latino tanto antico quanto lontano dalla mentalità di Jorge Mario Bergoglio, sempre più timoroso che si passi a un conflitto globale, a tutto campo, che potrebbe coincidere con la fine del mondo.

Lo comunica alle partecipanti del Centro Femminile Italiano, affinché la sua analisi riecheggi nelle cancellerie europee, così come in quelle orientali, fino a Mosca, a Pechino e a Pyongyang: «Ma purtroppo questo è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica. La storia degli ultimi settant' anni lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po' dappertutto; fino ad arrivare a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero.

Ma il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno "scacchiere", dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri». Se mercoledì, nella telefonata al presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva detto: «Capisco che desiderate la pace, che dovete difendervi», ieri a poche ore dalla consacrazione di Ucraina e Russia al Cuore Immacolato di Maria per chiedere la pace, Papa Francesco spiegava che il sostegno immediato non coincide obbligatoriamente con un riarmo prolungato. Semmai, a suo avviso, «la vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, un mondo ormai globalizzato, e di impostare le relazioni internazionali».

SFORZI BELLICI - Pare che non lo ascoltino. Almeno a giudicare dalla convinzione con la quale il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, arrivando al Consiglio Ue a Bruxelles dopo i vertici Nato e G7, procede secondo quanto concordato: «Io ho ribadito l'impegno che hanno preso tutti gli altri governi nei confronti della Nato, quindi noi abbiamo questo impegno che è storico per l'Italia e noi continueremo a osservarlo». Sul fornire armi al popolo ucraino si è espressa anche la Cei, attraverso le parole di monsignor Stefano Russo: «Bisognerebbe arrivare a un disarmo totale e generale», ha dichiarato il prelato che ha anche sottolineato come questo «in questo momento, purtroppo, non sta avvenendo». Anzi, di fatto «il mercato delle armi alimenta le guerre, come più volte sottolineato da Papa Francesco. Bisognerebbe che tutte le nazioni prendessero questa decisione altrimenti ci troveremo sempre di fronte a queste crisi e al pericolo che queste crisi possano scoppiare», ha ribadito il segretario generale annunciando che la Cei sta pensando all'invio in Ucraina di «una delegazione di vescovi». Deciderà il cardinale Gualtiero Bassetti se e come esprimere quel «gesto di vicinanza concreto».

ACCUSE AL CREMLINO - In quel delicato gioco di equilibri, si inserisce anche L'Osservatore Romano con un editoriale del vicedirettore dei media vaticani Alessandro Gisotti che, a un mese dall'inizio del conflitto, ne attribuisce chiaramente la responsabilità al presidente russo Vladimir Putin, senza peraltro nominarlo, affermando che «appare ormai evidente che chi ha voluto questa guerra sconsiderata e ingiustificata non pensava di trovare un'opposizione così ostinata del popolo ucraino a cui l'Europa, e non solo, guarda con ammirazione per la forza che sta dimostrando nel difendere la propria libertà. Chi ha riportato di nuovo l'orrore della guerra nel Vecchio Continente, riteneva probabilmente che in pochi giorni la "questione" sarebbe stata risolta. Ha ignorato così, ancora una volta, la lezione della storia che tragicamente ci ricorda anche per le cosiddette super potenze - che una volta iniziata una guerra non si sa mai quando (e come) andrà a finire. L'unica certezza è che la vita delle persone è sconvolta per sempre». Al Cremlino suona come un'anàtema, l'annuncio di un giudizio divino, che prima o poi arriverà. Non solo la Chiesa cattolica, ma anche gli ortodossi ormai hanno isolato il Patriarcato di Mosca. Il metropolita georgiano Ioseb de Shemokmedi accusa di eresia ogni vescovo che sostenga l'invasione militare russa all'Ucraina. Ma anche fra il clero e i fedeli russi serpeggia il malcontento.   

Mosca, Atene e Nicosia. Il grande gioco nella Chiesa di Cipro. Lorenzo Vita il 5 Gennaio 2023 su Inside Over.

Cipro ha un nuovo arcivescovo. Una notizia che può apparire secondaria rispetto alla grande macchina della geopolitica mediterranea. Eppure, in un mosaico complesso come quello di Cipro, diviso tra turchi a nord e greco-ciprioti a sud, vecchio avamposto degli interessi russi ma con due basi britanniche, incastonato nel bollente Mediterraneo orientale e con Ankara che sfrutta il suo protettorato nella parte nord dell’isola, anche la Chiesa ortodossa assume un ruolo centrale.

Un intricato gioco di fede, religione, politica e diplomazia che è interessante per due ragioni: il modo in cui si elegge il primate e il risultato che si è raggiunto.

Il primo è un elemento solo apparentemente secondario: l’arcivescovo della Chiesa ortodossa di Cipro viene eletto anche attraverso il voto “popolare”. Anche ma non solo, perché se la prima parte dell’elezione è basata sul suffragio universale, la seconda, dove si sceglie tra i tre candidati più votati al primo turno, avviene a porte chiuse nel Santo Sinodo.

Le ultime elezioni sono avvenute a dicembre. La comunità ortodossa di Cipro doveva eleggere il successore di Chrysostomos II, morto a novembre per un male incurabile, e il voto popolare si è tenuto il 18 dicembre con un primo elemento di novità: sono stati esclusi gli elettori stranieri. Una norma della Chiesa cipriota permetteva infatti la possibilità che gli stranieri residenti sull’isola e attivamente coinvolti nella comunità ortodossa partecipassero al voto. Questa volta invece – secondo alcuni analisti per escludere la folta comunità russa – si è preferito circoscrivere l’elezione ai soli cittadini. I tre candidati che avevano ottenuto più consensi sono stati il vescovo di Limassol, Athanasios, il vescovo di Paphos, Georgios, e il vescovo di Tamasos, Isaiah. Athanasios, con circa un terzo dei consensi, è risultato il più votato al primo turno ed era considerato il candidato “filorusso”, particolarmente legato alla comunità russa presente sull’isola e in particolare nella sua città, Limassol. Anche su Isahia, terzo più votato, si vocifera di un profondo legame con la Russia dato dai suoi studi a Mosca e da alcune posizioni molto più vicine alla “Terza Roma”. Diverso invece il profilo di Georgios di Paphos, profondamente legato al vecchio arcivescovo di Cipro e al patriarca ecumenico Bartolomeo, sostenitore dell’autocefalia della Chiesa ucraina da quella russa, ha studiato in Grecia e in Inghilterra e ha avuto anche un rapporto burrascoso con la Turchia finito di fronte alle corti internazionali.

Il Santo Sinodo, che riunisce i vescovi del Paese, ha scelto Georgios. Con 11 voti su 16, i vescovi della Chiesa di Cipro hanno deciso con voto segreto di dare al metropolita di Paphos le chiavi della Chiesa nazionale. E così, Nicosia si mantiene nel solco del precedente primate, Chrysostomos, ma mostra anche delle venature interessanti sia sotto il profilo interno che sotto quello internazionale. Sotto il primo profilo, il fatto che i fedeli votanti siano stati una minoranza pone dei dubbi sull’interesse di larga parte della popolazione ma anche del vulnus rappresentato dall’esclusione degli stranieri, ammessi nel 2010. In secondo luogo, è interessante che un terzo dei voti tra tutti i candidati sia andato a un vescovo molto distante dal predecessore, già sfidato alle elezioni, e non a uno fedele alla linea voluta da Nicosia e apprezzata anche nel patriarcato di Costantinopoli.

Dal punto di vista interno ma anche internazionale, invece, è interessante la scelta di Georgios soprattutto se letta nell’ottica delle prossime elezioni politiche che si svolgeranno nell’isola e del percorso strategico intrapreso da Cipro negli ultimi anni. La Chiesa nazionale sarà probabilmente in linea con il nuovo governo così come con il corso dell’attuale esecutivo. Come ha spiegato il quotidiano greco Kathimerini, il nuovo primate della comunità ortodossa dell’isola esprime, sul piano ecclesiastico, quello che lo Stato cipriota esprime sul piano internazionale. Da tempo Nicosia si sta sganciando dalla forte influenza di Mosca e dell’oligarchia russa, che vede da sempre Cipro come una centrale dei propri interessi. In asse con Israele e con la Grecia, e sempre più attenta alle posizioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea, Cipro oggi è un Paese molto più occidentale dei decenni precedenti, e questo lo si nota anche sul piano militare. Goergios, arcivescovo di “Nuova Giustiniana e di tutta Cipro”, sostenendo la linea dell’autocefalia di Kiev e dell’avvicinamento al patriarca ecumenico Bartolomeo contro l’influenza del patriarca di Mosca, Kirill, rappresenta perfettamente questo nuovo corso politico sul piano della religione. E in questo senso, il Santo Sinodo sembra avere le idee molto chiare sul futuro dell’isola.

Chiesa greco-cattolica ucraina.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Chiesa greco-cattolica ucraina

Classificazione cattolica

Fondata 1595

Associazione È una Chiesa sui iuris della Chiesa cattolica

Diffusione Ucraina, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Norvegia, Polonia, Regno Unito, Svezia, Canada, Stati Uniti d'America, Australia, Argentina, Brasile

Primate Papa Francesco Svjatoslav Ševčuk

Forma di governo episcopale

Congregazioni 4 175

Membri 5 milioni

Vescovi 43

Presbiteri 3036

Diaconi 113

La Chiesa greco-cattolica ucraina (in ucraino: Українська Греко-Католицька Церква?, traslitterato: Ukraïns'ka Hreko-Katolyc'ka Cerkva) è una Chiesa di rito orientale e di lingua liturgica ucraina, presente in Ucraina (vedi Chiesa cattolica in Ucraina) e in altri paesi del mondo, che mantiene la comunione con la Chiesa di Roma, ed è considerata una Chiesa sui iuris nell'ambito della Chiesa cattolica.

La Chiesa ha per primate l'arcivescovo maggiore di Kiev-Halyč; la sede della Chiesa è stata ufficialmente trasferita dalla storica sede di Leopoli alla capitale Kiev, con conseguente modifica del titolo primaziale, il 21 agosto 2005. L'attuale titolare è l'arcivescovo maggiore Svjatoslav Ševčuk.

La Chiesa greco-cattolica ucraina ha numerose arcieparchie, esarcati apostolici e eparchie anche al di fuori dell'Ucraina, in Europa e America.

Storia

Durante il regno del granduca Jaroslav il saggio (1015-1054) in Ucraina prevalevano il rito, la disciplina e la lingua slavi, e su tali basi cristiane fu edificata la legislazione e la vita pubblica.

La rottura della comunione con la Sede apostolica di Roma da parte della Chiesa bizantina non fu immediata per la Chiesa dell'antica Rus', tanto è vero che il successore di Jaroslav, il principe Iziaslav, trovandosi in difficoltà si rivolse nel 1075, tramite il figlio Jaropolk, a papa Gregorio VII per mettere se stesso e il suo dominio sotto la protezione di Roma.

Poiché la Chiesa seguiva le vicissitudini della storia del paese, in seguito si trovò divisa tra la comunione con Roma e la comunione con Costantinopoli prima, e con Mosca poi. Fu concordata un'unione, detta Unione di Brest, nel 1595 a Roma, poi ratificata a Brest Litovsk nel 1596: in quell'occasione, oltre all'arcieparchia metropolitana di Kiev (dove si trova la chiesa di Santa Sofia fatta costruire da Jaroslav il saggio) e ad altre eparchie dette della Rutenia Bianca, si unirono delle terre rimaste in territorio ucraino e cioè le eparchie della Volinia.

Ma nella regione di Kiev i Cosacchi, oltre a una loro rivendicazione politica di un'Ucraina libera e indipendente dalla Polonia e dalla Russia, vollero il ritorno della gerarchia ortodossa, considerando l'unione con Roma una cosa polacca. L'unione fu comunque ristabilita nel 1620 e il Metropolita si stabilì nella città di Kiev. Il più importante di questi Metropoliti fu Pietro Mogila, il quale fondò a Kiev una scuola di tipo occidentale, divenuta più tardi una celebre Accademia Teologica. Ma neppure questa gerarchia durò a lungo.

In base alla pace di Andrusiv (1667) tra la Polonia e Moscovia, che pose fine alle principali guerre cosacche, tutta la riva sinistra del Dnepr e anche la città di Kiev sulla riva destra passarono alla Moscovia, che da allora assunse definitivamente il nome ufficiale di Russia. Il Patriarcato di Mosca volle allora assoggettare il Metropolita di Kiev alla sua giurisdizione, anche in base a un decreto conciliare, emanato prima del 1054, che riconosceva al Patriarca di Costantinopoli il diritto di evangelizzazione delle terre d'oriente.

Questo diritto di evangelizzazione era esercitato da Mosca in nome e per conto dell'ecumene ortodosso, ma fu applicato dopo una lunga resistenza nel 1685. Nel XVIII secolo la Chiesa che si trovava in Polonia prima dell'ennesima spartizione della Polonia, la metropolia di Kiev unita, contava fino a 12 milioni di fedeli, di cui una parte di biancoruteni (al Nord) e l'altra di ucraini (al Sud).

Seguendo la storia della nazione polacca, la Chiesa greco-cattolica ucraina, caduta l'ultima illusione di indipendenza dalla Russia con la sconfitta di Napoleone I, fu posta sotto l'amministrazione dallo zar di tutte le Russie alle dipendenze del patriarcato di Mosca. La resistenza del clero e dei fedeli cattolici fu lunga ed eroica. Molti furono deportati in Siberia e non pochi preferirono morire pur di rimanere in comunione con Roma. Scomparsi i propri sacerdoti greco-cattolici, avendo il clero latino ricevuto ordini severissimi di non prestare ministero agli uniati per non avere ripercussioni politiche, alcuni gesuiti della provincia di Galizia (allora territorio dell'Impero austro-ungarico), provveduti di facoltà speciali, esercitarono presso di loro clandestinamente un apostolato pieno di difficoltà e di pericoli.

Quando nel 1905 fu data la libertà religiosa (rimanendo tuttavia in vigore il divieto di costituire comunità cattoliche di rito bizantino-slavo), un numero considerevole di fedeli si dichiararono pubblicamente cattolici di rito latino. Altri poterono tornare all'Unione nel periodo fra il 1918 e il 1938, conservando il proprio rito. Per essi la Sede apostolica nominò nel 1931 un visitatore apostolico nella persona del vescovo redentorista Mykola Čarnec'kyj, morto nel 1959, proclamato beato nel 2001 da papa Giovanni Paolo II.

Iniziata la "guerra fredda", dopo la fine della seconda guerra mondiale, il regime comunista, a partire da Stalin che considerava la religione e la Chiesa di Roma nemici del comunismo, perseguitò in diversi modi le Chiese fedeli a Roma come pure l'Ortodossia. Con il pontificato di papa Giovanni XXIII e le aperture del Concilio Vaticano II, grazie all'appoggio dato dal papa alla soluzione per la crisi dei missili a Cuba avvenuta tra il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy e il Segretario Generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica Nikita Chruščëv, si stabilirono relazioni non ufficiali tra la Curia romana e il Partito Comunista dell'Unione Sovietica per il rilascio dai gulag siberiani di membri della gerarchia cattolica uniate, in particolare di Josyp Slipyj nominato cardinale in pectore da Giovanni XXIII, senza però che fosse reso pubblico, e divenendolo ufficialmente solo nel 1965 per opera di papa Paolo VI, permettendo così seppur molto lentamente la rinascita della Chiesa greco-cattolica ucraina.

Struttura.

In Ucraina.

L'Ucraina, a eccezione della Transcarpazia, rappresenta il territorium proprium dell'arcivescovato maggiore di Kiev-Halyč, direttamente dipendente dall'arcivescovo maggiore, dal 2011 Svjatoslav Ševčuk.

Ratzinger e la lettera segreta su Putin prima di morire. Libero Quotidiano il 05 gennaio 2023

Ai funerali di Benedetto XV anche diversi vescovi ucraini. Tra questi Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina. È stato lui a parlare di una missiva giunta dallo stesso Ratzinger. All’inizio dell’aggressione russa, infatti, il papa emerito ha inviato una breve lettera al Capo e Padre della Chiesa greco-cattolica ucraina: "All’inizio della guerra, il Papa Emerito ha voluto inviarmi la sua lettera assicurando al popolo aggredito la sua vicinanza e le preghiere per la pace". Sentimenti poi ribaditi da Ratzinger durante un faccia a faccia con Shevhcuck, quello avvenuto lo scorso 9 novembre. "Il Papa Emerito - ha fatto sapere l'arcivescovo di Kiev - intercedeva per la Chiesa in Ucraina ed era attento a ogni situazione".

Nella missiva datata 7 marzo 2022, Benedetto XVI scriveva: "In quest’ora di grande difficoltà per il Suo popolo, Le sono vicino e vorrei assicurarLe che Lei e la Sua Chiesa siete sempre presenti nelle mie preghiere. Che il Signore La protegga e La guidi giorno dopo giorno. Che Egli soprattutto vinca l’accecamento che ha condotto a simili misfatti. Con questi sentimenti, rimango Suo nel Signore. Benedetto XVI". 

E ancora, spiega Shevchuk, "in mezzo al dramma della guerra eravamo sicuri che nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano nella sua grande e altrettanto umile personalità abbiamo un supplicante del Signore per la pace nella “martoriata Ucraina". Shevchuk ha così voluto ringraziare personalmente Benedetto XVI: "Nella nostra conversazione – ricorda – Papa Benedetto XVI, già molto debole però lucido, mi ha assicurato: ‘Continuo a pregare per l’Ucraina’. Sono convinto che anche adesso nella sua persona il nostro popolo avrà un intercessore davanti al trono del Signore". Sua Beatitudine conclude la lettera assicurando a Papa Francesco "le preghiere per l’anima di Benedetto XVI da parte dei vescovi, clero, religiosi e fedeli della Chiesa greco-cattolica ucraina". 

Ecco cosa scrisse Benedetto XVI all’arcivescovo di Kiev dopo lo scoppio della guerra. Il Domani il 05 gennaio 2023

«In quest’ora di grande difficoltà per il suo popolo, le sono vicino e vorrei assicurarle che lei e la sua chiesa siete sempre stati presenti nelle mie preghiere», aveva scritto Benedetto XVI lo scorso 7 marzo

C’è una lettera che Benedetto XVI ha scritto per l’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk e che è stata resa pubblica solo ora a quasi una settimana dalla sua morte. Nella lettera l’allora papa emerito aveva espresso la sua solidarietà al popolo ucraino a pochi giorni dall’inizio della guerra iniziata il 24 febbraio.

Nella lettera, datata 7 marzo, Benedetto XVI scrive: «In quest’ora di grande difficoltà per il suo popolo, le sono vicino e vorrei assicurarle che lei e la sua chiesa siete sempre stati presenti nelle mie preghiere. Che il signore le protegga e la guidi giorno dopo giorno. Che egli soprattutto vinca l’accecamento che ha condotto a simili misfatti».

Un messaggio di forte vicinanza all’arcivescovo ucraino nel momento in cui l’esercito russo stava tentando di prendere il controllo di Kiev e avanzava nel Donbass. Poche settimane prima della morte l’arcivescovo Shevchuk aveva fatto visita a Benedetto XVI e aveva citato la lettera ricevuta a marzo.

Lo scorso 31 dicembre non appena saputa la notizia del decesso di papa Ratzinger, l’arcivescovo ha inviato a Francesco una lettera di cordoglio: «Il pontificato di Benedetto XVI ha abbracciato la nostra chiesa con tanti gesti provvidenziali che hanno favorito la sua rinascita dopo la persecuzione comunista, e lo sviluppo autentico nei tempi moderni. Siamo riconoscenti al suo predecessore per il grande contributo nella crescita e nella formazione delle strutture della nostra chiesa e il sostegno in diversi ambiti della vita pastorale».

IL MESSAGGIO DI CORDOGLIO DI PUTIN

Nei giorni scorsi dopo la morte di Benedetto XVI, il presidente russo Vladimir Putin ha inviato un telegramma a Papa Francesco, nel quale ha ricordato Joseph Ratzinger come «un importante leader religioso e statista e un convinto sostenitore dei valori cristiani tradizionali».

«Durante il periodo del suo Pontificato, la Russia e il Vaticano hanno intessuto relazioni diplomatiche su vasta scala e le relazioni tra la chiesa ortodossa russa e la chiesa cattolica romana si sono sviluppate», ha aggiunto Putin. «Ho avuto la possibilità di incontrare questa persona straordinaria e conserverò i ricordi più cari di lui. Vorrei estendere la mia sincera solidarietà in quest’ora dolorosa», ha concluso il presidente russo.

Protestantesimo.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il protestantesimo è una branca del cristianesimo moderno. Sorta nel XVI secolo in Germania e in Svizzera in contrasto con l'insegnamento della Chiesa cattolica, considerata non solo nella prassi, ma anche nella dottrina non più conforme alla Parola di Dio, a seguito del movimento politico e religioso, noto come riforma protestante, derivato dalla predicazione dei riformatori, fra i quali i più importanti sono Martin Lutero, Ulrico Zwingli, Giovanni Calvino e John Knox, il tutto circa un secolo dopo il tentativo riformatore da parte di Jan Hus nella vicina Boemia e quasi due dopo quello di John Wyclif in Inghilterra, e circa più di tre secoli dopo la fondazione del valdismo (poi confluito nel protestantesimo) ad opera di Pietro Valdo nell'Italia del Nord e in Francia del Sud.

Presbiterio della cattedrale luterana di Uppsala, sede della Chiesa di Svezia.

Il Protestantesimo prende origine inizialmente dalla protesta del frate agostiniano Martin Lutero, docente di teologia all'università di Wittenberg. Questi il 31 ottobre 1517, irritato dalla predicazione del frate domenicano Johann Tetzel, pubblicò 95 tesi, elenco di quaestiones da sottoporre a pubblico dibattito su simonia, dottrina delle indulgenze e suffragio dei defunti nel purgatorio, intercessione e culto dei santi e delle loro immagini, che perciò andavano a toccare punti nodali dell'ecclesiologia medievale.

La protesta di Lutero, seguita da aspre polemiche tra domenicani e agostiniani, si tramutava in rivolta dopo la minaccia di provvedimenti del 1520, fino alla scomunica papale ed al bando imperiale del 1521, da cui lo salvò il suo principe, Federico III di Sassonia.

Porta della chiesa del castello di Wittenberg alla quale Martin Lutero, nel 1517, affisse le sue novantacinque tesi, dando così inizio alla Riforma protestante.

Col Luteranesimo le varie confessioni protestanti condividono un rifiuto dell'autorità del Papa (considerato ai tempi della Riforma come una sorta di anticristo), del culto di angeli, santi e della Madonna, ma anche un rifiuto del concilio ecumenico, e riconoscono solo alla Bibbia l'autorità suprema in materia di fede (sola scriptura). Dei sacramenti mantengono solo Battesimo ed Eucaristia, anche se coesistono diverse opinioni circa la presenza reale di Cristo nell'eucaristia (si afferma che i Luterani sostengano la consustanziazione in luogo della transustanziazione cattolica). Enfatizzano il sacerdozio di tutti i credenti, mentre viene negato un valore sacerdotale al ministero ordinato. Sostengono che la giustificazione dal peccato originale e la salvezza eterna siano ottenute solo per fede in Gesù e non tramite le opere umane (principi della sola fide e sola gratia).

Il termine "Protestante" nacque in seguito alla lettera di protesta dei principi elettori luterani contro la proclamazione della Dieta di Spira del 1529, in cui l'imperatore cattolico Carlo V del Sacro Romano Impero ribadì l'editto della Dieta di Worms del 1521, che aveva condannato Martin Lutero pervicace come eretico, ingiungendo la restituzione dei beni ecclesiastici da quelli subito incamerati. Tuttavia, il termine è stato usato in molti sensi diversi, spesso come un termine generale per riferirsi al Cristianesimo occidentale riformato e non più soggetto all'autorità papale o patriarcale, comprese varie chiese o congregazioni vecchie e nuove che non fanno parte del movimento protestante originale.

A partire dal XVI secolo i Luterani fondarono le loro chiese in Germania e nella Scandinavia, mentre le Chiese calviniste furono costruite principalmente da Zwingli e Calvino in Svizzera e in Francia (Ugonotti), e in Scozia esse lo furono da Knox, promotore del Presbiterianesimo; così come anche in Ungheria e in Polonia vi furono denominazioni locali aderenti alla Riforma.

La Chiesa d'Inghilterra, a sua volta, dichiarò l'indipendenza dall'autorità papale nel 1534, dando vita all'Anglicanesimo, senza mutamenti dottrinali o liturgici; ma successivamente, durante il regno di Edoardo VI, veniva influenzata dai valori della Riforma calvinista, che generò in seguito i Puritani. Dopo la breve restaurazione cattolica della regina Maria I d'Inghilterra, chiamata proprio per questo "Maria la Sanguinaria", la nazione tornava all'anglicanesimo, ma riformato, con la regina Elisabetta I d'Inghilterra. Importante poi fu l'Anabattismo, predicato dal già luterano Thomas Müntzer ed altri, ma subito combattuto e stroncato dai principi e a cui si rifece il Battismo, il cui primo predicatore fu John Smyth nei primi anni del XVII secolo e che concepiva il loro sacramento solo in età adulta.

Altri movimenti di riforma, conosciuti come "Riforma radicale", ebbero luogo anche nell'Europa orientale, come il movimento antitrinitario di Fausto Sozzini e altri, chiamato appunto Socinianesimo, dopo esser stato respinto dai calvinisti svizzeri. Infine, anche il moravianesimo aderì alla Riforma, dalla quale deriverà anche il Pietismo, quest'ultimo nato in seno al Luteranesimo.

Origine del termine

La diffusione in Germania delle famose 95 tesi di Lutero del 1517 causò l'apertura a Roma di un processo di eresia contro il monaco Agostiniano già nei primi mesi del 1518. Dopo una battuta d'arresto, coincisa con i negoziati per l'elezione del successore di Massimiliano I al trono dell'impero, alla quale il papa era maggiormente interessato, il processo giunse al termine con la riprovazione papale sancita dalla bolla Exsurge Domine, che ingiungeva la ritrattazione di 41 tesi. Ma la rivolta del frate del 10 dicembre 1520 portava alla bolla Decet romanum pontificem, nella quale Lutero venne scomunicato. La sentenza fu eseguita dalla Dieta imperiale riunita a Worms nel 1521 alla presenza dell'imperatore Carlo V, che lo bandiva dall'impero.

L'idea imperiale di un'unità religiosa dell'impero, magari mediante un concilio, non aveva nessuna possibilità di concretizzarsi; al contrario, il movimento luterano, subito protetto dal Duca di Sassonia, si estendeva con l'appoggio di numerosi principi territoriali, che nella prima Dieta di Spira (1526) riuscirono ad introdurre una tacita tolleranza religiosa.

Nella seconda Dieta di Spira (1529), il partito cattolico sancì il ripristino del bando del 1521 e la restituzione dei beni ecclesiastici incamerati dai principi filoluterani. In quell'occasione, i principi che si erano schierati a fianco di Lutero ed erano favorevoli alla riforma, redassero un documento comune che dichiarava come inviolabili i diritti della coscienza e della parola di Dio, di cui i principi avrebbero garantito la libera predicazione nel Sacro Romano Impero. Tale documento iniziava con la parola protestamur, ovvero "dichiariamo solennemente", e questo termine venne a indicare per estensione le chiese cosiddette "evangeliche" che ebbero fondamento ed origine dalla riforma protestante, e il cui diritto di esistenza veniva riconosciuto proprio grazie a quel protestamur. In realtà si passava alle armi, e solo nel 1555, con la pace di Augusta venne sancito il principio del cuius regio, eius religio, secondo il quale luteranesimo e cattolicesimo diventavano religioni di Stato in base alla confessione del principe e soggette al principe se luterane.

Descrizione

Teologia

Dal punto di vista teologico, il protestantesimo, come l'ortodossia, sia cattolica sia orientale, accetta le confessioni di fede della chiesa antica, la definizione di Calcedonia, il simbolo niceno-costantinopolitano e il simbolo apostolico. Le divergenze si sviluppano sulla cristologia, circa questioni non esplicitamente trattate nelle antiche confessioni di fede, in particolare: il ruolo della grazia, la relazione che intercorre tra la fede e le opere (cioè l'azione, la vita pratica), e quella tra la Parola e il magistero della Chiesa. Infatti, sono comuni alle varie chiese appartenenti alla famiglia protestante i princìpi qui elencati:

Le 95 tesi di Lutero

Solus Christus: dal momento che Dio è amore, può agire il Suo amore in totalità e libertà attraverso la grazia. L'essere di Dio che liberamente si dona è Gesù Cristo. Gesù è quindi la parola vivente di Dio che perdona i nostri peccati. Visto dalla parte dell'uomo, Dio può essere compreso solo attraverso Cristo; nessuna promessa della salvezza può essere intesa correttamente se non in relazione alla vita, morte e resurrezione di Gesù. In questo senso, in Gesù, ed esclusivamente in Gesù, si concentra l'interesse, lo sguardo, la riflessione, la teologia del credente.

Sola Gratia: l'uomo, essendo costituzionalmente peccatore, per quanto si sforzi di operare rettamente non arriverà mai a meritare la salvezza, ma Dio la offre gratuitamente per amore. Non esiste alcuna cooperazione da parte dell'uomo, né predisposizione, "tutto, nell'evento salvifico, è affidato all'iniziativa di Dio in Cristo soltanto." Dio perdona l'uomo; la giustificazione uccide l'uomo vecchio e solo da questo momento nasce l'uomo nuovo, secondo quanto riportato nella lettera ai Romani 6,12-23. Il credente è sempre peccatore e costantemente salvato di nuovo: "peccatore di fatto, ma giusto nella speranza; peccatore nella realtà, ma giusto agli occhi di Dio e in virtù della sua promessa". L'uomo nuovo sarà indotto a ben operare, spinto dall'amore di cui Dio lo ha ricolmato, anche se immeritatamente, ma rimarrà consapevole che non sono le sue buone opere a salvarlo, ma solo la Grazia del Signore.

Sola Fide: la fede consiste non solo nel credere nelle Scritture ma nella fiducia nel fatto che Cristo ci è stato mandato per compiere la nostra salvezza. "La fede mette a disposizione dei credenti Cristo stesso e i suoi benefici, ossia il perdono, la giustificazione e la speranza". La giustificazione per fede consiste, secondo Lutero, nel fatto che Dio fornisce tutto il necessario per la salvezza e l'essere umano compie solo l'atto passivo di riceverla. Ma chi è giustificato, non per questo è immune dal peccato; si ha qui la dottrina del simul iustus et peccator: il riformatore, rifacendosi a Romani 7, 14-25, sostiene che "l'evangelo (...) mi dice che sono giusto, ma, nello stesso tempo, mi rende consapevole di essere un peccatore. (...) Il peccato esiste ed è all'opera, ma non è la forza decisiva che governa l'esistenza."

Sola Scriptura: la Bibbia è l'unica autorità per il cristiano, in quanto viene ricevuta come se Dio parlasse in essa. L'autorità dei papi e dei concilii è subordinata a quella della Bibbia, anzi si misura sulla base della sua fedeltà alla Scrittura. Tale principio si pone in forte contrasto con il ruolo della tradizione nella dottrina cattolica. Il concetto di "tradizione" viene ad assumere notevole importanza nel tardo Medioevo: se nella chiesa del II secolo, in risposta a varie controversie, in particolare allo gnosticismo, si era delineata l'idea di un'interpretazione "legittima" delle Scritture, nel XIV e XV secolo la tradizione viene intesa come un'altra fonte di rivelazione, separata, che va aggiunta alla Scrittura; la dottrina, dunque, si basa su una fonte scritta (la Bibbia) ed una non scritta (la tradizione). Solo la corrente più radicale della Riforma (anabattismo) applicò in maniera assoluta il rigetto della tradizione; la maggior parte dei riformatori, temendo l'individualismo di una lettura del tutto personale della Bibbia, accettò la tradizione patristica e si limitò a criticare gli aspetti in cui la teologia e la prassi della chiesa cattolica contraddicevano o travalicavano la Scrittura. C'è da notare che vi sono alcune differenze tra il canone cattolico romano e quello delle bibbie protestanti: i libri deuterocanonici, compresi nella Septuaginta ma non nel canone ebraico, non fanno parte del canone delle bibbie protestanti. Non c'è quindi solo una divergenza sul valore della Scrittura ma anche su cosa sia da considerare Scrittura.

Motivo: Non sono tanto le informazioni ad essere inesatte, ma la mancanza di fonti e la forma propagandistica richiedono una formulazione più adeguata.

Per contribuire, correggi i toni enfatici o di parte e partecipa alla discussione. Non rimuovere questo avviso finché la disputa non è risolta. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.

* Soli Deo Gloria: A Dio soltanto ed al Suo Cristo deve andare la gloria per la salvezza, per la fede, e per le opere buone eventualmente compiute. "Così parla il Signore: «Il saggio non si glori della sua saggezza, il forte non si glori della sua forza, il ricco non si glori della sua ricchezza: ma chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il SIGNORE. Io pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, perché di queste cose mi compiaccio», dice il Signore" (Geremia 9.23-24). Il Soli Deo gloria si contrappone così all'esagerata esaltazione di una qualsiasi creatura o prodotto umano, quale che sia la sua elevata condizione, che possa divenire oggetto d'idolatria. Non ci sono quindi "santi", autorità religiose o civili, ideologie o realizzazioni umane che possano vantare alcunché di per sé stesse, perché tutto ciò che hanno e sono deriva da Dio, al quale solo va rivolto il culto, la lode, le preghiere. A nessuno è consentito di "essere elevato alla gloria degli altari". Al riguardo del Cristo la Scrittura dice: "Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre" (Filippesi 2:9-11).

Relativamente alla Sacra Scrittura, uno degli aspetti che favorirono enormemente la diffusione del Protestantesimo in ambienti sia colti che popolari, fu il fatto che affermava il diritto di tutti sia a leggere che interpretare la Bibbia, mentre la Chiesa tradizionale, come ribadito dal Concilio di Trento, riservava l'interpretazione alla gerarchia e permetteva solo Bibbie tradotte in greco o latino, vietando ai laici di possedere e leggere Bibbie in lingua volgare o testi che trattassero dell'interpretazione delle Scritture senza permesso.

Sacramenti: se per la chiesa cattolica sono segni sensibili ed efficaci della grazia, attraverso i quali viene elargita la grazia, per il protestantesimo invece non hanno alcuna sacralità ma sono semplicemente segni, che rendono tangibili le promesse di Dio attraverso oggetti d'uso quotidiano per rassicurare la debolezza della fede degli esseri umani. Fin dai primi riformatori, vengono riconosciuti solamente il battesimo e l'eucaristia, in quanto «solo in questi vediamo un simbolo istituito da Dio e la promessa della redenzione dei peccati». Per approfondire la concezione dell'eucaristia nel protestantesimo, si veda la voce Santa Cena.

Sacerdozio universale: non esiste la figura di un mediatore tra l'essere umano e Dio. Gesù è il sacerdote che riconcilia definitivamente Dio all'uomo (come espresso in Ebrei 7, 24) ed al contempo, «svuotando il sacerdozio delle prerogative di casta, (...) ha instaurato il Sacerdozio universale di tutti i credenti, uguali fra loro in dignità e importanza, pur nelle diverse vocazioni e nei diversi servizi»

Ecclesia semper reformanda: la chiesa, come organizzazione, dev'essere costantemente in movimento, riformandosi continuamente per rimanere fedele alle Scritture.

Etica protestante

L'etica protestante deriva dal concetto teologico della salvezza per sola grazia, che i riformatori Lutero e Calvino desumono dalle lettere di Paolo di Tarso (specialmente la lettera ai Romani) e dagli scritti dei padri della Chiesa, in particolare sant'Agostino.

Il credente, che sa di essere nella condizione di peccatore, conosce la salvezza per la sola grazia di Dio, mediante gli esclusivi meriti di Gesù Cristo; non sono le opere umane che determinano la salvezza; tuttavia, in forza di questa certezza che il credente percepisce per fede, egli si sente chiamato a rispondere all'amore gratuito di Dio mediante un comportamento che cerca di porsi alla sequela del Cristo, pur nella consapevolezza della continua fallibilità umana.

Le esperienze fondamentali della vita etica del credente sono la conversione, la rigenerazione e la santificazione: quest'ultima è una condizione possibile per ogni essere umano, non solo per alcuni, nel momento in cui riesca a volgere il proprio comportamento in senso etico. Si evidenzia anche un prevalere di regole comportamentali non dogmatizzate ma lasciate alla coscienza del singolo.

La predestinazione, nell'ambito di questa dottrina della salvezza per grazia, è il riconoscimento della libertà assoluta di Dio riguardo al destino degli esseri umani: perciò non compete all'uomo la capacità di giudicare il destino degli altri esseri umani. Piuttosto, la certezza di essere salvato conduce l'uomo ad un personale impegno nel mondo, vissuto nella libertà e nella responsabilità; questo impegno si traduce anche nella scoperta di una vocazione che non deve essere vissuta esclusivamente nell'ambito religioso, ma piuttosto si deve esprimere pienamente, sia per i religiosi che per i laici, nella quotidianità della vita e nel lavoro.

Nell'epoca contemporanea alcune grandi personalità hanno dato esempi di testimonianza dell'etica protestante vissuta come impegno nel mondo: il medico e teologo riformato Albert Schweitzer, fondatore di un ospedale nel Gabon, premio Nobel per la pace nel 1953; il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, che con la fondazione della Chiesa confessante si oppose al nazismo e perciò fu incarcerato e giustiziato; il pastore battista Martin Luther King, premio Nobel per la pace nel 1964, che combatté con metodi nonviolenti la segregazione razziale e morì assassinato; il presidente Nelson Mandela (metodista), premio Nobel per la pace nel 1993, e il vescovo anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace nel 1984, che hanno combattuto l'apartheid in Sudafrica.

Relazioni con lo Stato

Una caratteristica delle chiese sia cattoliche che protestanti dal periodo dalla Riforma alle guerre di religione è stato lo stretto legame con lo Stato, secondo il principio del cuius regio eius religio. Queste forme anacronistiche sopravvivono ancora oggi nel protestantesimo nelle chiese di Stato dei paesi scandinavi, nei Paesi Bassi, in qualche cantone svizzero, nella Landeskirche tedesca e in Inghilterra, dove il sovrano è ancora supremo governatore della Chiesa anglicana (seppure si tratti ormai di un ruolo puramente formale). Tuttavia, nella pratica di fede, l'ecclesiologia tipica delle chiese riformate, come già indicato da Calvino nel quarto libro dell'Istituzione della religione cristiana, prescrive ai credenti una netta separazione tra vita spirituale e potere secolare.

La relazione fra potere politico e religione è stata, al contrario, violentemente conflittuale per la cosiddetta "ala radicale" del protestantesimo (anabattisti, quaccheri). Inoltre, fu conflittuale in quei Paesi, come la Francia e gran parte dell'Italia nel XVI e XVII secolo, dove la convenienza politica spingeva i sovrani al potere a schierarsi dalla parte del papato. Quindi, persecuzioni, stermìni e carcerazioni di massa furono occasionalmente o permanentemente attuate contro gruppi aderenti alla Riforma: è questo per esempio il caso dei valdesi (che avevano aderito alla Riforma nel 1532) nelle Alpi occidentali, in Calabria e in Linguadoca, dei gruppi luterani, calvinisti o anabattisti in tutte le principali città italiane, o degli ugonotti in Francia.

Un principio accomuna tanto le chiese che collaborano con il contesto socio-politico che quelle che vi si oppongono: il protestantesimo non ha mai come obiettivo quello di "cristianizzare" la società civile, al contrario auspica l'autonomia della sfera religiosa da quella politica, in una forma ben sintetizzata dal motto del teologo e filosofo svizzero Alexandre Vinet, ripreso da Cavour, "Libera chiesa in libero Stato".

Denominazioni protestanti

Sotto il termine "protestantesimo" si riunisce un variegato universo di chiese ed organizzazioni ecclesiastiche, alcune delle quali molto diverse tra loro; inoltre, una stessa chiesa può presentare notevoli differenze nell'organizzazione delle comunità e nella liturgia a seconda delle diverse zone geografiche.

Chiese storiche

Nel protestantesimo contemporaneo, tre famiglie di chiese si pongono in continuità con la Riforma del '500: luterani, riformati e anglicani. Queste sono anche dette "chiese storiche". I loro princìpi confessionali ed organizzativi si fondano sul pensiero dei principali riformatori europei: Martin Lutero, Ulrico Zwingli, Giovanni Calvino, Thomas Cranmer, John Knox.

Queste chiese sono caratterizzate da alcuni aspetti comuni: innanzitutto, presentano solidi fondamenti dottrinali, che affondano le loro radici negli scritti dei riformatori del XVI e XVII secolo; tali fondamenti sono tuttavia affiancati da uno spiccato interesse per l'elaborazione teologica. Alcuni tra i maggiori teologi moderni, il cui pensiero travalica i confini di carattere confessionale, provengono da queste chiese: si pensi ad esempio al riformato Karl Barth o ai luterani Dietrich Bonhoeffer e Paul Tillich. Inoltre, vi si ritrova un forte interesse per le questioni sociali, che si manifesta sia nell'elaborazione teorica che nell'impegno politico. Infine, le chiese storiche sono caratterizzate da una particolare sensibilità ecumenica: infatti, nell'ambito di queste chiese è stato istituito il Consiglio Ecumenico delle Chiese e la Comunione delle Chiese Protestanti in Europa (Concordia di Leuenberg).

Nel protestantesimo confluì anche il valdismo, nato nel XII secolo e sopravvissuto nonostante la durissima persecuzione. Vivendo nella clandestinità, e spesso riuscendo a nascondersi in zone eccentriche, il movimento valdese riuscirà ad arrivare al XVI secolo e ad aderire alla Riforma protestante calvinista nel 1532 col sinodo di Chanforan, segnando una svolta decisiva per il futuro della comunità.

Chiesa luterana

Lo stesso argomento in dettaglio: Luteranesimo e Religioni in Germania.

Le chiese appartenenti a questa famiglia preferiscono essere chiamate semplicemente "evangeliche", o "chiese della Confessione di Augusta", tanto più che Lutero stesso aveva vietato di dare il suo nome alle comunità ispirate dal suo pensiero, tuttavia la dizione "Chiesa luterana" è ormai entrata nell'uso comune.

«(...) Per la vera unità della Chiesa è sufficiente l'accordo sull‘insegnamento dell'Evangelo e sull'amministrazione dei sacramenti. Non è invece necessario che siano ovunque uniformi le tradizioni istituite dagli uomini, cioè i riti o le cerimonie (...)»

(Confessione augustana, parte I, articolo VII "La Chiesa")

Tale articolo della Confessione definisce molto chiaramente che l'unità della chiesa è un elemento fondante della testimonianza cristiana. La sostanza della chiesa secondo la visione luterana consiste nella predicazione del Vangelo (consistente strettamente nella spiegazione di brani biblici) e nell'amministrazione dei sacramenti, che sono due, come in tutte le altre chiese evangeliche: battesimo e Santa Cena. Non è contemplata, invece, alcuna forma di sottomissione ad un'autorità religiosa. Inoltre, tale impostazione consente una grande varietà e libertà di espressioni liturgiche ed organizzative.

La quasi totalità delle chiese luterane fa parte della Federazione Mondiale Luterana (Lutherischer Weltbund), fondata nel 1947, con sede a Ginevra. La Federazione ha funzioni di collegamento e si occupa in particolare di elaborazione teologica e di rappresentare il mondo luterano a livello mondiale nei confronti di altre organizzazioni religiose.

Chiese riformate

Le chiese riformate, diversamente da quelle luterane e anglicane, sono composte oggi da un mosaico composito di realtà diverse tra loro. Tutte affondano le loro radici nell'attività riformatrice di Giovanni Calvino e Huldrych Zwingli.

Sono presenti in 108 paesi del mondo e contano 80 milioni di aderenti, distribuiti tra chiese Presbiteriane, Riformate, Congregazionaliste, Unite o Unificate, aderenti alla World Communion of Reformed Churches. La diffusione maggiore si ha fuori dell'Europa, in particolare in Africa (25 milioni), ed Asia (20 milioni, concentrati soprattutto in Corea del Sud ed Indonesia); in Europa i riformati sono 18 milioni, la maggior parte dei quali in Germania, Paesi Bassi e Svizzera, mentre in America del Nord sono 14 milioni.

Dal punto di vista dell'organizzazione ecclesiastica, un forte accento è posto sulla comunità locale (che si considera "chiesa" a tutti gli effetti), retta da un concistoro o consiglio di chiesa. In ciascuna chiesa vi è una larga pluralità di ministeri non gerarchici: pastore, anziano o presbitero, diacono. Le chiese più antiche o di formazione missionaria sono rette da sinodi, mentre quelle più recenti, soprattutto in Africa, prediligono il modello congregazionalista.

I riformati condividono le principali affermazioni dottrinali di luterani ed anglicani.

Il culto, incentrato sull'annuncio della parola di Dio, dà anche ampio spazio al canto, come espressione dell'assemblea dei fedeli, seppure in forma particolarmente austera. La Cena del Signore è generalmente celebrata a scadenza mensile o addirittura solo nelle principali festività; in essa, la presenza reale di Cristo è intesa in senso spirituale e non materiale.

Per quel che riguarda il battesimo, sono praticati correntemente sia il pedobattismo che il battesimo dei credenti adulti; tuttavia, non è condizione sufficiente per essere considerati membri di chiesa: occorre una dichiarazione pubblica e consapevole di fede.

In Italia, la principale chiesa riformata è la Chiesa valdese, che tuttavia nel 1975 si è unita attraverso un Patto d'integrazione con la Chiesa metodista d'Italia, creando l'Unione delle chiese metodiste e valdesi.

Comunione Anglicana

L'appartenenza delle chiese della Comunione Anglicana al protestantesimo è ancora oggi oggetto di dibattito. Se le radici dell'autonomia della chiesa d'Inghilterra si ritrovano nella Magna Carta (1215), che sanciva l'indipendenza della sede arcivescovile di Canterbury sia dal papa che dal re, questa venne affermata con l'Atto di Supremazia (1534), nel quale il Parlamento dichiarava il re Enrico VIII (e dopo di lui i suoi eredi e successori) "capo supremo della Chiesa d'Inghilterra". Solo successivamente, gradualmente ed in forma parziale, penetrarono nella sua teologia alcuni principi del protestantesimo. Dopo il 1688, una grande parte degli anglicani inglesi partirono, formando altri gruppi (presbiteriani, congrezionalisti, battisti, quaccheri e successivamente metodisti); all'interno dell'anglicanesimo rimasero solo le parti più moderate e conservatrici.

La formalizzazione della Comunione Anglicana (Anglican Communion), sotto la presidenza dell'arcivescovo di Canterbury, avvenne nel 1811.

La sua diffusione si può dividere in due fasi: la prima, nel XVII secolo, fu caratterizzata dalla diffusione in Gran Bretagna e nelle colonie (America del Nord, Australia, Nuova Zelanda); la seconda, risultato dell'opera missionaria, nel resto del mondo (America del Sud, Africa, Asia).

Oggi, la chiesa anglicana è presente in 160 paesi e conta più di 70 milioni di membri; solo 26 milioni vivono in Gran Bretagna e Irlanda, mentre ben 42 milioni sono africani. Afferma ancora Gajewski: "il vero centro della Comunione anglicana non si trova più in Inghilterra. Non è casuale che oggi l'anglicano più celebre nel mondo sia l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu."

In Italia, vi sono una ventina di comunità appartenenti alla Diocesi Anglicana in Europa, più alcune comunità episcopali (Episcopaliane), frequentate in gran parte da cittadini inglesi

Chiese battiste

Il Battismo nasce nel puritanesimo inglese del XVII secolo, sebbene si colleghi idealmente all'Anabattismo, un movimento di riforma radicale della chiesa che, nato a Zurigo nel 1525, si era diffuso in Svizzera, Germania centro-meridionale, Tirolo, Paesi Bassi, Moravia, ed aveva avuto varie diramazioni, tra cui in Veneto.

Dal punto di vista dottrinale, i battisti mantengono un legame con le loro origini puritane attraverso il biblicismo, la moralità, l'anticlericalismo. Vi è inoltre un aspetto caratteristico: la chiesa dev'essere composta da credenti convinti e consapevoli; questo elemento di base si esplicita nella pratica del battesimo dei credenti (ovviamente adulti), che è al tempo stesso testimonianza della fede personale e segno della grazia di Dio.

Le chiese battiste sono congregazionaliste: le comunità locali sono tutte uguali fra loro e, in linea di principio, indipendenti. Esistono "unioni" o "convenzioni" di varie chiese, che esprimono assemblee generali con potere decisionale e comitati direttivi che le amministrano, ma si tratta appunto di libere unioni di soggetti indipendenti, e non di una chiesa unitaria divisa in "parrocchie". La chiesa battista si regge sulle offerte volontarie dei credenti, ed ha sempre affermato la necessità di una separazione tra Chiesa e stato per poter conservare la libertà religiosa.

Molte chiese aderiscono all'Alleanza mondiale battista (Baptist World Alliance, BWA), che contava, al dicembre 2012, 172 948 chiese aderenti in 121 paesi di tutti i continenti, per un totale di 39 584 294 membri A questi numeri, tuttavia, vanno aggiunte le cifre delle chiese che non aderiscono all'Alleanza, che per Bouchard (2006) compongono un totale di circa 110 milioni di credenti.

Chiese dissidenti, deviate o revivaliste

Movimento metodista

Il metodismo è un'espressione del protestantesimo e ha dato vita ad una delle chiese evangeliche più diffuse nel mondo (circa 70 milioni di fedeli), caratterizzandosi ovunque per profonda spiritualità, dinamismo evangelico e marcata sensibilità verso i problemi etici, sociali e politici; questo movimento venne iniziato dal pastore anglicano John Wesley nel XVIII secolo.

Chiesa Avventista del settimo giorno

Ha le sue origini nel millerismo, uno dei vari movimenti della rinascita spirituale statunitense del XIX secolo, formatosi a partire dagli anni '30 intorno a William Miller, un predicatore battista che aveva fissato la data del ritorno di Gesù nel periodo 1843-44; in seguito al mancato avveramento della predizione, i milleriti di dispersero ma uno dei gruppi formò la Chiesa Avventista del 7º giorno, istituita formalmente a Battle Creek (Michigan) nel 1863. Fra i suoi fondatori c'era Ellen Gould White, (1827-1915), una donna cui è riconosciuto un particolare dono di profezia, che svolse un ruolo fondamentale nella formazione della chiesa avventista e nello sviluppo della sua azione evangelistica negli Stati Uniti e in Europa e i cui scritti sono tenuti ancora oggi in grande considerazione.

La Chiesa avventista non è riconosciuta come evangelica o protestante dall'Alleanza Evangelica Mondiale, a causa di alcuni aspetti teologici divergenti dagli altri membri dell'Alleanza: il "giudizio investigativo", l'autorità data agli scritti di Ellen G. White e il fatto di considerare il sabato come giorno del riposo per i cristiani. Tuttavia, in Italia è considerata una chiesa evangelica dallo stato italiano e nonostante le divergenze teologiche, dialoga e collabora in progetti comuni con le chiese appartenenti alla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (FCEI).

Oggi è una chiesa diffusa in quasi tutto il mondo; conta (secondo stime interne risalenti all'anno 2010) 16 600 000 membri, è presente in oltre 200 paesi ed i dati confermano una crescita costante. L'Africa è il continente con il maggior numero di avventisti, anche se la crescita maggiore si riscontra in America Latina. Molti avventisti, tra i quali numerosi pastori, specie negli Stati Uniti d'America provengono dall'Ebraismo.

Movimento pentecostale

Movimento nato negli Stati Uniti d'America, il cui ramo italiano si chiama Chiesa apostolica. Sono Evangelici invece le Assemblee dei fratelli.

Quadro storico e ramificazioni

Ad oggi esistono 33 000 denominazioni protestanti e i fedeli sono 700 milioni. Il protestantesimo, essendo un movimento eterogeneo e variegato, soprattutto per ciò che riguarda le questioni teologiche e dottrinali, può essere suddiviso in tre gruppi fondamentali:

Protestantesimo storico

Protestantesimo in tutto il mondo

Le chiese che ne fanno parte vengono appunto dette "storiche", in quanto sono caratterizzate da radici dirette nella Riforma protestante.

Luteranesimo

Lo stesso argomento in dettaglio: Luteranesimo.

Origini: XVI secolo, Germania. Martin Lutero è scomunicato dal papa e dà inizio alla Riforma protestante.

Dottrina: Cinque sola, giustificazione, consustanziazione, presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, sacerdozio universale.

Sacramenti: battesimo e Santa Cena.

Diffusione: 75 milioni di fedeli.

Calvinismo

Origini: XVI secolo, Svizzera e Francia. Giovanni Calvino aderisce alla Riforma protestante.

Dottrina: Cinque sola, Cinque punti, teologia dell'Alleanza, presenza spirituale di Cristo nell'Eucaristia, abolizione delle immagini religiose.

Sacramenti: battesimo e Santa Cena.

Diffusione: 70-85 milioni di fedeli.

Anglicanesimo

Origini: XVI secolo, Inghilterra. Rottura con il papa per opera di Enrico VIII e adesione alla Riforma protestante.

Dottrina: via media tra protestantesimo e cattolicesimo.

Sacramenti: battesimo e Santa Cena.

Diffusione: 80 milioni di fedeli.

Protestantesimo radicale

Riforma radicale, diffusa nell'Europa dell'Est; si differenzia dalla Riforma protestante vera e propria perché si concentra sul battesimo degli adulti.

Battismo

Origini: XVI secolo, Europa orientale. Erede dell'anabattismo.

Dottrina: battesimo per immersione riservato solo ai credenti, divisione tra Stato e Chiesa, libertà di coscienza e difesa del diritto.

Struttura: Congregazionalista; l'autorità massima a governo della chiesa è data dall'Assemblea di tutti i membri che compongono la Comunità locale, la quale prende le proprie decisioni in completa autonomia e nella sola dipendenza dalle Sacre Scritture e dalla guida dello Spirito Santo.

Sacramenti: battesimo e Cena del Signore (solo simbolico).

Diffusione: 100 milioni di fedeli.

Movimenti dissidenti, deviati o revivalisti

Metodismo

Origini: XVIII secolo, Inghilterra. John Wesley si allontana dal calvinismo e dall'anglicanesimo per dettare i propri insegnamenti.

Dottrina: conversione e predicazione del Vangelo.

Sacramenti: battesimo e Santa Cena.

Diffusione: 70 milioni di fedeli.

Evangelicalismo

Origini: XVIII secolo, USA. Influenzato dal metodismo e dal Risveglio.

Dottrina: interpretazione letterale della Bibbia, predicazione ed "effusioni dello Spirito Santo".

Sacramenti: battesimo e Cena del Signore (solo simbolico).

Diffusione: 90 milioni di fedeli.

Restaurazionismo

Origini: XIX secolo, USA.

Dottrina: interpretazione letterale della Bibbia, rifiuto della trinità, vedi antitrinitarismo.

Sacramenti: battesimo e eucarestia.

Diffusione: 50 milioni di fedeli.

Benedetto si dimise per Obama. Era ritenuto un Papa scomodo, contrario alle sue politiche. Tino Oldani su Italia Oggi il 5 gennaio 2023.

«Il diavolo in Vaticano ha agito contro Benedetto XVI». Così Georg Gaenswein, arcivescovo-segretario di papa Joseph Ratzinger fino alla sua morte, in un'intervista a Ezio Mauro su Repubblica. Da prelato prudente, Gaenswein non fa nomi. Ma la sua denuncia è talmente clamorosa che, inevitabilmente, molti si chiedono chi sia questo diavolo, che nome abbia, e se sia un solo diavolo o più di uno. Sul web, mi hanno incuriosito alcuni interventi, soprattutto uno basato su una testimonianza personale.

Mi riferisco al generale in pensione Piero Laporta, che sul proprio sito e su Stilum Curiae dell'ex vaticanista Marco Tosatti ha postato il 3 gennaio un articolo intitolato: «La cerchia romana (e Usa…) che voleva far dimettere Benedetto».

Di questa cerchia, in base a ricordi personali di Laporta, facevano parte «un emissario di primo piano del governo Usa, con le mani in pasta nella finanza (dove è ancora) e nella politica italiana, e un personaggio dei piani alti della National Security Agency (Nsa) che andava vantandosi delle dimissioni alle quali presto sarebbe stato costretto Benedetto XVI, mentre scorrevano le prime settimane del suo pontificato. Lo fece con disinvoltura e protervia, dalla quale trapelò il disegno persino al di sopra della sua pur potentissima organizzazione». Un'allusione alla Casa Bianca.

Ratzinger è stato eletto papa il 19 aprile 2005 e si è dimesso il 28 febbraio 2013. Dunque, per il generale Laporta, già nel 2005 vi era un diavolo americano all'opera per far dimettere il papa appena eletto, che lavorava ai piani alti della Nsa, un braccio armato del governo Usa, considerata più potente della Cia.

Ma perché un papa come Ratzinger era considerato un ostacolo da eliminare per gli Usa? In fondo, era soprattutto un teologo che per 24 anni aveva retto in Vaticano la Congregazione per la dottrina della fede, un conservatore sul piano dottrinario, ma del tutto estraneo alle dispute politiche mondiali di quell'epoca.

Qualcosa di più, sotto quest'ultimo aspetto, è venuto alla luce solo anni dopo, quando nel 2020 lo scrittore Peter Seewald, autore di «Benedetto XVI. Una vita» (Garzanti), ha rivelato per la prima volta alcuni giudizi di Ratzinger su leader politici mondiali. Si scoprì così che Barack Obama, presidente Usa dal 2009 al 2017, aveva lanciato e portato avanti idee che il papa «non poteva condividere». Da presidente, e prima ancora da dirigente di primo piano del partito democratico Usa, Obama è stato l'antesignano dei «nuovi diritti» in materia sessuale e delle aperture legislative necessarie. Una linea ritenuta progressista, perseguita dalle élites Usa già nel 2005 (compresa la Nsa), e messa in atto da Obama durante il suo mandato, affiancato dal favore dei media mainstream e dal movimento Lgbt, che l'ha esportata in Europa. Una linea, però, bocciata da Ratzinger in quanto «relativista», in contrasto con la dottrina cattolica. Non a caso, nel mondo progressista e pro-Lgbt, Obama è stato usato come un controcanto di Ratzinger: l'ex presidente Usa indicato come un politico che «irradia speranza», mentre il papa tedesco, «preso dalla paura, vuole limitare il più possibile la libertà delle persone per imporre un'era di restaurazione». Per questo, come diceva a Roma l'agente della Nsa citato dal generale Laporta, un ostacolo culturale da eliminare fin dal 2005.

Le dimissioni di Ratzinger, annunciate a sorpresa, risalgono al 28 febbraio 2013. Il papa le giustificò con gli affaticamenti fisici della vecchiaia (ingravesciente aetate), ma in molti rimase il dubbio che la vera causa fosse un'altra, non detta. Ipotesi che trovò conferma in un articolo del sito belga Media Press Info del 5 aprile 2015, in cui fu rivelato che, nell'ambito del sistema Swift, che regola le transazioni di 10.500 banche nel mondo, distribuite in 215 paesi, «nei giorni che precedettero le dimissioni di Benedetto XVI nel febbraio 2013, tutte le transazioni della banca del Vaticano, lo Ior, furono bloccate. E senza aspettare l'elezione di papa Bergoglio, il sistema Swift è stato sbloccato subito dopo le dimissioni di Benedetto XVI». Aggiungeva Media Press Info: «C'è stato un ricatto venuto non si sa da dove, per il tramite di Swift, esercitato su Benedetto XVI. Le ragioni profonde di questa storia non sono state chiarite, ma è evidente che Swift è intervenuto direttamente nella direzione degli affari della Chiesa».

In buona sostanza, con l'esclusione dal circuito Swift, la banca del Vaticano non poteva più vendere né comprare, di fatto veniva trattata alla stregua delle banche degli stati canaglia (vedi Iran). Un blocco deciso dopo che nel marzo 2012 il Dipartimento di Stato Usa (presidente Obama, con Hillary Clinton alla guida del Dipartimento) aveva inserito il Vaticano tra i paesi suscettibili di monitoraggio per il riciclaggio di denaro. Blocco che, come per miracolo, è stato tolto subito dopo l'annuncio delle dimissioni di Ratzinger.

Che lo Ior e le finanze vaticane non fossero un modello di trasparenza era noto a tutti, quindi anche a Ratzinger, che di certo non condivideva i metodi, le spese, i lussi e gli sprechi della casta che le amministrava. Metodi e sprechi venuti alla luce a seguito di due scandali Wikileaks (2012 e 2015), il primo basato su documenti rubati dal cassetto di Gaensweien, che indagava per conto del papa, il secondo su altri documenti sottratti alla commissione d'inchiesta voluta da papa Francesco subito dopo la sua elezione. Vicende opache, come raccontano i libri diGianluigi Nuzzi e di Emiliano Fittipaldi, mai chiarite fino in fondo nonostante un processo in Vaticano. Ora la testimonianza del generale Laporta sulla mano Usa dietro le dimissioni di Ratzinger aggiunge un dettaglio in più.

"Quella volta che Benedetto XVI conquistò i britannici con Elisabetta II". Il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, ha ricordato il successo del viaggio di Ratzinger nel Regno Unito. Nico Spuntoni il 6 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il 2022 si è concluso con la morte del 95enne Benedetto XVI e aveva visto pochi mesi fa anche quella della regina Elisabetta II. Un anno particolare, dunque, per i sudditi di Sua Maestà di fede cattolica, sebbene Benedetto XVI fosse ormai soltanto emerito e non più Pontefice regnante. Ma proprio in Regno Unito ci fu uno dei viaggi apostolici di maggiore successo di Ratzinger, risalente al 2010. E' in quell'occasione che pronunciò uno dei suoi discorsi più celebri, quello sul ruolo della religione nella società a Westminster Hall. Al fianco di Benedetto XVI in quel viaggio c'era l'arcivescovo di Westminster, il cardinale Vincent Nichols che ancora oggi ricopre quell'incarico e che ha voluto ricordare il Papa emerito in quest'intervista concessa a Il Giornale.it al termine della giornata dedicata alle sue esequie.

Eminenza, si immaginava tutta questa gente per l'ultimo saluto a Benedetto XVI?

Sì, sinceramente me lo immaginavo. Così come non mi sorprende la presenza di così tanti cardinali, vescovi e sacerdoti. Perché Benedetto XVI è stato un Papa socievole, con un carattere ed una personalità accoglienti.

Conserva una testimonianza diretta di questo suo aspetto?

Fu molto chiaro, ad esempio, quando venne nel Regno Unito nel settembre del 2010. Prima della partenza c'era molta ostlitià nei media e nell'opinione pubblica ma quando ripartì tutti parlavano di lui come dello zio favorito. D'altra parte, quando lo incontravi o lo ascoltavi parlare non potevi non dire che era un pastore molto gentile ed amorevole. Ed è questo il motivo per cui oggi, qui, c'era tanta gente.

Come riuscì a conquistare i britannici durante quella visita apostolica di quasi tredici anni fa?

All'inizio il clima era difficile perché molti media si occuparono del suo arrivo parlando esclusivamente dello scandalo abusi nella Chiesa e di nient'altro. Però quando la visita ebbe inizio, tutto cambiò. E, tra i motivi, ce n'è uno in particolare..

Quale?

Uno dei motivi principali di questo cambiamento si deve al fatto che Benedetto XVI decise di non atterrare a Londra, come avviene quasi sempre in viaggi istituzionali, ma disse 'no, voglio atterrare in Scozia, a Edimburgo'. E questo perché la prima cosa che voleva fare in Regno Unito era salutare la regina Elisabetta. A quel punto, quando tutti videro l'accoglienza riservata al Papa dalla regina e il bel rapporto tra i due, nulla fu più lo stesso.

Nel Regno Unito c'è sempre stata una grande attenzione per la questione liturgica a cui Benedetto XVI ha prestato sempre particolare attenzione. Lei vede i frutti dei suoi insegnamenti?

La liturgia è un tema molto importante ed anche molto delicato nella vita della Chiesa. Gli insegnamenti di Benedetto XVI sono stati indirizzati a far sì che attraverso la liturgia fosse compreso il mistero della nostra salvezza. Lui ha incoraggiato i sacerdoti a celebrare nel migliore dei modi. Oggi nel Regno Unito vediamo sorprendentemente tantissimi giovani che cercano una messa più contemplativa e profonda. E questa è una buona cosa.

Esorcismi, ecco come sono cambiati: la testimonianza di chi "affronta" il demonio oggi. Nico Spuntoni il 19 Novembre 2023 su Il Giornale.

I racconti di chi è impegnato nelle preghiere di liberazione presentano scene da film tra sputi, abiti maleficiati e pupille all'insù. Ed è boom di esorcisti in Italia

Tabella dei contenuti

 Boom di esorcisti

 Cronache dagli esorcismi

 Non solo possessioni

 Il demonio infastidito

"La più grande beffa che il diavolo abbia mai fatto al mondo è stata quella di convincere tutti che non esiste". È una famosa citazione del film "I soliti sospetti" del 1995 ma non sfigurerebbe sulla bocca di un qualsiasi esorcista. A dispetto di quanto si può credere, la preghiera di esorcismo non è riducibile al passato della Chiesa. La scorsa settimana l'Associazione internazionale esorcisti (Aie), riconosciuta a livello giuridico da un decreto del 2014 della Congregazione per il clero, ha fatto sapere che il numero di sacerdoti esorcisti è in aumento in tutto il mondo, Italia compresa.

Boom di esorcisti

I numeri parlano chiaro: dal 2012 ad oggi Aie è passata ad avere da 250 a 905 soci. Il codice di diritto canonico attribuisce al vescovo diocesano il compito di individuare uno o più sacerdoti, ritenuti idonei anche per prudenza ed equilibrio, chiamati ad esercitare questo ministero nella diocesi. Questa esigenza è molto sentita in Africa al punto che nel Sinodo del 2009 sulla Chiesa in Africa uno dei punti delle proposizioni finali fu quello relativo alla richiesta che ogni "vescovo dovrebbe nominare un esorcista". In base ad una ricerca presentata dal Gruppo di Ricerca e Informazione Socioreligiosa risulta, però, che la maggior concentrazione di preti esorcisti ci sia in Europa: 290 in Italia, 37 in Spagna, 32 in Francia, 22 in Polonia e 10 in Svizzera.

Il discernimento di fronte a questi casi, per cercare di decifrare il confine esistente tra presunte forme di possessione e patologie psichiche, viene richiesto a tutti i sacerdoti. L'iter è scupoloso: chi chiede di incontrare un esorcista, prima ne parla al parroco che poi a sua volta si mette in contatto con quei sacerdoti autorizzati a procedere al discernimento. Solo dopo questo passaggio ci sarà il ricorso ad uno dei sacerdoti della diocesi autorizzati a compiere esorcismi.

Cronache dagli esorcismi

Padre Gabriele Amorth, morto nel 2016, è stato probabilmente il più famoso esorcista del mondo. Nel suo curriculum oltre 160 mila esorcismi praticati e numerosi libri sul tema pubblicati in ben 40 Paesi del mondo. Fu proprio lui nel 1994 a fondare l'Aie con padre René Chenessea. Una sua collaboratrice, la francescana laica Angela Musolesi, ha pubblicato da poco un libro ("Tu sei la mia rovina. Seguendo gli insegnamenti di don Gabriele Amorth", edito da Cantagalli) che racconta la sua esperienza al fianco del famoso esorcista e quella successiva nelle preghiere di liberazione seguendo i suoi insegnamenti. Dalle pagine emergono alcune cronache degli esorcismi che restituiscono immagini poco conosciute al pubblico. Ad esempio, viene riportato come negli ultimi tempi padre Amorth avesse "notato che sono colpite dal maligno intere famiglie. Non più una persona, ma intere famiglie sono possedute". Alla luce della sua esperienza, il prete scomparso nel 2016 - ha spiegato l'autrice - era convinto del "fatto che Satana e Lucifero sono due demoni distinti" capendolo dal posseduto: "le pupille degli occhi rivolte verso l’alto indicano Lucifero", sosteneva Amorth.

Non solo possessioni

Per la Chiesa, la possessione diabolica è solo la forma più grave. Ci sono poi le ossessioni ed anche le infestazioni diaboliche. Queste ultime sono menzionate nelle appendici del nuovo rito degli esorcismi dove si sostiene che possono colpire luoghi, oggetti ma anche animali. Musolesi, fondatrice dell'associazione Figli della luce impegnata proprio nelle preghiere di liberazione, ha scritto nel libro che "non è detto che l’origine di queste avversità sia dovuta a un’azione straordinaria del maligno ma, anche se causate da un’azione ordinaria, di invidia e gelosia o rancori". In base a quanto visto nella sua vita, Musolesi ha scritto che "talora vengono maleficiati abiti, ninnoli, abiti da sposa, materassi, tutto ciò che la persona usa" aggiungendo che "a volte capitano cose che nemmeno la più fervida fantasia riuscirebbe a immaginare".

Il demonio infastidito

Dai racconti di chi ha assistito agli esorcismi traspare il fastidio che il demonio avrebbe di fronte alla richiesta di intercessione dei santi ma soprattutto della consacrazione personale alla Madonna. Le reazioni possono essere violente. Durante una preghiera di liberazione, Musolesi ha raccontato di quando, cantando una lode agli angeli, "di colpo il demone piega istantaneamente la testa verso il basso e non riesce più a tirarla su per sputarmi in viso. Continuo la preghiera e il demone sentenzia: «Certo, perché ci sono loro non ti posso sputare in faccia»" .

Mezzo secolo dopo il film di William Friedkin che spaventò il mondo, la figura dell'esorcista continua a destare rispetto tra molti - ma forse non tutti -i credenti, diffidenza e persino ilarità tra i più scettici ma sicuramente non ha perso d'interesse nella società contemporanea.

Esorcisti, boom in Italia: caccia al diavolo, ecco tutte le cifre. Libero Quotidiano l'11 novembre 2023

Appartamenti anonimi in quartieri qualsiasi di una grande città. E poi famiglie normali, scuole, corridoi di ospedali, uffici... Niente di spettrale, nessun edificio gotico o abbandonato, pochissime apparizioni choc o fenomeni straordinari, tipo teste che ruotano a 360 gradi e urla e bestemmie in lingue antichissime. Il diavolo si nasconde nei dettagli, come si è sempre detto, e soprattutto non ama mostrarsi troppo in pubblico, perché altrimenti finirebbe per dimostrare l’esistenza del Nemico, ossia di Dio. E sarebbe la sua più grande sconfitta. Lo ricordava spesso anche uno dei più famosi e amati sacerdoti esorcisti, padre Gabriele Amorth. E ora, dopo anni di silenzio, di sottovalutazione e anche di disprezzo verso il tema, si parla più apertamente della necessità, da parte della Chiesa, di incrementare la presenza di esorcisti.

Cresce il numero dei sacerdoti esorcisti in Italia e nel mondo. O meglio, aumentano i soci dell’Associazione internazionale esorcisti (Aie), unico ente riconosciuto ufficialmente dalla Santa Sede: in appena un decennio il numero è quasi quadruplicato, passando dai 250 nel 2012 ai 905 di oggi. L’Europa è il continente maggiormente rappresentato (70%), con l’Italia al primo posto (483 soci, di cui 139 ausiliari); segue il Nordamerica (13%), con Stati Uniti (62) e Messico (48); il Sudamerica (11%), guidato dal Brasile (46), e l’Asia (6%, di cui 3 in Cina e 2 a Taiwan); ancora sottodimensionata l’Africa, con 13 soci. E si sta cercando di diffondere corsi di base sul ministero dell’esorcismo in molti Paesi europei ed extraeuropei. «Gli esorcisti sono i testimoni, la voce e gli ambasciatori di Cristo e della Chiesa presso quanti soffrono a causa del maligno», ha ricordato padre Francesco Bamonte, dal 2012 alla guida dell’Aie e ora vice presidente, intervenendo a settembre al XIV Convegno internazionale dell’Aie durante il quale è stato eletto il suo successore: monsignor Karel Orlita, esorcista e canonista della Repubblica Ceca. Monsignor Orlita, in un’intervista di qualche giorno fa alla Sir, agenzia di stampa della Cei, ha spiegato che “ci sono donne e uomini di fede che subiscono un’azione che Dio permette, a volte straordinariamente, da parte del maligno. Ma ci sono anche persone che si rivolgono a noi come se fossimo i maghi buoni, i maghi cattolici. Non hanno un’idea chiara dell’esorcista, che è un sacerdote che svolge il ministero di Cristo con la licenza del vescovo. E lo aiuta con l’esorcismo nella lotta personale, contro il disturbo straordinario del maligno”.

Una visione chiara di chi è davvero un esorcista e qual è il suo ministero, molto diversa da quella offerta da film, romanzi, inchieste sensazionalistiche. Come dimostrato anche dalla dura stroncatura espressa proprio dall’Aie nei confronti del film “L’esorcista del Papa” di Julius Avery, uscito nella primavera scorsa e ispirato proprio all’esperienza e alla vita di padre Amorth, definito un film che «stravolge e falsifica ciò che veramente si vive e si sperimenta durante l’esorcismo di persone veramente possedute che noi, esorcisti cattolici, celebriamo secondo le direttive impartite dalla Chiesa», come dichiarato in una nota ufficiale.

A lungo, si diceva, anche nel mondo cattolico si è confinata la questione come un residuo di superstizioni medievali, o di derive ultraconservatrici. Le cose stanno cambiando, e lo dimostrano anche i molti riferimenti all’assiduo “lavoro” di Satana fatti da papa Francesco, al moltiplicarsi di richieste di presenze qualificate e quindi di corsi di formazione dei futuri esorcisti e di incontri per far conoscere i rituali e le “armi” messe in campo dalla Chiesa per far fronte agli attacchi demoniaci. Anche dove meno lo si aspetta. Per esempio il cardinale Giorgio Marengo, il più giovane rappresentante del collegio cardinalizio – 49 anni – nominato prefetto apostolico di Ulan Bator, in Mongolia, ha un’altra singolarità, ossia è stato fin dal suo arrivo in quel Paese, vent’anni fa, un missionario esorcista, con una vasta esperienza sul campo. Non ci sono soltanto gli esorcismi, comunque, per combattere le multiformi attività diaboliche. Esistono anche le preghiere di liberazione, che possono essere recitate privatamente e da chiunque. Lo ricordava spesso padre Amorth e incoraggia a farlo anche papa Francesco.

Estratto dell’articolo di Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 20 aprile 2023.

Pochi, stressati, oberati di lavoro, con la pandemia ad aggravato tutto. Anche il Papa continua a ripeterlo, il Maligno è in giro a fare il peggio possibile... E gli esorcisti sono pochi e superaffaticati. 

Poche centinaia, in Italia, per far fronte a richieste di aiuto sempre più numerose. Di Satana si parla poco e malvolentieri, a livello intellettual-teologico, masi riprende la scena grazie al cinema e alle polemiche. Gli esorcisti, intanto, affrontano la situazione a ranghi ridotti.

Una dettagliata indagine fatta nella Chiesa Cattolica e diffusa dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum mesi fa mette a fuoco le difficoltà logistiche e temporali: «L’esorcista riceve una mole ingente di persone, non ha il tempo di accoglierle o di ascoltarle tutte. La gestione del ministero spesso è centellinata per altri incarichi che riveste il sacerdote, come ad esempio gli impegni quotidiani della parrocchia». 

Dopo la pandemia, secondo testimonianze di esorcisti stessi, si sono moltiplicati i casi di persone che vogliono ricorrere a pratiche di questo tipo, spinti da instabilità, paura, isolamento sociale. Va ricordato, come sottolinea monsignor Gabriele Foschi, esorcista a Sarsina (Forlì-Cesena), che i casi di possessione reale sono molto rari e «più che altro ci troviamo di fronte a individui che vivono una realtà depressivo psicologica, che a sua volta diventa un terreno in cui si radicano ossessioni e vessazioni. […]». 

In Italia operano attualmente 309 preti esorcisti, secondo dati della Associazione internazionale esorcisti - fondata nel 1994 da un gruppo di sei sacerdoti, tra i quali padre Amorth – e tra i più grandi esorcisti della storia si annoverano sant’Antonio Abate, san Francesco d’Assisi, san Pio da Pietralcina. […]

Padre Amorth, scatta la rivolta degli esorcisti: timori in Vaticano. Caterina Maniaci su Libero Quotidiano il 21 aprile 2023

Pochi, stressati, oberati di lavoro, con la pandemia ad aggravato tutto. Anche il Papa continua a ripeterlo, il Maligno è in giro a fare il peggio possibile... E gli esorcisti sono pochi e superaffaticati. Poche centinaia, in Italia, per far fronte a richieste di aiuto sempre più numerose. Di Satana si parla poco e malvolentieri, a livello intellettual-teologico, masi riprende la scena grazie al cinema e alle polemiche. Gli esorcisti, intanto, affrontano la situazione a ranghi ridotti. Una dettagliata indagine fatta nella Chiesa Cattolica e diffusa dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum mesi fa mette a fuoco le difficoltà logistiche e temporali: «L’esorcista riceve una mole ingente di persone, non ha il tempo di accoglierle o di ascoltarle tutte. La gestione del ministero spesso è centellinata per altri incarichi che riveste il sacerdote, come ad esempio gli impegni quotidiani della parrocchia».

Dopo la pandemia, secondo testimonianze di esorcisti stessi, si sono moltiplicati i casi di persone che vogliono ricorrere a pratiche di questo tipo, spinti da instabilità, paura, isolamento sociale. Va ricordato, come sottolinea monsignor Gabriele Foschi, esorcista a Sarsina (Forlì-Cesena), che i casi di possessione reale sono molto rari e «più che altro ci troviamo di fronte a individui che vivono una realtà depressivo psicologica, che a sua volta diventa un terreno in cui si radicano ossessioni e vessazioni. Le possessioni dove il demonio interviene per cancellare la personalità in quel preciso momento per fortuna non sono così diffuse».

In Italia operano attualmente 309 preti esorcisti, secondo dati della Associazione internazionale esorcisti - fondata nel 1994 da un gruppo di sei sacerdoti, tra i quali padre Amorth – e tra i più grandi esorcisti della storia si annoverano sant’Antonio Abate, san Francesco d’Assisi, san Pio da Pietralcina. L’attuale presidente è padre Francesco Bamonte, esorcista della diocesi di Roma. L’Italia è quindi il Paese con un numero maggiore di esorcisti, seguito dalla Svizzera, mentre negli Usa se ne contano una sessantina. Per la Chiesa l’esorcismo, fatta eccezione per quello ordinario praticato al battesimo, è un sacramentale praticabile solo dai vescovi o da un sacerdote con mandato del vescovo. Ne fanno parte i preti esorcisti incaricati dal vescovo della diocesi di appartenenza.

La presenza del demonio è insomma costante e da sempre la fede cattolica ha messo in campo armi potenti per combatterlo. Crescono poi le richieste di aiuto, come abbiamo detto, ma in generale si parla poco e malvolentieri di queste realtà... Non si stupirebbe per la situazione, se fosse ancora tra noi, padre Amorth, considerato uno dei più grandi esorcisti che abbia concretamente esercitato il suo ministero. Torna in libreria, proprio in questi giorni, “L’ultimo esorcista. La mia battaglia contro Satana“ (ed. Piemme), scritto da padre Amorth insieme al giornalista Paolo Rodari.

Celebre anche per il senso dell’umorismo, pragmatico, ricordava spesso che Satana per intrappolare le anime usa sempre le stesse tecniche, tenendo sempre presente il potere delle famose tre s: sesso, successo e soldi. Ma si aggiorna di continuo, quindi ecco oggi la s di “sterminio” e quella di “social” , così presenti nella vita soprattutto dei più giovani e all’interno del quale si insinuano le nuove manifestazioni demoniache. Senza dimenticare l’incidenza delle sette sataniche, fenomeno in aumento sempre per effetto della pandemia, come ha sottolineato l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. E come dimostrano i dati della Squadra Antisette della Polizia, collegata ad un numero verde a cui in media al numero verde telefonano 15 persone al giorno, circa 5 mila telefonate all’anno.

Niente di tutto questo appare nel film “L’esorcista del Papa“ con Russel Crowe protagonista, liberamente ispirata alla figura di Amorth. Troppo liberamente, hanno sottolineato in molti, soprattutto tra i media cattolici. Ancora prima che il film uscisse in sala, è uscita una dura nota dell’Associazione internazionale degli esorcisti, nella quale, tra le altre cose, si legge che «tale modo di raccontare l’esperienza esorcistica di don Amorth, oltre ad essere contrario alla realtà storica, stravolge e falsifica ciò che veramente si vive e si sperimenta durante l’esorcismo di persone veramente possedute che noi, esorcisti cattolici, celebriamo secondo le direttive impartite dalla Chiesa. In più, è offensivo nei riguardi dello stato di sofferenza in cui versano quanti sono vittime di un’azione straordinaria del demonio». 

 Estratto da “la Stampa” l’11 aprile 2023.

Le idee di Papa Francesco sul diavolo in questa intervista inedita estratta dal saggio Esorcisti contro Satana, qui anticipata per gentile concessione dell'autore, il giornalista Fabio Marchese Ragona, vaticanista delle testate Mediaset. Il libro si trova da oggi in libreria

(...)

 E da pontefice ha mai praticato esorcismi?

«No, non è mai successo. Se dovesse accadere chiederei il supporto di un bravo esorcista, come facevo già da arcivescovo».

 Su Benedetto XVI è stato detto da più persone che durante il pontificato ha subito l'attacco del diavolo - che ci tenta sempre - ma che, pur avendone sofferto, ha resistito bene. Paolo VI nel 1972 disse che il fumo di Satana era entrato per qualche fessura nel tempio di Dio. Il diavolo, dunque, può agire anche in Vaticano e attaccare il papa?

«Certamente il demonio prova ad attaccare tutti, senza distinzioni, e cerca di colpire soprattutto coloro che hanno più responsabilità nella Chiesa o nella società. Anche Gesù, subì le tentazioni da parte del diavolo e si pensi anche a quelle di Simon Pietro a cui Gesù disse: "Vattene via da me, Satana".

Anche il papa quindi è attaccato dal maligno. Siamo uomini e lui prova sempre ad attaccarci. È doloroso, ma di fronte alla preghiera lui non ha nessuna speranza! E poi è vero, come disse san Paolo VI, che il diavolo può entrare anche nel tempio di Dio, per seminare zizzania e mettere gli uni contro gli altri: le divisioni e gli attacchi sono sempre opera del demonio. Lui cerca di insidiarsi sempre per corrompere il cuore e la mente dell'uomo. L'unica salvezza è seguire la via indicata da Cristo».

 Bisogna aver paura del demonio?

«Io penso che ci sono dei demoni molto pericolosi e parlo dei diavoli "educati". Ne parla anche Gesù, lo leggiamo nel Vangelo di Luca: dice che quando il cattivo spirito è cacciato via, vaga per il deserto cercando sollievo. Ma a un certo punto si annoia e quindi torna a "casa", da dove era stato cacciato, e vede che la casa è sistemata, è bellissima, come quando lui era dentro».

Cosa succede a quel punto?

«Va a prendere altri demoni più cattivi di lui, li porta, entrano in quella casa, educatamente, suonano il campanello, vanno prendendo possesso in modo educato. L'anima, non avendo cura di esaminare la coscienza, non se ne accorge o, per tiepidezza spirituale, li lascia entrare. Questi sono terribili. Perché ti ammazzano. È la possessione più brutta. La mondanità spirituale copre tutte queste cose. Non c'è scampo: il demonio o distrugge in modo diretto con le guerre e con le ingiustizie oppure lo fa educatamente, in modo molto diplomatico, così come racconta Gesù. Ci vuole discernimento».  

Estratto dell’articolo di Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” l’11 aprile 2023.

Chi è il diavolo? Per rispondere potremo ripetere le parole di Pietro nella Bibbia quando invita tutti a vigilare: «Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare». Ma forse in questi tempi di guerre, pandemie e catastrofi naturali sarebbe più efficace e attuale interrogare esorcisti e vittime del maligno […] Ed è quello che fa Fabio Marchese Ragona, vaticanista Mediaset […] nel suo ultimo saggio Esorcisti contro Satana […]

 Il libro proietta il lettore in un viaggio tra possessioni diaboliche, esorcismi, persone indemoniate […] Argomenti dilatati e ridotti nei romanzi, nella pubblicistica e negli effetti speciali dei film […] ma che […] lasciano un profondo senso di disorientamento e inquietudine in chi legge.

Marchese Ragona spazia e solleva così degli interrogativi sul legame tra Papa Francesco e una giovane suora indemoniata con Satana che, quando emerge, offende il pontefice; si chiede come mai in Ucraina numerosi esorcisti abbiano iniziato a praticare il rituale a distanza nei confronti del presidente Putin, come fosse conclamata espressione violenta del demonio e, ancora, scava sul perché la mistica Natuzza Evolo e il giudice beato Rosario Livatino siano stati nominati dal demonio durante alcuni recenti esorcismi.

Emerge così una tela di connessioni che riportano sempre alla domanda iniziale: chi è il diavolo?

[…] Perché se per taluni questo argomento è solo oggetto di attenzione morbosa, sfuocata o derisione, per altri è croce di supplizio. Un dolore che trafigge e piega […] non attribuibile a nessuna malattia né soprattutto a quelle della psiche visto che il percorso di preghiera permette alla vittima di riconquistare al pieno la propria esistenza […] Le vittime rimangono tutte travolte da una sofferenza psichica, fisica e spirituale senza uguali, destinata ancor più a raddoppiare se vivono in una condizione di […] solitudine. […]

I preti esorcisti che cercano di fermare la guerra. Fabio Marchese Ragona l’11 Aprile 2023 su Il Giornale.

Nel libro di Marchese Ragona, "Esorcisti contro Satana. Faccia a faccia col demonio" (Piemme), le pratiche contro il male dei sacerdoti nel Donbass

«Ti ordino, spirito immondo, principe delle tenebre, nemico infernale. Vi ordino a tutti, spiriti maligni che costituite la legione del diavolo: nel nome e nella potenza di nostro Signore Gesù Cristo, allontanatevi dalla santa Chiesa di Dio e fuggite. Non osare più, subdolo serpente, ingannare Vladimir Vladimirovic Putin. Non osare più perseguitare la Chiesa di Dio, per scuotere e disperdere i suoi eletti come grano sull'aia. Questo è ciò che ti comanda Dio Onnipotente. È colui che ti ordina che tutte le persone siano salvate e arrivino alla conoscenza della verità. Questo è ciò che Dio Padre ti comanda, questo è ciò che Dio Figlio ti comanda, questo è ciò che Dio Spirito Santo ti comanda. Questo è comandato da Cristo, l'Eterno ». È la primavera del 2022. Avvolto nei paramenti liturgici dorati, con la corona pontificale sulla testa e non poco infreddolito, padre Vasil Pantelyuk ha appena recitato la preghiera di esorcismo all'interno della sua parrocchia, San Nicola Taumaturgo a Dnipro, la quarta città più grande dell'Ucraina. Il prete, con una mascherina chirurgica sul viso, stringe un grosso crocifisso di legno nella mano destra, lo impugna come se fosse un'arma, l'unica speranza per allontanare il demonio. E con un tono solenne intima a Satana di scappare via, di allontanarsi dalla santa Chiesa di Dio e lasciare in pace quella terra, funestata dalle bombe. Il folto gruppo di persone, molte delle quali vestite con abiti recuperati grazie alle donazioni fatte alla Caritas, lo accompagna con la preghiera e intonando canti religiosi mentre lui tiene nell'altra mano l'antico rito contro gli spiriti malvagi. Da quando è scoppiata la guerra, la gente, disperata, trova conforto nelle parole del sacerdote e prega incessantemente che i bombardamenti si fermino. L'esorcista della diocesi greco-cattolica di Donetsk ha avuto l'incarico dal suo vescovo, monsignor Stepan Menyok, di praticare quotidianamente esorcismi sul territorio: sulle strade, gli spazi aperti, i campi e le persone che vi si trovano. Ovunque. Perché Satana lasci l'Ucraina. Da diversi mesi questo prete dalla folta barba bianca e dagli occhi profondi recita preghiere di liberazione anche verso il presidente russo Putin, che, a detta di numerosi sacerdoti e vescovi greco-cattolici ucraini, sarebbe stato ispirato dal demonio nello scatenare la guerra. Un caso analogo si era visto soltanto durante la Seconda guerra mondiale, ma con alcune grandi differenze: come accennato nelle pagine precedenti, era stato papa Pio XII, in un momento di grande disperazione per l'umanità, a praticare esorcismi a distanza verso Adolf Hitler che, secondo i vescovi tedeschi, era posseduto dal demonio. Furono proprio loro a riferirlo al pontefice, mettendolo in guardia. Diversi anni dopo, nel 1958, Pacelli praticò, presso la sua cappella privata nell'appartamento papale, alla presenza delle suore in servizio, esorcismi anche per scongiurare la vittoria del comunismo alle elezioni politiche italiane. La chiesa greco-cattolica ucraina ha ritenuto di percorrere la strada dei riti per combattere il demonio, ma ha contemporaneamente chiesto al papa una consacrazione della Russia all'Immacolato Cuore di Maria. Un gesto profetico che richiama il messaggio della Madonna consegnato ai tre pastorelli di Fatima il 13 luglio del 1917, in piena guerra mondiale: «Verrò a chiedere la consacrazione della Russia al mio Cuore Immacolato e la comunione riparatrice nei primi sabati». Tornando agli esorcismi, padre Vasil non è l'unico sacerdote greco-cattolico a praticare il rito per allontanare la guerra: nei rifugi antibombe, nelle case e nelle parrocchie rimaste in piedi in Ucraina, un network di preti ogni giorno si riunisce a distanza per recitare preghiere e chiedere la liberazione di Putin dalle grinfie del demonio. Un prete residente a Leopoli ma nativo del Donetsk, padre Tykhon Kulbaka, già prigioniero nel 2014 dei separatisti, ha messo in piedi una rete di sacerdoti e di fedeli che invocano il Signore e san Michele arcangelo eseguendo quotidianamente il rito sul presidente della Federazione Russa. «Sono convinto che uno spirito maligno stia influenzando le azioni di quest'uomo. Chiedo a Dio di intervenire per sottrarre questa persona dall'influenza demoniaca e scacciare il demonio, in modo che l'anima possa essere salvata» spiega padre Kulbaka, che ha lanciato un SOS a tutto il clero ucraino per unirsi a lui nella battaglia contro le forze del male.

Dagonews l’8 aprile 2023.

Il Vaticano è pieno di diavoli e dietro gli attacchi al Papa, come quelli di Padre Georg, ci sarebbe anche lo zampino di Satana. A dirlo, incredibile ma vero, è stato proprio il demonio durante un esorcismo. Il problema è che Bergoglio ha contro anche gli esorcisti, come racconta Fabio Marchese Ragona nel libro “Esorcisti contro Satana”.

 Papa francesco ha davvero un diavolo per capello, circondato com’è dai numerosi satanassi (e non sono pochi) che vivrebbero in Vaticano (e per quel che ha riferito sempre il diavolo: c’è anche una suora posseduta addirittura da Satana stesso) e il papa sembra esserne certo: questo spiegherebbe i continui accenni che fa al demonio ogni volta che parla alla Curia o a gruppi di preti e seminaristi.

Come non bastasse, il povero Bergoglio è assediato da numerosi indiavolati che bussano alla sua porta per essere esorcizzati perché non si fidano degli esorcismi compiuti da chi parla male del papa: in prima fila, gli esorcisti ucraini che, in mancanza di pronunciamenti papali, sono dediti ad esorcismi continui contro Putin perché “il maligno si allontani da lui”.

I poveri sono soltanto poveri. Storia di Luigino Bruni su Avvenire il 15 aprile 2023

Il rapporto tra taranta e San Paolo era un rapporto estremamente confuso e contraddittorio, nel quale coesistevano un San Paolo protettore dei tarantati, al quale si implorava la grazia, un San Paolo che iniziava le tarante per punire qualche colpa, e un San Paolo-taranta esorcizzabile con la musica, la danza e i colori

Le religioni sono il primo strumento con cui gli esseri umani hanno cercato di sconfiggere la morte, sono il grande cimento per rendere immortale ciò che naturalmente non lo è. Sono quindi il risultato del grande desiderio collettivo di metamorfosi della morte in valore. Il sacrificio è il medium che dovrebbe operare questa alchimia mirabile. E così, piante o animali destinati per loro natura alla morte, nel momento in cui vengono, nel rito, sacrificati escono dall’ordine naturale mortale e entrano in quello divino immortale - qui c’è il senso dell’etimologia di sacrificio: “fare sacro”. Uccidendo contro-natura la vita sull’altare la si rende immortale. È questa una spiegazione anche degli arcaici sacrifici umani: offerti agli dèi morivano sacrifica mente contro-natura e quindi non morivano più nella natura. Così, «l’uomo si costituisce come procuratore di morte nel seno stesso del morire naturale» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, p. 236).

L’uomo antico vedeva la natura morire di una morte parziale e non definitiva, perché il ciclo delle stagione faceva “risorgere” in primavera ciò che moriva in autunno, e ciò gli suggeriva che da qualche parte doveva accadere qualcosa di simile anche per gli uomini: «Un vecchio canto Dinca lamenta che mentre il sole sorge, passa e tuttavia ritorna, e così pure la luna, soltanto l’uomo nasce, passa e non ritorna più» (De Martino, ivi). Donando agli dèi cose vive queste escono dal tempo ed entrano nell’eternità – non capiamo la teologia antica della vita consacrata senza questa trasformazione e divinizzazione del dono della vita, né capiamo il profondo senso del lutto, cioè «procurare al defunto quella seconda morte culturale che vendica lo scandalo della morte naturale» (De Martino, ivi).

Con il Cristianesimo fa però irruzione sulla terra qualcosa di inedito. Cristo ribalta anche la logica delle religioni antiche: non siamo più noi che offriamo alla divinità i nostri doni-sacrifici mortali chiedendo di renderli immortali. Nell’eucarestia, quella sintesi viva della passione-morte-resurrezione di Cristo, è Gesù che donandosi a noi come pane ci fa partecipare della divinità. Non sono più i nostri doni a morire per poter vivere per sempre, ma è Dio che morendo-risorgendo ci dona qualcosa di vero della sua immortalità. L’eucarestia è dunque l’anti-sacrificio, è la parola fine sulla logica sacrificale, è la buona charis, la bella gratitudine. È tutta gratuità assoluta perché libera dal registro commerciale. Sta qui l’umanesimo del Cristianesimo. Nella prassi della tradizione cattolica, però, a partire soprattutto dalla Controriforma, questa dimensione assoluta di gratuità non sì è affermata nella cultura-culto nel popolo. Le persone continuavano ad interpretare la religione con il registro sacrificale, dove nessuna grazia è gratis: «“Se non accettate la gallina, la grazia non vale, e il bambino nascerà cieco”. “La grazia è gratuita”, disse don Paolo. “Le grazie gratuite non esistono”, rispose la donna». (Ignazio Silone, Vino e pane). La reazione cattolica alla salvezza per “sola grazia” dei protestanti rafforzò e amplificò l’idea della religione delle “opere” con le quali che si deve “meritare” la salvezza. La grazia non è avvertita come gratuità incondizionate: occorre lucrarla, guadagnarcela.

E così, anche la confessione e la conseguente eucarestia vennero lette dentro un rapporto di scambio uomo-divinità. Se prendiamo, per esempio, il “Catechismo di Pio X” (del 1905), si comprende subito che la narrativa della confessione porta a leggere la penitenza come il prezzo da pagare per ottenere la grazia del perdono e quindi la comunione-eucarestia. La natura condizionale dell’assoluzione la colloca naturalmente in un contesto giuridico-economico-commerciale di do ut des: uno dei «frutti che produce in noi una buona confessione è la grazia di Dio», che ci «rende capaci del tesoro delle indulgenze», indulgenze troppo facilmente interpretabili come prezzi da pagare per «la remissione della pena temporale» (Catechismo, § 9). L’eucarestia non viene quindi percepita come dono gratuito, arriva come risposta alle nostre buone opere – la grazia non opera se noi non siamo in grazia.

Questa percezione e narrazione contrattuale della grazia come risposta di Dio alle nostre opere meritorie ha prodotto effetti molto più vasti della sola interpretazione della confessione o della vita sacramentale, che già sono di per sé molto importanti se pensiamo a quanto sia ancora radicato nel popolo cattolico un approccio ai sacramenti del tipo: “pago e compro”. Chiaramente i teologi dicevano molte altre cose che complicavano e in parte confutavano queste narrative, ma queste “cose” non arrivavano in genere alla gente.

La gratuità-grazia è dunque davvero il tema centrale. Perché è proprio la gratuità che impedisce alle religioni di essere vissute come magia e superstizione. La magia è espressione dell’eterno desiderio dell’uomo di impossessarsi del sacro, manipolarlo e usarlo a proprio vantaggio tramite parole, gesti, pensieri. Per millenni l’esperienza del sacro è stata la reazione umana di fronte al tremendum (Mircea Eliade), al bisogno di capire e cercare di gestire forze che gli esseri umani percepivano sovrannaturali e incontrollabili. L’essenza della magia è un sacro senza gratuità, vissuto tutto dentro il registro dello scambio – l’economico è nato dal mondo del magico, non viceversa. Per questo la Bibbia (soprattutto coi profeti) è stata spietata con il mondo della magia e delle divinazioni, che interpreta come gravi forme di falsa profezia e di idolatria.

Fin dai suoi primissimi tempi, la Chiesa ha dovuto fare i conti con la magia e la superstizione. Papi, padri, concili e teologi, quindi, hanno fatto e scritto molto per proteggere la novità del Cristianesimo dalle forme arcaiche del sacro, in particolare dalla magia. Il Rinascimento conobbe un forte ritorno di pratiche magiche ed esoteriche a tutti i livelli. Prima della Riforma, c’erano stati interventi autorevoli di teologi e filosofi di primo livello (da Erasmo da Rotterdam a Boccella, Querini, Giustiniani, Fregoso) che denunciavano l’uso di immagini di Cristo, della Madonna e dei santi adoperate per varie forme di riti magici per la pioggia, i fulmini, le calamità, o per la fertilità. Quelle tendenze magiche e idolatriche che, già ben presenti nel Medioevo, stavano quindi nel Cinquecento crescendo e rischiavano di diventare una vera e propria epidemia – «San Paolo mio delle tarante».

Anche in questo ambito la Riforma protestante fu un evento traumatico e decisivo. Quel processo interno di critica alla magia e alla superstizione subì se non un arresto (la condanna dell’astrologia continuò, ad esempio con Sisto V) certamente un ridimensionamento e un rallentamento. La critica di Lutero e dei riformatori era infatti centrata anche sull’idolatria e paganesimo dei Paesi cattolici, accusati di coltivare nel “popolo semplice” l’adorazione di feticci (statue) e di immagini, in una pietà popolare vista come superstizione. Questo grande e globale attacco protestante al culto cattolico produsse due effetti principali nel mondo cattolico: (a) una difesa, per reazione, della legittimità di molta pietà e religiosità popolare meticcia, limitandosi soltanto alla condanna di gravi eccessi; (b) rivolgere critiche alla pietà popolare divenne un segnale di eresia di coloro che lo facevano. A tutto ciò si aggiunse poi un terzo elemento, anche questo decisivo.

La Chiesa della Controriforma non voleva perdere il rapporto-controllo con il “popolo semplice” lasciato in balìa delle sue credenze. Con il Concilio di Trento fece la sua scelta “pastorale”, e anche qui fu molto diversa da quella protestante. Mentre, infatti, il catechismo di Lutero si rivolgeva ai padri di famiglia, la riforma pastorale della chiesa post-tridentina fu incentrata sui nuovi parroci istruiti (Paolo Segneri) creati dai nuovi seminari e sui nuovi ordini religiosi. I libri e i documenti erano scritti per i parroci e religiosi che ben formati dovevano a loro volta formare il popolo semplice. Formare i formatori fu la scelta “politica” di Trento, una pastorale mediata di secondo o terzo livello. Per i “semplici” venivano prodotte immagini, innocue filastrocche e litanie facili da memorizzare in volgare o in dialetto (ricordo ancora quelle di mia nonna). Si formarono i pastori, non il gregge composto di illetterati, piccoli, poveri, donne, ignoranti, i rudes, i cafoni - la famiglia non è neanche menzionata nei documenti del Concilio di Trento.

Una importante conseguenza di questa scelta fu un inevitabile paternalismo nel trattare i “semplici”. Il paternalismo ha sempre come sua conseguenza naturale l’infantilismo, cioè interpretare il rapporto del clero con i fedeli come quello dei padri con i loro figli – e quando la stupenda realtà evangelica di essere “figli di Dio” diventa essere “figli dei parroci”, si smarrisce facilmente il senso della diversa paternità di Dio e di quella figliolanza. In questo contesto, le pratiche devozionali meticce o totalmente superstiziose furono trattate come “cose da ragazzi”, quindi tollerate come i genitori tollerano i dialoghi dei figli con i pupazzi. Fanciulli intrattenuti a baloccarsi dentro il recinto di una religione minore, considerata inoffensiva per la “salvezza” (la sola cosa che conta), teologicamente innocua. Si fecero anche molte cose buone “per” i poveri, lo vedremo nelle prossime puntate, ma raramente “con” i poveri (perché per fare cose con i poveri prima occorre riconoscerli come soggetti adulti). Ma diversamente dai bambini che vivono soprattutto di doni, l’esperienza religiosa che il popolo cattolico faceva era dominata da una idea di Dio che se non interviene a liberarci da malattie e povertà è a causa della nostra cattiveria. Produzioni oceaniche di sensi di colpa e di paura, la cui gestione consigliava di offrire a Dio il nostro dolore. E ricordarsi, in questa oikonomia, che Dio era soprattutto agape e amore incondizionale divenne davvero difficile – e, infatti, tanti lo dimenticarono.

Così, mentre i teologi discutevano sulla grazia e sui casi di coscienza, il popolo infante coltivava la sua innocente pietà popolare, sviluppava una “religione” di consumo e continuava a invocare gli antichi spiriti ai quali aveva solo cambiato nome, a volte neanche il baldacchino per la processione. Non dobbiamo, a questo punto, stupirci che questi nostri popoli cattolici, educati per secoli a una fede da figli di dèi minori, una volta che in un mondo disincantato la religione perse la sua capacità di soddisfare i gusti dei suoi consumatori, sono passati senza alcun indugio dai santuari ai centri commerciali, dal malocchio ai gratta-e-vinci, dai vecchi (e seri) santi delle chiese ai nuovi “santi” dello spettacolo e delle nuove sette emozionali.

Un’ultima nota. Quel popolo “semplice” ogni tanto faceva autentiche esperienze spirituali, perché, grazie a Dio, la voce libera dello Spirito soffia dove vuole, e lo Spirito è “padre dei poveri”, li ama moltissimo. Ma la storia dei Paesi cattolici poteva essere diversa, inclusa la sua storia economica e politica, se mentre si formavano i formatori si fosse cercato di trattare da adulti i poveri – perché i poveri non sono bambini, non sono neanche tanto “semplici”: sono soltanto poveri. l.bruni@lumsa.it​

Padre Amorth, la storia dell'esorcista e il film con Russell Crowe: perché il Vaticano ha preso le distanze. Vittoria Melchioni su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

Esce «L'esorcista del Papa» liberamente ispirato alle memorie di Padre Amorth: anche l’Associazione degli esorcisti è contro la pellicola. La vita dalla Democrazia Cristiana ai voti, diceva: «Giovanni Paolo II allontana il demonio»

Padre Amorth 

«La mia fede non necessita di difesa» afferma con sicurezza Russell Crowe nel trailer de «L’esorcista del Papa» la pellicola in uscita il 13 aprile che lo vede vestire la tonaca di Padre Gabriele Amorth, il più famoso esorcista dell’epoca moderna morto nel 2016. Liberamente tratto dalle sue memorie «Un esorcista racconta» e «Nuovi racconti di un esorcista», il film, prendendosi molte licenze, racconta la vita del sacerdote modenese e si focalizza su un misteriosa cospirazione tenuta segreta per secoli con la complicità del Vaticano. 

Il Vaticano e l'Associazione degli esorcisti contro il film

Vaticano che ha già preso le distanze dalla produzione hollywoodiana mentre l’Associazione Internazionale degli esorcisti (IAE) fondata nel 1991 e presieduta da Amorth fino alla fine della sua vita terrena, l’ha descritto come «Inaffidabile… puro cinema splatter». L’associazione ha affermato anche che la trama del film «pone dei dubbi inaccettabili su chi sia il vero nemico, il diavolo o il potere ecclesiastico».

Russel Crowe interpreta Padre Amorth

L’associazione ha affermato anche che la trama del film «pone dei dubbi inaccettabili su chi sia il vero nemico, il diavolo o il potere ecclesiastico». E se Russell Crowe sullo schermo se la deve vedere con un caso di possessione alquanto ostico, Amorth in vita ha praticato oltre 60.000 esorcismi. «Il diavolo è sempre pronto a dar battaglia, ma in definitiva è destinato alla sconfitta. Il male non prevarrà» – diceva fermamente convinto padre Gabriele Amorth, il cui ottimismo e il cui umorismo non sono mai venuti meno. 

La storia dell'esorcista più famoso dell'era moderna

Nato a Modena il 1° maggio 1925, don Gabriele entra nella congregazione dei paolini presso la Casa Madre di Alba il 25 agosto 1947, a 22 anni. Cinque anni prima, nell’estate del 1942 quando aveva solo 17 anni, un colloquio privato avuto con il fondatore della società di San Paolo don Giacomo Alberione, aveva rappresentato la sua personale «folgorazione». fondatore della Società di San Paolo, incontro che lo stravolge completamente. Nel frattempo, abbraccia la causa partigiana, scelta che gli vale una condanna a morte dalla quale scampa miracolosamente. Finita la guerra e terminati gli studi al liceo classico, entra nell’Azione Cattolica e poi nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e consegue la laurea in giurisprudenza. Attivo politicamente, si dà da fare nella Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti e Alcide De Gasperi, senza però mai intraprendere la carriera politica vera e propria perché la sua ferma volontà è sempre stata quella di prendere i voti, evento che si realizzerà il 24 gennaio del 1954. 

La nomina «provvisoria» del cardinale Poletti

Diviene esorcista molto più tardi, nel 1986, come lui stesso racconta: «Ero in un’udienza privata dal Cardinale Poletti e il discorso andò a finire su padre Candido Amantini, esorcista passionista alla Scala Santa, che conoscevo personalmente. Il Cardinale mi disse delle sue preoccupazioni per la salute del padre e il desiderio che qualcuno lo aiutasse. Allora prese fuori un foglio di carta e si mise a scrivere la mia nomina provvisoria…». Da lì l’inizio di una battaglia senza tregua contro il maligno e tutte le sue molteplici forme di manifestazione, dalle più antiche alle più moderne, affermando sempre con coraggio che il primo maleficio compiuto dal diavolo è far credere che non esista. Ribadendo che le possessioni e gli esorcismi non sono «cose da Medioevo», retaggi di un cristianesimo tenebroso, ma purtroppo casi quotidiani di concreto dolore. 

Padre Amorth e la battaglia per avere un esorcista in ogni Diocesi

Padre Amorth si è battuto per avere almeno un esorcista in ogni diocesi perché lamentava il fatto di averne troppo pochi in attività davanti al crescente numero di manifestazioni malefiche. In Emilia-Romagna sono poco più di una decina. «Satana attacca soprattutto il Papa – diceva - Il suo odio per il successore di Pietro è feroce. L'ho sperimentato nei miei esorcismi». Nel 2011 dichiarò che «Invocare Giovanni Paolo II è efficace contro il demonio» e la causa di questa dichiarazione gliela fornì il demonio stesso in uno dei loro duelli: «Ho chiesto al diavolo più di una volta: "Perché hai così paura di Giovanni Paolo II? E ho avuto due risposte diverse, entrambe interessanti. La prima: "perché ha disarmato i miei piani". E penso che con questo intenda la caduta, il crollo del comunismo. La seconda: "perché mi ha strappato molti giovani dalle mani"». 

Le polemiche con la Chiesa per l'uscita della pellicola

Sono tanti i giovani che, grazie a Giovanni Paolo II, si sono convertiti. Forse alcuni erano già cristiani ma non praticanti, e poi con Giovanni Paolo II sono tornati a praticare. Fervido credente e devoto alla Madonna, la più grande nemica del Maligno, si è sempre sentito protetto dalla Madre Celeste alla quale ha dedicato numerosi scritti, esponendosi anche in favore delle apparizioni di Medjugorje rispetto alla cautela espressa dalla Chiesa Cattolica. Il produttore del film Michael Patrick Kaczmarek aveva acquisito i diritti delle memorie di Amorth prima della morte dell’esorcista: «Sono stato in grado di convincerlo che, se avesse avuto l’opportunità di lavorare con me, avrei cercato di assicurarmi che la cattolicità fosse preservata nel film e che sarebbe stato rispettato come persona insieme alla Chiesa e suo ordine religioso». Promessa, a detta del Vaticano, non mantenuta.  

A Piacenza il padre di tutti gli esorcismi: «Nel 1920 otto demoni si impadronirono di una donna». Stefano Pancini su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

In attesa del film su padre Gabriele Amorth, interpretato da Russel Crowe, dalle memorie del grande esorcista emerge uno dei casi più gravi di possessione diabolica

Il 13 aprile 2023 uscirà nelle sale cinematografiche il film «L’esorcista del Papa» con protagonista l’attore Russel Crowe che interpreterà padre Gabriele Amorth, originario di Modena, che fu esorcista della Diocesi di Roma dal 1986 per mandato del cardinale Ugo Poletti. La pellicola è diretta dal regista australiano Julius Avery e la trama, liberamente ispirata dai libri di memorie «Un esorcista racconta» e «Nuovi racconti di un esorcista» di padre Amorth, racconta la storia di padre Amorth che s’intreccia con quella di un giovane ragazzo posseduto. Compito del sacerdote sarà quello di cercare di curare la malcapitata vittima sottoponendola ad esorcismi e nel frattempo, indagando, finirà per scoprire una cospirazione secolare che il Vaticano ha cercato di celare. Tra i tanti libri scritti da padre Amorth ce n’è uno, dal titolo «L’ultimo esorcista» (Piemme editore), che scrisse assieme al vaticanista Paolo Rodari, nel quale è descritto uno degli esorcismi più cruenti e meglio documentati della storia moderna, quello avvenuto a Piacenza agli inizi del XX secolo. L’autore lo descrive come «L’esorcismo piacentino del 1920 in Santa Maria di Campagna, rappresenta ancora oggi il padre di tutti gli esorcismi per gli specialisti italiani. Quella volta a Piacenza il diavolo è tornato e ha fatto cose che non ho mai visto fare altre volte. È tornato per uccidere». 

La stenografia originale delle sedute di esorcismo

Nella primavera del 1920 nella Sala del Duca della basilica di Santa Maria di Campagna un frate, padre Pier Paolo Veronesi, cappellano del manicomio di Piacenza, si è trovato ad affrontare un potente spirito maligno che si era impadronito del corpo di una donna. Il frate era inizialmente convito che la donna fosse in preda ad allucinazioni dovute ad una patologia psichiatrica ma, dopo essersi confrontato con il dottor Lupi, medico e direttore del manicomio della città, si convinse che occorreva procedere con gli esorcismi. Per la Chiesa Cattolica, il ministero di esorcizzare le persone possedute dal demonio è affidato con speciale ed espressa licenza dell’Ordinario del luogo, di norma il vescovo diocesano. Tale permesso viene concesso solamente ai sacerdoti di provata pietà, scienza, prudenza e integrità di vita, specificatamente preparati a tale ufficio. Il presbitero, al quale il ministero di esorcista viene affidato in modo stabile o ad actum, compie questo servizio di carità con fiducia e umiltà, sotto la guida del Vescovo (Cod. Diritto Canonico, Canone 1172). A rafforzare i fatti, il numero di testimoni del tempo e la stenografia dei dialoghi tra l’ossessa e l’esorcista che è stata in gran parte trascritta nel libro «Intervista col diavolo», pubblicato nel 1931 (sulla scorta dei documenti originali conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Bologna), da «Edizioni Paoline», stampato in pochissime copie e – leggenda vuole – che su di esso incomba una maledizione: il diavolo avrebbe minacciato di vendicarsi su chi avrebbe osato divulgare i dialoghi stenografati durante le sedute dell’esorcismo. Padre Secondo Ballati, attuale rettore dell’Ordine dei frati minori del Convento di Santa Maria di Campagna, commenta «Non c’è dubbio che quella volta il diavolo in persona si sia manifestato, e nel modo più spaventoso che gli fosse possibile attuare».

Il cappellano del manicomio e le confidenze dell'indemoniata

Una sera di maggio del 1920 mentre un frate era intento a riordinare la sagrestia della basilica di Santa Maria di Campagna, una donna fece capolino per chiedere una benedizione, una richiesta che non aveva nulla d’insolito ma si palesava soltanto un lodevole spirito di pietà. Una volta ottenuta la benedizione, la signora cambiò espressione, che si fece preoccupata e spaventata e iniziò a confidare al frate certi episodi abbastanza tenebrosi. Il frate, padre Pier Paolo Veronesi, cappellano del manicomio di Piacenza, era abituato alle confidenze più singolari; inoltre, l’atteggiamento malinconico della signora lo convinse ad ascoltare. La donna disse al sacerdote che in certe ore del giorno una forza misteriosa s’impossessava del suo corpo e della sua anima, in quei frangenti era in grado di parlare lingue straniere a lei sconosciute, di preannunciare in poesia la propria morte e quella delle sue sorelle, che a volte coi denti mordeva e lacerava persino i mobili di casa, che di sera, come fosse un serpente, con terrore di tutta la sua famiglia e dei suoi figli, scivolava dentro le spalliere delle sedie, per poi ruggire o miagolare o ululare con crescendo spaventoso. Salti disumani che la portavano a fare balzi da una credenza a un tavolo e persino da una stanza all’altra, per poi cadere sfinita a terra sotto gli occhi terrorizzati del marito e della madre. Il dettagliato racconto fece rimanere interdetto padre Veronesi, che pur essendo per mestiere preparato a folli e maniaci, non si capacitava come potesse essere tutto frutto di fantasia e gli venne di pensare a un fenomeno d’isterismo. Il frate interrogò la signora per sapere se altri prima di lui avessero esaminato il caso. La signora disse di essere stata visitata da numerosi medici di Piacenza e che i fatti, che la vedevano coinvolta ormai da sette anni, non cessavano nonostante si fosse sottoposta a numerose cure e assumesse medicinali. Padre Veronesi le domandò come mai avesse deciso di rivolgersi a un ministro di Dio e la donna gli rispose che ora riponeva le sue ultime speranze in Cristo Signore e che solamente le benedizioni di un sacerdote la facevano sentire meglio. Padre Veronesi si convinse che i fatti dovevano essere approfonditi, pertanto domandò alla donna se già si fosse rivolta al sacerdote del paese. Lei gli rispose che temeva che quei preti la ritenessero pazza. Nei giorni seguenti la donna si ripresentò da padre Veronesi e prese a ululare come fosse un lupo, reclinò il capo e prese ad inveire contro qualcosa di invisibile in una lingua sconosciuta e con modi violenti. Nonostante padre Veronesi fosse spesso, e da tempo, impegnato al manicomio cittadino, dovette ammettere che mai aveva notato un caso simile a questo. Padre Veronesi decise quindi di presentare il caso al vescovo di Piacenza, monsignor Giovanni Maria Pellizzari, il quale, dopo essersi fatto raccontare il caso nei dettagli, e dopo un’attenta riflessione, disse: «Caro Padre, procedete con gli esorcismi». Il frate, colto di sorpresa, cercò di convincere il vescovo di procedere attraverso la nomina di un altro esorcista, ma il vescovo rimase della sua idea. Il frate uscì dall’episcopio in condizioni di spirito abbastanza depresse e con addosso una bella dose di paura per l’incombenza di dover parlare col demonio e di vederlo all’opera. Dopo aver ricevuto l’ordine del vescovo Pellizzari di procedere con il rito dell’esorcismo, padre Pier Paolo Veronesi invitò il dott. Lupi, direttore del manicomio cittadino, ad assistere alle sedute. Per scrupolo di esattezza oggettiva, e per placare la propria ansia, volle che agli esorcismi fossero presenti anche altre persone. In tal modo non avrebbe dovuto fronteggiare da solo le possibili furie della presunta ossessa. Infine, pregò un confratello, padre Giustino, che conosceva bene la stenografia, di voler fissare su carta lo svolgersi dei dialoghi. 

Il primo esorcismo nella Sala del Duca

Alle ore 14 del 21 maggio 1920 ebbe luogo il primo convegno per l’esorcismo. La donna giunse nel piazzale antistate alla chiesa di Santa Maria di Campagna accompagnata dal marito, dalla madre, da un amico di famiglia e da due ragazze. Fu accompagnata nella Sala del Duca, che si raggiuge percorrendo una rampa di gradini, e che è situata al primo piano del Santuario. È una stanza spaziosa con ampi finestroni. Al centro vi era un piccolo altare, sul quale poggiava la Croce di Cristo e due candele. Davanti all’altare furono sistemate due sedie, che avrebbero dovuto servire da genuflessorio all’esorcista e al suo assistente, per le preghiere preparatorie. Al centro della stanza, una sedia in vimini per la signora e, attorno, altre sedie per i testimoni. A destra dell’altare la poltrona del medico e a sinistra il banco dello stenografo. Accanto, un piccolo tavolo con la stola, la cotta, il rituale romano, l’aspersorio e il secchiello dell’acqua santa. La signora fu invitata a sedersi. Si iniziarono a recitare le preghiere. Quando si arrivò a pronunciare lo scongiuro, la signora, che fino a quel momento era rimasta tranquillamente seduta, alle prime parole, «Exorcizo te, immundissime spritus, omne phantasma, omnis legio…», unì le mani alla punta dei piedi, si librò in aria e prese a contorcersi sul pavimento come una serpe. Diresse il viso, trasformato da una smorfia orribile, verso il sacerdote e con maschia voce tonante disse: «Ma chi sei tu, che osi venire a combattere con me? Non sai che io sono Isabò, che ho le ali lunghe e i pugni robusti?» e scaricò all’indirizzo dei presenti un cumulo di ingiurie. L’esorcista non si fece intimidire e impose alla creatura di tacere: «Io, sacerdote di Cristo, impongo a te, chiunque tu sia, e te lo impongo per i misteri dell’Incarnazione, della Passione e della Resurrezione di Gesù Cristo, per la Sua salita al Cielo, per la Sua venuta al giudizio universale, di star fermo, di non nuocere né a questa creatura di Dio né ai circostanti, né alle loro cose, e di ubbidire in tutto ciò che ti comando». Terminato lo scongiuro, il frate prese ad interrogare il demone. Gli chiese chi fosse, perché fosse lì, se era con altri. Ne uscì un quadro terribile. Otto demoni si erano impossessati di quel corpo il 23 aprile 1913 alle 5 di pomeriggio, a causa di una maledizione frutto di una stregoneria. 

Una maledizione con un pezzo di salame e vino bianco

Un atto che fu compiuto in una casa della città, per mezzo di un salame e di un bicchiere di vino bianco fatti ingerire alla donna mentre veniva pronunciato il maleficio. Il sacerdote ordinò al demone di andarsene ma egli, con tono sarcastico rispose: «Hanno impiegato sette giorni per farmi entrare, e tu vuoi farmi partire da questo corpo con un solo misero esorcismo?». La donna balzò sul sacerdote e con morsi gli dilaniò la veste, egli si difese gettandole addosso l’acqua santa. La donna, ritirandosi come fosse rimasta ustionata, replicò: «Me ne andrò quando questo corpo rigetterà la palla di salame maledetta». Seguirono altre preghiere. La donna vomitò qualcosa. Durante questo primo esorcismo, e gli altri che seguirono, rigettò cose assunte durante il maleficio del 1913 e non i cibi ingeriti durante i pasti appena precedenti. L’esorcismo era in atto da ore, pertanto il sacerdote pose fine al rituale imponendo allo spirito maligno di non far del male ad alcuno. La donna giaceva priva di sensi sul pavimento. Prese pallidamente a risvegliarsi, non ricordando nulla di quanto fosse accaduto. Il secondo esorcismo ebbe luogo il 23 maggio successivo, sempre nella sala al piano superiore del Santuario e non nella basilica, a detta dei frati «Per non sconvolgere i fedeli che frequentavano la chiesa». Seguirono molti altri esorcismi, durante i quali il frate riuscì a scacciare quattro demoni (spesso terminati con la stola squarciata dai denti dell’idemoniata) e a scoprire il nome del mandante (un campagnolo che si era invaghito della donna e da questa respinto). Il sacerdote fu anche capace di far rivelare altri dettagli del maleficio come la chiara volontà da parte del mandante di uccidere la donna, rea di non aver ceduto alle sue lusinghe. I fatti qui riassunti devono essere immaginati come continuamente spezzati in lunghi e spossanti alterchi, in ricorrenti tentativi di tergiversazioni e di inganno nelle risposte del demonio, in frequenti preghiere del frate: questo dilungava il colloquio per ore e ore. In un’altra seduta il demone Isabò minacciò di sconvolgere le notti di padre Veronesi comparendogli vicino al letto per mostrargli il suo vero terrificante aspetto. Da allora e per tutta la sua vita, il frate avrebbe dormito con la luce accesa.

Liberata dopo venti sedute, poi l'improvvisa morte del vescovo

Qualche giorno prima dell’undicesimo esorcismo, l’amico di famiglia - che sempre era stato presente agli esorcismi precedenti - si presentò da padre Veronesi per confidare le sue paure e informarlo che non avrebbe più preso parte al rituale. Era agitato, «In questi sette anni ho avuto modo di osservare tante cose, e posso garantirle che tutto ciò che ha detto Isabò si è sempre avverato con certezza matematica. Egli ha detto che dovrò morire fra tre mesi, e che anche il vescovo sarebbe morto se avesse concesso questo permesso. Saremo entrambi vittime della sua vendetta». Il frate tentò di dissuaderlo facendogli notare che il vescovo godeva di ottima salute e che le parole del demone erano menzognere. La donna, nel frattempo, dopo una ventina di sedute di esorcismo, venne finalmente liberata dal demonio. Ma qualche mese dopo, per Piacenza si sparse improvvisamente la notizia che il vescovo era gravemente malato. E, in effetti, la morte di monsignor Pellizzari sopraggiunse inaspettata il 18 settembre 1920 e due mesi più tardi, in un freddo pomeriggio di novembre, morì anche quell’uomo. Citando Sant’Agostino, uno dei maggiori pensatori ecclesiastici, «i demoni non possono vedere direttamente il futuro ma usano soltanto la loro esperienza, la quale si basa di certi indizi a noi sconosciuti e permette loro di vedere le cose future assai meglio degli uomini. Il demonio ha potere molto più limitato – benché assai più sottile e incontrollabile – di quanto la mentalità popolare non sia portata a credere. Non bisogna farsi ingannare. Le morti preannunciate non sono opera del demonio, ma è a lui conveniente far credere che lo siano, per spaventare e incutere timore reverenziale».

Chi sarebbe l'Anticristo della tradizione cristiana? Un identikit nel libro di Armando Savini. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 07 febbraio 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

È stato da poco pubblicato “L’ultimo anticristo. Identikit dell’uomo più diabolico della storia secondo le profezie antiche e moderne” (QUI ), un libro che probabilmente farà discutere. Abbiamo posto alcune domande l’autore Armando Savini, economista e saggista, già docente di economia e metodi di ricerca per il business, nonché studioso di esegesi biblica e mistica ebraica.  

 D. Professore, ci spieghi: chi sarebbe l’anticristo per la tradizione cristiana?

R. L’anticristo è colui che si oppone a Cristo ma, anche, colui che gli si pone davanti anziché porsi alla sua sequela. L’anticristo è un seduttore che misconosce le verità di fede, come l’incarnazione del Messia, che nega il Padre e il Figlio, come anche che Gesù sia il Messia. È un seduttore, cioè, uno che ammalia con discorsi melliflui e ambigui, che rende la verità un’opinione e che si mostra addirittura più misericordioso di Dio stesso. Come ci ricorda l’apostolo Giovanni nelle sue lettere, molti sono stati gli anticristi che «sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri» (1Gv 2,19). Alla fine dei tempi, ecco l’ultimo anticristo, colui che tocca l’apice della malvagità e della menzogna.

 D. L’ultimo anticristo, sarebbe un uomo o un ente collettivo?

R. Direi entrambi. L’ultimo anticristo è l’immagine della bestia che sale dall’abisso, potremmo dire il suo vicario. Sul fatto che l’ultimo anticristo sia un uomo, non ci sono dubbi: Paolo, nella lettera ai Tessalonicesi parla chiaramente. Tuttavia c’è un’osmosi tra l’uomo e l’ente collettivo, cioè, tra l’anticristo personale e l’anticristo collettivo. Quest’ultimo è simboleggiato dalla bestia che sale dall’abisso, cioè, un popolo malvagio, la cui espressione visibile è l’anticristo personale. Nell’Apocalisse, infatti, si legge che viene eretta un’immagine della bestia, un’immagine in grado di comminare sentenze di morte. Dunque, è una persona in carne ed ossa.

 D. Che tipo è? Dovessimo incontrarlo, come ci apparirebbe?

R. Mons. Fulton Sheen, parlando dell’ultimo anticristo, diceva che «non sarà chiamato così, altrimenti non avrebbe seguaci. Non indosserà calzamaglie rosse né vomiterà zolfo, né impugnerà una lancia né agiterà una coda con la punta a forma di freccia come il Mefistofele nel Faust». L’ultimo anticristo si nasconde nella normalità di ogni giorno. Forse neanche sa di essere quello che è. Per fare ciò che deve fare, è necessario che sia investito di una particolare autorità.

 D. Che tipo di autorità?

R. Nell’Apocalisse si legge di una stella che cade dal cielo sulla terra e che apre il pozzo dell’abisso, facendo salire il re dell’abisso, cioè, il diavolo. Al capitolo 20, Giovanni racconta di aver visto un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell’abisso e una catena in mano. I Padri della Chiesa insegnano che questo angelo rappresenta il Signore Gesù Cristo alla sua prima venuta, quando sconfigge il regno di Satana e lo incatena per mille anni, cioè, per tutto il tempo della Chiesa, fino all’avvento dell’anticristo. La chiave e la catena indicano il potere di contenere le forze del male. La chiave, inoltre, è il simbolo dell’autorità conferita da Cristo. Nell’Apocalisse, i vescovi sono chiamati stelle e il cielo designa la Chiesa. Quindi, l’anticristo non può che essere un vescovo apostata, che sparge errori dottrinali nella Chiesa, trascinando nell’abisso quanti lo seguono. A differenza degli altri anticristi, raggiunge il massimo della perversione. La sua azione è subdola e la sua tirannide universale di estende senza alcuna azione militare. L’ultimo anticristo è un grande umanitario, un pacifista, europeista, ecologista, salutista, ecumenista, sincretista, idolatra, spiritista e demonolatra, amico dei potenti della terra con una particolare predilezione per i poveri e i diseredati. È un falso pastore a capo di una chiesa eretica, controllata da una setta segreta. Le profezie rivelano che la sede del suo regno è Roma e che vi giunge negli anni del Duemila. Secondo l’abate e teologo Augustin Lèmann, «Roma, ridivenuta pagana, sarebbe la tappa preparatoria al regno romano dell’Anticristo» che sarà legato alle sette massoniche, all’interno delle quali si potrebbe, addirittura, comprendere il valore del numero 666.

 D. Quindi, secondo lei si tratterebbe di un vescovo apostata e, per giunta, massone?

R. L’Apocalisse ci rivela che l’ultimo anticristo è l’immagine della bestia, e potrebbe significare che è lo specchio della massoneria. Il profeta Daniele ci dice che con la frode si insedia nel Tempio di Dio - che è la Chiesa - e impone le dottrine di Belial, grazie alla bestia che sale dalla terra, cioè, la massoneria ecclesiastica. Secondo alcune profezie, l’ultimo anticristo è un falso pastore a capo di una chiesa eretica, controllata da una setta segreta, e agisce sotto il pieno controllo di Satana, cui si è dato.

Da focus.it il 3 Gennaio 2023.

 Il Codice Gigas (Codex Giganteus), o "Bibbia del diavolo", è un imponente manoscritto medioevale in latino, del peso di oltre 74 chili, alto 92 centimetri e spesso 22. Il più grande ancora esistente tra quelli dell'Età di mezzo. Comprende 310 fogli di pergamena ottenuta dalle pelli di 160 asini (o vitelli). 

È conservato a Stoccolma, nella biblioteca nazionale svedese, dove giunse nel 1648 come bottino della Guerra dei trent'anni. Prima si trovava a Praga, nella collezione dell'imperatore Rodolfo II e proveniva da un monastero benedettino boemo.

Il manoscritto, finemente miniato, contiene un ritratto del demonio alto 50 centimetri. E ciò ha fatto nascere la leggenda di un monaco peccatore, condannato a essere murato vivo se non avesse espiato, scrivendo in una notte un libro comprendente tutto lo scibile umano. A mezzanotte l'uomo, disperato, chiese aiuto al diavolo, dando in cambio la propria anima.

L'esame del testo rivela però altro. La stesura di questo volume durò 20 anni e si concluse nel 1229, come si deduce dall'ultimo fatto riportato. Il libro comprende il testo della Bibbia, la Cronica Bohemorum (1125) di Cosma di Praga, un calendario con necrologi, formule magiche e gli alfabeti greco, cirillico ed ebraico. L'autore è un monaco, un certo Herman Inclusus, ossia "recluso", nel senso di isolato dal mondo e non "murato vivo", come invece vuole la leggenda.

DAGONEWS il 18 gennaio 2023.

"Nei nostri rituali non c'è mai un omicidio, non c'è mai un sacrificio, non c'è mai un rito di sangue a Satana. Non adoriamo il diavolo. Non facciamo incantesimi..".

In effetti, come insistono il Global Order of Satan UK e altri leader e membri di gruppi satanici in tutto il mondo, sarebbe difficile individuare un satanista che cammina per strada.

 Eppure, mentre i macabri rituali occulti, i sacrifici di vergini, i calici di sangue e la credenza nel Diavolo vero e proprio appartengono al passato, il satanismo sta attirando un numero crescente di giovani disillusi dalle religioni tradizionali "obsolete" e "dogmatiche", offrendo un'"alternativa" alle fedi tradizionali "soffocanti".

Il Sunday Telegraph ha parlato con i leader e i membri dei gruppi satanici di tutto il mondo, i quali sostengono che le opportunità che il satanismo offre alle persone di impegnarsi nell'attivismo e nelle campagne su questioni come il genere e la sessualità sono parte dell'attrattiva per i membri più giovani, in particolare per quelli che sono sempre meno propensi a dichiararsi cristiani.

 Leopold, un impresario di pompe funebri londinese di 32 anni, co-gestisce il Global Order of Satan UK, ha dichiarato di aver registrato un aumento del 200% dei membri negli ultimi cinque anni.

Due sono i fattori responsabili: la diminuzione della popolarità delle "religioni dogmatiche tradizionali" e "il movimento verso l'autoidentificazione e l'autorealizzazione".

Questo avviene soprattutto tra i più giovani che non vogliono essere identificati come parte di una religione dogmatica e prescrittiva e vogliono piuttosto identificarsi con le proprie convinzioni e la propria auto-realizzazione, che è ciò che offre il Satanismo.

I suoi commenti arrivano mentre il cristianesimo lotta per attrarre le generazioni più giovani e rimane diviso sulla questione del matrimonio gay, con i vescovi che si preparano a una votazione storica sulla questione, il mese prossimo.

 Secondo il censimento dell'Office for National Statistics (ONS), pubblicato a novembre, il numero di persone in Inghilterra e Galles che si identificano come satanisti è aumentato del 167% tra il 2011 e il 2021, passando da 1.893 a 5.054 persone.

Allo stesso tempo, il numero di cristiani è sceso così tanto che ora rappresentano meno della metà della popolazione di Inghilterra e Galles per la prima volta nella storia del censimento.

 Tuttavia, il censimento ha rivelato anche un aumento di altre religioni meno tradizionali, con un incremento del numero di pagani da 56.620 a 73.733, nonché un aumento del numero di animisti, che credono che tutte le cose naturali abbiano un'anima. Sono passati da 541 nel 2011 a 802 nel 2021.

Gli accademici sostengono che ciò sia indicativo di una tendenza più ampia.

Il dottor David Robertson, docente senior di studi religiosi presso la Open University, ha dichiarato: "L'attrattiva di molte nuove religioni, compreso il satanismo, è che offrono una forma di religione che affronta direttamente le questioni sociali che interessano di più ai giovani, soprattutto la loro volontà di essere attivisti.”

Il satanismo dunque può essere considerato "una religione per giovani".

Barbara Costa per Dagospia domenica 20 agosto 2023. 

In che mani siamo? O siamo stati, politicamente? Non so voi, ma io a sortilegi e affini non credo, sono razionale allo sfinimento, e però qui la gran questione è: abbiamo avuto politici che ci hanno governato credendo a maghi, fattucchiere, pozioni, arti occulte, bianche e nere? Sì. Lindau Editore fa benissimo a ripubblicare "La Magia e il Potere. L’esoterismo nella Politica Occidentale" di Giorgio Galli, storico non necessitante presentazioni, che in tale suo lavoro svela i coiti tra esoterismo e politici dalla nascita dello Stato moderno a oggi.

Per niente sottovalutando le diavolerie di un Richelieu, d’un Ceausescu, io sono corsa al capitolo che tratta la stra-famigerata seduta spiritica del 1978, fatta sull’Appennino emiliano da professoroni, diventati poi ministri, e pure premier, per "scoprire" dove le Br tenessero prigioniero Aldo Moro. Una stramberia – questa seduta spiritica – a me curiosissima: perché si è stati – e si è – vergognosi a parlarne? Come appura Giorgio Galli, tutta ma proprio tutta la verità su tale chiamata di spiriti, non si sa. Si sa che all’evento c’era Romano Prodi, sì sì, e con lui 11 persone dai curricula paurosi. Tutti cattolici. Sì sì.

E tutti a giochicchiare con le anime dei morti. Giorgio Galli è preciso: “Il 2 aprile 1978, è un sabato, e sono passati 17 giorni dal sequestro di Moro”. Ci sono 12 amici in gita a Zappolino, vicino Bologna: “Nel pomeriggio, il tempo si guasta, invece di una passeggiata viene organizzata una seduta spiritica, per avere notizie sull’amico Aldo Moro”. 

Ah. Galli dice che è stata fatta a casa di uno dei 12, peccato non dica chi avesse l’occorrente – le capacità, già, chi ha fatto da medium? C’era un medium? E qualificato? – necessari per dar vita a tale seduta. Passa subito ai fatti: “Viene posto al centro del tavolo un piattino da caffè, sotto di esso è collocato un foglio con numeri e lettere”. E chi invocano i presenti? Giorgio La Pira, defunto cattolicone DC, padre costituente e pure ex sindaco di Firenze, ma non solo: “Pare vengano evocati anche don Luigi Sturzo, e Alcide De Gasperi”.

Comunque risponde La Pira, è lui, lo spirito destato che “fa muovere il piattino e forma la parola Gradoli”. A questo punto i partecipanti prendono “lo stradario, in macchina”, e trovano Gradoli, paese in provincia di Viterbo e non la via Gradoli di Roma. Ma eccoci: “Dell’esito della seduta viene informato il ministro degli Interni”. E chi è che parla? Romano Prodi. Il 4 aprile, due giorni dopo "la rivelazione" di La Pira. E 7 mesi dopo, Prodi è nominato ministro dell’Industria. DC, ovvio.

Giorgio Galli non crede che tale seduta spiritica sia “stata fatta per gioco, per passatempo”, né che sia pura invenzione (come da più parti ventilato, che fosse una balla atta a celare la vera fonte della spiata Gradoli al governo, fonte poco o nulla lecita). E Galli soprattutto rileva che i Prodi non hanno partecipato attivamente alla convocazione di La Pira: “Stavano seduti accanto al tavolo”, sicché erano gli altri con le mani a catena a far due chiacchiere con La Pira? Dice Prodi in Commissione Stragi il 10 giugno 1981: “Era la prima volta che vedevo una cosa del genere. Il gioco del piattino è andato avanti diverse ore. Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Ho ritenuto mio dovere, e a costo di sembrare ridicolo, di riferire la cosa. Il nome – Gradoli – era sconosciuto, e allora ho riferito immediatamente”. 

A chi? “A Umberto Cavina, portavoce di Benigno Zaccagnini, segretario DC”. A leggere Galli, si rizzano i capelli, e non per La Pira spiritato, ma sentite qua, è Prodi che parla: “Era una cosa buffa. Io stavo in disparte con i bambini, e il gioco mi ha incuriosito. Anch’io ho messo il dito nel piattino. [La seduta] è durata ore, mentre i bambini andavano e venivano”. I bambini sono 5, ma questi adulti – i loro genitori – si son messi a fare una seduta spiritica davanti a loro????? E questi adulti, con responsabilità sociali rilevanti, e amici di Moro, e con Moro sotto sequestro, l’Italia nel terrore, pensavano di trovare soluzioni col paranormale…!!?!?

Giorgio Galli riporta un’intervista radiofonica a una – anonima – partecipante alla seduta: “È stato un gioco, solamente un gioco… pioveva, eravamo costretti in casa… ma tutto era affrontato con animo leggero, c’erano i bambini… non ci siamo posti il problema della presenza dei bambini… era una distrazione per passare un po’ di tempo… il piattino si qualificò come Giorgio La Pira… poi dalla TV ho appreso che quel gioco aveva rivelato cose veritiere”. 

Ma consoliamoci: la seduzione del paranormale mica è solo roba da esponenti DC. Palmiro Togliatti, capo PCI, era solito portare “nella tasca destra dei pantaloni un amuleto, una stretta e lunga pelle di serpente intero, arrotolata, e marrone”. Poi dici che non era il Migliore. E ancora: con Togliatti, mai mettersi a tavola in 13. In nessuna occasione. Togliatti indossava solo vestiti positivi, “che portavano bene” (???). E questo lo dice Nilde Iotti, compagna sua. Ma con "fenomeni" politici di siffatto livello, come possiamo mettere becco nelle follie sovrannaturali dei capi esteri?

Giorgio Galli racconta che per 8 anni, alla Casa Bianca, Ronald e Nancy Reagan si sono affidati ai vaticini di “Joan Quigley, astrologa di San Francisco”, specializzata nella divinazione di “giorni buoni e giorni cattivi”, e nell’inviare “mensilmente le elevate fatture [di soldi] alla Casa Bianca”. 

La pagavano i contribuenti? Il capo di stato cinese Deng Xiaoping ricorreva agli sciamani, Bill Clinton ha detto di essere “in contatto con lo spirito di Elvis Presley”, sua moglie Hillary alla Casa Bianca aveva “conversazioni con la ex first lady Eleanor Roosevelt”, morta nel 1962, e, scusate ma sono fissata, è vera la storia che durante il sequestro Moro, il governo, per sapere dove stava, “è ricorso a un sensitivo”, e a un veggente ??? E pure a una suora di clausura che c’aveva le visioni? Io non lo so, ma, nella Prima Repubblica, a “indovine, pranoterapeute, e esperti del paranormale” ricorrevano pure “Tambroni, Fanfani, e Andreotti”? Si tirava a campare secondo la congiuntura astrale?

DAGONEWS il 22 gennaio 2023.

Il sacerdote Gerald Johnson, del Michigan, ha dichiarato di aver visitato l'inferno dopo aver subito un attacco di cuore e che l'esperienza gli ha cambiato la vita per sempre.

"Non lo augurerei al mio peggior nemico", ha detto.

 Johnson ha pubblicato le sue affermazioni in una serie di TikTok ed ha dichiarato di essere stato mandato all'Inferno nel febbraio 2016 dopo un attacco di cuore.

In uno dei suoi video più virali, che ha ottenuto 3,7 milioni di visualizzazioni, Johnson ha affermato: "Ero lì e non lo augurerei al mio peggior nemico. Nessuno se lo merita".

 Il sacerdote del Michigan ha descritto il momento in cui è stato lanciato al centro della Terra, dove secondo lui si trova l'inferno.

"Il mio spirito ha lasciato il corpo fisico ed ho pensato di essere in viaggio verso il Paradiso”, ha ricordato.

 “Ma le cose che ho visto lì sono indescrivibili. Quando ne parlo mi pervadono tanti sentimenti contrastanti".

Cosa succede all'inferno?

Johnson, sacerdote da sette anni, ha descritto alcune delle cose di cui è stato testimone quando ha visitato l'inferno, tra cui un uomo che "camminava a quattro zampe come un cane e veniva bruciato dalla testa ai piedi. Aveva gli occhi sporgenti e portava catene al collo mantenute da un demone.”

Johnson ha spiegato che il demone sa che se riesce a far sì che le persone non servano Dio e facciano cose cattive, poi le sopraffarà all'Inferno, dove saranno suoi schiavi.

 "Siamo schiavi sulla Terra per l'influenza del demone, e siamo cani torturati all'Inferno" ha dichiarato.

 Johnson ha aggiunto che c'è una sezione dell'Inferno dove si ascolta musica.

Dice di aver sentito canzoni come "Umbrella" di Rihanna e "Don't Worry Be Happy" di Bobby McFerrin. Sembra bello, vero? Non è così.

Secondo l'uomo non sono gli artisti originali a cantare le canzoni, ma un gruppo di demoni che usano le parole per torturarci.

 Per concludere, Johnson ha rivelato come è riuscito a sfuggire all'Inferno e a tornare sulla Terra.

"Ero arrabbiato con Dio perché avevo fatto tanto bene nella mia vita ed ero finito lì. Sono uscito dall'Inferno tornando sulla Terra e Dio mi ha parlato.

Mi ha detto: "Eri segretamente arrabbiato con le persone che ti hanno fatto del male, speravi che le avrei punite. Questa non è la tua gente. Questa è la mia gente. Voglio solo che ti concentri sul compito che ti ho affidato".

 “Anche se ho fatto del bene, quello che avevo nel cuore era la mancanza di perdono per le persone che mi avevano fatto del male.

Un uomo che non sa perdonare è un uomo che ha dimenticato di essere stato perdonato".

 "Questa è la mia esperienza all'inferno. È un luogo assolutamente reale", ha concluso.

Madame Blavatsky, la madrina dell’esoterismo europeo. Emanuel Pietrobon il 21 Gennaio 2023 su Inside Over.

 Società segrete, ordini iniziatici, compagini magiche e circoli esoterici hanno rappresentato il volto oscuro della Belle Époque, condizionando un’intera generazione di intellettuali, ricercatori e politici ed esercitando un impatto culturale notevole e duraturo.

Le realtà che hanno composto il lato oscuro della Belle Époque sono state accomunate dal rifiuto verso il cristianesimo tradizionale, in particolare il cattolicesimo, e dalla volontà di riscrivere ex novo l’identità dell’Europa e dell’homo europaeus. Le loro tesi, a volte condivisibili, altre soltanto intriganti e altre ancora pericolosamente fanatiste, hanno inconsapevolmente preparato il terreno alla futura ascesa dell’ideologia nazista.

Raccontare del lato oscuro della Belle Époque è un esercizio storico impegnativo, perché concreto è il rischio di cadere nel cospirazionismo spicciolo, ma necessario, perché indispensabile al fine della comprensione del misticismo nazista – e non solo. Ed è un esercizio che impone di ripercorrere le storie dell’Ordo Templi Orientis di Carl Kellner, dell’Ordine ermetico dell’alba dorata e la biografia di Madame Blavatsky.

Una bambina appassionata di occulto

Elena Petrovna von Hahn, popolarmente nota come Madame Blavatsky, nacque a Ekaterinoslav, odierna Dnipro, il 12 agosto 1831. Di origini russo-tedesche, nelle sue vene scorreva sangue blu da parte materna – la madre apparteneva alla casata dei Dolgorukov, legata all’antica dinastia dei rurikidi.

L’infanzia della piccola Elena è segnata da frequenti trasferimenti all’interno dell’Impero russo per assecondare la carriera militare del padre. Kam”jans’ke. Odessa. San Pietroburgo. Astrachan’. Poltava. Saratov. Sei città in meno di dieci anni. La bambina cresce con la servitù di famiglia, abituata ad uno stile di vita nomadico e tra un’esperienza e l’altra impara l’inglese, a suonare il pianoforte e viene a contatto col buddhismo tibetano – attraverso i calmucchi.

Alba dorata, la società di stregoni che voleva regnare sull’Europa

Nel 1842, non ancora trentenne, la madre muore a causa di tubercolosi. La piccola Elena e i due fratelli vengono affidati alle cure del nonno materno, un politico con base a Saratov; un’esperienza destinata a incidere in maniera determinante nella vita della futura Madame Blavatsky. All’interno della nuova residenza dei bambini, eredità del bisnonno materno, il principe Pavel, era presente una biblioteca dedicata all’esoterismo e all’occultismo. Una volta scoperta, la piccola Elena avrebbe trascorso intere giornate a leggere quei libri.

Passato qualche anno, il nonno materno viene chiamato a Tbilisi per un lavoro e porta con sé i tre nipoti. Qui, ormai adolescente e sempre appassionata dall’esoterismo, la giovane Elena si metterà alla ricerca di massoni e proseguirà gli studi, da autodidatta, su occultismo e paranormale. Nel 1849, al compimento dei diciotto anni, il matrimonio col quarantottenne Nikifor Blavatsky e una successiva convivenza con lui a Erevan.

Ma la vita coniugale non fa per lei. Il divario anagrafico si fa sentire. Ha paura di consumare il matrimonio. Dopo qualche mese, pur non divorziando, Helena, nel frattempo divenuta Blavatsky, abbandona il tetto coniugale e, con l’aiuto dei nonni materni, raggiunge il padre a Odessa. Gli spiega che vorrebbe viaggiare, conoscere il mondo, cominciare una nuova vita. Otterrà un passaggio fino a Costantinopoli, anticamera dell’Asia, e denaro sufficiente a permetterle di fare la girovaga per i venti anni successivi. L’inizio del mito di Madame Blavatsky.

La teosofia

La vita di Madame Blavatsky tra il 1850 e il 1880 è un susseguirsi di avventure in giro per il mondo. Avventure raccontate da lei stessa, ma non suffragate da prove – se non la sua testimonianza –, che poco alla volta avrebbero condotto alla nascita della teosofia. Trent’anni di viaggi tra Europa, Africa e Asia, forse anche Latinoamerica, durante i quali la Blavatsky avrebbe incontrato capi massoni, guru, stregoni ed entità spirituali, giungendo ad ottenere la conoscenza antica.

Tutto avrebbe avuto inizio a Costantinopoli, nel 1850, con la conoscenza di un carbonaro italiano, noto con lo pseudonimo di Agardi Metrović, e della contessa polacca Sof’ja Potocka. Grazie a quest’ultima, che avrebbe fatto della Blavatsky un membro del proprio entourage, al Cairo avrebbe incontrato un mago copto, tal Paulos Metamon. Non si hanno altre fonti, a parte i resoconti di viaggio della Blavatsky, dell’effettiva esistenza di Metrović e Metamon.

Il 1851 è l’anno di un viaggio a Parigi, utilizzato per conoscere il mesmerismo e i primi praticanti dell’ipnosi, seguito da un soggiorno londinese, durante il quale sarebbe avvenuto un incontro fisico con un’entità spirituale apparsale da bambina: il maestro Morya. L’entità la illumina sui segreti dell’universo e le ordina di recarsi in Tibet, spiegandole che lì avrebbe trovato il suo destino. La teosofia prende lentamente forma.

L’incontro con Morya strega la Blavatsky, che, dal 1851 in avanti, proverà in tutti i modi a raggiungere il Tibet. Ma non subito. Nel 1851 si imbarca per le Americhe, che avrebbe attraversato dal Québec alle Ande, per poi dirigersi alla volta dell’India britannica. Non sa come faccia, ma Morya le scrive periodicamente delle lettere, che le fa recapitare puntualmente nei luoghi in cui lei si trova, fornendole suggerimenti sul dà farsi.

Arrivata a Mumbai, qui raccoglie testi induisti e fa la conoscenza di guru locali, ma il tentativo di entrare in Tibet sarà bloccato dalle autorità britanniche. Affranta, decide di fare ritorno in Europa, a Londra, ma il clima russofobico imperante – era scoppiata la guerra di Crimea – la spinge a salpare alla volta degli Stati Uniti. Dagli Stati Uniti si reca in Giappone, dal Giappone all’India britannica e, infine, nel 1856, l’ingresso in Tibet con l’aiuto di uno sciamano tataro.

Di politici, re, chiromanti e stregoni

Gli anni successivi sono un susseguirsi di viaggi in lungo e in largo l’Europa, dove reincontrerà e si riconcilierà con suo marito Nikifor e dove proseguirà gli studi sull’occulto. In Italia l’avvicinamento alla spiritualità della carboneria. In Romania lo studio della cabala. E nel frattempo, mettendo in pratica le conoscenze trasmessele dagli “antichi saggi”, il presunto sviluppo di abilità soprannaturali, tra le quali la bilocazione, la canalizzazione, la chiaroveggenza, la psicocinesi e la telepatia.

Tra il 1868 e il 1870 il viaggio della vita – anch’esso oggetto di aspro dibattito –: un ritiro spirituale a Shigatse, la città santa del buddhismo tibetano, all’interno dell’inaccessibile monastero di Tashilhunpo. Due anni trascorsi in compagnia di Morya e di un suo amico, Koot Hoomi, a studiare testi sacri mai letti da persona occidentale, a potenziare le proprie abilità paranormali e ad apprendere una lingua sconosciuta: il senzar.

Nel 1875, su consiglio di Morya e altri saggi occulti, la Blavatsky fonda a New York la Società Teosofica. L’obiettivo è raccogliere le conoscenze accumulate negli anni di viaggi e di metterle a disposizione di coloro che vogliono raggiungere l’illuminazione e toccare la sapienza perenne. La teosofia, basata su dei testi firmati dalla Blavatsky – tra cui La dottrina segreta e Iside svelata –, insegna che esisterebbero degli esseri cosmici guidati dalla volontà di purificare l’umanità – facenti parte della Grande fratellanza bianca – ed è una combinazione di credenze sull’origine dell’universo e dell’essere umano di estrazione induista ed ebraica.

Madame Blavatsky morì nel 1891, dopo aver dedicato gli ultimi sedici anni di vita alla popolarizzazione e alla complessificazione dell’impianto dottrinale della teosofia, riuscendo ad attrarre l’interesse di buoni salotti, aristocratici e massoni di Europa e Stati Uniti. Come René Guenon portò il misticismo islamico in Europa, aprendo la porte alle prime conversioni, così alla Blavatsky va il credito per le prime conversioni di occidentali al buddhismo. Il cofondatore della Società teosofica, l’americano Henry Steel Olcott, sarebbe infatti diventato il primo occidentale convertito al buddhismo nel 1880.

L'influenza della teosofia nei secoli e nel mondo

La teosofia, la sintesi perfetta della scienza, della religione e della filosofia, ha avuto un notevole impatto culturale sulla Belle Époque e sull’epoca a lei successiva, cioè il periodo interbellico, influenzando l’intero sottobosco occultistico-esoterico dell’Europa germanica e anglosassone. Dalla cosmogonia della teosofia fu ispirato Rudolf Steiner, il teorico dell’antroposofia. E dalla visione sulle razze della teosofia, in particolare dal passaggio sugli ariani, furono ammaliati Guido von List, il caposcuola di quell’ariosofia il cui seno nutrì una serie di movimenti precorritori del nazismo, e il movimento völkisch.

Madame Blavatsky riuscì nella mirabile impresa di popolarizzare idee esoteriche nell’età del positivismo, portando buddhismo e induismo al centro dell’interesse degli orientalisti europei e americani. La teosofia avrebbe attirato l’interesse dei cultori dell’occultismo come degli scienziati interessati alla sapienza orientale.

La teosofia è sopravvissuta alla sua fondatrice e alle tante accuse che le sono state fatte, dalla veridicità dei resoconti di viaggio al possesso di abilità soprannaturali, ed è diventata uno dei cardini dell’esoterismo occidentale. Oggetto di interesse di insospettabili – da Thomas Edison ad Albert Einstein – e musa ispiratrice di nuovi movimenti religiosi – come il New Age –, la teosofia ha influenzato correnti artistiche, lirica, scrittori e continua ad essere uno degli oggetti di dibattito preferiti dei teorici del complotto.

L’isola di Thule e i misteri del nazismo

Vril, la società del mistero dietro alla nascita del nazismo

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

EMANUEL PIETROBON

Nel Mondo.

In Spagna.

Nel Congo.

Nel Sahel.

In Nigeria.

In Messico.

Nel Mondo.

"Mai così tanti martiri cristiani come oggi". Storia di Nico Spuntoni Il Giornale il 20 aprile 2023.

Nell'udienza generale di oggi il Papa ha ricordato la situazione dei cristiani perseguitati nel mondo, sottolineando come sia più estesa oggi che mai. Lo ha fatto nella catechesi dedicata ai martiri oggi pronunciata in piazza san Pietro. Bergoglio è arrivato sul sagrato a bordo della papa-mobile con al fianco quattro bambini.

I martiri

I martiri amano Cristo nella vita e lo imitano nella sua morte. Questo il cuore della catechesi odierna di Francesco. Parole che non guardano al passato, ma alla contemporaneità. Infatti il Papa ha ricordato come i martiri nella Chiesa "sono più numerosi nel nostro tempo che nei primi secoli". Poi, andando a braccio, ha aggiunto che oggi per confessare la fede cristiana "si viene cacciati dalla società o in carcere". Un caso eclatante a questo proposito fu quello di Asia Bibi, la donna cristiana mandata in prigione in Pakistan per blasfemia senza prove e che ha dovuto scontare una pena di nove anni prima di essere rilasciata. Nel 2015, mentre la donna era ancora detenuta, Francesco incontrò il marito, Ashiq Masih e la figlia che gli chiesero in lacrime di pregare per lei e per tutti i cristiani perseguitati.

I numeri della persecuzione

Secondo il rapporto annuale di Porte Aperte/Open Doors sono oltre 360 milioni i cristiani perseguitati nel mondo. In cima ai Paesi dove è più pericoloso essere cristiani c'è la Corea del Nord seguita da Somalia e Yemen. Proprio quest'ultimo è stato menzionato da Francesco nella sua omelia ricordando come sia "una terra da molti anni ferita da una guerra terribile, dimenticata" dove ci sono state "luminose testimonianze di fede, come quella delle suore Missionarie della Carità, che hanno dato la vita lì". A proposito di quanto avviene nella repubblica mediorientale, il Papa ha affermato che "non si deve mai uccidere in nome di Dio, perche' per Lui siamo tutti fratelli e sorelle", al contrario ha detto che "insieme si puo' dare la vita per gli altri".

Pensiero all'Ucraina

Nell'udienza generale non è mancato, come di consueto, un pensiero a quanto accade in Ucraina. Il Pontefice ha chiesto ai fedeli di perseverare nella vicinanza e nella preghiera per "la cara e martoriata Ucraina che continua a sopportare terribili sofferenze". Nei giorni scorsi il Papa aveva ricevuto in Vaticano Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio impegnata nel sostegno umanitario per la popolazione ucraina e a favore della pace. Da quanto emerso, proprio la preoccupazione per la guerra in Ucraina era stata al centro del colloquio tra i due.

Della guerra in Ucraina aveva parlato anche nel messaggio per la benedizione Urbi et Orbi di Pasqua, chiedendo al Risorto di aiutare "l'amato popolo ucraino nel cammino verso la pace" ma anche di effondere "la luce pasquale sul popolo russo".

Estratto dell'articolo di Filippo DI Giacomo per il Venerdì – la Repubblica il 4 febbraio 2023.

In questi giorni, il Papa è in Africa. In tutto il continente, Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan compresi, il jihadismo è in piena espansione. Nel 1993, nei Paesi dell'Africa subsahariana era solo la Somalia a praticare un'ostilità "estrema" contro chiese e cristiani. Nel 2022, sono 26 Paesi sui 49 di quell'area geografica. In 3 si pratica una persecuzione "estrema", in 12 una repressione "molto forte" e in 11 "forte". I qualificativi si basano su un elenco di "punti" attribuiti dalla Ong franco-belga Portes ouvertes, una eccellenza europea nel campo delle expertises sui diritti umani.

Nel 2022, sono stati 5.621 i cristiani uccisi solo perché tali: 15 al giorno. 

 (...)

 Per restare in Africa, il caso più emblematico è la Nigeria: nel 2022 ha guadagnato il macabro record dell'89 per cento dei cristiani uccisi, il 90 per cento fra rapiti e scomparsi, il secondo posto per chiese distrutte. Qualche decennio fa era un esempio: demograficamente, cristiani e musulmani erano quasi equivalenti e convivevano eguali davanti alla legge e nelle forme di partecipazione politica. Vale la pena chiedersi: a chi dava fastidio la nascita di una democrazia islamo-cristiana africana, diversa da quella araba?

L'anno nero dei cristiani: 360 milioni perseguitati. "Mai così tanta violenza". Vittima almeno uno su 7 nel mondo. Allerta nell'Africa sub-sahariana, Cina e Nord Corea. Fausto Biloslavo il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Oltre 360 milioni di cristiani nel mondo subiscono persecuzione o discriminazione per la loro fede. Il clamoroso dato arriva dal rapporto annuale di Porte Aperte/Open Doors, che monitorizza le condizioni dei fedeli di Gesù. «Un cristiano su 7 patisce violenza o pressioni», dichiara Cristian Nani, direttore dell'organizzazione in Italia.

La presentazione del rapporto alla Camera elenca i 50 paesi più pericolosi. A cominciare dalla Corea del Nord «con livelli di persecuzione più alti di sempre». La nuova ondata è stata provocata dalla «legge contro il pensiero reazionario» utilizzata per aumentare gli arresti dei cristiani e chiudere le chiese clandestine. I «colpevoli» di «fede reazionaria» vengono giustiziati o finiscono nei «terribili e disumani campi per prigionieri politici» dove «gli internati rischiano di morire di fame e di subire torture e abusi di ogni tipo, anche sessuali». Uno dei reati previsti dalla nuova legge riguarda «la pubblicazione di qualsiasi materiale di origine straniera inclusa la Bibbia». Timothy Cho, profugo nordcoreano fuggito dal paese, non usa mezzi termini: «L'obiettivo è spazzare via ogni cristiano. Un solo dio è ammesso in Corea del Nord: la famiglia Kim» del dittatore con arsenale nucleare.

Il buco nero della violenza contro i cristiani è l'Africa. Nel continente sono 26 i paesi, secondo Open doors, «che raggiungono livelli di persecuzione molto alti». Il movimento jihadista ispirato da Al Qaida o dallo Stato islamico, che cerca di espandersi nell'area sub sahariana, costringe i cristiani a continue fughe. La Nigeria è l'epicentro dei massacri con un aumento di uccisioni, rispetto al 2021, da 4.650 a 5.014. L'89% degli assassini per odio religioso registrato in tutto il mondo lo scorso anno, 5.621, per fortuna in leggera diminuzione a livello globale.

Boko Haram, le milizie Fulani, l'Isis dell'Africa occidentale compiono «incursioni nelle comunità cristiane, uccidendo, mutilando, stuprando e sequestrando per ottenere in cambio un riscatto o alimentare il mercato della schiavitù sessuale».

Un altro aspetto preoccupante e poco conosciuto è l'adozione «del modello cinese di controllo centralizzato sulla libertà di religione, con l'uso massiccio di tecnologia». La Cina, al sedicesimo posto nella lista nera della persecuzione, sta forgiando un'alleanza internazionale per ridefinire, a proprio uso e consumo, lo stesso concetto di diritti umani. India, Myanmar, Malesia e diversi stati dell'Asia centrale sono coinvolti, tutti fra i primi 50 dove i cristiani subiscono pressioni o violenze. Secondo il rapporto «le ultime regole sull'uso di Internet da parte delle chiese hanno ulteriormente soffocato la libertà dei quasi 100 milioni di cristiani» in Cina.

In Medio Oriente la comunità rimane sotto pressione. Una situazione che provoca «il fenomeno della chiesa profuga, sempre più cristiani in fuga dalla persecuzione». Aumenta la pressione anche in Algeria, dove il governo ha ordinato la chiusura di diverse chiese e utilizza le leggi anti terrorismo e riciclaggio per colpire i luoghi di culto e i cristiani. Rami Abed Al-Masih, che lavora per Open doors ammette: «Il Medio Oriente è la culla del cristianesimo, ma gran parte della Chiesa sta perdendo la speranza: una vita di discriminazione e povertà è troppo da sopportare, in particolare per i giovani che non vedono futuro qui come cristiani». E decidono di lasciare paesi come la Siria, l'Iraq, ma pure l'Egitto per arrivare in Europa attraverso le vie del traffico di uomini.

L'Eritrea, soprannominata la «Corea del Nord dell'Africa» risale di due posizioni nella lista nera, il Pakistan è stabile nella top ten da anni, ma l'Afghanistan scende al nono posto perché i talebani hanno già cacciato o ucciso i pochi cristiani quando sono tornati al potere nel 2021. Altri si nascondono o sono fuggiti all'estero. I cristiani sono sotto tiro anche da Cuba al Nicaragua. E l'India, detiene «il record di detenzioni di cristiani senza processo (1.750) per ragioni legate alla loro fede».

Cristiani africani massacrati, ma nessuno se ne interessa: la frustrata di Formigoni. Roberto Formigoni su Libero Quotidiano il 24 gennaio 2023

Nigeria e Repubblica democratica del Congo: sono le terre d’Africa dove più violenta è la persecuzione contro i cristiani. Domenica scorsa in Nigeria è stato ucciso padre Isaac Achi, arso vivo nell’incendio provocato da una banda criminale che ha saccheggiato la sua canonica, mentre un altro sacerdote è rimasto ferito gravemente, e in un altro attacco cinque fedeli sono stati rapiti. Sempre domenica, nel nord-est della Repubblica democratica del Congo, è stata attaccata la comunità pentecostale. Una bomba lanciata contro una chiesa ha ucciso quattordici persone, tra cui anche bambini, e ne ha ferito trentanove. Sono gli ultimi episodi di una persecuzione anticristiana che va avanti da anni, nell’indifferenza del mondo. I responsabili sono per lo più gruppi jihadisti legati in vario modo alle centrali terroristiche islamiste, ma anche bande di predoni locali.

La Nigeria vive da anni uno stato di profondo malessere socio-economico. È uno dei massimi produttori mondiali di petrolio, ma lo sfruttamento di questa risorsa è concentrato nelle mani di pochissimi ultraricchi, legati alle compagnie di sfruttamento petrolifero mondiale. Nel Congo si calcola siano attive circa 160 formazioni ribelli, con un totale di oltre 20mila combattenti. Anche il Congo è ricchissimo di materie prime, oro, cobalto, petrolio, manganite, cassiterite, coltan ecc., e i gruppi della guerriglia, anche qui con una forte presenza islamista, si contendono lo sfruttamento e la rapina di queste ingentissime ricchezze, poi svendute a basso prezzo a mercanti e compagnie mondiali senza scrupolo. Peraltro, colpendo le comunità cristiane, i terroristi infliggono ferite profonde alla società civile tutta, nella quale varie chiese sono attive nella difesa dei più deboli, nelle opere educative e di aiuto sanitario. La spirale di violenza contro i cristiani è infinita, e in Africa quasi ogni giorno dobbiamo (dovremmo, se fossimo attenti) piangere almeno un nuovo martire. Le cifre complessive di questa tragica persecuzione sono impressionanti: in Africa, su un totale di 631 milioni di cristiani, ben 245 milioni sono sottoposti a persecuzione, più di un terzo del totale. In Nigeria, nel solo 2022, sono stati sequestrati ventotto sacerdoti, di cui non si hanno più notizie, mentre 7600 cristiani sono stati assassinati tra il gennaio 2021 e il giugno 2022. Ma di queste notizie, sui grandi media occidentali, si è letto nulla o quasi nulla. Perché la Chiesa fa notizia quando si tratta di scavare nel torbido, non quando si dovrebbe parlare - almeno per deontologia giornalistica- del martirio cui da decenni troppi cristiani sono sottoposti.

Cristiani perseguitati nel mondo, i numeri della strage nascosta: in un anno oltre 8mila vittime. Vittorio Giovenale il 26 Dicembre 2022 su Il Secolo D’Italia. 

Nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa del primo martire, Santo Stefano, Vatican News ne ricorda la figura, citando i numeri della persecuzione dei cristiani nel mondo: violenza consumata prevalentemente dall’estremismo islamico. La fonte è il rapporto “Perseguitati più che mai. Rapporto sui cristiani oppressi per la fede 2020-2022”, resoconto annuale della Fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre” (ACS). Numeri ignorati da tg e giornali. Il Papa oggi ha fatto un accenno dedicato l’Angelus ai martiri, anche ai nostri giorni “numerosi”, che mettono a rischio la loro vita per testimoniare la fede.

Nel 75 per cento dei 24 Paesi esaminati, l’oppressione o la persecuzione dei cristiani è aumentata, vi si legge. Il testo esamina, dall’ottobre 2020 al settembre 2022, i Paesi in cui le violazioni della libertà religiosa destano particolare preoccupazione: Afghanistan, Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord, Egitto, Eritrea, Etiopia, India, Iran, Iraq, Israele e i Territori Palestinesi, Maldive, Mali, Mozambico, Myanmar, Nigeria, Pakistan, Qatar, Russia, Sri Lanka, Sudan, Siria, Turchia e Vietnam.

La violenza jihadista continua a diffondersi in tutta l’Africa. ACS richiama l’attenzione sul fatto che dal novembre dello scorso anno gli attacchi terroristici colpiscono anche il nord del Benin. Finora i Paesi dell’Africa nord-occidentale più colpiti dal jihadismo sono stati Mali, Burkina Faso, Ciad, Niger, Camerun e Nigeria.

Il dossier completo di Aiuto alla Chiesa che soffre

L’Africa registra un forte aumento della violenza terroristica, a causa della quale oltre 7.600 cristiani nigeriani sarebbero stati assassinati tra il gennaio 2021 e il giugno 2022, dai terroristi di Boko Haram e della Provincia dell’Africa occidentale dello Stato Islamico (Iswap). I due raggruppamenti cercano da anni di fondare califfati nella regione del Sahel, ciascuno con il proprio wali (governatore) e con la propria struttura governativa, tutti basati sulla violenza più cieca, sull’odio più infernale.

Anche in Mozambico la formazione terroristica islamica Al-Shabab ha intensificato la sua campagna di terrore, uccidendo i cristiani, attaccando i loro villaggi e appiccando il fuoco alle chiese. Il gruppo, affiliato al sedicente Stato Islamico (Is), ha provocato la fuga di oltre 800 mila persone e la morte di altre 4.000. Tra le testimonianze riportate c’è anche quella di monsignor Jude A. Arogundade, vescovo di Ondo in Nigeria, la cui diocesi e’ stata presa di mira da uomini armati che hanno ucciso più di 40 persone durante la celebrazione della Pentecoste nel giugno scorso. Commentando la presentazione del rapporto, il vescovo dichiara che, “nonostante il crescente allarme per l’aumento della violenza in alcune parti del Paese, nessuno sembra prestare attenzione al genocidio in atto nella Middle Belt della Nigeria. Il mondo tace mentre gli attacchi alle chiese, al loro personale e alle istituzioni sono diventati routine quotidiana”.

Il silenzio sulle ragazze cristiane rapite e stuprate in Egitto e Pakistan

Dal rapporto sui cristiani perseguitati, emerge che “la crisi migratoria minaccia la sopravvivenza di alcune delle comunità cristiane più antiche del mondo. In Siria, i cristiani sono calati dal 10 per cento della popolazione, arrivando a meno del 2%, passando da 1,5 milioni del periodo precedente la guerra ai circa 300 mila di oggi. Nonostante il tasso di esodo in Iraq sia più basso, una comunità che contava circa 300 mila persone prima dell’invasione da parte di Daesh/Isis nel 2014, nella primavera 2022 si è ormai dimezzata”. Dallo studio emerge anche che in Paesi diversi come l’Egitto e il Pakistan le ragazze cristiane sono abitualmente soggette a rapimenti e stupri sistematici, sempre da parte degli islamici.

Cristiani perseguitati: il drammatico report in Asia

Il rapporto, guardando poi al continente asiatico, denuncia l’autoritarismo statale che ha portato a un peggioramento dell’oppressione anzitutto in Corea del Nord, dove fede e pratiche religiose sono ordinariamente represse. Il nazionalismo religioso ha innescato crescenti violenze contro i cristiani, perseguitati in India e Sri Lanka, dove si sono registrati episodi in cui le autorità politiche e militari hanno arrestato fedeli e interrotto le celebrazioni religiose. Inoltre, in vari Paesi, si deve parlare di aumento della pressione sui cristiani, mediante arresti indiscriminati, chiusura forzata delle chiese e uso di sistemi di sorveglianza oppressivi.

In Spagna.

Spagna, attacca due chiese gridando "Allah" e uccide sacrestano con una spada da samurai. Storia di Daniel Mosseri su Il Giornale il 26 Gennaio 2023.

Al grido di «Allah» è entrato prima in una e poi in un'altra chiesa sfoderando una spada da Samurai uccidendo un uomo e ferendo altre 4 persone É successo ieri sera, intorno alle 20 in Spagna. Ora la polizia indaga per «presunto atto di terrorismo». L'uomo, Yassine Kansar, un 25enne di origini marocchine, armato di «catana», una spada giapponese è entrato prima nella chiesa di San Isidro di Algeciras, nella provincia di Cadice e dopo in quella di Nuestra Señora de La Palma dove ha ucciso il sagrestano conosciuto come padre Diego. Nell'attacco sono rimaste ferite almeno quattro persone. L'uomo, poi arrestato dalla polizia, sembrava diretto, secondo le parole dei testimoni, verso una terza chiesa, quella della Vergine dell'Europa, che però era chiusa. Il sindaco della città, Jose Ignacio Landaluce, ha decretato per oggi una giornata di lutto e ha convocato una manifestazione di protesta a mezzogiorno davanti alla chiesa principale della città. «Siamo tutti sgomenti per questi eventi, che ci hanno riempito di dolore. Algeciras è sempre stata una città, dove regnano armonia e tolleranza, nonostante situazioni come questa ne offrano un'immagine che non corrisponde alla realtà». Nel pomeriggio altro attacco all'arma bianca in Germania. La scena è quella già vista in occasione di attacchi di natura terroristica contro la popolazione civile: nove ambulanze, molte auto della polizia, un grande numero di effettivi delle forze dell'ordine e un elicottero che sorveglia la zona dall'alto. Siamo alla stazione ferroviaria di Brokstedt, appena 2.100 abitanti in Schleswig-Holstein, il più nordico dei Länder tedeschi. Poco prima delle 15 di mercoledì Brokstedt si trasforma nella scena di un crimine. Durante la fermata alla stazione locale del treno regionale che unisce Kiel, più a nord, ad Amburgo, più a sud, un passeggero estrae un coltello e comincia a colpire gli altri passeggeri. Sul regionale si scatena il panico: in tanti cercano di scendere dal convoglio, altri chiamano la polizia, altri ancora rimangono vittime della violenza. Il bilancio è di due morti, tre feriti in maniera grave e quattro in modo più lieve. La polizia interviene e ferma l'aggressore, anch'egli coperto di sangue. Non è chiaro se l'uomo, sulla trentina, si sia ferito da solo, nella colluttazione con gli altri passeggeri o durante l'intervento della polizia. L'unica certezza è che la scena del crimine è ricoperta di sangue, tant'è che lo stesso attentatore è stato dapprima identificato come siriano e poi come palestinese. A trarre in confusione la circostanza che il permesso di soggiorno che il trentenne ha con sé è reso illeggibile dal sangue che lo ricopre. In serata la Bild ha riportato le parole di un testimone oculare: «Ero seduto in prima classe: ho visto due passeggeri che si sono precipitati verso l'uscita, ho preso le mie cose e li ho seguiti. Da fuori ho controllato tutto il treno: erano circa sei carrozze in tutto e c'erano tracce di sangue ovunque». È sempre la Bild a scrivere che l'uomo, che avrebbe problemi mentali e le cui generalità non sono state rese note, era in custodia della polizia solo sei giorni fa e che era già noto alle forze dell'ordine per reati violenti e di natura sessuale. «Con profondo dolore e sgomento, ho anche appreso la notizia questo pomeriggio», ha commentato il premier regionale Daniel Günther della Cdu, dicendosi vicino «nei pensieri e nelle preghiere» alle vittime e ai loro parenti. Günther ha poi ringraziato i servizi di emergenza per il loro lavoro e per essersi presi cura dei passeggeri e dei testimoni. Sul movente dell'atto di sangue nessuno ha parlato.

Nel Congo.

(AGI il 16 gennaio 2023) - Un ordigno è esploso durante una funzione religiosa in una chiesa nella provincia del Nord Kivu, nella Repubblica democratica del Congo, causando la morte di almeno 17 persone. Lo ha riferito il governo di Kinshasa, citato dai media locali.

 L'attacco è avvenuto a Kasindi-Luvirihya, cittadina al confine con l'Uganda, a 85 chilometri dalla città di Beni, nella provincia del Nord Kivu. Il governo aveva attribuito l'attacco ai ribelli islamisti ugandesi delle Forze democratiche alleate ma in seguito è giunta la rivendicazione dell'Isis.

Secondo Rita Katz, direttrice di Site, il sito che monitora le attività dei jihadisti, "l'Isis afferma che i combattenti hanno piazzato e fatto esplodere un ordigno rudimentale, causando 'decine di cristiani uccisi e feriti' e minaccia ulteriori attacchi".

Nel Sahel.

Il Sahel, fronte critico per i cristiani perseguitati. Andrea Muratore il 23 Dicembre 2022 su Inside Over.

Negli ultimi anni l’instabile regione del Sahel e dell’Africa sub-sahariana ha avuto di che soffrire per diverse cause: rivalità geopolitiche, instabilità interna dei Paesi, insorgenza jihadista, cambiamenti climatici. Povertà, tribalismo e disgregazione delle entità statuali hanno prodotto, tra gli effetti collaterali, anche un aumento dell’intolleranza religiosa verso i cristiani della regione.

Dal Sudan al Mali i cristiani rappresentano circa il 4% della popolazione, anche se fare stime precise è difficile. A questo si aggiunge la presenza forte e radicata di Ong, da Christian Aid a Cuamm – Medici per l’Africa, di ispirazione cristiana che contribuisce a cementare popolazioni divise su faglie etniche in una regione a grande maggioranza musulmana, decisiva per gli equilibri geopolitici del continente e per molti dossier che investono direttamente anche l’Europa, come la partita dell’immigrazione.

L’Ong Release International ha indicato nel rilancio dell’attività di Al Qaeda e Isis nella regione dopo la fine della guerra in Afghanistan e della statualità del Califfato tra Siria e Iraq la causa dell’aumento dell’intolleranza negli ultimi anni ricordando che ” i jihadisti stanno cercando di creare uno Stato islamico del Grande Sahara. È davvero ovvio che si tratta di un conflitto religioso”.

La presenza di sempre più jihadisti e la contestuale crescita dell’attività anticristiana in un Paese critico della regione, il Burkina Faso, è stata segnalata già dall’inizio dell’escalation contro i cristiani nel 2015 da Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs).

Acs segnala da tempo criticità nel Paese che fu di Thomas Sankara, in cui nel dicembre 2019 i jihadisti hanno ucciso 14 cristiani a Hantoukoura, nella parte orientale del Paese. Le tossine jihadiste hanno avvelenato i pozzi nella società locale, ove la tolleranza inter-religiosa era tradizionalmente rispettata anche nelle fasi di tensione etnica. L’infiltrazione dei guerriglieri radicalizzatisi in Siria e Iraq è stata fatale. Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia parlando con Il Timone ha dichiarato che nella regione ci sono “Paesi che fino al 2015 non sapevano neppure cosa fosse la persecuzione in odio alla fede, e che invece oggi sono l’epicentro del fenomeno”.

Laurent Dabiré, vescovo cattolico della diocesi burkinabé di Dori dal 2013 e dal 2019 Presidente della Conferenza Episcopale di Burkina Faso e Niger, è sul tema la voce più attenta nella denuncia delle persecuzioni anticristiane a fianco del vescovo di Fada ‘Ngourma, monsignor Pierre Claver Malgo. Dabiré ha scritto su Settimana News che “i terrroristi che aggrediscono il Burkina Faso non sono i musulmani con cui noi viviamo da sempre: questi non hanno problemi con i cristiani. Il problema è costituito da coloro che sono arrivati da lontano e da quelli che sono stati radicalizzati a contatto coi primi”. Il Burkina Faso è un caso estremo, ma purtroppo non isolato. Il report 2022 di Acs sulla persecuzione religiosa parla chiaro.

Un fronte sempre caldo resta il Mali, specie nella “terra di nessuno” in cui scorrazzano jihadisti e trafficanti di esseri umani al confine col Niger. Proprio a un posto di blocco tra Gao, Mali, e la capitale nigerina Niamey cinque cristiani sono stati sequestrati e assassinati da forze dell’Isis nel giugno 2021. In Mali la Costituzione, ricorda Acs nel suo report sulla persecuzione dei cristiani nel mondo, vieta ogni forma di discriminazione religiosa. Ma già dieci anni fa le comunità cristiane risiedenti nel Nord del Paese furono cacciate dall’avanzata jihadista, mentre in seguito nel dicembre 2021 nelle aree abitate dai cristiani in centro al Paese 34 persone sono state assassinate in vari attentati. Ove i gruppi radicali legati a Al Qaeda nel Maghreb Islamico imperversano viene vietata ai cristiani la possibilità di praticare i loro riti.

In Sudan, invece, Acs denuncia un ritorno alla persecuzione dell’era di Omar al-Bashir dopo il golpe militare del 2021. E di converso aumenta la pressione sul confinante Sud Sudan Tra gli episodi citati si rammenta “un attacco al villaggio di Dungob Alei, nel nord del Sudan meridionale, avvenuto nel maggio 2021”, portato da gruppi islamisti radicali e che “ha causato la morte di 13 persone e otto feriti”.

La libertà di culto ai cristiani è duramente limitata anche in Eritrea, propaggine orientale del Sahel: nell’ex colonia italiana il regime dittatoriale di Isaias Aferweki tra il 2021 e il 2022 ha sequestrato beni e terreni alla Chiesa cattolica locale e nelle celle del carcere di massima sicurezza di Mai Serwa di Asmara un quinto degli arrestati ivi detenuti (500 su 2.500) sono cristiani perseguitati e messi in galera perché sorpresi a svolgere funzioni in luoghi non autorizzati o perché rifiutatisi per ragioni religiose di prestare servizio nell’esercito per i 18 mesi di leva obbligatoria. A 94 anni, nel febbraio scorso, nella sua abitazione a Asmara ove era detenuto agli arresti domiciliari da quindici anni, è morto il Patriarca Abune Antonios della Chiesa Ortodossa Eritrea Tawahedo. Acs riporta che “gli è stata negata l’assistenza medica nonostante soffrisse di diabete e pressione alta”.

La situazione resta critica, anche se l’incremento della pressione europea e occidentale sul tema della libertà religiosa (Roma e Bruxelles hanno nominato inviati speciali sul tema) renderà più alto lo scrutinio già esercitato con attenzione dal Vaticano e dei suoi apparati ecclesiastici (e informativi) presenti in Africa. Aggiornamenti Sociali ha mostrato il ruolo dei movimenti cristiani nel difendere le comunità dall’intolleranza indipendentemente dal loro credo e mostrato l’esempio iconico in Burkina Faso delle attività di Radio Notre Dame du Sahel, emittente gestita dai gesuiti nella diocesi di Ouahigouya, nel Nord dell’ex Alto Volta, in cui cristiani, musulmani e animisti lavorano assieme per fare informazione, divulgazione e offrire una contronarrazione alle sirene jihadiste che lanciano il loro richiamo dalle madrase integraliste. Un messaggio di speranza degno del ruolo della Chiesa aperta ad gentes e all’ecumenismo, testimone delle sofferenze di una regione intera, che in Sahel deve affrontare prove dure e sfide complesse. Destinate ad affliggere ulteriormente una regione tanto strategica quanto dannata.

In Nigeria.

Nigeria: prete bruciato vivo in parrocchia, un altro è rimasto ferito. All'accorrere delle forze di sicurezza, gli aggressori hanno lasciato l'abitazione dandola alle fiamme e provocando così la morte di padre Achi. Il Dubbio il 15 gennaio 2023

Domenica mattina, in Nigeria, un gruppo di banditi ha attaccato, prima dell'alba, la residenza parrocchiale della chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, a Kafin-Koro, nella regione di Paikoro, uccidendo padre Isaac Achi e ferendo alle spalle padre Collins, mentre tentava di scappare. All'accorrere delle forze di sicurezza, gli aggressori hanno lasciato l'abitazione dandola alle fiamme e provocando così la morte di padre Achi. E' quanto riferisce Vatican News.

Confermando il violento e tragico attacco, avvenuto intorno alle 3 del mattino, il responsabile delle relazioni pubbliche della polizia nello Stato, Wasiu Abiodun, ha dichiarato che «i banditi hanno tentato di entrare nella residenza, ma non ci sono riusciti, e hanno dato fuoco alla casa, mentre il reverendo padre è morto carbonizzato».

Le squadre tattiche della polizia di Kafin-Koro, ha riferito Abiodun, «sono state immediatamente inviate sul posto, ma i teppisti sono fuggiti prima del loro arrivo». Il corpo senza vita di padre Isaac è stato recuperato, «mentre padre Collins è stato portato in ospedale per essere curato». Il commissario di Polizia, del Comando dello Stato, Ogundele Ayodeji, ha inviato una squadra di rinforzo nella zona «e sono in corso gli sforzi per arrestare gli assalitori, mentre sono iniziate le indagini sul tragico attacco».

In Messico.

Cristeros, storia di una guerra dimenticata. Emanuel Pietrobon il 14 Gennaio 2023 su Inside Over. 

Crocifissi vietati, chierici costretti a camminare in incognito senza talare, squadroni all’assalto di chiese. Il cattolicesimo come ragione di discriminazione sul posto di lavoro, l’abiura come via di salvezza da morte certa. E tante, tante stragi di innocenti. Scene di persecuzione religiosa che potrebbero ricordare la Nigeria degli anni bui della guerra a Boko Haram o il Siraq caduto sotto il controllo del Daesh, ma che non hanno avuto luogo né in Africa né in Medio Oriente, non sono accadute nel XXI secolo e non hanno avuto nulla a che fare con il terrorismo islamista. Questa è la storia della più feroce persecuzione religiosa del Novecento: la guerra cristera nel Messico degli anni Venti.

La genesi della guerra cristera

Nel 1917, mentre il pianeta era in guerra, il Messico si avviava verso l’uscita da un conflitto fratricida durato ben sette anni e scoppiato a causa del malcontento trasversale che si era accumulato nel corso della lunga dittatura di Porfirio Díaz. Per sette anni, dal 1910 al 1917, messicani di ogni credo e ceto si erano combattuti per decidere il fato del paese. Risultato: quasi tre milioni di morti.

Nel 1917, sebbene gli scontri sarebbero durati altri tre anni, il vincitore era già emerso: erano i costituzionalisti di Venustiano Carranza, l’equivalente messicano dei giacobini, che quell’anno promulgarono la nuova carta fondamentale del Messico. Una carta avanguardistica dal punto di vista dei diritti sociali, ma estremamente, o meglio, intrinsecamente anticlericale.

Gli eredi di Carranza, Álvaro Obregón e Plutarco Calles, avrebbero rapidamente utilizzato ambiguità e disposizioni della nuova costituzione per muovere una guerra all’acerrimo nemico della galassia liberale, ovvero la Chiesa cattolica, e per dare seguito al sogno recondito di dar vita ad una chiesa nazionale, indipendente dal papato, plasmata dall’esperienza del Culto della Ragione e dell’Essere supremo dell’era giacobina e ispirata ai valori massonici dei padri fondatori del nuovo Messico.

Né Obregón né Calles potevano immaginare l’accesa e ampia resistenza della popolazione al piano di scristianizzazione della società, cominciato con l’eloquente tentativo di far saltare in aria la Madonna di Guadalupe, un simbolo nazionale ancor prima che cattolico, nel 1921. Ma le politiche anticlericali, in seguito divenute vere e proprie persecuzioni ai danni dei fedeli, avrebbero determinato lo sprofondamento del martoriato Messico in una nuova guerra civile.

La passione dei cattolici messicani

L’inizio della guerra cristera si fa risalire tradizionalmente al 1926, anno della proclamazione della legge Calles, ma il terreno fu preparato nei sei anni precedenti. Attentati. Piccole compressioni della libertà di culto. Adozione di linguaggio avvelenato. Accuse alla Chiesa cattolica di essere una forza antinazionale.

Nel 1921, a un anno di distanza dall’insediamento alla presidenza di Obregón, un tale a libro paga governativo, Luciano Pérez, introdusse un ordigno nella basilica di Nostra Signora di Guadalupe allo scopo di distruggere il simbolo del cattolicesimo messicano, ossia il mantello miracoloso della Vergine di Guadalupe. L’attentato fallì clamorosamente (o miracolosamente?), giacché la bomba, pur riducendo in cenere l’altare, lasciò intatto il mantello, ma il messaggio raggiunse la Chiesa cattolica.

Di lì a poco, per l’intera durata dell’arco presidenziale, Obregón avrebbe avviato una persecuzione morbida della popolazione cattolica basata sul principio della rana bollita: piccole ma costanti e crescenti compressioni della libertà di culto. A mandato terminato, nel 1924, il presidente era riuscito a rimuovere l’insegnamento della religione cattolica dalle scuole pubbliche, a rimpatriare parte del clero straniero e a imporre una serie di limitazioni alla presenza del sacro nella vita pubblica.

Obregón fu succeduto da Calles, il capofila dell’ala radicale dei costituzionalisti, che della marginalizzazione del cattolicesimo avrebbe fatto il punto focale della propria presidenza. Autore e promotore della legge omonima del 1926, il Capo di Stato elevò qualitativamente la persecuzione: da morbida e velata a dura e pubblica.

La legge Calles, che ancora oggi è considerata una delle legislazioni più anticlericali che siano mai state prodotte in un regime (semi) democratico, fu il fondamento giuridico che diede giustificazione alla lotta senza quartiere al cattolicesimo. Dal ventre di questa norma fu partorita una serie di disposizioni molto severe, alcune punibili con ammenda, altre con l’incarcerazione e altre ancora con l’esilio, tra le quali l’obbligo di apostasia per i dipendenti pubblici, l’espropriazione con annessa nazionalizzazione di chiese, conventi e monasteri, e l’accelerazione della campagna di espulsioni dei chierici di nazionalità straniera iniziata da Obregón.

La legge Calles consacrò l’inizio di una persecuzione di Stato, legale e istituzionalizzata, a geometria variabile. Perché gli Stati federati, in quanto tali, furono lasciati liberi di applicare la legislazione a propria discrezione, e così fecero. Mentre alcuni preferirono moderare il liberticidio, limitandosi a privare i chierici del diritto di voto o a imporgli di sposarsi, altri, come il Chiapas, sfruttarono la legge per giustificare la chiusura di chiese, la messa al bando di ogni libro religioso, il divieto di esporre di croci in luogo pubblico, la ridenominazione di città e villaggi, la cancellazione delle festività cattoliche e persino l’assassinio del clero.

Ad accompagnare la progressiva implementazione della legge Calles, la comparsa di gruppi paramilitari specializzati nell’assalto alle chiese, nell’uccisione di chierici politicamente attivi e nella perpetrazione di violenze ai danni dei fedeli. Essere cattolici era diventato impossibile. E fu così che il primo agosto 1926, dopo aver tentato (infruttuosamente) la via della disobbedienza civile e del boicottaggio economico, le campane del Messico suonarono per l’ultima volta su ordine dell’allora papa Pio XI. L’inizio della clandestinità e della guerra di coloro che credevano in Cristo Re, i cristeros.

Verso la Pasqua

L’inizio della guerra cristera, o cristiada, viene fatto risalire al 1926, l’anno della legge Calles e dell’entrata in clandestinità della Chiesa cattolica. A partire da quell’anno, per tre anni, un esercito di circa ottantamila di guerriglieri, supportato da un circuito di milioni di persone, avrebbe resistito alla persecuzione della presidenza Calles al grido “¡Viva Cristo Rey!“.

Guidato da un noto reduce della rivoluzione messicana, Enrique Gorostieta Velarde, l’esercito cristero passò rapidamente dalle scorribande e dalle imboscate alla guerra semi-simmetrica. Il processo di professionalizzazione supervisionato da Gorostieta portò alla nascita di divisioni, all’addestramento dei soldati all’utilizzo delle più svariate armi e allo spostamento del conflitto dalle campagne alle città.

L’avanzata cristera, lungi dallo spaventare Calles, ebbe come effetto la radicalizzazione dell’intero esecutivo. Il Presidente messicano, nolente ad abrogare la legislazione e a porre fine alla persecuzione, cominciò a colpire il morale dei guerriglieri alzando l’asticella delle brutalità commesse dai paramilitari e dal governo stesso. Massacri, saccheggi, uccisioni sommarie. Abbassamento dell’età dei condannati a morte.

Fu nel contesto di escalation del conflitto che avvennero le eclatanti impiccagioni di José María Robles Hurtado e Cristóbal Magallanes Jara, due presbiteri carismatici e di fama nazionale, e la sconvolgente esecuzione di José Sánchez del Rio, un quattordicenne giustiziato per aver rifiutato di fare pubblica apostasia.

La morte di del Rio, datata 10 febbraio 1928, fu pensata per dare il colpo di grazia alla resistenza cristera, per mostrare che la presidenza non si sarebbe fermata davanti a nulla, ma finì col produrre l’effetto contrario. Strati sempre più ampi della popolazione, sconvolti dal martirio del quattordicenne, scesero in piazza, mandando in tilt le arterie del paese e/o arruolandosi nell’esercito di Gorostieta. Il Messico sembrava incamminarsi verso una nuova guerra civile. Stati Uniti e Chiesa cattolica osservavano con preoccupazione, facendo pressioni alla presidenza Calles affinché cedesse alle richieste legittime e sensate dei cristeros.

La fine e l'impatto culturale

Il 17 luglio 1928, dopo quasi cinque mesi di crescente conflittualità, ha luogo l’inaspettata svolta. Obregón, da pochi giorni rieletto alla presidenza  con il 100% delle preferenze (era l’unico candidato), viene avvicinato da uno sconosciuto al parco della Bombilla, nella capitale, e ucciso a colpi di arma da fuoco. A sparare è un cristero di nome José de Leòn Toral, forse agente su mandato di una misteriosa suora, che verrà catturato e giustiziato di lì a breve.

Il baratro sembra alle porte. L’assassinio di Obregón ha galvanizzato ulteriormente la cristiada, l’esercito di Gorostieta è tanto vasto e professionale che da qualche tempo sta riuscendo a sconfiggere le truppe regolari messicane sul campo, come nella battaglia di Tepatitlán, i liberali sono spaventati dalla prospettiva di altri omicidi politici e, per la prima volta, si spaccano sulla questione cattolica.

Contravvenendo agli ordini di Calles, presidente-ombra, il capo di Stato ad interim Emilio Portes Gil avvia un tavolo negoziale con Dwight Whitney Morrow, ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, e padre John Burke, presbitero americano agente su delega vaticana. Le trattative hanno esito positivo. Vengono firmati gli accordi, o los arreglos, che danno forma a una pace basata su diversi punti, tra i quali l’entrata in inattività permanente della legge Calles e la concessione della grazia ai cristeros.

Il 27 giugno 1929, dopo quasi due anni di silenzio, le chiese riaprono i loro portoni e le loro campane tornano a suonare. È l’inizio del ritorno della normalità, anche se la guerra si protrarrà in alcune regioni, a bassa intensità, fino al 1934. Sarà Lázaro Cárdenas, il “papà dei messicani”, a pacificare definitivamente il Paese, a riabilitare ufficialmente il cattolicesimo e a condannare gli autori della persecuzione. Calles, ad esempio, fu esiliato negli Stati Uniti con l’accusa di aver mosso una guerra alla cittadinanza e di aver creato uno Stato nello Stato, il cosiddetto maximato.

Cárdenas ereditò un Paese allo stremo, profondamente diviso ed economicamente lacerato da due guerre civili. La cristiada, a conti fatti, avrebbe lasciato a terra 100-300 mila morti, reso impossibile la messa in diciassette stati per assenza di clero (334 sacerdoti operanti nel 1935, contro i 4.500 del 1926) e provocato un’ondata migratoria negli Stati Uniti che, si stima, avrebbe coinvolto il 5% dell’intera popolazione messicana.

Parlare pubblicamente della cristiada è stato un tabù fino all’arrivo del Duemila, quando a squarciare il velo dell’omertà è stato il presidente Vicente Fox, in carica dal 2000 al 2006, e quando sono arrivate le prime canonizzazioni dei “santi della guerra cristera” da parte dell’allora pontefice Giovanni Paolo II. Il 16 ottobre 2016, infine, è giunta la canonizzazione più attesa dalla popolazione messicana: quella del piccolo José Luis Sánchez del Río. A perenne memoria di ciò che fu, affinché non riaccada di nuovo.

La leggenda "nera" dei Templari: ecco la vera storia. Barbara Frale ne "La leggenda nera dei Templari" smonta molti miti che hanno contraddistinto la storia dei celebri monaci-guerrieri e la tragica fine dell'ordine. Andrea Muratore il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Quella dei Templari è una delle poche storie del mondo medievale tanto penetrante nel sentire collettivo dell'opinione pubblica da diventare mito, anche a sette secoli di distanza dallo smantellamento del più celebre ordine cavalleresco dell'era delle Crociate. Tante le leggende, le storie controverse e addirittura le menzogne trasformate in falsi storici che avvolgono, soprattutto, la fase finale dei Templari, quella caratterizzata dall'arresto dei vertici dell'ordine ad opera dei gendarmi di Filippo IV il Bello, re di Francia, nel 1307, dalle accuse di eresia e blasfemia, dall'assoluzione dei Templari ad opera della Chiesa "prigioniera" ad Avignone che operò tuttavia lo scioglimento del sodalizio e, infine, dal tragico rogo dell'ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay. Morto sul rogo nel 1314 sull'Isola dei Giudei a Parigi. A poca distanza da dove, il 21 gennaio 1793, fu decapitato Luigi XVI, "ultimo Capeto", ultimo Re di Francia per diritto divino, giustiziato nell'attuale Place de la Concorde mentre dal pubblico, sembra, qualcuno gridasse: "Jacques de Molay, sei stato vendicato".

A fare luce nella storia dei Templari e a rendere giustizia a un ordine che, tra grandi obiettivi politici e un anacronismo storico nella sua fase terminale, fu totalmente figlio del suo tempo, svelando al contempo come la cultura del legame col Tempio di Gerusalemme affondi le sue radici in una tradizione secolare, ci ha pensato Barbara Frale. La Frale, storica del Medioevo e ufficiale dell'Archivio Storico Vaticano, ha scritto per i tipi di Laterza il saggio La leggenda nera dei Templari che dà un inquadramento storico e precise coordinate all'epopea dei Templari, al tramonto dell'ordine dopo la ritirata degli ultimi crociati da Acri (1291) che aveva reso antistorico il loro ruolo di guardiani della Terrasanta cristiana, agli appetiti della Corona di Francia per il loro tesoro, alla fragilità politica della Chiesa cattolica e di Papa Clemente V, che provò a scagionare i Templari trovandosi però costretto a concluderne la storia e a trasferire i beni all'ordine degli Ospitalieri, ancora oggi attivi come Cavalieri di Malta.

Frale legge con attenzione la simbologia del Tempio di Gerusalemme di cui, dopo la conquista crociata di Gerusalemme (1099) i Templari furono i custodi, nascendo appositamente come milizia di monaci-cavalieri il cui personale ora et labora era un ora et pugna, "prega e combatti". San Bernardo da Chiaravalle nel trattato In lode della nuova cavalleria li definì "più miti degli agnelli e, nel contempo, più feroci dei leoni". Frale ricorda dei Templari che "la radice della loro spiritualità risiedeva proprio nella Sacra Scrittura, dove numerosi inni esaltavano le gesta belliche del Popolo Eletto contro i suoi nemici. Una guerra sicuramente santa, perché combattuta contro i cultori degli idoli, un'ideologia che la società cristiana al tempo delle crociate", pur intrisa di sincretismo come dimostrato in seguito dalla parabola di Federico II di Svevia, "trovò adeguata alle sue esigenze, mentre i documenti pontifici attingevano a piene mani a quei passi della Bibbia che celebravano Dio come Sabaoth", ovvero "Signore degli Eserciti".

La coltre di misticismo e spiritualità orientale che aleggiava sui Templari prefigurava il loro ingresso nella leggenda. La lunga serie di tradizioni ebraiche, mediorientali e sincretiche legate al Tempio di Salomone però, ricorda Frale, era stata incorporata dalla cristianità medievale, permeata di mito, che ad esempio non mancava di rileggere il costruttore del Tempio come un "Re-Mago", di sentire un'attrazione profonda per ciò che veniva dall'Est riconquistato alla cristianità. Il processo di Filippo IV di Francia creò, appunto, una leggenda di perversione, culti pagani, blasfemia su una tradizione accettata anche fuori dai Templari. Consentendo con forzature, confessioni estorte e scabrosità di demolire il vero obiettivo della Francia: la reputazione pubblica dei Templari, unico argine al mantenimento della loro rete di potere militare, ed economico dopo la perdita dell'Oltremare. Una tradizione di riti d'iniziazione camerateschi e di prove di fedeltà in caso di caduta in mano ai musulmani fu trasformata nella narrazione processuale degli inquisitori transalpini in un mito di riti orgiastici e dissacranti ad opera dei monaci-guerrieri.

I Templari furono in larga parte scagionati dalle accuse dalla Chiesa stessa, che con un'opera di garantismo ante-litteram operò un'azione di investigazione profonda degli addebiti mossi ai Cavalieri, e la morte sul rogo di Jacques de Molay fu legata essenzialmente a un atto di arbitrio di Filippo il Bello. L'anima nera del processo fu Guglielmo Nogaret, inquisitore capo di Francia richiamato più volte dalla Santa Sede per il suo arbitrio. Frale, che ha studiato con attenzione le carte, riporta l'esempio opposto dia Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo di Ravenna e responsabile del processo ecclesiastico ai Templari per l'Italia settentrionale: egli assolse i cavalieri e condannò l'uso della tortura per estorcere confessioni nel concilio provinciale di Ravenna.

A sette secoli di distanza, dunque, possiamo capire la profondità del fascino ancora esercitato dai Templari sull'opinione pubblica tanto nella profondità della loro missione quanto nei misteri e nelle ambiguità che portarono alla fine dell'ordine dei "Poveri compagni d'armi di Cristo e del tempio di Salomone". La profondità della missione li ha visti associati a ogni sorta di leggenda, prima fra tutte quella che li vedeva custodi del Santo Graal.

La fine dell'ordine decretata nel Concilio di Vienne nel 1312 dalla Chiesa anche per tutelare dai processi civili i membri, che entrarono in altre congregazioni, e la successiva morte sul rogo decisa di de Molay, assolto dalla Chiesa da ogni addebito, furono fusi in un unico contesto nella "leggenda nera" che gli storici hanno, gradualmente, demolito. E la diffusione capillare dei Templari dopo la fine dell'ordine ha portato alla diffusione della leggenda di una continuità dei monaci-guerrieri che ha dato vita a un filone di libri, romanzi e film ma che ha appigli reali: in Scozia, re Roberto I aprì le porte dei suoi domini ai Templari in fuga e molti riferimenti all'ordine sono analizzabili nella celebre Cappella di Rosslyn, mentre in Portogallo i Templari, semplicemente, cambiarono nome su iniziativa di Re Dionigi, che fondò l'Ordine del Cristo approvato nel 1319 da Papa Giovanni XXII.

L'Ordine del Cristo combatté nella fase finale della Reconquista contro i mori della penisola iberica e nel XV secolo, guidato dal Gran Maestro Enrico il Navigatore, infante del Portogallo, gestì le rendite delle terre africane e delle nuove isole colonizzate (Azzorre e Madera) finanziando la prima scuola per navigatori a Sagres, il cui lavoro aprì la via alla supremazia marittima portoghese che porterà alle grandi esplorazioni cinquecentesche. E oggi esiste ancora, secolarizzato, avendo come Gran Maestro il Presidente della Repubblica del Portogallo. Non è leggenda, è storia. L'estrema propaggine dei Templari, non morti ma semplicemente moltiplicatisi in una serie di rivoli giunti fino ai giorni nostri.

Estratto dell'articolo di Franca Giansoldati per “Il Messaggero” il 9 ottobre 2023.

[…] Anche la cattolicissima Italia che un tempo era nota per essere patria di santi e missionari si sta avviando ad assomigliare sempre di più alla Francia o alla Germania, dove la religione è ormai un elemento quasi marginale nella vita delle persone. A fotografare impietosamente il fenomeno dell'abbandono è una ricerca nazionale che la rivista cattolica Il Regno - fondata dai Dehoniani - ha affidato al professor Paolo Segatti dell'Università di Milano con il compito di scandagliare a fondo gli italiani. Il risultato finale è stato presentato a Camaldoli, ad un convegno al quale partecipa anche il cardinale Pietro Parolin. 

In poco più di dieci anni chi non crede in Dio è passato dal 26% al 36%. Mentre chi, al contrario, afferma di credere (non importa se graniticamente o con dubbi a seguito) è solo il 57% della popolazione, contro il 72% del 2009. Grosso modo un italiano su due. In quattordici anni la frequenza alle messe è ormai in picchiata ovunque. Chi va in parrocchia ogni domenica, per esempio, è solo il 18%. Tuttavia resta molto forte nella gente il riferimento culturale di base. Alla domanda a quale religione si appartiene, il 72,7% risponde senza esitazione: «A quella cattolica».

Nel frattempo però la scristianizzazione affiora in un altro dato.

Gli atei dichiarati sono raddoppiati e dal 6,2% sono saliti al 15,9%. Resta però ancora una certa fiducia di fondo nell'istituzione ecclesiale che dal 68% passa al 58%. Anche su questo fronte si tratta di un dato in calo probabilmente per effetto degli scandali legati agli abusi sessuali che in questo decennio hanno squassato la Chiesa. 

[…]  Il professor Segatti rileva poi che il Covid, in questo quadro incerto, ha finito per allontanare ancora di più gli anziani che si recavano regolarmente in chiesa prima della pandemia. I nonni ormai si sono abituati ad assistere alle liturgie in tv dopo che la pratica era stata sdoganata direttamente da Papa Francesco durante il periodo del lockdown.

Ma con la fine della pandemia la situazione non era tornata ai livelli precedenti, anzi, nella ricerca è ulteriormente peggiorata, sono contenute novità anche sul versante del comportamento politico visto che la propensione al voto dei cattolici si posiziona nell'area di centro, sia di coloro che guardano a centro-destra, sia di coloro che guardano a centro-sinistra. Inoltre i cattolici praticanti sono più propensi alla partecipazione politica e sono meno esposti alle sirene sovraniste. 

Il tema della scristianizzazione da tempo è al centro delle riflessioni di Papa Francesco che, proprio per questo, ha convocato in Vaticano oltre 400 delegati da tutto il mondo per prendere parte al Sinodo sulla Sinodalità, vale a dire una maxi riflessione con l'obiettivo di individuare cammini condivisi per avvicinare la Chiesa alla gente e renderla maggiormente attrattiva. [...]

Io laico e liberale vi spiego il fascino di Benedetto XVI. Joseph Ratzinger è “molto malato”: in Vaticano apprensione per la sua salute.  Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 29 Dicembre 2022

Uno dei motivi del fascino e della forza attrattiva che Joseph Ratzinger ha esercitato è consistito, probabilmente, nella capacità che egli ha avuto di unire una radicale critica della modernità con un’attenzione tutta moderna per i problemi e le sfide del presente.

Il teologo tedesco, diventato papa con un cursus honorem tutto interno alla Chiesa, non si è mai rinchiuso in una torre d’avorio lontana dal mondo, non lo ha mai rifiutato pur mai adeguandosi ad esso. Egli ha partecipato sempre attivamente alle battaglie del suo tempo, il che non poco contrastava, fra l’altro, col carattere schivo, dimesso, persino timido, della sua personalità. La sua è risultata essere pertanto una “voce nel deserto”, quel “deserto spirituale” che, secondo la sua definizione, è il nostro tempo. In esso, per usare un’altra sua nota espressione, vige una “dittatura del relativismo”, una perdita di senso generale che porta ad equiparare il sacro e il profano, i più nobili valori della tradizione (che depotenziati e non vissuti non possono considerarsi più tali) con gli interessi e i capricci del momento.

Era un vecchio e ordinato mondo di valori e gerarchie, di tradizioni e costumi, di ragione non meno che di fede, quello che Ratzinger aveva in mente, che la Chiesa e l’umanesimo cristiano hanno rappresentato e che il Papa emerito sentiva persi nel nostro tempo. Ratzinger avvertiva un che di destinale in tutto questo, dopo tutto. Nessuna idea di restaurazione reazionaria di un ordine perduto era in lui, ma l’idea piuttosto di prendere atto della realtà e rinserrare le fila fra quei pochi che in quel “mondo di ieri” cristiano continuavano a credere. Una Chiesa di minoranza e di testimonianza, di piccole cellule di resistenza, come quella dei gruppi monastici che aveva messo su nell’alto Medioevo San Benedetto in giro per l’Europa. Perché è indubbio che Ratzinger è stato un papa europeo per antonomasia, ed Europa e cristianesimo, civiltà occidentale/cristiana e civiltà tout court sono stati per lui un tutt’uno.

La partita per Ratzinger, che aveva avuto un ruolo importante nel pontificato di Giovanni Paolo II, si giocò nella prima decade del nuovo secolo, quando più volte intervenne, inutilmente purtroppo, per far capire alle élite e ai politici europei che inserire il riferimento alle radici cristiane nel preambolo di Costituzione europea non era una questione secondaria: che su quelle radici, e su quella identità, si erano costruite le nostre libertà. E che quelle libertà ora più che mai, per la forza di nemici esterni e interni, altamente erano in pericolo e fortemente andavano tutelate e rinsaldate. In questo preciso punto si colloca il motivo per cui Ratzinger ha toccato corde che stanno a cuore anche a noi liberali. Corrado Ocone, 29 dicembre 2022

Laicamente: perché non possiamo non ritornare cristiani (80 anni dopo Croce). Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 28 dicembre 2022

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Appena celebrata la nascita di Babbo Natale (ormai è questo il concetto), consentiteci una breve riflessione sul rapporto tra fede e mondo laico.

Sono passati 80 anni dalla pubblicazione di un monumento cartaceo all’onestà intellettuale, il “Perché non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce, nel quale il laicissimo filosofo liberale riconosceva che “il Cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuto”.

Lontano dal costituire una professione di fede o una difesa della Chiesa romana, Croce rendeva il Suo merito a Gesù in termini puramente storico-culturali e filosofici.

Nel ’57, Bertrand Russel gli rispose con “Perché non sono cristiano” dove torna la decisamente non-originale critica alla “sessuofobia” dei credenti. Uno stucchevole refrain perché se il matematico britannico avesse approfondito qualcosa sulle mostruose devastazioni sociali e sanitarie procurate, per 450 anni, dalla sola sifilide, si sarebbe piuttosto infuriato coi preti perché non erano stati abbastanza sessuofobici.

Infinitamente più modesto il “Perché non possiamo essere cristiani, e meno che mai cattolici” (2007) di Piergiorgio Odifreddi la cui dichiarata ispirazione dice tutto sul livello interpretativo: “La critica al Cristianesimo potrebbe ridursi a questo: essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo”.

Sarebbe invece il momento giusto per scrivere un altro saggio intitolato “Perché non possiamo non ritornare cristiani”, con il medesimo approccio laico di Croce, sia chiaro, dato che la fede è una scelta individuale e, per definizione, non si può imporre. Non il solito libro identitarista da annoiati intellettuali guenoniani di destra, piuttosto un saggio furiosamente emergenziale, dal sapore, ancora recente, di circolare sanitaria.

L’urgentissimo ripristino nella società laica del sistema di valori di eredità cristiana – e la loro difesa costituzionale - rappresenta oggi, non un’opzione, ma una strada obbligata, UNA NECESSITÀ INDISPENSABILE PER LA NOSTRA SOPRAVVIVENZA DAL PUNTO DI VISTA PSICHICO, FISICO, SOCIALE, SANITARIO, ETNICO, ECONOMICO, ANTROPOLOGICO, GIURIDICO E POLITICO.

Basti solo pensare all’arroganza con cui nel mondo della scuola avanzano nuove proposte aberranti come la “carriera alias”, dove ragazzi in piena età dello sviluppo dovrebbero “scegliere” a quale sesso appartenere. Il paradosso è che abbiamo subìto decenni di psicologismo d’accatto per condurci “ad accettarci per quello che siamo” e poi si inducono gli adolescenti a rifiutare il proprio genere sessuale.

Attenzione, stiamo andando a sbattere, e ci faremo molto male. Non possiamo qui enumerare le forme con cui i Sette vizi sono stati eletti, dalla società dei consumi, a modelli virtuosi, con conseguenti patologie, “addiction” e psicosi di massa. L’esibizionismo narcisistico; la sessualità anarchica e pervertita; la depressione endemica; la violenza immotivata; l’idolatria del cibo; l’invidia sociale e la brama di possesso; l’assolutizzazione del denaro, con tutto quello che da queste storture capitali consegue: la manipolazione chirurgica del corpo; la corruzione dei giovani; l’attacco all’infanzia e alla famiglia naturale; la privazione di libertà e diritti fondamentali; lo stupro del linguaggio; la promozione dell’ignoranza, del lassismo e di una degradante inversione in ogni ambito; il controllo delle menti, con pensiero unico, cancel culture, dirittismo compulsivo, distruzione del pensiero logico e le raccapriccianti, faustiane istanze del Transumanesimo.

Si è passati da un semi-innocuo ribellismo adolescenziale anni ’70 verso i valori cristiani, a un isterico rigetto “da indemoniati” con il loro conseguente smantellamento organizzato; ma la realtà dimostra che ovunque si agiti lo “spirito che nega”, c’è solo follia, morte, schiavitù, demenza e autodistruzione.

Qualcuno dirà che nella società multietnica di oggi, rimettere al centro i valori cristiani è impensabile, ma si dimenticano le auree regole elementari dell’ospitalità: “paese che vai, usanze che trovi”. Questa è la nostra terra, la nostra eredità, la nostra cultura bimillenaria: lo straniero che non le gradisce è libero di prendere un biglietto aereo o ferroviario e recarsi dove si trova più a suo agio, o, meglio ancora, di tornare nella sua terra. Regole ovvie, molto ben radicate nei loro paesi di origine, che è molto importante ribadire in senso assoluto per trovare un equilibrio nel circo babelico-emozional-egoico di accoglienza compulsiva che è ormai recepito - complice la falsa chiesa liberal progressista antipapale - come dogma assoluto.

Senza il Cristo della Tradizione - anche laicamente inteso - ci aspetta l’Uno-dio massonico-mondialista, annunciato candidamente dal Gran Maestro Giuliano Di Bernardo: “Arriveremo a un punto in cui ci sarà una sola società su tutto il pianeta Terra e allora chi la governerà? Non potrà essere la democrazia, con tutte le sue debolezze e contraddizioni”.

Chiaro, no? La nullificazione materialista degli individui soppianterà definitivamente l’algoritmo supremo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, cioè la realizzazione del singolo in armonia con i vicini, i prossimi, appunto, non genericamente gli "altri".

Non importa che si creda in Dio per recuperare un sistema sopravvivenziale dal punto di vista meramente fisico. I frutti velenosi e marci della società agnostica e secolarizzata, bastano da soli a dimostrare che ripristinare nella vita civile i valori cristiani (tradizionali, non la presente caricatura inversiva antipapal-bergogliana) vuol dire riappropriarsi dell’unico sistema che consente di salvarsi, in tutti i sensi, almeno a livello materiale. Alternative valide non sono state prodotte, ed ora non c'è più tempo per altri esperimenti 

O torniamo culturalmente, laicamente cristiani, o sarà la fine.

Natale, il sogno della sinistra: un 25 dicembre senza religione. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2022

Vicino alla basilica di San Petronio, dove tra poche ore si celebra la Notte Santa, le luminarie compongono i versi che annullano il Natale, il suo senso, la sua storicità. Niente Gesù. Lo privano di carne e ossa, nessun vagito di bimbo. L'amministrazione comunale di Bologna scandisce con le lampadine nella strada centrale dei negozi le due frasi di John Lennon (ispirate dalla sua musa e moglie, Yoko Ono) che affermano la religione del post cristianesimo: «Imagine there' s no heaven... and no religion too», cioè «immagina che non ci sia il paradiso e non ci sia neanche la religione». Il senso è: sarebbe fantastico, allora sì nascerebbe il mondo nuovo. Non ci sarebbero nazioni, nessuna identità particolare, ma un cosmopolitismo che darà all'uomo la pace senza bisogno di cercare Dio.

LA PROTESTA

Informato della faccenda per fortuna un vescovo si è inalberato. Monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, ha qualificato questa operazione come «insulsa provocazione anticlericale». E lo ha fatto su Avvenire, con ogni evidenza con la benedizione del cardinale Matteo Zuppi, che da questa città capeggia i vescovi italiani, e ha personalmente voluto evitare la polemica. C'è un problema. Qui non si tratta da parte dei citazionisti di Lennon di un uso distorto e fedifrago di «un meraviglioso Inno alla pace», come sostiene il prelato siciliano, il quale trasforma il fondatore dei Beatles in una sorta di precursore di Papa Francesco. Su, un po' di lealtà con gli autori, chieda pure alla artista giapponese che a 89 anni opera ancora tra noi: quelle frasi vogliono dire proprio quel che dicono. Nascono da un'opera di Yoko Ono, non c'è bisogno di nessun Salvatore per arrivare a pace e felicità.

Trattiamo perciò la faccenda per quello che è: non un tradimento del vero Lennon, il quale ha già miliardi di cultori del suo mito, ma un episodio nostrano e sfacciato di cancel culture. Il quale rivela di quale ideologia si nutra la sinistra anche oggi, soprattutto adesso: un'ideologia dove si mescolano ateismo e panteismo, nichilismo e utopia, negando l'essenza stessa della nostra identità di popolo e nazione.

Abbiamo rintracciato un antecedente. La Grande Enciclopedia Sovietica, che a Bologna negli anni '50 valeva più della Bibbia. Essa evidentemente fa ancora scuola. Ovvio, senza le rudezze della propaganda staliniana, ma il concetto è lo stesso: a Natale non è nato nessuno. Nella prima edizione, della colossale opera in 65 volumi, tra le 65mila voci, c'era infatti pure quella dedicata a Gesù Cristo. Tutto un fuoco d'artificio di scienza e di cultura marxista per arrivare alla verità-tà-tà: Gesù detto il Nazareno non è nato in alcun luogo, il personaggio narrato nei Vangeli è un'invenzione, un mito creato per abbindolare le masse popolari. I comunisti pur di impedire che qualcuno osasse porsi la domanda su chi fosse Gesù, troncarono il problema alla radice, negandone non solo morte e resurrezione (come il Corano) ma pure la nascita. Stalin fece insomma con Cristo un lavoro di sbianchettamento come se i Vangeli fossero il dossier Mitrokhin.

ADDIO AL FESTEGGIATO

E così siamo al Natale 2022. Per festeggiare il compleanno di Gesù niente di meglio che far sparire il festeggiato. Idea geniale del Minculpop del soviet municipale: niente Bambinello, zero stella cometa, figuriamoci Madonna e San Giuseppe.

Non che li si neghi apertamente. Non siamo davanti a gente volgare, ma a creature acculturate come volpini - direbbe Ezio Greggio - : fini lettori dei tempi. Nessuno striscione dunque tipo: «Gesù? No grazie». Neppure ci si sogna di emulare anche solo pallidamente la militante di Femen. (Nessun giornale o tg lo ha raccontato: nella chiesa di santa Maddalena a Parigi questa signora del movimento ceco ha mimato l'aborto del Messia, indi orinato sull'altare. Condannata in Francia, è stata considerata vittima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo come eroina della libertà di espressione: sul serio, ottobre scorso). L'amministrazione degli Asinelli (nessuna allusione al presepe per carità, è il caso ci querelino) ha deciso, in occasione di quell'evento che pure conta qualcosa nella storia dell'umanità, forse addirittura più di Yoko Ono, di appendere luminarie dove Gesù è consegnato alla muffa degli spettri scaduti. Come voleva il compendio della cultura comunista sopra citato, si tratta di un mito superato, una leggenda ingannevole. Il titolo del Natale post-comunista e post-cristiano di Bologna, ma in piena aderenza all'idiozia dominante (citazione di Lars von Trier), potrebbe essere: dimenticare Betlemme. Noi ci ricordiamo, alla faccia vostra.

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 27 dicembre 2022.

Una confessione involontariamente un po’ blasfema, di cui mi scuso coi ferventi cattolici. A me il Natale non piace perché commemora la nascita di un grande uomo morto quasi duemila anni fa, quindi lo conosciamo per sentito dire. Ma non è con lui che ce l’ho, ci mancherebbe. Prima lo crocefiggono senza un vero perché, e si tratta di una atroce tortura, poi lo festeggiano. Un minimo di coerenza sarebbe gradita. Il problema è che il Natale non serve a ricordare Gesù (che meriterebbe una riflessione). 

Cosa c’entrano i cenoni della vigilia, con relative abboffate di cibo, col sacrificio di un martire che si dice addirittura essere stato figlio di Dio? Non capisco la relazione tra un tragico decesso col consumo smodato di panettoni e bottiglie di spumante. Sarò scemo ma me ne sfugge il senso. Anche a casa mia, che non è un tempio pieni di intelligentoni, ad eccezione di me, il Natale è vissuto come l’occasione per radunare in sala da pranzo un numero elevato di parenti (sinonimo di rompicoglioni) che spazzolano quantità enormi di cibo, tra chiacchiere insensate e tediose.

Personalmente durante la cena non riesco a dire una parola per il semplice fatto che la stanza è resa rumorosa a causa delle discussioni senza soluzione di continuità dei presenti. Meglio così. Risparmio il fiato. A una certa ora non potendone più del frastuono, me ne vado in camera mia, al piano superiore, dove però l’eco delle ciance giunge imperioso impedendomi di chiudere occhio. Prendo una pastiglia che mi rimbambisce, come non fossi già abbastanza intontito di mio, e finalmente mi addormento incazzato nero. L’indomani mattina, dopo regolamentare doccia, scendo per fare colazione e vedo la tavola disseminata di avanzi del pasto e di vettovaglie sozze. 

Vorrei togliermi dai piedi e andare a lavorare per trovare un minimo di ordine, ma ricordo che a Natale e il giorno dopo non escono i giornali, e di conseguenza anche Libero è chiuso. Che esco a fare? Le edicole hanno abbassato le saracinesche, idem quasi tutti i negozi e pure i bar che sono il refugium peccatorum. Devo rassegnarmi a leggere i giornali del giorno prima che già li ho imparati a memoria.

Non ho di meglio da fare che recarmi in salotto e sprofondarmi in poltrona a fissare il soffitto arricchito da mille crepe provocate dal tempo. Non mi rimane che avviare il televisore, che rimarrà acceso tutto il giorno benché le trasmissioni siano una più cretina dell’altra. I film che vanno in onda hanno almeno mezzo secolo di anzianità e li hai visti mille volte, da “Via col vento” al “Gattopardo” più durevole di una penosa agonia. Stendiamo un velo pietoso sui notiziari, fotocopie l’uno dell’altro e noiosi come rosari della nonna.

Poi a scassare l’anima definitivamente il piccolo schermo offre programmi di cucina, dove due o tre deficienti ti insegnano a fare la frittata come se tu non l’avessi mai mangiata. Non bastasse ciò a renderti nervoso, le varie emittenti attaccano con salotti, ospiti cantanti sull’orlo della pensione che ripropongono brani che avevano già stufato all’epoca di Nilla Pizzi. Meno male che il Natale dura un giorno solo, come le farfalle che alle sei di sera ne hanno già piene le palle. Meglio comunque il 2 novembre, più vario.

Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 27 dicembre 2022.

 «Venite, adoriamo», andrà bene per i personaggi del presepe, ma Michela Murgia e Roberto Saviano pretendono di avere l'ultima parola anche davanti alla grotta di Betlemme. Ce lo spiegano loro com' è andata 2022 anni fa. E all'improvviso, è come se vagonate di opere dei padri della Chiesa si estinguessero di fronte a tanta sapienza.

È la giusta punizione terrena per noi cristiani, che non abbiamo ancora capito che l'Italia è una terra di missione dove ormai la predicazione va fatta come nei Paesi di prima evangelizzazione, cioè in partibus infidelium. 

Come penitenza non ci si può sottrarre nemmeno a una meditazione sul significato del Natale così come ci viene proposta sulle pagine della Stampa e su Twitter, anche se affrontare le omelie degli intellettuali laici sulle pagine evangeliche significa prepararsi a riedificare dalle fondamenta l'edificio di una cultura esegetica di cui ormai si è perduta la consapevolezza in larga parte dell'Occidente ex cristiano.

IL MISTERO

Per spiegare il mistero dell'Incarnazione, e della conseguente Natività di Gesù Cristo, si dice che molti bambini siano diventati re, ma che nell'arco di tutta la storia umana solo un re è diventato bambino. In più occorrerebbe premettere che la scelta di incarnarsi in un infante è unicamente frutto della volontà di Dio. 

Così come anche la decisione di vivere nel nascondimento, rimandando l'inizio della vita pubblica fino all'età di trent' anni. Negli Esercizi spirituali di sant' Ignazio, il prologo della vicenda è spiegato in tre scene: «Le tre divine Persone osservano tutta la superficie o rotondità di tutto il mondo piena di uomini»; «vedendo che tutti scendevano all'inferno, decidono nella loro eternità che la seconda Persona si faccia uomo, per salvare il genere umano»; «e così, giunta la pienezza dei tempi, inviano l'angelo san Gabriele a nostra Signora».

Alla Murgia, critica nei confronti della tradizione cattolica e della «infantilizzazione» di Dio, a suo modo di vedere non fondata sulla Sacra Scrittura, non si può peraltro contestare, come fanno molti commentatori delle sue parole, di non essere in possesso di una formazione teologica. 

Qualsiasi contadina analfabeta sarda del Medioevo, abituata però a pregare tanto, ne avrebbe saputo più di lei, che sembra avere studiato parecchio pur non avendo capito nulla. Ne sarà sorpresa, ma ci sono anche altre fonti della divina rivelazione, come la tradizione della Chiesa. E anche il magistero, cioè l'insegnamento dei Papi e dei vescovi.

D'altra parte, malgrado lo scetticismo della scrittrice, non è nemmeno necessario conoscere a fondo la Parola di Dio per avere qualche informazione in più sull'attesa che traspare in molti passi dei profeti - nei confronti di un Messia. Tant' è che ci sono ebrei messianici convinti che il Salvatore debba ancora arrivare. 

IL CONDOTTIERO

Alcuni nel popolo d'Israele speravano perfino che si trattasse di un condottiero che li avrebbe affrancati armi in pugno dalla dominazione dell'impero romano. 

A loro, e a quanti s' immaginano un Cristo-Guevara, eroe della lotta o della teologia della liberazione, si presenta un neonato inerme, che non vuole scatenare una Rivoluzione facendo leva sulle contraddizioni sociali, ma sanare ciò che le causa. Eppure, allo scrittore Roberto Saviano è parso di dover ricordare «a chi blatera in loro nome» che «Maria, Giuseppe e Gesù sono stati profughi».

Quel che lo «emoziona» è «che si cerchi redenzione in una famiglia stretta intorno a un bambino la cui innocenza lo proclama re». Innanzitutto, la genealogia del Redentore degli uomini, rintracciabile dalla prima riga del primo libro del Vangelo di San Matteo, spiega che proviene da una stirpe di monarchi risalente al re Davide, che decisamente non fu sempre innocente. 

E poi, siccome insegnare agl'ignoranti è una meritoria opera di misericordia spirituale, l'autore di Gomorra merita di essere corretto almeno su un altro punto. Quello che lui definisce «un bambino perseguitato» e «costretto alla fuga insieme alla sua famiglia per salvarsi la vita», non fu mai «respinto ai confini» o «arrestato insieme a chi lo avesse aiutato ospitandolo». Nacque in una provincia dell'Impero romano, la Giudea, poi si spostò in un'altra, l'Egitto, per evitare la strage degli innocenti voluta da re Erode nei confronti dei figli del suo stesso popolo. Infine fu crocifisso, certamente non in quanto straniero, ma in quanto Dio. Poi risorse. Ma ne riparleremo a Pasqua con Murgia e Saviano.

La banalità di Michela Murgia. Francesco Giubilei su Il Giornale il 28 Dicembre 2022.

Provo un certo stupore non tanto per le tesi volutamente provocatorie quanto per la banalità con cui scrive e il livello davvero scarso del ragionamento complessivo

Negli ultimi anni i cristiani si sono abituati a subire attacchi di tutti i generi in ogni ambito della società. Dalla famiglia ai temi etici, dal rispetto delle tradizioni alla difesa dell'identità. Un tentativo di delegittimare la religione cristiana avvenuto a più livelli e con varie sfumature che vanno dai crescenti episodi di cristianofobia alla volontà di cancellare le radici cristiane dell'Europa fino alla delegittimazione dei simboli cristiani. Tale delegittimazione colpisce in ogni momento il crocifisso e, nel periodo natalizio, si rivolge al presepe e alla rappresentazione della natività. Si cerca così di ridurre il Natale a una generica “festività” privandolo di ogni valore e riferimento cristiano. Ultima in ordine di tempo è stata la scrittrice Michela Murgia, non nuova ad articoli o prese di posizione fuori luogo e radicali. Il giorno della vigilia di Natale, l'autrice sarda ha pubblicato su “La Stampa” un articolo dal titolo emblematico I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità aggiungendo nel sommario: “la Sacra Famiglia è una storia di migranti, schiavi, povertà, ma è stata semplificata Non potremo mai assomigliare alla divinità. È umano soffrire, sbagliare, perdere”. Un testo che, oltre ad essere errato nel merito, lo è anche nei tempi, essendo stato pubblicato il 24 dicembre.

La Murgia afferma che il cattolicesimo sia “l'unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio” sostenendo che “nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato - o per Maria bambina, di sponda - è praticamente inesistente”. Già dalle premesse emerge un'affermazione falsa poiché nell'iconografia ortodossa il bambino Gesù viene raffigurato con grande frequenza tra le braccia della Madonna. Ma il suo articolo è un crescendo di banalità davver sconcertanti come il passaggio in cui scrive “nelle Scritture il racconto della nascita di Gesù somiglia infatti più alla trama di un film drammatico, sebbene cominci da un innesco piuttosto banale, di quelli in cui potremmo presto o tardi incappare tutti: si parte da un viaggio scomodo intrapreso per obbligo burocratico imposto dal governo”.

Confesso di non aver mai letto un libro della Murgia (è peccato?) e l'articolo in questione è uno dei pochi in cui mi sono imbattuto dovendolo leggere per lavoro e non certo per piacere poiché in passato titoli come God save the queer. Catechismo femminista non avevano attirato la mia attenzione. Terminata la lettura ho provato un certo stupore, non tanto per le tesi volutamente provocatorie quanto per la banalità con cui è scritto e il livello davvero scarso del ragionamento complessivo. Esistono altre figure del mondo culturale di sinistra che, pur nella fallacia delle loro tesi, espongono però ragionamenti di alto profilo ma questo articolo di Michela Murgia mi ha colpito in negativo. Come può una figura che esprime concetti del genere “per secoli abbiamo giudicato torvamente gli albergatori di Betlemme, ma alla fine la loro sola colpa, se tale la vogliamo considerare, era di essere sold out”, aver acquisito spazi, visibilità, posizioni nel mondo culturale?

Eppure sarebbe errato derubricare articoli di questo genere come una semplice provocazione poiché è qualcosa di più profondo, ovvero il tentativo di banalizzare e ridicolizzare la religione cristiana raccontando la natività come fosse una storiella.

Don Angelo Citati, in un illuminante articolo sulla vicenda, scrive: “la disamina della Murgia diventa contestabile quando si spinge fino a dire che è l’idea stessa di rivolgere la propria devozione a Gesù bambino ad essere un segno di immaturità, di «rifiuto della complessità». Un Dio che si fa bambino le sembra una cosa semplice? Nella sua storia plurisecolare, la cultura occidentale non ha affatto recepito il mistero dell’incarnazione del Verbo in questo modo, come qualcosa di semplice”.

Lecito chiedersi in conclusione a cosa serva la teologia, leggere Sant'Agostino, San Tommaso d'Aquino, approfondire secoli di studi teologici, se c'è Michela Murgia che può spiegarci il senso del Natale con analisi così profonde e complesse?

Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2023.

Quattromila persone stipate in un palazzetto ad ascoltare un guru indiano sono l’elefante in mezzo alla stanza. […] Quella folla […] è il sintomo di un bisogno generato da un malessere […] esistenziale. Fa fatica a capirlo la cultura ufficiale che, impregnata com’è di illuminismo, crede solo nella mente e in tutto ciò che si può misurare. 

Fa fatica a capirlo la scuola: i nuovi manuali di filosofia dedicano quasi più spazio al materialista Democrito che all’idealista Platone, il quale da venticinque secoli si ostina a ripeterci che esiste qualcosa di non percepibile dai sensi. Ma fa fatica a capirlo anche la religione, altrimenti non si spiegherebbe perché ha rinunciato a parlare di temi spirituali per concentrarsi su quelli sociali. E la politica?

[…] nessun partito coltiva più una visione del mondo e dell’uomo […] Alle persone spaventate dal futuro, la destra risponde speculando sulle paure e la sinistra irridendole, talvolta con disprezzo. E dovremmo stupirci se persino nella frenetica, pragmatica Milano il desiderio di rassicurazione e pace interiore riempie i palazzetti? Bisognerebbe ricordarsi che la favola più famosa del Novecento, il Piccolo Principe, lo è diventata per una frase: l’essenziale è invisibile agli occhi.

Estratto dell’articolo di Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2023.

Mentre sono in fila, prima di entrare nella piccola sala prove, gli artisti si scambiano qualche sguardo. Rkomi abbraccia Izi. «Come sei elegante», gli dice. […] Alessandra Amoroso opta per la quarta fila, la penultima. Due sedie in là c’è Ghali e dal lato opposto Irama. Sono alcuni dei venti artisti che ieri si sono dati appuntamento al Moysa, l’hub culturale ideato da Shablo (dj e produttore, tra gli altri di Blanco). 

[…] 

Si sono ritrovati tutti per un motivo: parlare di spiritualità. E, per farlo, per una volta si sono messi dall’altra parte, nel pubblico. Il palco – una scarna panchetta, in realtà – è tutto per Sadhguru, mistico indiano che, al loro pari, fa sold out in arene e palazzetti, solo che di tutto il mondo (domenica erano in più di 4 mila all’Allianz Cloud Arena di Milano, pagando anche 900 euro a biglietto).

Entra accolto da un applauso. Risponde con un sorriso e le mani giunte, poi si slaccia un sandalo, lo toglie e la gamba finisce sotto l’altra. Quindi chiude gli occhi e intona quella che, probabilmente sbagliando il termine, si direbbe una nenia. «Non ricordo da quanto non parlavo a una platea così piccola», esordisce. «Forse è il caso che siate voi a dirmi di cosa parlare». Rompe il ghiaccio Charlie Charles, dj e produttore. E lo fa con una domanda facile: «Qual è il senso della vita?». 

[…] Ma Sadhguru (che poi significa «guru ignorante») spariglia: «I significati sono un inganno. Quale è il significato del sole che sorge glorioso ogni mattina? La mente umana ha una malattia: ha bisogno di dare un significato alle cose ma questo non ti permette di farne semplicemente esperienza. Il significato è un modo per evitare la pazzia, ma la creazione non ha significato».

Un so di non sapere che è la base della pratica del mistico.

Ascoltano tutti, c’è chi prende appunti. Ghali è assorto, ha la bocca socchiusa. Poi alza la mano e chiede: «Come mai ci capita di sperimentare dei momenti di felicità ma, appunto, sono solo momenti?». «Perché parli al plurale? – replica Sadhguru –. Pensi di sapere quello che provano gli altri? Non facciamo questo errore perché ci sono solo esseri umani individuali, se no si fa il gioco di chi vuole inserirci in un gregge: quando succede, in nome della religione o altro, l’uomo ha fatto le cose più terribili. Ognuno ha sufficiente intelligenza per creare il proprio mondo».

Ghali annuisce e sorride, ha capito. Poi il maestro gli risponde: «La vita è come un tram di Milano: se ti ci siedi dentro, ti porterà a destinazione. Ma se ci finisci sotto è terribile. C’è differenza tra i propri processi psicologici e la realtà. Noi possiamo riuscire, con la meditazione, a creare un po’ di distanza dal nostro corpo, dalla nostra mente e quindi dai nostri drammi». 

Sulla religione è critico: «Non serve credere al fatto che abbiamo due mani, no? Perché crediamo in qualcosa che non sappiamo? Il processo spirituale avviene quando realizzi che non sai niente di questa vita, e allora inizi a cercare. Una persona spirituale è un ricercatore. Un credente crede e basta». E per esserlo, serve un certo metodo. «Chiedo 32 ore di tempo focalizzato. Le cose non si imparano in un minuto. Ma se ci si eleva, si vede tutto in modo diverso». Applausi, mani giunte, un abbraccio (dell’attrice Prisca Hartmann Gulienetti). Ma niente bis.

Estratto dell’articolo di Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” mercoledì 4 ottobre 2023.

Riempie gli stadi come una rockstar, e fa sold out in tutto il mondo. E c’è chi è disposto a pagare anche 900 euro per un biglietto. Tutto per ascoltarlo non cantare ma parlare di spiritualità e, magari, meditare assieme a lui. Che Sadhguru sia un fenomeno ce ne siamo accorti anche in Italia: più di 4 mila persone hanno riempito l’Allianz Cloud Arena e, il giorno dopo, si sono riuniti per un incontro privato, al Moysa di Milano, venti artisti, tra cui Ghali, Alessandra Amoroso, Rkmoi e Irama. Per una volta, dall’altra parte. 

[…] negli Stati Uniti si sono messi in fila per incontrarlo, tra gli altri, Will Smith, Matthew McConaughey, Demi Lovato, Paris Hilton, Sza.

Perché? Perché così tanti artisti vogliono incontrarla?

«Forse gli artisti, in particolare, sono più ricettivi. Avvertono che esistono delle soluzioni, anche se non le hanno ancora trovate. Mi interessa la loro influenza e che la usino positivamente. È un enorme privilegio e responsabilità». 

C’è qualcuno che l’ha colpita tra tutti?

«Io sono colpito da chiunque, artisti o no». 

Si è fatto un’idea del perché così tante persone la amano?

«Credo che sia perché io amo loro. Mi stanno solo ricambiando. Io vedo me stesso negli altri: essere davanti a una folla per me è lo stesso che guardarmi da solo allo specchio, in bagno». 

Sembra che mai come ora la gente abbia bisogno di qualcuno che dia risposte...

«Perché nessuno tratta gli esseri umani come esseri umani. La parte più importante del mio lavoro è ricordare che è la cosa che più conta. Possiamo distruggere questo mondo o creare cose meravigliose dopo che lo capiamo».

Non sembra la priorità, nemmeno per chi governa.

«Eppure mai come oggi abbiamo tutto per cambiare le cose, anche grazie alla tecnologia. E non lo facciamo. Io voglio assicurarmi che più gente possibile faccia quello che può fare. Se non facciamo quello che non possiamo fare non è un tema, ma se non facciamo quello che è nelle nostre possibilità, è disastroso». 

Siamo troppo distratti?

«Io chiedo solo 32 ore di tempo focalizzato. La soluzione a tutti i problemi umani è dentro di noi. È come decidere di andare in bicicletta con gli occhi bendati oppure guardando dove si va. È una scelta individuale come condurre la propria vita: se con gioia o no. Non c’è una regola, ma se tutti ne fossimo consci vorremmo vivere con gioia».

La sua è una vocazione, una missione o un lavoro?

«Io non ho un lavoro e non ho mai lavorato in vita mia. E non ho nemmeno una vocazione. La sola cosa che sono bravo a fare è stare fermo a non fare niente. E meditare, anche per molte ore di fila. Dopodiché condividere. Lo faccio 24 ore al giorno senza benefit (Sadhguru ha una fondazione, ndr)». 

Si trova mai dall’altra parte? Ha mai voglia di ascoltare qualcuno che considera saggio? Di fare domande?

«Ho risolto le mie domande molto tempo fa».

Se dovesse dare un solo consiglio, quale sarebbe?

«Tutte le esperienze umane, gioia e tristezza, arrivano da dentro di noi. Scegli bene quello che preferisci». 

Sì ma per qualcuno la vita è oggettivamente più semplice.

«Piaceri o dispiaceri non vengono da fuori, ma da dentro di noi. Non è difficile o facile, bisogna solo decidere». […]

Il Karma: cos'è e come funziona. Francesca Catino su Panorama il 27 Aprile 2023.

Il karma è un termine utilizzato da tutti ma conosciuto da pochi(ssimi). Esiste da sempre ed è un concetto fondamentale in molte religioni orientali, tra cui induismo e buddismo, ma spesso utilizzato a sproposito da noi occidentali, che superficialmente lo accumuniamo ad una sorta di fato imperscrutabile, attribuendogli un potere decisivo sulle nostre vite.

Il karma significa «azione» in sanscrito ed è una legge cosmica, olistica. E’ una delle chiavi che svelano il funzionamento dell’universo e gestisce gli eventi apparentemente inspiegabili e inattesi che ci sono capitati e che formano la trama della nostra esistenza. E’ un principio armonioso, che subordina conoscenza e liberazione al frutto delle nostre azioni e ci ricorda che, qualsiasi cosa abbiamo pensato o commesso, avremo sempre una possibilità di riscatto per evolverci. Inoltre non ha nulla a che vedere con concetti come “giudizio divino” o “castigo”. Il karma rappresenta il crocevia tra il fatalismo e il libero arbitrio e ci porta dove noi abbiamo deciso (consapevolmente o meno) di essere portati. Tant’è vero che se un numero maggiore di persone credesse alla potenza della legge del karma, non avremmo mai bisogno di polizia o di sistemi per costruire la pace. Nessuno a questo mondo può considerarsi immune o esonerato dagli imprevisti e dai problemi. Il karma è il nostro comune denominatore e non guarda in faccia nessuno. Non possiamo combattere o evitare il karma: siamo noi a generalo in ogni attimo della nostra vita. Con il nostro agire siamo responsabili del risultato della legge di «causa ed effetto» che ci accompagna per tutta la vita e che si applica a ogni nostro gesto quotidiano. Ma il karma non ha a che fare con il destino, perché nulla è prestabilito in modo definito e immutabile, tutt’al più prevede che ci sia un motivo per ogni cosa e che ogni cosa accada per un motivo. Altro non è se non il processo evolutivo della coscienza.

La nostra vita è una sequenza di eventi dettati da una serie interminabile di cause ed effetti che ci risultano in genere imprevedibili, poiché sono il risultato di molteplici rapporti con più persone e su più livelli. Ma all’u- niverso non importa se abbiamo ragione o meno di far accadere ciò che abbiamo deciso di innescare. Tutto si muove come un immenso ingranaggio, tanto enorme da risultarci inconcepibile. Dal punto di osservazio- ne più alto, non esistono “bene” e “male”, ma azione e reazione a qualsiasi evento accada sotto ogni profilo, che sia quello emozionale, mentale o fisico. La reazione sarà dettata dall’insieme delle nostre esperienze, dei condizionamenti, dalle emozioni avute nella nostra vita. Non c’è una sola reazione prevedibile, ma molteplici, e sono tutte possibili. Quella che avverrà sarà la dominante in quel preciso momento della nostra vita. Non tutti gli eventi che accadono nell’universo sono legati al karma, ma, nella vita di un essere umano, che è fatta di azioni dettate dalla mente e dalle emozioni, il karma si veste di destino (o di fato) e non cessa mai di inseguirci, dalla nascita fino alla morte. Il karma, tuttavia, non ha un ruolo giudicante, non punisce e non premia, il suo compito è quello di “servirci il conto”, anche molti anni dopo averlo generato. Il più delle volte non ce lo ricorderemo e rimarremo stupiti, nel bene o nel male, di ciò che ci sarà accaduto, ma sarà sempre il risultato di qualcosa che abbiamo compiuto deliberatamente. Saper riconoscere l’effetto del karma nella nostra vita ci aiuterà a comprendere e a migliorare (o accettare) le conseguenze che esso avrà generato. Le 4 caratteristiche del karma:

1. La certezza: un karma positivo (quindi fare del bene perché si desidera farlo e se ne ha la possibilità) creerà sempre un risultato positivo e viceversa;

2. La piena responsabilità individuale: ognuno di noi incontrerà e sperimenterà sempre e solo un karma creato da sé stesso e non da altri;

3. L’immutabilità: se creiamo un karma, negativo o positivo che sia, esso non potrà mai andare perduto, ma potrà solo, in casi eccezionali, venire estinto;

4. La non-proporzionalità: un piccolo karma positivo può dare grandi frutti. La purificazione del karma Tutte le esperienza traumatiche e dolorose sono dettate dal karma e come tale devono essere accettate, comprese e superate. Chi non perdona, non accetta, non dimentica, prima o poi si ammala anche gravemente. Secondo le più antiche tradizioni orientali, la malattia e tutte le sue conseguenze sono il risultato di un karma pesante che deve essere purificato. Esiste un programma che agisce a livello sottile e che purifica, incenerendo tutto il karma negativo che risiede nella persona. E’ un percorso che dura 9 giorni - non difficile da eseguire, ma di sorprendente risultato inconscio - che agisce nel mondo tangibile in modo spettacolare. A ogni giorno occorre aggiungere quanto è stato fatto precedentemente. Ecco il programma esposto in modo sintetico:

Giorno 1. Non manifestare scontento: non esprimere per tutta la giornata insoddisfazione per qualsiasi cosa, pensiero o azione che si sta compiendo.

Giorno 2. Non criticare: non giudicare male alcuna cosa, persona o lavoro.

Giorno 3. Osserva il pensiero e l’azione: fai autoanalisi dei tuoi comportamenti e pensieri. Impara a osservare il rapporto tra il processo del tuo pensiero e l’azione.

Giorno 4. Svegliati prima del solito: alzati un’ora prima del solito, favorisci il cambio del bioritmo, fai esercizio fisico e sviluppa la consapevolezza del tuo corpo.

Giorno 5: Fai un solo pasto: mangia una sola volta nell’intero giorno, evitando la carne (a causa di alcune proprietà che contiene che servono principalmente per determinati fabbisogni ma non per i processi di purificazione) e cercando di bere molta acqua.

Giorno 6. Pratica la meditazione: all’alba o al tramonto, pratica un’ora di meditazione da solo.

Giorno 7. Fai qualcosa che ti è sgradito: impegnati in qualcosa che normalmente non ti va di fare.

Giorno 8. Fai un gesto altruista: fai qualcosa per gli altri senza che nessuno lo possa sapere.

Giorno 9. Rivedi e ricorda: durante la fase notturna, ripercorri tutta la giornata appena trascorsa. Riesaminala al contrario come se guardassi un film all’indietro. Il fine ultimo è far sì che il corpo diventi il veicolo del Sé superiore in modo da mantenere pulito il karma. Azzerare il karma negativo è la migliore azione che possiamo fare e non necessita dell’aiuto di nessuno, se non della nostra volontà. Solo così raggiungeremo anche il benessere fisico e le malattie avranno più difficoltà ad aggredirci.  Ricordiamoci che viviamo in un mondo duale, quindi la nostra realtà è governata dalla legge degli opposti, ove noi possiamo dare un significato a una determinata parola perché ne conosciamo anche il significato opposto. Dunque conosciamo il caldo perché abbiamo sperimentato il freddo, così come sappiamo che la luce non può esistere senza l’oscurità, e via dicendo. L’ombra non accettata ci rende malati, la sua integrazione invece ci guarisce. Questa è la chiave per la guarigione: collaborare con noi stessi e con gli altri assecondando la costruttività per imparare nel bene e nel male ad essere la versione migliore che possiamo offrire in questa vita, riuscendo così a favorire un karma positivo che influenzi un genuino funzionamento per l’universo intero, scorrendo con esso consapevolmente e nel bene.

Il lato oscuro della Spiritualità New Age. Francesca Catino su Panorama il 23 Febbraio 2023

Ad oggi chiunque è un esperto quando si tratta di spiritualità, ma ciò che accumuna tutti questi individui è di aver scoperto qualcosa di rivoluzionario che (dicono) le masse non conoscono

Manifestazione, legge dell’attrazione, legge dell’assunzione. C’è stato un fiorire di libri best-seller e guru autoproclamati che giurano sui segreti dell’universo che hanno portato alla luce. Per la New Age ognuno può evolvere grazie a qualsiasi cosa che l’universo offre, attraverso un’accozzaglia di tecniche, canalizzazioni, rituali, privi di una verifica temporale, dove non si fa riferimento a niente e a nessuno. Persino in ambito accademico è difficile definire che cosa sia la Spiritualità New Age proprio perché si tratta di un minestrone in cui può essere inserita qualsiasi cosa. Basta che sia abbastanza esotica, alternativa o misteriosa.

Perché si chiama New Age? Ossia "Nuova Era". Perché tra le varie credenze c’è anche quella per cui stiamo vivendo una transizione verso un’era di evoluzione, fratellanza, amore, simbiosi tra uomo e natura e via dicendo. Di fatto è vero che ci sono stati moltissimi "risvegli" (così chiamati in ambito spirituale) nell’ultimo decennio. Ma l’esistenza si sta risvegliando da sempre e continuerà per sempre a risvegliarsi a sé stessa. Perché questo è il suo scopo. Quindi il termine "New Age" è piuttosto fuorviante. Dalla pandemia in poi molte persone, soprattutto giovani, hanno iniziato a interessarsi alla spiritualità anche grazie a molti creator sui social. Tra i più influenti e seguiti ci sono sicuramente i guru New Age che promuovono le loro idee e pubblicizzano i loro corsi che costano centinaia se non migliaia di euro. Sono gli stessi creator che insegnano a manifestare di tutto, a partire da un messaggio fino ad arrivare ad ottenere la vita dei tuoi sogni. Loro si sono svegliati, hanno hackerato Matrix e "scoperto le leggi dell’universo" mentre il resto del mondo dorme. In via teorica, anche la New Age propone in generale una visione buona e più ampia della vita volta in ultima istanza a realizzare un’unione con il divino. Ma solo a parole. Se mancano i fatti si sfocia facilmente nelle più strampalate credenze, superstizioni, idee. Fino alla follia. E così facendo si passa la propria esistenza vagabondando da corso a corso, da tecnica improvvisata a tecnica improvvisata e via dicendo. Nell’ultimo periodo, specialmente in America, molte persone hanno iniziato a parlare del lato oscuro di questa forma di "spiritualità" (tra virgolette perché per molti versi è tutto fuorché spirituale), che può portare alla cosiddetta "psicosi spirituale" nei soggetti più fragili o che stanno vivendo un momento difficile e si aggrappano a queste idee per cambiare la loro vita e altre conseguenze gravi. E si tratta di una dura verità da digerire, ma molte persone che cercano di diventare illuminate lo fanno perché cercano di evitare o sfuggire a qualcosa, per esempio: fuggire da un senso di indegnità. Fuggire dalla dura realtà della vita. Evitare il dolore di essere vulnerabili e intimi con gli altri. E altre sovracompensazioni per qualche altra carenza percepita all’interno. Raggiungendo l’illuminazione spirituale, tali persone credono che saranno finalmente libere dalle loro insicurezze, vulnerabilità e dolore dell’esistenza. Ma non funziona così. Il movimento New Age si nutre della pretenziosità delle tendenze narcisistiche, dove la convalida è diventata un bisogno disperato. Conferisce particolarità a pochi eletti. Assume una segreta sincronicità con l’universo che incoraggia una malsana preoccupazione paranoica nel trovare un significato in segni, simboli e coincidenze. Molta spiritualità New Age è antiintellettuale, caratterizzata da un pensiero magico con una dipendenza da manie di grandezza. Crea aspettative irrealistiche e non incoraggia il pensiero critico. Introdurre questi concetti pseudoscientifici come un valido ramo della scienza ricorda quando la chiesa convinse le masse che la Terra era il centro dell’universo. La storia sembra ripetersi, poiché sembra che siamo dipendenti dal credere in cose che non hanno prove. Perciò, qual è lo scopo scaturito da queste semplici chiacchiere e credenze prive di fondamento, che tutt’al più sono dei provvedimenti per ignorare o alleviare temporaneamente un malessere interiore? Spesso solo un guadagno monetario da parte degli influencer che offrono, appunto, un palliativo per lo spirito. A differenza della New Age, le tradizioni spirituali che si susseguono da migliaia di anni provano la loro utilità, efficacia e autenticità. Tradizioni come molte scuole di pensiero, nate da

Induismo, Buddismo, Taoismo. Persino il Cristianesimo. Linee guida di pensiero che sono sopravvissute nel corso di guerre, carestie, successioni di imperi e calamità naturali. Proprio perché funzionano. Ad esempio, le preghiere cristiane hanno dimostrato nel corso della storia la loro validità nell’ambito delle malattie, quando non esistevano ancora i farmaci moderni, riuscendo a dare una spinta di guarigione nei casi più disperati, raggiungendo così quelli che ancora oggi chiamiamo "miracoli". Ma forse non si è mai trattato di interventi celestiali, bensì di forme di preghiera -e quindi di linguaggio- che si avvicinano più ad un campo scientifico; alla PNL (Programmazione Neuro Linguistica), una materia che insegna delle tecniche attendibili che ci permettono di riprogrammare il nostro cervello per favorire un funzionamento volto al beneficio. E quindi alla cura anche di malattie talvolta gravi. Dunque possiamo dire che il vero intervento divino parte dal nostro atteggiamento. Dalle nostre intenzioni. Siamo noi al comando del nostro destino, attraverso le nostre scelte e azioni. E se vogliamo percorrere un "cammino spirituale" è saggio affidarsi a figure professionali che hanno dedicato la loro vita, se non addirittura la loro intera esistenza, per fornire gli strumenti che risultino il più affidabili e concreti possibile, affiché il nostro percorso punti verso l’alto. Questi professionisti hanno istituito vere e proprie accademie in merito. Come, ad esempio, l’Accademia Acos di Carlo Dorofatti, rinomato filosofo e ricercatore dello spirito e libero professionista da oltre vent’anni, si occupa di ricerca, divulgazione e formazione per la crescita spirituale ed esoterica. In conclusione, tornando all'oscurità del movimento tossicospirituale che abbiamo analizzato in questo articolo, c'è da sottolineare che la Spiritualità New Age si fonda sulla mancanza di qualsiasi tradizione spirituale o punto di riferimento attendibile. Divulga informazioni inconcludenti che finiscono per creare solo confusione e quindi arrecando dei danni rilevanti in chi si appassiona a tale corrente. Perché se non ci sono dei chiari punti di riferimento, è come trovarsi in mezzo ad un bosco e vagare senza un sentiero tracciato; il rischio di girare a vuoto è praticamente garantito.

Estratto dell’articolo di Marco Ventura per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2023.

Certi miti africani e amerindiani fanno originare donna e uomo da una cottura. Come fossero cibo. Ci ricordano che nelle tradizioni religiose cibo e creazione coincidono. Gli esseri umani e divini si uniscono e si dividono negli alimenti cotti e crudi, nella preparazione e nel consumo, nel digiuno e nella festa, nel prescritto e nel vietato. 

Nella Grecia classica sale verso l’Olimpo il fumo della bestia sacrificata — agli dèi non serve altro, hanno già nettare e ambrosia — e agli uomini resta la carne. Da Zeus a Vishnu, da Buddha a Maometto, il cibo della religione è la religione stessa: il cibo è «la materia prima della religione», le religioni sono «regimi alimentari sacralizzati».

Partono da qui Elisabetta Moro e Marino Niola nel loro Mangiare come Dio comanda (Einaudi). I due antropologi dell’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa imbandiscono per lettrici e lettori una ricca mensa di prove del cibo nella religione […] 

Gli autori mostrano anzitutto le continuità profonde, gli schemi che persistono mentre ne mutano le manifestazioni. È il caso del passaggio del pane, del vino e dell’olio dal pantheon greco-romano al cristianesimo, in quella che Moro e Niola definiscono una «teologia della dieta mediterranea». Così i cereali devono il loro nome a Cerere, la greca Demetra, la «dea madre» signora delle messi, mentre l’olio è sotto il segno di Atena, e perciò i giovani ateniesi sulla soglia dell’età adulta giurano di difendere la patria davanti agli ulivi sacri. 

Il vino, poi, è il dono di Dioniso, il «dio in fermento» come il succo della vite che è «succo della vita», «bios allo stato nascente ed effervescente».

I cristiani reinventano e perpetuano i tre elementi nel transito «dal simposio alla messa». Se Gesù è «la messe che diventa Messia», i «tre emblemi alimentari del Mediterraneo antico» si trasformano nel corpo, nel sangue e nel crisma di Cristo. 

Al contempo i cristiani introducono cesure nella trama: mangiano tutto, purché con moderazione e senza dimenticare l’affamato e l’assetato alla porta, e poi sostituiscono il sacrificio finale dell’Agnello di Dio a quelli ripetuti degli agnelli del gregge. In questo il cristianesimo non è il solo caso di un tema fondamentale che persiste mentre muta. Moro e Niola ce lo mostrano mentre srotolano il filo vegetariano che conduce dalla Magna Grecia di Pitagora alla Londra di Gandhi, mentre sfogliano il ricettario che accomuna e distingue il puro e l’impuro di ebrei e musulmani.

Il senso del libro, tuttavia, è ancora oltre: lo incontriamo nell’ulteriore passaggio dal cibo della religione quale sviluppatosi nei millenni alla «religione del cibo» contemporanea. Se infatti ogni religione è un regime alimentare, spiegano gli autori, ogni regime alimentare è una religione, e la nostra religione del cibo contiene a sua volta una continuità e una cesura, perché da un lato ripropone antiche discipline, ma dall’altro pretende liberarsi del divino.

Da qui il titolo del volume: vogliamo ancora «mangiare come Dio comanda», anche senza Dio. La nuova disciplina si è staccata da tradizioni e culture e, come il «vegetarianismo», si impone quale «contrassegno identitario di una nuova élite alfabetizzata, metropolitana, ambientalista e globish, uguale a Shanghai come a Stoccolma, a Milano come a New York». 

«Religione del nostro tempo», il cibo «pesa allo stesso tempo sulla bilancia e sulla coscienza». Ciò vale per la nostra «cibomania», ovvero la «sovraesposizione del piacere, della conoscenza e dell’esperienza gastronomica», ma anche per la nostra «cibofobia», cioè per «l’ipercorrettismo alimentare che demonizza un cibo dopo l’altro». 

Qui approda il libro, infine: alla nostra «intolleranza alimentare», non meno integralista di quella religiosa, nella quale «la secolarizzazione e il culto del corpo da una parte e le esigenze di sicurezza e le mode alimentari dall’altra» rimpiazzano salvezza e fede con salute e fiducia. […]

La Giustizia.

La Manipolazione.

La Good News International Church.

I Gesuiti

I Satanisti.

Il Diavolo.

Il Nullo.

Le Bestie.

La Giustizia.

Ancora un caso molto controverso nella città del Palio. Siena, vittima di violenze sataniste? Gli stessi PM del caso David Rossi non le credono: considerata “pazza”. A Milano la pensano diversamente. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'8 Agosto 2023 

Per la Procura di Siena il suo non era un racconto “credibile”. Per quella di Milano, invece, è stato il contrario. È tristissima la storia di Miriam, nome di fantasia, una donna di quaranta anni che per oltre un decennio ha subìto violenze di ogni genere da parte di una setta di satanisti.

“Abbiamo trovato un Pm scrupoloso, il dottor Stefano Ammendola, che ha creduto alla mia assistita”, afferma l’avvocato Massimo Rossi, difensore della donna, ricordando che il prossimo mese è in calendario l’udienza preliminare dove si deciderà se rinviare a giudizio o meno Fabio Bertin, imprenditore discografico di Varese, e sua moglie Rosa Stefanazzi, ex infermiera, entrambi accusati di riduzione in schiavitù e stupro aggravato.

“Purtroppo i Pm di Siena, ad iniziare da Antonino Nastasi, non hanno mai voluto approfondire questa storia. Per questo abbiamo presentato, al momento però senza aver avuto risposta, un esposto al Consiglio superiore della magistratura ed al ministro della Giustizia”, aggiunge Rossi.

Tutto inizia nel 1999 quando Miriam viene data in affidamento alla famiglia Bertin che abita in provincia di Como. Il rapporto è fin da subito difficile e Miriam, contro la sua volontà, rimane incinta del suo affidatario. Si trasferisce allora a Siena mentre il figlio viene mandato in una comunità. “Bertin iniziò a tempestarmi di chiamate e fui costretta, mio malgrado, a denunciarlo per di chi avrebbe dovuto indagare e proteggermi, mi ha salvato la vita, quella fisica perché le violenze resteranno tutta la vita, ed ha salvato la vita dei miei figli”.

“La Procura avrebbe dovuto iscrivere il nominativo e avrebbe dovuto indagare andando alla ricerca di prove, sarebbe bastato veramente poco: un monitoraggio di tipo scolastico, quale il pedinamento”, sottolinea l’avvocato Rossi che per un periodo venne addirittura indagato dai Pm di Siena con l’accusa di favoreggiamento. “Non ci si può trincerare dietro l’alibi (finto) del fatto che la donna non parlava, perché non può essere una ragione per non agire.

È inutile girare intorno all’argomento principale: vi sono atti in questa vicenda non compiuti o compiuti dalla Procura della Repubblica che hanno dell’illogico e che non rispondono a quanto una Procura dovrebbe fare in casi simili”, prosegue il legale. Per la Procura di Siena, Miriam doveva essere “pazza” o non atmolestie”, ricorda Miriam che conosce quindi un maresciallo dei carabinieri comandante di una stazione del posto che inizialmente sembra aiutarla ma, dopo averla messa incinta, l’abbandona al suo destino. L’imprenditore lombardo, a quel punto, torna a farsi vivo costringendola ad avere rapporti sessuali violenti. Lei, però, non lo denuncia nonostante ricorra più volte alle cure del pronto soccorso. Per la Procura di Siena si tratta di atti di “autolesionismo”.

“Mi si chiederà come mai io non ho fatto una denuncia espressa, sebbene fossi consapevole che i referti medici avrebbero dovuto consentire agli inquirenti perlomeno di indagare. Lo dico apertamente: non ho fatto un esposto in quel momento perché avevo paura che Bertin e la moglie ne fossero messi a conoscenza e che avrebbero ucciso me ed i miei figli”, afferma Miriam.

“Molti lo considerano un errore – prosegue – ma vista l’inerzia tendibile per forza, anche a fronte delle sue dichiarazioni e dei certificati medici. Per la cronaca, la problematica psichiatrica era stata smentita da una serie di CTU. Bertin, definito come soggetto “schizotipico”, leggendo il capo d’imputazione avrebbe quindi “usato” Miriam a suo piacimento per poi concederla ad altri soggetti.

La Procura di Siena, continua Rossi, “attraverso la sua inazione non solo non fatto indagini appropriate ma si sono concretizzate perdite probatorie: non ha monitorato la persona offesa e non l’ha protetta né allora né dopo, archiviando il fascicolo”. “Il motivo di tale atteggiamento – aggiunge – è oscuro ed insondabile e pone seri dubbi sulla adeguatezza del magistrato inquirente a ricoprire le sue funzioni”.

La Procura di Siena si è limitata a sentire Miriam dopo un intervento sanitario e siccome non diceva i nomi di chi l’aveva aggredita, l’aveva indagata per simulazione, nonostante il fatto che in uno dei referti vi fosse scritto che aveva riportato “calci alla schiena”. La donna aveva poi riferito l’esatta dinamica di questi episodi di violenza che si spingevano anche a chiuderle con un filo chirurgico la vagina.

“L’inaudita bestialità di tali violenze è inimmaginabile, sapere di subire e subire tali violenze è una tortura che può essere paragonata solo alla violenza sulle cavie umane fatta da Mengele nei campi di concentramento nazisti. I danni psicologici non hanno limiti e riducono la persona ad un cadavere in vita”, aggiunge Rossi, aggiungendo dunque che la donna – completamente soggiogata ed in balia di Bertin, della moglie e dei suoi diversi violentatori – oltre ad essere sottoposta a orge e rapporti di gruppo violento nei quali veniva brutalizzata e tagliata con coltelli affilati sulla schiena, “subiva anche pratiche che ricordano le messe sataniche”. Tesi, come detto, sposata dai Pm di Milano che non hanno voluto archiviare come fatto dai colleghi di Siena.

Paolo Pandolfini

La Manipolazione.

La manipolazione delle sette è sempre viva. Ma siamo in un limbo”. La psicologa Lorita Tinelli parla a IlGiornale.it della manipolazione mentale delle sette: "Le dinamiche settarie appartengono a ogni contesto tossico". Angela Leucci il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

Sebbene le vicende dei grandi leader carismatici dei movimenti religiosi settari, criminali o no, siano nel passato, l’argomento resta d’attualità. La manipolazione esiste ancora in forme certamente più sottili, in realtà dagli epiloghi meno eclatanti. E i media continuano a parlarne. È disponibile su Netflix la serie documentaria “Come diventare leader di una setta”, che ricorre alle figure storiche di Osho, Charles Manson, Jim Jones, David Koresh, Marshall Applewhite e altri. La fine della storia dei loro movimenti religiosi continua a sollevare interrogativi e insinuare dubbi, tra omicidi, suicidi di massa e organizzazioni di arsenali: tuttavia non è solo l’epilogo di queste storie a interessare, ma il modo in cui ci si è arrivati.

A gennaio 2023 è uscito il libro “7 - Sette e manipolazione mentale”, scritto da Lorita Tinelli e Marzo Marzari, che tratta “della manipolazione mentale che alcune persone, i leader che ne sono a capo, riescono efficacemente a operare su centinaia di vittime”. Marzari è un avvocato penalista, che nel corso della sua carriera ha difeso le vittime di diverse sette, mentre Tinelli, che è qui intervistata da IlGiornale.it, è una delle massime esperte italiane di manipolazione mentale, è psicologa e fondatrice del Cesap (Centro Studi sugli Abusi Psicologici).

Dottoressa Tinelli, perché, secondo lei, a distanza di molto tempo dalla Manson Family, Jonestown, Waco o Heaven’s Gate si continua a parlare di questi argomenti?

“Perché è un argomento che, al di là dei casi eclatanti come quelli che ha citato, continua a mietere vittime. Ci sono ancora situazioni, anche nella nostra Italia, di persone che in estremi casi hanno perso la vita aderendo a queste realtà, oppure che hanno abbandonato la famiglia, effettuato cambiamenti radicali, repentini, interrompendo quello che era il proprio percorso evolutivo”.

Quindi?

“Quindi i casi esistono, nessuno prende, soprattutto in Italia, provvedimenti dal punto di vista istituzionale - non esiste una legge sulla manipolazione mentale, ma paradossalmente la manipolazione mentale esiste. Fino a che non si affronterà con coscienza questo fenomeno, continueremo a parlarne sempre perché ci sarà sempre”.

Avete deciso di dedicare il libro a Roberta Repetto. Come mai questa scelta?

“La scelta è legata al fatto che il caso eclatante di Roberta Repetto è un esemplificazione di ciò che avviene all’interno delle dinamiche settarie”.

Cioè?

“Roberta era una giovane donna, intelligente, laureata, piena di passioni, così la descrivono i suoi famigliari e le persone che l’hanno conosciuta, gradualmente mise la sua vita nelle mani di un guru, fino a far decidere a questo signore le sorti della sua cura rispetto a un melanoma. Lei si è trovata a essere operata da un medico chirurgo su un tavolo di cucina, all’interno di un centro olistico senza anestesia e senza la necessità di un esame istologico, proprio perché il guru sosteneva che, attraverso le proprie energie emanate dal terzo occhio, quell’operazione andava eseguita in quel modo e tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi”.

E poi?

“Roberta ha creduto questo fino a quando non ha chiuso gli occhi per sempre: fino all’ultimo momento ha creduto che tutto quello fosse un preludio della sua guarigione. Si era totalmente affidata. Abbiamo deciso di dedicarle questo libro, pensando alle tante persone che hanno perso la libertà o rischiano di perdere la vita, ci è sembrato di poterle rappresentare tutte in questo modo”.

L'assedio, il fuoco, l'attesa dell'Apocalisse: che cosa accadde a Waco

Quali sono le caratteristiche comuni ai cosiddetti leader carismatici di una setta?

“Una delle caratteristiche è la voglia di potere sugli altri, anche economico, e anche il sadismo quasi innato, perché non si fermano neppure quando vedono la propria vittima sofferente. E c’è anche l’autoproclamazione, il sentirsi superiore agli altri, pieno di titoli e di eventuali poteri che gli altri non hanno”.

E cosa muove le persone ad aderire a una setta?

“Il bisogno di essere accolti, di appartenere, di avere una relazione con una nuova famiglia capace di riconoscere le necessità, e il senso di sicurezza. Queste sette vanno a soddisfare questi bisogni primari, tanto che poi l’adepto finisce per vedere più gli aspetti positivi rispetto a quelli negativi della situazione, arrivando a non riconoscerli affatto”.

Tuttavia la stessa parola “setta” fa paura a molte persone.

“Il termine, giornalistico, cerca di spiegare l’esistenza di un gruppo di dinamiche relazionali in cui ci si distacca dal mondo e si segue un leader. Queste dinamiche settarie che agiscono in questo modo sono proprie di qualunque contesto tossico, anche un contesto di coppia o famigliare. Dobbiamo smetterla di pensare alle sette come a un contesto di uomini incappucciati che fanno dei riti orgiastici o satanici: nulla di più lontano da questo. Le dinamiche relazionali di questo tipo si nascondono un po’ dappertutto, laddove ci sono disparità di potere e un rapporto di tipo tossico tra le persone che ne fanno parte”.

Nel suo libro parla delle manipolazioni. Esistono o sono esistite manipolazioni che non avevano una veste pseudo-spirituale?

“Certo. Nella manipolazione ciò che conta è avere un’ideologia radicale che può essere di varia natura e porta l’individuo a staccarsi dal mondo, e un’induzione alla radicalizzazione al leader carismatico”.

“Ha ucciso prima i bambini”: l’orrore filo-stalinista nel Tempio del Popolo

Uno degli ultimi capitoli del libro si intitola “La geopolitica del fenomeno settario”. Vuole parlarcene?

“Noi, come associazione Cesap, facciamo parte di una federazione europea di studiosi del settarismo e abbiamo una visione più ampia rispetto a quello che succede nelle istituzioni europee. La geopolitica è qui intesa sia nel modo in cui si muovono gli organismi settari a livello europeo, sia come le istituzioni in generale fanno fronte a questo movimento”.

Nello specifico?

“In Europa, alcuni Stati come la Francia hanno adottato misure efficaci come una legge contro la persuasione indebita e anche un osservatorio ministeriale chiamato Midiludes, in cui avviene un’attenta analisi del fenomeno settario in Francia, di come si evolve e in quali contesti si diffonde. Per esempio in Francia il contesto più diffuso è quello della salute, infatti si parla di ciarlatani della salute”.

E in Italia?

“L'Italia, contrariamente alle indicazioni del Consiglio d’Europa, non ha ancora attuato delle politiche preventive o uno studio attento del fenomeno. Siamo in una situazione di limbo in cui l’attività prevalente è effettuata dalle associazioni del territorio per informare e soccorrere le famiglie e le vittime, oltre che sensibilizzare con pubblicazioni ed eventi pubblici”.

I Gesuiti.

La storia dei Gesuiti: 250 anni fa la soppressione della Compagnia del Gesù. Vari ambienti cattolici si resero poi conto che la soppressione dei gesuiti era stato un errore e si adoperarono per il ripristino della Compagnia di Gesù che, come detto, avvenne con Pio VII nel 1814, tornando i gesuiti i più fedeli sostenitori del papato. Gianni Marocco su Barbadillo.it il  14 Aprile 2023

Non proprio un anniversario da ricordare in pompa magna, soprattutto per i gesuiti e per Papa Francesco, primo pontefice gesuita, ma tant’è… Ricordiamolo, essendo una data comunque assai importante. Naturalmente, i gesuiti preferiscono rammentare i 200 anni dalla seconda “rifondazione”, come han fatto nel 2014. Infatti, il 7 agosto del 1814 Papa Pio VII Chiaramonti, alla caduta di Napoleone, dopo aver celebrato la messa nella chiesa del Gesù, il principale tempio dei gesuiti a Roma, sull’altare di sant’Ignazio di Loyola loro fondatore, con la bolla Sollicitudo omnium ecclesiarum (La preoccupazione per tutte le Chiese) decretava la restaurazione universale della Compagnia di Gesù. Un altro Papa, Clemente XIV, quarant’anni prima, nel 1773, l’aveva soppressa, dietro pressione, ritengono alcuni storici, dei giansenisti e degli illuministi. In realtà era lo Stato moderno – in qualche modo consacrato a Westfalia nel 1648 – a non sopportare più le pretese dell’ ‘ultramontanesimo’, che sosteneva la superiorità dei papi sui Sovrani e sui Concili, anche in questioni temporali, simboleggiato dai gesuiti e dal loro potere politico, culturale ed economico. Clemente XIV, Giovanni Vincenzo Ganganelli (Santarcangelo di Romagna, 1705 – Roma, 1774), papa dal 28 maggio 1769 alla morte, apparteneva all’Ordine dei Frati Minori Conventuali. Era un francescano, assieme ai domenicani l’ordine che forse più si era scontrato con la Compagnia di Gesù. Fu anche l’ultimo pontefice francescano.

Dopo aver resistito per quattro anni alle presioni delle monarchie borboniche, perso anche l’appoggio dell’Austria di Maria Teresa, il 21 luglio 1773 il pontefice emise la bolla Dominus ac Redemptor (Signore e Redentore) disponendo lo scioglimento della Compagnia. La soppressione fu celebrata dalle classi dominanti, che paradossalmente erano quasi sempre state educate proprio nei collegi gesuitici, come un’affermazione della ragione e del riformismo. In realtà fu una vittoria dell’assolutismo sul papato, oltre che dei settori ‘rigoristi’ della Chiesa, avversari del ‘lassismo’ gesuitico in campo etico, del cattolicesimo popolare e devozionistico propagandato, col corredo di una liturgia eminentemente ‘consolatoria’. Alla Papa Francesco, per intenderci, storicizzando, alla sua Teología del Pueblo, sbocciata in Argentina negli anni ’70, differente dalla Teología de la Liberación rifiutando la centralità della lotta di classe mutuata dal marxismo. In qualche modo ancor meno credibile, in quanto, come tutti i populismi pauperistici, finisce con amare e voler conservare ciò che dovrebbe, invece, contribuire a cambiare radicalmente! ‘Il pastore deve avere lo stesso odore delle pecore’ è, infatti, il discutibile messaggio ripetuto da Bergoglio. Un sovrano assoluto nelle faccende temporali e spirituali, condizione ch’egli non intende certo limitare, che parla molto di ‘sinodi’ e ‘sinodismo’, quali organismi più aperti, ma essenzialmente consultivi, riservandosi ogni decisione. Un po’ come i Consigli della Corona nell’Ancien Régime. 

Íñigo López de Loyola, nacque nella casa-torre di Loyola, nella provincia basca di Guipúzcoa, il 23 ottobre 1491. Era il minore della famiglia di tredici figli di Beltrán Yáñez de Oñaz y Loyola e Marina Sáenz de Licona y Balda. Nobile, figlio e fratello di uomini d’armi, Iñigo, rimasto orfano dei genitori, nel 1506 venne mandato alla corte del ministro delle finanze del re Fernando il Cattolico, Giovanni Velázquez de Cuéllar, per ricevere un’educazione cavalleresca e religiosa. Aveva ventisei anni quando, abbandonata la famiglia Velazquez, caduta in disgrazia, Íñigo raggiunse il palazzo di Antonio Manrique de Lara, viceré di Navarra, a Pamplona, per rimanere per tre anni come cavaliere armato al suo servizio. Alla partenza (1516) del giovanissimo re Carlo I per la Germania e la corona imperiale (poi Carlo V), si diffusero moti di ribellione per le città ispaniche. Antonio Manrique, fedele al re, fu uno dei condottieri che diedero battaglia ai rivoltosi a fianco dei propri figli e dello stesso Íñigo, che partecipò e vinse l’assedio alla città ribelle di Najera. Don Manrique incaricò il fedele Íñigo della missione speciale di pacificare la provincia di Guipúzcoa: compito che egli assolse nel migliore dei modi. Un incarico più arduo lo attendeva: la fortezza di Pamplona era in pericolo e presto sarebbe crollata. Non solo i nemici di don Manrique minacciavano la cittadina, ma lo stesso re francese Francesco I, il quale, approfittando della situazione, aveva progettato un attacco contro la Navarra. La fortezza era priva di forze militari perché il duca se n’era privato per soccorrere il suo sovrano. Enrico d’Albret, pretendente al trono di Navarra, appoggiato da Francesco I, piombava sulla fortezza con ben dodicimila fanti, ottocento lancieri e ventinove pezzi di artiglieria. A Pamplona non era rimasto che un migliaio di soldati. Nel 1521 la città cadde in mano al nemico, mentre Íñigo e i suoi rimasero a difendere l’ultimo baluardo della città, rifiutando le condizioni poste per la resa. Il giorno dopo, messa in campo l’artiglieria, durante il bombardamento una palla colpì la sua gamba destra, fratturandola in più parti. Dopo quindici giorni di degenza a Pamplona, Íñigo venne trasportato in barella alla casa paterna. Dopo dolorosissime operazioni, stoicamente sopportate, egli poté ristabilirsi, pur rimanendo claudicante per il resto della vita. Nei giorni in cui fu costretto all’immobilità lesse la Vita Christi, del certosino Landolfo di Sassonia, ed il Flos sanctorum, le celebri vite dei santi redatte dal domenicano Jacopo da Varazze. 

Intanto divampava per l’Europa la Riforma protestante, dal 1517, allorchè Martin Lutero, monaco agostiniano, affisse le sue famose 95 tesi alla porta del duomo di Wittemberg, in Sassonia. Rapidamente il movimento iniziato in Germania si diversificò. Apparvero altri riformatori, tra i quali Ulrico Zwingli e Giovanni Calvino. In Inghilterra re Enrico VIII separò la Chiesa locale da Roma, dando vita alla Chiesa Anglicana. La Francia fu allora teatro di una sanguinosa e lunga guerra tra protestanti ugonotti e cattolici. La Chiesa di Roma, scossa ma sorretta dalle Monarchie di Spagna, Portogallo, Austria, intraprese anch’essa una serie di azioni, poi conosciute come Controriforma, che confluirono successivamente nelle decisioni del Concilio di Trento (1545-1563). Che avrebbe dovuto mettere fine alla frattura tra Cattolici e Protestanti, ma che si risolse in una serie di rigide affermazioni (il ‘Credo’) con cui si sconfessarono le teorie dei riformatori. Gli effetti della Riforma furono dirompenti in tutti gli aspetti della vita europea, determinando la rottura dell’unità del corpus cristiano. 

Íñigo cominciò così il suo processo di conversione dove trasferì l’intento, ormai deluso, di un’ambiziosa carriera militare all’impegno religioso. Cominciò a dedicarsi alla preghiera, alla lettura di testi sacri, alla meditazione, scrivendo appunti che avrebbero poi dato vita ai suoi famosi Esercizi spirituali. Sognava di partire pellegrino per Gerusalemme. Si recò, intanto, pellegrino al santuario di Montserrat dove, durante una ‘veglia militare’ dedicata alla Madonna, come un antico cavaliere appese la sua vestitura militare davanti a un’immagine della Vergine; da lì, nel marzo 1522, entrò nel monastero di Manresa, in Catalogna, ove assunse il nuovo nome di Ignazio. Nel 1523 egli raggiunse Venezia e si imbarcò per Gerusalemme, dove visitò i Luoghi Santi. Dovette però abbandonare il progetto di stabilirsi in Palestina per il divieto di soggiorno impostogli dai frati francescani della Custodia di Terra Santa. Tornato in Spagna, e desiderando abbracciare il sacerdozio, Ignazio riprese gli studi a Barcellona, poi ad Alcalá dove, per il suo misticismo, fu sospettato di essere un alumbrado (mistici che predicavano l’abbandono alla ispirazione divina, la libera interpretazione delle Scritture, contro i dogmi, l’autorità della Chiesa e della gerarchia e, quindi, considerati eretici) e tenuto in carcere dall’Inquisizione per quarantadue giorni. Egli si trasferì a Salamanca, poi a Parigi, dove frequentò l’Università per approfondire le sue conoscenze teologiche. In quel periodo progettò di fondare un nuovo Ordine religioso che «non si dedicasse, come gli altri alla preghiera e alla santificazione dei suoi componenti ma, libero da ogni impaccio di regole claustrali, esercitasse praticamente il cristianesimo, servendo ai grandi scopi della Chiesa» (cfr. Antonio Desideri, Storia e storiografia, II, G. D’Anna, Messina-Firenze, 1977).

Nel 1534 Ignazio ed altri sei studenti si legarono reciprocamente con un voto di povertà,

castità, obbedienza e fondando un Ordine chiamato, con un termine d’origine castrense, la Compagnia di Gesù: per eseguire lavoro missionario o andare incondizionatamente in qualsiasi luogo il Papa avesse ordinato loro. Compare un quarto voto che si aggiunge ai soliti tre monacali: quello della assoluta obbedienza al papa, che richiama il valore militare della disciplina. Nel 1537 Ignazio ed i suoi seguaci si recarono in Italia per ottenere l’approvazione papale per il loro ordine. Paolo III Farnese li lodò e consentì loro di ricevere l’ordinazione sacerdotale.

Il Papato era allora debole: nel 1527 aveva dovuto sopportare l’umiliazione del ‘Sacco di Roma’, ordinato dall’imperatore cattolico Carlo V. Una congregazione di cardinali si dimostrò favorevole al progetto di Ignazio ed il Pontefice confermò l’ordine con la bolla Regimini militantis ecclesiae (Al governo della Chiesa militante) nel 1540. L’ultima e definitiva approvazione della Compagnia di Gesù fu decisa nel 1550 con la bolla Exposcit debitum (Il dovere richiede) di Giulio III Ciocchi del Monte. Ignazio, eletto primo Preposito Generale, inviò i suoi compagni come missionari in giro per il mondo per creare scuole, istituti, collegi, seminari, penetrando ed evangelizzando attraverso la predica, la confessione, l’istruzione in tutti gli strati sociali, non classista, privilegiando, ovviamente, l’aristocrazia dominante. Sovente i sovrani ebbero per padri spirituali e confessori i gesuiti, che ebbero modo d’ influire sulle condotte politiche dei governi e di pagare altresì il prezzo di governi inetti e sovrani impopolari, spesso considerati loro creature.

Nel 1548 vennero stampati per la prima volta gli Esercizi spirituali, per i quali, tuttavia, Ignazio venne condotto davanti al tribunale dell’Inquisizione, per poi essere rilasciato. Lo stesso anno egli fondò a Messina il primo Collegio, prototipo di tutti gli altri collegi che la Compagnia fonderà con successo nel mondo facendo dell’insegnamento la marca distintiva dell’Ordine. Ignazio scrisse poi le Costituzioni, adottate nel 1554, che creavano un’organizzazione monocratica e disponevano un’abnegazione ed un’obbedienza docile, assoluta al romano Pontefice ed ai superiori. Celebre la consegna perinde ac cadaver (lasciati guidare come un cadavere). Il fondatore della Compagnia morì il 31 luglio 1556, all’età di 65 anni. Venne sepolto nella chiesa di Santa Maria della Strada a Roma e canonizzato nel 1622. Nelle Costituzioni Ignazio elaborò la Radio atque institutio studiorum Societatis Iesu (piano di studi), che rimarrà invariata fino al 1832. Nel testo sono esposti i principi fondamentali dell’organizzazione delle scuole, delle classi, dei contenuti, della didattica: dalle secondarie all’ Università.

I gesuiti, pur emettendo i voti di povertà, castità, obbedienza, e pur vivendo in comunità sotto la direzione di un superiore, non erano dei monaci: non avendo il “coro” (l’obbligo di recitare in comune l’ufficio divino), non vivendo in monasteri (come i benedettini), né in conventi (come i domenicani ed i francescani), ma in “case”. Essi nacquero come un gruppo di preti, per svolgere un ministero sacerdotale: predicare la Parola di Dio, insegnare, confessare, visitare ammalati e carcerati. Limitata agli uomini, come gli eserciti, al contrario di altri Ordini.

Il binomio scuola-missione, attuato anche nel Centro-Europa lacerato dalla riforma protestante e poi dalle guerre di religione, contribuì assai affinché il cattolicesimo non fosse spazzato via. Fu così che la Polonia rimase cattolica, praticamente ‘riconquistata’ dal Nunzio Apostolico Antonio Possevino, gesuita. Grazie (o per colpa, dipende dai punti di vista) all’azione dei gesuiti, più che di altri Ordini, la controriforma (o riforma cattolica, secondo Paolo Prodi), la difesa del Cattolicesimo romano, ebbero altresì un carattere piuttosto italiano, affrancando la Chiesa stessa dal soffocante abbraccio della Spagna e degli Asburgo. I gesuiti diedero un apporto determinante, incontestabile alla controriforma, ai suoi aspetti positivi, almeno visti dalla Santa Sede. Tramite il loro zelo essi diverranno, in pratica, i custodi della dottrina, suscitando approvazioni, gelosie (nel clero secolare, soprattutto) ed opposizioni. Organizzata in modo efficiente, militare, con ‘professi’ (padri) e ‘coadiutori’ (fratelli), utilizzando al meglio le risorse umane, la Compagnia di Gesù crebbe rapidamente, appoggiata dai governi, che in essa scorsero una difesa. In pochi decenni i gesuiti erano oltre diecimila, configurando una realtà complessa. C’è, peraltro, una costante nella bimillenaria storia della Chiesa ed è l’apparizione di grandi Ordini in epoche diverse, dai Benedettini ai Domenicani, dal Francescani ai Gesuiti, dai Salesiani all’Opus Dei, con le loro specificità poste al servizio della Chiesa stessa.

(La bibliografia sull’argomento è vastissima. In varie lingue). 

La ‘Controversia dei riti cinesi’ fu un duro banco di prova per la Compagnia e durò per circa un secolo e mezzo. Una celebre diatriba teologica sorta sotto il pontificato di papa Gregorio XV Ludovisi agli inizi del Seicento. Contemporanea alla ‘Questione dei riti malabarici’, che interessò l’India, sorse in occasione dei viaggi che gruppi di missionari occidentali compirono in Estremo oriente con l’obiettivo di evangelizzare quei popoli. Fu il Visitatore gesuita padre Alessandro Valignano (Chieti, 1539 – Macao, 1606) inviato in Estremo Oriente nel 1573, a teorizzare il modello di inculturazione per raggiungere lo scopo, il primo ad adottarlo nelle Indie e Giappone ed a diffonderlo tra i missionari in Asia col suo “Manuale per i missionari del Giappone”. Il problema di fondo era la difficoltà ad adattare i princìpi cristiani alla civiltà delle diverse nazioni. La questione scoppiò con grande evidenza anche fuori dalla Compagnia, quando arrivarono in Cina i primi missionari domenicani e francescani nel 1630. Nel corso del tempo si erano venuti a creare due modi diversi di agire tra i missionari, dettati da due modelità diverse di intendere il rapporto tra la religione cristiana cattolica e la cultura locale.

Da una parte c’era chi, come i missionari gesuiti, intendeva conciliare le due culture, permettendo ai neo-convertiti di continuare ad esercitare il culto dei morti secondo le modalità tipiche della religione e cultura cinese, in quanto considerati delle pratiche civili per nulla in contrasto con la dottrina cattolica, ed assistere ai riti stagionali in onore del Cielo, che erano integrati nel sistema confuciano. Dall’altra c’era chi, come i missionari francescani e domenicani, intendeva, al contrario, vietare ai cinesi convertiti queste pratiche, considerate espressione di un’altra religiosità, diversa e preesistente, e quindi in contrasto con il culto del Dio dei cristiani. La posizione dei gesuiti era dettata non solo dall’idea che i missionari dovessero mantenere un atteggiamento tollerante e moderato nei confronti di culture plurimillenarie, per favorire la diffusione del cristianesimo nell’area, ma anche dalla convinzione che la proibizione di queste pratiche potesse compromettere l’adesione di nobili e letterati cinesi allo stesso. La posizione di francescani e domenicani, invece, si basava sulla convinzione che il cristianesimo andasse definito coerentemente in Cina, così come in Europa, e che i cinesi che sceglievano di convertirsi dovessero abbandonare gli antichi riti, considerati espressione di una religiosità alternativa a quella cristiana. La ‘Questione dei riti cinesi’ proseguì ancora per diversi anni fino a che venne posta la parola fine nel 1742 con la bolla Ex quo singulari di papa Benedetto XIV Lambertini, con la quale si bandivano definitivamente tali riti, si obbligavano i missionari ad un giuramento di fedeltà, si proibiva ogni ulteriore discussione sull’argomento. Nel 1935 Propaganda Fide riaprì la questione e chiese ai Vicari Apostolici in Cina di fornire informazioni sull’identità di quei Riti. I Vicari ottennero dal governo fantoccio del Manchukuo e poi dal Governo cinese, la “garanzia” dell’essenza “civile” dei riti controversi. Sulla base di tale garanzia venne emanata nel dicembre 1939 un’ Istruzione di Propaganda Fide, approvata da Papa Pio XII Pacelli, che autorizzava i cattolici cinesi a partecipare a quei riti ed aboliva il giuramento per i missionari, rimasto in vigore dal 1742. Era, in qualche modo, apprestato il terreno alla geopolitica vaticana d’oggi, in verità già iniziata da Giovanni Paolo II con l’Esortazione Apostolica Ecclesia in Asia del 1997. Papa Bergoglio vuole andare ad Oriente, in Cina soprattutto, ‘ricucire’ con Pechino, conscio che in Occidente il cristianesimo si stia inesorabilmente esaurendo; predicando una religione ‘abramitica’ che serva da minimo comun denominatore valido, teoricamente, per tutte le nazioni del mondo, senza sottilizzare troppo su democrazia e diritti individuali, che vengono dopo non ben precisati ‘diritti fondamentali dell’uomo’. Ritrovare, in sostanza, una ‘purezza evangelica’ scevra dall’ancoraggio col mondo classico, con l’eredità greco-romana. Per salvare il salvabile.

Perciò, il Documento “Sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”, sottoscritto da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, il 4 febbraio 2019, ad Abu Dhabi. Il Documento sancisce che le tre religioni monoteiste, pur mantenendo il loro credo religioso e la propria identità, possono coesistere su un unico spazio, ossia su un unico territorio, facendo del dialogo il fulcro della loro coesistenza pacifica. La Casa della Famiglia Abramitica è stata inaugurata ad Abu Dhabi a febbraio 2023. Essa racchiude, in un unico sito, una Moschea, una Chiesa ed una Sinagoga, edificate per vivere accanto. Molte sottolineature, da parte di Papa Bergoglio, il più interessato a cercare partner forti nel dialogo interreligioso (come lo sono, pur in modo assai differente, islam ed ebraismo), sulla coesistenza, il confronto pacifico, la condivisione dei beni spirituali e la possibilità di promuovere attraverso le buone relazioni, tra persone di fedi diverse, una società più umana e fraterna.

Più agevole, data la differente situazione culturale locale, fu l’azione intrapresa durante il generalato di Claudio Acquaviva d’Aragona (1581-1615) di Atri, Abruzzo, che constituì l’inizio della organizzazione sudamericana della Compagnia di Gesù. Alla ridistribuzione territoriale delle Province dell’Ordine seguì un forte impulso all’attività missionaria e si definì uno schema decisionario che lasciava una grande autonomia ai gesuiti negli affari locali. Detta prassi s’inseriva nel quadro di una cultura devozionale che cercava il consenso indigeno esibendo i simboli paradigmatici della spiritualità ignaziana ed elementi delle tradizioni locali, insieme nei riti. Nelle tre decadi del generalato di Claudio Acquaviva, l’Ordine acquisì un posto preponderante, talora esclusivo, nella organizzazione della società coloniale e delle politiche indigene.

Il film drammatico britannico Mission (The Mission), del 1986, diretto da Roland Joffé, scritto da Robert Bolt, cast con Robert De Niro, Jeremy Irons, Ray McAnally, Aidan Quinn, Cherie Lunghi e Liam Neeson – con lo sfondo spettacolare delle Cataratas de Iguazú – coronato da grande successo, rivelò al gran pubblico l’esistenza delle Riduzioni gesuitiche del Paraguay.

Nel 1606 Filippo III di Spagna ordinò al governatore di Río de la Plata, Fernando Árias de Saavedra, di non sottomettere gli indigeni con la forza delle armi, ma attraverso la catechesi svolta dai gesuiti. Così nel 1607 nacque la Provincia del Paraguay, il cui territorio comprendeva l’attuale Paraguay, la parte orientale della Bolivia, il nord-est argentino, l’Uruguay, il sud-ovest del Brasile, allora governato dagli spagnoli. Invitati dal vescovo di Tucumán, i missionari si trasferirono all’interno del continente ed assieme ad altri religiosi fondarono nel 1609 un collegio ad Asunción. Le Riduzioni gesuitiche erano piccoli nuclei urbani, secondo le strutture delle missioni della Compagnia di Gesù, frutto di una strategia missionaria consistente nella realizzazione di centri per l’evangelizzazione delle popolazioni indigene. Esse mantenevano i nomi dei centri o villaggi indigeni organizzati ed amministrati dai gesuiti nel Nuovo Mondo. Il fine che si prefiggevano era di civilizzare ed evangelizzare; era anche prevista la fondazione di collegi e conventi. E persino di opere di difesa contro i cacciatori di schiavi, i paulisti bandeirantes. Lo scopo precipuo delle Missioni fu quello di creare una società con i benefici e le caratteristiche della cosiddetta società cristiana europea, però priva dei suoi vizi ed aspetti negativi. In effetti, quell’esperienza viene inclusa tra le utopie: un alto grado di sviluppo tecnico insegnato da efficienti ed abili padri. Si scrisse poi dell’ ‘utopia infranta delle Riduzioni’. Riduzioni, sintesi e simbolo del tentativo di risolvere il massimo problema che ancor si dibatte: come creare rapporti di fraternità ed evangelizzare i popoli primitivi arretrati, aiutandoli ad evolversi verso il mondo moderno – ma non delegando quasi nessun potere – salvando la loro lingua e cultura (tradizione, usi). I gesuiti insegnavano, ordinavano, punivano, con moderazione, come con bambini docili e in fondo buoni.

La fine delle Riduzioni fu determinata non tanto dalle dicerie sui gesuiti (le immense ricchezze), ma dalla rivalità tra spagnoli e portoghesi. Infatti, nel 1750, la lite tra Spagna e Portogallo sui limiti del loro territorio fu risolta dal Trattato di Madrid: i territori ad est del fiume Uruguay (le sette Reducciones del Paraguay), passavano al dominio portoghese in cambio della Colonia del Sacramento (Uruguay) e delle Filippine. Fu allora che gli indigeni furono costretti ad abbandonare le Missioni. Tuttavia né i religiosi né i guaraní accettarono passivamente il trattato. I gesuiti offrirono al re di Spagna tributi e ricchezze per cercare di mantenere intatta quella colonizzazione basata su valori religiosi e culturali. Con il Portogallo non fu possibile nessun accordo per i rapporti deteriorati tra la Compagnia ed il Regno guidato dal marchese di Pombal. Ma fu la fine. Cruenta. Con la soppressione della Compagnia di Gesù, gli indigeni (ai quali i padri avevano confezionato una lingua scritta comune alle varie tribù, il guaraní, oggi parlata da milioni di persone e seconda lingua ufficiale del Paraguay) rapidamente si dispersero, la foresta inghiotti chiese, case, opifici. Senza una guida, l’innovazione portata non ebbe alcuna continuità.

Come si giunse alla soppressione del 1773? Le cause sono molte ed ardue da sintetizzare. Dalla metà del XVIII secolo la Compagnia aveva accresciuto potere e reputazione in Europa, compiendo operazioni politiche e soprattutto economiche su vasta scala. I gesuiti erano giudicati dai loro oppositori troppo influenti nelle varie Corti e con forti interessi ‘ultramontani’. Molti monarchi europei progressivamente si preoccuparono per le interferenze politiche e per il condizionamento economico che i gesuiti mostravano. Un’espulsione dell’Ordine dai loro domini avrebbe acquietato gli animi, lusingato gli intellettuali, restituito agli Stati le ricchezze accumulate dalla Compagnia. All’interno del mondo cattolico nel ‘600 acquisì poi autorevolezza la corrente giansenista (da Giansenio, vescovo di Ypres in Belgio), che proponeva una riforma della Chiesa in senso rigorista, elitario e vedeva nei gesuiti i fautori di un cattolicesimo facile, devozionistico, lassista nella morale. Avanzava intanto l’illuminismo, con la sua visione razionalistica, con la sua ostilità al papato e con la volontà di riforma della società, nell’intento di conferire più poteri allo Stato, attribuendogli controlli anche sulla vita della Chiesa (nomina vescovi ecc.). Una Chiesa, Gallicana in Francia, prima del ‘Giuseppinismo’ di Vienna. Giansenisti ed illuministi si trovarono di fatto alleati nel considerare la Compagnia il principale ostacolo alle riforme, alla ‘Pubblica Felicità’. Sebbene i regnanti fossero in generale favorevoli ai gesuiti (molti dei quali erano influenti confessori), i loro ministri erano spesso imbevuti di idee delle lumières, anticattoliche.

Le loro pressioni sul Papa, occasionate anche da alcuni particolari eventi, attentato contro il re Giuseppe II del Portogallo, scandali finanziari ecc., furono tali che alla fine, sia pure a malincuore, Clemente XIV promulgò il decreto di soppressione. I gesuiti furono espulsi, nell’ordine, da: Portogallo e colonie (1759); Francia (1764); Spagna e colonie, Napoli e Sicilia, Parma e Piacenza, Malta (1767); Monarchia asburgica (1782). Fu il risultato di una serie di mosse politiche più che di una controversia teologica. Ogni comparazione con i Templari di Jacques de Molay, distrutti e spogliati di ogni bene da Filippo IV di Francia (1312), appare tuttavia azzardata.

Per un’ironia della sorte, la zarina delle Russie, Caterina, che era ortodossa e quindi non si

sentiva legata ai decreti papali, continuò a mantenere i gesuiti che stavano nei suoi domini, anche se di fatto si trattava di terre polacche, allora sotto sovranità zarista. In tutto il resto dell’Europa, nelle Americhe e nelle Indie, 22 mila gesuiti furono dispersi, talora anche brutalmente, le loro 900 scuole e le quasi 2000 tra case e chiese incamerate dagli Stati. Il loro generale, Lorenzo Ricci, fu imprigionato a Castel Sant’Angelo, in una detenzione molto dura, senza possibilità di scrivere, di avere contatti, senza riscaldamento e con scarso cibo. Vi morì dopo due anni. Molti gesuiti spagnoli e portoghesi furono caricati su navi e buttati sulle coste dello Stato Pontificio. Alcuni ne morirono, altri entrarono a far parte del clero diocesano, non pochi rimasero allo sbando.

Vari ambienti cattolici si resero poi conto che la soppressione dei gesuiti era stato un errore e si adoperarono per il ripristino della Compagnia di Gesù che, come detto, avvenne con Pio VII nel 1814, tornando i gesuiti i più fedeli sostenitori del papato. Già considerati i custodi della conservazione e dell’Ancien régime, dopo il 1814 i gesuiti lo diventeranno della Restaurazione, del legittimismo di Metternich, trionfante al Congresso di Vienna del 1815, del rinnovato binomio trono e altare. Meno ricchi, riemergeranno autorevoli ed influenti, pur avendo perso il collegamento generazionale. Si adatteranno ai tempi nuovi, non recupereranno per intero l’antico potere. Ammaestrati dagli errori del passato, i gesuiti si mantennero alquanto nell’ombra, fuori dall’agone politico, focalizzandosi sulle attività tipiche: l’insegnamento, gli esercizi spirituali, le missioni popolari, facendo leva sulla devozione al Sacro Cuore di Gesù, sul culto mariano e su quello eucaristico. In teologia essi rimasero sul terreno ben solido della tradizione tomista, rifiutando il modernismo e le sue derive. Pio IX Mastai Ferretti (un lungo pontificato di 32 anni) temeva i pericoli insiti nella “modernità” e nel Sillabo (1864) ne condannò le deviazioni. I gesuiti furono allora dalla sua parte, consigliandogli l’adozione del discutibile dogma sull’Infallibilità Pontificia, per giunta: il papa, cioè, non può sbagliare quando decide ex cathedra (Concilio 1869).

Nel 1962 la Compagnia di Gesù contava nel mondo circa 36 mila membri (nel 2022 saranno 14 mila, ed in calo); era di gran lunga il più grande Ordine religioso quando iniziò il Concilio Vaticano II (1962-65), che rappresentò una svolta netta nella storia della Chiesa. Il periodo post-conciliare è arduo da decifrare serenamente, non solo per ciò che è successo nella Compagnia, ma in tutta la Chiesa. Per i gesuiti fu un periodo entusiasmante e rovinoso nello stesso tempo. Nel 1965 fu eletto come superiore generale il basco Pedro Arrupe. Sotto il suo governo la Compagnia cercò di attuare le direttive del Vaticano II, interpretate in linea con l’orientamento generale del momento, caratterizzato da una accentuata aspirazione al cambiamento. Venne poi il ’68, con la sua carica di antiautoritarismo e secolarizzazione, che lasciò un marcato strascico sui gesuiti, su quelli, specialmente, più inseriti nel campo intellettuale e sociale. Tale “rinnovamento”, sul quale non mancavano molte perplessità anche all’interno dell’Ordine, avrebbe dovuto essere confermato da una nuova Congregazione Generale, convocata dal ‘papa nero’ Arrupe nel 1974. Durante il suo svolgimento sorsero forti dissapori con Paolo VI Montini, che pur aveva fatto vari danni alla Chiesa con le sue ambiguità progressiste, sottilineando fino alla noia l’ ‘opzione preferenziale per i poveri’ della leonina Rerum Novarum, la Populorum Progressio del 1967 ecc.

Nel 1978 divenne Papa Giovanni Paolo II Wojtyła, che pure manifestò diffidenza verso Arrupe. Il quale nel 1981 fu colpito da un ictus che lo costrinse alle dimissioni. Secondo la prassi, si sarebbe dovuta riunire una nuova Congregazione, ma il Papa bloccò tutto, nominando un commissario. Il nuovo Pontefice polacco era, infatti, preoccupato e scontento per il ruolo avuto dai gesuiti in America Latina – particolarmente in America Centrale – a partire dal post-concilio. Per i collegamenti, le commistioni non solo intellettuali o apologetiche, ma talora logistiche, di non pochi gesuiti con la Teologia della Liberazione e con la sovversione armata, con la guerriglia sostenuta ed armata dal comunismo castrista per conto del KGB sovietico; con la fede nell’avvento di un Rivoluzione politica e sociale. Che occupava menti ed azioni assai più che pastorali volte alla trascendenza evangelica; con la ‘difesa dei diritti umani’ e l’avvento di una maggiore ‘giustizia

sociale’ per bandiere. Proprio mentre in Europa il socialismo reale marx-leninista era in agonia. Un fallimento che in realtà durava dal 1917, dapprima solo in Russia, e nonostante la WWII.

In El Salvador, insanguinato da una cruenta guerra civile, che durerà fino 1992, il nuovo,

vigoroso Pontefice, venuto da un Paese sottomesso alla dittatura comunista, assisterà, alquanto indispettito ed impotente, al sostegno dei chierici progressisti, specialmente gesuiti spagnoli, alle sinistre sovversive, al Frente Farabundo Martí. Ne farà le spese, tra gli altri, l’arcivescovo della capitale, Oscar Arnulfo Romero, non gesuita, referente dei Teologi della Liberazione, forse marxista nell’intimo, certamente strumentalizzato dalla lotta armata, da vivo e da morto. Solito nelle sue infervorate omelie a denunciare le violazioni dei diritti umani, la solidarietà verso le vittime della violenza, affermando nel 1977, che: «La misión de la Iglesia es identificarse con los pobres, así la Iglesia encuentra su salvación». Assassinato nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza di San Salvador il 24 marzo 1980 da membri della Guardia Nacional. Papa Bergoglio ne decreterà la sollecita beatificazione e canonizzazione, nel 2015 e 2018, in un evidente tentativo di captatio benevolentiae delle sinistre latinoamericane, spesso al governo dei loro Paesi, ancorché di solito demagogiche, poco efficienti, pasticcione, corrotte. Per non pochi osservatori monsignor Romero fu certamente un martire: non della fede, bensì della politica.

Papa Bergoglio, ‘francescano onorario’, si compiace di ogni consenso, si sforza di risultare popolare e simpatico, magari stipando la sua esuberante silhouette in una Fiat 500, concionando a favore di migranti, sfruttati, malati e diseredati vari, di ecologia, mettendo becco su tutto, incurante di gaffes, a partire da teologia e politica italiana, avversando duramente i ‘tradizionalisti’ amanti del detestato latino, ancor presenti nella Chiesa, o glissando sulle teorie di genere e LGBT; poco curandosi, sembra, che chi lo applaude non varchi mai la soglia di una chiesa… Che cosa avrebbe pensato l’austero Ignazio da Loyola di quel suo primo confratello diventato Papa?

Gianni Marocco su Barbadillo.it

Lo scioglimento dei gesuiti è una ferita che dura da 250 anni. GIOVANNI MARIA VIAN, storico, su Il Domani il 15 luglio 2023

Il 21 luglio 1773, papa Clemente XIV firmò il documento Dominus ac redemptor che decretava lo scioglimento dei gesuiti. Una decisione senza precedenti per la Compagnia di Gesù, divenuta un punto di riferimento per la chiesa cattolica in tutto il mondo

La Compagnia di Gesù fu ricostituita nel 1814 e ha vissuto una storia completamente diversa da allora. L’elezione del papa Francesco, un gesuita, ha avuto effetti imprevedibili sul futuro dell'ordine

Ma anche in Bergoglio resta la memoria del trauma della soppressione, che ha segnato uno spartiacque nella storia dell’ordine, contribuendo nello stesso tempo ad alimentare il mito dei gesuiti

GIOVANNI MARIA VIAN, storico. È uno storico, vaticanista e giornalista italiano, direttore emerito dell'Osservatore Romano, che ha guidato dal 2007 al 2018. Ordinario di Filologia patristica all’università di Roma La Sapienza. A lungo redattore e autore dell’Istituto della Enciclopedia Italiana. Tra i suoi libri più recenti: La donazione di Costantino (2004; nuova edizione, 2010); Pablo VI, un cristiano del siglo XX (2020), Andare per la Roma dei papi (2020) e I libri di Dio (2020, tradotto in francese). Duecentocinquanta anni fa, il 21 luglio 1773, papa Clemente XIV firmava il documento Dominus ac redemptor che decretava lo scioglimento dei gesuiti. La decisione, pur preceduta dalle loro espulsioni dai domini portoghesi e spagnoli, era comunque inaudita. Da oltre due secoli, infatti, nonostante difficoltà e contrasti, la Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola era divenuta in tutto il mondo – dai paesi europei, anche protestanti, fino alle missioni nei diversi continenti – la punta di lancia della chiesa cattolica.

Nel lungo testo papale si richiamavano le precedenti soppressioni di ordini religiosi, quindi si passavano in rassegna i rapporti dei gesuiti con la sede romana e i problemi insorti con i sovrani cattolici. Incidenti di tale portata da essere «ormai divenuto impossibile che la Chiesa abbia pace vera e durevole finché quest’Ordine esiste» sottolineava il pontefice. Per questo – affermava Clemente XIV – «estinguiamo e sopprimiamo la più volte citata Società».

Case, scuole, collegi e ogni istituzione dovevano essere chiusi, ogni gerarchia interna all’ordine era annullata e i religiosi venivano sottomessi ai vescovi diocesani. Le conseguenze del provvedimento di papa Ganganelli furono devastanti per l’ordine concepito da sant’Ignazio, che era stato canonizzato già nel 1622. Il «breve» – questo il nome tecnico del documento – legittimò infatti «un’orgia di sistematici saccheggi, condotti con il consenso ufficiale» scrive lo storico gesuita John O’Malley in un profilo breve e intelligente del suo ordine (Gesuiti, Vita e Pensiero).

UNA FERITA PROFONDA

Successe di tutto: opere d’arte confiscate, biblioteche preziose disperse, mentre il generale dei gesuiti, il mite e debole Lorenzo Ricci, fu imprigionato a Castel Sant’Angelo, dove morì due anni dopo. La ferita fu profonda e ha lasciato tracce durature.

Al punto da suscitare una sorprendente uscita di Francesco, l’unico papa gesuita, già tre giorni dopo l’elezione, prendendo spunto dall’inusuale nome che aveva scelto e che – asserì il pontefice – era stato commentato da alcuni cardinali. «Un altro mi ha detto: “No, no, il tuo nome dovrebbe essere Clemente”. “Ma perché?”. “Clemente XV: così ti vendichi di Clemente XIV che ha soppresso la Compagnia di Gesù!”. Sono battute…» concludeva il papa.

Anche in Bergoglio, dunque, resta la memoria del trauma della soppressione, che ha segnato uno spartiacque nella storia dell’ordine, contribuendo nello stesso tempo ad alimentare il mito dei gesuiti, sia in positivo che in negativo. Mito che ha coinvolto l’immagine di Giovanni Vincenzo Ganganelli, il pontefice francescano demonizzato dai sostenitori della Compagnia ed esaltato invece dagli avversari dei gesuiti.

Eletto nel 1769 dopo un conclave lungo tre mesi e nel quale i contrasti sui gesuiti furono centrali, il conventuale romagnolo dovette affrontare subito il problema. Già le prime misure prese nel 1771 dal papa contro la Compagnia provocarono profezie sulla sua morte. Clemente XIV morì nel 1774, un anno dopo la soppressione. Subito si diffusero dicerie opposte: da una parte la leggenda di un avvelenamento del pontefice, escluso da una relazione dei suoi medici; dall’altra quella del rimorso per aver sciolto l’ordine, che avrebbe tormentato l’agonizzante papa Ganganelli. Fino a una terza diceria, secondo la quale il pontefice avrebbe pubblicato un breve di revoca dello scioglimento.

La leggenda del rimorso arriva a Chateaubriand, che la mette in bocca a Pio VII pentito di aver firmato a Fontainebleau il concordato del 1813 con Napoleone, il quale aveva forzato il papa a questa decisione (poi ritrattata). «Morirò pazzo per questo, come Clemente XIV» avrebbe detto il pontefice prigioniero dell’imperatore.

Le immagini contrapposte di Ganganelli – Voltaire aveva contribuito a creare il mito di un papa amico dell’illuminismo – hanno oltrepassato lo scioglimento della Compagnia, durato oltre quarant’anni, e la sua ricostituzione nel 1814. E hanno oscurato la reale figura del papa, secondo Mario Rosa «non priva di un senso istintivo e, tutto sommato, di una percezione duttile del momento storico in cui si trovò a operare»: la grande crisi dell’Ancien Régime.

GIOVANNI MARIA VIAN, storico

La Good News International Church.

(ANSA sabato 15 luglio 2023) - Il numero delle vittime della cosiddetta "setta del digiuno" in Kenya è salito a 391, dopo che durante l'ultima settimana nella foresta di Shakaola, vicino a Malindi, sono stati riesumati altri 53 corpi di seguaci che erano sepolti in una fossa comune. 

Il comandante regionale della polizia, Rhoda Onyancha, ha dichiarato al sito Citizen Digital che la quarta fase del processo di esumazione terminerà domani e si procederà a nuove autopsie. Fino ad ora sono stati raccolti 253 campioni di Dna delle vittime che il predicatore Paul Mackenzie aveva convinto a digiunare "per vedere Gesù in paradiso". Trentasette sono gli arresti effettuati in relazione a quello che viene definito dall'opinione pubblica come "il massacro di Shakaola". Secondo la Croce rossa keniana, sono oltre 600 le persone scomparse che farebbero parte della setta

(ANSA il 20 giugno 2023) - Altre 16 fosse comuni dove si presume siano sepolti seguaci della cosiddetta "setta del digiuno" sono state scoperte nella foresta di Shakahola, in Kenya. Gli investigatori della squadra omicidi keniana, prima di far scavare per riportare alla luce altre vittime, attendono le autopsie su altri 94 dei 336 corpi riesumati nel terreno di proprietà del controverso predicatore Paul Mackenzie, che invitava i suoi adepti ad astenersi da cibo e bevande "per poter incontrare Gesù in paradiso". 

Lo riporta dal quotidiano The Standard. La polizia ha rivelato che i corpi sono stati trovati fino a tre chilometri di distanza dalla casa di Mackenzie. Il Ministro degli Interni keniano, Kithure Kindiki, ha dichiarato che la quarta fase di esumazione inizierà subito dopo i risultati delle autopsie. Kindiki ha comunque assicurato che il governo riesumerà tutti i corpi a Shakahola. 

"Ci sono ancora molte fosse comuni e dobbiamo finire il lavoro. Non importa quante persone abbiamo perso. Forniremo le statistiche complete, non nasconderemo la verità e non lasceremo nessuno morto in quella foresta maledetta", ha detto il ministro.

Erano convinti di poter incontrare Gesù in paradiso. Kenya, setta religiosa del digiuno. Aumenta il bilancio delle vittime | Riesumati 336 corpi morti di fame. Redazione su Il Riformista il 20 Giugno 2023 

Altre 16 fosse comuni dove si presume siano sepolti seguaci della cosiddetta “Setta del digiuno” sono state scoperte nella foresta di Shakahola, in Kenya. Gli investigatori della squadra omicidi keniana, prima di far scavare per riportare alla luce altre vittime, attendono le autopsie su altri 94 dei 336 corpi riesumati nel terreno di proprietà del controverso predicatore Paul Mackenzie, che invitava i suoi adepti ad astenersi da cibo e bevande “per poter incontrare Gesù in paradiso”.

La polizia ha rivelato che i corpi sono stati trovati fino a tre chilometri di distanza dalla casa di Mackenzie. Il Ministro degli Interni keniano, Kithure Kindiki, ha dichiarato che la quarta fase di esumazione inizierà subito dopo i risultati delle autopsie. Kindiki ha comunque assicurato che il governo riesumerà tutti i corpi a Shakahola. “Ci sono ancora molte fosse comuni e dobbiamo finire il lavoro. Non importa quante persone abbiamo perso. Forniremo le statistiche complete, non nasconderemo la verità e non lasceremo nessuno morto in quella foresta maledetta”, ha detto il ministro.

Le altre fasi di riesumazione

Questa sarebbe la terza fase di riesumazione dei cadaveri. Al momento la polizia ha deciso di sospendere  le ricerche dei cadaveri di seguaci della “setta del digiuno” sepolti in fosse comuni. In un comunicato rilasciato ai media nazionali, gli investigatori hanno dichiarato che la terza fase delle riesumazioni degli adepti del culto creato dal controverso predicatore Paul Mackenzie “è stata sospesa per preparare l’esame autoptico sui corpi già riesumati”.

Secondo la Croce Rossa keniana, le persone scomparse collegate alla “Chiesa internazionale della buona novella” di Mackenzie, che invitava i fedeli ad astenersi al cibo “per poter vedere Gesù in paradiso” sarebbero 613. Il predicatore, insieme ad altre 16 persone compresa la moglie, Rhoda Maweu, sono agli arresti a Malindi e devono rispondere, tra l’altro, delle accuse di omicidio e aiuto al suicidio.

Il pastore Paul Mackenzie

Il pastore Makenzie è stato arrestato lo scorso 14 aprile: ordinava ai suoi seguaci di vivere senza cibo né acqua “per salvarsi da un’imminente morte dolorosa nel mondo e da una dannazione apocalittica”. Al pastore è stata concessa una cauzione di 10mila scellini dal giudice Olga Onalo dell’Alta Corte di Malindi, ma la corte deve ancora decidere sul suo caso, poiché il patologo del governo deve ancora analizzare i corpi ritrovati nelle fosse comuni. Dal canto suo Paul Mackenzie Nthenge ha affermato di aver definitivamente chiuso la sua chiesa e di non essere più coinvolto nell’evangelizzazione.

Durante le ricerche dei corpi, nell’entroterra della cittadina turistica di Malindi, sono state salvate 95 persone, alcune delle quali trasportate in ospedale in avanzato stato di deperimento, e la polizia ha effettuato 45 arresti. Il predicatore, in cella a Malindi, ha iniziato uno sciopero della fame dopo le dichiarazioni del ministro degli Interni Kithure Kindiki che ha chiesto per lui la condanna per genocidio.

(ANSA il 4 maggio 2023) - "Strangolava a morte i fedeli particolarmente emaciati, e poi ne celebrava i funerali". Questa una delle inquietanti testimonianze che hanno portato gli investigatori a sospettare che il predicatore keniano Paul Mackenzie Nthenge abbia volontariamente ucciso decine di adepti della sua chiesa, conosciuta come la "setta del digiuno" di Shakaola, dopo averli circuiti.

Le parole di uno dei fedeli 'pentiti' del sedicente pastore agli inquirenti sono state riportate dal sito Citizen Tv, mentre proseguono gli interrogatori di Mackenzie e di un altro predicatore molto popolare in Kenya, Ezekiel Odero, accusato di complicità e collegato anch'egli a morti sospette di suoi fedeli.

Secondo l'emittente keniana, Mackenzie si appropriava dei beni dei seguaci a cui inizialmente vendeva porzioni del suo terreno nel villaggio di Shakaola. Nell'entroterra della cittadina costiera di Malindi continuano le ricerche di almeno altri 360 corpi, a quanto riferito dalla Croce Rossa keniana, che potrebbero essere sepolti in fosse comuni nella foresta, e che si aggiungerebbero ai 110 già riesumati.

L'autopsia su una trentina di vittime ha confermato, nella maggior parte di loro, la morte per deperimento e per alcuni a causa di strangolamento ed asfissia.

Estratto dell’articolo di Antonella Napoli per “la Repubblica” il 25 Aprile 2023

Decine e decine di cadaveri sepolti sotto un velo di terra a pochi chilometri da Malindi, uno dei più conosciuti luoghi di vacanza e di residenza in Kenya per tanti italiani. La scoperta degli investigatori locali è da film dell’orrore: un pastore, Paul Mackenzie Nthenge, ha convinto i suoi fedeli a lasciarsi morire di fame «per incontrare Gesù», come hanno raccontato alla polizia locale i sopravvissuti, tutti kenioti, come i 58 cadaveri rinvenuti fino ad ora.

Le ricerche continuano e il timore è che le vittime siano molte di più. «Ero in un momento difficile della mia vita. È successo tutto molto lentamente, in modo subdolo – ha raccontato M.Y., una giovane donna, alla polizia – all’inizio mi sembrava di aver trovato la luce. Il pastore mi aveva convinta che solo lui vedeva “la vera me”. 

Mi ha fatto sentire Gesù vicino. Ho creduto in lui. Poi quando capisci che la vita ti sta lasciando ti ci aggrappi. Se sei fortunato come me sopravvivi. Molti non c’è l’hanno fatta». Quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sala delle preghiere della Good News International Church hanno trovato una scena raccapricciante: c’erano una trentina di persone emaciate e ridotte a poco più che scheletri, circondate da escrementi. 

All’esterno, in un terreno di proprietà del sacerdote di oltre 300 ettari «sono state scoperte decine di tombe, tutte di adepti», ha dichiarato il capo della polizia della sub-contea di Malindi, John Kemboi. Quattro delle persone trovate ancora in vita durante il blitz, avvenuto venerdì scorso, sono morte poco dopo il ricovero. 

La polizia ha arrestato il predicatore e ha chiesto al tribunale di Malindi di trattenere Mackenzie Nthenge più a lungo possibile, mentre continuano le indagini sui decessi dei suoi seguaci. […] Intanto la polizia sta effettuando ricerche in tutta la foresta di Shakahola, sia per catturare gli adepti complici di Mackenzie Nthenge che per individuare altre sepolture. […]

Da ansa.it il 26 aprile 2023.

Sono saliti a 90 i corpi riesumati degli adepti della "setta dei digiunatori" di Shakaola, in Kenya, creata dal predicatore Paul Mackenzie Nthenge. 

Le ricerche sono state sospese nel pomeriggio dopo il ritrovamento di sette nuove vittime, dissotterrate nella foresta dell'entroterra della città costiera di Malindi, nel terreno di proprietà del sedicente pastore, che aveva convinto i seguaci della sua "Chiesa internazionale della buona novella" ad astenersi da cibo e acqua per poter "vedere Gesù".   La polizia ha dichiarato che le ricerche sono state bloccate perché l'obitorio di Malindi non può ospitare altri corpi, proprio mentre il ministro degli Interni Kithure Kindiki, giunto sul luogo delle terribili scoperte, ha dichiarato ai media che non è dato sapere "quante altre tombe, quanti altri corpi potremmo scoprire". 

Tra le vittime del culto di Nthenge ci sono anche molti bambini. Il presidente della Repubblica William Ruto ha ribadito che per il predicatore potrà essere formulata l'accusa di terrorismo.

Kenya, la setta dei digiuni fa 179 vittime: si lasciano morire di fame per «vedere Gesù». Il Corriere della Sera il 12 maggio 2023.Il predicatore Paul Mackenzie Nthenge è agli arresti nella stazione di polizia di Malindi, accusato di omicidio ed istigazione al suicidio. I morti sono stati trovati in fosse comuni, sepolti nel terreno di proprietà del sedicente pastore 

Il numero delle vittime del «massacro di Shakaola» in Kenya è aumentato di 29 unità in un solo giorno, portando a 179 i corpi dei seguaci della cosiddetta «setta dei digiuni» fondata dal predicatore Paul Mackenzie Nthenge, riesumati dalla squadra omicidi keniana nella foresta del villaggio nell’entroterra della costa keniana.

I morti sono stati trovati in fosse comuni, sepolti nel terreno di proprietà del sedicente pastore, che è agli arresti nella stazione di polizia di Malindi, accusato di omicidio ed istigazione al suicidio, per aver chiesto ai suoi adepti di astenersi al cibo per «poter vedere Gesù». Nel frattempo anche il numero degli scomparsi, come hanno dichiarato gli investigatori al quotidiano Daily Nation, è aumentato: sono ora 609 i fedeli della «Chiesa internazionale della buona novella» di Mackenzie a non aver più dato notizie ai famigliari. «Il numero delle persone tratte in salvo rimane a 72, mentre le persone arrestate sono 65. Circa 93 famiglie hanno fornito campioni di Dna», ha dichiarato il commissario regionale della costa Rhoda Onyancha.

I Satanisti.

Satanismo e crimine: “Non confondete satanismo acido e movimento religioso”. L'ombra del satanismo fa capolino in molti fatti di cronaca. A volte dietro esso c'è un movimento religioso criminale: "Il satanismo acido è contro la religione di massa e i suoi valori". Angela Leucci il 6 Luglio 2023 su Il Giornale.

Che cos’è il satanismo, qual è la sua storia e quali sono le forme, criminali e non criminali, che ha assunto: è questo, in brevissimo, il contenuto dell’ampio e dettagliatissimo volume “Dagli antichi altari al culto di Satana - Analisi storica, simbologica e cronistica degli aspetti legati alla criminologia esoterica” (I Quaderni del Bardo) di Antonia Depalma e Vincenzo de Lisio. I due studiosi ripercorrono storia e simboli del culto di Satana nel mondo, affrontando temi filosofici e citando casi di cronaca passati alla storia.

Il satanismo, nella cronaca, è spesso un’ombra che aleggia sul mistero e sullo strano: talvolta ha realmente a che fare con gravissimi reati - emblematica la vicenda delle Bestie di Satana - altre volte è un “capro espiatorio” come nella vicenda dei West Memphis Three che ha ispirato una storyline di Stranger Things.

Ma quando il movimento religioso diventa un movimento religioso criminale va analizzato in sé per sé. “Si annoverano nella fattispecie quelle che chiameremmo sottoculture violente, che tendono all’adozione di atteggiamenti che hanno a che fare con l’aggressività e che prevedono nel codice d’onore il ricorso alla violenza, talvolta utilizzata anche durante un’iniziazione”, spiega a IlGiornale.it una degli autori, Antonia Depalma.

Depalma, qual è il rapporto tra crimini e satanismo?

“Bisogna partire dal presupposto che non esiste una sola tipologia di satanismo e il culto prescinde dai crimini. Tra le tipologie di satanismo però ve n’è uno definito ‘acido’, che nulla condivide con la mera spiritualità. Il satanismo acido è infatti molto vicino alla sub-cultura delinquenziale: potremmo definirlo come un movimento deviante, al quale vanno ad aderire persone che, opponendosi alla religione di massa e quindi ai correlati valori che ne derivano, pongono in essere dei fatti contrari alle norme imperative e al buon costume”.

Quali sono le forme del satanismo acido?

“Si annoverano nella fattispecie quelle che chiameremmo sottoculture violente, che tengono alla tolleranza e all’adozione di atteggiamenti che hanno a che fare con l’aggressività e che prevedono nel codice d’onore il ricorso alla violenza, talvolta utilizzata anche durante un’iniziazione. Tra i reati compiuti dal satanismo acido c’è il vilipendio dei luoghi di culto, solitamente cristiani, o il vilipendio di tombe e salme. Tuttavia purtroppo non sono rari atti crudeli nei confronti di animali”.

Qual è la situazione in Italia?

“I gruppi italiani, con l’eccezione di casi limite, non sono annoverabili nel satanismo acido. Attualmente esistono 10 grandi gruppi, tra cui è l’Unione Satanisti Italiani guidata da Jennifer Crepuscolo: sul loro sito si contano 6mila iscritti, che crescono fino ai 70mila di TikTok. Ma si tratta di realtà non violente, che si manifestano in un’intimità spirituale”.

Delitto, castrazione e Depp: la vera storia dietro Stranger Things

Nel libro è dedicato un capitolo ai crimini di parte della scena metal finnica nei primi anni ’90: chiese bruciate, strani suicidi, omicidi. Quali furono le caratteristiche del fenoneno?

“Il fenomeno prese il nome di Black Metal Inter Circle e fu caratterizzato da uno stile deviante che venne ribattezzato dai media come Black Metal Mafia. Alcuni tra i protagonisti ebbero il loro ‘centro’ in un negozio di dischi di Oslo, all’interno del quale venivano esposte le reliquie-trofeo provenienti dai reati di profanazione commessi dai membri del Black Metal Inter Circle: fu stimata la profanazione di 15mila tombe cristiane".

E poi?

“In un caso fu bruciata un celebre edificio di culto cristiano, che si rifaceva agli antichi edifici vichinghi. Gli inquirenti fecero subito il punto della situazione, ma attribuirono genericamente le colpe al satanismo. Fu una coincidenza, perché la data coincideva sì con 666, il numero della Bestia, ma anche con un episodio della storia vichinga: il responsabile, una volta a processo, si scoprì essere un edonista, non un satanista, stando alla definizione del Cesnur, che identifica l’edonismo tra le nuove religioni”.

"Le sette hanno sempre più adepti". L'ombra dei riti sulla donna mummificata

Crede che nel passato e nel presente ci siano stati o ci siano pregiudizi o poca informazione nei confronti del satanismo?

“I pregiudizi più comuni sono legati all’acidismo criminale e alla confusione tra anti-cristianesimo e satanismo. Tuttavia non è raro che la richiesta di adozione di un gatto fatta da un satanista venga respinta, perché il culto è lo stereotipo connesso con il sacrificio dei gatti. Nella storia ci sono stati e ci sono ancora sacrifici di gatti, ma non hanno connessione con il satanismo. Si dovrebbe guardare alle persone oltre allo stereotipo”.

E cosa pensa del pregiudizio che lega alcuni generi musicali ai movimenti satanici criminali o in generale a crimini violenti?

“C’è un genere che viene definito musica del diavolo per l’eccessiva vocalizzazione e per i suoni duri con il quale si esprime e che presenta diversi sottogeneri. Ma tuttavia i pregiudizi sono più ‘antichi’: basti pensare all’album del Led Zeppelin che conteneva Stairway to Heaven, che fu accusata di contenere messaggi subliminali se ascoltato al contrario. E ci fu anche il caso dei West Memphis Three, tre adolescenti che furono accusati ingiustamente di presunti omicidi rituali e ritenuti dalla legge colpevoli, anche se di fatto non c’erano prove a loro carico”.

"Le sette? Il lavaggio del cervello parte dal comunismo"

E in Italia?

“Satana funge talvolta da capro espiatorio in alcuni casi di cronaca: a Lecce nel 2001 due 14enni cercarono di uccidere una coetanea durante un rituale, affermando di essere stati guidati da Marilyn Manson. La ragazzina svenne, fu creduta morta e i due scapparono. Ma di fatto Manson ha sempre affermato di non credere in Satana”.

DAGONEWS il 23 maggio 2023.

A Boston si è svolto il più grande raduno di satanisti di sempre. Ma chi si aspettava di vedere gente in adorazione di satana è rimasto deluso.

In una stanza a lume di candele riservata alle cerimonie sataniche, un'insegna al neon dava il benvenuto a "The Little Black Chapel". C’era un altare rialzato con un pentagramma bianco sul pavimento. Il rituale che veniva eseguito era un "non battesimo", in cui i partecipanti rifiutavano simbolicamente i riti ai quali erano stati sottoposti quando erano bambini.

Gli adepti indossavano un mantello con cappuccio lungo fino al pavimento e una maschera nera. Le mani era legate con una corda, che veniva poi sciolta a rappresentare la liberazione. Le pagine di una Bibbia venivano strappate a simboleggiare il ribaltamento del battesimo cristiano. 

«Da bambino gay, sentirmi dire che ero un abominio e che dovevo morire, ha deformato gran parte del mio modo di pensare. Trovare The Satanic Temple mi ha davvero aiutato ad abbracciare la logica e l'empatia».

Il Satanic Temple è riconosciuto come religione dal governo degli Stati Uniti e ha ministri e congregazioni in America, Europa e Australia. Più di 830 persone hanno acquistato i biglietti per la convention di fine aprile, soprannominata SatanCon. 

I membri dicono che non credono in Lucifero o nell’Inferno. Invece sostengono che Satana sia una metafora per mettere in discussione l'autorità e fondare le proprie convinzioni sulla scienza. Il senso di comunità attorno a questi valori condivisi la renderebbe, secondo loro, una religione.

Usano i simboli di Satana per i rituali, ad esempio quando celebrano un matrimonio o adottano un nuovo nome. Quindi le croci capovolte si sprecano mentre c’era chi urla: "Ave Satana!" 

«Molte delle nostre immagini sono intrinsecamente blasfeme – dice Dex Desjardins, portavoce di The Satanic Temple - Alla nostra cerimonia di apertura è stata strappata una Bibbia che per noi è simbolo di oppressione, in particolare l'oppressione delle persone e delle donne LGBTQ, e anche della comunità BIPOC  (neri, indigeni e persone di colore, ndr), e praticamente chiunque sia cresciuto con traumi religiosi, che è un numero enorme dei nostri membri».

I satanisti affermano di rispettare il diritto di ognuno di scegliere la propria fede e non stanno cercando di turbare le persone. 

I satanisti vestono con un abbigliamento goth chic androgino, abiti sgargianti, corna dipinte a mano, tatuaggi diabolici.

L'attivismo politico è una parte fondamentale dell'identità di The Satanic Temple, strenua sostenitrice del fatto che religione e stato debbano essere tenuti separati e spesso intenta cause negli Stati Uniti per difendere questa distinzione. I seguaci sostengono il diritto all’aborto e vogliono che la regione sia tenuta fuori dalla scuola. 

Ma chi c’era alla convention? Tra i partecipanti c’era qualche politico locale, medici, ingegneri, artisti, persone nel settore finanziario, un assistente sociale, un terapista e un artista circense. Molti appartengono alla comunità LGBTQ. Molti sono sposati con cristiani, o almeno con persone non sataniste. Molti tendono a sinistra oppure non appoggiano alcun partito.

Lucien Greaves ha fondato The Satanic Temple una decina di anni fa con un amico, Malcolm Jarry: condividono l’impegno per la libertà religiosa e si sono opposti a ciò che vedono come un'invasione del cristianesimo nella legge.

I notiziari, specialmente negli Stati Uniti, spesso presentano i membri di The Satanic Temple come burloni in cerca di attenzione che fingono di essere una religione quando, invece, si oppongono solo a quella cristiana.

Ma alcuni membri del TST non sentono di potersi esporre per la loro incolumità: c’è chi racconta di aver perso il lavoro o i figli nelle battaglie per la custodia.

Lettera di Jennifer Crepuscolo pubblicata da mowmag.com il 23 maggio 2023.  

In questi giorni Dagospia ha pubblicato un articolo intitolato “Non ci sono più i satanisti di una volta”. L’articolo si riferiva al recente raduno del Satanic Temple tenutosi recentemente a Boston. Caro Dago, da Satanista Italiana – e da Fondatrice di Unione Satanisti Italiani - mi sento di risponderti.

E la prima cosa che voglio dirti è che noi veri Satanisti, noi che realmente rendiamo culto a Satana, non ci sentiamo in alcun modo rappresentati da “satanisti” come quelli di Boston. Essi, per loro stessa ammissione, non credono in Satana, ne sfruttano semplicemente il nome per cercare di attirare l’attenzione su questioni politiche liberali.

La Bibbia strappata durante il SatanCon di Boston

Tutto questo è comprensibile, viviamo in un sistema sociale governato da una religione oppressiva e discriminatrice. Tuttavia un vero Satanista sa bene che il proprio Culto non si limita ad essere un Anti-Religione. 

Il Satanismo Originale non si fonda sull’antitesi alla religione cattolica, tanto meno vive in funzione di un adolescenziale spirito di trasgressione. Il Satanismo Originale è semmai un Culto indipendente, con una sua tradizione e soprattutto un reale sentimento verso gli Dèi e il Sacro. Noi Satanisti Originali, a differenza dei “satanisti” di Boston NON SIAMO ATEI. Noi crediamo fortemente in Satana, sebbene ne diamo una rilettura differente da quella proposta dal Giudeo-Cristianesimo. 

Il raduno SatanCon di Boston

Noi non facciamo del Satanismo politica, né una forma di trasgressione per qualunquisti annoiati. Basti vedere ad esempio alcune foto di ragazzi di USI (Unione Satanisti Italiani) alle prese con “Militanza Satanica”, persone semplici e ben lontane da certe carnevalate. In definitiva, caro Dago, noi Satanisti Originali siamo i primi a prendere le distanze da pagliacciate come certi raduni. Perché il vero Satanismo non è semplice Anticristianesimo e se gente come gli istrionici “satanisti” di Boston non credono in Satana e odiano la Chiesa, forse anziché "satanisti" dovrebbero limitarsi a definirsi semplicemente Atei e Anticlericali. Perché il vero Satanismo, caro Dago, è tutt’altra cosa.

Il Diavolo.

Gli abusi, il morso, i riti di iniziazione. Chi è il "Diavolo" a capo della setta. Lo studente universitario Matteo Valdambrini, a capo di una presunta setta satanica, è accusato di abusi sessuali e riduzione in schiavitù. Ai seguaci raccontava di dover "salvare il mondo". Rosa Scognamiglio il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

Ai seguaci avrebbe fatto credere di essere Omen, "il diavolo", dotato di poteri soprannaturali e con una missione speciale: "salvare il mondo". Così, Matteo Valdambrini, uno studente universitario originario di Montemurlo (Prato), avrebbe persuaso e plagiato gli "adepti" convincendoli che, in una vita precedente, avevano avuto un'altra identità. Ma le indagini della squadra Mobile fiorentina, scaturite a seguito della denuncia del genitore di due "prescelti" hanno aperto uno scenario ben più inquietante. Il giovane, al tempo dei fatti 23enne, è accusato di essere a capo di una presunta setta satanica. In primo grado, nel dicembre del 2021, era stato condannato a 6 anni di reclusione per cinque violenze sessuali e assolto dall'imputazione più grave, quella di riduzione in schiavitù. Oggi, mercoledì 29 marzo, il procuratore generale della Corte d'Appello di Firenze ha chiesto una condanna a 12 anni di reclusione per l'imputato. Il prossimo 24 maggio, la parola passerà alla difesa - rappresentata dall'avvocato Sigfrido Fenyes - e poi i giudici si ritereranno in camera di consiglio per decidere.

Chi è il "diavolo"

Matteo Valdambrini, alias il "diavolo", venne arrestato a giugno del 2020. Originario di Montemurlo (Prato), e di buona famiglia, al tempo frequentava la facoltà di Economia aziendale dell'ateneo fiorentino. Stando a quanto emerso nel corso delle indagini, coordinate dalla procura del capoluogo toscano, nel 2015 lo studente aveva fondato una presunta setta satanica. Gli adepti erano tutti ragazzi giovanissimi che, come riporta un articolo a firma di Pietro Pacciardi su news.24.it, plagiava "a sua immagine e somiglianza" per poi abusarne (questa la tesi della procura). Non solo. I "prescelti" sarebbero stati sottoposti a macabri riti d'iniziazione che si svolgevano all'interno dell'ex ospedale psichiatrico "Banti" di Firenze, a villa Sbertoli (Pistoia) oppure all'ex cementificio di Prato. Secondo l'accusa, la consacrazione avveniva mediante "il morso del vampiro": pare che Valdambrini mordesse gli adepti sulle braccia per evocare l'essenza del lupo mannaro.

La testimonianza: "Diceva di essere satana"

Ad accusare il "diavolo" erano stati 13 adolescenti. In primo grado, lo studente era stato assolto per 8 episodi di presunti abusi. Mentre era stato condannato per cinque violenze sessuali e costretto a risarcire le vittime con una somma da definire (ancora) in sede civile. "Mi ha detto che era posseduto da una forza soprannaturale. Che era satana, un mannaro - aveva racconto una ragazzina (la testimonianza era stata ripresa dal quotidiano Libero e rilanciata da Dagospia) - sosteneva che mordendomi mi avrebbe infuso tutta l'energia". "Ho bisogno di nutrirmi di corpi" avrebbe spiegato Valdambrini ai seguaci, certo di dover dover "salvare il mondo".

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 28 dicembre 2021 

Ma quale scienza occulta. Matteo Valdambrini, il "diavolo" di Prato, finirà in carcere. Gli han dato sei anni per violenza psicologica e sessuale su cinque adolescenti: lui, uno studente di 25 anni che è già stato arrestato nel giugno dell'anno scorso, adescava le sue vittime tramite internet. Assicurava loro che, al suo fianco, avrebbero salvato il mondo. 

 «Mi ha detto che era posseduto da una forza soprannaturale. Che era satana, un mannaro - racconta una ragazzina, - sosteneva che mordendomi mi avrebbe infuso tutta l'energia». Vero niente, ovvio. Le indagini, condotte dalla squadra mobile di Firenze, sono iniziate quando una donna si è rivolta alle forze dell'ordine, preoccupata per i comportamenti dei suoi figli che si appartavano in strani incontri nei boschi della Toscana. Quasi sempre in luoghi abbandonati. L'ex ospedale psichiatrico Bandi di Firenze, per esempio. 

O il cementificio in rovina della stessa Prato. E' venuto fuori che quelle non erano scampagnate. Si trattava di una setta che andava avanti dal 2015 e di cui le ultime "riunioni" sono del 2019. A capo c'era Valdambrini. Che però dagli adepti non si faceva chiamare col nome di battesimo. Aveva fatto credere di essere Omen, nientepopodimeno che il "diavolo". Li aveva convinti di avere poteri soprannaturali, di poter cambiare le loro identità, magari in un'altra vita. 

Per mettere in sicurezza il pianeta, tuttavia, c'era l'inghippo: dovevano superare un fantomatico "blocco sessuale". E allora li sopponeva a veri riti di iniziazione che, Matteo Valdambrini secondo la magistratura fiorentina, diventavano abusi in piena regola: i morsi sulle braccia, tanto per dire. Pochi giorni fa il gip di Firenze Sara Farini ha chiuso il rito abbreviato a carico del "diavolo" dandogli sei anni di reclusione e costringendolo a un risarcimento civile che non è ancora stato definito. 

 Lo hanno accusato in tredici, per otto episodi è stato assolto (così come per il reato più grave che gli penteva sulla testa, quello di riduzione in schiavitù): ma per cinque vicende è scattata la pena, molto dura, richiesta dal pm Eligio Paolini. Come riporta il quotidiano Il Tirreno, un giovane ha creduto di dover scappare da chissà quali entità malefiche che avrebbero potuto catturarlo per sottoporlo a esperimenti o per ucciderlo. 

Un'altra sarebbe stata violentata due volte con la scusa che, se si fosse rifiutata, una sorta di «malessere» avrebbe colpito i componenti del gruppo «dopo aver mangiato una pizza». «Sono cadute molte accuse- fa notare invece l'avvocato di Valdambrini, Sigfrido Fenyes, - tra cui quella più pesante perchè il fatto non sussiste. Attendiamo di leggere la motivazione per prendere ogni ulteriore iniziativa di difesa del nostro assistito». Per quelle, per le motivazioni, bisognerà aspettare i canonici novanta giorni. 

Vampiro a parte che, per fortuna, è un caso limite, stando alle ultime rilevazioni del Codacons, sono 30mila gli italiani che ogni santo giorno bussano alle porte di maghi, fattucchiere e veggenti alla bisogna: 30mila al dì fanno circa tredici milioni all'anno, più di uno su sei si affida alla palla di cristallo. 

 Di serio o di scientifico c'è pochino. Anzi, c'è proprio niente. E se i ragazzi adescati da Valdambrini eran tutti minorenni all'epoca dei riti nelle selve (non che sia una scusa, semmai è ancora più grave), qui parliamo di un fenomeno traversale, che tocca adulti di ogni età. 

Negli ultimi dieci anni le richieste di qualche prestazione "paranormale" sono schizzate su del 60% e il giro d'affari di cartomanti e astrologi (spesso improvvisati) ha raggiunto la cifra folle di otto miliardi di euro. Dentro, nel calderone dei tarocchi, c'è di tutto: chi si accontenta di spillare qualche euro facendo false promesse e chi, invece, alza la posta e pure il codice penale, integrando gli estremi di violazioni ben peggiori. Falsi culti alternativi, frodi e inganni.

Il Nullo.

DAGONEWS il 26 marzo 2023.

Il pensiero di tagliare i propri genitali è sufficiente per far rabbrividire chiunque. Eppure non è così per i cosiddetti “Nullos” per i quali è un prezzo che vale la pena pagare per raggiungere “l'annullamento genitale”.  

 Il bizzarro - e in crescita - movimento “Nullo” vede per lo più adepti maschi che si sottopongono a mutilazioni estreme, rimuovendo parti delle loro parti intime e talvolta i loro capezzoli. In alcuni casi estremi queste persone decidono di castrarsi per mettere a freno pulsioni cannibalistiche o sessuali: il tutto avviene con l'automutilazione registrata e trasmessa in streaming online. Ma la maggior parte degli adepti sceglie la mutilazione genitale perché non si identifica come maschio o femmina. 

Sebbene la procedura sia per lo più eseguita da uomini, ci sono donne che volontariamente rimuovono il clitoride.

Ci sono circa 10.000-15.000 "Nullos" volontari in tutto il mondo, anche se il numero reale è sconosciuto: i due terzi di coloro che si soppone alla mutilazione non dice mai a nessuno di non avere genitali, comprese le loro famiglie.

Pare che il gruppo si identifichi come "Nullos" - abbreviazione di annullamento genitale - una sottocultura i cui adepti trovano spazio nei online.  Molti dei "tagliatori" – il nome dato a coloro che eseguono la procedura – hanno nozioni mediche o veterinarie. Ma c’è chi, come William, ha raccontato al “Daily Beast” di aver preferito sottoporsi alla procedura in ospedale: «Il rischio che qualcosa vada storto è estremamente alto. Non desidero assomigliare a Frankenstein alla fine della procedura».

 Benedict, un altro adepto, racconta: «Non è affatto strano e difficile cercare di diventare un eunuco ora come lo era 30 anni fa. Ora, abbiamo dottori che non battono nemmeno un ciglio quando dici che vuoi rimuovere i tuoi testicoli o semplicemente aggiungere una vagina». 

Il "Nullo" più famoso è l'artista giapponese Mao Sugiyama, a cui è stato rimosso chirurgicamente il pene e i testicoli da un medico nel marzo 2012. Gli sono stati rimossi anche i capezzoli. Erano stati certificati come “privi di infezioni” e sono stati congelati per due mesi prima di essere serviti a un banchetto a Suginami, una zona residenziale nella parte occidentale di Tokyo.

Ha chiesto agli ospiti di pagare 200 euro per partecipare al pasto. Mao ha cucinato i genitali sotto la supervisione di uno chef e ha fatto firmare una liberatoria nella quale ognuno degli ospiti si prendeva la responsabilità se si fosse sentito male.

In totale circa 70 persone hanno partecipato all'evento: mentre cinque persone mangiavano i genitali del ragazzo, il resto mangiava carne di manzo o coccodrillo.

Le Bestie.

La storia del padre detective che ha fatto arrestare le Bestie Satana: «Non perdonerò mai». Venticinque anni fa la serie di omicidi. E poi le condanne, arrivate grazie al lavoro di Michele Tollis che aveva perso il figlio. «Ho avuto giustizia, ho incontrato uno dei capi, ma non dimentico». Margherita Abis su L'Espresso il 7 Settembre 2023 

Ogni tanto provano a estorcergli un’imprecazione, una parola di rabbia. Ma Michele Tollis, pensionato, 75 anni, non si scompone. Neppure quando gli chiedono come si senta adesso che alcuni degli assassini di suo figlio sono ormai fuori dal carcere. Fabio Tollis, 16 anni, fu ucciso dalle Bestie di Satana 25 anni fa, assieme all’amica Chiara Marino, di 19. «Non ho nulla da recriminare – dice Michele Tollis –  meno che mai nei confronti della giustizia italiana. Il codice penale è stato applicato e mi sta bene». 

Le Bestie di Satana furono responsabili di diversi crimini compiuti nella provincia di Varese: gli omicidi di Fabio Tollis, Chiara Marino, Mariangela Pezzotta, il suicidio indotto di Andrea Bontade e furono sospettate di altri 18 delitti. I membri della pseudosetta satanica hanno quasi tutti finito di scontare la propria pena; tra buona condotta, attenuanti e collaborazione, nel giro di una ventina d’anni sono usciti dal carcere. Soltanto Paolo Leoni e Nicola Sapone hanno avuto uno e due ergastoli. 

«Il mio obiettivo era consegnare gli assassini di mio figlio alla giustizia - prosegue Tollis - Saperli in libertà mi amareggia e il perdono non lo contemplo nemmeno. Ma il principio fondamentale del carcere è il recupero, la rieducazione e il reinserimento del soggetto nella comunità. Perciò è giusto che ciò avvenga». 

Una voce quasi controcorrente la sua, in tempi di incertezza della pena, tentazioni di giustizia fai-da-te, spettacolarizzazione della repressione e, inevitabilmente, del dolore. Tutti elementi che ripropongono una battaglia spesso inconcludente tra giustizialisti e garantisti. Veri o presunti. 

Michele Tollis ha conosciuto da vicino anche queste storture. Prima l’archiviazione del fascicolo, poi le indagini condotte su di lui e perfino l’onere delle spese legali senza mai alcun risarcimento. Perché la risoluzione del caso è avvenuta quasi esclusivamente grazie alla sua caparbietà. 

Tra il 1998 e il 2004, per sei anni e quattro mesi, Michele Tollis ha indagato e cercato indizi. Da operaio edile si è trasformato in investigatore, consegnando gli assassini di suo figlio - suoi cosiddetti amici - alla giustizia. Quando Fabio Tollis e Chiara Marino sparirono, il 17 gennaio 1998, il caso era stato archiviato come fuga volontaria. Michele Tollis si mise sulle tracce dei sedicenti satanisti, documentando ogni loro incontro, ogni seduta spiritica. Con lucidità e tenacia ha raccolto indizi: segnalazioni, appunti, numeri di telefono. Ha setacciato ogni pub tra Varese e Milano, partecipato a 84 concerti metal in giro per l’Europa e preso contatti con i maggiori satanisti dell’epoca, che peraltro si sono sempre dissociati da quanto accaduto. 

Nel 2004, dopo l’omicidio di Mariangela Pezzotta, ha consegnato agli inquirenti gli elementi raccolti e ha iniziato a collaborare con la procura di Busto Arsizio e con i carabinieri di Somma Lombardo e di Varese. Un tassello alla volta, è riuscito - assieme alle forze dell’ordine - a far confessare i colpevoli. Da lì a qualche mese i corpi di Fabio Tollis e Chiara Marino sono stati ritrovati in una fossa profonda due metri, nei boschi di Somma Lombardo. 

«Se mi fossi lasciato prendere la mano dall’emotività non sarei riuscito a portarli tutti in galera. Ci ho ragionato, ero intenzionato a venirne a capo, ho analizzato tutto e il contrario di tutto e ho dovuto mettere da parte i sentimenti. Io quando piango, piango da solo», dice Tollis. 

Sempre con lucidità ha dovuto affrontare, assieme alla sua famiglia, il tema della giustizia riparativa. Nel 2006, ha accettato di incontrare in carcere uno dei personaggi di spicco della setta, Andrea Volpe. L’occasione è stata un documentario trasmesso su FoxCrime. «Volevo anche capire se davvero esistesse un livello superiore - spiega oggi Tollis - se qualcuno “più in alto”, come si diceva, avesse ordinato l’omicidio di Fabio. Non ho colto nulla di tutto ciò. E nei suoi occhi non ho visto quel pentimento che professava, non mi è sembrato sincero». 

Da allora altre richieste di incontro e di perdono. Anche di recente. «Voglio morire con la certezza che non ho perdonato e non perdonerò. Per quello che hanno fatto, come lo hanno fatto e su chi lo hanno fatto». Ricorda cosa gli disse Volpe in una delle prime confessioni: «Quando abbiamo ucciso Fabio non avevamo fumato nemmeno uno spinello. Eravamo perfettamente lucidi». «Ecco – ripete oggi Michele Tollis – avevano deciso a mente fredda di farlo. Delle Bestie di Satana si ha un’idea sbagliata, si dice che sono dei pazzi, drogati, senza arte né parte. Non è così: c’era premeditazione e la volontà di far sparire i corpi, c’era tutto». 

Il nome “Bestie di Satana” il gruppo se lo era dato ispirandosi vagamente al satanismo acido, tra consumo di droghe, riti di affiliazione, crimini e messe nere. I loro luoghi di ritrovo erano i pub metal e alternativi di Varese e Milano. «Ma il sostegno maggiore l’ho ricevuto proprio dagli esponenti del metal e del dark», sottolinea Tollis. Molti di loro arrivano ancora oggi in pellegrinaggio sulla tomba di Fabio a Cologno Monzese. Il giovane, appassionato di musica metal, nel 1995 aveva fondato la sua band, gli Infliction, e pubblicato due demo. «In tantissimi, da ogni parte del mondo, in nome della comune passione per questa musica, vengono a trovarlo al cimitero, mi contattano e mostrano solidarietà e affetto alla nostra famiglia». 

Negli anni spesi alla ricerca della verità Michele Tollis ha stretto legami con alcuni dei più importanti nomi del metal, Marilyn Manson, gli Iron Maiden, i Lacuna Coil, i Cannibal Corpse. «Quando si va sul palco si fa spettacolo, ma una volta che si scende ciò che conta è il fattore umano. E questa umanità l’ho sempre colta. Ci può essere una miscela basata sull’oscuro, sull’alternativo e l’esoterismo, ma che poi sia diventata esplosiva è colpa di quella setta, non della musica».

Estratto dell'articolo di Gianluigi Nuzzi per “La Stampa – Specchio” il 22 maggio 2023.

Spesso, dietro le bestie di satana, il mostro di Firenze, la banda della Uno Bianca e tanti orrori che hanno segnato il nostro paese, si stagliano le ombre inquietanti di un livello superiore, inaccessibile, composto da mandanti senza volto che hanno assoldato manovalanza a buon mercato per compiere riti e scempi. […] 

Anche sull'omicidio di suor Laura Mainetti a Chiavenna, tra i monti della Valtellina in Lombardia, si erano spalancate ipotesi inquietanti di diavoli, riti e chissà cos'altro ancora […]. Purtroppo nella morte di suor Laura l'unico movente reale è la noia profonda, catatonica, che risucchia e spezzetta esistenze, […]che pervade e trasforma mani fragili in mani assassine. La noia che spegne sguardi e aspettative. […]

Basta andare al parco delle Marmitte dei Giganti per rendersene conto. Basta inerpicarsi sulle mulattiere di un tempo che conducevano alle antiche cave di pietra ollare fino alla scena del crimine, per rimanere stupefatti dalla cecità delle assassine di suor Laura che lasciarono qui i resti della religiosa, insensibili all'eterna bellezza naturale che le circondava.

Al contrario, quando il 7 giugno del 2000, un ignaro signore si è imbattuto nella vista del cumulo di membra, è stato un autentico choc. Aveva scelto i percorsi del parco per portare banalmente a passeggio il proprio cane e si è trovato di fronte a un cadavere. Che colpe poteva avere suor Laura, sessantuno anni ancora da compiere, superiora della comunità religiosa di Chiavenna? […]

La storia di suor Laura è tutta qui: un omicidio di odio, noia da parte delle carnefici e un'inattesa, infinita pietà da parte della religiosa, se è vero come raccontato dalle protagoniste che la donna prima di morire era riuscita non a dare l'allarme ma a perdonare le sue aguzzine nella misericordia della fede, ad assolvere Ambra, Milena e Veronica, adolescenti assassine, perché non sapevano quello che stavano compiendo. 

Il gesto spiega e colma tutta la distanza tra chi ha perso la vita e chi ha colpito, interroga sull'effettiva dimensione criminale delle ragazze, dà una cornice umana a un epilogo terrificante. E se l'autopsia psicologica della religiosa non ci viene in aiuto a ricostruire la dinamica della vicenda, […] l'analisi di contesti e vita di Ambra, Milena e Veronica può forse lasciare uno spiraglio, un barlume da seguire per non perdersi nella banalità peggiore che resta quella del male.

Le tre adolescenti vivevano in contesti che acuivano le fragilità e le contraddizioni, pativano ambienti familiari compromessi da separazioni, scontri e rancori. Sono ragazze che sembrano prive di prospettive, progettualità, piani il futuro, come se il mondo a Chiavenna finisse domani. […] 

Il resto arriva dalle sollecitazioni di libri, musiche che Veronica, Ambra e Milena divoravano, a iniziare dai brani di Marylin Manson[…] Dunque, per trasformare tutto in inferno, umiliare chi incontri per strada, mostrare la pochezza dei mediocri che scivolano dalla vita, serve un gesto eclatante, clamoroso, unico. […]

Le tre adolescenti ipotizzano un rito, immaginano una vittima sacrificale. Si incontrano il venerdì prima in un bar di Chiavenna, sedute al tavolino, si fanno trascinare dal livore, fomentato dall'alcol che bevevano […] 

Chi uccidere? Inizialmente si immagina un cane, ma non darebbe misura della loro potenza, passerebbe quasi inosservato. Quindi, si ipotizza di sequestrare un bimbo per poi ucciderlo, infine si immagina di rapire il parroco del paese, ma per mole e modi del prete la situazione potrebbe complicarsi, così si preferisce scegliere un'altra vittima dal profilo fragile, fisicamente aggredibile. 

E qui viene l'idea di una professoressa della scuola in passato frequentata da tutte le tre giovani assassine. Il piano è modesto, nemmeno arguto: si tratta di avvicinare suor Laura, mentire, rifilando la balla che Veronica è rimasta incinta e intende interrompere la gravidanza. Un argomento che sicuramente avrebbe solleticato la superiora. Da qui la richiesta di aiuto alla religiosa, previo appuntamento che infatti viene rapidamente concordato.

A questo punto, tutto procede senza intoppi. Veronica con una scusa porta suor Laura in un luogo appartato, scelto per far scattare all'improvviso l'agguato, con rabbia e coltelli. Il calendario in sacrestia segna la data del 4 giugno, giorno dell'appuntamento tra suor Laura e Veronica. La religiosa ha preso a cuore la storia della ragazza, ha coinvolto un'amica, simpatizzante dell'associazione contro l'aborto Movimento per la Vita, per sensibilizzare l'adolescente e farle portare a termine la gravidanza.

Le tre iniziano a chiacchierare su una panchina come se niente fosse. Le complici di Veronica chiamano l'amica per chiederle quando arrivano, non sapendo che la sorella non si era presentata da sola. […] Il piano ormai è crollato. E si ipotizza di riprovarci dopo qualche giorno. E in effetti dopo 48 ore ecco che Ambra, Veronica e Milena ripartono con la loro folle idea di uccidere. Suor Laura ha come dei presentimenti, delle paure. È sera quando chiede al parroco di fare un giro in paese per verificare che sia tutto tranquillo. Al rientro il sacerdote non avendo visto nulla di particolare la rassicura: «Tranquilla, ho visto, solo una ragazza che stava parlando al cellulare».

Quando la suora sparisce e poi viene ritrovata nel parco da un rapido controllo dei tabulati del cellulare della religiosa emergono i contatti con Veronica e quelli con il parroco. In poche ore già si batte una pista particolare con la richiesta al sostituto procuratore del permesso di intercettare le comunicazioni delle ragazze. Dopo poche settimane le prove raccolte su Ambra, Veronica e Milena lasciano poco spazio ai dubbi: vengono arrestate e portate in carceri diversi. Le tre adolescenti minorenni non sono criminali incallite, ma ragazze incensurate. 

Tutte confessano subito. Affermano di aver voluto compiere un delitto satanico. In Valtellina e in tutta Italia ci si chiede chi c'è dietro loro: una setta, un gruppo di fanatici? Le risposte sono sempre le stesse: nessuna loggia segreta o organizzazione clandestina ma la noia e il desiderio di trasgredire a ogni costo. A Milena e Veronica viene riconosciuto un vizio parziale di mente mentre Ambra è sana e capisce tutto. Oggi hanno concluso il loro periodo di detenzione e cercano di ricostruirsi una vita.

Estratto dell’articolo di Andrea Galli per corriere.it il 16 marzo 2023.

Malato da tempo, è morto il milanese Gianni Maria Guidi, 79 anni, che si porterà in tomba una complessità di segreti impossibile da quantificare. Secondo l’accusa (il processo è appena iniziato a Novara), Guidi […] avrebbe guidato la «Setta delle bestie», così chiamata per via dei nomi di animali dati agli adepti.

 […] l’uomo, un lungo passato da erborista, avrebbe costituito un’associazione segreta volta alla manipolazione mentale e agli stupri, sia individuali sia di gruppo, di donne e […] ragazzine, in maggioranza di Milano e provincia, […] attirate nella trappola anche attraverso una scuola di danza le cui titolari erano complici di Guidi.

 L’ordinanza del gip è un indicibile elenco di minacce, violenze sessuali, aberrazioni d’ogni sorta. La base della setta è stata individuata in un cascinale isolato nei boschi di Novara; per un lunghissimo tempo, le vittime non sono riuscite a denunciare o hanno scelto di non farlo anche per il terrore di subire (ulteriori) torture e di vedere inviare ai propri familiari le fotografie che erano state scattate di nascosto. Persecuzioni reiterare, droghe somministrate di nascosto, orge consumate dinanzi a bambine, pestaggi sistematici, un colossale giro di soldi poiché, sempre secondo l’accusa, Guidi e le sodali, una trentina, costringevano le vittime a versare denaro, dilapidando i risparmi dei parenti.

 Estratto dell'articolo di Andrea Galli per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 25 febbraio 2023.

«In particolare adescavano giovani vittime, alcune anche minori degli anni 10, che venivano inserite sfruttando il vincolo di fiducia dei familiari già appartenenti al gruppo, alle quali venivano inculcate le teorie della setta tramite iniziazioni a “pratiche magiche” (...) Venivano costantemente terrorizzate e indotte a subire plurimi abusi sessuali fino ad arrivare, per le prescelte su ordine di Guidi, a pratiche estreme come congiunzioni con animali, bruciature, tatuaggi praticati a freddo nelle parti intime...».

 Le carte dell’accusa contro il sopra menzionato Guidi, che si chiama Gianni Maria, ha 69 anni, […] e pretendeva per sé l’appellativo di «maestro» o «pontefice», sono un lungo, circostanziato elenco di barbarie, e per quanto possibile comprendono ulteriori voci come l’obbligo, per le minorenni, di assistere alle orge degli adulti.

[…] Non era soltanto Guidi, e infatti gli indagati sono stati 28, in maggioranza donne residenti ugualmente qui in città; donne che, leggendo i capi d’imputazione, assistevano Guidi, cercavano e reclutavano nuove ragazze, gestivano la geografia della setta […] ; il paese di Cerano, settemila abitanti in provincia di Novara, tra campagne e il fiume Ticino, è la località che più compare, considerando che lì si trovava la cascina delle «grandi cerimonie» officiate dal «maestro», il quale girava con un bastone per le pratiche sessuali «punitive».

Questa setta si autodefiniva «setta delle bestie» […] Non mancavano le faide interne tra le fedelissime del capo, così sanzionate: «La costringevano durante le serate a servire tutti, denudarsi, effettuare una specie di addestramento fatto di salti, flessioni e camminare a quattro zampe, e mangiando da una ciotola messa a terra. Quindi veniva messa su una poltroncina rossa e appesa a un gancio, legata, bendata, fustigata...».

 Guidi e i complici puntavano […] ragazze fragili, appesantite da problemi familiari, di lavoro, di salute; le «catturavano» con promesse e tecniche di manipolazione mentale, e impedivano loro di «fuggire» minacciando di diffondere le fotografie, con loro protagoniste, scattate di nascosto.

Roberto Lodigiani per ''La Stampa'' il 25 febbraio 2023.

La casetta è nascosta tra gli alberi dell'Ovest Ticino, fuori Novara. Un giardino, la siepe alta, le pareti di pietra, all'interno il soggiorno con le stoviglie, il cibo e gli strumenti musicali. Secondo gli investigatori della questura di Novara era questo il «quartier generale» del «dottore» a capo della psico-setta finita nelle maglie dell'operazione «Dioniso». E qui Davide Melzi, professore di Legnano, docente di Lettere in un liceo di Parabiago, racconta che sì, anche lui è tra gli indagati. «Assurdo, non vedo quell'uomo da dieci anni. Qui ci si vedeva tra amici».

 Come si svolgevano gli incontri?

«Con un giro di telefonate si concordava l'appuntamento, chi era interessato raggiungeva la casetta. Nessuno era obbligato, tutti eravamo maggiorenni consenzienti».

Questa era l'abitazione del dottore?

«Assolutamente no. La casetta è a disposizione mia e di un mio amico. Per abitudine ci passo l'estate per stare lontano dal caos».

 Agli atti delle indagini emergono testimonianze che parlano di abusi sessuali durante gli incontri...

 «Le cene erano solo una parte della serata, suonavamo insieme con quei tamburelli e quei bonghi che vede appesi alle pareti. Accadeva pure che qualche coppia si appartasse, senza costrizioni, nel giardino esterno. Nella assoluta privacy, tra maggiorenni consenzienti. È capitato anche che alle cene partecipassero mamme accompagnate dai figli, ma nego categoricamente che fossero coinvolti dei minori».

 Lei ha scritto dei libri per la casa editrice «La terra di mezzo». Sono stati sequestrati anche quelli?

«Sono rimasto esterrefatto per la mole di materiale che hanno portato via, una trentina di volumi. Sono arrivati alle 5, 30 del mattino nella mia abitazione di Legnano, poi la perquisizione è proseguita nella casetta nel bosco di Cerano. L'accusa è associazione a delinquere, un'assurdità bella e buona. Mi hanno portato via il computer, il telefonino e pure due libri che stavo leggendo, "Inni orfici" e "Introduzione alla magia". Mi hanno pure contestato un cimelio a forma di pugnale della Seconda Guerra Mondiale».

 Il «dottore», da quanto non lo vede?

 «Non lo vedo e non lo sento da 10 anni. Era abile nel trattare le erbe, ma nulla più. La fandonia della dominazione delle donne non ha senso».

 Claudia Osmetti per “Libero Quotidiano” il 25 febbraio 2023.

Ventotto imputati, (almeno) nove vittime, 10mila pagine di atti e la prima udienza fissata per il 26 aprile prossimo. A Torino va a processo la "psicosetta delle bestie" e alla sbarra ci finiscono davvero tutti. Gianni Maria Guidi (77enne milanese), il "dottore" o "re bis" o "pontefice". Cioè il capo supremo.

 Poi Sonia Martinovic, la "mami" che fino al 2013 ha seguito le sue adepte riducendole addirittura - dice la procura piemontese - in stato di schiavitù. E i loro collaboratori, un esercito di insospettabili.

L'insegnante di danza e la psicologa, l'autore di libri e il manager. A far emergere l'orrore è Giulia, una donna di 35 anni di Novara che, un giorno, anni dopo quell'incubo, decide di parlare.

 Lo fa con gli uomini della polizia che restano increduli mentre lei riferisce che nella setta, in quella psicosetta, c'è entrata che era bambina, a sette anni, per colpa di una zia.

 Pensava fosse un mondo fiabesco, Giulia. Invece si è ritrovata in un vortice di abusi, torture, violenze. Tutti fatti che risalgono tra il 1990 e il 2010. Come lei altre otto ragazze hanno il coraggio di denunciare.

 Denunciano una struttura a piramide, col "dottore" in cima che impartisce ordini tramite un "portavoce" e i "reclutatori" che fanno il lavoro sporco. Col "messere" che si occupa degli aspetti economici (pure alle sette servono i contabili), con i "guardiani" che fanno (letteralmente) da palo agli edifici dove avvengono gli incontri. Tutti a sfondo sessuale: orge, penetrazioni con oggetti, con animali, pratiche che fan venire la pelle d'oca solo a pensarci.

Le "puni-premiazioni", le chiama il "dottore": sono giovani bendate e legate, frustate, bruciate nelle parti intime con la cera, tatuate senza precauzioni igieniche. Queste cose succedono a Milano, a Vigevano, a Rapallo. Mica solo a Novara.

 Quando qualcuna non ce la fa più, è costretta a fare adescamento. Guidi avrebbe approfittato di loro, del loro "stato di soggezione", tanto che per loro aveva scelto ogni cosa: perfino il corso di laurea al quale dovevano iscriversi.

 Niente più rapporti con amici o famigliari, chi ha osato ribellarsi è stata minacciata di "malattie e disgrazie". Cala il sipario, però, sulla "psicosetta delle bestie" di Novara. Tra qualche settimana il tribunale di Torino accoglierà l'udienza preliminare e, se non verranno chiesti riti alternativi o abbreviati, il "dottore" e gli altri 27 finiranno a processo.

Secondo uno studio del Cesap, il Centro studi abusi psicologici, in Italia ci sarebbero circa cinquecento "comunità spirituali" che avrebbero al loro interno migliaia di affiliati. Fare un computo preciso è pressoché impossibile perché senza una Giulia che denuncia, molte di queste sono ancora nell'ombra.

L'ultimo rapporto ufficiale del Viminale sull'esoterismo risale al 1998: una vita fa. Da allora il fenomeno è cambiato, è diventato più psicologico: oggi le sette, i gruppi (chiamiamoli così) "mistici" propongono un messaggio più sottile, più intimo, più mentale.

 Solo nel 2017 ci sono state 339 denunce da parte di parenti preoccupati se non terrorizzati, è quasi una al giorno. Chi si avvicina a questo mondo, generalmente, ha tra i trenta e i cinquant'anni, un grado di cultura medio-alto e si sta ponendo delle domande di carattere esistenziale.

Vittorio Feltri, la riflessione: "Certe religioni sono peggio del veleno". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 01 agosto 2020

Qui di seguito pubblichiamo un articolo scritto dal direttore Vittorio Feltri nel 1987 sui segreti, i riti e le stravaganze delle sette religiose

 In Italia anche le sette, per quanto numerose e ricche di seguaci, sono artigianali, vivono sul fai-da-te, sulla genialità cialtronesca dei padri fondatori: la vocazione nazionale per la patacca non si smentisce neppure nei pressi dei paradisi in offerta speciale. Le grandi holding americane del misticismo sono sbarcate nella penisola e hanno attecchito, come la famosa Scientology dei Dianetics, ma sono rimaste isolate nella diffidenza e sono fallite o stanno fallendo. Un po' meglio sono andate le congregazioni orientali, ma non tanto. Gli "arancioni" sono quasi scomparsi, i rimasugli canticchiano nel senese, a Miasio, attorno all'ex sessantottino Andrea Valcarenghi; allevano capre, coltivano piante da frutta e arrotondano con l'agriturismo. Recentemente abbiamo visitato il loro centro: più che un monastero sembra un club Méditerranée. A Varese e a Faenza resistono - patetici - i "Puya Sutra": meditano su come tirare la cinghia e fingere di essere felici.

A Milano il Vivek è stato contagiato dall'intramontabile attivismo meneghino e si è convertito al commercio. Sorvoliamo sui Sai Baba che, se non fosse per la presenza di Antonio Caxi (fratello), un cognome che è una garanzia, spiccherebbero nel panorama simil-religioso quanto i liberali in Parlamento. Da noi poi sarebbe stata assurda una affermazione duratura dei "Bambini di Dio" (capeggiati dallo statunitense David Berg) che si prostituiscono furiosamente per far piacere a Gesù e al cassiere della comunità: sono in estinzione. E pure dei fedeli di Moon i quali, in verità, hanno succursali a Roma, Padova, Bologna, Firenze e Bergamo ma hanno rinunciato alla prerogativa che li ha resi famosi nel mondo: la questua in conto terzi. In Canada - ha detto Martin Faires, che ha fatto parte del giro e ora è nemico di qualsiasi combriccola di adoratori eccentrici, tanto che di mestiere fa il deprogrammatore, cioè recupera a pagamento chi è affetto dal «cancro dell'anima» - gli adepti di questa compagnia se con l'accattonaggio non racimolano almeno 400 mila lire al giorno sono considerati peccatori e candidati all'inferno. Qui uno che scoprisse di poter guadagnare tale cifra senza lavorare, vi pare che la consegnerebbe al santone? Dio e denaro: un binomio che è in cima ai pensieri dei nuovi apostoli di ogni estrazione; cambiano i riti, ma le tariffe sono sempre elevate.

 IL GIAPPONESE

In provincia di Pesaro sono stati arrestati il giapponese Yuji Yahiro e la moglie Lorena Fiumari, di Bologna, per estorsione, truffa, circonvenzione di incapace e altri reati. Predicavano la necessità di «liberarsi dalla schiavitù dei soldi» e i neofiti li prendevano alla lettera, privandosi dei beni materiali che finivano all'ammasso nelle tasche della pia copia. I carabinieri hanno sequestrato nel cenacolo assegni in bianco, orologi d'oro, gioielli, contanti e un materasso. Quest' ultimo oggetto però non è annoverato nell'elenco delle elemosine ma in quello degli arredi sacri: serviva per la liturgia d'iniziazione. Se una ragazza desiderava i crismi, era sul «Permaflex» che doveva conquistarseli dopo aver superato esami dottrinali e pratici. Giudice e beneficiario degli esercizi, che forse è improprio definire spirituali, era il maestro del Sol Levante. L'arte di arrangiarsi, in cui gli italiani eccellono, finisce in ogni chiesa locale ai limiti della legalità: c'è chi in difficoltà con la clientela, coniugando il sacro col profano, riesce a sfondare contemporaneamente come sacerdote e professionista.

È il caso di un medico che nella zona di Franciacorta (Brescia) organizza periodicamente, in un palazzo affittato, dei seminari pseudo-scientifici aperti a chiunque senta impellente il desiderio di rendersi utile al prossimo. E chi, nella circostanza, è più prossimo del professore? Tassa d'iscrizione 500 mila lire per un paio di giorni di lezione. Siccome la classe si compone mediamente di un centinaio di allievi, il totale è 50 milioni. Al termine del corso, niente diploma, ma la licenza di fare opere di bene. Nel senso che il docente insegna a salvaguardare la salute del corpo e quella del portafogli. Come? Secondo lui, l'uomo non si ammala perché gli organi si «rompono», ma perché esaurisce una certa carica e la testa va in cortocircuito. Si tratta di ricaricare le batterie. Abbiamo assistito a una dimostrazione didattica. Appassionante. Il guru spiega che il fluido rigeneratore proviene da lassù, oltre le stelle - e così si comprendono anche le parcelle astronomiche: 200 mila a consulto - ma la bravura del terapeuta consiste nell'attirarlo su di sé e trasmetterlo al paziente. Non è complicato basta concentrarsi. Ogni mente è un accumulatore di energia ed è in grado, con l'allenamento, sia di riceverla sia di dispensarla. Ma occorre amore, tanto amore. Perché la «centrale» che risiede in cielo non è altro che Dio e si sa quanto il creatore sia restio a intrattenere rapporti coi malvagi. Di conseguenza è indispensabile che il guaritore sia gentile col degente, lo accarezzi e magari lo baci, preferibilmente sulla bocca. Il dottore non pretende che i suoi scolari siano laureati, un infermiere è più che idoneo. E per convincerli che fa sul serio si cimenta in una guarigione.

Portata in barella perché non sta in piedi e divorata da un tumore, arriva una vecchietta. Il medico la osserva e scoppia a piangere. Suspense. Si sarà reso conto che è incurabile? Niente affatto. È commosso. Si china su di lei, le tira le gambe per raddrizzargliele, ragguagliarle e, tocco finale, pone le labbra su quelle della donna che non si ribella, probabilmente non ne ha la forza. Non si compie alcun miracolo. Ma la scolaresca va in visibilio lo stesso. E il santone, soddisfatto, annuncia che svelerà un infallibile metodo diagnostico. «Aspettate l'ispirazione - predica -, normalmente è questione di un minuto. Quindi formulate la domanda nel vostro intimo. Per esempio ulcera? Se ci avete azzeccato, il Padre celeste risponderà a suo modo, il vostro braccio destro comincerà involontariamente a muoversi in senso rotatorio, come se doveste azionare una manovella. Provate». Dei cento apprendisti stregoni non uno sbaglia, tutti promossi, e da domani saranno abilitati a guarire e a riscuotere 200 mila lire per visita. Se troveranno chi gliele dà, non si potrà negare il prodigio. Il factotum di questa setta paraospedaliera, A.S., 65 anni, possiede una stupenda villa sulle colline orobiche ed è in attesa del premio Nobel. «Mi stupirei che non me lo dessero», confessa. Tra clienti e "studenti" le persone che gli girano attorno sono migliaia. 

NEOPAGANI

Tutt' altro che sparuto anche il seguito di Antonio De Bono, papa dei neopagani e direttore del bimestrale Il teurgo (teurgia significa «opera di Dio»), diffusione ventimila copie, una quantità che rende l'idea della folla interessata alla religione ellenica. I sacerdoti sono circa novecento, divisi in tre correnti: la destra, la sinistra, i moderati. Gli estremisti mancini sono rigorosamente rispettosi della tradizione greca antica: per intenderci, non esitano a sgozzare capre e agnelli per soddisfare le esigenze delle numerose divinità. Recentemente gli oltranzisti (che prosperano in Veneto) hanno fatto fuori a coltellate un montone in omaggio a Zeus e i centristi li hanno censurati, «Logico - dice il pontefice, che è critico d'arte e ha l'ufficio in via Friuli 4 a Milano - noi siamo contrari alla violenza; personalmente sono vegetariano e non uccido nemmeno le zanzare». Avevamo immaginato De Bono una specie di Mefistofele e invece è mite, cortese, timido, vive tra pile di libri. È giunto sull'Olimpo partendo dai cattolici e transitando - tanto tempo fa - dal Psi, amministratore e collaboratore dell'Avanti. Ci ha messo una ventina d'anni a portare la cricca ai fasti attuali. Ma lui, fin da piccolo, era in contatto con Minerva, Marte e parenti. «Una serie di visioni mi ha persuaso che un Dio solo - racconta - è troppo poco per l'universo».

VIAGGI COSMICI

Da queste riflessioni alla rivalutazione dei miti omerici e virgiliani il passo è stato breve: «Ho ristudiato e approfondito quello che avevo imparato all'università, (sono laureato in etruscologia e archeologia italiana) e ho concluso che i classici avevano ragione: gli dei ci sono». È difficile credere in un padreterno, figuriamoci in una dozzina. Ma De Bono non è turbato dal nostro scetticismo. «Spesso - precisa con naturalezza - esco dal mio involucro di carne e ossa e vado in astrale. Una volta, durante un viaggio cosmico, ho fatto un salto nella casa di campagna e solamente il cane mi ha riconosciuto. Non ho dubbi che ciascuno di noi abbia avuto varie esistenze: io sono mio zio che cadde al fronte nella Grande Guerra. Ho trovato la tomba senza che nessuno me la indicasse». Francamente non riusciamo a seguirlo, ma lui, imperterrito va avanti nella narrazione delle esperienze con Giove e sottoposti.

«Loro - afferma volgendo in alto lo sguardo - mi hanno anticipato che morirò bruciato nel prossimo conflitto mondiale che sarà termonucleare. Non specifico quando succederà per non angustiarla, ma prima del Duemila». Finalità del neopaganesimo: far sì che gli uomini si vogliano bene e rispettino la natura che è fonte di tutto, anche delle facoltà extrasensoriali di cui, comportandoci con saggezza olimpica, potremmo recuperare l'uso. Imparate dal Teurgo. Una delle principali rivendicazioni della congrega è la restituzione del Pantheon al culto di Zeus che, poveretto, non ha più uno straccio di tempio dove manifestarsi. In attesa che la vertenza vada a buon fine, i pagani si riuniscono nell'appartamento papale: dodici medium vanno in trance e i fedeli un po' pregano e un po' sollecitano vaticini. «La potenza che si sprigiona dalle nostre menti in collegamento con gli spiriti vaganti - assicura il nostro interlocutore - sarebbe sufficiente a smantellare la base di Comiso in un attimo. Siamo capaci di portenti che, opportunamente indirizzati, potrebbero evitare la catastrofe atomica. Stiamo a vedere cosa combinano Gorbaciov e Reagan, poi decideremo come intervenire. Le spese per gli esperimenti sono notevoli. Occorrerebbe uno sponsor».

(ANSA mercoledì 15 novembre 2023) "L'iscrizione alla massoneria da parte di un fedele è proibita a causa dell'inconciliabilità tra dottrina cattolica e massoneria". Lo ribadisce il Dicastero per la Dottrina della Fede in risposta ad un vescovo delle Filippine. La risposta del Prefetto Victor Fernandez è controfirmata, come di consueto, da Papa Francesco. La misura riguarda anche "gli eventuali ecclesiastici iscritti alla massoneria", si precisa nel documento. Al vescovo filippino, che aveva sollevato la questione, si suggerisce "una catechesi popolare in tutte le parrocchie riguardo alle ragioni dell'inconciliabilità tra fede cattolica e massoneria".

Papa Francesco: «Tanti santi sociali nella Torino massonica e mangiapreti dell'800. Fenomeno da studiare». Redazione online su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2023.

Il discorso del pontefice durante l'incontro in Vaticano con la congregazione di San Giuseppe

Come mai tanti santi sociali nel Piemonte massonico dell'Ottocento? Se lo chiede papa Francesco che oggi, 17 marzo, ha incontrato i membri della congregazione di San Giuseppe fondata il 19 marzo 1873 da San Leonardo Murialdo «per la cura e la formazione soprattutto dei giovani operai». 

«E mi fa pensare questo tempo - ha detto il pontefice -, lì nel centro della massoneria, a Torino, nel Piemonte, tanti santi». Un fenomeno da «studiare», secondo il Papa, perché «tanti santi al centro della massoneria e dei mangiapreti». 

Il Papa ha poi invitato la congregazione di San Giuseppe a non basarsi solo sulle «regole», sulle «disposizioni». «Quando vuoi regolare tutto ingabbi lo Spirito Santo», «per favore lasciare libertà, lasciare creatività».

Chiesa e massoneria restano incompatibili? La storia e il ruolo dei gesuiti. Nico Spuntoni il 25 Giugno 2023 su Il Giornale.

Sul rapporto tra le due realtà, Francesco ha rotto recentemente il silenzio elogiando i santi piemontesi. Una scelta precisa, che si conforma alla consolidata dottrina cattolica. Ma il rapporto, negli anni, ha subito diverse evoluzioni 

Lo scorso marzo, incontrando i membri della congregazione di San Giuseppe, Francesco ha elogiato la figura di san Leonardo Murialdo e dei non pochi santi originari del Piemonte. Il Papa, a braccio, ha detto: "A me fa pensare tanto questo tempo, lì, nel 'fuoco', diciamo così, nel centro della massoneria, a Torino, nel Piemonte, tanti santi, tanti! E dobbiamo studiare perché, perché in quel momento. E proprio nel centro della massoneria e dei mangiapreti i santi, e tanti, non uno, tanti".

In effetti, proprio nella regione settentrionale ebbe luogo la ricostituzione della massoneria quando, a seguito della Restaurazione post-napoleonica, le logge massoniche erano state bandite in tutti gli Stati preunitari.

Nell'udienza ai murialdini, Bergoglio dimostrò una buona conoscenza della storia d'Italia legata probabilmente alle sue stesse origini familiari. Prima di arrivare in Argentina, infatti, i nonni e il padre del Papa erano cresciuti nella provincia astigiana. Ma le parole del Papa hanno contribuito a riportare sotto i riflettori un argomento di cui si parla poco ma che suscita sempre grande interesse: il rapporto tra Chiesa e massoneria.

Scomunica o no?

Nel codice di diritto canonico del 1983, promulgato da san Giovanni Paolo II, per la prima volta non si parlava di scomunica per i massoni. Questa novità fu all'origine di una serie di speculazioni e venne interpretata da più di qualcuno come un via libera all'appartenenza dei fedeli alle logge.

In realtà, proprio per mettere a tacere quelle voci, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, intervenne con una dichiarazione il 26 novembre del 1983 approvata da Wojtyla nella quale sosteneva che "rimane (...) immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l'iscrizione a esse rimane proibita". Il testo non parlò di scomunica ma aggiunse che i fedeli iscritti alle logge "sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione".

I Papi e la massoneria

Quello scritto da Ratzinger e approvato da Karol Wojtyla è solo l'ultimo pronunciamento della Chiesa sulla massoneria. Nel corso dei secoli ce ne sono stati circa seicento. Il primo è successivo di soli pochi anni alla fondazione della massoneria moderna, che avviene in Inghilterra nel 1717. Nel 1738, papa Clemente XII pubblicò la prima condanna esplicita della massoneria prevedendo la scomunica per chi ne avesse fatto parte, con la bolla In eminenti. Nonostante ciò, e nonostante il conseguente intervento dell'Inquisizione, la diffusione delle logge massoniche non si arrestò e nella penisola italiana riguardò soprattutto la Toscana, Napoli e il Piemonte.

La scelta del predecessore di non intervenire in modo netto contro lo sviluppo della massoneria costò a Benedetto XIV l'accusa di essere lui stesso un massone. Per reazione, papa Lambertini rinnovò la scomunica con la bolla Providas Romanorum il 18 marzo 1751. Quest'ultimo è un caso simile a quanto accaduto più recentemente con l'introduzione del nuovo codice di diritto canonico. All'epoca sorsero voci, infatti, sul fatto che la scomunica era decaduta perché Benedetto XIV non aveva confermato la bolla del predecessore. Queste voci portarono nel caso di Lambertini così come nel caso della dichiarazione di Ratzinger a ribadire la posizione della Chiesa.

Sui documenti papali relativi alla posizione della Chiesa sulla massoneria qualche anno fa è stato pubblicato un volume che contiene una ricostruzione storica che va da Clemente XII al pontificato di Giovanni Paolo II: I papi e la massoneria di Angela Pellicciari. Di recente è uscita una nuova edizione del libro - sempre edita dalla casa editrice cattolica Ares * nella quale vengono analizzate le ragioni storiche delle encicliche anti-massoniche e più in generale dell'incompatibilità tra Chiesa e logge.

Il ruolo dei gesuiti

Nel libro, il capitolo dedicato a Clemente XIII e Clemente XIV, che sedettero sul trono di Pietro nella seconda metà del Settecento, risulta particolarmente interessante. Questo perché i due papi non presero provvedimenti sulla massoneria ma furono protagonisti - su fronti opposti - degli eventi che portarono alla soppressione della Compagnia di Gesù. "Non c’è dubbio che i gesuiti del Settecento e dell’Ottocento siano avversari irriducibili della libera-muratoria", scrive Pellicciari.

Secondo la versione dell'autrice, già nel corso del pontificato di Clemente XIII furono forti le pressioni dei sovrani illuminati d'Europa (con corti penetrate dai fratelli muratori). Ma il Papa, cresciuto dai gesuiti, resistette, al contrario del suo successore che optò per l'abolizione per l'ordine. A confermare l'ostilità della massoneria per la Compagnia di Gesù ci sarebbe, come spiegato nel libro di Pellicciari, il rituale di iniziazione al 33esimo grado di rito scozzese antico e accettato nel quale si invoca "luce contro la nera milizia di Ignazio da Loyola".

Perchè incompatibili?

Ma quali sono le ragioni di questo giudizio negativo della Chiesa nei confronti nella massoneria? Le motivazioni sono principalmente dottrinali, perché il massone nega la possibilità della conoscenza oggettiva della verità, relativizzandola. Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 del Novecento la Conferenza Episcopale Tedesca istituì una commissione ad hoc che alla fine del lavoro redasse le motivazioni di questa incompatibilità. Vi si legge: "Poiché il libero massone rifiuta ogni fede nei dogmi, egli non ammette alcun dogma anche nella sua Loggia. Un tale concetto di verità non è compatibile con il concetto cattolico di verità, né dal punto di vista della teologia naturale, né da quello della teologia della rivelazione".

Questa posizione non è cambiata. Padre Zbigniew Suchecki, docente nella Pontificia Facoltà di S. Bonaventura–Seraphicum ed esperto dell'argomento, ha spiegato a La Nuova Bussola Quotidiana che nel programma Tesi per l’anno 2000 pubblicato ad inizio del nuovo millennio, la Libera Muratoria continua a negare "il valore della verità rivelata, e con questo indifferentismo viene esclusa fin dall’inizio una religione rivelata".

Scambio di attenzioni

Due episodi recenti segnalano come ci sia un cambio di clima, soprattutto da parte di alcune personalità. Nel 2019 l'allora arcivescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro monsignor Riccardo Fontana si recò a un convegno per i 150 anni della loggia Benedetto Cairoli organizzato dal Grande Oriente d'Italia e parlò di "valori condivisi", beccandosi il rimprovero della Cei, che lasciò trapelare "stupore e sconcerto".

Lo scorso ottobre, invece, il vescovo di Terni monsignor Francesco Antonio Soddu ha presenziato all'inaugurazione della casa massonica cittadina. Queste iniziative di singoli presuli non hanno cambiato l'atteggiamento della stessa Conferenza episcopale italiana. Nel 2018, l'allora segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino - attuale presidente dell'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica - e che è stato a lungo considerato il volto del nuovo corso bergogliano nell'episcopato italiano, ha affermato che "preti e vescovi se massoni sono già fuori dalla Chiesa" ribadendo che "nei confronti della massoneria la Chiesa ha tenuto, da sempre e con chiarezza, lo stesso atteggiamento: tutto ciò che da singoli o gruppi attenta al bene comune a vantaggio di pochi non può essere accettato".

Papa Francesco: "Tanti santi nel Piemonte massone e mangiapreti". Nico Spuntoni il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.

Bergoglio esalta san Leonardo Murialdo ricordando come il contesto in cui fondò la sua Congregazione era dominato dalle logge

Il 19 marzo 1873 san Leonardo Murialdo fondava la Congregazione di san Giuseppe, con la collaborazione di don Eugenio Reffo. In prossimità del 150esimo anniversario, Francesco ha ricevuto in Vaticano una delegazione di padri giuseppini. L'occasione è servita per ricordare la figura del fondatore nato in una facoltosa famiglia torinese dell'Ottocento e per lodare il carisma a cui si è ispirata la Congregazione.

Piemonte, terra di famiglia

La famiglia di Jorge Mario Bergoglio è originaria del Piemonte. Il padre, infatti, era emigrato alla fine degli anni '20 con i genitori Giovanni e Rosa, lasciando Portacomaro che si trova in provincia di Asti. Proprio alla luce delle sue radici familiari, è interessante ciò che ha detto oggi il Papa nell'udienza concessa a Palazzo Apostolico alla delegazione di giuseppini. Elogiando l'iniziativa pionieristica del Murialdo di 150 anni fa, Bergoglio ha voluto sottolineare come questa abbia avuto luogo nel “fuoco – diciamo così –, nel centro della massoneria, a Torino, nel Piemonte" e come in quest'area, nonostante ciò, ci siano "tanti santi, tanti" proprio nell'Ottocento. Francesco ha detto:

"E proprio nel centro della massoneria e dei mangiapreti, i santi, e tanti, non uno, tanti. Dunque ha fondato a Torino, in questo contesto duro, segnato da tanta povertà morale, culturale ed economica, di fronte alla quale non è rimasto indifferente: ha raccolto la sfida e si è messo al lavoro, in mezzo alla massoneria".

Le parole utilizzate per rimarcare il consistente numero di santi impegnati nella questione sociale in una zona caratterizzata - in base a quanto sostenuto dal Papa - da una forte penetrazione della massoneria nel XIX secolo sono state aggiunte a braccio dal Pontefice. Nel discorso inizialmente previsto, infatti, mancava questo specifico passaggio. Il Pontefice ha detto che questa circostanza va studiata.

Anticipatore

Francesco, inoltre, ha voluto presentare san Leonardo Murialdo come un anticipatore. In particolare per ciò che riguarda la sua concezione del ruolo dei laici nella Chiesa. Parlando del santo torinese, il Papa ha detto che "nella seconda metà dell’ottocento, un secolo prima del Concilio Vaticano II, diceva (che) 'il laico, di qualsiasi ceto sociale, può essere […] un apostolo non meno del prete e, per alcuni ambienti, più del prete'".

Bergoglio, poi, ha rispolverato alcuni ricordi di quando in Argentina era maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel e qui aveva alcuni studenti giuseppini. Scherzando, il Papa ha detto che gli studenti da lui conosciuti avevano un superiore giuseppino che era "un furbone" e per questo era stato ribattezzato anche da lui "il premio Nobel” della furbizia".

I precedenti

Quasi sei anni fa, secondo un'indiscrezione riportata da Il Messaggero, Francesco rifiutò le lettere credenziali presentate dal nuovo ambasciatore libanese presso la Santa Sede proprio per la sua presunta vicinanza alla massoneria francese.

Bisogna ricordare, infatti, che il Codice di Diritto Canonico del 1917 prevede che coloro i quali si iscrivono alla massoneria o ad altre associazioni dello stesso genere incorrono ipso facto nella scomunica riservata alla Sede Apostolica. Una linea ribadita più recentemente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede all'epoca guidata dal cardinale Joseph Ratzinger - futuro Benedetto XVI - che in una dichiarazione del 1983 poi spiegata ulteriormente in un documenti di riflessioni spiegava che la decisione di intervenire di nuovo si doveva ad evitare "la possibilità che si diffondesse fra i fedeli l'errata opinione secondo cui ormai la adesione a una loggia massonica era lecita" ritenendo di dover confermare il "pensiero autentico della Chiesa in proposito" mettendo in guardia i fedeli "nei confronti di un'appartenenza incompatibile con la fede cattolica".

Dalai Lama-choc col bimbo: "Succhiami la lingua", si scatena l'inferno. Libero Quotidiano il 10 aprile 2023

Sarà pure un leader spirituale, sarà pure suo solito "prendere in giro le persone", l'avrà fatto pure in modo "innocente e scherzoso", di certo il comportamento del Dalai Lama è stato reputato da molti come "inappropriato" e forse "digustoso", decisamente "imbarazzante". In rete è stato postato un video girato durante una celebrazione nel tempio di Dharamshala, alla quale hanno partecipato circa 100 giovani studenti appena laureati presso la Fondazione indiana M3M.  Nelle immagini che scorrono si vede un ragazzino che si avvicina a un microfono e chiede al leader spirituale buddista: "Posso abbracciarti?". Il Premio Nobel per la Pace invita il bambino sul palco, dicendo: "Prima qui", e indica la sua guancia, che il bambino bacia. E prosegue: "Poi penso anche qui", e indica le sue labbra. Il Dalai Lama avvicina poi il mento del bambino verso di sé e lo bacia sulle labbra. Nel video si sentono risate e applausi. I due si toccano con la testa, prima che il Dalai Lama tiri fuori la lingua e dica: "E succhiami la lingua". Il ragazzino a questo punto si scansa velocemente tra le risate del leader buddhista, che poi gli si rivolge consigliandogli di guardare a coloro che creano "pace e felicità" e di non seguire "esseri umani che uccidono sempre altre persone", per poi dargli un ultimo abbraccio. Quando i due si abbracciano il Dalai Lama fa il solletico al bambino sotto le ascelle.

In men che non si dica il video è passato da un social all'altro, scatenando reazioni tra le più disparate tanto che lo staff del Dalai Lama si è trovato a chiedere scusa al ragazzo e alla sua famiglia "per il dolore che le sue parole possono aver causato". "Sua Santità desidera scusarsi con il bambino e la sua famiglia, oltre che con i suoi numerosi amici in tutto il mondo, per il dolore che le sue parole possono aver causato", si legge in una dichiarazione pubblicata su Twitter. "Sua Santità prende spesso in giro le persone che incontra in modo innocente e scherzoso, anche in pubblico e davanti alle telecamere. Si rammarica di questo incidente".

Il Dalai Lama si scusa: aveva chiesto a un bambino di “succhiargli la lingua”. A scatenare le polemiche un video diventato virale sui social in cui si vede il leader spirituale baciare un bambino che gli rendeva omaggio. Il Dubbio il 10 aprile 2023

Arrivano via Twitter le scuse del Dalai Lama dopo le polemiche sorte online per un filmato in cui si sente il monaco buddista dire a un bambino “puoi succhiarmi la lingua”.

Il video, che è diventato virale, mostra il leader spirituale tibetano, 87 anni, che bacia sulle labbra un bambino chinato per rendergli omaggio. Il monaco buddista viene quindi visto tirare fuori la lingua mentre chiede al giovane di succhiarla. “Puoi succhiarmi la lingua”, si sente dire nel video girato durante un evento a McLeod Ganj, un sobborgo della città di Dharamshala nel nord dell’India, il 28 febbraio. “Sua Santità desidera scusarsi con il ragazzo e la sua famiglia, nonché con i suoi numerosi amici in tutto il mondo, per il dolore che ha le parole potrebbero aver causato”, si legge in un comunicato diffuso sull’account Twitter ufficiale del Dalai Lama. “Sua Santità spesso prende in giro le persone che incontra in modo innocente e giocoso, anche in pubblico e davanti alle telecamere”, si legge. Gli utenti di Twitter hanno criticato il video, definendolo “disgustoso”, dopo che ha iniziato a circolare ieri.

Il Dalai Lama rimane il volto universalmente riconosciuto del movimento per l'autonomia tibetana. Ma la fama globale di cui godeva dopo aver vinto il Premio Nobel per la Pace nel 1989 si è affievolita come anche la pioggia di inviti a incontrare i leader mondiali e le star di Hollywood: in parte perché l'anziano leader ha ridotto il suo programma di viaggi, ma anche a causa del crescente peso economico e politico della Cina sul resto del mondo. Pechino lo accusa di voler dividere il Paese e lo ha definito “un lupo travestito da monaco”.  Nel 2019, il Dalai Lama si era scusato per aver detto alla Bbc che se il suo successore fosse stato una donna, avrebbe dovuto essere “attraente”.

Estratto dell’articolo di Mo. Ri. Sar. per il “Corriere della Sera” l’11 aprile 2023.

È conosciuto per essere un esempio di tolleranza e saggezza ma il Dalai Lama che è considerato dai buddhisti tibetani la quattordicesima reincarnazione del primo leader spirituale del buddhismo tibetano, Sonam Gyatso (1543-1588), vanta nella sua lunga vita, ha 87 anni, diverse affermazioni più che discutibili. Nel 2015 in un’intervista alla Bbc gli fu chiesto: «Santità, la sua prossima reincarnazione potrebbe essere una donna?».

 «Sì, ma dovrebbe essere più che attraente — rispose — altrimenti la gente non vorrebbe vedere la sua faccia. La vera bellezza è quella interna, è vero, ma siamo esseri umani.

Penso che anche le apparenze contino».

Affermazioni che aveva già fatto nel 1992 in un’intervista all’edizione parigina di Vogue per un numero di cui era «guest editor». E poco importa che puntali siano arrivate le scuse del suo portavoce: «Non voleva offendere nessuno». Le donne di sicuro non gliel’hanno perdonata. […]

 Nel giugno del 2019 quando qualcuno gli chiese cosa pensava dell’aumento del numero dei migranti e dei rifugiati africani in Europa, il Dalai Lama rispose che, ovviamente, andavano accolti ma che poi la maggior parte sarebbe dovuta tornare nelle terre di provenienza. «È meglio che l’Europa rimanga agli europei», decretò.  […]

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 12 aprile 2023.

Ho incontrato tanti anni fa il Dalai Lama alle pendici dell’Amiata […], tutt’altro che una occasione da Nobel. Mi piacque il suo fare scanzonato. Contagioso il suo sorridente e gaudente omaggio alla convivialità.  Era chiaro che lo scherzo e la santità monacense si rincorrevano in ogni gesto e modo di quell’uomo […].

 Mai avrei pensato che quel monaco sarebbe finito nelle fauci della setta pornopuritana e che, come il cardinale George Pell e oggi addirittura san Giovanni Paolo II, […] sarebbe stato iscritto nella stele della celebre Colonna Infame come untore e propagatore della peste pedocriminale […].       

Non voglio crederlo. C’è gente sui social che non ha visto nel bacino sulla guancia richiesto a un fanciullo ammiratore da un santone quasi nonagenario, nel suo sfiorargli le labbra, nella sua esibizione ridente della lingua a scopo goliardico e rituale, un gesto di pura innocenza, una canzonatura perfettamente intonata alla leggenda della lingua nera dell’uomo cattivo che percorre da secoli il Tibet.

 C’è gente che ha pensato a pulsioni malsane, a un pornoshow sotto lo sguardo delle telecamere, a un caso di psichiatria e patologia senile, messo in scena in un tempio consacrato, durante una cerimonia pubblica e liturgica, quando un occhio semplice, […] non poteva non vedere, non poteva non sapere, che quello era un siparietto trascorso […] tra gli applausi e le risa del pubblico fedele. Ma che occhi hanno i più contemporanei tra i miei contemporanei. Di che cosa è ammalata la vista del commentatore Twitter, del Coglione Collettivo?

Trasformare un papa della montagna […] in un untore pedocriminale: ma non è il colmo del fraintendimento, questo sì pulsionale e malsano, non è il culmine di una malattia sociale contratta in nome dei bambini da una civiltà sterminatrice non metaforica di piccoli, nati e non ancora nati?

 […]  Che c’entra la macina da appendere al collo di chi scandalizza i pargoli, la pena di morte cristiana, con questo teatro esotico privo di qualunque possibile riscontro nella nostra deriva parafiliaca, nei nostri disturbi della personalità psicosessuale?

 Da molti anni qui ci ostiniamo a predicare che c’è qualcosa di sbilenco e di equivoco nell’ossessione pestifera per la pedofilia intesa come fenomeno sociale o carattere tipizzante del clero cattolico; e che una società in cui si intende insegnare ai bambini a scegliere il loro sesso senza pregiudizi di genere non è adatta a difendere nel modo giusto e sacrosanto l’innocenza dell’infanzia; e che i fantasmi ideologici oscurano la puntuale ricognizione dei reati e delle offese all’integrità e libertà dei bambini.

Ora il Dalai Lama si è dovuto assurdamente scusare, comportandosi, all’inverso, come il famoso pastaio che aveva fatto girare uno spot in cui la famiglia dei biscotti riunita intorno al mulino era quella tradizionale, dunque offendendo il pansessualismo e mettendo in pericolo la sua espansione commerciale. Non voglio crederlo.

Quando complottismo fa rima con antisemitismo. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 23 Gennaio 2023

 Razzismo e vita quotidiana. La presunta superiorità di una “razza” su un’altra può diventare una strisciante consuetudine sociale. Purtroppo noi italiani ne sappiamo qualcosa. Dal 1938 al 1943, il regime fascista decise di pubblicare il quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi, l’intellettuale siciliano che più spudoratamente approvò le leggi razziali in Italia.

Sulla rivista gli ebrei vengono definiti avidi, opportunisti, senza scrupoli. Non mancano le caricature fisiche. Gli ebrei sono rappresentati come sinistri figuri, con il naso adunco e lo sguardo furbo.

La propaganda razzista era presente anche nei libri delle scuole elementari. Vale la pena di ricordarne le parole, perché non si può credere che si possano propinare ai bambini tante violente assurdità: “L’Italia di Mussolini, erede della gloriosa civiltà romana, non poteva rimanere inerte davanti a questa associazione di interessi affaristici, seminatrice di discordie, nemica di ogni idealità. Roma reagì con prontezza e provvide a preservare la nobile stirpe italiana da ogni pericolo di contaminazione ebraica e di altre razze inferiori” (Luigi Rinaldi, Il libro della quinta classe elementare, Roma, Le librerie dello Stato, 1941, Fondazione Museo della Shoah).

Ci siamo chiesti se ancora oggi ci fosse un antisemitismo più o meno sommerso e, per PRIMOPIANOSCALAc di Telos A&S, ne abbiamo parlato con Dave Rich, Ricercatore associato nell’Istituto Birkbeck per gli Studi sull’Anti-semitismo dell’Università di Londra. Rich è autore del libro The Left’s Jewish Problem Jeremy Corbyn, Israel and Anti-Semitism, in cui pone l’accento sulla sinistra britannica che, dal suo punto di osservazione, ha cavalcato un certo complottismo anti israeliano e antisemita. “Non ci vuole molto a collegare questa analisi ad alcuni stereotipi davvero obsoleti e sinistri sugli ebrei ricchi, potenti e manipolatori e tutto ad un tratto, la sinistra anti-capitalista diventa sinonimo di cospirazionismo antisemita. Una delle caratteristiche centrali dell’antisemitismo è la capacità di insinuarsi nelle differenti ideologie, religioni e sistemi di credenze” afferma Dave Rich.

Un antisemitismo politicamente trasversale, dunque. Del resto è facile affibbiare la colpa dei problemi sociali a un nemico. Molto più facile che tentare di risolverli.

Intervista a David Meghnagi: “L’antisemitismo è un virus, infetta ancora Italia e Europa”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 24 Gennaio 2023

L’importanza di mantenere in vita la memoria della Shoah. Perché senza memoria non c’è futuro. Nella settimana del Giorno della memoria (venerdì 27 gennaio) Il Riformista ne discute con il professor David Meghnagi, già Vicepresidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) e delegato per l’Italia presso la Conferenza dell’Osce contro l’antisemitismo. Tra i suoi libri, ricordiamo Ricomporre l’infranto. L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah (Marsilio, 2005); Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente (Marsilio, 2010).; Il padre e la legge. Freud e l’ebraismo (Marsilio, 2010); Libia ebraica. Memoria e identità, testi e immagini (Feltrinelli, 2020).

Ricomporre l’infranto” Le quattro figure che lei narra rappresentano, da angolature diverse, tutti coloro che si sono misurati con il male assoluto. Come definirebbe oggi quel male?

Ho cercato di rivisitare la storia e la memoria della tragedia della Shoah facendo idealmente dialogare quatto autori che hanno attraversato dall’interno le temperie storiche del Novecento. Levi mi sembrava adatto a rappresentare il valore della testimonianza. Diventare testimoni comporta una grande trasformazione psicologica e valoriale. Si assume un ruolo attivo, diventando una sorta di profeta del nostro tempo. Edelman, che ha visto quattrocentomila persone radunate nel piazzale del ghetto per essere deportati e sterminati, ha assunto un ruolo di guardiano di un mondo scomparso in cui non c’erano nemmeno le tombe. Gli amici hanno lasciato il paese, chi partecipando all’eroica epopea della ricostruzione di una vita nazionale indipendente in Israele quando tutto rischiava di andare perduto, chi emigrando verso altri lidi dove ha ricostruito la sua esistenza spezzata. Testimone di un mondo perduto, visse in una realtà asfittica attraversata da pulsioni antisemite e dominata dal totalitarismo comunista contro cui da democratico e socialista si era sempre opposto e quando arrivò il momento si unì a Solidarnosh. La storia di Deutscher è ben racchiusa in un adagio talmudico che utilizzò in un incontro con la gioventù ebraica.

Qual è questo adagio e chi ne erano i protagonisti?

Rabbì Mehir, una figura importante del Talmud, e Elisha Ben Abuya, con il quale non interruppe i rapporti nonostante questi avesse abbandonato la fede e ogni pratica religiosa. L’eretico, scrive Deutscher, era in groppa a un asinello. Per rispetto della santità del Sabato il suo amico procedeva a piedi. La profondità della discussione fu tale che Meir non si accorse di aver raggiunto il confine oltre il quale, stando alle norme rabbiniche, è vietato per un ebreo avventurarsi nel giorno di sabato. Il maestro si rivolse all’allievo dicendogli che era stato raggiunto il confine e che bisognava dividersi: “non accompagnarmi oltre”. Su questo interessante dialogo, Deutscher avrebbe voluto scrivere un componimento teatrale che rimase però al primo atto. Elisha era per Deutscher il prototipo di una figura nuova dell’ebraismo contemporaneo, collocata ai confini di mondi diversi, il “prototipo” di “grandi rivoluzionari del pensiero”, degli ebrei “non ebrei”, con cui apertamente si identificava. La sua interpretazione lasciava senza risposta la domanda più importante: che cosa ne sarebbe rimasto di Meir e del suo mondo? Doveva “sparire” in nome di un universalismo astratto, o doveva al contrario vivere e sviluppare la propria cultura in aperto dialogo con il mondo esterno? Nel caso di Scholem abbiamo a che fare con una soluzione opposta. La storia di Scholem è di un ebreo tedesco in rotta con il mito della simbiosi ebraico tedesca e che diventa sionista. Il fratello da cui era stato avviato al sionismo, divenne un leader comunista. Entrambi entrarono in rotta con il padre. Per non partecipare alla grande carneficina della guerra, Scholem riuscì a farsi passare per schizofrenico. Nel 1923 si trasferì a Gerusalemme contribuendo con la sua imponente opera a riscoprire la storia del misticismo ebraico. Il suo epistolario con Benjamin, di cui fu grande amico, è una delle più grandi testimonianze culturali del Novecento.

Professor Meghnagi, non crede che mantenere in vita la memoria della Shoah sia oggi un fatto di grande significanza politica, oltre che storica e culturale?

Senza la memoria di quel passato, che deve essere alimentata dallo studio e dalla ricerca, il rischio è di tornare ad una falsa innocenza perduta che rischierebbe di condurre l’umanità a nuove catastrofi. L’antisemitismo è un “virus” che infetta ancora oggi l’Italia e l’Europa.

Quali ne sono le manifestazioni più acute e pervasive?

Il pregiudizio antiebraico ha una storia millenaria ed è sedimentato nelle profondità dell’inconscio culturale e nel linguaggio. Il vero pericolo è quando assume delle forme politiche con l’obiettivo di riplasmare la società e lo Stato. La nostalgia di una falsa innocenza perduta è all’origine di un nuovo antisemitismo che accusa gli ebrei di coltivare la memoria come una “rendita di posizione”. In questo perverso gioco le negazioni, le banalizzazioni, i dinieghi interpretativi e le false equazioni delle vittime, che si trasformano in carnefici (per esempio nella demonizzazione di Israele), fanno da sfondo ad una nuova e più subdola accusa che rischia di rovesciare contro gli ebrei l’odio che cova a livello mondiale contro la società occidentale e i suoi valori liberali.

In una intervista a questo giornale, Furio Colombo ha sostenuto di ritrovare oggi la disumanità che connotò le leggi razziali nella campagna di odio e di criminalizzazione dei migranti. Lei come la vede?

L’intolleranza e l’odio vanno combattuti richiamandosi ai valori della Costituzione, alla dichiarazione universale dei diritti e in nome dell’etica della responsabilità, evitando espressioni linguistiche che non aiutano a capire e a distinguere e che finiscono per appiattire in un unicum processi storici e realtà fra loro diversi.

Fare i conti con la storia, politica e personale, da cui si proviene non è mai semplice. Non le pare che questo doloroso ma necessario ripensamento difetti alla destra, o almeno ad una parte di essa, che oggi governa l’Italia?

Chiedere perdono per le leggi del ’38 è un atto dovuto ed è uno sviluppo da non sottovalutare e da implementare. Una rivisitazione critica del passato non può fermarsi al suo esito più devastante. Nei vent’anni del regime fascista ogni fase ha purtroppo preparato l’altra. Dalla marcia su Roma alla presa del potere con la violenza, all’assassinio di Matteotti, alla distruzione delle libertà civili, all’esilio degli oppositori e al loro confino. Per non parlare dell’assassinio di Gobetti e dei fratelli Rosselli, dei massacri nel Corno d’Africa: in ogni fase ci fu la possibilità di scegliere diversamente. Così fu anche per le Leggi del 1938 e per le derive successive. Con l’ingresso dell’Italia in guerra al fianco delle Potenze dell’Asse e poi dopo con l’occupazione nazista, ci fu chi scelse diversamente e si unì alla Resistenza pacifica e militare, combattendo i nazisti, salvando le fabbriche, nascondendo le persone braccate, rifiutando di unirsi a Salò, come fecero centinaia di migliaia di militari che furono per questo deportati e con il loro sacrificio contribuirono ad affrettare la fine della guerra.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

L’Invasione.

Il Tribunale Islamico.

La Moneta.

Il Ramadan.

La Ribellione.

La Propaganda.

La genuflessione.

La Finanza.

Le Donne.

Le persecuzioni.

Il Terrorismo.

L’Invasione.

Antonio Giangrande. A proposito di Islam

Fermo restando che ci sono tantissime persone di fede islamica che sono della brava gente, non posso che esprimere i miei più profondi dubbi sulla "buona fede" della religione musulmana. Ciò che più non capisco è come si possa denigrare la nostra cultura, quella occidentale, che ha portato l'uomo ad un successivo livello di evoluzione e difendere senza "se" e senza "ma" una cultura/società che, IN GRAN PARTE, è ferma al medioevo, in cui le donne sono sottomesse all'uomo e considerate di loro proprietà, i "miscredenti" e i peccatori vengono uccisi, la "Sharia" si basa sulla "legge del taglione", gli omosessuali perseguitati, la libertà religiosa un miraggio, i diritti più basilari sono ancora da conquistare, una civiltà che per secoli ci ha attaccato, invaso, depredato, tentato di conquistarci. E con le ondate di immigrazione proprio dal mondo arabo rischiamo di dover convivere IN CASA NOSTRA con tutte queste situazioni. Ma ciò che trovo più strano, però, è il fatto che coloro che difendono il mondo islamico sono proprio coloro che partecipano ai gay pride, sono attivisti per i diritti delle donne, ecc. Forse perché i voti alle elezioni valgono più di ogni tipo di coerenza.

P.S. Qualche migliaia di immigrati islamici su 60 milioni di abitanti di certo non sono un problema, ma se cominciano a diventare qualche milione la situazione cambia. Occhio...

Estratto dell’articolo di Maurizio Ferrera per il “Corriere della Sera” giovedì 30 novembre 2023.

È possibile che fra qualche mese l’Olanda abbia un primo ministro apertamente «islamofobo». Si tratta di Geert Wilders, vincitore delle ultime elezioni. Nel suo programma c’è la proposta di bandire le moschee e le scuole coraniche, vietare il velo islamico negli edifici pubblici, bloccare l’immigrazione.

[…] La crescente ostilità verso l’Islam potrebbe scatenare anche nel cuore dell’Europa quello «scontro di civiltà» per ora concentrato nelle aree più calde del Medio Oriente. Uno scenario allarmante. Oggi vivono nell’Unione europea 26 milioni di musulmani (il 5% del totale), una cifra in rapida crescita sia per i più alti tassi di fertilità sia per i flussi migratori. Entro i prossimi 30 anni si stima che il numero possa salire fino a 75 milioni (14%). In Germania le comunità islamiche arriverebbero a costituire il 20% della popolazione, in Francia il 18%, in Italia il 15%.

Sappiamo che l’Islam non è solo una fede in senso stretto, ma una pratica di vita, ispirata da valori tradizionali e patriarcali. Ciò che più contrasta con l’ethos europeo è la difficoltà di separare la sfera religiosa-culturale da quella pubblica. Rispettare il principio di laicità e i diritti fondamentali dell’individuo richiede un delicato processo di apprendimento. Le politiche di inclusione giocano qui un ruolo fondamentale. Molti studi hanno dimostrato che, se hanno l’opportunità di integrarsi, gli immigrati musulmani sono capaci di adattarsi e assimilare i capisaldi della cultura e delle norme di convivenza europee.

[…] Ci sono due gruppi minoritari all’interno del mondo islamico europeo che suscitano oggettiva preoccupazione. Innanzitutto i fondamentalisti religiosi, sostenitori di un califfato islamico globale basato sulla Sharia. In Germania i servizi segreti stimano la presenza di più di 25 mila fanatici, di cui duemila potenziali attentatori. Numeri che non possono certo essere sottovalutati. 

Il secondo gruppo è costituito dalle masse di giovani disoccupati di seconda o terza generazione, i quali non riescono a integrarsi e affollano le periferie di città come Parigi, Berlino, Amsterdam, Londra, Copenaghen e Stoccolma. In Francia si contano più di 750 «Zus» (zone urbane sensibili), dove vivono circa 6 milioni di giovani totalmente privi di punti di riferimento. Non si identificano con la cultura della famiglia di origine e detestano quella del Paese in cui vivono. Questa sotto-classe di esclusi diventa bacino di reclutamento per il fondamentalismo […]

La quota di elettori della Ue che votano partiti con orientamenti islamofobi è oggi pari al 14%, il triplo rispetto al 5% di vent’anni fa e il doppio rispetto alla percentuale di popolazione musulmana residente in Europa. La situazione internazionale influisce su questa tendenza di crescita. […] Due anni fa un gruppo di generali francesi in pensione evocò l’opportunità di una guerra civile per difendere il modello francese dalla minaccia delle «orde islamiche» delle periferie. Macron ha avviato un foro di dialogo volto a promuovere un «Islam francese». Una buona idea, ma subito boicottata e infiltrata da agenti della Fratellanza Musulmana. […]

Califfato Italiah. Tommaso Cerno su L'Identità il 9 Dicembre 2023

Preparatevi all’Italiah, l’Italia sempre più araba, dove i soldi dei sultani e dei califfi si prenderanno case e aziende, alla faccia della democrazia, dell’uguaglianza, dei diritti e di tutta la tiritera sul patriarcato che ci hanno sciroppato dopo l’omicidio dell’ennesima donna italiana da parte di un fidanzato o di un ex. Siamo ormai l’Europa dell’ipocrisia. La stessa che sta soffocando le famiglie con caro energia, tassi che salgono, debito pubblico però spende i soldi dei cittadini per armare l’Ucraina di Zelensky in una guerra surreale che non interessa più a nessuno. Poi altri proclami di democrazia per Israele, altri ancora contro la Cina e via discorrendo. Questa la teoria. Poi però c’è la pratica. E la pratica ci dice che abbiamo fatto i mondiali in Qatar, con investimenti miliardari, facendo finta di non sapere che a pochi metri dallo stadio futuristico che stavamo costruendo c’erano i campi degli schiavi, facendo finta di non vedere che in quei Paesi i diritti delle persone non esistono. A far finta di non pensare che prima o poi tutta questa sequela di bugie sarebbe emersa chiaramente. Così come sarebbe stato ovvio che stavamo cedendo agli arabi gli asset dell’Occidente .

Insomma se l’Italia è patriarcale, e lo sarà anche come tutti i rimasugli dell’Occidente in declino ereditato dalla loro storia, spiegatemi se possiamo aprire un dibattito del genere mentre le grandi fabbriche radicalizzano islamisti con le donne in burka, i fondi sovrani dei califfati si comprano tutto, facciamo i Mondiali in Qatar e l’Expo a Riad. Un alieno, sempre che abbia ancora voglia di atterrare sul pianeta Terra, ci guarderebbe come si guardano certi pesci rossi negli acquari. Siamo alla vigilia della rifondazione di uno Stato etico, dove chi uccide una donna anziché essere messo all’ergastolo viene giustificato distribuendo la responsabilità con milioni di maschi perbene che hanno la colpa di essere in vita, ma poi gli stessi che promuovono questa nuova battaglia culturale per fornire al killer femminicida l’attenuante esimente di fare come fan tutti, chiamiamo integrazione la sfilata di violenza quotidiana sulle donne di comunità davvero patriarcale che, con la scusa di mandare avanti a costi più bassi una fabbrica, definiamo come nuovi cittadini. E mentre facciamo questo contribuiamo a costruire un impero economico pronto a entrare nel nostro quotidiano di continente in crisi facendoci scivolare addosso comportamenti che la nostra democrazia vieta nel nome dell’uguaglianza, confondendo il diritto con il sopruso. Abbiamo tutti i sintomi di un mondo in declino. E non ce ne rendiamo conto.

Islam, il pericolo Eurabia non è invenzione di Oriana. Cicisbeo su Il Tempo il 19 ottobre 2023

La manifestazione nazionale a difesa dei valori e delle libertà occidentali, dei diritti e della sicurezza organizzata il 4 novembre dalla Lega a Milano è una risposta forte e democratica agli ignobili cortei dei fiancheggiatori di Hamas. Era tempo che una forza politica chiamava gli italiani a scendere in piazza per dare una testimonianza di attacco e di difesa dei valori alla base della civiltà occidentale, e che specificasse che democrazia e tolleranza non significano soggiacere a ideologie che mettono in discussione le nostre stesse radici culturali. La nazionale a difesa dei Molto opportuna è stata anche la scelta del 4 novembre, dati simbolo manifestazione del sacrificio di centinaia di migliaia di soldati italiani nella Prima guerra mondiale ai quali, come nazione, dobbiamo moltissimo, anche se troppo spesso lo dimentichiamo. E ha fatto bene Salvini a specificare che la manifestazione sarà nel nome di Oriana Fallaci, che fu la prima a denunciare i pericoli dell'espansionismo islamico. 

Un brillante pensatore della sinistra à la carte ha definito «fallaciani da osteria» gli editorialisti di centrodestra che in questi giorni hanno richiamato la lezione di Oriana davanti al ritorno in grande stile di due cancri che avanzano sempre di pari passo: jihadismo e antisemitismo. Ebbene, da oggi entro anch'io in questa osteria, perché sto rileggendo «La rabbia e l'orgoglio» e c'è una frase che spiega davvero tutto: «Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente - oppure d'apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione) - non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all «Inverso. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione forse, (forse?), comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra Santa».

Una guerra che l'Europa ha finto per troppo tempo di non vedere, non capendo che insieme a quella di Israele è in gioco la nostra libertà, e che in Europa la strada dell'integrazione islamica è lunga e accidentata, se non impossibile: il pericolo «Eurabia» evocato da Oriana Fallaci è infatti tutt'altro che un'invenzione, perché in molte comunità islamiche, purtroppo, resta una diffusa base di consenso per il fondamentalismo, soprattutto nei giovani di seconda e terza generazione. Nel vano tentativo di riduzione del danno, le istituzioni comunitarie hanno continuato a finanziare Hamas, con fondi destinati al popolo palestinese e poi tradotti in armi, ea flirtare ancor più oscenamente con Hezbollah, il partito di Dio sciita che destabilizza da decenni il Libano e rappresenta una spina nel fianco per Israele. 

Basti ricordare che per inserire il suo braccio armato nella lista delle organizzazioni terroristiche, nel 2013, ci volle la presentazione di un dossier stracolmo di prove schiaccianti - per altro arcinote - sul coinvolgimento di Hezbollah in attentati contro contingenti militari stranieri e centri ebraici, lanci di missili , stragi, sequestri di aerei ed esecuzioni. La strisciante sudditanza al mondo islamico che si respira da sempre tra Bruxelles e Strasburgo, speculare all'ostilità per Israele, mise però in piedi un compromesso politico insostenibile, sollevando il partito politico di Hezbollah da ogni accusa di connivenza con la sua ala militare, una contraddizione in termini che il Parlamento europeo ha successivamente superato, ma solo in parte. La sottomissione culturale all'Islam è una deriva che viene da lontano in nome di quel relativismo contro cui si scagliò Oriana Fallaci (sì, ancora lei, si rassegni chi disprezza l'osteria...), che denunciò nei suoi ultimi anni di vita le debolezze dei governi e delle burocrazie continentali davanti all'avanzata dell'Islam radicale, tanto da svellere le radici giudaico-cristiane della Costituzione col rischio di trasformare l'Europa, appunto, in Eurabia.

Il Tribunale Islamico.

Pericoli per donne e figli con il "Tribunale islamico". Le insidie nascoste nella proposta della comunità religiosa: «Incompatibile con una società moderna». Alberto Giannoni il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.

Una giurisdizione islamica in Italia? Un pericolo. Preoccupa la proposta di un giudice speciale che decidere su matrimoni e diritto di famiglia, un’idea avanzata apertamente nei giorni scorsi, contenuta in un articolo pubblicato dal giornale «La Luce», che si presenta come uno dei più importanti organi di informazione dell’islam italiano. 

L’autore, il fondatore dell’Ucoii Hamza Piccardo, chiede pubblicamente «un registro nazionale dei matrimoni islamici», «l’iscrizione al quale - spiega - costituirebbe l’accettazione preventiva di una giurisdizione islamica in caso di controversia divorziale». E un altro articolo presenta come un «caso di scuola» quello delle corti islamiche inglesi, che proprio nelle decisioni su matrimoni e figli ha il cuore della sua attività L’idea di una giurisdizione islamica viene proposta come uno strumento attivabile dalle donne - perché gli uomini non hanno problemi - ma sarebbero proprio le donne a rischiare di più, se fosse introdotto un diritto di famiglia parallelo. Ne è convinta Maryan Ismail, musulmana, italo-somala, firmataria del «Patto per l’Islam italiano», che da anni come voce nel deserto un islam chiede un islam più moderno. «Si tratta di questioni concrete e importanti: i bambini, gli alimenti. 

Che necessità abbiamo di introdurre questo nel nostro ordinamento? Il divorzio nell’islam viene chiamato Talaq per l’uomo (che ripudia) e Khul per la donna, che invece rescinde il contratto restituendo la dote, più una quota aggiuntiva. Deve essere molto benestante per poterselo permettere». «Si metterebbe un cappio al collo delle donne - insiste - Molte immigrate già non lavorano, cosa farebbero se venisse meno anche la tutela di tribunale italiano? Inoltre non si capisce quale sharia sarebbe applicata. Quale scuola? Di quale Paese? E se il Paese d’origine dei due sposi sono diversi? E le seconde e terze generazioni, spesso con doppia cittadinanza, perché dovrebbero far riferimento a ordinamenti diversi dall’italiano?». 

Una giurisdizione parallela e un’estensione della sharia, intanto, viene vista come un rischio per molti.

«È un pericolo innanzitutto per le donne musulmane - osserva anche Davide Romano, degli Amici di Israele - si darebbe legittimazione a quei gruppi dell'islam che puntano alla separazione dalla società italiana. Dobbiamo invece fare l’opposto: per integrare l’islam italiano bisogna devono far proprie le nostre leggi egualitarie, non importare le loro qui».

Il centrodestra boccia la proposta. 

«Sono prove di sharia, sull’esempio di altri Paesi europei - sbotta Silvia Sardone della Lega- da bloccare assolutamente». Anche il senatore Gianluca Cantalamessa, capogruppo Lega in Antimafia, chiude: «Prima dei diritti si deve parlare di doveri e valori, a partire dalla condizione della donna, per noi vale per tutte le concezioni religiose che vogliono riconoscimento. Il governo a luglio ha convocato consiglio per l’islam per aprire un dialogo, ma partendo dal presupposto che devono essere riconosciuti i nostri valori e le nostre leggi». La Lega ha presentato le sue proposte sulle moschee, i sermoni in italiano e sul registro degli imam. «Ricordo - aggiunge - l’interrogazione del nostro presidente, Romeo sul Qatargate. Le moschee ricevono milioni di euro, ma spesso sono luoghi in cui si fa politica non religione».

E Giacomo Calovini, di Fdi esclude che ci sia «un’emergenza legata ai registri di nozze islamici». «L’Italia - dice - è una nazione che non discrimina nessuno». «Non si capisce per quale motivo si debba valutare dal punto di vista legislativo una via preferenziale per il mondo islamico». «Le comunità musulmane meritano tutto il nostro rispetto - aggiunge - ma mi permetto di pensare che debbano riuscire ad essere rappresentate da persone più autorevoli, che ci sono».

La Moneta.

Francobolli di Storia. La storia delle monete dell’Islam e quel versetto del Corano che guida la comunità. Riccardo Nencini su Il Riformista il 20 Agosto 2023 

A partire dal 622 d.c., la storia vira di colpo. Il profeta e i suoi seguaci si trasferiscono dalla Mecca a Medina e, subito dopo, ha inizio la conquista araba dell’intero bacino del Mediterraneo, dal Medio Oriente alla Spagna, dalla Siria al sud Italia. L’Islam si diffonde a macchia d’olio, in pochi anni si estende fino a occupare uno spazio geografico che il cristianesimo aveva evangelizzato in più secoli. La capitale dell’impero è Damasco: ricca, al centro di traffici imponenti, nonostante tutto una metropoli ancora cristiana. Moneta compresa. Le monete bizantine, infatti, che reggono gli scambi, riportano ancora l’effige di imperatori cristiani. Fino a quando, a dimostrare la stabilità del nuovo regime, viene adottato un diverso sistema monetario.

Tra il 696 e il 697 d.c., il califfo Malik fa coniare proprio a Damasco due monete d’oro, piccole, la dimensione di un centesimo, su una fa imprimere la sua immagine, l’altra è vuota di immagini, solo segni.

Si tratta della più antica rappresentazione di un musulmano arrivata fino a noi, non per caso attraverso una moneta aurea. Malik aveva capito che la forza dell’impero dipendeva dalla sua stabilità economica e, siccome la moneta passava di mano in mano toccando tutti i ceti sociali, il capo che vi era rappresentato poteva essere conosciuto dal suo popolo godendo così di un rafforzamento della sua autorità.

A questa prima considerazione se ne aggiunge una seconda. Appena coniata, la moneta scomparve. Fu sostituita da un’altra moneta in cui all’immagine del califfo subentrava una scritta, semplicemente una scritta. Mandare a memoria: da allora nessuna immagine umana verrà più rappresentata dall’arte islamica in luogo pubblico, una tradizione lunga mille anni.

Terza considerazione: la scritta che appare sulla moneta è un versetto del Corano: ‘Non c’è Dio tranne Dio solo…Maometto è il messaggero di Dio…’ Sul rovescio: ‘Dio è uno, Dio è eterno. Egli non genera né viene generato’.

Il significato è cristallino: non è il califfo, non è l’imperatore il potere che unifica e domina la società. È Dio, la parola di Dio.

Lo stato islamico sopravvive proprio grazie a quella parola trascinata da una lingua che, prima di Maometto, non esisteva come lingua scritta.

Inutile girarci intorno. Ancora oggi è vivo il desiderio di una comunità islamica guidata dalla sola parola di Dio, unificata prima ancora che da ragioni etniche o nazionali dalla religione.

Riccardo Nencini

Il Ramadan.

Ramadan, come funziona il mese del digiuno e chi lo osserva. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Iniziate le celebrazioni per 1,8 miliardi di musulmani. A funestarle, guerre, terremoti e anche la crisi economica

La speranza — fragile — è che sia, come dovrebbe essere, un mese di pace.

Inizia oggi il Ramadan il mese sacro del calendario lunare islamico dedicato alla preghiera e al digiuno durante le ore diurne.

A rispettarlo, 1,8 miliardi di fedeli nel mondo, quasi un quarto della popolazione mondiale. In sintesi: il Ramadan è il nono mese del calendario islamico che a differenza del calendario gregoriano segue i cicli lunari e non quelli solari. Questo significa che il Ramadan si verifica circa 11 giorni prima di ogni anno gregoriano.

L’inizio del Ramadan varia da paese a paese di circa un giorno, a seconda della luna nuova. L’avvio ufficiale del Ramadan è slittato di un giorno anche per i musulmani indiani. La data di inizio viene comunicata all’ultimo momento dalla sede dei santuari sacri di Mecca e Medina, l’Arabia Saudita, e dipende dall’avvistamento della luna nuova. Martedì scorso, il 21 marzo, le autorità saudite avevano cercato di individuare la luna crescente. Poiché non era visibile, quella stessa sera la corte suprema del regno ha stabilito che il mese di Shaban del calendario islamico, che precede il Ramadan, sarebbe terminato il giorno dopo e quindi di conseguenza che il Ramadan sarebbe iniziato oggi.

Il Ramadan è uno dei cinque pilastri dell’Islam e segna il mese in cui il Corano è stato rivelato per la prima volta al Profeta Maometto. In pratica si traduce in un mese di digiuno dall’alba al tramonto, la rinuncia al cibo e all’acqua, il fumo e l’attività sessuale, con l’obiettivo di purificarsi e pregare. Chi lo osserva consuma un pasto prima dell’alba, chiamato suhoor, e un secondo con amici e parenti dopo il tramonto, l’iftar. Ovviamente, essendo regolato da tramonto e alba, la durata del digiuno varia a seconda della posizione geografica. Durante queste ore i musulmani si concentreranno sulla preghiera e sulla lettura del Corano e sono incoraggiate l’elemosina e l’assistenza agli altri. È un periodo di riflessione, pazienza, autocontrollo e generosità che ha lo scopo di avvicinare i musulmani ad Allah. Il digiuno è obbligatorio dalla pubertà in poi, generalmente tra i 12 ei 14 anni, anche se alcune famiglie i bambini iniziano ad osservarlo a 10 anni. Sono esentati gli anziani, i malati, chi è in viaggio, le donne incinte o che stanno allattando. Anche durante il ciclo mestruale si può sospendere il digiuno, per poi completarlo in un secondo momento. Al termine del Ramadan si celebre l’Eid al-Fitr, letteralmente la «festa della rottura del digiuno». Durante la celebrazione i musulmani si augurano l’un l’altro Eid dicendo “Eid Mubarak” e spesso si riuniscono con la famiglia e gli amici per mangiare e pregare insieme.

Tra i quasi due miliardi di persone che celebrano il Ramadan, sono circa due milioni gli abitanti della Turchia sudorientale costretti a vivere questo mese lontano dalle loro case distrutte dal terribile terremoto dello scorso 6 febbraio, in tende o in altri rifugi. La maggior parte dei residenti, inoltre ha lasciato la regione per recarsi in zone della Turchia occidentale maggiormente sicure. Sono quasi 57mila le persone che hanno perso la vita in Siria e in Turchia a causa del sisma del 6 febbraio e a quasi 50 giorni di distanza molti dei sopravvissuti vivono ancora in tende con spazi ridotti e scarsità di cibo adeguato, acqua pulita, docce e servizi igienici.

Ma non c’è solo il terremoto. In numerosi Paesi e governi in tutto il Medio Oriente stanno compiendo passi per placare conflitti e crisi durature, resi più acuti dalla costosa guerra in Ucraina e dal devastante terremoto in Turchia e Siria che ha provocato oltre 52mila morti. Questa settimana i leader israeliani e palestinesi si sono impegnati a ridurre le tensioni in occasione dell’inizio del Ramadan, dopo mesi di violenze mortali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. E quest’anno il periodo di digiuno coincide con la festività ebraica della Pasqua ebraica, alimentando la preoccupazione di nuove tensioni mentre un gran numero di fedeli ebrei e musulmani dovrebbero riversarsi nella Città Vecchia di Gerusalemme. Dal Medio Oriente all’Africa. In Sudan, il Ramadan arriva mentre si avvicina la promessa di una nuova era politica: il Paese è immerso nel caos politico da quando, nell’ottobre 2021, un colpo di Stato ha estromesso un governo di condivisione del potere; un nuovo governo di transizione potrebbe essere formato prima della fine del mese sacro, come promesso dai militari al potere e da altre forze politiche del Paese all’inizio di questa settimana, tuttavia molte fazioni sudanesi di spicco rifiutano la mossa.

A rovinare le celebrazioni, oltre alle calamità naturali e la guerra anche la crisi economica. Da Gaza a Khartoum, da Tunisi a Sanaa, l’aumento dei prezzi si sta rivelando un’ulteriore preoccupazione per coloro che si apprestano a celebrare la ricorrenza: i Paesi arabi continuano a risentire delle conseguenze economiche della guerra in Ucraina e molti di essi dipendono dalle importazioni di grano dall’Europa orientale. E basta andare al mercato del Cairo per rendersene conto: in vendita lanterne e prodotti alimentari: soprattutto datteri e frutta secca, con cui i musulmani rompono il digiuno rituale alla fine della giornata. Quest’anno però gli egiziani sono alle prese con prezzi particolarmente alti, anche a causa della guerra in corso, che incide molto sul costo dei cereali, visto che il Paese compra l’85% del suo grano importato da Russia e Ucraina. Il tasso di inflazione annuale dell’Egitto è aumentato al 10% a febbraio dall’8% del mese precedente, secondo l’ufficio statistico statale. All’inizio del mese, la Banca centrale egiziana ha quindi alzato il suo tasso di interesse di riferimento per la prima volta dal 2017, citando le pressioni inflazionistiche innescate dalla pandemia di coronavirus e dalla guerra. La decisione però ha fatto perdere ulteriore terreno alla sterlina egiziana, rendendo più costose le importazioni. Circa un terzo degli oltre 103 milioni di egiziani, inoltre, vive al di sotto della soglia di povertà, secondo i dati ufficiali. Difficile però rinunciare alle compere tradizionali. I datteri sono un alimento essenziale nel Ramadan, perché i musulmani tradizionalmente rompono il digiuno proprio come fece il profeta Maometto circa 1.400 anni fa, con un sorso d’acqua e alcuni frutti dopo il calar del sole. Le lanterne colorate, invece, sono fondamentali per addobbare le tavole dell’Iftar, il pasto serale consumato dai credenti dopo il tramonto.

La Ribellione.

"Bruciare il Corano è legale". Lo schiaffo della Svezia a Erdogan. Tobias Billström, ministro degli Affari Esteri svedese, ha spiegato che Stoccolma non sostiene la distruzione col fuoco di scritture musulmane considerate sacre, ma che in Svezia esiste la libertà di espressione. L'ira della Turchia: "Crimine contro l'umanità". Federico Giuliani il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La Svezia ha preso le distanze dall'episodio avvenuto lo scorso sabato davanti all'ambasciata turca di Stoccolma, quando il politico di estrema destra svedese, Rasmus Paludan, ha dato fuoco a una copia del Corano. Il ministro degli Affari Esteri, Tobias Billstrom, ha tuttavia fatto presente che, dal punto di vista legale, all'interno del Paese un'azione del genere, ossia dare alle fiamme un libro sacro, in questo caso il Corano, è permessa. Il fatto ha generato l'ira della Turchia che, in seguito alla dimostrazione di Paludan, potrebbe ostacolare il negoziato relativo all'ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato.

La posizione della Svezia

Direttamente da Bruxelles, dove è in corso il consiglio degli Affari Esteri, Billstrom è stato chiaro: "Il governo svedese non sostiene in nessun modo la distruzione col fuoco di scritture considerate sacre". Allo stesso tempo, ha aggiunto il ministro, "in Svezia abbiamo la libertà di espressione" e quindi, legalmente parlando, "questo caso (bruciare il Corano ndr) è permesso". "Abbiamo però detto chiaramente che non prendiamo le parti di chi lo ha fatto", ha sottolineato Billstrom cercando di trovare un complicato equilibrio diplomatico in una situazione delicatissima.

Il riferimento, come anticipato, è alla provocazione messa in scena dal politico di estrema destra svedese Paludan, che ha dato fuoco a una copia del Corono davanti alla rappresentanza diplomatica turca a Stoccolma. Dopo aver ottenuto l'autorizzazione per una manifestazione, il leader del partito Stram Kurs ha dato alle fiamme il libro sacro per protestare contro il veto di Ankara all'ingresso nella Nato della Svezia.

La risposta della Turchia

"Bruciare il Corano è un crimine di odio e contro l'umanità. Nonostante tutti i nostri avvisi il fatto che sia stata permessa la manifestazione spiana la strada all'odio nei confronti dell'Islam. Attaccare valori sacri è un esempio di moderna barbarie, non di libertà", ha detto Ibrahim Kalin, portavoce e stretto consigliere del presidente Recep Tayyip Erdogan.

Non è da escludere che la vicenda possa avere serie conseguenze negative sul già problematico percorso di Stoccolma verso l'Alleanza Atlantica. Le autorità svedesi potevano bloccare la manifestazione ma hanno comunque deciso di autorizzarla in nome della libertà di espressione. Tra l'altro Paluden aveva annunciato che avrebbe bruciato il Corano dinanzi l'ambasciata turca mentre Ankara aveva chiesto ripetutamente di revocare il permesso.

Negoziato in salita

Come se non bastasse, il direttorato per gli Affari religiosi in Turchia (Diyanet) e altri Paesi islamici si stanno organizzando per portare dinanzi a organi di giustizia internazionali la Svezia. In base a quanto reso noto dal capo del Diyanet, Ali Erbas, la causa sarà fatta partire non solo dalla Turchia, ma da tutti i Paesi che si sono sentiti offesi non tanto dalla manifestazione di Paluden.

"Abbiamo intenzione di portare questo atto in tribunale, insieme ad altri 120 Paesi. Stiamo preparando una lettera da inviare a intellettuali europei e organizzando una riunione con i rappresentanti dell'Organizzazione dei Paesi Islamici. Dobbiamo mostrare una reazione al dilagare dell'islamofobia in Europa" ha detto Erbas.

Nel frattempo, ricordiamo che Erdogan non ha accettato di dare il via libera all'ingresso della Svezia nella Nato in cambio dei jet da guerra F-16 che Ankara attenderebbe nell'ambito di un accordo con la Casa Bianca. La proposta di fornire i caccia in cambio del semaforo verde alla Svezia, che Washington ha avanzato in maniera non ufficiale, non ha fin qui trovato il favore della Turchia, che non avrebbe aderito prima e a maggior ragione non accetterà ora. Dopo il Corano dato alle fiamme e dopo le manifestazioni curde avvenute nel Paese.

Le parole di Erdogan

La risposta di Erdogan nei confronti delle autorità svedesi non si è fatta attendere: "Chi insulta i valori sacri non si aspetti sostegno per entrare nella Nato".

"Dobbiamo soffermarci su questa manifestazione in Svezia durante la quale è stato addirittura bruciato un Corano. Qualcosa per cui si è tirato in ballo i diritti e le libertà personali. Se parliamo di diritti e libertà però nessuno può prendersi la libertà di molestare nè i musulmani nè i credenti di qualsiasi altra fede", ha tuonato il presidente turco.

Erdogan ha continuato nella sua replica: "Quello che è successo in Svezia è un insulto ai diritti e alle libertà personali sopratutto dei musulmani. Prendere posizione contro questo atto è un nostro dovere, come popolo e come nazione. Chi ha autorizzato questa scandalosa dimostrazione non si aspetti nessun tipo di sostegno per entrare nella Nato".

"Sappiano che hanno superato il limite disonorandoci con un colpo basso. Se davvero credono di essere rispettosi delle libertà allora rispettino la fede dei musulmani. Se non lo faranno non avranno mai il nostro sostegno ad entrare nella Nato", ha concluso il presidente turco al termine del consiglio dei ministri.

ISLAM: ROGO CORANO, MANIFESTANTI ASSALTANO AMBASCIATA SVEZIA A BAGHDAD (Adnkronos il 29 giugno 2023.) - Centinaia di persone hanno assaltato la sede dell'ambasciata svedese a Baghdad. Lo riportano i media satellitari arabi, sottolineando che si tratta di una protesta per la manifestazione che si è tenuta ieri a Stoccolma e durante la quale un rifugiato iracheno ha bruciato una copia del Corano. (Rak/Adnkronos)

ERDOGAN CONTRO SVEZIA, "MONUMENTI ARROGANZA OCCIDENTALE"

(AGI/AFP il 29 giugno 2023) - Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha reagito con molta forza alla decisione della Svezia di consentire a un manifestante, sabato, di bruciare un Corano dinanzi alla piu' grande moschea di Stoccolma, un evento che rischia di rendere ancora più complicate le 'chance' del paese nordico di entrare rapidamente nell'Alleanza Atlantica.

"Alla fine insegneremo ai monumenti occidentali di arroganza che insultare i musulmani non è libertà di pensiero", ha detto. La Turchia, ha aggiunto, reagirà "nel modo più forte fino a quando non verrà condotta una lotta decisa contro le organizzazioni terroristiche e i nemici dell'Islam". 

ARABIA SAUDITA, IL ROGO DEL CORANO FOMENTA L'ODIO

(ANSA il 29 giugno 2023) - Nel sottolineare che simili atti "istigano all'odio", il ministero degli Affari Esteri di Riad "esprime la ferma condanna e la denuncia del Regno dell'Arabia Saudita per l'atto di un estremista che ha bruciato una copia del Sacro Corano nella moschea centrale di Stoccolma, in Svezia, dopo la preghiera benedetta dell' Eid al-Adha": lo si afferma in un comunicato pubblicato su Twitter dal dicastero saudita. 

"Questi ripetuti atti di odio sono inaccettabili nonostante qualsiasi giustificazione, istigano chiaramente all'odio, all'esclusione e al razzismo e contraddicono direttamente gli sforzi internazionali per propagare i valori della tolleranza, della modernità e della lotta contro la radicalizzazione, oltre a ostacolare il necessario rispetto reciproco nelle relazioni tra popoli e Paesi", si limita ad aggiungere il testo.

SVEZIA: IL MAROCCO RICHIAMA L'AMBASCIATORE PER CONSULTAZIONI

(ANSA il 29 giugno 2023) - Il Marocco ha richiamato l'ambasciatore in Svezia per consultazioni, dopo il rogo del Corano a Stoccolma: lo ha reso noto il ministero degli Esteri, precisando di aver agito "sotto istruzioni urgenti del re del Marocco". 

Rabat ha fermamente condannato "l'attacco inaccettabile", avvenuto alla vigili della Festa del Sacrificio, tra le più importanti celebrazioni dell'Islam. Il governo svedese, si legge nel comunicato del Ministero degli Esteri, "ha autorizzato ancora una volta l'organizzazione di una manifestazione durante la quale una copia del nobile Corano è stata bruciata davanti a una moschea a Stoccolma". 

"Di fronte a queste ripetute provocazioni, commesse sotto gli occhi e con il consenso del governo svedese, l'incaricato d'affari di Svezia a Rabat è stato convocato oggi (mercoledì) dal ministero degli Affari esteri, per esprimere la ferma condanna del Regno del Marocco verso questo attacco e il suo rifiuto di questo atto inaccettabile". E prosegue: "Anche l'ambasciatore del re in Svezia, è stato convocato nel Regno per consultazioni a tempo indeterminato".

ROGO DEL CORANO: PROTESTE ANCHE DA EGITTO E ALTRI PAESI

(ANSA-AFP il 29 giugno 2023) - Proteste per il vilipendio del Corano in Svezia sono venute da autorità ed notevoli esponenti anche di Egitto, Kuwait, Siria, Libano, Emirati arabi uniti e Palestina. In particolare il Cairo, la capitale del più popoloso dei Paesi arabi, ha condannato quello che ha definito "un gesto vergognoso e una provocazione per i sentimenti dei musulmani" proprio nell'Eid al-Adha, la grande festa del sacrificio celebrata dai fedeli islamici di tutto il mondo.

Il Kuwait, un'altra monarchia del Golfo come l'Arabia Saudita, ha chiesto che gli autori di tali "atti ostili" siano assicurati alla giustizia e venga loro "impedito di usare il principio delle libertà (...) per giustificare l'ostilità contro l'Islam". In Siria, il governo ha "condannato con la massima fermezza l'atto vergognoso" commesso "da un estremista con il permesso (...) del governo svedese". 

A Beirut il potente movimento Hezbollah ha accusato le autorità svedesi di essere "complici del crimine" e ha chiesto a Stoccolma di porre fine a tali atti "invece di nascondersi dietro la libertà di espressione". L'organizzazione paramilitare islamista sciita ha invitato i Paesi musulmani e arabi a prendere "tutte le misure necessarie" per costringere la Svezia e altri Paesi a prevenire il ripetersi di tali incidenti e a fermare "la diffusione di una cultura dell'odio". 

Negli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, il principale consigliere del presidente, ha dichiarato sui social che "il mondo occidentale deve rendersi conto che il suo sistema di valori e le sue giustificazioni non possono essere imposte al mondo". Dal canto suo il ministero degli Esteri palestinese ha denunciato una "flagrante violazione dei (...) valori di tolleranza e accettazione degli altri".

AL-AZHAR RILANCIA IL BOICOTTAGGIO DEI PRODOTTI SVEDESI

(ANSA il 29 giugno 2023) - Al-Azhar, il più influente centro teologico e universitario dell'islam sunnita, reagendo al rogo del Corano in Svezia "rinnova l'appello al boicottaggio dei prodotti svedesi e invita i governi islamici a prendere posizioni serie e unitarie contro le violazioni" come quella perpetrata dando alle fiamme il Libro sacro dei musulmani. Lo si afferma sulla pagina Facebook dell'istituzione basata al Cairo.

Estratto dell’articolo di Irene Soave per “il Corriere della Sera” il 29 giugno 2023.

Un nome iracheno, ieri, ha monopolizzato i social in lingua turca: è quello di Salwan Sabah Matti Momika, trentasettenne di cui in poche ore sono stati resi pubblici nazionalità (irachena), residenza (a Stoccolma, ora è pubblico anche il suo indirizzo), status (richiedente asilo) e principali parentele. Ha ricevuto migliaia di minacce; una denuncia; e le autorità turche hanno subito accusato Stoccolma di essere «complice del suo gesto atroce». 

I video del «gesto atroce» sono online. Di fronte alla moschea di Medborgarplatsen, nel quartiere centrale di Sodermalm, a Stoccolma, ha bruciato una copia del Corano insieme a un complice, il cui nome però non è trapelato.

Prima di bruciarlo lo ha preso a calci e infilato fettine di pancetta tra le sue pagine — il maiale è l’animale più impuro per i musulmani. La data di ieri, simbolica, era inoltre il giorno principale dell’Eid al-Adha, una tra le festività più importanti della religione musulmana; quel che più conta, soprattutto nei rapporti già tesi tra la Svezia e la Turchia, è che la «manifestazione» messa in piedi da Momika è stata da lui regolarmente annunciata nei dettagli con l’anticipo necessario, e ha ottenuto il permesso delle autorità come ogni manifestazione autorizzata di dissenso.

Momika aveva detto di voler bruciare il Corano in pubblico perché il libro è «un pericolo per le leggi democratiche e per i valori svedesi e umani». La manifestazione era stata inizialmente vietata dalla polizia «per sicurezza», ma due settimane fa Momika aveva fatto e vinto un ricorso: i rischi per la sicurezza, così ha deciso il giudice, non sarebbero stati tali da «impedire il diritto di bruciare il Corano», ma semplicemente da prevedere più polizia a presidio della manifestazione; «rinforzo» che effettivamente è avvenuto. […]

ASSALTO ALL’AMBASCIATA SVEDESE A BAGHDAD DOPO IL ROGO DEL CORANO

(AGI/AFP il 29 giugno 2023) - Alcune decine di sostenitori del leader sciita iracheno Moqtada Sadr hanno fatto irruzione nell'ambasciata svedese a Baghdad dopo che ieri un uomo ha bruciato una copia del Corano a Stoccolma. I manifestanti, poche decine secondo un fotografo dell'agenzia AFP, sono rimasti circa un quarto d'ora nella rappresentanza diplomatica svedese e sono usciti con calma quando è arrivata la polizia. Il gruppo stava

partecipando a un corteo convocato da Moqtada Sadr, leader religioso musulmano sciita. 

Moqtada Sadr, ma anche il governo iracheno - di cui non fa parte - ha condannato fermamente l'azione di Salwan Momika, rifugiato iracheno in Svezia che ieri ha bruciato alcune pagine di una copia del Corano davanti alla più Grande Moschea di Stoccolma

durante un raduno autorizzato dalle autorità svedesi.

Il governo di Baghdad ha condannato questi atti che si verificano "ripetutamente" e sono compiuti da "menti malate ed estremiste". Il ministero degli Esteri ha denunciato "il permesso concesso dalle autorità svedesi a un estremista di bruciare una copia del Sacro Corano".

Durante la manifestazione davanti all'ambasciata svedese a Baghdad, i manifestanti hanno distribuito volantini su cui era scritto: "La nostra Costituzione è il Corano. Il nostro leader

Al-Sadr", in inglese e in arabo. I manifestanti hanno anche bruciato bandiere arcobaleno, simbolo della comunità LGBT+, rispondendo all'appello di Moqtada Sadr che ha visto in un Tweet "il modo migliore per provocare" chi sostiene o difende il fatto

Corano, l'ira di Erdogan. E in Irak scatta l'assalto all'ambasciata svedese. Ankara sull'ingresso di Stoccolma nella Nato. "No ai monumenti occidentali di arroganza". Gaia Cesare il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

Bandiere arcobaleno, simbolo della comunità Lgbt, bruciate a Baghdad, dove qualche centinaio di iracheni infuriati ha fatto irruzione nell'ambasciata svedese per la «manifestazione della collera» contro il rogo del Corano. Il leader sciita iracheno Al-Sadr, promotore della rivolta, lo ha definito «il modo migliore per provocare» chi sostiene l'offesa all'islam. «La nostra Costituzione è il Corano», gridavano gli assalitori, che hanno imbrattato il cancello dell'ambasciata svedese con un «Sì, sì Corano», per poi uscire all'arrivo della polizia.

Dopo la Turchia, tutto il mondo islamico si risveglia, all'unisono, scatenato contro il gesto di protesta avvenuto mercoledì a Stoccolma, per mano di un cittadino di origini irachene che vorrebbe la messa al bando del Libro sacro dell'islam. Dai talebani, all'Arabia saudita, dall'Iran alla Lega Araba. Fino a Egitto, Kuwait, Siria, Libano, Emirati Uniti e Palestina. Tutti indignati per il Corano dato alle fiamme davanti alla grande moschea di Stoccolma da Salwan Momika, iracheno in Svezia da 5 anni, protagonista di un atto che i Paesi a maggioranza musulmana considerano «vilipendio» al loro testo sacro e alla loro fede, ma che anche gli Stati Uniti hanno definito «legale ma inappropriato». Marocco e Giordania hanno ritirato il proprio ambasciatore in Svezia e Rabat ha anche convocato l'incaricato d'affari svedese nella capitale marocchina.

Si sentono toccati nel vivo anche i talebani e l'Arabia saudita, non proprio campioni di libertà religiosa, che condannano «nei termini più forti» il rogo e il «totale disprezzo delle autorità svedesi per questa nobile religione». Per Riad il rogo «fomenta l'odio». Alza la voce la Lega Araba: l'episodio è «un'aggressione al cuore della nostra fede musulmana». E la Libia, tramite il presidente dell'Alto Consiglio di Stato: «La Svezia ci provoca». Al-Azhar, il più influente centro teologico dell'islam sunnita, «rinnova l'appello al boicottaggio dei prodotti svedesi e l'invito ai governi islamici a prendere posizioni serie e unitarie contro le violazioni» durante l'Eid al-Adha, una delle celebrazioni più importanti per i musulmani.

La voce più influente a farsi megafono dello sconcerto del mondo islamico, anche in questo secondo giorno di protesta è quella del presidente turco Recep Tayyp Erdogan, leader cruciale per la Nato, di cui la Turchia è membro, e leader fondamentale in questo momento per la Svezia, che attende il suo via libera per aderire all'Alleanza e finire sotto l'ombrello di protezione militare occidentale. Erdogan torna a farne una questione di blocchi. Parla di «monumenti occidentali di arroganza». E tuona: «Insegneremo a quei monumenti che insultare i musulmani non è libertà di pensiero». Poi la promessa diretta a Stoccolma: la Turchia reagirà «nel modo più forte fino a quando non verrà condotta una lotta decisa contro le organizzazioni terroristiche e i nemici dell'islam».

La vendetta è un piatto che può essere servito anche caldo. I vertici diplomatici dei due Paesi si incontreranno al quartier generale della Nato giovedì prossimo, per i colloqui sull'adesione in vista del vertice dell'11 e 12 luglio. Ma le prospettive si sono fatte più fosche per Stoccolma, con cui Erdogan si è già messo di traverso perché ha dato rifugio ai curdi del Pkk. «Coloro che commettono questo crimine e coloro che lo permettono con la scusa della libertà di opinione, coloro che tollerano questo atto spregevole, non potranno realizzare le loro ambizioni», ha minacciato Erdogan, che considera Stoccolma responsabile dell'incidente, per averlo autorizzato.

Il rogo del Corano ha risvegliato nel «Sultano» l'orgoglio di essere il leader che meglio può parlare chiaro dell'islam all'Occidente, ma soprattutto che può fare pressione diplomatica in questo momento delicatissimo per gli equilibri internazionali. Regista dell'islamizzazione della Turchia, Erdogan usa l'episodio furbescamente. Il suo voto alla Nato è fondamentale. E ieri ad aiutarlo sarebbe arrivata l'Ungheria, il Paese europeo più vicino a Putin, che ieri ha sottolineato come il rogo sia «un crimine in Russia, a differenza di altri Paesi». Budapest, secondo i media locali, avrebbe posticipato il voto sulla ratifica dell'adesione della Svezia alla sessione d'autunno. I tempi si allungano. E la nuova crisi fra Occidente e mondo islamico mette nelle mani di Erdogan e dei leader vicini a Mosca nuove carte.

Da Charlie Hebdo a Rushdie: critiche e violenze. Storia di Gaia Cesare su Il Giornale il 29 giugno 2023.

Charlie Hebdo è il nome che tutti ricordano. L'irriverenza delle vignette del settimanale francese, che aveva deciso non solo di rappresentare Maometto, ma anche di sbeffeggiarlo, fu all'origine della strage del 2015 nella redazione di Parigi. Allora si disse, dopo 20 morti: la libertà di espressione prima di tutto. «Siamo tutti Charlie». Undici anni prima - era il 2004 - il mondo ha assistito all'uccisione del regista olandese Theo van Gogh, colpito per un film in cui denunciava la violenza sulle donne nel mondo islamico.

Esercitare il diritto di critica dell'islam, anche in maniera irriverente, è parte delle fondamenta delle nostre libere democrazie. Ma chiunque tocchi l'islam, anche se non si spinge a gesti estremi come quello compiuto a Stoccolma dal manifestante di origini irachene che ha bruciato il Corano, ormai da diversi anni, deve mettere quanto meno in conto le proteste, a volte estreme, del mondo islamico, per non parlare dei rischi personali alla propria incolumità per mano di estremisti armati.

Nel 2012 toccò al presidente Barack Obama fare i conti con le manifestazioni violente. E ad accendere la scintilla anche allora era stato il film «L'innocenza dei musulmani». Dopo settimane di proteste, arrivò l'attacco terroristico al Consolato Usa di Bengasi, in Libia, circostanza in cui venne ucciso l'ambasciatore americano Chris Stevens. L'assalto fu molto probabilmente coordinato e pianificato senza una reale correlazione con quelle proteste, ma le rivolte con le bandiere occidentali calpestate e bruciate, per via della rabbia contro un film, accesero una scintilla che fece comodo ai terroristi, dando loro un contesto caotico e anti-occidentale ideale in cui muoversi.

Dall'attacco alle Torri Gemelle, le critiche contro l'islam si sono fatte più numerose, tanto da aver generato l'accusa di islamofobia. Hanno spesso generato casi eclatanti ed estremi, come quello di Salman Rushdie, colpito dalla fatwa dell'ayatollah Khomeini per il suo romanzo «I versi satanici», che secondo l'ayatollah insultava l'islam e il suo Profeta. A distanza di 34 anni da quella condanna a morte, Rushdie l'anno scorso ha subìto un attentato, ha perso la vista da un occhio e l'uso di una mano. E la paura è sempre quella: fino a che punto si può criticare l'islam senza scatenare la violenza del mondo islamico?

La Propaganda.

Così le moschee in Italia aiutano a contrastare il terrorismo. Nel nostro Paese molte indagini contro il radicalismo nascono da “fonti confidenziali”: sono i responsabili dei luoghi di culto che avvertono la polizia. Il buon livello di collaborazione con le forze dell'ordine e le istituzioni fa parlare gli studiosi di "modello italiano". Ma la destra li criminalizza. Paolo Biondani su L'Espresso il 6 Novembre 2023

L'allarme terrorismo torna a trasformarsi in emergenza: come si può contenere un rischio di scala internazionale che sembra incontrollabile? Come si contrasta la violenza jihadista? Dagli studiosi più esperti arrivano risposte ragionate che descrivono una specie di modello italiano, che influenza anche le indagini delle forze di polizia. È l’opposto dello scontro di civiltà. Si basa su rispetto, collaborazione, dialogo. Se ne trova conferma in molte delle inchieste più importanti degli ultimi anni, che hanno smantellato reti di reclutamento di combattenti, evitato attentati, isolato e allontanato predicatori di odio. Contro il terrorismo jihadista, dicono queste indagini, i nostri più preziosi alleati sono i musulmani normali, le decine di migliaia di famiglie che vivono in pace nel nostro Paese, vanno a pregare nelle moschee, fanno parte di una comunità islamica, conoscono chi la frequenta. Gran parte delle segnalazioni sono arrivate da qui, soprattutto dalle moschee più grandi, ufficiali, con il minareto e tutte le autorizzazioni. Ma negli atti giudiziari resta scritto solo «fonte confidenziale». 

«È molto importante evidenziare questo aspetto, che di solito non è considerato», spiega un importante dirigente della polizia che ha guidato numerose inchieste sul terrorismo jihadista. «È sbagliato parlare di soffiate o di confidenti: non si tratta di denunce anonime. Ci sono interessi comuni, c’è una condivisione dei problemi che favorisce la collaborazione: i responsabili di molte moschee sono persone intelligenti e sanno che il terrorismo è una tragedia per tutti, per la polizia italiana e per la comunità musulmana». 

All’origine delle «fonti confidenziali» ci sono familiari o amici del giovane radicalizzato, che sta subendo su Internet «il lavaggio del cervello» o è già partito per una «guerra santa». Sono preoccupati e addolorati, ne parlano con altri, la notizia arriva alla moschea e, se l’allarme è serio, l’imam trova il modo di avvisare la questura o i carabinieri.  

Uno dei casi che hanno più impressionato magistrati e poliziotti ha avuto per protagonista un papà musulmano che vive e lavora in Lombardia da più di trent’anni. È un tradizionalista, con una visione religiosa integralista, ed è addirittura un reduce: negli anni Novanta era andato a combattere in Bosnia «per difendere la popolazione musulmana dai massacri serbi». Un bel giorno, va in un commissariato e denuncia suo figlio. È partito per la Siria, è andato in guerra con un gruppo islamista che lui stesso considera terroristico. Il padre è distrutto: ha capito che l’unica speranza è farlo arrestare e riportare a casa dalla polizia italiana. Finisce male: il figlio muore in battaglia, al papà arriva solo un video straziante della sua agonia. Ma l’indagine va avanti e blocca la rete di reclutamento. 

Un’altra inchiesta nata in questi anni da una comunità islamica riguarda una ventina di jihadisti che stanno spostando la guerra civile siriana tra Milano e Roma: organizzano agguati e pestaggi contro musulmani disarmati e siriani di fede cristiana. Le vittime, terrorizzate, ne parlano con altre famiglie, che frequentano una delle maggiori moschee lombarde. A denunciare i capi della rete jihadista è un delegato dell’imam. La solita «fonte confidenziale». 

Nel periodo peggiore, quando l’Isis spadroneggia in Siria e Iraq, un giovane radicalizzato su Internet si presenta in viale Jenner, a Milano, nella moschea più contestata dalla destra. Vuole andare a combattere e chiede complicità, convinto anche lui che lì dentro siano terroristi. L’imam, egiziano, è un rappresentante dei Fratelli musulmani, la storica organizzazione integralista che è salita al potere in nazioni come Qatar e Turchia. L’ultrà dell’Isis viene sbattuto fuori dalla moschea. Quindi l’imam chiama la polizia e lo denuncia. 

«In Italia, a differenza di altre nazioni, c’è un buon livello di collaborazione delle leadership islamiche con le istituzioni e le forze di polizia», osserva il professor Stefano Allievi dell’Università di Padova. «Il caso italiano viene studiato all’estero. In Paesi come Francia, Belgio, Gran Bretagna ci sono comunità musulmane, anzi interi quartieri chiusi a riccio: con le forze di sicurezza non si parla. Le loro indagini sono monopolizzate dai servizi segreti, che dipendono dai governi. E gli studi mostrano che nelle inchieste condizionate dalla politica aumentano errori e falsi allarmi». 

Allievi insegna sociologia e ha diretto il primo censimento di tutte le moschee in Italia. «In questi anni – spiega – i problemi di sicurezza hanno riguardato soprattutto i centri islamici più piccoli e incontrollabili, ricavati in garage e sedi di fortuna. Alcune comunità, nel Nordest, hanno subito l’influsso di imam itineranti provenienti dai Balcani. Ma i dati sul reclutamento confermano che la distorsione jihadista è rimasta isolata: in Italia i foreign fighters si contano a decine, in Belgio a centinaia, in Francia e Inghilterra a migliaia». 

Lo studioso francese Olivier Roy ha descritto la «nascita di un jihadista» come un fenomeno tipico della seconda generazione: giovani nati in Europa che si sentono esclusi, traditi dall’Occidente. «I più sono paragonabili ai convertiti», chiarisce Allievi: «Hanno un passato tutt’altro che religioso, subiscono l’ideologia jihadista come rivolta generazionale, rabbia sociale. La rete di relazioni conta più della religione. Lo confermano anche i casi italiani, da Giuliano Delnevo a Maria Giulia Sergio». Oggi il grande problema sono i canali di propaganda: il Web, ma anche il carcere. La sicurezza totale non esiste: qualunque esaltato può fare la sua jihad, basta un coltello o un’auto. Ma per scoprire le organizzazioni terroristiche più strutturate, in grado di causare eccidi enormi, è fondamentale l’aiuto delle moschee, di tutti i pacifici musulmani d’Italia.

Avanzata dei Fratelli musulmani in Europa, arriva un libro inchiesta: ecco come ci conquistano. Mia Fenice su Il Secolo d’Italia il 21 gennaio 2023.

Un libro apre il dibattito in Francia sulla strategia dei Fratelli musulmani per islamizzare l’Occidente. Firmato dall’antropologa Florence Bergeaud-Blackler, il volume, edito da Odile Jacob, si intitola: Le frérisme et ses réseaux. L’enquête. Tradotto in italiano significa La fratellanza e le sue reti. L’inchiesta. Il quotidiano Le Figaro ha pubblicato alcuni estratti in esclusiva del libro che parla della strategia di questa formazione che punterebbe a sottomettere il mondo occidentale. In Italia, La Verità è tornata sull’argomento con un articolo dal titolo Per il Fratelli musulmani l’Europa è il cavallo di Troia dell’Occidente.

Fratelli musulmani, un libro denuncia la strategia di islamizzazione

Come riporta il quotidiano diretto da Belpietro, le tappe di questo piano sono contenute nella strategia dell’Isesco, l’Organizzazione islamica per l’educazione, le scienze e la cultura. Sul finire degli anni Ottanta, l’Isesco ha pubblicato questa strategia in Qatar. «Uno dei primi punti messi in chiaro dalla strategia pubblicata dall’Isesco, citata dal libro di Bergeaud-Blackler, è che i musulmani non sono “assimilabili” alle società europee». Gli autori della nota anonima pubblicata in Qatar si lamentano anche di «certi problemi che soffrono i figli di immigrati nei Paesi occidentali» che sarebbero dovuti a «programmi scolastici destinati ai musulmani e agli occidentali in modo eguale e che hanno un carattere essenzialmente laico».

I Fratelli musulmani si lamentano dei programmi scolastici

In sostanza, scrive il quotidiano, i Fratelli musulmani «si lamentano proprio di quella laicità della quale, soprattutto in Francia, i partiti di sinistra si riempiono la bocca, ma che rinnegano quando si tratta di impedire le infiltrazioni islamiste». Gli esempi non mancano. Uno per tutti: nel 2022 il sindaco ecologista Éric Piolle di Grenoble aveva autorizzato i burkini nelle piscine pubbliche. Nel libro si parla anche della filiale di Bruxelles della Open society foundation del miliardario americano George Soros. La Bergeaud-Blackler ricorda gli studi sul «problema musulmano» finanziati dalla fondazione e volti a far diventare più «inclusive» le politiche Ue.

Abu Muhammad al-Adnani, il propagandista dello Stato Islamico. Emanuel Pietrobon il 21 Gennaio 2023 su Inside Over.

La propaganda è l’elemento essenziale di ogni governo. Dove governo non ha connotazione politica, ma identifica l’organo di potere di una qualunque organizzazione: stati, imprese – nel loro caso è pubblicità –, religioni – nel loro caso è mera diffusione della verità rivelata.

La propaganda può orientare, (dis)informare, affascinare, confondere, attrarre proseliti. La propaganda può condurre all’odio o all’amore, a seconda dell’obiettivo di colui che ne fa utilizzo.

L’internazionale del terrorismo islamista, sin dall’epoca di Al-Qāʿida, ha popolarizzato e globalizzato la propria causa attraverso la produzione di contenuti accattivanti, talvolta scioccanti, intuendo le potenzialità di Internet già nei primi anni Novanta. Ma è stato il Daesh, o Stato Islamico, a portare la propaganda jihadista a livelli cinematografici e a farne un poderoso strumento di reclutamento.

Scrivere della propaganda del Daesh non è possibile senza fare tirare in ballo Abū Muḥammad al-ʿAdnānī, al secolo Ṭāhā Ṣubḥī Falāḥa, colui che durante la prima metà degli anni Dieci riuscì a rendere “cool” l’organizzazione terroristica presso ampie platee di giovani musulmani disadattati, arrabbiati e dimenticati delle periferie occidentali.

La vita prima del Daesh

Abū Muḥammad al-ʿAdnānī, nome di guerra di Ṭāhā Ṣubḥī Falāḥa, nacque a Binniš, nel governatorato siriano di Idlib, nel 1977. Dei suoi primi vent’anni di vita è dato sapere poco, tanto che di lui continua persino a mancare una data di nascita corredata di giorno e mese.

I tentativi di ricostruzione biografica del fu influencer del Daesh, uno dei quali a firma del suo commilitone Turki al-Binali, parlano di al-ʿAdnānī come di un uomo cresciuto in una famiglia modesta, ultimo di sei figli, allevato sin dalla tenera età alla pratica dell’Islam e dal temperamento vulcanico.

Indisciplinato a scuola, che avrebbe abbandonato molto presto, al-ʿAdnānī sarebbe diventato particolarmente pio e zelante dopo la morte di un caro amico a causa di un incidente automobilistico. Lo zelo, per motivi mai chiariti, avrebbe spianato la strada alla radicalizzazione. Forse su spinta di qualche imam radicale. O forse un classico caso di autoradicalizzazione.

Nel 1998, appena ventunenne, la scomparsa improvvisa. Al-ʿAdnānī si allontana dalla natia Binniš, senza informare la famiglia sulle proprie intenzioni, per aderire alla nascente militanza islamista mediorientale. Si farà vivo anni dopo, nel 2003, nelle vesti di combattente leale al secondo terrorista più pericoloso dell’epoca: Abū Mus‘ab al-Zarqāwī.

Il propagandista di al-Baghdadi

Al-ʿAdnānī ricompare sulla scena negli anni della progressiva trasformazione di Jama’at al-Tawhid wal Jihad nello Stato Islamico, avvenuta in concomitanza con la discesa dell’Iraq nella guerra civile (e interreligiosa) nel dopo-invasione americana, ed è un uomo profondamente cambiato.

Fedelissimo di al-Zarqāwī, col quale ha prima operato in Siria e che poi ha seguito in Iraq, al-ʿAdnānī è il cavallo sul quale punta il futuro Stato Islamico. Ha dimostrato di essere impavido partecipando in prima linea alla seconda battaglia di Falluja, ferocemente combattuta tra la coalizione dei volenterosi e Al-Qa’ida in Iraq nel 2004. E ha tanta voglia di imparare, perciò gli viene affiancato un chierico di origini palestinesi, Abu Anas al-Shami, al quale viene dato l’incarico di formare colui che è destinato a diventare uno dei capi del Daesh.

Arrestato dalla coalizione internazionale nel 2005, alla quale fornisce un alias (Yasser Khalaf Hussein Nazal al-Rawi), al-ʿAdnānī viene trasferito a Camp Bucca, carcere gestito dall’esercito statunitense, dove fa la conoscenza di Abu Bakr al-Baghdadi. Tra i due si formerà un legame che soltanto la morte sarà in grado di spezzare. Rivedrà la libertà soltanto cinque anni dopo, nel 2010, non dimentico delle promesse ricevute da, e fatte a, al-Baghdadi.

Abū Mus‘ab al-Zarqāwī, il (vero) padre del Daesh

Il mago delle bombe dell’Isis

Come si diventa un jihadista

Il Medio Oriente del 2010 è molto diverso da quello che al-ʿAdnānī si è lasciato dietro nel 2005. L’Iraq è un pantano all’interno nel quale va espandendosi l’Iran. La Siria è in fibrillazione. Le primavere arabe stanno sconvolgendo ordini politici decennali. Il Daesh, ora guidato da al-Baghdadi, è pronto a cogliere orazianamente l’attimo.

Dell’organizzazione terroristica che vuole farsi Stato, dando compimento al proprio nome, al-ʿAdnānī viene nominato capo del suo servizio di intelligence e titolare degli organismi di propaganda. È colui che dà indicazioni agli addetti della divisione media su come confezionare i video propagandistici, come quello dello sconvolgente rogo del pilota giordano Muʿādh al-Kasāsbeh. È colui che scrive i libri di testo sui quali vengono formati i combattenti e che indottrinano chi vive nei territori del Daesh. Ed è, soprattutto, l’oratore del Daesh.

Se al-ʿAdnānī non fosse esistito, il Daesh avrebbe dovuto inventarlo. Perché fu quest’uomo, prodigio dell’oratoria, a scrivere i più importanti discorsi propagandistici dell’organizzazione. Discorsi pubblicizzati in più lingue, dall’inglese al russo, che giocarono un ruolo chiave nel rapire decine di migliaia di giovani musulmani di tutto il mondo, persuadendoli a recarsi nel Siraq per arruolarsi nello Stato Islamico. Discorsi rimasti nella storia della propaganda jihadista, che, sicuramente, i suoi posteri studieranno e copieranno.

Al-ʿAdnānī fu l’autore di oltre venti discorsi propagandistici tra il 2012 e il 2016, il più importante dei quali era e resta “In verità, il tuo Signore è sempre vigile“, pubblicato il 22 settembre 2014, che viene considerato il precursore della stagione di terrorismo che di lì a poco avrebbe travolto l’Europa, in particolare la Francia. Un invito ad attaccare gli occidentali nelle loro dimore, con qualunque arma, che in molti raccolsero.

La morte

Ritenuto ampiamente da ricercatori e scienziati sociali come colui che ha reso “cool” il jihadismo, facilitandone l’ingresso nelle subculture giovanili e musicali di diversi paesi occidentali, al-ʿAdnānī è in cima alle kill list di Stati Uniti e Russia nel 2016. I suoi discorsi sono pericolosi, perché ogniqualvolta parla qualcuno agisce. Il suo genio è fondamentale per al-Baghdadi, che ha aiutato a trasformare il Daesh nell’organizzazione terroristica più rivoluzionaria della storia del jihadismo. Dev’essere fermato a ogni costo.

La sua corsa finisce nell’agosto 2016, nei pressi di Aleppo, forse ad al-Bab. Ignota, ancora oggi, la paternità del raid che lo ha eliminato, giacché l’hanno rivendicata sia Mosca sia Washington e la verità non è mai emersa. Al-ʿAdnānī era un obiettivo troppo importante per i russi perché lo reclamassero gli americani, e viceversa.

L’eredità materiale e immateriale di al-ʿAdnānī è rimasta, sopravvivendogli e sopravvivendo al Daesh. I suoi libri formativi, da tempo, sono entrati ufficialmente nell’armamentario di Al-Qāʿida. I suoi discorsi continuano a risuonare nei circoli jihadisti. E tutto ciò che lo riguarda, dai libri ai discorsi, prospera e si propaga in Asia centrale, dall’Uzbekistan all’Afghanistan, dove il Daesh si è spostato dopo aver perduto il Medio Oriente e da dove spera, forse, un giorno, di ripartire alla conquista del mondo.

La genuflessione.

Antonio Giangrande: Dialogo con un mussulmano in Italia.

«Perché tu sei così radicale?

Perché non abiti in Arabia Saudita???

Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?

Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.

Emigrate per la libertà …

per la giustizia …

per il benessere …

per l’assistenza sanitaria ..

per la tutela sociale …

per l’uguaglianza davanti alla legge …

per le giuste opportunità di lavoro …

per il futuro dei vostri figli …

per la libertà di espressione ..

quindi non parlate con noi con odio e razzismo ..

Noi vi abbiamo dato quello che non avete …

Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».

Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.

Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.

Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!

Alexandre Del Valle: “È stato un errore fatale lasciare i musulmani d’Europa agli islamisti”. Redazione su L'Identità il 29 Novembre 2023 di SOUAD SBAI

Qual è la sua opinione sull’incremento dell’islamizzazione radicale in Europa e quali potrebbero essere i rischi associati?

Se definiamo l’islamizzazione radicale in Europa come la fanatizzazione dei musulmani qui presenti, che sono sempre meno integrati e sempre più controllati da leader integralisti, paesi islamici anti-occidentali o anti-democratici, o ideologicamente ostili, e organizzazioni panislamiche teocratiche sovversive, si tratta di una vera bomba ad orologeria. I problemi sono i seguenti, su diversi piani e scale: primo, il controllo sovversivo delle comunità islamiche e delle reti di moschee e centri islamici da parte di paesi e organizzazioni internazionali panislamiche proseliti crea un’ingerenza pericolosa a livello geopolitico. Secondo, questa crescente fanatizzazione dei musulmani d’Europa crea una frattura gravissima e compromette il ‘vivere insieme’ e l’armonia nazionale, divide la nazione, e fa nascere all’interno di essa una quinta colonna strumentalizzata da forze straniere e internazionali sovversive. Terzo, un musulmano che segue l’imam o l’ideologo islamista, che gli chiede di non integrarsi e di combattere o rifiutare i valori laici e liberali delle nostre società, visti come ‘perversi, islamofobi, razzisti, anti-musulmani, xenofobi, blasfemi, coloniali, ecc.’, è un potenziale jihadista perché la strategia dei ‘taglia lingue’, come dice Magdi Allam, consiste nel ‘paranoizzare’ e ‘vittimizzare’ i musulmani e nella demonizzazione della società occidentale nella quale vivono, quindi incita a separarsi volontariamente dalla nazione e a combatterla, ciò che può sfociare logicamente nel jihadismo dei ‘taglia gole’. Quarto, è grave lasciare i nostri concittadini o connazionali di confessione islamica nelle mani degli oscurantisti perché è una forma di disprezzo e di razzismo inconscio pensare che l’illuminismo, la razionalità o la laicità valgano solo per gli occidentali giudeo-cristiani e non per quelli che provengono dal mondo islamico.

Qual è la responsabilità dei nostri dirigenti?

È totale e gravissima, e ne stiamo già pagando le conseguenze. Questo giudizio è inappellabile. Max Weber parlava di ‘etica di responsabilità’ che bilancia ‘l’etica di convinzione’. Facilitando l’islamismo radicale in Europa, i nostri leader hanno tradito le loro convinzioni democratico-liberali ed sono stati totalmente irresponsabili. Ne ho parlato con Sarkozy in Francia, che fece l’errore di affidare l’islam ufficiale francese (CFCM) ai Fratelli Musulmani, l’equivalente dei vostri UCOII, e nel 2001 con Andreotti, nel suo ufficio del Senato e nella Fondazione De Gasperi, anni dopo che lui aveva appoggiato la costruzione a Roma di una delle più grandi moschee d’Europa, appoggiata e finanziata dai paesi del Golfo con una visione oscurantista e totalitaria dell’Islam. Quando gli dissi che la nostra-vostra apertura all’islam saudita salafita intollerante non sarebbe mai stata ripagata con un’apertura per i cristiani nel mondo islamico, lui mi rispose ‘Sì, lo so, ma da loro la reciprocità non è prevista né concepibile’. Allora gli dissi: se lo sa, perché accettare l’assenza di reciprocità? Tutti gli altri dirigenti occidentali legati ai paesi del Golfo, che non ritengono fondamentale difendere l’identità occidentale giudeo-cristiana perché ragionano solo in termini economici o sostituiscono la nostra identità con i valori astratti del multiculturalismo e della ‘globalizzazione felice’, hanno abbandonato la ‘politica di civiltà’ e ci hanno reso vulnerabili ai nemici esterni ed interni della nostra civiltà. In Italia, adesso, i Fratelli Musulmani non smettono di criticare la cosiddetta ‘islamofobia’ delle istituzioni italiane ed europee, come si è visto di recente in Italia quando i Fratelli Musulmani dell’UCOII (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) hanno diffuso nei giornali e sui social un ‘appello alle Reti Mediaset’ con lo slogan ‘Basta discriminazioni’. Chi conosce l’antisemitismo strutturale dei Fratelli Musulmani, dei loro testi di riferimento (Youssef al Qardaoui, Said Ramadan) e la loro paternità nel creare il jihadismo moderno (Said Qutb) e anche Al Qaïda (Abdullah Azzam) e il Hamas (Cheikh Yassine), senza dimenticare la loro alleanza storica prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale con i nazisti tedeschi in Egitto, Siria o nei Balcani (Gran Mufti di Gerusalemme), rimane scandalizzato dall’audacia di questi fanatici e il loro doppio viso. Il loro vittimismo è una strategia per strumentalizzare l’antirazzismo e sedurre la sinistra antirazzista e terzomondista affinché il loro antisemitismo antisraeliano e il loro oscurantismo siano nascosti dietro la retorica multiculturalista. Da ciò nasce la contraddizione dei nostri dirigenti che combattono l’intolleranza, il razzismo, il nazifascismo dell’uomo bianco, ma mai il totalitarismo e il razzismo altrettanto pericoloso ma più esteso dell’homo islamicus. Spiega anche il fatto che i veri ultimi fascisti-nazisti-razzialisti europei sono spesso convertiti all’islam radicale con finalità antisemite. Ho spiegato tutto questo nei miei saggi ‘Rossi Neri Verdi’ (Lindau) e ‘Il Complesso Occidentale’ (Paesi editore).

Ritiene che ci stiamo avvicinando a uno shock globale?

Per il mio ultimo saggio francese, presto tradotto in Italia, ho scelto insieme al mio co-autore, l’ex presidente della Sorbonne, Jacques Soppelsa, il titolo provocatorio ‘Verso lo shock globale?’, con il sottotitolo ‘La globalizzazione pericolosa’, perché volevamo evidenziare i lati oscuri della mondializzazione e svegliare gli Europei che vivono (dalla caduta del muro di Berlino) nell’illusione che la pace fosse eterna sui nostri territori e la guerra limitata ai paesi poveri del Sud. Si credeva che si potesse fare la guerra agli altri per esportare i nostri valori democratici liberali (ex-Jugoslavia, Iraq, Libia, ecc.), e poi continuare a sfruttare le risorse dell’Africa e produrre a bassi costi in India o in Cina senza mai subire il boomerang e senza che il ‘resto del mondo’, detto ‘multipolare’, si ribellasse. Si credeva che la NATO potesse estendersi come l’UE sempre più a est e anche installare missili o anti-missili e basi NATO nei Balcani e ai confini della Russia senza mai entrare in conflitto con essa. Il saggio mostra i lati negativi e gli aspetti pericolosi della globalizzazione promossa dall’Occidente anglosassone, che, in funzione anti-sovranista e anti-identità, è stata promossa dall’Occidente con una lettura cosmopolitica, mentre l’ex-terzo mondo cinese, indiano e altri paesi emergenti ‘multipolaristi’ (Indonesia, Malesia, Turchia, Egitto, Brasile, Arabia Saudita, Qatar, ecc.) concepiscono e sfruttano la globalizzazione come un’arma di conquista non per aderire al cosmopolitismo anti-identità e anti-sovranista come noi, ma anzi per aumentare la loro potenza nazionalista, quindi in funzione identitaria e a volte neo-imperiale. Nei 14 capitoli tematici, affrontiamo le tensioni tra Turchia e Grecia-Cipro, la guerra Russia-Ucraina, la guerra Azerbaigian-Armenia e tanti conflitti in Africa. Poi, è facile osservare che la minaccia dell’islamismo radicale non è scomparsa, anzi, è aumentata sia nel mondo che nelle nostre società aperte a tutti e senza controlli. Analizziamo la nuova guerra fredda tra Cina-Russia e Occidente, la sfida degli emergenti contro l’Occidente e l’odio crescente verso di lui proveniente da quasi tutte le altre civiltà; la divisione interna degli Europei e l’estensione pericolosa alle porte della Russia; l’ascesa scientifica dei non-occidentali con il rischio di declassazione dell’Occidente; senza dimenticare il nostro suicidio demografico, la crisi economica dei debiti; la contro-globalizzazione in corso, il ritorno della Realpolitik e dell’uso della forza per continuare o rimpiazzare il multilateralismo e la diplomazia, e quindi l’ascesa delle potenze revisioniste che vogliono distruggere l’ordine e lo statu quo internazionali concepiti dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale e del post-Guerra Fredda. È anche fonte di ansia osservare la proliferazione nucleare e degli armamenti balistici e convenzionali, e poi il collasso generale dei trattati di disarmo.

Quali errori ritiene siano stati commessi in questo contesto?

L’errore fondamentale è stato quello di non controllare i flussi migratori, di non tentare di integrare gli immigrati extra-comunitari, di lasciare e affidare i musulmani d’Europa alle potenze islamiche nemiche o sovversive, di estendere la NATO e l’UE senza limiti sempre più a est con il rischio inevitabile e scontato di dover affrontare la reazione russa aggressiva. Poi, l’errore è stato vivere nell’illusione di una mondializzazione necessariamente pacifica, quindi di rinunciare agli armamenti e affidare la nostra difesa collettiva alla NATO, che però non difende gli interessi della maggioranza degli Europei ma quelli nord-americani ed anglosassoni. Siamo stati ingenui ma anche incoerenti: l’allargamento dell’Unione Europea non può che impedire la sua coerenza, il suo approfondimento e aumentare la dominazione atlantico-americana. A livello globale, invece di difendere i nostri valori nelle nostre democrazie e nei quartieri di immigrati abbandonati ai radicali, abbiamo voluto con le guerre ingiuste e illegali in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2011 imporre questi valori a civiltà che non ne volevano, e abbiamo mentito associando i nobili valori dei diritti umani e della democrazia a queste guerre che hanno causato un milione di morti in Iraq e hanno destabilizzato totalmente il Nord Africa e il Sahel, e poi alimentato l’immigrazione illegale incontrollata nel Mediterraneo, grazie alla quale le reti di schiavitù moderna, i traffici illegali criminali e il terrorismo jihadista arrivano da noi.

Quali azioni ritiene dovrebbero essere intraprese immediatamente?

Ritengo che si debba esigere dalla Turchia, dal Qatar, dal Kuwait, dalla Lega Islamica Mondiale Saudita, dall’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI) e dai paesi partner musulmani di non interferire più nei nostri affari interni e di non fanatizzare i nostri cittadini musulmani col falso pretesto della lotta all’‘islamofobia’. Questa ingerenza è illegale, inaccettabile e pericolosa in termini di mancata integrazione, di sovversione e di sicurezza. A livello globale, dobbiamo difendere i nostri interessi con un atteggiamento di non-allineamento, rifiutando di seguire il proselitismo guerriero americano e non mescolando più diplomazia e morale, e quindi concentrandoci sui nostri interessi come fanno i concorrenti e partner del mondo multipolare. Allo stesso tempo, se ci asteniamo dall’immischiarci negli affari altrui, abbiamo il diritto e il dovere di difendere la nostra civiltà e le nostre radici perché nessuna civiltà e nessuno stato può sopravvivere e soddisfare il proprio popolo se non propone un senso, un progetto identitario, un progetto civilizzatore. Per questo motivo ho recentemente pubblicato in Italia un saggio contro il senso di colpa: ‘Il Complesso Occidentale, Piccolo Trattato di Decolonizzazione’, da Paesi Editore, che dimostra il carattere suicida e controproducente del senso di colpa perché una nazione sarà sempre meno rispettata dagli altri se dà un’immagine negativa di sé stessa.

Dal patriarcato all’Expo verso Riyad, Magdi Allam: “L’Islam ha già conquistato l’Occidente”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 27 Novembre 2023

“Il vero femminicidio e il vero patriarcato che ha già conquistato l’Occidente è quello islamico”. A dirlo il giornalista e saggista Magdi Allam.

Dopo il mondiale in Qatar, l’Expo 2030 pare andrà a Riyad. L’islam si sta prendendo l’Occidente?

Al livello più alto, la grande finanza ha già fatto investimenti cospicui. Basti pensare all’acquisto dei grattacieli a Milano o delle grandi squadre di calcio. Al livello basso, invece, la sostituzione demografica, la proliferazione di moschee, scuole coraniche o entità dedite a promuovere la codificazione del reato penale di islamofobia (divieto assoluto di criticare e ancor di più di condannare l’islam come religione) avanzano incessantemente.

A chi si riferisce?

Ai taglia-lingua, a chi riesce a imporci dentro casa nostra di non essere noi stessi. Churchill definì Chamberlain, che nel 1938 consentì a Hitler di annettere la regione dei Sudeti in Ceclosovacchia, persona conciliante che nutre il coccodrillo con la speranza di essere mangiato per ultimo. Stiamo commettendo il medesimo errore.

Che idea si è fatto rispetto a casi come Monfalcone, dove un’eccessiva integrazione diventa emergenza…

È il caso emblematico di quando si accetta lo straniero senza chiedergli di rispettare le regole su cui si fonda la civile convivenza, e senza sanzionare chi le disattende. A Monfalcone giovani del Bangladesh sono stati chiamati da Fincantieri per colmare il vuoto di manodopera nei cantieri navali. Si è dimenticato, però, che queste persone finito il lavoro non scompaiono. Quei ragazzi, in grado di dormire anche in venti in una stanza, con turni per dormire, prima o poi, avrebbero rivendicato quanto gli viene inculcato dall’islam. Ecco perché una volta essersi ricongiunti con le famiglie, considerando che in Italia basta un’unità alloggiativa e un reddito per richiamarla, hanno avviato più di una semplice islamizzazione. Il centro di Monfalcone oggi è off-limits, interdetto agli italiani.

È un qualcosa di isolato?

Assolutamente no! Lo stesso avviene a Porta Palazzo a Torino, nel quartiere di Centocelle o a Piazza Vittorio a Roma. L’errore è solo nostro.

Perché?

Avremmo dovuto richiedere a questi stranieri di conoscere le regole su cui si fonda la civile convivenza, di rispettare la sacralità della vita, la pari dignità tra uomo e donna. Conquiste millenarie, invece, sono state perse in qualche decennio.

Mentre in Italia si parla di patriarcato per un femminicidio, una cultura non certamente matriarcale si è già presa il nostro mondo…

L’idea del patriarcato in Italia si scontra con la realtà. Negli anni 50 e 60 venivamo dipinti come terra di latin lover, in cui avvenenti ragazze del nord Europa venivano per avere avventure amorose. Oggi succede il contrario. Anche signore di una certa età scappano sull’altra sponda del Mediterraneo o in Sud America per cercare compagnia. In Italia anche la figura del padre famiglia è stata abolita. Quando succedono liti in famiglia, nel 90% dei casi, soprattutto se ci sono figli, la ragione viene data alla donna. Il patriarcato, invece, è ben radicato nell’islam, che ha già conquistato l’Occidente e concepisce la donna come un essere antropologicamente inferiore: la sua testimonianza vale la metà di quella di un uomo; eredita la metà di ciò che spetta a un maschio, viene riconosciuta la poligamia (si possono sposare fino a quattro mogli in contemporanea, senza contare le schiave). Stiamo rischiando di accreditare una realtà incompatibile alla nostra.

Senza immigrati, però, intere regioni saranno deserte, considerando che a queste latitudini si fanno sempre meno figli…

È sbagliato colmare il vuoto demografico facendo entrare in Italia giovanotti in età fertile e prevalentemente islamici. Stiamo parlando di persone che non solo non conoscono la nostra lingua, ma disprezzano la nostra civiltà e vogliono imporci la loro religione come unico e indiscusso sistema di potere. Rischiamo di abbandonare i nostri figli alla prospettiva della schiavitù dell’islam. Le nostre donne saranno asservite a un sistema maschilista e misogino.

Diversi Paesi arabi, intanto, ci chiedono di superare le barriere, togliendo addirittura Schengen…

Dobbiamo salvaguardare l’interesse supremo dell’Italia come Patria. Non possiamo continuare a essere condizionati dall’egoismo di Francia, Germania e altri, che invocando il trattato di Dublino, ci obbligano ad accollarci gran parte dei clandestini, con la scusa del primo approdo. Occorre ribellarsi subito!

"Era di destra". In Francia l'ultra-sinistra oltraggia il 16enne ucciso. Storia di Marco Leardi su Il Giornale lunedì 27 novembre 2023

Accoltellato al torace e morto mentre un'auto lo stava portando in ospedale. Thomas, il 16enne francese ucciso a seguito del raid "anti-bianchi" avvenuto nei giorni scorsi a Crépol, è stato oltraggiato due volte. Prima dagli autori di quella terribile spedizione punitiva, poi dagli estremisti di sinistra che faticano a esprimere cordoglio. E anzi, arrivano in alcuni casi a giustificare quanto accaduto. In Francia il terribile episodio ha alimentato un forte dibattito che sta ha assunto una forte connotazione politica: la destra transalpina ha infatti evidenziato come l'azione omicidiaria sia stata perpetrata nelle banlieue, luogo simbolo delle problematiche causate da un'immigrazione senza regole e da una mancata integrazione.

Tutti o quasi gli assalitori provenivano da quel contesto: a rivelare i loro nomi è stato l'esponente del partito sovranista Reconquête, Damien Rie. In particolare, l'attenzione dell'opinione pubblica si è concentrata nelle ultime ore sul ventunenne principale indiziato per l'omicidio di Thomas: Chaïd Akabli, pregiudicato di origini magrebine (come i suoi compagni d'assalto) arrestato in un piccolo hotel di Tolosa mentre progettava una fuga in Spagna. Nel Paese transalpino, tuttavia, l'indignazione per quel raid si sta scontrando con una non troppo tacita reazione contraria e raccapricciante, manifestatasi sui social.

Il sito Fdsouche.com ha infatti pubblicato i messaggi di alcuni utenti che in rete si rallegrano per la morte di Thomas, dal momento che il 16enne su TikTok condivideva pubblicazioni patriottiche o riconducibili alle idee della destra francese. Il ragazzo rilanciava anche interventi televisivi di Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national. Tanto è bastato ad annullare qualsiasi sentimento di pietas nei suoi confronti da parte di certi frequentatori dei social con simpatie progressiste.

Leoni da tastiera o semplici troll, obietterà qualcuno. Peccato però che simili e riprovevoli atteggiamenti si siano ripetuti anche fuori dalla dimensione virtuale e in particolare a Sciences Po Paris, università ultra-chic nonché prestigioso vivaio di rampolli di area socialista. Il movimento studentesco Uni, vicino alla destra, aveva affisso nell'istituto accademico alcuni manifesti in ricordo di Thomas, innocente "vittima della selvatichezza e del lassismo". Come documentato sui social da alcuni video, tuttavia, alcuni militanti della sinistra universitaria hanno strappato quei manifesti dai muri, sfregiando così la memoria del 16enne accoltellato e ucciso a Crépol. "La sinistra ha strappato e buttato via i manifesti in meno di un'ora. Per loro, solo la feccia merita omaggio", ha denunciato il movimento Uni.

E nel Paese d'oltralpe le polemiche stanno travolgendo anche i rappresentanti politici di sinistra, a cominciare da Jean-Luc Mélenchon. Questi ultimi, infatti, invece di porre l'attenzione su quanto accaduto e sul raid "anti-bianchi" stanno puntando il dito contro la destra per alcune manifestazioni avvenute nelle ultime ore in reazione ai drammatici fatti di Crépol.

Omicidio Thomas, in Francia bruciano le piazze: “Ucciso da musulmani a Crépol perché bianco ed europeo” Redazione su Il Riformista il 28 Novembre 2023

Una settimana dopo l’uccisione del sedicenne Thomas pugnalato a una festa a Crepol, un piccolo comune francese nel dipartimento della Drone, nove sospetti attualmente in stato di fermo compariranno al tribunale di Valenza.

Lo riferisce ‘Le Figaro’. Thomas è stato ucciso nella notte tra sabato 18 e domenica 19 novembre in occasione di un raid di ragazzi di quartieri difficili provenienti da un comune nei pressi di Crepol. Sette sospettati sono stati fermati dalle forze dell’ordine a Tolosa mentre altri due sono stati arrestati nei pressi di Crepol.

Tre sospetti sono minori con un età superiore ai 16 anni mentre gli altri sei sono maggiorenni. Il sospetto principale Chaid ha 20 anni ma smentisce di essere il responsabile della morte di Thomas.

Oggi studenti romani, dall’Augusto al Visconti, si sono mossi in solidarietà alle mobilitazioni francesi che in questi giorni hanno riempito le strade per chiedere giustizia per la morte di Thomas, 16 anni, il liceale ucciso una settimana fa alla fine di una festa di paese.

La nota del blocco Studentesco e la solidarietà per Thomas

“Così come difendiamo l’identità di tutti i popoli presso di loro – spiega il Blocco Studentesco in una nota – ci ribelliamo al contempo contro il crimine che mira al rimpiazzo delle nostre popolazioni per mano di una classe dirigente progressista, di destra e di sinistra, asservita alle peggiori logiche di sfruttamento capitalistico”.

Basta parlare di blocchi navali ed espulsioni

“È ora di smetterla di parlare di blocchi navali ed espulsioni: quello che ci vuole è un piano di reimmigrazione di concerto con i paesi di provenienza e un intervento sociale europeo sulle fasce di popolazione rimaste impoverite dalla globalizzazione. Solo così potremo eliminare ansie e terrore che ormai da decenni attanagliano i popoli d’Europa”.

Francia: Darmanin chiede mobilitazione su violenze ultradestra

Il ministro francese dell’Interno, Gérald Darmanin, si appella ai prefetti e ai responsabili delle forze dell’ordine affinché si mobilitino per prevenire ogni forma di raduno che possa sfociare in azioni violente, in particolare, da parte di gruppi dell’ultradestra.

In una nota diffusa dopo i raduni violenti di componenti della destra radicale lo scorso fine settimana a Romans-sur-Isère – una forma di ‘rappreseglia’ dopo l’uccisione del giovane Thomas durante una festa popolare a Crépol – Darmanin invita polizia e gendarmi a “rimanere pienamente mobilitati per prevenire ogni forma di raduno o manifestazione non dichiarata che punti a perpetrare azioni violente contro persone e beni”.

In piazza militanti di estrema destra

Sabato, un centinaio di militanti della destra radicale provenienti da diverse città della Francia hanno sfilato, incappucciati, per le strade di Romas-sur-Isère con l’obiettivo di “battersi” con i giovani del quartiere La Monnaie, da cui provengono diversi giovani indagati nell’inchiesta legata all’uccisione di Thomas. I facinorosi hanno inscenato botte e tafferugli anche con le forze dell’ordine.

La notte dell’omicidio a Crépol

Thomas è stato brutalmente ucciso durante una maxirissa, scoppiata nella notte tra sabato e domenica scorsa. Una scena mai vista, un assalto con i coltelli, i machete, le mannaie, contro la sala da ballo di un paesino di 500 abitanti, Crépol, fra Lione e Grenoble.

Dentro c’era quasi tutto il paese, fuori 10 persone che hanno tentato di entrare e hanno scatenato il finimondo: Thomas, ragazzino del liceo locale, è rimasto ucciso da una coltellata al petto. Due giovani sono ancora in prognosi riservata, altri 15 sono stati feriti.

Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa. Andrea Soglio su Panorama il 22 Novembre 2023

Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa È durata poche ore la vicenda del giovane vittima dell'assalto razzista di un gruppo di nordafricani a Crépol. Ed anche sull'ultimo tentato stupro a Milano si tace sulla provenienza dell'aggressore 14 ore. È quanto è durata sui siti di informazione italiani la vicenda di Crépol, piccolo villaggio francese dove due sere fa una banda di ragazzi ha organizzato quella che (lo hanno gridato loro stessi) è stata una vera e propria «caccia al bianco». Gli aggressori identificati sono tutti nordafricani di origine e provenienti da quelle che ormai abbiamo imparato anche noi a conoscere con il termine francese di «banlieu», quei quartieri ghetto di periferia trasformati dagli immigrati in continuazione dei loro paesi di origine. Con tanti saluti all’idea di integrazione. L’aggressione a colpi di coltello e machete è costata la vita ad un ragazzo, bianco, di 16 anni; si chiamava Thomas, amava il rugby e stava partecipando con altri ragazzi ad una festa di paese. Ma il colore della sua pelle ne he fatto un bersaglio per chi cercava il sangue della sua razza. Il Ministro dell’Interno francese, Darmanin, quello che diverse volte ci ha fatto la morale sull’accoglienza dei migranti, dicendo che il governo di destra di Giorgia Meloni era tendenzialmente razzista ed incapace di gestire la situazione, ieri ha commentato l’aggressione razzista ed omicida di Crépol ammettendo che «È il fallimento generale della nostra società». Ripetiamo: fallimento generale della nostra società. Certo, non è accaduto in Italia, anche se Crépol dista un’ora di macchina dal confine con il Piemonte, ma davanti ad un’aggressione così violenta, razzista e crudele ci saremmo aspettati dalla stampa nostrana e dagli opinionisti un po’ più di attenzione. Invece nulla. Dopo i primi lanci, qualche taglio alto sugli online dalla tarda mattinata di oggi la notizia dall’ora di pranzo è sparita dai radar. È invece ben visibile la news della violenza sessuale subita da una ragazza in pieno centro a Milano, nella centralissima Piazza della Scala. Vi invitiamo a leggerla un po’ dappertutto. Troverete la dinamica raccontata in 20 o 30 righe. Si parla tanto del fatto che a salvarla sia stato il famoso gesto delle mani con cui in codice si chiede aiuto in caso di stupro. In tutti gli articoli della vittima ci dicono subito essere una «bergamasca»; l’autore, poi arrestato, dell’aggressione viene invece presentato come «giovane», poi «ragazzo», ma anche «l’arrestato», e persino la «persona». Poi, solo nell’ultimo capoverso alcuni, non tutti, aggiungono che si tratta di un nordafricano, senza documenti. Insomma, un clandestino extracomunitario. Crépol non c’entra nulla con Milan ad eccezione del fatto che i responsabili di un omicidio e di un tentato stupro (dopo le molestie che, quelle si, la ragazza le ha subite prima di riuscire a chiedere ed avere aiuto) sono extracomunitari e che la cosa viene o fatta sparire in fretta o tenuta nascosta. Certo, perché non bisogna soffiare sulla brace dei razzisti, sempre pronta a riaccendersi. Non bisogna raccontare cose che confermino le loro preoccupazioni. Bisogna quindi nascondere o cancellare. Ma se fosse stato il contrario? Mettiamo il caso che a Crépol ad armarsi, colpire ed uccidere fossero stati dei francesi «bianchi» al grido di «a morte i neri»… cosa sarebbe successo? La notizia sarebbe scomparsa dai radar in poche ore? No, proprio no. Avremmo visto il via alla solita litania del «clima d’odio causato dalla destra», della «cultura salviniana razzista» etc etc etc. D’altronde Lilli Gruber ci ha raccontato due giorni fa che tutto è colpa del governo Meloni e della destra, persino il femminicidio di Giulia. La morte, la violenza non fanno distinguo. Thomas merita la stessa attenzione di Giulia Cecchettin. Per la giovane da 72 ore il paese si sta interrogando, discutendo, dividendo sulle ragioni sociali e culturali di questo femminicidio. Forse dovremmo trovare modo di ragionare senza vergogna su quello che non molto lontano da noi è il «fallimento generale della nostra società (dell’accoglienza e dell’inclusione indiscriminata, aggiungiamo noi). Invece no. Si nascondono le cose, certe cose, sotto la sabbia, senza vergogna.

Fuori dal Coro, Magdi Allam: "Rischiamo di essere sottomessi all'islam". Libero Quotidiano il 16 novembre 2023

"Rischiamo di essere sottomessi all'Islam". A dirlo è Magdi Allam che, nella puntata di mercoledì 15 novembre di Fuori dal Coro, sale sul pulpito e lancia un preoccupante allarme. Giornalista e saggista egiziano, Allam spiega nello studio di Rete 4 i motivi per cui l'islam potrà piegarci. Prima di tutto per "il tracollo demografico", poi perché "siamo una civiltà decaduta" e infine perché "le nostre istituzioni sono inadeguate nel fronteggiare la minaccia". 

Un allarme non nuovo quello lanciato dal politico naturalizzato italiano. Già a Quarta Repubblica, Allam ha sollevato la polemica. Tutta colpa delle sue tesi sull'immigrazione, da lui definita "una strategia deliberata dalla finanza internazionale che porta a una islamizzazione". L'obiettivo? "Creare un meticciato senza identità". Inutile dire che le sue parole hanno creato non poco scompiglio in studio. Ma Allam non ha arretrato di un centimetro: "Dopo la sentenza di Catania agli immigrati conviene arrivare senza documenti in Italia. Questo è l'unico Paese al mondo dove si può entrare senza documenti".  

Per Magdi Cristiano Allam "chiunque venga in Italia deve rispettare le nostre leggi e adempiere alle nostre regole". Un esempio? "Il velo che copre il corpo della donna è offensivo per la dignità, perché si fonda sulla presunzione che il corpo della donna sia peccaminoso e vada coperto. Dobbiamo rifiutare questo concetto e chiarire a chi sceglie" di vivere in Italia che "la pari dignità tra uomo e donna non può essere messa in discussione e che la libertà di scelta è un valore irrinunciabile". 

La vignetta rimossa dal Washington Post: l’autocensura sull’Islam dell’America vittima delle ideologie. Federico Rampini su Il Corriere della Sera sabato 11 novembre 2023.

Una parte dei giornalisti americani abbandona i principi della deontologia, vuole prendere una posizione dividendo il mondo tra buoni e cattivi

L’America ha la massima tutela della libertà di espressione, il Primo emendamento. La sua protezione si ferma davanti a Hamas ? Il Quarto potere esercitò un compito di vigilanza sui leader. Il Washington Post ebbe un ruolo nella caduta del presidente Nixon per lo scandalo Watergate. Oggi il Post batte in ritirata quando si tratta di fustigare il terrorismo islamico?

I dubbi nascono dalla vignetta che il quotidiano — di proprietà di Jeff Bezos (Amazon) — ha deciso di non pubblicare, dove un terrorista di Hamas si è legato al corpo donne e bambini, scudi umani. Si può discutere sulla qualità del disegno, sui tratti del jihadista. Ma questa discussione non è avvenuta.

La redazione del Post è insorta, soprattutto i giovani, e i vertici hanno fatto marcia indietro, spaventati dalla rivolta interna. Il Post è un giornale progressista, ha fatto battaglie contro Trump. Sul Medio Oriente cerca un delicato equilibrio: difende il diritto all’esistenza di Israele; condanna l’antisemitismo; dà massima visibilità alle vittime civili fra i palestinesi e sostiene il loro diritto ad avere uno Stato. Tutto ciò non basta per una parte della redazione.

Quando Trump era presidente il Post si lanciò nel «giornalismo resistenziale»: addio alle sfumature. Ora una parte di giornalisti americani abbandona i principi antichi della deontologia, vogliono che i media prendano posizione, che dipingano un mondo diviso tra buoni e cattivi. Israele e l’Occidente sono l’impero del male; gli altri sono vittime. La vicenda della vignetta si situa in questo contesto, le redazioni sono soggette ai diktat della parte militante. È il parallelo con quel che accade nelle università.

L’autocensura sui crimini compiuti in nome dell’Islam (che si estende alla cultura e allo spettacolo) è frutto di uno slittamento percepibile da tempo. Qualche aneddoto «leggero» per ricostruirlo. Per molti anni a Broadway ha fatto il tutto esaurito il musical «The Book of Mormon», satira beffarda dei mormoni, che hanno accettato di esserne lo zimbello. Nessuno ha mai osato proporre a Broadway una satira sul fondamentalismo islamico. Lì il Primo emendamento non vale.

Barack Obama durante la sua ultima campagna elettorale, in una cena per la raccolta di fondi con alcuni miliardari di San Francisco, ebbe parole sprezzanti verso gli elettori della destra: «Questi bianchi pieni di amarezza e risentimento si aggrappano alle loro birre, ai loro fucili, alla loro Bibbia». Non si è autocensurato nel dileggiare dei bianchi cristiani. Mai avrebbe osato pronunciare parole simili su chi «si aggrappa al Corano». È questo il clima da anni, i giovani redattori del Post sono cresciuti in questa America ideologizzata.

A rendere ossessiva la difesa dei musulmani, è intervenuta la saldatura tra gli estremisti afroamericani e i filo-palestinesi. Per il movimento ultrà Black Lives Matter, neri e palestinesi sono vittime della stessa oppressione dell’uomo bianco. L’America rivive gli anni Sessanta, che nel mondo giovanile furono segnati da un’egemonia dell’estremismo. Allora però le redazioni dei giornali rappresentavano l’establishment moderato-conservatore, ancorché illuminato e attento verso la contestazione.

Mezzo secolo dopo il cerchio si è chiuso: l’establishment dei miliardari digitali come Jeff Bezos, Larry Page (Google) e Mark Zuckerberg (Meta-Facebook) sostiene il politicamente corretto; l’accademia è in mano a un corpo docente molto schierato oppure impaurito dalla pressione degli studenti; nelle redazioni sono avvenute purghe di moderati. La censura di una vignetta è troppo normale per fare scandalo.

L'islamo-gauche decapita gli intellettuali "contro". Sei anni sotto scorta per minacce di morte jihadiste e un curriculum eccezionale di arabista e specialista di islam e questioni mediorientali non sono bastati a Gilles Kepel.  Roberto Fabbri il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.

Sei anni sotto scorta per minacce di morte jihadiste e un curriculum eccezionale di arabista e specialista di islam e questioni mediorientali non sono bastati a Gilles Kepel: l'Ecole Normale Superieure ha cancellato il suo corso universitario e l'ha rimpiazzato con un «master di decolonizzazione». È l'ultima, triste vittoria della «islamo-gauche» in Francia, l'ultimo scalpo di un intellettuale non allineato che può vantare la nuova religione «woke». Nel suo nuovo libro Profeta in patria, in uscita nel suo Paese, l'accademico prende atto con ironica amarezza che «la confusione tra giornalismo e proselitismo» lo ha consegnato «alla nebulosa islamo-gauchista».

In un'intervista al Foglio, Kepel spiega che il suo caso non è tanto rilevante in quanto personale («Sono un professore senza cattedra: pazienza») ma come spia del dilagare anche in Francia il Paese della difesa a spada tratta del laicismo di Stato e che in diversi Paesi africani è entrato nel mirino di «decolonizzatori» pronti a consegnarsi, mani e piedi legati, a russi e cinesi, imperialisti del XXI secolo di una subdola alleanza tra l'estrema sinistra politica e l'estremismo islamico. L'accademico esprime indignazione per il complice silenzio dei suoi colleghi davanti alle minacce di morte verso di lui («e sono gli stessi sempre pronti a denunciare l'islamofobia, a fare del burkini l'orizzonte insuperabile della felicità del musulmano, a pretendere l'uso di una scrittura inclusiva»), ma ormai ci si è abituato. Denuncia però la pericolosità dell'intreccio tra l'estrema sinistra francese (la France Insoumise di Melenchon e i Verdi) e gli «islamisti pseudorivoluzionari».

La denuncia di Kepel è chiarissima e la sua validità valica i confini della Francia: i nemici dei nostri valori sono altrettanto attivi anche in Italia sugli stessi temi e inseguono simili alleanze. L'obiettivo è sostituire alla obsoleta rivoluzione proletaria un confronto identitario, creando all'interno delle società occidentali isole di rifiuto delle leggi in cui pretendere l'applicazione della sharia (la legge islamica) da cui far partire il separatismo interno, ovvero la nuova rivoluzione.

Per questo Melenchon si oppone, con tanto di ricorso al Consiglio di Stato, alla legge che vieta l'uso nelle scuole dell'abaya (la lunga tunica scura islamica che trasforma le donne in fantasmi senza corpo): punta ai voti delle masse musulmane radicalizzate delle banlieue.

Figure non allineate come Gilles Kepel, l'abbiamo visto, non solo non ottengono la solidarietà dei loro colleghi, ma vengono abbandonate agli strali verbali di chi processa la nostra storia («islamofobo», «bianco, maschio e vecchio») e una volta isolate con campagne ostili martellanti diventano bersagli perfetti degli assassini dell'estremismo islamico. Un capitolo inquietante di quel «suicidio occidentale» che va sotto il nome ambiguo di «politicamente corretto», e che altro non è che il ritorno dalla finestra in forma aggiornata di certe follie ideologiche della sinistra marxista che la Storia si era incaricata di far uscire dalla porta principale.

Fa cadere le braccia, in tal senso, il silenzio assordante delle autorità francesi e dello stesso Emmanuel Macron. Assediato nel fortino della «laicité» proprio come il suo ambasciatore a Niamey, capitale di quel Niger dove la folla esecra il neocolonialismo francese mentre il nuovo satrapo si consegna a un campione delle libertà come Vladimir Putin.

"Bruciare il Corano non è reato". Ira Erdogan sulla Svezia. Storia di Francesco De Palo su Il Giornale il 5 aprile 2023.

Da un lato la Corte suprema svedese annulla la decisione della polizia di vietare di bruciare il Corano, dall'altro l'intelligence di Stoccolma sventa un potenziale attentato di matrice jihadista. Nel giorno dell'ingresso ufficiale della Finlandia della Nato è questo l'humus che si respira a latitudini già ultrasensibili, per via del loro essere periferia nord-orientale dell'Europa, a maggior ragione dopo la guerra in Ucraina.

La magistratura svedese ha ordinato di annullare la decisione presa dalla polizia che impediva di bruciare il Corano durante le manifestazioni delle settimane scorse, fatte per protestare contro la Turchia che chiede l'arresto di militanti curdi in loco. La polizia, secondo quanto stabilito dalla Corte amministrativa d'appello, «non aveva base sufficiente per questa decisione», tenuto conto che le minacce per vietare quei gesti «non erano sufficientemente concrete o legate alle manifestazioni in questione».

La sentenza potrebbe rappresentare un ostacolo all'adesione del Paese alla Nato, anche perché la reazione turca va nella direzione (forse) auspicata da Erdogan: ha affermato che non consentirà a Stoccolma di aderire all'Alleanza Atlantica fintanto che il paese scandinavo permetterà proteste di questo genere. Ankara come condicio sine qua non per l'adesione di Stoccolma alla Nato ha chiesto l'arresto di militanti curdi presenti su territorio svedese. Nello scorso febbraio la polizia aveva detto no ad una nuova richiesta di bruciare una copia del Corano dinanzi all'ambasciata irachena in Svezia, sostenendo che i timori per i rischi legati alla sicurezza non erano sufficienti a limitare il diritto di manifestare. Ma in quella circostanza la polizia svedese si era opposta ai roghi del Corano davanti alle ambasciate dal momento che le proteste andate in scena in precedenza avevano reso la Svezia «un obiettivo prioritario per gli attacchi».

Nel frattempo l'agenzia per l'intelligence Sapo ha agito in maniera preventiva contro 5 sospettati: gli 007 svedesi li hanno arrestati per aver pianificato un attacco terroristico in risposta alle azioni del politico di estrema destra Rasmus Paludan, che aveva bruciato una copia del Corano. L'operazione, hanno fatto sapere, è stata resa possibile dopo un lavoro sinergico di intelligence e polizia nelle località di Eskilstuna, Linkping e Strangnas che ha sgominato sospettati legati a una rete terroristica con sede in Svezia. «Non possiamo aspettare che avvenga un crimine prima di agire», ha sottolineato Susanna Trehorning, vicedirettrice del dipartimento antiterrorismo, secondo cui c'erano «collegamenti internazionali con l'estremismo islamista violento».

La radio pubblica svedese ha affermato che i sospetti avevano legami con il gruppo dello Stato islamico.

Il tutto mentre «la trattativa» tra Turchia e Nato continua: il sì di Ankara all'ingresso della Finlandia è il frutto di una lunga negoziazione geopolitica, che ha un collegamento preciso con la guerra in Ucraina, mentre restano sul tavolo parallelamente sia il via libera di Erdogan alla Svezia, messo in stand by, che una serie di altre partite interconnesse, come la fornitura di F-16 Usa alla Turchia, il puzzle da ricomporre in Siria e le elezioni del prossimo maggio in Turchia. È chiaro che l'avvicinarsi delle urne mette il presidente turco in una posizione che al contempo è concava e convessa: da un lato non può apparire, sul fronte interno, eccessivamente conciliante con i partner dell'alleanza, con il rischio di essere criticato dalla frangia militare del suo partito; dall'altro il suo voler fare asse con Pechino e Mosca produce effetti a catena, anche nel quadrante euromediterraneo, dove un sostanziale aiuto gli è appena giunto dall'Arabia Saudita sotto forma di una linea di credito da 5 miliardi di dollari per le disastrate finanze pubbliche turche.

DAGONEWS il 12 gennaio 2023.

I residenti di Hamtramck, nell'area di Detroit, caratterizzata dalla presenza di una vasta popolazione musulmana, possono sacrificare animali in casa per motivi religiosi.

Il Consiglio comunale di Hamtramck ha approvato esplicitamente la pratica. 

I musulmani spesso macellano animali, in genere capre o pecore, o pagano qualcuno che lo faccia per loro durante la festività sacra di Eid al-Adha. La carne viene poi condivisa con la famiglia, gli amici e i poveri.

 A dicembre il consiglio comunale di Hamtramck aveva votato per mantenere il divieto di macellazione degli animali, ma ha invertito la rotta, almeno per motivi religiosi, dopo un parere legale e le obiezioni di persone che seguono la fede islamica.

«Se qualcuno vuole farlo, ha il diritto di fare la sua pratica», ha detto il consigliere Mohammed Hassan.

 Dawud Walid, direttore della sezione del Michigan del Council on American-Islamic Relations, ha detto che "non è una cosa nuova o inedita".

 «Questo è il momento in cui i musulmani ricordano che Abramo ha sacrificato una pecora invece di dover sacrificare suo figlio» ha detto Walid, riferendosi al passaggio del Corano e dell'Antico Testamento.

I residenti di Hamtramck dovranno informare la città, pagare una tassa e rendere disponibili le loro proprietà per l'ispezione.

 Hamtramck ha una popolazione di 28.000 abitanti. Più della metà dei residenti è di origine yemenita o bengalese.

"Sì al sacrificio di animali". La cittadina Usa cede all'Islam. su Il Giornale il 13 Gennaio 2023.

Sì al sacrificio di animali per motivi religiosi. Africa? Medio Oriente? No, accade negli Stati Uniti, alle porte di Detroit. Siamo ad Hamtramck, cittadina che conta una popolazione di 28.000 abitanti, dei quali più della metà sono di origine yemenita o bengalese di fede islamica. Dopo diversi mesi di controversi dibattiti e pressioni da parte dei residenti musulmani, martedì sera il consiglio comunale di Hamtramck ha votato "sì" al sacrificio religioso di animali in casa. Accade durante la ricorrenza nota anche come "Festa del Sacrificio": i fedeli, ricorda Euronews, macellano un animale, per ricordare l'uccisione di un montone da parte di Abramo, nell'episodio, raccontato dalla Bibbia e dal Corano, in cui il fondatore della tribù d'Israele aveva accettato di sacrificare a Dio suo figlio (Isacco nella Bibbia, Ismaele nel Corano). L’animale che viene comprato per il sacrificio viene macellato per chiedere perdono ad Allah per gli errori e i peccati commessi.

Hamtramck, la cittadina si piega all'islam

Il consiglio comunale ha votato a favore della proposta, con il sindaco Amer Ghalib che ha espresso un ulteriore voto positivo, modificando così l'ordinanza cittadina che ora consente il sacrificio religioso di animali presso la propria casa. Dopo il voto di approvazione, sono scoppiati gli applausi del pubblico, che ha gremito l'assemblea per prendere la parola prima del voto. "Se qualcuno vuole farlo, ne ha il diritto", ha detto il consigliere musulmano Mohammed Hassan durante l'incontro, trasmesso anche in live streaming. Alcuni residenti e sostenitori dei diritti degli animali hanno espresso la loro opposizione alla modifica dell'ordinanza, affermando che questa misura è crudele nei confronti degli animali e crea problemi di igiene ad Hamtramck, una delle città più densamente popolate del Michigan.

Preoccupazione anche per i bambini, che vedranno capre, agnelli e mucche fatte a pezzi nei cortili delle abitazioni. Ghalib e altri sostenitori della nuova ordinanza affermano che la legge statale e federale protegge i loro diritti religiosi ai sensi della Costituzione degli Stati Uniti, ricordando una decisione della Corte Suprema di 30 anni fa che proibiva i divieti cittadini sui sacrifici animali praticati dai seguaci della religione "Santeria" (culto sincretico di origine cubana che associa elementi del cattolicesimo alla religione praticata dagli schiavi).

Cortocircuito della sinistra

Ghalib ha affermato che vietare la macellazione degli animali potrebbe portare a cause legali contro la città per presunte violazioni dei diritti civili. Dello stesso parare il procuratore della città, il quale ha sottolineato che le modifiche all'ordinanza sono perfettamente legali. Che dice ora la sinistra vegana ed eco-chic? Il multiculturalismo non è il paradiso che si propagandava? Come notava tempo fa su Foreign Affairs Rafaela Dancygier, il problema della centrale delal sinistra è questo: "I gruppi di elettori immigrati più grandi e in rapida crescita provengono da paesi a maggioranza musulmana e spesso portano con sé le tradizioni socialmente conservatrici delle loro terre d'origine. Questo avviene proprio quando i partiti di sinistra si sono proclamati campioni di laicismo, cosmopolitismo e femminismo appellandosi alla loro base della classe media sempre più liberal". Il risultato, sottolineava, è uno scontro di valori, che si svolge più spesso nelle città, "dove le comunità musulmane hanno replicato i legami del villaggio, le strutture patriarcali e le pratiche religiose dei loro paesi d'origine accanto a enclave laiche e progressiste della classe media". D'altronde, cosa c'è di progressista nell'islam politico? Proprio nulla. Ben arrivati nella realtà.

La Finanza.

Attenzione al nuovo impero arabo, che si espande (e ci riguarda). Federico Rampini su Il Corriere della Sera l’08 aprile 2023

C’è un nuovo impero arabo: ecco le ambizioni di Mohammed Bin Salman, e perché le sue ultime mosse - a partire da quelle sul prezzo del petrolio - ci riguardano da vicino

È rinato un impero arabo, e si sta comprando l’Egitto, tra l’altro. È una delle «potenze regionali» che contendono ad altri attori – America, Cina, Russia – l’influenza su un’area strategica del mondo, che spazia dal Medio Oriente al Maghreb fino all’Africa subsahariana.

Nei giorni scorsi l’Arabia Saudita ha spinto l’Opec a tagliare nuovamente la produzione di petrolio, un gesto che potrebbe avere ripercussioni anche sull’inflazione in Europa, e sulla forza militare di Putin in Ucraina.

Soprattutto, è interessante osservare gli usi che Riad fa della ricchezza petrolifera: per modernizzare non solo la propria economia, ma anche quella di un gigante nordafricano malato, l’Egitto.

Un aiuto a Putin?

I tagli decisi dall’Opec – cartello dei paesi petroliferi – in parte erano scontati, sono la presa d’atto che la domanda mondiale non è molto vigorosa perché la crescita è rallentata. L’Opec ridurrà la propria offerta di petrolio di 1,1 milioni di barili a partire da maggio. Anche la Russia, che fa parte dell’Opec+, taglierà leggermente la propria produzione. Il calcolo è che questi tagli servano a far risalire i prezzi, aumentando le entrate dei produttori: questo potrebbe aiutare lo sforzo bellico di Putin (che dopo le sanzioni occidentali vende il suo petrolio, a prezzi scontati, soprattutto a Cina e India). Siamo ancora lontani dai prezzi che il greggio raggiunse nel marzo 2022 subito dopo l’invasione dell’Ucraina, a quota 125 dollari il barile. Opec e Russia sperano di sospingerlo dall’attuale quota 80 verso i 90 dollari il barile, con l’aiuto della ripresa economica cinese che alimenta i consumi in quel paese.

In rotta con Washington

Guardando all’aspetto geopolitico di questa decisione, è l’ennesimo schiaffo che il 37enne principe saudita Mohammed bin Salman (abbreviato in MbS e ritratto nella foto) sferra a Joe Biden e a tutto l’Occidente. L’America, e ancora più l’Europa, gli alleati come Giappone e Corea del Sud, hanno interesse a una moderazione nei prezzi petroliferi per contenere l’inflazione. Ma il principe MbS è un trumpiano o un sovranista che usa lo slogan «Saudi First». Non esita a entrare in rotta di collisione con gli interessi degli Stati Uniti, malgrado l’aiuto militare che riceve da Washington. Lo si è visto di recente con il disgelo diplomatico fra Riad e Teheran, un’operazione «firmata» Xi Jinping. L’Arabia ha usato i buoni uffizi della Cina (sollevando apprensione alla Casa Bianca) nel ristabilire le relazioni con il nemico Iran. L’operazione è funzionale a ridurre le incognite per la stabilità strategica nel Golfo Persico. Più che descrivere un’Arabia che si avvicina a Pechino, bisogna vedere la strategia saudita come coerente con una logica da vera potenza, autonoma e determinata ad affermare i propri interessi.

I grandi cantieri sauditi

Tra le priorità del principe MbS c’è la modernizzazione della sua economia: il modello è Dubai, il che include anche un ridimensionamento del potere clericale e una moderata liberalizzazione delle regole islamiche. Poi ci sono i mega-cantieri che devono trasformare la fisionomia dell’Arabia: il gigantesco resort turistico in costruzione sul Mar Rosso, che avrà una superficie uguale a quella dell’intero Belgio; la megalopoli hi-tech da 500 miliardi di dollari in costruzione in mezzo al deserto, 33 volte più vasta di New York. Questi sono i progetti-vetrina, dietro c’è una strategia che punta a diversificare l’economia saudita rendendola meno dipendente dal petrolio: gli investimenti vanno in tutte le direzioni, da settori tradizionali come il turismo alle energie rinnovabili. Ad alimentarli, c’è la potenza di fuoco di un fondo sovrano che amministra 650 miliardi di dollari.

L’Egitto diventa una colonia saudita

Il nuovo impero arabo ha una proiezione internazionale importante. Presta e investe in molte aree del mondo, soprattutto in Medio Oriente e in Africa. Detta le sue condizioni. Spesso agisce d’intesa con il Fondo monetario internazionale. In questo modo si sta conquistando un’influenza enorme in Egitto, paese-chiave per l’influenza che il Cairo ha esercitato storicamente nel mondo islamico e in Nordafrica. Anche il Sudan è tra i primi destinatari dei nuovi investimenti del fondo sovrano saudita: altri 24 miliardi di dollari sono stati ripartiti su poche nazioni per massimizzare l’effetto (l’annuncio di questa tranche è del 2022).

Il cordone ombelicale che lega l’Egitto all’Arabia saudita non è una novità. Dal 2013 al 2020 Riad ha versato 46 miliardi di dollari al Cairo, tra prestiti della banca centrale, investimenti diretti, forniture «amichevoli» di petrolio e gas. Molti di quei fondi però in passato venivano donati o prestati a condizioni di favore. E talvolta l’Egitto, sprofondando da una crisi all’altra, non riusciva a restituirli. Ora la strategia di MbS imprime una svolta. Il nuovo impero arabo ha perso fiducia nella capacità egiziana di gestire gli aiuti. Quindi chiede in cambio che pezzi dell’economia egiziana finiscano sotto il controllo saudita. Questo converge con una richiesta del Fondo monetario, anch’esso irritato per l’inefficienza del generale al-Sisi. Il Fmi nel suo ultimo pacchetto di aiuti ha richiesto al dittatore del Cairo che riduca l’opprimente ruolo del settore pubblico – soprattutto l’esercito – nell’economia egiziana. L’idea è che l’Egitto potrebbe svilupparsi molto meglio se liberasse le energie della sua imprenditoria privata. La prospettiva più concreta e probabile, è che il generale al-Sisi finisca per cedere a queste pressioni, ma che le privatizzazioni vadano in mano a imprenditori sauditi. Al Cairo si sono levate voci che lamentano la strisciante perdita di sovranità a vantaggio dei sauditi. Ma sono state silenziate dal regime, che non ha potere contrattuale data la sua debolezza economica, e deve cedere alle richieste di MbS. Un celebre giornalista egiziano, Abdelrazek Tuwfik, ha descritto i sauditi come «ex-straccioni, ora nuovi ricchi, che non devono dettare il futuro dell’Egitto». Il suo commento è stato cancellato dalla censura di Al-Sisi.

Una visione da potenza egemonica

Il trattamento riservato all’Egitto potrebbe estendersi anche al suo vicino meridionale, il Sudan. L’impero arabo in fase di rilancio diventa un altro attore rilevante tra quelli che si contendono un ruolo nel futuro dell’Africa, tra l’altro. E Riad obbedisce alle sue priorità, che di volta in volta possono convergere o divergere da quelle di Washington, Pechino, Mosca. Da notare che in Italia si è diffusa l’opinione – spesso imprecisa se non addirittura del tutto infondata – che gli Stati Uniti abbiano «profittato» economicamente della guerra in Ucraina (ho spiegato altrove che il vantaggio economico, per l’industria energetica o militare, è trascurabile sul Pil americano). Un sicuro profittatore della guerra invece è proprio l’Arabia: ha chiuso il 2022 con un surplus imprevisto di 28 miliardi di dollari nel suo bilancio statale, grazie all’impennata dei prezzi petroliferi dopo l’invasione dell’Ucraina.

Qatargate? Non solo, la svolta dell'islam: meno jihad, più "soft power". Francesco Carella su Libero Quotidiano l’08 gennaio 2023

Gli psicologi sostengono che la consapevolezza di un pericolo dipende da quanto e come se ne parli. Se l'oggetto di una minaccia scompare dal dibattito pubblico e dalle conversazioni private esso viene depotenziato fino ad essere relegato nell'album dei ricordi. Si pensi a ciò che sta accadendo in relazione ai difficili rapporti fra Occidente cristiano e mondo islamico. Sembra che fra questi due universi politici, culturali e civili sia improvvisamente scoppiata la pace dopo anni di terrore. Eppure, basta poco per richiamare alla memoria le angoscianti immagini delle stragi jihadiste che hanno seminato panico e ucciso persone a migliaia negli ultimi anni. Chi si occupa di storia dei rapporti fra queste due comunità sa che il problema non è rappresentato dai fondamentalisti, ma riguarda l'islam in quanto tale.

 Si tratta, come osserva Samuel P.Huntington, di «una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte della superiorità della propria cultura e che hanno in odio la civiltà occidentale. Fino a quando l'islam resterà tale e l'Occidente resterà l'Occidente il conflitto fra questi due mondi è destinato a continuare senza sosta». Giusto il contrario di ciò che si ostinano ancora a credere politici e intellettuali della sinistra, negando verità ormai incontrovertibili. Per oltre mille anni dal primo sbarco moresco in Spagna al secondo assedio turco di Vienna nel 1683 l'Europa si è trovata sotto la costante minaccia dell'islam, rischiando molte volte la sua sopravvivenza quale entità culturale. Infatti, la natura degli scontri ha riguardato solo marginalmente questioni di tipo territoriale. 

 Le ragioni risultano ogni volta riconducili a temi di civiltà a partire da una differenza di fondo : l'islam non ha mai riconosciuto la separazione fra sfera politica e religiosa, mentre il precetto cristiano-occidentale si è affermato fin da subito sotto il segno della netta distinzione fra Cesare e Dio ossia fra potere temporale e potere spirituale. Intanto, mentre la cronaca registra numeri crescenti di sbarchi di immigrati irregolari sulle coste italiane, ci si avvicina sempre di più allo scenario previsto dalla demografa francese Michèle Tribalat quando parla di «processo di sostituzione dell'Europa». In tal senso, una riflessione andrebbe avviata soprattutto alla luce di un palese cambio di strategia da parte del mondo musulmano.

La sensazione è che sia stata accantonata, per il momento, la tradizionale arma terroristica, per cercare di sviluppare una forma di egemonia attraverso una lenta ma progressiva penetrazione culturale. Con l'attuale debolezza europea - pronta a negare in nome del politicamente corretto le proprie radici spirituali e civili esaltando quelle dei Paesi in cui vengono negate le libertà e i diritti fondamentali (il Qatargate è la punta dell'iceberg) la scelta islamica potrebbe rivelarsi vincente. In tal caso, l'Eurabia, come ammoniva Oriana Fallaci, è a noi vicina più di quanto si possa immaginare. 

Le Donne.

La Lapidazione.

Il Velo.

Il Burqa.

Il Matrimonio

La Lapidazione.

Viaggio nell'islam radicale: "Le adultere? Prese a sassate". Bianca Leonardi l'11 Settembre 2023 su Il Giornale.

Reportage di "Quarta Repubblica" nelle comunità italiane dopo le parole dell'imam di Birmingham. Pure le bimbe col velo

Se le donne tradiscono «vanno messe sotto terra e colpite con sassi sulla testa e sul corpo fino a farle morire». L'adulterio? «Va punito con le frustate». Queste le frasi di alcuni uomini appartenenti alla comunità islamica romana. Se le frasi sulla lapidazione dell'imam di Birmingham hanno scosso l'Italia, il reportage di Quarta Repubblica in onda stasera sulle comunità islamiche in Italia ci mostra uno spaccato agghiacciante e proprio accanto a noi. Da Trieste a Roma, da Monfalcone a Torino, arrivando fino a Imperia: sono solo alcune delle tappe che i giornalisti del programma condotto da Nicola Porro hanno toccato per provare ad entrare nel mondo islamico e capire le dinamiche. Un mondo in cui, anche se in punta di piedi, si fatica ad entrare.

«Le donne non possono pregare con gli uomini perché questi non possono guardarle» raccontano dalla moschea di Trieste. Un insieme di regole, quelle della Sharia - la legge di Dio - alle quali si deve sottostare per forza.

Nonostante l'Islam sia la seconda religione praticata in Italia, l'Occidente e le nostre usanze sembrano lontanissime da questi mondo, che a volte sembra viaggiare parallelo al nostro.

A Monfalcone, una delle città con la percentuale di musulmani più alta in Italia per numero di cittadini, gli islamici sono più del 33%. Fra loro 1.700 lavorano. Ma fra questi lavoratori il numero di donne fa impressione. Sono solo 7.

Un dato importante che fa luce sulla condizione della donna nella fede e cultura islamica. «La sharia dice che senza velo non posso uscire», racconta una bambina di 10 anni ai microfoni di Quarta Repubblica. Ed è proprio nel centro di preghiera di Monfalcone che i giornalisti trovano le piccole, tra i 3 e i 6 anni, coperte con il velo dalla testa ai piedi, a pregare.

«Qui insegniamo le regole dell'Islam, i bambini piccoli sono dei contenitori che vanno riempiti con le regole giuste» racconta l'imam della comunità mostrando i piccoli della classe che stanno, proprio in quel momento, facendo lezione di Corano.

Ma c'è di più: i musulmani vorrebbero le Corte Islamiche, sul modello inglese, e cioè l'istituzione di tribunali islamici che regolino principalmente gli affari personali e cioè le questioni dei matrimoni e dei figli.

A teorizzare l'idea per primo è stato Riccardo Hamza Piccardo, leader dell'Ucoii (Unione Comunità Islamiche Italiane) e uno dei massimi esperti di Islam in Italia raggiunto dai giornalisti di Quarta Repubblica a Imperia. «Al momento è impossibile qui in Italia, è solo una riflessione, una considerazione teorica. Ma è una questione di forza: nel momento in cui le comunità saranno così forti da richiederlo, lo richiederanno. E lo otterranno».

Ed è sempre Piccardo a dire di più su uno dei temi fondamentali dell'Islam, la donna, esordendo con una provocazione alla giornalista: «Non so sua figlia chi gliela tiene, però sarebbe meglio se si potesse dedicare alla figlia un po' di più».

Una visione lontana dalla nostra quotidianità ma che, invece, è presente nel tessuto sociale del nostro territorio. Anche quando noi facciamo fatica a vederla, anche quando noi facciamo fatica a capirla. Come quando si tratta di pratiche brutali, come le spose bambine o le mutilazioni genitali.

Come quelle che trattano e curano i medici di Torino, nell'unico ambulatorio interamente dedicato alle mutilazioni. «Le bambine vengono mutilate con materiali di fortuna: lamette, cocci di vetro», racconta una dottoressa. Tradizioni che, purtroppo, resistono ancora oggi anche in Italia.

Un viaggio che sembra mostrare uno stato dentro il nostro stato. In cui spesso l'italiano è una lingua straniera sconosciuta, soprattutto alle donne, anche se vivono qui da decenni. In cui le nostre usanza vengono viste con sospetto e in cui, chiacchierando in una strada qualsiasi della capitale a un giornalista con una grande telecamera in vista- gli uomini dopo la preghiera ammettono candidamente: «È una cosa gravissima il tradimento. Il corpo della donna deve essere solo del marito. Per questo va presa a sassate se commette peccato». Bianca Leonardi

Caso Imam, Vittorio Feltri smaschera le femministe. Di cosa le accusa. Il Tempo il 05 settembre 2023

Nei giorni scorsi l'Imam della moschea di Birmingham è balzato agli onori delle cronache per aver pronunciato un sermone in cui illustrava il metodo migliore per lapidare le adultere. Tutto questo ha chiaramente suscitato enorme scalpore e, dalle colonne di Libero, si scaglia anche il direttore editoriale Vittorio Feltri che attacca le femministe ree di aver taciuto di fronte alle parole di Sheikh Zakaullah Saleem. "Femministe europee, femministe italiane, voi che vi stracciate le vesti e vi sentite insultate e ferite e oltraggiate e violentate ogniqualvolta non vi chiamano “avvocata”, “ministra”, “presidenta” -  ha detto Feltri - proprio voi, sì, voi, dove siete quando a essere calpestati sono i diritti essenziali delle vostre sorelle?". 

Poi Feltri attacca anche l'ipocrisia della sinistra e dei progressisti che chiedono più accoglienza e integrazione, dimenticando che, spesso, sono proprio gli immigrati a non volersi integrare. "Siamo voci che urlano nel deserto - prosegue Feltri su "Libero" - soffocate dalle urla dei progressisti che pretendono più accoglienza, più immigrati, più clandestini, più profughi, più diritti, più moschee, più integrazione, senza considerare che spesso sono gli islamici a non volersi integrare, a mantenere i loro usi e costumi barbari nonché le loro regole disumane, come quella che prevede che colei che tradisce il marito debba essere ammazzata in maniera peraltro brutale, o che la moglie che non soddisfi a letto il consorte possa e debba essere stuprata e picchiata".

"Così si lapida un'adultera". Il sermone choc dell'imam. Storia di Erica Orsini il 4 settembre 2023 su Il Giornale

Un video dettagliato, quasi un tutorial da film horror, per spiegare come si lapidano le donne colpevoli di adulterio. È quello emerso sui social media la scorsa settimana a firma dell'imam Shaykh Zakaullah Salem, del centro islamico Green Lane Masjid di Birmingham. Nel video l'imam, in un sermone vero e proprio, spiega come la donna debba essere sotterrata in una buca fino all'altezza della vita prima di venir lapidata perché questa è la punizione dovuta, secondo la legge della sharia, per chi ha avuto una relazione extraconiugale, chiamata «Zina». In realtà, in base a questa legge la punizione è subita da ogni adultero, sia uomo che donna, a cui spetta la lapidazione se questi sono sposati. Se invece non lo sono, un centinaio di frustate saranno sufficienti a espiare la propria colpa.

Attualmente Zakaullah è il capo imam della moschea nonché direttore del centro educativo della stessa. Prima di esserlo aveva ricoperto molti altri ruoli. Se si dà un'occhiata al suo profilo nel sito della moschea, l'uomo aveva dato prova delle sue abilità fin da giovanissimo, imparando il Corano a memoria. Risulta poi in possesso di un master in Educazione islamica ottenuto presso uno dei più prestigiosi istituti di studi islamici del Regno Unito. La sua lezione di lapidazione ha tuttavia sollevato un'ondata di scandalizzate reazioni non solo a Birmingham, città con una forte componente islamica, ma nell'intera Inghilterra. E le polemiche sono aumentate quando si è scoperto che il governo conservatore di Rishi Sunak aveva premiato la moschea con un finanziamento di ben 2 milioni di sterline per la realizzazione di un centro giovanile. Subito dopo la pubblicazione sui social del video, i soldi sono stati temporaneamente congelati, ma sono in molti a chiedersi come il governo abbia potuto concederli a una moschea che da decenni è nota per i sermoni estremisti dei suoi predicatori. Tempo fa il centro di Birmingham è apparso anche in un documentario di Channel 4, dove un altro imam se la prendeva con gli infedeli in un sermone dai toni estremamente violenti. E tra i regolamenti impartiti dalla moschea, le donne non potevano indossare i pantaloni, uscire senza il permesso del marito e dovevano chiudere tutti i loro account Facebook. Il finanziamento governativo era stato offerto dal dipartimento per la Cultura, nell'ambito degli interventi di sostegno a favore dei centri giovanili da realizzare nel Paese. Incredibilmente, la moschea di Birmingham era risultata idonea. Questo nonostante i comportamenti estremisti dei suoi imam.

Prima della diffusione del video Zakaullah aveva invitato il governo ad avviare un'azione legale contro un'insegnante di una Grammar School nello Yorkshire che era stata costretta a nascondersi dopo aver ricevuto minacce di morte per aver mostrato in classe delle immagini del profeta Maometto. Un altro imam, Abu Mustafa Rayyan, aveva detto in un discorso pubblico che una moglie deve soddisfare tutti le necessità fisiche del marito, venendo così accusato di approvare lo stupro coniugale. Uno degli imam più influenti del Centro di Birmingham, Abu Usama al Thahabi, nel 2007 era stato filmato mentre diceva: «Se io chiamo gli omosessuali pervertiti, sporchi cani che dovrebbero essere uccisi, questo rientra nella mia libertà d'espressione no? Ma loro dicono che no, sono un intollerante. Eppure per loro va bene dire qualcosa sul nostro Profeta». Sul video della lapidazione la moschea ha fatto sapere che le affermazioni sono state diffuse fuori contesto e che l'imam «non sostiene che esistano pratiche simili nel Regno Unito». Il dubbio però resta, eccome. 

È troppo tardi per indignarsi. Storia di Fausto Biloslavo il 4 settembre 2023 su Il Giornale

Tutti gridano allo scandalo per l'imam di una moschea di Birmingham che spiega in un video, con dovizia di particolari, come bisogna lapidare le adultere in nome della sharia, la legge dura e pura del Corano. Oramai è troppo tardi per lo sdegno. Zakaullah Saleem, della Green Lane Mosque, pensa e veste alla talebana, ma è un cittadino britannico, che non puoi neanche espellere se supera la linea rossa. Non solo: da una parte propugna la sharia e dall'altra utilizza l'antica, democratica e garantista legge inglese per denunciare un'insegnante che osava mostrare ai suoi studenti delle immagini di Maometto proibite dall'islam.

L'aspetto tragicomico è che l'imam della lapidazione è il responsabile «educativo» della moschea. E proprio il centro di formazione per i giovani, annesso al luogo di culto islamico, aveva ottenuto oltre due milioni di sterline di fondi pubblici. In fretta e furia lo stanziamento è stato bloccato, ma oramai, se non il danno, si registra la beffa.

Basta guardare oltre la Manica per capire quanto sia tardi indignarsi per una deriva multiculturale senza nessun dovere di integrazione. In Francia sono 1514 le banlieue, dove in molti casi la polizia non mette piede o deve entrare con i corpi speciali in assetto di guerra. Periferie fuori controllo, in mano soprattutto a gang musulmane di terza generazione che combattono per il controllo dei traffici e del territorio. Alcuni video mostrano giovani con armi lunghe, vestiti di nero come l'Isis, come se non fosse territorio francese, ma campi di battaglia jihadisti in Africa o Medio Oriente. Fin da Molenbeek avremmo dovuto capire che era troppo tardi. Dall'enclave islamica di Bruxelles sono spuntati i mostri del Bataclan e di altri gravi attentati in nome di Allah.

I terroristi sono una minoranza, ma il problema è la mentalità di tanti imam in Europa, che magari condannano le bombe (lo facevano anche alla moschea di Birmingham), ma poi spiegano come si lapida una donna e propugnano la sharia.

In Italia si comincia a chiedere le corti islamiche, come in Inghilterra, e i rappresentanti musulmani protestano quando si osa dire che nell'omicidio di Saman c'è un'influenza integralista. In nome del politicamente corretto si discetta che in realtà la matrice non ha nulla a che fare con l'islam. In Pakistan, da dove abbiamo appena estradato il padre killer, vige il delitto d'onore. E si evidenzia che esisteva pure da noi. Una specie di attenuante culturale che cozza con l'umile buon senso. Per non parlare delle girotondine di Trieste mobilitate in difesa di un manipolo di donne musulmane che facevano il bagno vestite alla talebana. Tutti in mare vestiti in nome della libertà che a queste poverette viene negata dai mariti, come prescrive il Corano.

Se andiamo avanti così sarà troppo tardi anche da noi. E non potremo scandalizzarci se un imam, magari in una delle non poche moschee fai da te, ci spiegherà come bisogna lapidare le adultere «in maniera religiosamente corretta» come nel video di Birmingham.

Fondamentalismo islamico. Chi è Sheikh Zakaullah Saleem, l’imam che ha spiegato come lapidare una donna adultera. Il leader religioso dell'islam radicale di Birmingham è diventato il protagonista di un video virale sui social. Le sue parole hanno scatenato polemiche e indignazione. Revocati due milioni di sterline a fondo perduto destinati alla moschea. Redazione Web su L'Unità il 3 Settembre 2023 

In un video diventato virale sui social, l‘imam principale della moschea di Green Lane, punto di riferimento del fondamentalismo radicale nota per le posizioni estremiste a Birmingham, in Inghilterra, spiega in un sermone come si esegue correttamente un’esecuzione per lapidazione di una donna adultera. Il video ha suscitato indignazione e scalpore e come risultato le autorità hanno revocato un finanziamento di due milioni di sterline a fondo perduto destinato alla moschea.

Chi è Sheikh Zakaullah Saleem l’imam della lapidazione

Lo scrive oggi il Daily Mail online. Nel sermone, l’imam Sheikh Zakaullah Saleem alcune settimane fa spiegò la corretta procedura per una lapidazione: la donna trovata colpevole di adulterio – disse – va prima “sepolta fino alla vita” per “salvaguardarne il pudore“, e solo dopo si può dare inizio al lancio delle pietre, che termina quando la condannata muore per le lesioni. Il video del sermone, accessibile fino a poco tempo fa su Youtube, è ora sparito.

Il video e le polemiche

Lo stesso imam incitò le autorità britanniche ad intraprendere azioni legali contro un’insegnante ‘colpevole’ di aver mostrato in classe immagini (proibite dall’islam) del profeta Maometto. Un altro imam della Green Lane Mosque – moschea che veniva citata in un documentario sull’islam radicale dell’emittente Channel 4 – in un sermone spiega che una donna deve accomodare i “bisogni sessuali” del marito ogni volta che quest’ultimo lo desideri, giustificando quindi anche lo stupro fra le mura domestiche. Come risultato di questi episodi, scrive il Mail on Sunday, alcuni impiegati pubblici, definiti dal giornale “maldestri“, hanno deciso di congelare i fondi pubblici, che loro stessi avevano destinato a finanziare un centro per i giovani annesso alla moschea. Redazione Web 3 Settembre 2023

Il Velo.

Il caso in Belgio. Velo islamico e neutralità ideologica e religiosa, per la Corte Ue possibile vietarlo negli uffici pubblici. Il divieto «di qualsiasi segno che riveli credenze filosofiche o religiose non è discriminatorio se viene applicato in modo generale e indiscriminato». Alessio De Giorgi su Il Riformista il 29 Novembre 2023

La questione del velo islamico, in un periodo di particolari tensioni internazionali specie nel mondo arabo, torna di nuovo all’ordine del giorno del dibattito in Europa. È di ieri, infatti, la decisione della Corte di Giustizia dell’UE su una vicenda che ha riguardato una dipendente del comune di Ans, in Belgio, cui era stato vietato di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro. Il comune nel regolamento del personale vietava di indossare segni vistosi della propria appartenenza ideologica o religiosa e così la donna, che non lavora a contatto col pubblico, si era rivolta al tribunale della vicina città di Liegi per accertare l’eventuale violazione della sua libertà di religione e della discriminazione da lei subita.

La Corte ha stabilito che “la politica di rigorosa neutralità imposta da una pubblica amministrazione ai suoi dipendenti al fine di creare al suo interno un ambiente amministrativo totalmente neutro può essere considerata giustificata da una finalità legittima”, esattamente come è legittima l’opzione che preveda la possibilità opposta, cioè di indossare segni di appartenenza ideologica e religiosa: spetta infatti agli stati membri e alle singole pubbliche amministrazioni, secondo l’Alta Corte, stabilire come concretamente declinare la neutralità ideologica e religiosa. Il tribunale con sede a Lussemburgo ha infatti affermato che il divieto “di qualsiasi segno che riveli credenze filosofiche o religiose… non è discriminatorio se viene applicato in modo generale e indiscriminato a tutto il personale di tale amministrazione ed è limitato a ciò che è strettamente necessario”.

La sentenza, che farà sicuramente discutere, segue anni di dibattito sul tema e la questione riguarda sia i simboli religiosi che di altra natura. L’anno scolastico in Francia, ad esempio, si è inaugurato col divieto del nuovo ministro dell’Istruzione francese, Gabriel Attal, di indossare l’abaya, il velo lungo islamico: ma è dal 2004 che vige la cosiddetta “legge sulla laicità”, che vieta negli istituti scolastici pubblici i “segni o abbigliamenti attraverso i quali gli alunni manifestino ostensibilmente un’appartenenza religiosa”, divieto esteso anche ad insegnanti ed in generale ai funzionari pubblici. In Germania la normativa varia da Länder a Länder, mentre Belgio e Olanda erano finora più tolleranti, come lo è l’Italia: ma tra questa decisione dell’alta corte europea e il prossimo, probabile governo guidato dall’estrema destra dichiaratamente anti-Islam nei Paesi Bassi, è probabile che del velo islamico sentiremo parlare spesso nei prossimi mesi.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

Vietare il velo non ha nulla a che vedere con la libertà. In questa laicità, dove ogni cittadino si manifesta con le sue diversità, anche alla fede va riconosciuta agibilità. Alessandro Barbano su Il Dubbio il 16 gennaio 2023

Il velo qui è un diritto e insieme una responsabilità per chi sceglie in questo momento storico di indossarlo. Non può essere il presupposto di un divieto senza comprimere la nostra libertà. Il significato di subalternità, che quel simbolo esprime, non può prevalere sul diritto individuale di riconoscersi e di esprimersi nello spazio pubblico, dove l’unico limite che il velo incontra è il travisamento della propria identità per motivi di sicurezza.

Né si può sostenere che, poiché il velo è l’emblema di una condizione di subalternità e di nascondimento del femminile imposto nelle società islamiche, l’Occidente, che a questa subalternità si oppone, non dovrebbe tollerare che fosse indossato. Perché la promozione della libertà non può coincidere con una limitazione di libertà, per la quale la scelta di indossare il velo, o piuttosto il crocefisso, o piuttosto l’orecchino e qualunque altro oggetto o simbolo non possono avere un significato pubblico che s’impone su quello che ciascuno individualmente gli attribuisce.

Né, ancora, si può invocare un’inopportunità rispetto alla funzione di giudice assolta dal portatore del velo, sul presupposto che, trattandosi di un simbolo di una religione che s’impone come legge alla vita collettiva, l’esibizione dello stesso deponga per un pregiudizio del giudicare. La garanzia dell’imparzialità dipende dalla soggezione del giudice alla legge, cioè dalla sua adesione allo spirito di questa e ai principi dell’ordinamento, non da una sua pretesa neutralità personale. La quale sottende invece una tentazione di sterilizzare il potere, attraverso la negazione di tutte le componenti valoriali che, disponendosi

dialetticamente nello spazio pubblico, fondano la laicità. Il rischio di questa prospettiva è una cancellazione culturale che apre la strada a una deriva tecnocratica e nichilista della democrazia. La quale non è una scatola vuota, fondata su presupposti che essa stessa non è in grado di giustificare – secondo il noto paradosso di Bockenforde – ma una stratificazione di culture che tendono a libertà, giustizia e solidarietà, in un continuo bilanciamento e confronto.

In questa laicità, dove ogni cittadino si manifesta con le sue diversità culturali e nella sua libertà, anche alla fede va riconosciuta agibilità di esprimersi. Che poi sia opportuno indossare un simbolo di fede, che altrove quella stessa libertà nega, in un momento storico in cui in nome delle leggi religiose vengono compiute discriminazioni feroci e attentati alla vita, è valutazione che spetta alla libertà individuale. Assieme alla coscienza di muoversi in uno spazio e in un tempo globale, dove ciascun gesto, anche solo simbolico, può impattare con il destino di milioni di persone, tanto lontane eppure tanto vicine a noi.

Quella del magistrato libero da simboli è una neutralità manifesta, che tutela chiunque gli si presenti innanzi per essere giudicato. Simona Giannetti su Il Dubbio il 16 gennaio 2023

È di questi giorni la notizia ripresa anche sulle pagine de Il Dubbio di una giovane donna, di origini arabe, che ha raccontato, come un suo sogno che si avvera, quello di diventare la prima “magistrata velata” in un’aula di giustizia. E’ chiaro che si deve fin da subito sgombrare il campo dall’ovvietà del diritto di ciascuno e di ciascuna di scegliere come vestirsi e se indossare o meno simboli di carattere politico o anche religioso.

Il punto è un altro. Diverso è se ad indossare un simbolo politico o religioso sia un magistrato: non un cittadino qualunque quindi, ma un alto funzionario, che rappresenta lo Stato nell’esercizio di un potere che deve essere indipendente e laico perché diretto a decidere della libertà e dei diritti fondamentali di un individuo senza pre- giudizio. E’ l’assenza di simboli religiosi che assicura l’immagine di imparzialità del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni. Non è un caso che in Italia i magistrati non possano per esempio avere alcuna tessera di partito politico.

Il magistrato deve infatti apparire oltre che essere imparziale: su questo non dovrebbero esserci dubbi – salvo il condizionale d’obbligo, viste le costanti dimenticanze sul tema –, considerato che la laicità dello Stato è effettiva solo laddove sia tangibile nell’esercizio dei suoi poteri. Laico è infatti quell’ordinamento che non punisce la violazione di norme religiose o ideologiche, come invece accade nello stato teocratico in cui queste entrano a farne parte quasi per intero fino ad essere praticamente sovrapposte. E’ per questo che la religione è un diritto, una libertà, ma non può diventare un alibi. Quella del magistrato libero da simboli e appartenenze ideologiche è una neutralità manifesta, che tutela chiunque gli si presenti innanzi per essere giudicato, come indagato, processato o prigionero. E’ per questo che non solo il tesseramento, ma persino una intensa e costante partecipazione alle attività di un partito politico, possono essere considerati motivo di rottura di quella imparzialità.

Ebbene, la domanda sorge allora spontanea: perché possiamo pretendere la compressione in capo all’individuo- magistrato del suo diritto di manifestare un pensiero politico a tutela della sua inderogabile immagine

di imparzialità, ma non dovremmo ugualmente pretenderla per il suo diritto di esercitare una religione? Forse anche questa è ideologia, o peggio è demagogia. Per dirla più semplicemente, perchè il diritto di religione dovrebbe avere un trattamento diverso, ovvero più favorevole, rispetto a quello di manifestazione del pensiero politico? La laicità del magistrato è la laicità della giustizia e oggi più che mai le democrazie liberali devono scegliere da che parte stare e cosi le istituzioni che le rappresentano.

Peraltro non si può nemmeno fare finta di niente visto che oggi ci sono giovani che vengono impiccati a due al giorno, se non seviziati o violentati, da un regime teocratico da cui vogliono essere semplicemente liberi. E’ cosi che accettare il velo, in un contesto istituzionale, significa anche non ricordarsi di come sia il simbolo di un regime, che non permette giusti processi e arresta, tortura e condanna a morte chi vi si sta opponendo nella rivoluzione iraniana: è tutto quello che non c’entra con la giustizia giusta. Indubbio è dunque, in un contesto storico come quello attuale, il peso della presenza di una “magistrata velata” in un’aula di giustizia del nostro Stato di diritto, che deve prendere una posizione di laicità proprio per riconoscere la libertà di chi in altra parte del mondo sacrifica la sua vita.

Sappiamo tutti che cosa sta accadendo in Iran, dove il velo è il simbolo di una teocrazia, che anziché garantire la libertà del singolo la sacrifica a favore del dogma: ecco perché il velo su un magistrato fa a pugni con l’apparire credibile nella sua alta funzione di libertà dal pre- giudizio. Almeno alle giovani donne e ai giovani uomini che ogni giorno dopo processi sommari vengono impiccati dal regime teocratico della repubblica islamica, dobbiamo una presa di posizione di laicita a partire da chi indossa la toga nell’esercizio del nostro potere giudiziario.

La 30enne sulle proteste in Iran: "Ribellione a un obbligo imposto dall'alto". “Sarò la prima magistrata col velo in Italia”: l’obiettivo di Hajar Boudraa, dal Marocco a Verona. Antonio Lamorte su Il Riformista l’ 11 Gennaio 2023

Hajaar Boudraa pensava che a contare fossero il curriculum, le esperienze, la preparazione. “Ma nel curriculum bisogna inserire la foto, e a volte questa vale più di esperienze e competenze”. Gli amici le dicevano che con il velo non avrebbe mai trovato lavoro. Da quando ha 13 anni lo indossa, una scelta identitaria per lei nata in Marocco e cresciuta a Verona. Ha 30 anni e punta a diventare la prima magistrata in Italia a indossare il velo. A raccontare questa storia di un Paese che cambia, e che già e cambiato, si è evoluto, è il quotidiano La Stampa.

Hajar Boudraa si è laureata in Giurisprudenza a Trento, frequenta il secondo anno della specializzazione, sta facendo il tirocinio da viceprocuratrice a Verona. È arrivata nella provincia della città veneta quando aveva cinque anni e mezzo. Famiglia di otto persone, padre operaio in un’azienda agricola. È cittadina italiana dal 2020, dopo un iter di sette anni. Per mantenersi con gli studi ha lavorato da mediatrice in tribunale per i minorenni. Ha scelto la magistratura “perché io, da sempre soggetta a giudizi e pregiudizi, ho sviluppato un’attitudine a non giudicare prima di avere a disposizione tutti gli elementi. E penso che sia la cosa più importante per un giudice”.

Si presenta in toga e con il velo, in udienza, davanti al giudice di pace. “E sento di essere al posto giusto, come vorrei essere”. Perché “non è certo un simbolo dell’oppressione di noi donne musulmane: non siamo noi ad avere un limite, ma la parte di società che ci vede così. Siamo donne libere e forti. In un mondo così conformista, indossare qualcosa di tanto differente è simbolo di coraggio”. Contesto diverso però da quello che sta succedendo in Iran, dove da metà settembre proteste sanguinose attraversano il Paese dopo la morte della 22enne Mahsa Amini, arrestata dalla polizia religiosa perché indossava in maniera scorretta lo hijab.

Io sostengo tutte le donne e tutti i movimenti che lottano per la loro libertà. E quello che sta accadendo in Iran è la ribellione a un obbligo imposto dall’alto: da un livello politico e religioso. Quella è compromissione dell’essenza della donna, che non può decidere di sé stessa. Ma anche in Italia, se dobbiamo lottare per poter indossare quello che vogliamo, abbiamo dei problemi con la libertà”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Hajar Budraa, che vuole essere la prima magistrata con il velo. La storia della trentenne di Verona tra senso delle istituzioni e laicità dello Stato. Lorenzo Milli su Il Dubbio il 12 gennaio 2023

Hajar Budraa è la prima magistrata ad entrare in Aula indossando il velo. Lo fa ogni mercoledì, alle udienze davanti al giudice di pace, spiegando che «da sempre soggetta a pregiudizi», ha sviluppato «un’attitudine a non giudica prima di avere a disposizione tutti gli elementi».

Boudraa ha trent’anni, è nata in Marocco e in Italia vive da quando ne aveva cinque. Si è laureata in Giurisprudenza a Trento e ora sogna una carriera in magistratura, mentre oggi veste la toga come viceprocuratrice onoraria a Verona.

In un’intervista al Corriere dice che «vestirsi e professarsi come si crede sono diritti sanciti dalla Costituzione» e che «il bravo giudice è colui che fa bene il suo lavoro e consce altrettanto bene il diritto». Per poi chiedersi se i magistrati sono valutati per le loro competenze o per il loro aspetto», sottolineando che «la toga è l’unica cosa che conta e te le devi meritare» e che «il resto è solo contorno».

Boudra racconta poi di essersi data da fare negli studi e che non è stato facile mantenersi, facendo parte di una famiglia di otto persone in cui solo il padre lavorava, operaio in un’azienda agricola. E così ha lavorato prima come mediatrice in un tribunale per minorenni, per pagarsi gli studi e aiutare la famiglia, fino a diventare cittadina italiana nel 2020, dopo un iter lungo sette anni.

Ci che fa discutere in queste ore è l’opportunità di entrare in Aula con il velo, anche se c’è chi ricorda la storia del magistrato che entrava in Aula con un crocifisso di grandi dimensioni. Ma lei è tranquilla, spiega che «non è certo un simbolo dell’oppressione di noi donne musulmane», perché «non siamo noi ad avere un limite, ma la parte di società che ci vede così» e si schiera dalla parte di chi protesta in Iran contro il regime.

«Io sostengo tutte le donne e tutti i movimenti che lottano per la loro libertà - ha detto a La Stampa - E quello che sta accadendo in Iran è la ribellione a un obbligo imposto dall’alto: da un livello politico e religioso». Quella, argomenta, «è compromissione dell’essenza della donna, che non può decidere di sé stessa, ma anche in Italia, se dobbiamo lottare per poter indossare quello che vogliamo, abbiamo dei problemi con la libertà».

La forza delle donne oppresse dall'islam fanatico. Storia di Fiamma Nirenstein su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

I due grandi fenomeni storici che hanno fatto delle donne iraniane e afghane le eroine della libertà del nostro tempo sono sulle prime pagine e in assoluta evidenza in questo 2022 nella mente e nel cuore della nostra civiltà. Che giovani e anziane si espongano alla prigionia e alla violenza fino alla morte per cambiare la loro condizione prendendo la testa della richiesta di cambiamento del regime, è una novità assoluta. Ieri, Vida Movahed conosciuta nel mondo per una foto del 2017 che la ritraeva col suo velo bianco usato a bandiera è stata arrestata, in prigione per la terza terribile volta. In Afghanistan si allarga il fronte delle mille proibizioni fra cui quella alle ragazze di frequentare le superiori, al bando delle donne delle Ong (19 milioni di bisognosi, 10 milioni di bambini). È magnifico che da parte della parte più oppressa, disarmata e in pericolo del mondo islamico si sollevi un grido tanto preciso: libertà e democrazia. È questa indicazione geopolitica e sociale chiarissima, questa mappa religiosa l'indizio che deve guidare ogni sostegno alle donne in lotta; è questo che manca nei commenti sui media.

Le donne offrono la loro vita in cambio del bene che dalla fine della seconda guerra mondiale è diventato un dovere principale per la nostra civiltà, la libertà nel rispetto dei diritti umani di ognuno: ma loro vanno oltre. La loro lotta affronta una stratificazione che comincia nel 600 dC. Ma noi questo lo ignoriamo, per noi è molto più facile. È nel grande mondo islamico che agisce il pugno di ferro dell'abbigliamento, del ruolo, della presenza sociale, della negazione della cultura: qui sta suscitando una grande rivoluzione, un moto di liberazione che può cambiare il mondo. Certo, si sa, la condizione della donna è problematica in tutto il mondo: ma non facciamo confusione, i grandi storici del Medioriente non la fanno. Bernard Lewis si doleva alquanto del fatto che l'islam sacrificasse la condizione femminile a principi di sottomissione a una visione gerarchica, sprecando la sua migliore risorsa per battere ignoranza e miseria.

La figura maschile si è trasformata da patriarcale in brutale e violenta e le prime vittime ne sono le donne. Vogliamo aiutare? Allora si deve leggere senza paura il Global Gender Act del Wef 2021: i 15 Paesi che si comportano peggio al mondo verso le donne sono musulmani, e così otto dei 10 più pericolosi per la loro vita. Nell'afflato originale dell'islam c'è l'eguaglianza fra gli esseri umani, c'è un riconoscimento nel diritto alla proprietà e all'eredità e della legalità del matrimonio dell'esistenza della donna in quanto soggetto storico, principio che nelle altre religioni monoiteiste poi è stato declinato verso un'eguaglianza reale; invece in molte situazioni le gerarchie religiose e statali hanno usato i testi islamici per imporre comportamenti, discriminazione, regole di abbigliamento, restrizioni legali che negano l'eguaglianza. Questo avviene quando si fa della donna un oggetto degli interessi patriarcali, in cui il concetto centrale è che gli uomini sono superiori alle donne, anzi, valgono il doppio, come la loro testimonianza nei processi, e anche questo è scritto nei testi. Il concetto che vale è quello di una Sura in cui gli uomini vengono definiti «protettori e responsabili» perché «sono superiori». Da qui, si libera una consequenziale dura, prepotente certezza della bontà del dominio maschile, che molti studiosi e molte donne islamici non condividono affatto, ma con cui hanno a che fare, per esempio in Iran e in Afghanistan.

Il nostro mondo è spesso accusato, anche da vari movimenti di donne musulmane, di essere imperialista, etnocentrico, e soprattutto islamofobico. Un aggettivo molto impositivo, che proibisce il ragionamento e la critica dialettica: se l'islam deve essere criticato, proprio come il cristianesimo o l'ebraismo, non c'è motivo di sospendere la discussione. Se per esempio costringe le donne alla schiavitù non è islamofobia criticarlo. Così è per l'oppressione che soffrono e contro cui si ribellano le donne iraniane e afghane. Vogliamo aiutarle: prima di tutto parliamo di loro. Sappiamo anche che il dilemma per le donne islamiche non deve essere sottovalutato. Anche quelle che vogliono restare buone musulmane, non chiedono certo di essere oppresse. Noi sosteniamo la loro battaglia, ma la maggioranza nelle piazze deve potere togliersi il velo se e quando lo desidera.

Buon Natale, a questo mondo sempre più arabo e contro le donne. Daniela Missaglia su Panorama il 24 Dicembre 2022

Buon Natale. 2022 anni fa – per chi crede - nasceva Gesù bambino, che assunse su di sé i peccati degli uomini sacrificando la propria vita terrena per la salvezza di tutti. Ma di quel dono gli uomini hanno deciso di infischiarsene e così, a distanza di due millenni, siamo qui a contare gli abomini che si sovrappongono da una parte all’altra della nostra amata Terra. In Afghanistan i talebani vietano l’ingresso delle donne nelle Università, fermi al pregiudizio medioevale che il sapere in capo all’altra metà del cielo corromperebbe la società: quale società, di grazia? In Iran lo scempio della repressione estremista non ha fine e si tinge di un ultimo irriferibile episodio: Masooumeh, una bambina di 14 anni, si toglie il velo in classe, viene arrestata, picchiata, violentata barbaramente, tanto che muore. I sanitari iraniani hanno dovuto ammettere che la piccola gli è stata consegnata con gravissime lacerazioni vaginali e che poi è deceduta. Con Masha Amini e le brutali esecuzioni per impiccagione pensavamo di aver toccato il fondo, ma ora il dramma ha superato ogni limite, in un Paese dove l’ultimo retaggio di un regime islamista spregiudicato sta provando disperatamente a soffocare le grida di libertà che promanano dalla società civile. Ma certo, l’Islam non ha colpe in sé, direbbero giustamente gli imam moderati, essendo una religione di pace. Ma rimane il fatto che per quella religione il concetto di libertà e di uguaglianza è diversa, senza possibilità di sintesi. E anche quando lo Stato che fa propri i precetti coranici appare patinato e scintillante, come il Qatar dei recenti mondiali di calcio, tra stadi avveniristici e grattacieli newyorkesi, sotto la superficie cova un modello di società inaccettabile.

L’apostasia e l’omosessualità sono bandite e severamente punite, le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini (a loro è giusto consentito guidare senza restrizione di sorta), la vita dei lavoratori vale un pugno di dollari. Però i petrol-dollari del Qatar invadono – a detta degli inquirenti belgi – l’Europa, corrompendola fin dentro il cuore delle sue istituzioni. Ed ecco che le ricchezze del Qatar le trovi nelle squadre di calcio (Paris Saint German) e negli sponsor sulle magliette, li trovi nei palazzi di Piazza Gae Aulenti, e nei fondi che acquistano tutto, così come riempiono i trolley dei corrotti. L’inarrestabile islamizzazione oggi sta sbriciolando la credibilità della massima istituzione Europea dove risulterebbe che un fiume di banconote sia passato da un’avvenente vicepresidente del Parlamento al suo fidanzato ( o viceversa?), o da un ex deputato europeo e presidente della Camera del Lavoro di Milano. Denaro come misura di tutte le cose, come se quelle mazzette di banconote fruscianti possano comprare la tolleranza dei nostri stati sovrani verso un modello di principi incompatibili ai nostri. Oriana Fallaci, come una novella Cassandra, urlava sulle pagine dei suoi libri per metterci al riparo dai rischi di un’islamizzazione violenta dell’Europa. Tramontata la fase dei kamikaze con le cinture esplosive, la conquista dell’occidente passa oggi attraverso le valigie piene di denaro, i centri d’interesse, le pressioni effettuate attraverso gli idioti irresponsabili che si fanno corrompere per un pugno di dollari. O attraverso i rappresentanti del nostro Parlamento che, pur da noi mantenuti per altri scopi, volano il mondo per sedersi accanto a Mohammad bin Salman rappresentando gli interessi di regimi autocratici. Benvenuti a Eurabia. A discapito delle libertà di tutti.

Il Burqa.

Il burqa riciclabile. Tommaso Cerno su L'Identità il 6 Dicembre 2023

Il burqa riciclabile. Seppellita Giulia Cechettin, torna l’Italia di sempre. Quella che parla di patriarcato quando le comoda. E non ne parla invece quando culture dove la donna è inferiore all’uomo si comprano il nostro Occidente. Quando uomini e donne libere non vogliono lasciare i propri beni alla famiglia. Quando, insomma, bisogna essere una società liberale. Per cui il Burqa va bene, basta che sia di materiale riciclabile. Eppure basta guardarci bene in faccia per capire che finiremo dritti dalla padella nella brace. I sintomi di questa anestesia culturale delle democrazie in crisi e del mondo liberale ridotto a minoranza sono decine. Lo stesso Paese che si ferma per la morte, dolorosa, di Giulia Cecchettin è quello che passa ore davanti alla televisione a celebrare l’incoronazione di re Carlo III d’Inghilterra, con i figli (famiglia sfasciata pure quella) in ginocchio a giurare di essere sudditi.

Lo stesso Paese che si ferma per Giulia contesta a Gina Lollobrigida di voler lasciare i suoi soldi, che si è guadagnata lei sul sert facendo l’attrice e diventando simbolo dell’Italia nel mondo a chi vuole, perché quando si muore arriva la famiglia (patriarcale appunto) che definisce il diritto dinastico e lo rende superiore di fronte al giudice alla libertà personale di spendere i propri averi come meglio si crede. Lo stesso Paese che si ferma per Giulia approva il fatto che un filosofo che ha cambiato la visione del pensiero moderno come Gianni Vattimo, omosessuale dichiarato, non possa lasciare i suoi beni a un ragazzo più giovane, perché sia mai che la famiglia viene fregata dalla marchetta di turno. Lo stesso Paese che si ferma per Giulia ha un giudice nel suo ordinamento democratico che chiede l’assoluzione per un cittadino di religione musulmana che ha picchiato la moglie perché, spiega, fa parte in fondo della loro cultura. Lo stesso Paese che si ferma per Giulia accetta che nella città di Monfalcone la comunità islamica imponga il Burka alle donne nella piazza del mercato il venerdì, vietato dalla legge, senza che mai sia intervenuto lo stato a capire cosa stesse succedendo. Lo stesso Paese che si ferma per Giulia condanna a 17 anni un orefice che ha ucciso due banditi entrati nel suo negozio per rapinarlo e che hanno minacciato figlio e moglie, mentre di fatto difende l’omicidio messo a segno da Filippo Turetta indicando nel patriarcato una sorta di complice sociale, con il rischio che passi l’idea in Italia che il rapinatoricidio, ovvero l’omicidio di un rapinatore, è più grave del femminicidio su cui abbiamo alzato il dibattito più forte degli ultimi dieci anni in Italia e su cui ci stracciamo le vesti dalla mattina alla sera.

E mentre succede tutto questo, mettiamo sullo stesso piano i terroristi islamisti di Hamas e lo Stato democratico di Israele, facendo una conta dei morti di guerra che trasforma in statistica due culture che per l’Occidente dovrebbero essere e rimanere differenti sempre e comunque. E che invece si mescolano fra loro facendo passare l’idea che non esiste una vera accettazione della cultura liberale alla base del nostro posizionamento internazionale. E che non esisterà nemmeno, di conseguenza, un capitalismo etico. Dove le democrazie in crisi hanno il coraggio di dire di no ai miliardi che arrivano per comprare pezzi del nostro mondo libero se questi Paesi sono gli stessi che picchiano le donne, le costringono al velo o al burqa, le segregano in casa. Perché pecunia non olet. E i patriarchi siamo sempre noi.

Il velo era già vietato da una legge del 2004. Attal, ministro francese dell’istruzione, ha deciso: niente più abaya, l’abito islamico, nelle scuole. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 27 Agosto 2023 

Gabriel Attal, a luglio nominato nuovo ministro dell’istruzione francese, ha preso una decisione che farà sicuramente discutere: nelle scuole francesi non si potrà più indossare non solo il velo (vietato già dal 2004) ma anche l’abaya, il mantello lungo e solitamente di colore nero che copre tutto il corpo eccetto testa, mani e piedi e che è un indumento tradizionale indossato dalle donne in alcune parti del mondo arabo.

Il sindacato principale del personale direttivo dell’educazione nazionale francese, Snpden, aveva già sollevato dubbi sull’uso crescente nelle scuole di abiti come abaya e qamis (l’equivalente maschile, una sorta di tunica lunga che arriva generalmente fino alle ginocchia o ai piedi). Gabriel Attal, il Ministro dell’Istruzione nazionale, ha deciso quindi di porre fine al dibattito, dichiarando domenica in un’intervista a TF1 che non sarà più consentito indossare l’abaya nelle istituzioni scolastiche.”Le scuole della Repubblica – ha dichiarato il ministro – sono costruite intorno a valori forti, in particolare la laicità. La laicità è una libertà, non una costrizione. Non si dovrebbe essere in grado di determinare la religione di un alunno quando si entra in una classe”.

Sia Snpden che Snalc, un altro sindacato, avevano chiesto al ministero di prendere una decisione chiara per alleviare la pressione su insegnanti e direttori. Sophie Vénétitay del Snes-FSU, il più grande sindacato del settore secondario, ha accolto favorevolmente la decisione, ma ha sottolineato l’importanza del dialogo con gli studenti interessati.

Questo annuncio arriva a pochi giorni dalla pubblicazione delle conclusioni di una nota dei dipartimenti governativi che rivelano un’esplosione delle “violazioni della laicità” (ovvero della neutralità religiosa) nelle scuole. Nell’anno scolastico 2022-2023 sono state fatte 4.710 segnalazioni, contro le 2.167 del 2021-2022. Tra queste infrazioni, quelle relative all’uso di simboli e all’abbigliamento hanno registrato un aumento particolarmente marcato. Tra settembre e novembre 2021, il Ministero ha ricevuto 91 segnalazioni di violazioni della laicità riguardanti l’uso di segni e abiti, pari al 14% di tutte le “violazioni della laicità” del periodo. Tra aprile e luglio 2023, il Ministero ha ricevuto 923 segnalazioni di violazioni della laicità, pari al 49% di tutte le “violazioni della laicità”.

L’abaya e il velo sono due tipi di indumenti differenti. L’abaya è un mantello lungo e sciolto che copre tutto il corpo tranne testa, mani e piedi. Di solito, è indossato sopra agli abiti comuni quando le donne escono in pubblico. Il velo, invece, è un indumento che copre la testa e talvolta il volto. Ci sono vari tipi di veli, come l’hijab, che copre solo la testa e il collo, lasciando il volto scoperto, e il niqab, che copre anche parte del volto, lasciando solo gli occhi visibili.

In Francia è vietato indossare simboli religiosi vistosi nelle scuole pubbliche, secondo una legge del 2004 che mira a mantenere la laicità (neutralità religiosa) nel sistema educativo. Questo divieto si applica a vari tipi di indumenti e simboli, inclusi l’hijab (velo islamico), grandi croci cristiane e kippah ebraiche. La legge è stata oggetto di molte discussioni e controversie, sia in Francia che a livello internazionale, riguardo ai suoi effetti sulla libertà religiosa e sull’integrazione delle minoranze. Tuttavia, è importante notare che il divieto si applica solo alle scuole pubbliche e non a luoghi come università o spazi pubblici in generale. Le giovani che indossano l’abaya, questo abito largo che copre ogni forma, si toglievano il il velo all’ingresso degli istituti ma poi rivendicavano di poter mantenere la tunica musulmana in classe, cosa che quindi sarà presto vietata.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

Donne islamiche al mare con il burkini, la moda che piace alla sinistra. Christian Campigli su Il Tempo il 19 agosto 2023

Essere costrette ad entrare in mare vestite è l’ennesima dimostrazione che, nella cultura musulmana, i diritti della donna hanno uno scarso valore o è, al contrario, la sintesi perfetta del connubio tra libertà e tradizione? Il dibattito sul burkini sta accendendo la politica italiana. Dividendo destra e sinistra. Infiammando i social network e creando un aspro dibattito nella società civile.

La polemica non è nuova, ma in questi giorni a cavallo di Ferragosto è stata riaccesa da alcuni episodi accaduti in Friuli. A Trieste e Montefalcone sono stati numerosi i cittadini che hanno chiesto ai propri sindaci di intervenire. In nome del decoro pubblico. Anna Cisint, primo cittadino leghista del centro portuale in provincia di Gorizia, ha reso noto una lettera. Indirizzata alla comunità musulmana. «Chi viene da diverse dalla nostra ha l’obbligo di rispettare le regole e i costumi che vigono nel contesto italiano e locale. Non possono essere accettate forme di islamizzazione del nostro territorio, che estendono pratiche di dubbia valenza dal punto di vista del decoro e dell’igiene, generando il capovolgimento di ogni regola di convivenza sociale». Un episodio analogo si è verificato anche a Trieste, al Pedocin, lo storico lido che dal 1903 prevede la separazione, in spiaggia, tra uomini e donne. Nello stabilimento più famoso della città c’è stato un vero e proprio scontro tra un gruppo di donne italiane e musulmane, perché queste ultime volevano entrare in acqua vestite.

Prevedibile come il sole di luglio o la neve di dicembre, è giunta la sdegnata presa di posizione di un’associazione di sinistra. Nello specifico, Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics (Consorzio Italiano di Solidarietà Ufficio Rifugiati Onlus) ha detto che «non è possibile imporre alcuna limitazione all’abbigliamento per motivi religiosi in base all’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo». Sulla stessa linea anche l’associazione Dasi (diritti accoglienza solidarietà internazionale). «Gli insulti per il bagno in burkini non solo sono inaccettabili, ma anche perseguibili sul piano penale». Ovviamente, anche la politica istituzionale si è schierata. La sinistra, come da copione, ha difeso i musulmani. «Ognuno è libero di fare il bagno come ritiene giusto», ha sottolineato il consigliere regionale del Friuli di Open -Sinistra Furio Honsell. Il capogruppo del Pd in consiglio regionale, Diego Moretti, si è rivolto direttamente al sindaco Anna Cisint. «Basta chiacchiere e basta ai deliri di onnipotenza che non risolvono in alcun modo i problemi, ma esasperano le situazioni».

Ma la vicenda burkini non è esclusiva friulana. All’inizio di luglio, in una piscina di Limbiate, piccolo centro in provincia di Monza, era stata organizzata una festa di donne musulmane. Rigorosamente vestite. Un’iniziativa poi annullata, dopo che l’eurodeputata leghista Isabella Tovaglieri aveva parlato di «segregazione femminile». Matteo Salvini, da molti anni, ha puntato il dito contro «il simbolo della violenza sulle donne». Il leader del Carroccio ha chiesto più volte ai sindaci di vietarlo. Non va infine dimenticato che domenica mattina si svolgerà una manifestazione dal titolo «Bagno in solidarietà con le donne musulmane. Andiamo tutte in acqua vestite». Un flash mob partito dai social, attraverso il quale si chiede alle donne italiane di esporsi «per il rispetto, la libertà e la fratellanza tra i popoli».

"È un problema di igiene". Ora anche a sinistra si accorgono dei problemi del burkini. Francesca Galici il 22 agosto 2023 su Il Giornale.

L'ex assessore della giunta di centrosinistra a Pordenone sbotta in piscina: "Perché io devo fare la doccia, avere costume e cuffietta e la signora invece poteva entrare in piscina vestita?"

Nell'Italia nord-orientale, il tema dell'estate è indubbiamente il burkini. Qui, più che in altre zone italiane, il dibattito è acceso a causa del raggiunto limite di sopportazione da parte della società civile che ora vede il pericolo islamizzazione delle proprie città. In principio era Monfalcone, poi Trieste e ora Pordenone a fare notizia. Se nelle prime il nodo è rappresentato dall'inopportunità di accettare che le donne musulmane si facciano il bagno completamente vestite o col burkini in mare, a Pordenone il dibattito si è acceso nella piscina comunale della città.

I diritti difesi alla rovescia

E a Pordenone la discussione non è stata sollevata da un esponente di centrodestra, elemento dirimente nelle polemiche della sinistra, ma da un ex assessore del Comune, Vincenzo Romor, medico in pensione, di una giunta di centrosinistra. Ha richiamato l'attenzione del bagnino quando si è reso conto che una donna stava entrando in acqua col burkini, perché "se il regolamento dice che devi fare la doccia prima di entrare, indossare costume e cuffia, devi rispettarlo. E non è una questione politica o di religione. Ma di igiene". Dalla piscina difendono la donna e dicono che il costume era regolamentare ma le foto del medico lasciano qualche dubbio: "Indossava un vestito con i pantaloni, prima si siede ai bordi della vasca, poi piano piano si immerge. Ho visto l'abito e la prima cosa che ho pensato è stata quella di chiedere spiegazioni alla bagnina. Volevo sapere perché io devo fare la doccia, avere costume e cuffietta e la signora invece poteva entrare in piscina vestita, come si vede dalla foto. Era palese che c'era un problema di igiene".

Queste le parole del medico al Gazzettino, al quale sottolinea che dal momento che chiunque entri in piscina con un costume idoneo è costretto a farsi la doccia, quindi a insaponarti, lei avrebbe dovuto insaponare e lavare il costume prima di entrare, proprio nel rispetto dei dettami igienici di una piscina, un luogo pubblico comune. "Ho visto che si spostava vicino alla zona alberata e poco dopo si è immersa ancora una volta in piscina", prosegue ancora l'uomo, evidentemente indispettito dal solito doppiopesismo che avanza in questo Paese per timore di essere accusati di discriminazione se si fanno rispettare le regole.

In Marocco, paese di cultura islamica, per le ragioni igieniche spiegate anche dal medico e per ragioni di sicurezza, per esempio, è stato vietato il bagno in piscina alle donne col burkini. In caso di interventi di salvataggio da parte degli operatori del soccorso, infatti, le parti non aderenti al corpo creano un ingombro che complica le operazioni e mette in pericolo la vita stessa dell'assistito e del bagnino. Per questa ragione si obbligano gli uomini a non indossare costumi di tipo boxer e le donne costumi che restino aderenti al corpo. Ma in Italia chiunque faccia notare le criticità del burkini è tacciato di Islamofobia e su questa base diventa difficile affrontare discussioni costruttive.

 "Chi viene in Italia deve rispettare le nostre regole". Scatta la stretta sul burkini in spiaggia. Francesca Galici il 16 Agosto 2023 su Il Giornale.

Monfalcone e Trieste unite nel contrasto all'usanza delle donne musulmane di fare il bagno vestite o col burkini. La battaglia in Francia che va avanti dal 2016

Tabella dei contenuti

 Il "caso del burkini"

 La situazione francese

Il caso dell'estate nell'Italia nord-orientale sembra essere l'utilizzo del burkini o, in generale, l'usanza delle donne musulmane di fare il bagno completamente vestite. A Monfalcone, il sindaco di area leghista Anna Maria Cisint, ha da prima inviato una lettera aperta alla comunità musulmana locale, invitandola a rispettare il decoro e la sensibilità della cittadinanza, e in seconda battuta ha annunciato che la sua giunta sta lavorando a un provvedimento locale per vietare questo tipo di usanza. Una mossa sostenuta anche dal sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, e dal senatore e coordinatore regionale Lega del Friuli-Venezia Giulia, Marco Dreosto.

"Non è integrazione, ma sostituzione". Il sindaco difende la scelta anti burqa in spiaggia

Il "caso del burkini"

"Stiamo lavorando per la costruzione di un provvedimento adeguato che vieti il bagno in mare vestiti, con il burkini o comunque coperte. Siamo persone serie, entro ottobre sarò pronta con un provvedimento", ha dichiarato Cisint, che ha sottolineato come, dal momento in cui è stata inviata la lettera, "è calato drasticamente il numero delle donne vestite in spiaggia". Ora, prosegue il sindaco, si contano sulle dita di una mano. "Chi viene nel nostro Paese deve rispettare le nostre abitudini e le nostre regole", ha concluso, sostenendo che la battaglia fonda sul contrasto a una "logica di islamizzazione dei nostri territori, che diffonde le pratiche peggiori dei luoghi di provenienza di questi stranieri, nei quali le donne vivono ancora in una condizione di mortificazione e sudditanza".

Proteste agli storici bagni Pedocin: "Niente burkini"

Cisnit ha ottenuto il sostegno dal collega di Trieste e anche nel capoluogo di Regione, da sempre città mitteleuropea che guarda con favore all'integrazione di varie culture, ci sono stati problemi in tal senso. Nello storico Pedocin di Trieste, il tradizionale "bagno" dove dal 1903 i maschi sono divisi dalle donne, un gruppo di triestine ha discusso con un gruppo di musulmane che, una volta entrate nella parte femminile, volevano fare il bagno vestite. "Se vieni in Italia, sai in che Paese vieni e dunque devi adattarti", ha detto Dipiazza, sostenendo il principio della collega monfalconese.

La situazione francese

In Francia questo dibattito è aperto da anni, con maggiore intensità dal 2016. Il Paese transalpino, che ha una concentrazione molto superiore a quella italiana in merito alle donne seguaci della religione di Maometto, in alcune zone del Paese è arrivato a vietare l'utilizzo del burkini in nome della laicità dello Stato. In Francia, infatti, è vietata l'esposizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici e il burkini, per quel che rappresenta, lo è. Ma non solo, perché nelle piscine francesi, per ragioni di sicurezza e igiene, è fatto divieto di indossare capi che non siano aderenti a corpo.

"Un attentato alla laicità". Il Tar dice no al burkini in piscina

Il burkini, che ha una gonna galleggiante, nei fatti non lo è, al pari dei bermuda da uomo. Il tribunale ha di recente stabilito che autorizzarlo è una "violazione della norma generale che impone l'uso di un indumento aderente nelle piscine" e autorizzarne l'uso per ragioni religiose mina "il principio di neutralità del servizio pubblico”. Ma il burkini è solo parte di una battaglia portata avanti in tutto il Paese in difesa della laicità, che vede anche una lotta contro l'hijab in qualunque ufficio pubblico: dipendenti pubblici devono rispettare una rigorosa neutralità, sia che siano in contatto con il pubblico o meno, quindi non è possibile indossare il velo.

Estratto dell’articolo di Cosimo Caridi per il “Fatto quotidiano” giovedì 20 luglio 2023.

Le piscine di Berlino sono diventate il focus della politica tedesca. Con risse, feriti e identificazione all’ingresso sono il contrario dell’attesa, placida estate del nord. Per il governo regionale, monocolore dei conservatori, la responsabilità è delle minoranze, degli arabi. 

“Le famiglie che non possono permettersi una vacanza o una piscina nel proprio cortile – ha detto il segretario cittadino della Cdu, Carsten Linnemann – devono guardare i giovani, spesso con un passato migratorio, diventare violenti nelle piscina all’aperto”. 

Al centro della polemica ci sono gli episodi di violenza che hanno portato alla chiusura per oltre una settimana avvenuti nell’impianto di Neukolln, il quartiere multietnico che da alcuni anni sta subendo un feroce processo di gentrificazione. […]

Questa intransigenza strizza l’occhio alla crescita del partito di estrema destra Afd, nei sondaggi attuali seconda forza nazionale. 

Per i berlinesi l’estate, con il freddo Mar Baltico a 250 chilometri, è periodo di bagni nei laghi e nelle vasche comunali. Ogni quartiere ha la propria piscina all’aperto dotata di un grande giardino e un servizio di ristorazione. Il biglietto giornaliero costa 3,5 euro e per entrare c’è sovente la coda. La clientela è variegata e in tutte le strutture vale la regola dell’inclusione. 

La scorsa estate una ragazza fece causa alla città per il diritto al topless. La corte le ha dato ragione: se gli uomini possono stare a torso nudo, anche le donne ne hanno diritto. 

I conflitti nascono nei contesti dove più è stata messa in pratica l’accoglienza delle centinaia di migliaia di profughi nel biennio 2015/16. Giovani maschi si presentano in gruppo nelle piscine impedendo alle ragazze di fare bagno, arrivando ad attaccare (anche con coltelli) bagnini e addetti alla sicurezza. 

[…] I media sono alla caccia di un colpevole: per alcuni è l’immigrato musulmano, per altri le mancate politiche d’integrazione. Una crepa in un sistema di accoglienza che cerca 400mila lavoratori l’anno per la produttività della locomotiva d’Europa.

Estrato dell’articolo di Luana De Francisco per “la Repubblica” giovedì 20 luglio 2023.

A lei vedere le donne musulmane immergersi in mare con indosso il burkini non piace proprio. Di più: lo considera un «comportamento inaccettabile » con «conseguenze insopportabili sulla salvaguardia del decoro del luogo». 

E allora, visto che è la sindaca, per evitare che lo «sconcerto », suo e degli altri frequentatori delle spiagge che rientrano nel perimetro della città che amministra, si ripeta, ha deciso di passare ai fatti, vietando la balneazione con abiti diversi dal tradizionale costume da bagno. A tutti, uomini compresi. Anna Cisint, prima cittadina di Monfalcone al suo secondo mandato e leader della Lega, fa di nuovo parlare di sé.

[…] oltre a scatenare la prevedibile indignazione delle comunità islamiche e delle opposizioni, la sua iniziativa ha incassato anche la bocciatura di diversi colleghi di città italiane affacciate sul mare. Dall’Adriatico al Tirreno. 

Parte dai tanti sforzi compiuti per rendere le spiagge di Marina Julia e Marina Nova più attrattive, per le famiglie e per gli appassionati degli sport acquatici, Cisint, per spiegare il proprio sdegno. «Ingenti investimenti per le strutture, il ripascimento della spiaggia e lo sviluppo dei servizi», ricorda, convinta che incrociare sull’arenile bagnanti coperti dalla testa ai piedi possa «compromettere le prospettive di una località con una dimensione turistica consolidata ». 

[…] 

«Hanno l’obbligo di rispettare le regole e i costumi che vigono qui. Non possono essere accettate forme di “islamizzazione” del territorio, che estendono pratiche di dubbia valenza dal punto di vista del decoro e dell’igiene».

Il passo dalle spiagge alle strade del centro è breve. Sostenitrice dei diritti delle donne, Cisint ha esteso gli strali «alla sempre maggiore presenza di musulmane con il burqa e l’integrale copertura del volto che impedisce ogni identificazione, evocativa — afferma — d’una visione integralista e di una volontà di non rispettare le norme. Non possiamo consentire che si sviluppi “una città nella città”, con regole diverse dalle leggi e dal comune sentire, e una “discriminazione all’incontrario”» […]

Ma a pensarla diversamente sono in tanti. «Non ci vedo niente di male: due generazioni fa, mia nonna faceva il bagno indossando una lunga veste di lana», ricorda il sindaco di Ischia, Enzo Ferrandino. Che mai, assicura, vieterebbe di tuffarsi vestiti nelle acque della sua isola. Idem dicasi a Rimini, dove il primo cittadino Jamil Sadegholvaad, di padre iraniano, sceglie l’ironia per commentare quella che liquida come «non una grande idea». «Se qualcuno entra in mare vestito — dice –, si perde il piacere di farsi una nuotata. Ma non mi pare offensivo per nessuno». […]

Sapore di male. L’infantile emancipazione delle smutandate e la mia imperdibile teoria sul bikini. Guia Soncini su L'Inkiesta il 21 Luglio 2023

Il sindaco di Monfalcone ce l’ha con le musulmane che vanno in spiaggia col burqa, ma in realtà è raccapricciante vedere gente mezza nuda che parla con estranei come fosse perfettamente vestita e presentabile e rispettabile

In un film abbastanza assurdo che Dino Risi girò dopo “Il sorpasso”, “L’ombrellone”, ci sono le vere immagini d’un agosto a metà anni Sessanta. Le immagini d’un mondo che ora sembra ricostruito con gli effetti speciali, se non si è abbastanza vecchi da averlo visto.

La Roma deserta che attraversava Enrico Maria Salerno andando a raggiungere la moglie al mare non esiste più: le città hanno smesso di svuotarsi con Ryan Air, col turismo di massa, con gli agosti di questo secolo in cui gli unici a restare inderogabilmente chiusi per almeno sei settimane sono i lavasecco.

La spiaggia di Rimini, le cui immagini mi fanno venire un attacco di panico, forse è invece ancora così, con una distesa di carne invece che di acqua. L’umanità fa un sacco di cose per me inconcepibili, ho smesso da decenni di farmi domande in merito (non posso passare la vita a chiedermi come sia possibile che v’interessi guardare il calcio), e tra queste c’è anche: andare in spiagge in cui c’è altra gente.

Certo, c’entra il fatto che andare nei posti che piacciono a me (che siano barche o spiagge private) costa molto, e o sei molto ricco o t’accontenti di fare tre giorni di vacanza ogni tre anni; se sei uno che pretende di farsi le sue brave due settimane ogni agosto, è plausibile che Rimini sia alla tua portata e la Polinesia no. Ma c’è anche il fatto che alla gente piace l’altra gente, le piace vedere la carne degli sconosciuti, uno spettacolo che io reputo raccapricciante.

Quand’ero abbastanza giovane da avere amiche che si preoccupavano di come stessero loro i vestiti, ogni anno c’era il dramma della prova costume. Un anno mi scocciai di assecondare le paturnie della compratrice di bikini di turno e sbuffai: ma come ti deve stare, ti sta come stai in mutande, come stai nuda. Ella passò gli anni successivi a ripetere questa frase come qualcuno le avesse decodificato la teoria della relatività, e io mi chiedo da allora come mai, una volta compreso che in bikini sei nuda, ella abbia continuato a mettercisi.

Guardate che non è normale. Non è normale che ciò che ci parrebbe inaccettabile per dieci mesi – entrare al bar e trovarci gente in mutande – poi sia considerato potabile in estate. Tu vai in spiaggia, un luogo pubblico, e la gente è mezza nuda. È mezza nuda nonostante non sia un’orgia. È mezza nuda nonostante non sia a casa propria. È mezza nuda e parla con estranei come fosse perfettamente vestita e presentabile e rispettabile, con lo stesso modo con cui in inverno da vestita parla coi professori dei figli o con l’idraulico.

Non è una questione estetica. Cioè, certo che lo è, ma non nel modo gerarchico in cui la state pensando voialtri (vi vedo) che siete lì che dite beh, se si denuda Guaia Sorcioni no, ma io Gwyneth Paltrow in mutande la guardo volentieri. Certo che le mie trippe sballonzolanti sono persino più raccapriccianti delle carni di chi si è applicata acciocché le sue carni fossero esteticamente piacevoli. Ma il punto è che comunque coperti è meglio. Il punto è che i vestiti sono un linguaggio.

È bislacco che questo linguaggio venga sospeso e poi riattivato, che conveniamo come società che non valga l’idea che essere nudi significhi qualcosa solo in alcuni mesi e luoghi (i luoghi contano: certi ristoranti al mare, che vogliono darsi un tono, vietano di pranzare in costume – ah!, allora siete d’accordo che è un modo di conciarsi impresentabile).

Alfred Hitchcock diceva che Grace Kelly era sexy perché apparentemente gelida, mentre «la povera Marilyn» aveva il sesso scritto in fronte. Hitchcock era uno stronzo, ma come frequentemente accade agli stronzi aveva ragione: se sei già in mutande, dov’è la seduzione, dov’è il mistero, dov’è il desiderio?

Non sono più (da decenni) abbastanza giovane da rimorchiare in spiaggia, e quando lo ero probabilmente non ci riflettevo, ma mi fa molto ridere l’idea di due che si conoscano al mare, in costume da bagno, organizzino un’uscita, e passino la cena a desiderare di strapparsi i vestiti, cioè non di approdare a una condizione che d’inverno sarebbe un obiettivo chissà se conseguibile, ma di ritrovarsi daccapo nella modalità nella quale già si trovavano quando si sono detti come si chiamavano. Riuscirò a vedere in mutande quella che ho già visto in bikini? Invero una grande sfida.

Il sindaco di Monfalcone, Anna Maria Cisint, ha scritto che «La pratica di accedere sull’arenile e in acqua con abbigliamenti diversi dai costumi da bagno deve cessare». A parte che si accede a, e non su. A parte che non riesco a prendere sul serio questa notizia perché ripenso a quella battuta di Paolo Rossi («Dici “com’è triste Venezia”? Non hai mai visto Monfalcone»).

Il sindaco ce l’ha con le musulmane che vanno in spiaggia col burqa, dice che «comportamenti lesivi della rispettabilità e della dignità necessaria nella frequentazione di questi luoghi pubblici incidono negativamente nell’attrattività e nelle ricadute per i gestori dei servizi» (sindaco, era qui che ci andava «su», si incide su, non si incide in, sindaco, perché l’istruzione obbligatoria l’ha lasciata indietro?).

Implica, immagino, che io veda una tizia coperta (non so, Afef, che nelle foto al mare ho sempre visto in canotta e pantaloncini, il che ne fa la mia unica compagna di spiaggia possibile) e dica ah no, allora a prendere il cremino al bar di questo stabilimento non ci vado.

E io ci posso pure credere. Posso credere che ci sia un tipo di clientela che la bagnante in burqa non la vuole vedere. Solo che il divieto di coprirsi include anche me (che sono grandemente atea con l’eccezione delle magliette di James Perse cui sono devota per la spiaggia) e Afef e Nigella Lawson e tutte quelle che in mutande ci si fanno vedere solo da quelli dai quali hanno scelto di farsi vedere in mutande.

Nel Novecento, mia madre prendeva il sole senza reggiseno. Aveva delle bellissime tette, ma era uno spettacolo straziante, perché in quello spogliarsi più del necessario vedevi sempre il bisogno di épater, di rimarcare che era empancipata, di far dimenticare che veniva dal profondo sud.

Era Assunta Patanè (la Vitti della “Ragazza con la pistola”, lo specifico perché so che avete Google rotto), e io che ero nata tra il Dams e l’eroina e il punk e l’Aids la guardavo con compatimento indossando il mio accollato costume intero. È passata una vita, è il 2023: veramente dobbiamo ancora dimostrarci emancipate smutandandoci?

Il Matrimonio

Ancona, Mithila suicida a 15 anni. «Indossava il velo solo se c’era suo padre». Storia di Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera sabato 4 novembre 2023.

Sul marciapiede di via Capodistria ora c’è un mazzo di fiori, uno solo. Lo ha lasciato una «prof» che si firma «Barbara». Accanto, un cuore. Null’altro. I vicini che conoscevano Mithila Akter, la quindicenne del Bangladesh, di religione islamica, di un anonimo palazzo dove viveva con la famiglia a 500 metri dal porto di Ancona, descrive un’adolescente «buona, rispettosa». Poi, sgomenti: «impossibile immaginare quella fine». «Il velo? Lo portava solo se c’era il padre, sennò non lo metteva», ricorda una donna sulla quarantina che la incrociava al mattino, quando andava a scuola al professionale «Podesti - Calzecchi Onesti» dov’era iscritta a un corso per parrucchieri.

Dal balcone

Lunedì sera Mithila si è lanciata dal balcone. Si è spenta giovedì pomeriggio, dopo tre giorni di coma. Il padre Shaib, un operaio magro, statura media, pizzetto bianco e l’aria assai più stanca dei suoi 49 anni, è indagato per istigazione al suicidio. L’ipotesi della Procura è che dietro quella tragedia ci sia l’ombra delle nozze combinate in Bangladesh, dove la famiglia sarebbe dovuta andare a dicembre, una volta ultimato il trasloco in una nuova abitazione sempre ad Ancona. Mithila era preoccupata da tempo. «I miei genitori vogliono che io mi sposi» aveva confidato a un’insegnante, in terza media, che aveva segnalato il caso ai Servizi sociali del Comune. Dopo l’apertura di un fascicolo al Tribunale dei minori gli assistenti avevano ascoltato più volte il padre e la madre per valutarne la capacità genitoriale. Grazie poi al giudizio positivo maturato quest’estate, era stata permessa l’iscrizione al professionale dove la ragazza continuava a essere seguita dagli psicologi.

L’autopsia

Al momento della tragedia, in casa c’erano la madre della quindicenne, la sorella più grande con il marito e cugini piccoli. Qualcuno ha sentito «un urlo. E un botto». I familiari sono corsi giù, disperati. Poi l’arrivo del 118, delle «volanti». Ma perché quel gesto? Mithila, che si è lanciata con le ciabattine, più tardi sarebbe dovuta uscire con la madre per la spesa. All’indomani era programmata una visita ginecologica al consultorio e non è chiaro il perché. L’autopsia avrebbe escluso lesioni da violenze confermando solo la morte dovuta a un trauma cranico. Gli agenti hanno consegnato al pm Andrea Laurino due quaderni e un cellulare da cui non sarebbero emersi elementi utili a capire le ragioni del gesto. «Siamo i primi a voler conoscere cosa sia davvero accaduto a mia sorella, e questo dal cuore: sono tre giorni che non faccio altro che andare in Questura», racconta Sobug, il fratello 26enne di Mithila, sostando davanti l’uscio di casa. «Vivo in Italia da 17 anni, ho chiesto la cittadinanza; qui mi piace, lavoro come operaio, ma dopo questa botta vediamo, so che resterò distrutto per tutta la vita, lo stesso i nostri genitori».

Le nozze

Il padre della ragazza esce un attimo da casa per andare a prendere un caffè. «Sono un uomo disperato» racconta Shaib camminando a passi lenti verso il bar. «Salam aleikum», «pace a voi» risponde ai tanti che lo salutano incrociandolo. «Il viaggio in Bangladesh? No, non era previsto», dice. La visita in consultorio? «Non so nulla». A chiedergli dell’ipotesi delle nozze di sua figlia, sgrana gli occhi: «Impossibile solo pensarlo, aveva 15 anni, poco più di una bimba». Ma le frequenti liti con lei di cui hanno riferito i vicini? «Mithila mi voleva bene, mi diceva sempre “papà lavori troppo”. E anche quando è morta io stavo lavorando al cantiere, mi ha avvertito Sobug: “Corri a casa...”». Poi si congeda così: «Passeggiavo spesso lungo questa strada con mia figlia, da casa sino a piazza Roma. Ora non potrò più farlo...».

L’aspetto giuridico e l’aspetto sociale.

Toghe contro toghe a Brescia: l’Anm sta col pm che ha “giustificato” la violenza. Il sindacato dei magistrati e la Camera penale difendono il magistrato per il quale i maltrattamenti alla moglie sono un “fatto culturale”. Ma il procuratore si dissocia: «Siamo contrari a qualunque forma di relativismo giuridico». Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 14 settembre 2023

Come era facilmente prevedibile, non si placano, pur essendo passati alcuni giorni, le polemiche a seguito della decisione del pm di Brescia di chiedere l'archiviazione nei confronti di un cittadino del Bangladesh accusato di aver maltrattato e minacciato la moglie, costringendola anche ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà. Per il pm bresciano Antonio Bassolino sarebbe manca «l'abitualità» della condotta e gli episodi incriminati sarebbero maturati «in un contesto culturale che, sebbene inizialmente accettato dalla» moglie dell’uomo poi «si è rivelato intollerabile, rifiutando il modo di vivere e le tradizioni della comunità bengalese di cui l'imputato era fieramente latore.

In altri termini - aveva aggiunto Bassolino nella richiesta di archiviazione, a fronte di una imputazione coatta da parte del gip - l'intolleranza della convivenza» per la donna «è maturata nell'ambito di una differenza culturale già esistente tra i due ma per lungo tempo tenuta sopita» dalla moglie, «la quale aveva creduto di poter accettare l'impianto culturale della famiglia di origine per ragione legate all'affetto e al rispetto nei confronti della famiglia e della madre». Al bengalese, islamico di stretta osservanza e verosimilmente per nulla integrato nel contesto sociale occidentale, sarebbe così mancata la «coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge, atteso che la disparità fra l'uomo e la donna è un portato della sua culturale che la medesima aveva persino accettato».

Frasi che avevano immediatamente determinato da parte del consigliere laico del Csm Enrico Aimi (FI) la richiesta di apertura di una pratica per valutare la condotta del magistrato proprio «per la gravità delle asserzioni del pm che parrebbe giustificare, se non autorizzare, la violenza domestica». Per Aimi, tale condotta «è assolutamente inaccettabile, soprattutto in questo momento storico in cui assistiamo quotidianamente a forme di sopruso e maltrattamenti a danno di donne». Il procuratore di Brescia Francesco Prete aveva immediatamente preso le “distanze” dal suo sostituto, sconfessandone di fatto l'operato. La procura, si legge in una nota, «ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento “culturale”, nei confronti delle donne». Prete, dopo aver ricordato che il pm in udienza è libero ed indipendente, esercitando le sue funzioni «con piena autonomia» e che pertanto le conclusioni da egli rassegnate in aula «non possono essere attribuite all’ufficio nella sua interezza», aveva voluto tranquillizzare l'opinione pubblica ribadendo che tutti i magistrati del suo ufficio agiscono sempre «nel rispetto della legalità, secondo i parametri fornitici dalla Costituzione e dalla legge». A difendere il collega dalla gogna mediatica che lo aveva investito, invece, la locale sezione dell'Associazione nazionale magistrati. Per l’Anm, «con queste modalità è stata gravemente minata innanzitutto la dignità umana e professionale del singolo magistrato coinvolto, la cui cifra personale, culturale e professionale è stata indebitamente messa in discussione».

«Le critiche si propagano al suo ufficio giudiziario di appartenenza e alla magistratura in generale», aveva aggiunto l'Anm, stigmatizzando poi «le ormai consuete acritiche condanne provenienti dalla politica, che sempre più frequentemente invoca, quale rimedio per ogni male giudiziario (reale o presunto), ispezioni ministeriali negli uffici interessati e sanzioni disciplinari, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti di legge, e ciò avviene ogni qualvolta le valutazioni compiute dai magistrati non coincidano con le aspettative dell’opinione pubblica prevalente, slegate dalla compiuta conoscenza dei fatti concreti e, spesso, dei termini delle questioni giuridiche implicate». Concetto ribadito anche dalla Camera penale di Brescia, che vede dietro «l’opportunismo propagandistico il preludio di nuove legislazioni emergenziali, che non rispondo ai reali bisogni della società e della giustizia». Per i penalisti, è «inammissibile ogni intervento della funzione politica volto a cavalcare reazioni emotive legate ai fatti di cronaca, a promuovere campagne di opinione e a imporre condizionamenti alla celebrazione del giudizio penale, soprattutto con una totale mancanza di approfondimento rispetto ai primi titoli sensazionalistici fondati su notizie parziali». Vedremo cosa accadrà prossimamente.

Brescia, maltratta la moglie ma il pm chiede l’assoluzione: “Viene dal Bangladesh. È la sua cultura”. Lo sfogo della donna: "Era un matrimonio combinato, mi trattava da schiava". Può una cultura diversa essere una giustificazione alle violenze in Italia? Edoardo Martini il  12 Settembre 2023 su La Nazione

Il pubblico ministero di Brescia ha chiesto l'assoluzione per l'uomo che ha maltrattato la sua ex moglie per via della sua cultura

È polemica per la posizione del pm della Procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna nata in Bangladesh, ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare le violenze subite dall’ex coniuge.

Secondo il giudice il marito non sarebbe da considerare colpevole in quanto il comportamento dell’imputato sarebbe frutto dell’impianto culturale

La motivazione del pm di Brescia

Secondo il pubblico ministero: “La compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia della medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura e che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”.

“Sono stata trattata da schiava, picchiata e umiliata”

A scagliarsi contro le parole del magistrato è stata prima di tutto la donna, vittima per anni di violenze, denunciate nel 2019: “Dove è la giustizia e la protezione tanto invocata per le donne, tra l’altro incoraggiate a denunciare al primo schiaffo? Oppure il fatto che io sia una bengalese tra le tante, mi rende di meno valore dinanzi a questo pm?”.

Ha raccontato: “Da quando avevo quattro anni ho vissuto a Brescia e nel 2013, dopo la morte di mio padre, i miei zii mi hanno costretta a sposare un cugino a cui sono stata venduta per 5mila euro. Avevo 17 anni, studiavo alle superiori, oppormi non è servito.

Dopo il matrimonio siamo tornati in Italia – racconta sempre la donna – in casa di mia mamma fino alla nascita della prima figlia. Poi siamo andati a vivere da soli. Non potevo dire nulla, altrimenti ricevevo urla, insulti e botte.

Con la bimba di circa un anno e mezzo mi ha portato in Bangladesh per una vacanza. Lui è tornato in Italia e mi ha costretto a restare là. Nel frattempo ho scoperto di aspettare la seconda figlia. Mi diceva che nessuno mi avrebbe voluta con due figli. Così con le botte, gli insulti. Ero una schiava”.

Gli spunti di riflessione

Il punto è questo. È possibile giustificare i maltrattamenti declassandoli a mero frutto culturale? Ammesso pure che certe dinamiche appartengano ad altre culture, non dovrebbero essere giudicate in base alle leggi del paese in cui esse avvengono? In questo caso quelle italiane?

Anche in Italia, dopotutto, la prevaricazione (fisica e morale) dell’uomo sulla donna è figlia di una cultura patriarcale. Eppure anni e anni di battaglie femministe, ancora in corso, hanno avuto e hanno tutt’ora l’obiettivo di cambiare questa cultura, di eliminare certi retaggi.

“Sono stata trattata da schiava, picchiata, umiliata”, lo sfogo della donna  

La sentenza a ottobre

La Procura tra l’altro, dopo la denuncia della donna, aveva già chiesto l’archiviazione del caso, ma il gip aveva imposto l’imputazione coatta dell’ex marito.

Il pm si è mostrato fermo sulle sue posizione anche in aula: “Le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto inizialmente accettato dalla parte offesa, che l’ha trovato intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono, interrompendo il matrimonio e rifiutando il modo di vivere delle tradizioni bengalesi delle quali, invece, l’imputato si è fatto fieramente latore”.

La sentenza finale è prevista per ottobre, ma intanto la donna si è costituita parte civile contro il marito  

La sentenza è prevista per ottobre e, intanto, la donna si è costituita parte civile contro il marito. “Aspetto con fiducia la sentenza perché non posso pensare e credere che in una nazione come l’Italia si possa permettere a chiunque di fare del male ad altri impunemente solo perché affezionato a una cultura nella quale la donna non conta nulla e l’uomo può su di lei tutto anche porre fine alla sua vita”.

“Solo per una questione di obbedienza culturale. Ciò in Italia non può accadere“, questo lo sfogo della donna in un’intervista al Giornale di Brescia.

Le reazioni della politica

Intanto la politica si mobilita. La vicepresidente dell’Europarlamento, la dem Pina Picierno, che considera “assurda” la richiesta di archiviazione perché il magistrato considera la “mentalità abusante e schiavista un retaggio culturale” chiede al ministro della Giustizia Carlo Nordio di mandare gli ispettori in Procura.

Mentre il ministro Roberto Calderoli bolla come “pericoloso” il messaggio del pm in un momento in cui “stiamo affrontando una battaglia culturale, oltre che normativa, per arginare questa strage”.

Per la collega alla Famiglia Eugenia Roccella “Da noi una donna non può avere meno diritti e tutele se nasce in una famiglia portatrice di una diversa cultura: l’appartenenza non può essere una condanna esistenziale”.

I precedenti

Nel 2021 un telepredicatore islamico, arrestato nel 2019 per maltrattamenti e lesioni ai danni della moglie di 20 anni più giovane, fu assolto in primo grado, sempre a Brescia. In quel caso il pm chiese quattro anni, ma fu la corte a decidere di non punire l’imputato.

Il tutto rimanda al 2007, quando in Germania furono riconosciute le attenuanti in un caso di violenza sessuale. In quella situazione l’imputato ebbe uno sconto di pena perché, dissero i giudici, “si deve tener conto delle sue impronte culturali ed etniche: è un sardo”.

Brescia, il procuratore si dissocia dal pm che ha chiesto l’assoluzione per “motivi culturali”.  “Questo Ufficio ripudia qualunque forma di relativismo giuridico”, scrive il magistrato dopo le polemiche sul caso di una donna bengalese che aveva denunciato il marito per maltrattamenti. Il Dubbio il 12 settembre 2023

Il procuratore di Brescia, Francesco Prete, interviene sul caso del pm del suo ufficio che, secondo quanto riferito dal Giornale di Brescia, ha chiesto l’archiviazione per un cittadino bengalese accusato di maltrattamenti dall’ex moglie, perché si tratterebbe di un reato

“culturalmente orientato”.

“Questa Procura della Repubblica ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza morale e materiale di chiunque a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturale' nei confronti delle donne”, scrive il procuratore. “In merito agli articoli di stampa relativi alle conclusioni rassegnate dal pm nel processo a carico di Hasan Md Imrul faccio presente che queste, in base alle norme del codice di procedura penale, non possono essere attribuite all'ufficio nella sua interezza, ma solo al magistrato che svolge funzioni di udienza”, precisa il procuratore. Il riferimento legislativo è “all'articolo 53 del codice di procedura penale ('nell'udienza il magistrato del pubblico ministero esercita le sua funzioni con piena autonomia') e all'articolo 70 dell'ordinamento giudiziario”. Prete scrive quindi che “le richieste di ispezioni ministeriali” chieste da diversi esponenti politici “ci lasciano assolutamente tranquilli, essendo tutti i magistrati dell'ufficio sicuri di avere sempre agito nel rispetto della legalità, secondo i parametri fornitici dalla Costituzione e dalla legge”.

Il caso

Il caso riguarda una 27enne italiana di origine bengalese che nel 2019 ha denunciato il marito per maltrattamenti. La procura di Brescia prima ha proposto l'archiviazione e poi - dopo che il gip ha ordinato l'imputazione coatta - l'assoluzione dell'uomo, perché - scrive il pm nelle conclusioni depositate dalle parti - “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell'odierno imputato sono il frutto dell'impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l'uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”. “La cultura di origine non può essere una scusa. Sono stata trattata da schiava”, ha affermato sempre a Il Giornale di Brescia la donna. Il processo arriverà a sentenza ad ottobre.

Estratto dell’articolo di Lucia Landoni per repubblica lunedì 11 settembre 2023.

Va assolto dal reato di maltrattamento nei confronti della moglie perché è un fatto culturale. E’ il senso delle parole utilizzate dal pubblico ministero di Brescia nel caso di una donna 27enne originaria del Bangladesh e cittadina italiana, madre di due figlie, vittima di presunti maltrattamenti fisici e psicologici da parte del marito, poi diventato ex. 

La vicenda, raccontata dal Giornale di Brescia, ha avuto inizio nel 2019, quando la donna ha trovato “il coraggio di denunciare dopo anni di urla, insulti e botte, sotto la costante minaccia di essere riportata in Bangladesh definitivamente”. 

Il comportamento dell’uomo – un cugino al quale lei sarebbe stata “venduta per cinquemila euro” per un matrimonio combinato (celebrato in patria) alla morte del padre, come ha spiegato al quotidiano bresciano – sarebbe però dovuto secondo il pm al contesto culturale bengalese.

“I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell'odierno imputato sono il frutto dell'impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l'uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine” si legge nelle conclusioni depositate dalle parti in vista della conclusione del processo, che arriverà a sentenza tra qualche settimana, a ottobre.

Fin da subito la Procura aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, ma il gip ha detto no, ordinando l’imputazione coatta per lo straniero nato e cresciuto in Bangladesh alla luce del fatto che “sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito”. 

I presunti maltrattamenti denunciati dalla donna rientrerebbero però secondo il pubblico ministero nei reati culturalmente orientati, cioè quei comportamenti sanzionati dalle leggi italiane, ma tollerati secondo le tradizioni (o addirittura le norme) di altri Paesi. […]

I maltrattamenti denunciati dall’ex moglie? “Frutto della cultura di origine”, dice il pm. La procura di Brescia chiede l’archiviazione per l’imputato del Bangladesh. Il gip aveva ordinato l’imputazione coatta. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio l'11 settembre 2023

Un provvedimento che “stride” con la giurisprudenza del tribunale di Brescia, peraltro diffuso dagli organi d’informazione prima ancora che sia avvenuta la discussione (prevista per il mese prossimo), è stata commentata da alcuni avvocati bresciani dopo aver appreso dai media cittadini che la locale Procura si appresta a chiedere l’archiviazione per un cittadino del Bangladesh, accusato di aver maltrattato la moglie.

La donna di 27 anni di origini bengalesi e cittadina italiana, madre di due figlie, sposatasi in patria secondo un matrimonio combinato, aveva denunciato il marito, nel frattempo diventato ex, per maltrattamenti fisici e psicologici. Costretta a lasciare gli studi e a restare chiusa in casa, come racconta il Giornale di Brescia, la donna aveva trovato il coraggio di denunciare dopo anni di “urla e botte”, passati sotto la “costante minaccia di essere riportata in Bangladesh”. 

La Procura aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, negata invece dal gip che aveva ordinato l’imputazione coatta, dal momento che «sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito».

«I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine», ha invece puntualizzato la Procura bresciana, diretta da Francesco Prete, secondo cui i maltrattamenti rientrerebbero nel campo dei reati “culturalmente orientati”: condotte sanzionate dall’ordinamento ma tollerate dalle leggi o dalle tradizioni del Paese di provenienza.

«Le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta ad interrompere il matrimonio. Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l’imputato si è fatto fieramente latore», ha quindi aggiunto la Procura, insistendo nell’archiviazione.

Una interpretazione che, come detto, “stride” con la giurisprudenza del tribunale di Brescia, il quale in una recente sentenza aveva condannato un egiziano violento nei confronti della figlia femmina. «I soggetti provenienti da uno Stato estero - scrisse il presidente Roberto Spanò - devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità».

Il genitore, islamico di stretta osservanza, era stato avvisato da alcuni parenti che vivono in Egitto e che su Tik - Tok avevano visto il volto della figlia 16enne senza velo. Una volta tornata a casa la giovane era stata prima insultata e poi colpita selvaggiamente al volto. Il padre, non contento, le aveva quindi strappato anche il cellulare dalle mani lanciandoglielo addosso e minacciandola di ucciderla. Una amica aveva allora chiamato il 112 e la ragazza era stata trasferita in una struttura protetta.

La vicenda a Brescia. Maltratta la moglie ma il pm chiede l’assoluzione: “E’ un fatto culturale, lei sapeva”. La donna: “Trattata come schiava”. Redazione su Il Riformista l'11 Settembre 2023 

I maltrattamenti in famiglia non vanno condannati perché si tratta di un “fatto culturale” che la vittima aveva “persino accettato in origine”. Questa la motivazione di un magistrato della procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per un uomo originario del Bangladesh denunciato dalla moglie (connazionale) per presunti maltrattamenti, inserendo il caso nella sfera dei reati culturalmente orientati, punibili in Italia ma tollerati nel paese di origine. A riportare la vicenda è il Giornale di Brescia che riporta quanto scritto dal pm nella richiesta di assoluzione per l’imputato. Per il pubblico ministero quei comportamenti, definiti “contegni di compressione delle libertà morali e materiali”, sarebbero “il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge”.

La richiesta di assoluzione è stata inserita nelle conclusioni depositate alle parti in vista dell’ultimo atto del processo che dovrebbe arrivare a sentenza nelle prossime settimane. I presunti maltrattamenti, secondo il magistrato, rientrerebbero nel campo dei reati culturalmente orientati che pertanto non vanno puniti, “atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”. La donna, 27enne di origini bengalesi ma con cittadinanza italiana, è madre di due figlie. In patria era stata costretta a sposare un cugino con un matrimonio combinato. Poi nel 2019 la separazione e la denuncia per maltrattamenti fisici e psicologici. Già in passato la Procura di Brescia aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, richiesta rigettata dal gip che ha ordinando l’imputazione coatta per lo straniero nato e cresciuto in Bangladesh.

Incredula la 27enne: “La cultura di origine non può essere una scusa. Sono stata trattata da schiava. Dove è la giustizia e la protezione tanto invocata per le donne tra l’altro incoraggiate a denunciare al primo schiaffo?”. In una intervista al Giornale di Brescia la donna ricorda l’incubo vissuto: “Sono stata picchiata e umiliata. Costretta al totale annullamento con la costante minaccia di essere portata definitivamente in Bangladesh”, ma aspetta fiduciosa la decisione del giudice: “Non posso pensare e credere che in una nazione come l’Italia si possa permettere a chiunque di fare del male ad altri impunemente solo perché affezionato a una cultura nella quale la donna non conta nulla e l’uomo può su di lei tutto, anche porre fine alla sua vita. Solo per una questione di obbedienza culturale. Ciò in Italia non può accadere”.

Imporre il velo è lecito? Il legale di Salsabila: «Sui diritti non si negozia». Parla Gennaro De Falco, difensore di Salsabila, la donna marocchina che ha denunciato il marito. «Mi opporrò alla richiesta di archiviazione». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 23 novembre 2021 Aggiornato, 11 settembre 2023

«Sui diritti non si può negoziare». A ribadirlo con forza è l’avvocato Gennaro De Falco, difensore di Salsabila, la donna marocchina, residente in Italia, che dopo anni ha trovato il coraggio di denunciare il marito per maltrattamenti. Salvo poi leggere, nella richiesta di archiviazione della procura di Perugia, che quelli maltrattamenti non erano. A partire dall’obbligo di indossare il velo integrale, perché per il sostituto procuratore Franco Bettini, la condotta del marito, anche lui marocchino, «rientra, pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati».

«Nelle aule di tribunale c’è scritto che la legge è uguale per tutti. A questo punto bisogna capire di quale legge parliamo: in questo caso si sembra legittimare un codice parallelo e diverso a seconda del soggetto interessato. Una cosa innovativa...», dice De Falco al Dubbio, spiegando che presenterà opposizione il 25 novembre, come gesto simbolico per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

«La cultura è diversa, ma la legge è la stessa - ribadisce il legale - altrimenti prendiamo atto che ci sono diritti differenziati». E in questo caso «non parliamo di diritti di poco conto - sottolinea -. Dal diritto a disporre della propria libertà personale, a quello di uscire di casa, di lavorare, di scegliere cosa indossare...». Per inquadrare la vicenda bisogna fare un passo indietro. E una premessa: Salsabila è una giovane donna che non parla una sola parola di italiano, proviene «da una realtà rurale», racconta ancora l’avvocato, le è stato impedito integrarsi con la comunità in cui viveva e non ha una rete di supporto. Se non quella della Onlus che l’ha ascoltata per prima, prima che la donna consegnasse agli agenti il suo racconto drammatico.

Costretta a sposarsi - «mi ha consigliato la mia famiglia», spiega - poi a vivere in Italia, e poi ancora a tornare in Marocco, Salsabila è riuscita a rientrare nel nostro Paese solo di recente. Ha tre figli e alle spalle - racconta - anni di abusi da parte del marito. «Mi imponeva il velo integrale, quando usciva di casa chiudeva la porta con le mandate portandosi le chiavi con sé... potevo uscire solo per andare in ospedale», si legge negli atti. Tutto questo nei quasi cinque anni di permanenza in Italia, una volta rientrati in Marocco le cose sono andate anche peggio: Salsabila è rimasta senza un soldo, le sono stati sequestrati i documenti. E poi ci sono le minacce, le offese, la violenza.

«Mi ha aggredito fisicamente dandomi uno schiaffo solo in un’occasione», confessa agli agenti. Una sola volta, per «futili motivi», si legge nelle carte. Ma per la procura di Perugia «le evidenze emerse dalle indagini» non permettono di ritenere «configurabile o comunque sostenibile in termini probatori il reato» contestato. «Dalle dichiarazioni rese la donna non sarebbe mai stata minacciata di morte, né avrebbe subito aggressioni fisiche tali da costringerla alle cure sanitarie», scrive il pm che lo scorso 15 ottobre ha chiesto l’archiviazione del caso al gip. Anche perché «il rapporto di coppia viene caratterizzato da forti influenze religiose- culturali alle quali la donna non sembra avere la forza o la volontà di ribellarsi». Una motivazione che ha fatto balzare dalla sedia l’avvocato De Falco: «Dobbiamo anche capire - protesta il legale - se la signora era in condizione di ribellarsi, se aveva qualcuno al quale affidarsi, che la potesse tutelare, senza considerare il timore di rimanere senza figli e senza mezzi di sussistenza». Inoltre, non tutti nel percorso di denuncia «hanno la stessa forza e la stessa energia, e lei anzi ne ha dimostrata parecchia», sottolinea l’avvocato.

Ma De Falco non è il solo a storcere il naso. Dopo il polverone mediatico che il caso ha suscitato, è lo stesso procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, a prendere le distanze dalle parole del pm. «Premesso che non ero a conoscenza della vicenda, ritengo che non sia assolutamente condivisibile la posizione per la quale imporre il velo integrale sia un’idea culturalmente accettabile. Cioè questa non può essere considerata la voce della procura», spiega al Corriere della Sera Cantone. Che ora potrebbe avocare a sé le indagini. «Staremo a vedere - commenta il legale - il procuratore farà le sue valutazioni e io le mie. La via fisiologica è che io mi opponga a una decisione che però è già sconfessata dal capo dell’ufficio...».

Una situazione anomala, insomma, che per De Falco - il quale è pur sempre «rallegrato» dalla posizione espressa dalla procura - denuncia un «cedimento culturale» e in più in generale la difficoltà di districarsi in un ambito complicatissimo «per la mia esperienza tecnica», nel quale sono necessarie competenza, professionalità e sensibilità. «Non si sceglie da sé la legge da applicare - chiosa l’avvocato - altrimenti non servirebbe la legge, che per sua natura è un precetto impositivo».

In nome dell'accoglienza ai migranti concediamo anche la violenza. Andrea Soglio su Panorama il 12 Settembre 2023

La vicenda del pm di Brescia che ha assolto un uomo per le botte date alla moglie giustificate come frutto della loro «cultura» è l'ultimo passo di un percorso di annullamento che sbagliando abbiamo concesso

Sono molti i commenti letti sulla notizia arrivata da Brescia dove un pm ha stabilito l’assoluzione nei confronti di un uomo accusato di maltrattamenti dalla moglie perché quelle botte date alla donna sono «un fatto culturale». I fatti: Nel 2019 una donna del Bangladesh ha denunciato il marito alla procura raccontando le botte ricevute, più volte. Non solo: ha raccontato anche che il matrimonio di fatto era stato combinato dalle rispettive famiglie. Il pubblico ministero però ha deciso che di fatto non si tratta di reato, con queste motivazioni: i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine. Traduzione: nella loro cultura, che lei ha accettato, picchiare la moglie non è reato e quindi non lo è nemmeno se le botte vengono date sul suolo italiano. Dal punto di vista legale questa decisione si commenta da se, Si tratta di una cosa inqualificabile, incomprensibile che in più crea un precedente pericolosissimo ed una sorta di doppio codice penale: uno per gli italiani ed uno per i musulmani o cingalesi. Quello che però va analizzato è il cosa ha portato un giudice ad una decisione simile; quale percorso culturale in Italia ha condotto un pm a trasformare in legale delle botte date da un marito alla moglie alla moglie. Si tratta dell'ennesimo passo fatto nella direzione dell'annullamento del nostro essere in nome dell'accoglienza. Abbiamo cominciato con il cancellare le recite di Natale nelle scuole perché «discriminatorie» nei confronti di bambini e studenti di altre religioni. Abbiamo continuato vietando sempre nelle scuole certi cibi della nostra tradizione perché proibiti in altre religioni. Abbiamo fatto questo ed altro per far sentire «a casa loro» migranti e persone di altre culture, tradizioni, usanze. anche se queste sono barbare ed illegali come creare matrimoni combinati e picchiare la moglie che disobbedisce. Le cronache sono piene di fatti di una violenza inaudita. Settimana scorsa è tornato in Italia il padre di Saman, la ragazza uccisa perché voleva vivere all'occidentale e non sposare il marito che la famiglia aveva scelto per lei. In certe culture si arriva quindi ad uccidere una figlia in nome del rispetto della cultura e delle tradizioni di un altro paese. Sarebbe ora di smetterla di fare passi nella direzione sbagliata. Bisogna fermarsi puntando i piedi su cose che in Italia sono inamovibili: no alla violenza contro le donne, mai, nessuna giustificazione, nessuna comprensione. E se certe cose altrove sono consentite beh, è ora di ribadire a chi arriva nel nostro paese che in Italia ci sono regole diverse e che vanno rispettate. Che non siamo più disposti a metterci in secondo piano, a vendere la nostra storia e la nostra cultura in nome di chissà quale accoglienza. PS. Da 24 ore aspettiamo un'azione di protesta, rabbia, disgusto, da parte del mondo femminista militante. Purtroppo al momento nessuno ha detto nulla e nessuno ha fatto nulla. I casi quindi sono due: o sono d'accordo con il pm di Brescia e anche per le femministe non tutte le donne sono uguali.

Picchiata perché rifiuta il matrimonio combinato. «È un’altra Saman». Ma la salva la preside della scuola. Protagonista una ragazza indiana nel bolognese, torturata dalla famiglia. Ma grazie alla segnalazione dell’istituto, si è attivata la Questura. Un anno fa il caso Abbas: un fenomeno che in Italia riguarda circa 2.000 bambine e ragazze ogni anno. Simone Alliva su L'Espresso il 27 Aprile 2023. 

Isolata, tenuta a digiuno due giorni dai familiari che le avrebbero dato da bere del latte dal sapore cattivo che l'ha fatta addormentare e poi risvegliare con un gran mal di testa.

Una storia di cronaca che rivela il mondo sommerso dei matrimoni forzati in Italia, quella denunciata ai suoi insegnanti da una ragazza indiana di 19 anni che accusa i familiari di maltrattamenti e di costrizione al matrimonio.

Il 13 aprile la scuola, un istituto superiore del Bolognese, ha segnalato i fatti alla Polizia. Il padre aveva scoperto che si era innamorata di un giovane connazionale e l'avrebbe picchiata: si sarebbe seduto davanti a lei dandole dei calci e avrebbe minacciato di tagliarle la gola.

La preside unica persona disposta a ospitarla

La prima segnalazione alla polizia è quindi stata fatta dalla scuola, mentre successivamente la ragazza è stata sentita e ha formalizzato la sua denuncia.

Nella notte è stata affidata e ospitata dalla preside della sua scuola: «L’unica persona disposta ad ospitarla dopo cinque ore passate in commissariato» ha dichiarato l'avvocata che la difende, Barbara Iannuccelli. «Un’altra Saman che si cerca di salvare, ma la burocrazia non riesce a farsene carico», dice sempre il legale citando la vicenda di Saman Abbas, ragazza uccisa nelle campagne attorno a Reggio Emilia per aver rifiutato un matrimonio combinato come pretendeva la sua famiglia pachistana. La Questura a si è attivata per la collocazione in una struttura protetta.

La denuncia di una parente

La scuola si è mossa a fine marzo dopo che una parente della giovane telefonò dicendo che la ragazza non stava bene e che aveva perso il cellulare. Ma il giorno dopo la ragazza raccontò a un insegnante che non aveva avuto malattie, che il telefono le era stato sottratto e mostrò i segni sul collo, che le sarebbero stati fatti dal padre dopo la scoperta della relazione con un ragazzo che, a suo dire, non avrebbe potuto avvicinare perché già promessa sposa. La giovane ha riferito anche di essersi svegliata, dopo aver bevuto il latte cattivo, e di aver trovato i suoi vestiti impacchettati. La scuola ha attivato anche volontari di un centro antiviolenza, a cui la ragazza ha ribadito i racconti.

La piaga dei matrimoni forzati in Italia

Una storia che ha come sfondo il tema complesso e sommerso dei matrimoni forzati tra le giovani di origine straniera che vivono nel nostro Paese. Sono soprattutto di fede islamica e sono costrette a matrimoni combinati e forzati con la violenza, e in alcuni casi pagano un prezzo altissimo, quello della propria vita.

Stando a quanto riporta Action Aid Italia, ogni anno sono 12 milioni le bambine e le adolescenti vittime di matrimonio precoce e forzato. Non abbiamo dati sufficienti e accurati che fotografino la situazione italiana, ma si stima che il rischio riguardi circa 2.000 bambine e ragazze ogni anno, in maggioranza delle comunità originarie di Bangladesh, Mali, Somalia, Nigeria, India, Egitto, Pakistan. Da quando il matrimonio forzato è stato inserito come reato all’interno del Codice Rosso, si sono registrati 35 reati di costrizione o induzione al matrimonio (agosto 2019 - dicembre 2021).

A mancare però sono le azioni concrete di contrasto. Infatti, il matrimonio precoce e forzato è stato citato anche nel piano antiviolenza 2021-2023, dove si parla anche di ricerca e mappatura delle pratiche. Ciò però non è accaduto perché non è stato realizzato un piano operativo e non sembra essere stato considerato una priorità.

«In Italia i matrimoni forzati sono vietati ma questo evidentemente non basta - spiegano da Amnesty International - poiché la norma può essere aggirata organizzando un matrimonio all’estero o perché si ritiene che la tradizione debba prevalere sulla legge, con esiti tragici come nel caso di Saman. Accanto alla massima vigilanza negli aeroporti, occorre investire in educazione, integrazione, protezione e rafforzamento dei diritti delle ragazze, anche attraverso provvedimenti come lo ius soli». 

La studentessa indiana salvata dalla preside: «Papà mi impone le nozze combinate, calci in pancia da mia madre». Alessandro Fulloni e Francesco Mazzanti su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023. 

La studentessa 19enne si rivolge alle insegnanti dopo essere stata picchiata dai genitori. L’avvocata: «È come Saman, va protetta». Le bugie della famiglia alla scuola: la ragazza «ha il Covid». Invece le avevano sequestrato il cellulare. Sonnifero per farla dormire

Una richiesta alla prof, la mattina di un mese fa. «Devo parlarle». Il volto provato, lacrime, lividi e graffi sul collo. «Mi hanno picchiata: mio padre, mio zio... mia madre mi ha dato un calcio in pancia. Va avanti così da mesi. Da quando mi hanno imposto un uomo da sposare ma io ho detto di no. Sono innamorata di un mio connazionale, indiano anche lui, è un 23enne, ha quattro anni più di me». Un caso che ricalca quello di Saman Abbas, la diciottenne pachistana uccisa nel Reggiano, secondo l’accusa,dai familiari — genitori, zio e due cugini —, la notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2021, per aver rifiutato un matrimonio combinato.

Anche stavolta siamo in Emilia-Romagna, nel Modenese, non lontano da Bologna. La ragazza ora si trova in un centro protetto, al sicuro. «Ma individuarlo non è stato semplice» scuote la testa l’avvocata Barbara Iannuccelli che l’assiste e che è anche parte civile, con il collega Claudio Falleti, al processo Saman dove tutela il fidanzato della pachistana trovata priva di vita a metà dello scorso novembre. La notte del 25 aprile la studentessa ha dovuto dormire a casa della dirigente dell’istituto professionale perché, dopo le telefonate fatte dagli agenti del commissariato nel Bolognese e dagli assistenti sociali che hanno seguito il caso, si scopre che non ci sono posti nelle strutture idonee all’accoglienza «a parte la soluzione del B&B». Al che l’avvocata s’inalbera: «Neanche a parlarne, rischia la vita». Poi la preside offre la soluzione che, per 24 ore, risolve l’impasse accordando l’ospitalità a casa sua.

Adesso la 19enne, dopo che la vicenda è stata presa in mano dalla questora di Bologna Isabella Fusiello, si trova in un centro protetto. Ci sarebbero avvisi di garanzia per maltrattamenti emessi dalla Procura di Modena che indaga. Una storia che, letta dalle carte giudiziarie, davvero, in molti passi, è simile a quella di Saman, a partire dai violenti comportamenti dei clan familiari. Il 28 marzo la giovane si confida con una sua tutor per dirle che non è vero quel che la zia ha raccontato alla scuola il giorno prima, il 27, ovvero che «mia nipote è malata: forse ha il Covid, e deve stare a casa». No, è una menzogna. La verità è che i genitori le hanno tolto il cellulare e la ragazza — uscita di nascosto per confidarsi — mostra i lividi. Segni delle percosse del padre: aveva scoperto che la figlia, promessa in sposa a un lontano familiare, è innamorata di un connazionale.

La dirigente e la tutor ascoltano, preoccupatissime, quella storia «difficile da seguire perché lei parla ancora male l’italiano». «Mi hanno messo a digiuno per due giorni — prosegue — e papà si è messo davanti a me dandomi dei calci». Segregata, in pratica. Poi le fanno bere del latte «dal sapore cattivo» che forse contiene del sonnifero. Al risveglio, con un gran mal di testa, la 19enne vede i suoi vestiti impacchettati, sembra tutto pronto per farla partire. Il padre ubriaco con la mano fa il segno della gola tagliata e sembra davvero che stia per ripetersi l’incubo di Saman. In casa non le parlano per giorni salvo dirle che dopo aver «preso la qualifica» — lei sta per finire il corso — lascerà l’Italia.

Dalla scuola avvertono subito un’associazione che si occupa di contrasto alla violenza di genere e viene contattata anche l’avvocata Iannuccelli. Il 13 aprile scatta la denuncia: c’è il «codice rosso» che prevede l’ascolto nelle 72 ore della vittima. Dopo aver confermato tutto alla polizia, la 19enne rientra a casa. Qui viene di nuovo percossa, persino la nonna le tira una scarpa. Il 25 aprile la ragazza trova la forza di lasciare la famiglia e si rifugia in commissariato.

Matrimoni forzati, una piaga silenziosa per milioni di spose bambine. Antonia Matarrese su L’Espresso il 4 Aprile 2023

Si parla ancora troppo poco dell’incubo delle unioni combinate. Per le giovani cresciute nel nostro Paese zero fondi per la formazione e livello di attenzione molto basso. Ma per i prossimi due anni arrivano i progetti di contrasto e prevenzione di ActionAid Italia

Matrimoni combinati forzatamente. Se ne parla davvero poco ma, sempre più spesso, le ragazze che vivono in Italia hanno paura di tornare nei paesi d’origine perché potrebbero essere costrette a sposarsi contro la loro volontà. Insomma, non proprio come quello che accade nella commedia “What’s love” di Shekhar Kapur, in questi giorni sul grande schermo, che racconta le nozze combinate dalle rispettive famiglie fra un giovanotto di origini pakistane di stanza a Londra e una sua conterranea che abita a Lahore.

Ogni anno, nel mondo, sono coinvolte oltre 12 milioni di adolescenti: le aree più critiche sono nell’Africa sub-sahariana dove il 35 per cento delle donne si sposa da bambina. Dieci anni fa erano il 38 per cento. In Italia, le comunità straniere più interessate da questa pratica sono quelle di Bangladesh, Mali, Somalia, Nigeria, India, Egitto e Pakistan.

Da quando il matrimonio forzato è stato inserito come reato all’interno del Codice Rosso, si sono registrati 35 reati di costrizione (dati aggiornati a fine 2021). Ma, pur rientrando nel piano antiviolenza 2021-2023, con tanto di mappatura delle pratiche, a oggi non sono stati fatti passi avanti. Zero fondi per la formazione, livello di attenzione a questo tipo di violenza di genere molto basso, numeri reali stimati in circa duemila unità fra giovani cresciute in Italia e richiedenti asilo che cercano protezione internazionale.

Per i prossimi due anni ActionAid Italia, radicata su Milano, Roma e Napoli, che promuove progetti di contrasto e prevenzione in 29 paesi e organizza incontri di formazione nelle scuole, sosterrà “Join our CHAIN” insieme alle associazioni Terres des Femmes (Germania), AkiDwa (Irlanda), End FGM EU Network (Belgio). Motore dell’iniziativa sono le community trainer appartenenti alle varie etnie e nazionalità presenti sul territorio. «Il matrimonio è un tema molto sentito e dibattuto ma le ragazze spesso lo temono», spiega Tahany, egiziana, studi universitari, sposata, due figli.

«È indispensabile creare occasioni di dialogo con i genitori: spesso le famiglie che sono arrivate in Italia tanti anni fa hanno dovuto sacrificare la prima figlia, fissando le nozze nel paese d’origine. Quindi le ragazze sono tornate indietro, in una sorta di migrazione al contrario, lontane dal proprio nucleo, chiuse nel loro dolore, private dell’affetto e del sostegno dei parenti. È con le mamme che cerchiamo l’alleanza più importante per fare accettare i cambiamenti della società», conclude Tahany.

Estratto dell’articolo di Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 14 gennaio 2023.

 A 15 anni era una ragazzina scappata dalla sua casa londinese per unirsi al Califfato dell'Isis in Siria, oggi è una 23enne cui la Bbc ha offerto un podcast in dieci puntate per raccontare la sua storia: ma la vicenda di Shamima Begum è una di quelle che continuano a dividere l'opinione pubblica britannica.

Quando nel 2015 raggiunse lo Stato islamico, assieme a due coetanee con cui aveva architettato la fuga, Shamima venne data subito in matrimonio a un miliziano dell'Isis: una delle tante spose bambine della jihad, solo che lei ne era più che convinta. È stato detto che entrò a far parte della «polizia morale» del Califfato, quella che terrorizzava le donne vestite all'occidentale o di «costumi dubbi»; che girava con un kalashnikov e che addirittura cuciva i giubbotti esplosivi dei terroristi kamikaze.

Shamima si era radicalizzata online nella sua cameretta nell'Est di Londra: di origini musulmane bengalesi […] Dopo il crollo del Califfato nel 2019, Shamima finì internata in un campo profughi nel Nord della Siria. Lì la ritracciò un giornalista del Times , cui la giovane diede un'intervista choc: disse di non avere «nessun rimpianto» e parlò con indifferenza delle teste mozzate che aveva visto negli anni trascorsi a fianco dell'Isis. Arrivò perfino a giustificare l'attentato a Manchester del 2017, quello al concerto di Ariana Grande, che fece 22 vittime innocenti.

Per reazione, il governo di Londra le tolse la cittadinanza britannica, privandola del diritto a rientrare in patria: da allora, lei ha lanciato una battaglia legale per riavere il passaporto e tornare a casa. Perché con gli anni ha attraversato una trasformazione radicale: se nella prima intervista era apparsa coperta da un burqa nero, ora si fa fotografare con i capelli sciolti, gli occhiali da sole e le magliette attillate. […] nel frattempo ha avuto tre figli, tutti morti in fasce di stenti e malattie. Dice di essere cambiata, anche se non ha mai fatto veramente ammenda del suo passato: ma adesso la Bbc ha deciso di darle voce […] ma è stata accusata di […] dare un megafono a una ex terrorista […]

Le persecuzioni.

Pakistan, assalto ai cristiani e chiese bruciate. A fuoco 21 edifici e 130 fermati. Due arresti per «profanazione del Corano». Chiara Clausi il 18 Agosto 2023 su Il Giornale.

Pagine strappate del libro sacro islamico, il Corano, con contenuti blasfemi presumibilmente scarabocchiati su di esse con inchiostro rosso sono state trovate vicino a una comunità cristiana in Pakistan. L'atto ha suscitato un'ondata di rabbia incontrollabile tra i musulmani. È successo tutto a Jaranwala, diocesi di Faisalabad, nella regione del Punjab. La folla ha attaccato e saccheggiato le case private appartenenti ai cristiani e 21 chiese sono state date alle fiamme, altre sono state assaltate o distrutte, un cimitero vandalizzato, i catechisti picchiati e i parroci in fuga. Il vescovo protestante Azad Marshall in un tweet riferisce che un edificio della sua chiesa è stato incendiato: «Le Bibbie sono state profanate e i cristiani sono stati torturati e vessati, dopo essere stati falsamente accusati di violare il Sacro Corano».

Gli altoparlanti delle moschee locali sarebbero stati utilizzati per informare sulla presunta profanazione di testi religiosi da parte dei due residenti cristiani locali. Per fermare la folla è intervenuto un imponente contingente di polizia che per placare gli animi ha detto che i due cristiani sarebbero stati arrestati. Cosa che ieri sera è accaduta veramente: Amir e Raki Masih sono stati catturati e incriminati per blasfemia. Sono in custodia al dipartimento di antiterrorismo, ha precisato su X il primo ministro della Giustizia del Punjab, Mohsin Naqvi.

Ma anche molti musulmani sono finiti in manette: 128 persone sono state arrestate ma sono indagati oltre 600 violenti. La storica Chiesa dell'Esercito della Salvezza era ancora fumante ieri, un giorno dopo la rivolta. Le rovine sono state circondate da filo spinato mentre la situazione rimane tesa in città. Qualsiasi tipo di assembramento e manifestazione è stato limitato per sette giorni. La blasfemia in Pakistan è punita con la morte. Anche se Islamabad non ha ancora condannato nessuno alla pena capitale per questo reato, una semplice accusa però può provocare rivolte diffuse, che a volte portano a linciaggi e uccisioni. Yassir Bhatti, cristiano di 31 anni, è stato uno di quelli costretti a fuggire dalla propria casa. «Hanno rotto le finestre, le porte e portato via frigoriferi, divani, sedie e altri oggetti per ammucchiarli davanti alla chiesa per essere bruciati - ha raccontato -. Hanno anche dato alle fiamme e profanato Bibbie. Sono stati spietati». I video sui social media mostrano manifestanti che distruggono gli edifici mentre la polizia sembra stare a guardare. Il pastore Javed Bhatti, sacerdote della zona, ha dichiarato: «Hanno bruciato tutto. Hanno distrutto le nostre case, la casa di Dio».

Il Pakistan ha ereditato la legge sulla blasfemia dagli inglesi nel XIX secolo. Negli anni Ottanta Islamabad ha introdotto pene più severe, inclusa la condanna a morte per chi insulta l'Islam. Circa il 96 per cento della popolazione pakistana è musulmana.

Il Sahel, fronte critico per i cristiani perseguitati. Andrea Muratore il 23 Dicembre 2022 su Inside Over.

Negli ultimi anni l’instabile regione del Sahel e dell’Africa sub-sahariana ha avuto di che soffrire per diverse cause: rivalità geopolitiche, instabilità interna dei Paesi, insorgenza jihadista, cambiamenti climatici. Povertà, tribalismo e disgregazione delle entità statuali hanno prodotto, tra gli effetti collaterali, anche un aumento dell’intolleranza religiosa verso i cristiani della regione.

Dal Sudan al Mali i cristiani rappresentano circa il 4% della popolazione, anche se fare stime precise è difficile. A questo si aggiunge la presenza forte e radicata di Ong, da Christian Aid a Cuamm – Medici per l’Africa, di ispirazione cristiana che contribuisce a cementare popolazioni divise su faglie etniche in una regione a grande maggioranza musulmana, decisiva per gli equilibri geopolitici del continente e per molti dossier che investono direttamente anche l’Europa, come la partita dell’immigrazione.

L’Ong Release International ha indicato nel rilancio dell’attività di Al Qaeda e Isis nella regione dopo la fine della guerra in Afghanistan e della statualità del Califfato tra Siria e Iraq la causa dell’aumento dell’intolleranza negli ultimi anni ricordando che ” i jihadisti stanno cercando di creare uno Stato islamico del Grande Sahara. È davvero ovvio che si tratta di un conflitto religioso”.

La presenza di sempre più jihadisti e la contestuale crescita dell’attività anticristiana in un Paese critico della regione, il Burkina Faso, è stata segnalata già dall’inizio dell’escalation contro i cristiani nel 2015 da Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs).

Acs segnala da tempo criticità nel Paese che fu di Thomas Sankara, in cui nel dicembre 2019 i jihadisti hanno ucciso 14 cristiani a Hantoukoura, nella parte orientale del Paese. Le tossine jihadiste hanno avvelenato i pozzi nella società locale, ove la tolleranza inter-religiosa era tradizionalmente rispettata anche nelle fasi di tensione etnica. L’infiltrazione dei guerriglieri radicalizzatisi in Siria e Iraq è stata fatale. Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia parlando con Il Timone ha dichiarato che nella regione ci sono “Paesi che fino al 2015 non sapevano neppure cosa fosse la persecuzione in odio alla fede, e che invece oggi sono l’epicentro del fenomeno”.

Laurent Dabiré, vescovo cattolico della diocesi burkinabé di Dori dal 2013 e dal 2019 Presidente della Conferenza Episcopale di Burkina Faso e Niger, è sul tema la voce più attenta nella denuncia delle persecuzioni anticristiane a fianco del vescovo di Fada ‘Ngourma, monsignor Pierre Claver Malgo. Dabiré ha scritto su Settimana News che “i terroristi che aggrediscono il Burkina Faso non sono i musulmani con cui noi viviamo da sempre: questi non hanno problemi con i cristiani. Il problema è costituito da coloro che sono arrivati da lontano e da quelli che sono stati radicalizzati a contatto coi primi”. Il Burkina Faso è un caso estremo, ma purtroppo non isolato. Il report 2022 di Acs sulla persecuzione religiosa parla chiaro.

Un fronte sempre caldo resta il Mali, specie nella “terra di nessuno” in cui scorrazzano jihadisti e trafficanti di esseri umani al confine col Niger. Proprio a un posto di blocco tra Gao, Mali, e la capitale nigerina Niamey cinque cristiani sono stati sequestrati e assassinati da forze dell’Isis nel giugno 2021. In Mali la Costituzione, ricorda Acs nel suo report sulla persecuzione dei cristiani nel mondo, vieta ogni forma di discriminazione religiosa. Ma già dieci anni fa le comunità cristiane risiedenti nel Nord del Paese furono cacciate dall’avanzata jihadista, mentre in seguito nel dicembre 2021 nelle aree abitate dai cristiani in centro al Paese 34 persone sono state assassinate in vari attentati. Ove i gruppi radicali legati a Al Qaeda nel Maghreb Islamico imperversano viene vietata ai cristiani la possibilità di praticare i loro riti.

In Sudan, invece, Acs denuncia un ritorno alla persecuzione dell’era di Omar al-Bashir dopo il golpe militare del 2021. E di converso aumenta la pressione sul confinante Sud Sudan Tra gli episodi citati si rammenta “un attacco al villaggio di Dungob Alei, nel nord del Sudan meridionale, avvenuto nel maggio 2021”, portato da gruppi islamisti radicali e che “ha causato la morte di 13 persone e otto feriti”.

La libertà di culto ai cristiani è duramente limitata anche in Eritrea, propaggine orientale del Sahel: nell’ex colonia italiana il regime dittatoriale di Isaias Aferweki tra il 2021 e il 2022 ha sequestrato beni e terreni alla Chiesa cattolica locale e nelle celle del carcere di massima sicurezza di Mai Serwa di Asmara un quinto degli arrestati ivi detenuti (500 su 2.500) sono cristiani perseguitati e messi in galera perché sorpresi a svolgere funzioni in luoghi non autorizzati o perché rifiutatisi per ragioni religiose di prestare servizio nell’esercito per i 18 mesi di leva obbligatoria. A 94 anni, nel febbraio scorso, nella sua abitazione a Asmara ove era detenuto agli arresti domiciliari da quindici anni, è morto il Patriarca Abune Antonios della Chiesa Ortodossa Eritrea Tawahedo. Acs riporta che “gli è stata negata l’assistenza medica nonostante soffrisse di diabete e pressione alta”.

La situazione resta critica, anche se l’incremento della pressione europea e occidentale sul tema della libertà religiosa (Roma e Bruxelles hanno nominato inviati speciali sul tema) renderà più alto lo scrutinio già esercitato con attenzione dal Vaticano e dei suoi apparati ecclesiastici (e informativi) presenti in Africa. Aggiornamenti Sociali ha mostrato il ruolo dei movimenti cristiani nel difendere le comunità dall’intolleranza indipendentemente dal loro credo e mostrato l’esempio iconico in Burkina Faso delle attività di Radio Notre Dame du Sahel, emittente gestita dai gesuiti nella diocesi di Ouahigouya, nel Nord dell’ex Alto Volta, in cui cristiani, musulmani e animisti lavorano assieme per fare informazione, divulgazione e offrire una contronarrazione alle sirene jihadiste che lanciano il loro richiamo dalle madrase integraliste. Un messaggio di speranza degno del ruolo della Chiesa aperta ad gentes e all’ecumenismo, testimone delle sofferenze di una regione intera, che in Sahel deve affrontare prove dure e sfide complesse. Destinate ad affliggere ulteriormente una regione tanto strategica quanto dannata.

Il Terrorismo.

L'uomo represso in nome della violenza in nome di Allah. Arturo Pérez-Reverte il 19 Novembre 2023 su Il Giornale.

Donne rapite, uccise, fatte sfilare come carne morta e nuda, trofei che una folla impazzita di gioia - folla maschile, dettaglio fondamentale - ha ripreso con i cellulari al grido di «Allah Akbar»: Dio è grande, o Allah è il più grande

Donne rapite, uccise, fatte sfilare come carne morta e nuda, trofei che una folla impazzita di gioia - folla maschile, dettaglio fondamentale - ha ripreso con i cellulari al grido di «Allah Akbar»: Dio è grande, o Allah è il più grande. Nonostante l'imbecille censura dei canali televisivi che hanno pixellato le immagini - l'orrore è anche educativo -, i social network hanno permesso di vedere tutto con la necessaria chiarezza. E insisto su questo punto: necessaria.

Tra le immagini diffuse qualche settimana fa dal confine tra Israele e Gaza, ce ne sono state alcune che mi sono rimaste particolarmente impresse: il selvaggio «Allah Akbar» davanti a una giovane donna con i pantaloni insanguinati che veniva trascinata per i capelli, o davanti al corpo nudo - bellissimo fino a pochi istanti prima - di un'altra giovane donna uccisa, mentre miliziani barbuti, seduti sopra di lei, la facevano sfilare come un trofeo per il piacere di chi gridava «Dio è grande». (Mi rattrista che i combattenti palestinesi che ho conosciuto negli anni '70 e '80, rivoluzionari e laici appartenenti ad Al Fatah, abbiano lasciato il posto ai fanatici di Hamas, gestiti da lontano dai sinistri ayatollah iraniani: quelli che, alla caduta dello Scià, nonostante gli avvertimenti di noi reporter che eravamo inviati a raccontarlo, sono stati applauditi da una sinistra europea che non aveva la minima idea di cosa Khomeini avesse sotto il turbante).

Non è la prima volta che accade. Certo, non sempre è Allah ad essere coinvolto, anche se di solito lo è Dio. Lo stesso vale per il nazionalismo, un altro cancro dell'umanità dietro al quale si rifugiano tanti topi di fogna. Il passato abbonda di esempi, da Susanna, concupita e mandata a morte dai vecchi nella Bibbia, all'inquisitore che tortura l'eretico o la strega, fino alla storia recente. Ciò che salta all'occhio è che questa gentaglia preda soprattutto le donne: olio di ricino, omicidi e stupri durante la Guerra civile spagnola, preti che puntano il dito contro le peccatrici dal pulpito, collaborazioniste rasate e violentate durante la Seconda guerra mondiale. Ma non c'è bisogno di guardare al passato: oggi gli ebrei ortodossi sputano sulle suore o molestano una donna poco vestita, in certi caffè arabi una giovane con la minigonna viene insultata e chiamata puttana, le ragazze vengono picchiate in Iran perché non indossano correttamente il velo... Luoghi lugubri chiusi alla ragione, dove le donne libere vengono disprezzate e dannate, come la vedova di Zorba il Greco. Come le adultere afghane lapidate da uomini felici di partecipare alla punizione, anche al grido di «Dio è grande».

Tutto questo, a mio avviso, risponde a un impulso antico e molto maschile: insultare, diffamare, infangare la donna che non si riesce ad avere. Soprattutto se è bella. L'ho visto sia nel mondo che chiamiamo civile, sia in luoghi miserabili della terra. E i peggiori sono quelli governati da chi pretende di agire, e costringe ad agire gli altri, su mandato divino. In Europa - dove diritti e libertà sono ora in regressione - ci sono volute molte lotte e sacrifici per liberarci da preti e dei. Ecco perché detesto il velo delle donne musulmane e ciò che simboleggia. I Paesi e i popoli governati da un islam che non è solo una religione, ma anche una dittatura sociale, spesso cadono in questo estremo. In questa infamia.

Nel mondo dell'estremismo islamico, nelle dittature teocratiche, spronati dal clero e dal marcio che molti di loro nascondono sotto le tonache pestilenziali, quando se ne presenta l'occasione esplodono uomini frustrati e condannati alla solitudine, alla repressione, all'insoddisfazione sessuale e alla compagnia sociale esclusiva di altri uomini. Esplodono sotto forme di violenza camuffate da religione che, come nel recente caso di Israele e Gaza, sono pretesti per camminare, fotografare, palpeggiare e distruggere, se possono, i corpi delle donne che i loro sacerdoti gli vietano di avvicinare in altro modo. Gli uomini di Hamas a Gaza le molestavano non solo perché erano ebree, ma anche perché erano donne libere, poco vestite, senza veli, che offendevano Dio. Ecco perché il grido «Allah Akbar» è stato illuminante, perché trasmetteva tutto il fanatismo, l'ipocrisia, la repressione sessuale, la bassezza di cui gli esseri umani, gli uomini in questo caso, sono capaci: la masturbazione mentale - e non solo mentale - di fronte a donne prima irraggiungibili e ora indifese, il desiderio insoddisfatto che alla fine si vendica travestito da morale pia e moralista.

Ecco perché l'islam, eccellente sotto tanti punti di vista - famiglia, dignità, disciplina, rispetto - è così sporco in questo: gli uomini chiamano «puttane» le donne che si scoperebbero se potessero. Il problema è che né loro né i loro sacerdoti glielo permettono. Preti che probabilmente se le scoperebbero loro stessi se potessero: basta guardare le loro facce, i loro gesti, il loro ipocrita indice alzato verso Dio. Basta ascoltare le loro sordide ragioni e le loro sporche parole.

I terroristi non arrivano con i barconi ma crescono nelle periferie europee. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 18 ottobre 2023

Dopo l’attentato di Bruxelles il governo ha aumentato i controlli alle frontiere. Ma i dati dimostrano che quasi sempre la radicalizzazione avviene in Europa

«Ho più volte cercato di accendere i riflettori sul fatto che dall’immigrazione illegale di massa possono sorgere anche gravi rischi per la sicurezza in Europa». Queste parole sono state pronunciate dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al Consiglio Ue dopo la diffusione della notizia che Abdesalem Lassoued, attentatore che a Bruxelles nella notte di lunedì ha ucciso due cittadini svedesi, è arrivato a Lampedusa nel 2011.

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, dalla sua missione in Qatar, ha detto che «come ha dimostrato e dimostrano i fatti del Belgio, ogni giorno arrivano migliaia di persone e tra queste migliaia di persone può esserci chiunque». Il passato del tunisino Abdeslam, che avrebbe girato l’Italia e la Francia prima di fare richiesta di asilo in Belgio nel 2019, ha fornito al governo sovranista l’alibi perfetto per una gestione migratoria securitaria e di chiusura delle frontiere.

Nella giornata di mercoledì palazzo Chigi ha annunciato la decisione di reintrodurre i controlli al confine con la Slovenia. «L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione», si legge nella nota pubblicata dal governo. Nel pomeriggio la presidente del Consiglio si è riunita con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, della Giustizia, Carlo Nordio, con il sottosegretario Alfredo Mantovano proprio per discutere del rischio terrorismo.

Fare la semplice correlazione tra migranti e terroristi non aiuta ad analizzare il fenomeno. E ce lo dicono anche i dati. Secondo il centro di ricerca Startinsight – che ha analizzato le aggressioni terroristiche compiute dal 2014 al 2020 – solo il 16 per cento di questi sono stati compiuti per mano di migranti irregolari (22 su 138) non specificando la provenienza. La stragrande maggioranza sono stati invece perpetrati da immigrati regolari, di seconda e terza generazione, e da cittadini europei che si sono convertiti all’islam.

Un dato significativo se consideriamo anche che alcuni dei migranti arrivati in Europa da Lampedusa, e che poi hanno compiuto attentati terroristici, hanno sposato la causa dello Stato islamico in un secondo momento. Quindi il percorso di radicalizzazione è avvenuto una volta arrivati in Europa e non prima. Basta pensare che Abdeslam Lassoued – dichiaratosi affiliato all’Isis – è arrivato a Lampedusa nel 2011, mentre Abu Bakr al Baghdadi ha fondato lo Stato islamico soltanto nell’aprile del 2013.

Stessa storia per Anis Amri, l’attentatore dei mercatini di natale di Berlino (2016), arrivato a Lampedusa nel febbraio del 2011. Altre storie citate mercoledì dal quotidiano Libero, come quelle di Sillah Ousmane, Alagie Touray, Moshin Omar Ibrahim, Adam Harun e Ali Asmi Sef Aldin raccontano invece di attentati pianificati a meno di due anni dal loro arrivo o da soggetti già radicalizzati prima ancora di approdare in Italia.

Ma tutti quanti sono stati fermati in tempo dalle nostre autorità a dimostrazione che i servizi d’intelligence e di prevenzione della sicurezza italiani sono ancora molto efficaci. Infine, un dato di rilievo: dal 2011 a oggi, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono arrivati in Italia 1.125.822 migranti irregolari. Il rapporto tra sbarchi e attentatori ufficiali passati per il nostro paese ci riporta una percentuale vicina allo zero, anche se tiene conto solo dei soggetti passati all’azione.

SI RADICALIZZANO QUI

Ciò che spinge i migranti di seconda generazione alla jihad è un insieme di fattori su cui i governi europei possono intervenire attraverso meccanismi di prevenzione. Gran parte degli analisti e degli esperti concordano sul fatto che i processi di radicalizzazione si innescano per cause diverse come: emarginazione culturale e sociale, problemi di identità, discriminazione e una situazione economica precaria o al limite dello sfruttamento.

Condizioni facilmente ritrovabili nelle periferie delle grandi città europee o in quartieri-ghetto come il tristemente noto Molenbeek di Bruxelles, da dove è nata la rete che ha organizzato gli attentati di Parigi del 2015. Fornire un’opportunità o un contesto che favorisca l’integrazione e l’interscambio culturale senza dover abdicare alla propria identità religiosa è un primo passo per abbattere l’alienazione sociale.

Un altro contesto che favorisce la radicalizzazione jihadista in Europa e in occidente in generale è il sistema carcerario. Secondo i dati dell’Ispi sugli attentati jihadisti commessi in Europa e nord America dal 2014 al 2019, quasi un terzo degli attentatori ha trascorso un periodo di detenzione in carcere, la maggior parte dei quali non per reati legati al terrorismo. Lo stesso Anis Amri avrebbe subito un processo di radicalizzazione nelle carceri italiane.

Sempre secondo Ispi, 49 su 99 aggressori in occidente (sempre dal 2014 al 2019), avevano precedenti penali per reati come furto, traffico di sostanze stupefacenti, falsificazione di documenti e terrorismo. La questione preoccupa anche le autorità italiane come si legge nel rapporto sulla sicurezza pubblica del 2023.

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Allah Akbar” a Parigi: uccide un turista a coltellate e ne ferisce un altro a martellate. Era nella lista delle persone pericolose, voleva morire da martire. Angelo Vitolo su L'Identità il 3 Dicembre 2023

Ha gridato “Allah Akbar” uccidendo una persona e ferendone un’altra. L’assalitore, ha detto il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, è stato arrestato. Il fatto è avvenuto nei pressi del Quai de Grenelle, nl 15esimo arrondissement. La vittima dell’aggressione è un turista con doppia nazionalità tedesca e filippina, ed è stata trovata in arresto cardiorespiratorio sul ponte Bir-Hakeim, poco prima delle 22.00 di sabato. L’arresto cardiocircolatorio e la morte, a causa delle ferite ricevute alla schiena e alla spalla.

Una seconda vittima, un turista inglese, è stato ferito dallo stesso aggressore alla testa con un martello in Avenue du Président de l’Avenue Kennedy mentre passeggiava in compagnia della moglie e del figlio, raggkiunto alle spalle dall’uomo poi arrestato. Anche nelle fasi del fermo l’uomo ha brandito il martello contro gli agenti continuando a gridare “Allah Akbar”. Per immobilizzarlo, gli agenti lo hanno colpito per due volte con le scariche dei taser dopo averlo raggiunto in Avenue du Parc de Passy.

Dopo aver annunciato l’arresto dell’aggressore sui social network, il ministro dell’Interno ha annunciato che si sarebbe recato immediatamente sul posto.

L’arrestato è stato identificato per un uomo nato in Francia ed è di nazionalità francese pur essendo di origine iraniana. Si chiama Armand R., ha 26 anni, ed era stato inserito nella lista S, quella che registra tutte le persone considerate pericolose dalla Francia per la sicurezza dello Stato, anche residenti fuori del territorio nazionale. Dopo il fermo, avrebbe detto alla polizia che non sopportava che “gli arabi venissero uccisi in tutto il mondo” e che voleva morire da martire. Secondo le prime informazioni, pare che soffrisse di problemi psichici.

La lista della “fiche S” è una delle 21 categorie create dal governo francese nel 1969. Le Monde, già nel 2016, scriveva che la lista comprendesse 20mila individui, 2mila dei quali legati all’islamismo radicale. Una registrazione che non prevede abitualmente misure o azioni di polizia rivolte ai loro iscritti, ma che serve principalmente per favorirne le ricerche e il rintraccio.

Urla "Allah Akbar" e attacca i passanti col coltello. Torna il terrore a Parigi: un morto. Federico Garau il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Un uomo armato di coltello avrebbe aggredito una coppia vicino alla Tour Eiffel. Attimi di terrore a Parigi: le forze dell'ordine hanno fermato il presunto responsabile. C'è un morto

Parigi piomba di nuovo nel terrore. Questa sera un uomo armato di coltello ha assalito una coppia nei pressi della Tour Eiffel, scatenando il panico. Sulla vicenda si conosce ancora poco, ma secondo quanto riferiscono le autorità francesi, il soggetto sarebbe già stato catturato dalla polizia attorno al Quai de Grenelle (15° arrondissement di Parigi).

Cosa è successo

Stando a quanto dichiarato dal ministro degli Interni Gérald Darmanin, accorso sul posto, la brutale aggressione si è verificata nel corso della serata di oggi, sabato 2 dicembre, intorno alle 21.45. Un uomo armato di coltello ha gridato "Allah Akbar" per poi scagliarsi contro una coppia che passeggiava nei pressi della Tour Eiffel. L'uomo, raggiunto da un fendente, è stato ucciso, mentre la donna, rimasta ferita, è stata trasportata in ospedale, ma le sue condizioni non sarebbero gravi.

"La polizia ha appena coraggiosamente arrestato un aggressore che aggrediva dei passanti a Parigi, intorno al Quai de Grenelle", ha dichiarato su X il ministro degli Interni Darmanin. "Una persona deceduta e un ferito assistiti dai vigili del fuoco di Parigi. Si prega di evitare la zona".

A quanto pare il bilancio è di un morto e due feriti. Tutti turisti. Il primo, un uomo con doppia nazionalità tedesca e filippina, è morto dopo aver ricevuto una coltellata alla schiena e alla spalla. I soccorritori lo hanno trovato già in arresto cardiorespiratorio sul ponte Bir-Hakeim, tra il 15° e il 16° arrondissement di Parigi. Uno dei feriti, invece, un inglese, è stato colpito con un martello in Avenue du Président de l'Avenue Kennedy. A seguito dell'aggressione ha riportato una ferita alla testa. L'uomo stava passeggiando con la moglie e il figlio quando è stato aggredito.

Gli agenti della polizia francese hanno affrontato con coraggio l'aggressore, che ha opposto resistenza, minacciando gli uomini in divisa. Questi sono ricorsi all'uso del taser per fermarlo, riuscendo infine ad arrestarlo in Avenue du Parc de Passy. Le autorità locali non escludono che possano esserci altri feriti.

Chi è l'aggressore

Sarebbe un 26enne nato in Francia e di nazionalità francese, ma di origini iraniane, il soggetto fermato a Quai de Grenelle. Il ragazzo, stando a quanto riferito da Le Parisien, si chiama Armand Rajabpour-Miyandoab, è nato a Neuilly-sur-Seine, periferia residenziale e chic di Parigi, ma risiederebbe nella vicina Puteaux. Nella sua fedina penale, oltre alla schedatura in categoria "S" come individuo a rischio radicalizzazione islamica, c'è anche un precedente arresto nel 2016 con conseguente condanna a 4 anni di carcere per il fatto che stesse preparando un attentato simile a quello di stasera alla Défense, il quartiere degli affari di Parigi. A parte il grave rischio di radicalizzazione, comunque, Armand Rajabpour-Miyandoab era stato già segnalato per "problemi psicologici". Nell'affrontare i poliziotti, riferiscono i quotidiani francesi, avrebbe urlato: "Basta veder morire i musulmani!".

Il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha contattato telefonicamente da Doha, dove si trova in visita dopo la Cop28, il ministro dell'Interno Gérald Darmanin per avere aggiornamenti sulla situazione a Parigi.

L'inchiesta, inizialmente presa in carico in via esclusiva dalla polizia criminale di Parigi, è stata ora affidata alla procura nazionale antiterrorismo: questo hanno riferito nella notte fonti molto vicine agli inquirenti. Federico Garau

La rabbia (e la paura) della Francia: le coltellate che frantumano l’idea di convivenza con l’Islam. Storia di Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023.   
L’uomo che sabato sera intorno alle 21 ha ucciso a coltellate un turista davanti alla Tour Eiffel gridando «Allah Akbar» è un terrorista islamico affiliato all’Isis che da mesi aveva smesso di prendere i farmaci per i suoi problemi psichiatrici. Islamista e malato allo stesso tempo: ma più islamista, o più malato, a seconda dell’appartenenza politica di chi reagisce all’ennesimo attentato che riporta la paura in Francia. Il procuratore antiterrorismo Jean Francois Richard ha precisato che l’uomo aveva giurato fedeltà all’Isis con un video di rivendicazione.

Le coltellate di Armand Rajabpour-Miyandoab, nato 26 anni fa a Neuilly sur Seine (sobborgo chic di Parigi) in una famiglia di iraniani fuggiti dal regime degli ayatollah, arrivano in un contesto sociale al limite della rottura, perché sta accadendo quel che tutti temevano dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre: l’importazione in Francia del conflitto mediorientale, con gli estremisti islamici che colgono l’occasione per imitare i terroristi palestinesi di Hamas attaccando gli ebrei o più in generale gli occidentali, e che proclamano — come ha fatto l’attentatore della Tour Eiffel — di voler vendicare i fratelli musulmani vittime della reazione israeliana a Gaza.

Appena scoppiato il conflitto in Israele e Gaza, due mesi fa, un terrorista ventenne di origini cecene, noto alle forze dell’ordine, ha accoltellato a morte il professore Dominique Bernard nel liceo di Arras. Dopo centinaia di atti di antisemitismo, due settimane fa un altro episodio ha sconvolto la Francia: un adolescente di 16 anni, Thomas Perotto, è stato accoltellato a morte alla fine di una festa di paese a Crépol, piccolo villaggio di campagna non lontano da Grenoble, da un piccolo delinquente di periferia, Chaïd Akabli, nato in Francia ma di origine maghrebina.

Ne sono seguite spedizioni punitive e manifestazioni di piazza di militanti di estrema destra, che venerdì sera non hanno esitato a riempire la piazza del Pantheon a Parigi scandendo slogan anti-Islam e in qualche caso esibendo saluti nazisti. Tutti questi casi, che si tratti di attentati commessi in nome dell’Isis (come quello della Tour Eiffel) o episodi di ultra-violenza slegati dall’ideologia islamista (come l’uccisione di Thomas) sono accomunati dall’origine arabo-musulmana degli assalitori. Un’origine che le autorità danno l’impressione di riconoscere malvolentieri e in ritardo, quando proprio non se ne può più fare a meno, prestandosi all’accusa di negare almeno in parte la realtà nella speranza di risolvere il problema, minimizzandolo.

Così, dopo l’attentato di sabato sera, a sinistra ci sono stati momenti di sollievo quando ha circolato solo il nome proprio dell’attentatore — Armand —, prova che non tutti coloro che accoltellano appartengono al mondo islamico. Sollievo svanito quando si è saputo che Armand Rajabpour-Miyandoab aveva prestato giuramento di fedeltà allo Stato islamico e che alla nascita si chiamava Iman.

Nella giusta preoccupazione di non stigmatizzare tutti i musulmani di Francia — che sono oltre cinque milioni —, vengono però accusati di chiudere gli occhi alcuni deputati come Manuel Bompard, coordinatore della France Insoumise (il partito di Jean-Luc Mélenchon, sinistra radicale), che chiede di «non dare un significato generale a un atto che è soprattutto l’atto di una persona squilibrata», o come Sandrine Rousseau, che sottolinea «il problema di come sono seguite le persone che hanno problemi psichici». Per loro, appunto, l’attentatore è un malato psichiatrico più che un islamista.

La pensa all’opposto Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national, il partito di Marine Le Pen, che deplora il fatto «i drammi si ripetono, gli uni dopo gli altri, sistematicamente, con le stesse situazioni, gli stessi individui, gli stessi profili».

Gli fa eco sul Figaro il vicedirettore del giornale, Vincent Trémolet de Villers: «Il partito di chi rifiuta la realtà, di chi si rifugia nei meandri delle turbe psichiatriche, di chi si aggrappa, in modo francamente patetico, alla denuncia dell’ultra-destra come a un salvagente, questo partito deve comprendere che i tentativi di falsificazione sono inutili e più ancora contro-producenti. I francesi conoscono l’incubo francese, perché lo vivono. (...) Questo rifiuto di Stato della realtà aggiunge, alla mancanza di sicurezza fisica e culturale, una mancanza di sicurezza politica che non è meno allarmante».

Per rispondere a questo bisogno di sicurezza, il presidente Emmanuel Macron ha chiesto alla premier Elisabeth Borne di tenere una riunione straordinaria con i ministri dell’Interno Gérald Darmanin, della Giustizia Éric Dupond-Moretti e della Salute Aurélien Rousseau. Il Consiglio musulmano francese ha chiesto «vigilanza» da parte dei «musulmani in Francia», temendo che l’attacco mortale vicino alla Torre Eiffel possa essere «sfruttato da gruppi di estrema destra».

«C’è da temere che anche questa tragedia venga sfruttata da gruppi di estrema destra per esacerbare le tensioni e mettere all’indice un’intera comunità», ha dichiarato l’organismo di rappresentanza dei musulmani in un comunicato, portando a esempio ciò che è avvenuto dopo l’uccisione del sedicenne Thomas. «Molte moschee in Francia sono già state vittime di scritte razziste e vandalismi. Le donne che indossano il velo vengono attaccate e insultate per strada», denuncia l’organizzazione.

Il governo francese è chiamato alla difficile impresa di proteggere i cittadini, senza negare che la minaccia terroristica proviene dal fanatismo islamista e che certi atti di delinquenza comune si avvicinano a un razzismo anti-bianchi; e allo stesso tempo fare il possibile per evitare lo scontro tra comunità e i pregiudizi contro tutti i musulmani di Francia.

Dublino, algerino accoltella tre bambini: esplode la rivolta, città nel caos. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 24 novembre 2023

 Che la polizia “per ora esclude il movente terroristico” è una frase che ormai non si può più sentire. Soprattutto quando tre bambini e due adulti sono stati accoltellati a Dublino da un 50enne che, da quanto trapela, è algerino. Lo hanno ricoverato perché è rimasto ferito mentre veniva arrestato ed è sorvegliato a vista dalle forze dell’ordine. Ma versano in condizioni più gravi una donna di 30 e una bambina di cinque. Sono state aggredite fuori da una scuola, insieme a un uomo di 50 anni, un bambino di 5 e una di 6, che sono fuori pericolo solo perché qualcuno ha bloccato il tentativo di strage.

Che sia un atto di guerra santa islamica oppure il delirio di uno psicopatico o che si tratti di un episodio isolato, la gente non lo può sapere. Però scende in strada nella capitale irlandese e inizia a gridare: «Buttateli fuori! Buttateli fuori, cazzo!». Siccome intorno al reparto dell’ospedale dove riposa l’accoltellatore c’è un cordone di sicurezza, la prima ad andare a fuoco è un’auto della polizia, la Garda. Intorno i manifestanti sventolano i cartelli «Irish Lives Matter» e le bandiere irlandesi.

Della vicinanza delle istituzioni europee, che prima riempiono le nazioni di profughi, poi si stupiscono se diventano delinquenti, la popolazione locale non sa cosa farsene. Hanno manifestato per mesi contro l’apertura delle frontiere europee. E se la prendono anche con la stampa e la tv che minimizzando il problema, lo fanno diventare una tragedia.

Anzi, nemmeno lo sanno che Charles Michel, presidente del Consiglio Ue, si dice «sconcertato dal terribile attentato di Dublino che ha ferito diverse persone, tra cui bambini». Passa sui siti d’informazione ufficiali la notizia che il suo «sostegno» e il suo «pensiero vanno alle vittime e alle loro famiglie» e che Leo Varadkar (il premier di origine indiana) sa di poter «contare sulla piena solidarietà dell’Ue in questo momento difficile». Ma alla piazza non sembra di nessun aiuto per salvare le vite in pericolo di due loro connazionali.

Su X, se cerchi “Dublin”, non trovi il comunicato della prsidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, che si dice scioccata e grata «a coloro che sono intervenuti immediatamente sul posto». Semmai girano virali sui social le immagini e i video dei cortei spontanei degli autoctoni e degli scontri con la polizia. Servono a chiamare rinforzi. In quel clima le comunità di immigrati stranieri preferiscono rimanere a casa, nella fredda serata dublinese perché c’è il rischio concreto ì che qualcuno se la prenda con chiunque non parli gaelico e si vendichi. Poi magari li accuseranno di essere razzisti, ma il segnale dall’isola cattolica è chiaro: tolleranza zero verso le culture incompatibili e nemiche. Anche quel poco che rimane della civiltà occidentale e cristiana, benché sotto attacco, è in grado di reagire come ai tempi della Reconquista spagnola. Ieri sera la rivolta è partita dall’Irlanda, che è arrivata al punto di rottura. 

Bruxelles, è ancora caccia all'uomo. L'inquietante post del terrorista islamico. Matteo Carnieletto il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.

L'attentatore sarebbe il tunisino Abdesalem L. Avrebbe agito per vendicare le violenze contro i musulmani

Il terrore è tornato, portando con sé, ancora una volta, la morte. Si pensava che l'Isis fosse morto e sepolto sotto la sabbia del deserto siriano e di quello iracheno. E invece no. È ancora tra noi. Certo, non ha più l'ambizione, né la possibilità, di essere uno Stato ma ha ancora la forza per attaccare l'Occidente, come ci ha ricordato il tunisino Abdesalem Lassoued (la scheda: chi è) che ieri sera, a Bruxelles, ha ucciso due persone a colpi di kalashnikov. Lo ha fatto per vendicare le violenze contro i musulmani. Il terrorista ha colpito, poi si è dileguato nel nulla, nascondendosi probabilmente a Schaerbeek, a nord della capitale, dove abitavano anche i kamikaze che avevano portato morte e distruzione nell'attentato all'aeroporto del 2016 e dove si era nascosto Salah Abdeslam, uno degli attentatori del Bataclan. Secondo i media belgi, la caccia a Lassoued starebbe continuando, casa per casa.

In conferenza stampa, il primo ministro belga, Alexander De Croo, ha confermato le notizie che avevano cominicato a trapelare ieri sera, ovvero che l'attentatore "è di origine tunisina e soggiornava illegalmente in Belgio". Nella capitale, è scattato il livello 4 di allerta, che indica una minaccia terroristica "grave ed imminente".

Dopo aver ammazzato due innocenti, il terrorista si è ripreso e - in un video diffuso in rete, dove si fa chiamare Slayem Slouma - ha detto di appartenere all'Isis e ha detto di aver agito per "vendicare i musulmani". Ma non solo. Ha infatti affermato: "Viviamo e moriamo per la nostra religione". Poche ore prima di uccidere, il jihadista aveva inoltre pubblicato un post sui social affermando che se il bambino musulmano accoltellato domenica a Chicago fosse stato cristiano "lo avremmo chiamato terrorismo e non crimine brutale".

In un secondo video, l'attentatore, racconta il procuratore belga Frédéric Van Leeuw, "appare con il volto coperto da un passamontagna e dichiara che 'il libro di Allah è una linea rossa per la quale si sacrifica'". Il riferimento, molto probabilmente, è al rogo del Corano in Svezia.

Abdesalem Lassoued, il lupo solitario già noto per terrorismo (e immigrato illegale)

È la storia di Abdesalem, ma anche di tanti, troppi, jihadisti che in questi anni hanno colpito l'Occidente. Arrivato in Europa, si era visto respingere la domanda di asilo, sarebbe dovuto tornare a casa, in Tunisia, ma così non è stato. È scomparso. Ha vissuto nell'ombra. E poi ha colpito. Ha fatto sapere Nicole de Moor, segretario di Stato del Belgio per l'Asilo e la Migrazione: Lassoued "aveva presentato una domanda di asilo nel nostro Paese nel novembre 2019. Ha ricevuto una decisione negativa nell'ottobre 2020 e poco dopo è scomparso dai radar. È stato ufficialmente cancellato dal registro nazionale del comune il 12 febbraio 2021 e quindi non è stato possibile rintracciarlo per organizzare il suo ritorno. Non ha mai soggiornato in un centro di accoglienza federale. Non è mai stato presentato dalla polizia dopo un'intercettazione all'Ufficio stranieri per consentire il suo rimpatrio. Di conseguenza, l'ordine di lasciare il Paese, emesso nel marzo 2021, non è mai stato emesso".

Il terrorista, quindi, non avrebbe dovuto, ma soprattutto non avrebbe potuto, essere in Belgio. Ma così non è stato. E soprattutto: il ministro della Giustizia belga, Vincent Van Quickenborne, ha affermato che l'attentatore era sotto esame già prima dell'attacco di ieri. All'inizio di quest'anno era stato infatti denunciato da un occupante di un centro d'asilo a Campine (non lontano da Anversa) per minacce via social.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” mercoledì 18 ottobre 2023.

Che Abdesalem Lassoued, all’epoca trentottenne, fosse un estremista islamico potenzialmente pericoloso, le autorità del Belgio l’hanno saputo dalla polizia di prevenzione italiana sette anni fa. 

Era il 2016, e agli apparati investigativi antiterrorismo erano giunte informazioni preoccupanti su questo tunisino che faceva base a Bologna: si era radicalizzato e faceva discorsi relativi alla jihad da esportare in Europa. I controlli […] avevano evidenziato contatti con altri tunisini residenti in Italia e in altri Paesi europei, tra cui Belgio e Gran Bretagna.

Di qui le segnalazioni a Bruxelles, accompagnate da richieste specifiche sui contatti locali del tunisino. Ma la risposta fu che le verifiche avevano dato esito negativo: nessun riscontro significativo o da approfondire. 

In Italia Lassoued era probabilmente destinato all’espulsione preventiva prevista per i «soggetti a rischio», ma la sua domanda di protezione internazionale alla commissione territoriale bolognese bloccò tutto.

Il 26 giugno 2016 la richiesta fu dichiarata inammissibile, e il tunisino finì al Centro di identificazione ed espulsione di Caltanissetta in attesa del rimpatrio. Lui però si oppose davanti al tribunale, che il 21 ottobre 2016 comunicò al Cie siciliano la decisione presa il 14: fissazione dell’udienza al 10 gennaio 2017 dicembre per trattare il merito della causa, con automatico effetto sospensivo della decisione della commissione. Risultato: Lassoued uscì dal Cie in attesa del nuovo verdetto. Con un regolare permesso di soggiorno valido fino 24 gennaio 2017. 

È da allora che in Italia non se ne hanno più tracce. E quando […] a dicembre 2016 anche il Tribunale di Bologna dichiara inammissibile la sua domanda di asilo, Lassoued […] diventa un fantasma. Nello stesso periodo in cui un altro tunisino radicalizzato e transitato dall’Italia, Anis Amri, fa strage al mercatino di Natale di Berlino, uccidendo 12 persone e ferendone oltre 50, prima di essere bloccato e ucciso a Milano, il 23 dicembre. E la storia di Lassoued ricorda molto da vicino quella del suo più giovane connazionale. 

Quando arriva a Lampedusa all'inizio del 2011 (proprio come Amri) […], Lassoued è un fuggiasco delle primavere arabe. Con un passato da detenuto nel suo Paese. Il suo è un ingresso illegale e per questo viene destinato al Cie di Torino, da dove esce ad aprile con un permesso di sei mesi rilasciato «per motivi umanitari» […].

Ma la meta di Lassoued è il Nord Europa. Se ne va in Norvegia, dove viene sorpreso a novembre 2011 e rispedito in Italia, lo Stato di primo ingresso che deve farsi carico degli irregolari secondo gli accordi Dublino. Ma lui se ne va di nuovo, stavolta in Svezia, e tre anni più tardi, ad aprile 2014, si ripete la stessa procedura: viaggio di sola andata da Stoccolma a Torino. 

Per i due anni successivi il tunisino è verosimilmente rimasto in Italia, passato per Terni e ricomparso a Bologna, dove la polizia lo segnala come un islamista radicalizzato al quale prestare massima attenzione. Con tanto di accertamenti richiesti alle polizie straniere: non solo Belgio e Gran Bretagna, ma pure Norvegia e Svezia. Poi si mette in moto la procedura della richiesta d’asilo bocciata, fino alla sua scomparsa dai radar dell’antiterrorismo italiano.

Nel frattempo […] è andato in Belgio, dove viene fermato nel 2019. Anche lì presenta una domanda di protezione internazionale che lo fa tornare libero […]. Ma pure stavolta gli dicono di no, con una decisione del 2020 a cui segue un tentativo delle autorità di Bruxelles di replicare ciò che hanno fatto Norvegia e Svezia: restituirlo all’Italia. Che però in questo caso rifiuta di riaccoglierlo, giacché il permesso di soggiorno rilasciatogli a suo tempo è scaduto da oltre 2 anni e «non vi sono oggettivi riscontri della sua presenza sul territorio nazionale».

Il tunisino irregolare resta dunque in Belgio dove tre anni dopo […] entra in azione […].

(ANSA-AFP domenica 22 ottobre 2023)  - Il jihadista che ha ucciso due tifosi svedesi a Bruxelles lo scorso fine settimana era evaso da una prigione tunisina dove stava scontando una lunga condanna, cosa che ha spinto i funzionari tunisini a chiedere la sua estradizione dal Belgio. Lo hanno reso noto oggi autorità giudiziarie belghe. Le autorità belghe avevano ricevuto la richiesta di estradizione nell'agosto 2022 ma non è stata trattata. Il ministro della Giustizia Vincent Van Quickenborne si è dimesso venerdì per quello che ha definito un "errore monumentale". Oggi il procuratore capo della capitale, Tim De Wolf, ha offerto una spiegazione alla stampa. 

"La grave carenza di personale presso la procura di Bruxelles ha avuto un ruolo, ma... questo non lo giustifica", ha detto, aggiungendo che il dossier sull'estradizione era stato ricevuto nel settembre dello scorso anno e probabilmente era stato dimenticato in uno schedario. "Nessuno dei colleghi coinvolti ricorda cosa ne è stato di questo specifico dossier un anno fa. Non c'è traccia che sia stato trattato", ha detto.

 L'aggressore, Abdesalem Lassoued, 45 anni, era stato condannato "a più di 26 anni di carcere in Tunisia nel 2005, ma era evaso dal carcere nel gennaio 2011", ha detto il pubblico ministero. Le autorità tunisine hanno "segnalato" il caso il primo luglio 2022 tramite l'Interpol, ha aggiunto De Wolf. All'epoca il documento menzionava soltanto "un'evasione dal carcere", ha detto. Sei settimane dopo è seguita una "serie di allegati", ma il fascicolo è andato perduto presso la Procura. Il pubblico ministero non ha spiegato il motivo per cui il tunisino era stato incarcerato, ma i media belgi hanno riferito che avrebbe commesso diversi omicidi.

Immigrato illegale e radicalizzato, passò anche per l’Italia: così Abdesalem ha portato la morte a Bruxelles. Subito dopo l'attentato, l'uomo ha girato un video rivendicato le uccisioni in nome di Allah: "Si vive per la religione e si muore per la religione". Francesca Galici il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.

"Sono Abdeslam Jilani, mi sono vendicato per i musulmani. Ho ucciso tre svedesi ora. Si vive per la religione e si muore per la religione. Sono pronto a incontrare Dio felice e sereno". Così inizia il video dell'attentatore che attorno alle 19 di oggi ha imbracciato un kalashnikov e sparato a tre tifosi svedesi a Bruxelles, poco prima della partita tra la nazionale scandinava e il Belgio. Subito dopo l'attentato, l'uomo ha pubblicato sul web un video in cui si riprende rivendicando l'appartenenza all'Isis e dicendo di aver compiuto il gesto per "vendicare i musulmani".

Il sospetto attentatore è nato nel 1978 ed è stato identificato come Abdesalem Lassoued ed è un tunisino richiedente asilo dal 2019, la cui richiesta era stata respinta nel 2020. "È stato ufficialmente cancellato dal registro nazionale del comune il 12 febbraio 2021 e quindi non è stato possibile rintracciarlo per organizzare il suo ritorno. Non ha mai soggiornato in un centro di accoglienza Federale. Non è mai stato presentato dalla polizia dopo un'intercettazione all'Ufficio stranieri per consentire il suo rimpatrio. Di conseguenza, l'ordine di lasciare il Paese, emesso nel marzo 2021, non è mai stato applicato", ha dichiarato il segretario di Stato del Belgio per l'Asilo e la Migrazione, Nicole de Moor.

All'inizio della giornata di ieri, Slayem Slouma, come si fa chiamare nel video di rivendicazione, o Abdeslam Jilani, il nome che pronuncia nel video, aveva scritto un messaggio sul bambino musulmano accoltellato domenica a Chicago, spiegando che se fosse stato cristiano, "lo avremmo chiamato terrorismo e non un crimine brutale". Si tratterebbe di un tunisino ma non ci sono ancora conferme. Secondo alcune traduzioni dall'Arabia che circolano in questi minuti, l'uomo si è definito un "mujahidin", ovvero un combattente contro i nemici di Dio. Dopo una preghiera, ha continuato: "Tuo fratello si è vendicato dei musulmani".

Nei suoi post sul profilo Facebook, ora oscurato dalle autorità, l'uomo ha fatto riferimento anche ad Hamas e alla guerra in Medio Oriente. "Ieri l'America con aerei e missili, oggi la Gran Bretagna con tutte le sue forze a sostegno degli ebrei", si legge in uno dei suoi social. Come riferisce l'europarlamentare Marco Campomenosi, Lassoued sarebbe transitato anche da Genova, come si evince da un suo vecchio posto datato 2021.

Stando alle prime informazioni, l'uomo sarebbe residente a Schaerbeek, dove nel 2022 vennero accoltellati due poliziotti. In quello stesso quartiere era cresciuto anche uno degli attentatori suicidi che la mattina del 22 marzo 2016 si sono fatti esplodere nell'aeroporto di Bruxelles, Najim Laachraoui. Schaerbeek è a soli 16 minuti di auto da Molenbeek, il quartiere dove aveva il suo rifugio Salah Abdaslam, uno degli attentatori degli attacchi terroristici del 2015 a Parigi, e dove almeno sei dei sette attentatori di Parigi avevano collegamenti. Francesca Galici

Estratto dell’articolo di Francesco De Remigis per “Il Giornale” sabato 14 ottobre 2023.

L’hanno steso con un teaser. L’hanno arrestato. Ma aveva già colpito. Ha mirato alla carotide di un professore. E l’ha tagliata di netto. Uccidendolo. Il grido Allah Akbar viene denunciato dai testimoni del liceo di Arras. Siamo a un’ora di treno a nord di Parigi, quando alle 11 un ventenne di origine cecena con passaporto russo riaccende nell’Esagono il dramma già vissuto tre anni prima con l’esecuzione di un altro prof, Samuel Paty, sgozzato il 16 ottobre 2020. 

Quasi in contemporanea, a pochi chilometri dalla capitale, a Limay, viene bloccato un altro uomo, armato di coltello, mentre esce da una moschea diretto in un altro liceo. «Attentato sventato», spiegherà Macron. Niente da fare invece ad Arras. 

Ancora una volta è uno straniero a colpire la République. Ancora una volta un soggetto già schedato Fiche S (seria minaccia) e stra-attenzionato, tanto da avere il cellulare intercettato. Sotto sorveglianza fisica dal 2 ottobre, Mohamed Mogouchkov, 20 anni, era stato fermato il giorno precedente, senza seguito. Il contesto che lo circonda e il cv della famiglia lasciano però talmente pochi dubbi dopo l’attacco che nel giro di un’ora il caso Arras passa alla procura antiterrorismo. E la verità spiazza la Francia. 

Mohamed è arrivato nel 2008 nell’Esagono, a 6 anni. Con tre fratelli e una sorella, mamma e papà. Nel 2013 la famiglia fa domanda d’asilo. Rigettata. Nel 2014 finiscono in un centro amministrativo, per essere espulsi. Poi tutto si blocca. C’è il socialista Hollande all’Eliseo, nella bufera per il caso di una ragazzina rom. I comunisti insorgono. E col pressing delle Ong i ce ceni tornano ad Arras. 

Solo il padre verrà espulso per radicalizzazione. Il fratello maggiore finisce in carcere quest’estate con doppia accusa: associazione terroristica e apologia di terrorismo. La sorella preferisce una scuola coranica. Il fratello minore, 16 anni, è stato arrestato ieri vicino a un altro liceo, non distante dal teatro di sangue già messo in piedi da Mohamed. Un cavillo ha lasciato il terrorista su suolo francese: era entrato da piccolissimo; prima dei 13 anni, quindi «inespellibile». Ieri si è presentato con due coltelli. […]

Parlateci di La «Bibbiano svedese» dietro la strage di Bruxelles. Enrico Varrecchione l'1 Novembre 2023 su L'Inkiesta.

Il terrorista che ha ucciso due tifosi il 16 ottobre potrebbe aver agito dopo le campagne online degli islamisti sui presunti interventi dei servizi sociali nei confronti delle famiglie di origine straniera. Una fake news cavalcata da alcune frange politiche

Sembra quasi uno sciagurato destino quello dello Stadio Re Baldovino di Bruxelles, più tristemente noto nella memoria collettiva italiana come Heysel, ovvero essere associato a tragedie frutto della cieca violenza umana. Questa volta, a differenza del 1985, è stato più sicuro rimanervi dentro, almeno per i settecento tifosi svedesi che si erano recati alla partita contro i padroni di casa del Belgio, lo scorso 16 ottobre.

Questo perché prima del match, l’estremista islamico Abdesalem Lassoued ha deliberatamente scelto il suo bersaglio in due tifosi della nazionale scandinava. Almeno uno dei due uomini uccisi, di sessanta e settant’anni, indossava una maglietta giallo-blu, rendendosi riconoscibile. La notizia dell’attentato ha raggiunto lo stadio mentre si stava concludendo il primo tempo della partita e i dirigenti delle due federazioni, in accordo con i giocatori, hanno deciso di sospendere la partita.

In quel momento, con il killer ancora in circolazione e la sua stessa testimonianza sui social media in cui aveva dichiarato l’uccisione di due cittadini svedesi, è diventato necessario proteggere i supporter della squadra ospite. Alcuni sono rimasti all’interno dello stadio fino a notte fonda, per poi essere scortati fuori dalle forze dell’ordine.

L’uomo, arrivato in Italia a Lampedusa nel 2011, aveva vissuto in Svezia fra il 2013 e il 2014 nell’area di Göteborg e lì è stato arrestato per possesso di cocaina. Non è chiaro se Lassoued abbia agito in ritorsione all’espulsione subìta in seguito alla condanna, ma è molto probabile che il suo comportamento sia legato a due elementi che hanno compromesso il rapporto fra la Svezia e una parte del mondo islamico, in particolare dopo l’analisi della sua attività social da parte degli inquirenti.

Il primo, probabilmente il più noto alle cronache internazionali, è la frequenza con cui si sono verificate proteste di natura anti-islamica di fronte a moschee o ambasciate di Paesi a maggioranza musulmana, su tutti la Turchia.

Inizialmente, le dimostrazioni erano portate avanti da individui vicini all’estrema destra nordica come Rasmus Paludan (uno che, tanto per inquadrare il personaggio, avrebbe contattato minorenni in chat a sfondo sessuale), successivamente anche dall’integralista cristiano di origine irakena Momika Salwan.

Queste gesta, oltre a essere a lungo utilizzate dalla Turchia per opporsi all’ingresso di Stoccolma nella Nato, hanno causato gravi incidenti a Bagdad, dove è stata attaccata la sede diplomatica svedese.

Il secondo elemento è emerso progressivamente a ridosso della campagna elettorale dello scorso anno, portata avanti dal Partito Nyans, una formazione politica che ha ottenuto un consenso piuttosto ristretto nelle periferie delle grandi città, composte in maggioranza da persone di origine straniera.

Il suo leader, Mikail Yuksel, era stato espulso dal Partito di Centro a causa della sua appartenenza ai Lupi Grigi, l’organizzazione terroristica turca di cui era membro anche l’attentatore di Giovanni Paolo II, Ali Agca. Uno scandalo simile aveva coinvolto l’ex ministro per l’urbanistica Mehmet Kaplan, dei Verdi, nel 2016.

Si tratta di una notizia, spesso ricondivisa nei canali social di ispirazione islamista, secondo la quale i servizi sociali svedesi avrebbero come obiettivo quello di rimuovere i bambini dalla custodia di famiglie di fede musulmana, un’accusa respinta lo scorso inverno dalla neoministra per i servizi sociali, Camilla Waltersson Grönvall, del Partito Moderato

«La legge svedese non discrimina nessun genere o religione – ha detto Waltersson Grönvall –, né rapisce nessun bambino. I servizi sociali sono la massima forma di protezione, per questo ogni campagna di disinformazione è inaccettabile, come è inaccettabile che poliziotti e assistenti sociali siano soggetti a violenza, minacce e molestie a causa del proprio lavoro».

Si tratta di un caso che per risonanza è equiparabile a quanto accaduto in Italia con Bibbiano, fatta salva l’assenza di indagini o segnalazioni di abusi da parte delle autorità giudiziarie svedesi. Quanto c’è di vero in quanto sostenuto dai canali integralisti?

La ricercatrice dell’Università di Karlstad, Birgitta Persdotter, ha svolto nel 2022 un lavoro dal titolo «Come vengono riportate dai servizi sociali le testimonianze dei bambini gravemente esposti?», dal quale emerge come, in generale, le famiglie di origine non occidentale corrispondano al 9,7 percento dei casi studiati e al 14,1 percento dei casi in cui è stato ritenuto necessario l’intervento dei servizi sociali.

Questa discrepanza, peraltro minoritaria rispetto all’ambito complessivo, è stata così chiarita dalla stessa Persdotter al quotidiano Aftonbladet, nell’ambito di un precedente lavoro di ricerca svolto sul tema: «Una spiegazione che è emersa dai colloqui con gli assistenti sociali è che hanno notato una forte resistenza e una paura nei confronti dei servizi sociali e delle istituzioni. Un fattore ulteriore è legato al fatto che le famiglie di origine straniera spesso abbiano una visione diversa dei bambini e dell’utilizzo della violenza come disciplina, specialmente per quanto riguarda i giovani di sesso maschile».

Immediatamente dopo la strage di Bruxelles, il Primo Ministro svedese Ulf Kristersson si è recato sul luogo dell’attentato. «In epoca moderna, la Svezia non è mai stata sotto una minaccia così grande come oggi», ha riferito il premier. «Dobbiamo difendere la nostra società democratica e aperta. Non dobbiamo essere noi a cambiare le nostre attitudini per colpa dei terroristi».

Molto più cupo il commento del commissario tecnico della nazionale, Janne Andersson, che poche ore prima aveva attraversato il centro di Bruxelles assieme ai suoi giocatori: «Non mi mostrerò più in pubblico con la divisa della nazionale», ha esordito Andersson. «Da un lato, non indossandola, si fornisce una ragione agli assassini, ma dall’altra parte mi chiedo se bisogna rimetterci la vita per questo. Sono domande molto difficili», ha concluso l’allenatore.

L'omicida già etichettato con la "S", a rischio radicalizzazione. Terrorismo in Francia: ucciso Dominique Bernard, il professore-eroe che ha salvato i suoi studenti. Luca Sablone su Il Riformista il 14 Ottobre 2023 

La «S», che nel sistema francese significa a rischio radicalizzazione. L’urlo, quell’ormai noto «Allah Akbar» gridato prima di compiere il gesto. I primi elementi emersi, che sembrano andare tutti nella medesima direzione. L’ombra del terrorismo torna ad avvolgere l’Europa. Ieri in Francia, precisamente ad Arras, un uomo armato di coltello ha ucciso un insegnante e ha ferito diverse persone, di cui due in maniera grave. Ha fatto irruzione nel plesso scolastico e senza pietà ha pugnalato a morte il professore Dominique Bernard. È seguita tempestivamente un’operazione di polizia al Gambetta-Carnot che ha portato all’arresto dell’autore dei fatti, un giovane di circa 20 anni di origine cecena che in passato avrebbe studiato proprio nel liceo teatro della tragedia.

Tra le altre cose è emerso un dettaglio che, in attesa dei doverosi riscontri, non può affatto passare in secondo piano: davvero il giorno prima era stato fermato dalla polizia, che gli aveva controllato i documenti e lo aveva lasciato andare liberamente? Inoltre il fratello è stato fermato davanti a un altro istituto e, stando alle prime indiscrezioni, non era in possesso di armi; negli anni scorsi sarebbe stato accusato di aver progettato un attentato e di apologia di terrorismo. Gli alunni sono stati confinati nelle loro rispettive classi. Sono stati momenti di grande confusione e paura. I ragazzi stavano uscendo per recarsi in mensa e la scena a cui hanno assistito è stata tremenda: un uomo con un coltello che attaccava il docente con del sangue addosso. Il prof ha provato in tutti i modi a calmare l’aggressore, si è speso per proteggere gli studenti come una sorta di scudo. L’ordine arrivato era chiaro: andate via, scappate. Poi la fuga degli alunni che, spaventati dall’epilogo dell’episodio, hanno iniziato a correre in maniera sparsa per risalire ai piani alti dell’edificio. Le autorità francesi hanno provveduto ad aprire una cellula di sostegno medico-psicologica per ricevere i ragazzi testimoni dell’assalto.

A stretto giro la Procura nazionale antiterrorismo francese ha aperto un’inchiesta: i reati contestati sono assassinio in relazione a un’associazione terroristica, tentato assassinio e associazione terroristica. L’attacco è arrivato proprio nel giorno in cui in Francia era alta l’allerta nelle scuole, anche se le autorità avevano messo in guardia in particolare quelle ebraiche su possibili rischi di attentati. Non a caso i servizi di sicurezza francese da settimane avevano espresso più di qualche preoccupazione per i possibili fenomeni di radicalizzazione dei giovani nord-caucasici. E i dettagli non sfuggono: le forze di sicurezza avevano schedato l’uomo che ha accoltellato l’insegnante con la «S», una sorta di «etichetta» attribuita a coloro che devono essere monitorati per presunti legami con l’estremismo islamico. Gabriel Attal, ministro dell’Istruzione francese, ha chiesto ai presidi di rafforzare la sicurezza nelle scuole mettendo in atto tutte le misure necessarie e segnalando all’unità di crisi ministeriale qualsiasi situazione sospetta o anomala. All’Assemblea nazionale di Parigi i lavori sono stati sospesi per solidarietà alla vittima dell’attacco e alla comunità educativa. Alla scelta si è arrivati grazie al coordinamento con i gruppi politici e il governo.

I drammatici sviluppi in Medio Oriente e i potenziali riverberi in Europa hanno fatto scattare l’allerta anche in Italia. A preoccupare è soprattutto Roma. Il prefetto Lamberto Giannini ha fatto sapere che allo stato attuale il rischio sicurezza «chiaramente è aumentato in tutta la città e c’è particolare attenzione». Occhi puntati non solo sulle zone riferibili alla comunità ebraica, ma anche sui luoghi turistici assai frequentati come ad esempio il Vaticano e il Colosseo. Il che si traduce in maggiori controlli e pattugliamenti pure in aeroporti e stazioni. Per Matteo Piantedosi ciò che è avvenuto ieri mattina in Francia «è il primo episodio riconducibile a quanto sta avvenendo». Il ministro dell’Interno ha aggiunto che l’accoltellamento al grido Allah Akbar «rievoca fantasmi non molto antichi» oltre che molte fibrillazioni «che si possano verificare ma non sempre possono essere intercettati». La riattivazione di cellule terroristiche dormienti è lo scenario che si vuole scongiurare: evitare una nuova ondata di terrorismo in Europa è l’imperativo principale. Luca Sablone

Olimpiadi di Monaco, chi erano le vittime della strage antisemita. Undici sportivi israeliani uccisi da terroristi palestinesi. Per non dimenticare. Lorenzo Cianti su nicolaporro.it il 5 Settembre 2023.

L’edizione estiva dei Giochi olimpici del 1972 fu assegnata simbolicamente a Monaco di Baviera per tentare di ricucire i rapporti tra la Germania Ovest, democrazia di impianto liberale, e la Repubblica Democratica Tedesca, sottoposta al giogo sovietico. Con 121 Nazioni aderenti e 5288 atleti da tutto il mondo, la competizione atletica risultò la più partecipata della storia fino a quel momento. Disgraziatamente, un evento drammatico segnò il corso delle Olimpiadi: l’uccisione di undici sportivi israeliani.

All’alba del 5 settembre 1972 un commando terroristico palestinese composto da otto fedayn facenti parte del gruppo settembre nero, affiliato all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat, si introdusse nella palazzina dove risiedeva la squadra olimpica di Israele. I fanatici assassinarono due atleti: Moshe Weinberg (33 anni), allenatore di lotta greco-romana, e Yossef Romano (31 anni), specializzato nel sollevamento pesi. Ne sequestrarono poi altri nove, con la richiesta di ottenere in cambio la liberazione di 234 palestinesi prigionieri in Israele. Quella sera i terroristi e gli ostaggi raggiunsero l’aeroporto a bordo di un elicottero. Raggiunti dalla polizia locale armata in assetto di guerra, uccisero tutti i prigionieri.

Morirono Yossef Gutfreund (40 anni), arbitro di lotta greco-romana; David Berger (28 anni), pesista; Mark Slavin (18 anni), lottatore; Yakov Springer (51 anni), giudice di sollevamento pesi; Ze’ev Friedman (28 anni), pesista; Amitzur Shapira (40 anni), allenatore di atletica leggera; Eliezer Halfin (24 anni), lottatore; Kehat Shorr (53 anni), allenatore di tiro a segno; André Spitzer (27 anni), allenatore di scherma. Oggi, 51 anni dopo la strage di Monaco, abbiamo il dovere di ricordare le loro vite, prematuramente strappate dall’odio antisemita.

Lorenzo Cianti, 5 settembre 2023

"Morto il quarto capo dell'Isis": ecco chi è il nuovo Califfo. Storia di Federico Giuliani giovedì 3 agosto 2023 su Il Giornale

L'Isis ha confermato la morte del suo leader, Abu Hussein al-Husseini al-Qurashi, e ha nominato Abu Hafs al-Hashimi al-Qurashi come suo successore alla guida del gruppo. L'annuncio è stato dato da un portavoce dell'Isis, Abu Huthaifa al-Ansari, in un messaggio registrato sui alcuni canali Telegram. "Li ha combattuti fino a quando non è morto per le ferite", ha spiegato riferendosi ad Abu Hussein, senza però specificare quando è avvenuta l'uccisione. Da quanto emerso, sappiamo l'uomo è stato ucciso in "scontri diretti" con il gruppo Hayat Tahrir al-Sham nella provincia di Idlib, nella Siria nordoccidentale.

Morto il leader dell'Isis

Al defunto quarto Califfo Abu Hussein al-Qurashi è succeduto il quinto, Abu Hafs al-Qurashi. In precedenza hanno occupato la cabina di regia il capo storico e primo leader dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, seguito da Abu Ibrahim Hashimi al Qurashi (entrambi rimasti uccisi in raid statunitensi nel nord-ovest della Siria) e da Abu al Hassan al Hashimi al Qurashi, ucciso lo scorso novembre. Ricordiamo che il titolo "Qurashi" si riferisce al nome della tribù di Maometto alla quale deve appartenere il successore (in arabo: khalifa", califfo) dello stesso profeta dell'Islam.

La morte del leader Isis era stata annunciata a fine aprile dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Il terrorista, secondo Ankara, era stato "neutralizzato nell'ambito di un'operazione dell'intelligence turca" nelle vicinanze di Jindires, nel nord della Siria, dove l'uomo si nascondeva in una fattoria abbandonata. Diverso, invece, il resoconto dei jihadisti, per i quali, come detto, Abu al-Hussein sarebbe rimasto ucciso in scontri nel nordovest della Siria.

Cosa succede all'Isis

Apparentemente, dunque, l'Isis ha puntato il dito contro il principale attore rivale sul fronte del terrorismo internazionale, al Qaeda, un tempo ridotta ai minimi termini di fronte alle conquiste territoriali dell'Isis in Siria e Iraq e di fronte ai tragici quanto micidiali attacchi del gruppo in Europa.

Dopo una fulminea ascesa in Iraq e Siria nel 2014 che l'ha vista conquistare vaste aree di territorio, Daesh ha visto crollare il suo autoproclamato "califfato" sotto un'ondata di offensive. Rispetto a quel periodo, l'Isis può contare su numeri molto ridotti di combattenti, che seppur temibili sono costretti a organizzarsi in cellule di 10-15 elementi per sfuggire alla costante caccia delle intelligence di tutto il mondo. Nonostante l'Isis possa ancora vantare ingenti quantità di contanti, fino a 50 milioni di dollari in Siria e Iraq, i colpi ripetuti alla leadership stanno minando la capacità di fare cassa con nuove risorse e soprattutto allontanano i reclutamenti.

L'organizzazione resta in ogni caso una minaccia, sottolineano gli esperti, grazie al largo uso di nuove tecnologie e criptovalute e per la facilità con cui riesce a fare breccia in Paesi instabili, come quelli dell'Africa subsahariana o nello stesso Afghanistan, dove sfida a viso aperto il nuovo potere talebano. Piccola curiosità: il primo Califfo del gruppo, Abu Bakr Al-Baghdadi, è stato ucciso sempre a Idlib. Come l'ultimo.

Otto condanne per le stragi di Bruxelles: 20 anni per Salah Abdeslam. La Corte d'assise speciale di Bruxelles ha condannato rispettivamente a 20 e 30 anni di reclusione Salah Abdeslam e Mohamed Abrini. Massimo Balsamo il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.

La Corte d'assise speciale di Bruxelles ha reso note le condanne definitive nei confronti dei terroristi islamici autori degli attentati del 22 marzo 2016. Come pronunciato dalla presidente Laurence Massart, i giudici hanno condannato rispettivamente a 20 e 30 anni di reclusione Salah Abdeslam e Mohamed Abrini. Per gli altri 6 imputati giudicati colpevoli lo scorso luglio, le pene sono: ergastolo per Oussama Atar in contumacia (perché morto), Osama Krayem e Bilal El Makhoukhi; 20 anni per Sofien Ayari e Ali El Haddad Asufi; 10 anni per Hervé Bayingana-Muhirwa.

Motivando la condanna nei confronti di Salah Abdeslam - già condannato all’ergastolo per gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 - il collegio ha posto la vita sulla "negazione del diritto alla vita degli innocenti, l'indicibile sofferenza delle vittime. Le conseguenze quotidiane che ricordano loro costantemente gli abusi di cui sono state vittime": "Abdeslam pone i precetti dell'Isis al di sopra di quelli della nostra giustizia", le parole della presidente Massart riportate da Sud Info. La Corte d'Assise ha dunque fatto riferimento a una precedente condanna belga pronunciata nel 2018 (20 anni per una sparatoria con agenti di polizia nel marzo 2016) e non ha voluto imporre un'ulteriore pena.

Per il collegio si tratta della stessa intenzione criminale“commettere attentati ordinati dalla Siria e commessi sul suolo europeo”, da Parigi a Bruxelles. Stesso ragionamento è stato utilizzato per Sofien Ayari, condannato a Parigi e per Rue du Dries. Come anticipato, Mohamed Abrini, "l'uomo con il cappello" di Zaventem che accompagnò i jihadisti morti negli attentati suicidi all'aeroporto di Bruxelles, è stato condannato a 30 anni. La procura federale aveva inoltre chiesto la decadenza della nazionalità belga di quattro dei condannati - Mohamed Abrini, Bilal El Makhoukhi, Ali El Haddad Asufi e Hervé Bayingana - ma la corte e la giuria non hanno accolto questa richiesta.

Gli attentati di Bruxelles del 22 marzo del 2016 costarono la vita a 35 persone innocenti - 16 all'aeroporto di Bruxelles-National e 16 alla stazione della metropolitana di Maelbeek/Maalbeek - la maggior parte delle quali di nazionalità belga. 340 invece le persone ferite. Tre gli attacchi messi a segno dai terroristi islamici: due attacchi avvennero presso l'aeroporto di Bruxelles-National, nel comune di Zaventem, ed uno alla stazione della metropolitana di Maelbeek/Maalbeek, nel comune di Bruxelles. Operazioni rivendicate dopo poche ore dallo Stato islamico tramite l'agenzia di stampa Amaq.

Attentati terroristici di Bruxelles del 2016: sono sei i condannati. La Corte d'Assise ha condannato Oussama Atar, Mohamed Abrini, Osama Krayem, Salah Abdeslam, Ali El Haddad Asufi e Bilal El Makhoukhi. Federico Garau il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

È arrivato quest'oggi, martedì 25 luglio, il verdetto relativo agli attentati suicidi che il 22 marzo del 2016 causarono a Bruxelles la morte di 35 persone (tra le quali tre terroristi) oltre che il ferimento di almeno altre 340.

Sono sei in tutto i condannati con l'accusa di "omicidi in un contesto terroristico", in quanto ritenuti dai dodici giudici della Corte d'Assise di Bruxelles responsabili di avere organizzato o attuato gli attacchi che presero di mira la stazione della metropolitana di Maalbek e l'aeroporto di Zaventem, stando a quanto riportato dal quotidiano belga Le Soir sul proprio portale online. Si tratta di Oussama Atar (si presume che sia nel frattempo deceduto in Siria), Mohamed Abrini, Osama Krayem, Salah Abdeslam, Ali El Haddad Asufi e Bilal El Makhoukhi. Tra di essi spiccano in particolar modo le figure di Salah Abdelslam, francese naturalizzato belga che partecipò anche agli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015, e Mohammed Abrini, che rivelò di essere il celebre "uomo con il cappello" immortalato dalle telecamere di sorveglianza dell'aeroporto poco prima che esplodessero le valigie riempite di Tatp, l'esplosivo in genere utilizzato dai jihadisti in Siria.

Gli altri quattro imputati Sofien Ayari, Hervé, Bayingana Muhirwa e Smail e Ibrahim Farisi sono invece stati assolti dai medesimi capi di imputazione: tra questi, tuttavia, Sofien Ayari e Hervé Bayingana Muhirwa sono stati ritenuti colpevoli del reato di partecipazione a organizzazione terroristica. I due fratelli Smail e Ibrahim Farisi sono stati assolti da entrambi i capi di imputazione.

Gli imputati hanno atteso 18 giorni la decisione dei giudici della Corte d'Assise di Bruxelles, dato che il processo, iniziato lo scorso dicembre 2022, si era concluso giovedì 6 luglio: si tratterebbe della delibera più lunga nella storia giudiziaria del Belgio. Secondo quanto riferito dal quotidiano belga, il verdetto è stato letto dalla presidente della Corte d'Assise Laurence Massart in maniera molto rapida. Laurence Massart, ha inoltre specificato che alle 32 persone che il 22 marzo 2016 persero la vita si sono aggiunte ulteriori quattro vittime, decedute qualche anno dopo gli attentati.

La presidente ha voluto sottolineare ancora una volta"l'orrore della scena" delle esplosioni all'aeroporto di Bruxelles e alla stazione metropolitana di Maelbeek, e la "sofferenza" che hanno provocato, in quella che era stata interpretata allora come una vendetta degli uomini fedeli all'Isis nei riguardi di uno dei Paesi che prese parte alla coalizione anti-Califfato in Siria e Iraq.

Stando al racconto fornito dalle forze dell'ordine, la strage di Zaventem avrebbe potuto avere un bilancio ancora più pesante: una terza bomba, la più potente, non sarebbe esplosa perché l’attentatore venne sbalzato via dalla seconda deflagrazione.

La Germania nella morsa del terrorismo islamico. Stefano Piazza su Panorama l'8 Luglio 2023

I nove arrestati dell'ultima operazione della Polizia sono arrivati in Germania come falsi rifugiati subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e secondo gli inquirenti hanno subito formato la cellula terroristica con l’obbiettivo «di perpetrare attacchi di alto profilo in Germania sulla falsariga dell'ISIS»

 Sono ancora in corso le indagini che sono all’origine dell’operazione antiterrorismo che ieri ha coinvolto alle prime luci dell’alba diverse località della Renania Settentrionale-Vestfalia (NRW). Il procuratore federale ha disposto gli arresti per nove persone provenienti da Tagikistan, Kirghizistan e Turkmenistan che sono accusate di aver fondato un'organizzazione terroristica in Germania, di aver pianificato attentati e di aver raccolto denaro per la "Provincia dello Stato islamico del Khorasan" (ISPK o Isis-K) ovvero la branca regionale dell’ISIS che opera principalmente in Afghanistan. Le persone arrestate sono cinque tagiki, un turkmeno e un kirghiso entrati in territorio tedesco nella primavera del 2022 fingendosi profughi ucraini. Il raid è avvenuto nel distretto di Ennepe-Ruhr, nel distretto di Rhein-Sieg, a Gelsenkirchen a Gladbeck, a Düsseldorf (capitale delle NRW) e nel distretto di Warendorf. Secondo il ministro dell'Interno della NRW Herbert Reul, gli uomini avevano tra i 20 ei 46 anni. Sono stati perquisiti in totale 15 luoghi. Un altro uomo tagiko e sua moglie kirghisa sono stati arrestati dalle autorità olandesi. Secondo la polizia olandese, la coppia è anche sospettata di aver preparato atti terroristici. Sono tre gli aspetti che devono preoccupare; in primo luogo, c’è lil fatto che l’operazione di ieri vede l’arresto di un’intera cellula terroristica e non più “lupi solitari” e lo stesso è avvenuto recentemente in Belgio, Francia, Olanda e Gran Bretagna. Altro aspetto a dir poco inquietante è che ad essere arrestata è stata una un’intera cellula dell’ISIS-K che quindi ora mira all’Europa come avevamo purtroppo previsto in precedenti approfondimenti. Infine, c’è il fatto che nessuno è in grado di sapere quanti sono i fondamentalisti arrivati nei Paesi europei dallo scoppio della guerra in Ucraina ma soprattutto quanti ne arriveranno ancora fingendosi profughi. Arrivati dopo l'inizio della guerra in Ucraina Come detto i nove sono arrivati in Germania come falsi rifugiati subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e secondo gli inquirenti hanno subito formato la cellula terroristica con l’obbiettivo «di perpetrare attacchi di alto profilo in Germania sulla falsariga dell'ISIS». Le indagini hanno accertato che il gruppo era in contatto con i membri dell’Isis-K e alcuni obbiettivi erano stati individuati e per questo i sette uomini erano alla ricerca di armi. Il ministro federale dell'Interno Nancy Faeser ha parlato di «un colpo significativo al terrorismo islamista. Oltre a possibili piani di attacco, è stato impedito anche il finanziamento del terrorismo. Stiamo continuando la nostra dura presa di posizione contro gli islamisti. I seguaci dello Stato islamico apparentemente credevano di poter svolgere qui il loro lavoro terroristico quotidiano senza essere disturbati. Ma le autorità di sicurezza hanno occhi vigili e possono vedere con precisione chi si muove e come». Il ministro dell'Interno della NRW Herbert Reul ha sottolineato che recentemente c'è stato un calo del numero di islamisti registrati presso l'Ufficio per la protezione della Costituzione nel Nord Reno-Westfalia una zona storicamente molto permeabile al fondamentalismo grazie all’attività e ai sermoni infuocati di molti predicatori salafiti come il convertito tedesco Pierre Vogel (Abu Hamza) Ahmad Armih alias Abul Baraa, Abul Hussain, Abu Jamal e Wisam Kouli solo per citane alcuni. Tuttavia, le continue perquisizioni e gli arresti mostrano che questo calo di numeri «non dà motivo di suonare il cessato allarme» visto che Il numero di minacce è di circa 200 all’anno. Un numero davvero enorme. «La Germania rimane un obiettivo del terrorismo islamico e la minaccia rimane acuta», ha affermato il ministro dell'Interno Nancy Faeser, rimarcando il lavoro che le autorità hanno fatto negli scorsi mesi nello sventare attacchi pianificati a Castrop-Rauxel, nell'Ovest del Paese, e ad Amburgo, nel Nord del paese.

L’odio. Il fiasco dell’assimilazione e l’inesorabile separatismo dei francesi musulmani. Carlo Panella su L'Inkiesta il 6 Luglio 2023

Le tensioni in Francia sono il frutto del rapporto irrisolto tra Islam e modernità europea. Da una parte ci sono i giovani di fede islamica che non si riconoscono nei valori della società laica e si sentono emarginati, dall’altra parte c'è una polizia violenta formata non alla mediazione sociale, ma al conflitto

La rivolta che ha bruciato la Francia, con scintille sino in Belgio e persino in Svizzera, ci obbliga a porci una domanda che è tanto semplice quanto esplosiva. L’Italia, indietro di decenni nello sviluppo del fenomeno immigratorio, farà la stessa fine? È inutile elencare tutte le differenze tra Italia e Francia. La lista è lunga: una immigrazione stanziale di massa iniziata decenni e decenni dopo, quindi una presenza enormemente minore di immigrati divenuti cittadini italiani e quindi di seconda o terza generazione (in Francia secondo l’istituto di statistica nazionale Insee questi e gli immigrati superano largamente i dieci milioni) una immigrazione non proveniente, se non del tutto marginalmente, da ex colonie, soprattutto non influenzata dal ricordo storico di feroci guerre coloniali come in Algeria e Marocco; una presenza quasi maggioritaria in Italia di immigrati europei, il 30 per cento addirittura comunitari; una polizia e dei carabinieri ben integrati nel tessuto sociale e molto impegnati nelle politiche di prossimità e integrazione, per lo più alieni da comportamenti violenti. Infine, ma non per ultimo, l’assenza del fenomeno delle banlieues.

In Francia, nel 1962, André Malraux varò una legge che investì nel risanamento dei centri storici, diventati così scelta preferenziale della media e alta borghesia, mentre gli immigrati, grazie anche a successive e precise scelte urbanistiche, vennero ammassati nelle periferie e nelle città satelliti, le banlieues. In Italia, al contrario, nessuna, assolutamente nessuna, politica urbanistica a fronte dell’arrivo in quindici anni di cinque milioni di immigrati regolari, col risultato di una loro caotica e casuale concentrazione determinata solo dal mercato degli affitti privati, vuoi nei centri storici, vuoi nelle periferie.

Questo non toglie che in Italia vi siano a macchia di leopardo, nelle città e nelle periferie, concentrazioni di immigrati che superano il venti-trenta per cento , con forti tensioni sociali e politiche. Un caso per tutti, ma ce ne sono molti simili: Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, ha visto nel 2017 la sconfitta della sinistra dopo sessant’anni di governo locale e dopo una campagna elettorale nella quale ha avuto un ruolo centrale la polemica sulla costruzione di una nuova, grande moschea. Così pure al Lagaccio, il quartiere dei portuali di Genova.

Molti in Italia i casi di rivolta dei residenti contro la concentrazione di immigrati irregolari. Molti i casi a livello individuale, non politico o di grande rilevanza sociale, di separatismo (vedremo più avanti l’esplosiva realtà in Francia di questo termine) di famiglie di immigrati musulmani che impongono la sharia su mogli e figlie in spregio delle leggi italiane.

Non pochi i casi di violenze shariatiche gravi, sempre su donne, inclusi alcuni assassinii con motivazioni shariatiche come quelli di Hina Saleem e Saman Abbas. Il ventisette per cento dei femminicidi compiuti in Italia nel 2021 vedono come responsabile un immigrato. E non mancano i tentati stupri di gruppo da parte di giovani immigrati islamici come quello del capodanno 2022 in piazza Duomo a Milano.

A uno sguardo d’insieme – non esistono ancora analisi serie in Italia – siamo ancora nella fase in cui la mancata integrazione delle prime, ma soprattutto delle seconde generazioni si esprime in comportamenti criminali, non ancora di corale rivolta politico sociale. Deviazioni criminali molto preoccupanti che in genere si esprimono non tanto individualmente ma per bande. Ancora più inquietanti i dati dei minori immigrati tra i quattordici e i diciassette anni  che sono il nove per cento di tutta la popolazione, ma compiono il sessantacinque per cento degli scippi, il 50,2 per cento dei furti, il 48,1 per cento delle rapine, il 47,7 per cento delle violenze sessuali e il 40,4 per cento delle percosse.

Dunque, fenomeni carsici indiscutibili, ma che ancora sono ben lontani dal livello d’allarme e dall’intensità eversiva delle rivolte delle banlieues francesi. Ma un domani? Tra tre, cinque, dieci anni, quando maturerà una situazione dell’immigrazione regolare uguale a quella francese, è escluso che in Italia si possano replicare? Non credo. Troppi sono i segnali di mancata integrazione degli immigrati regolari, specie musulmani.

Con buona pace dei buonisti che in Italia pensano che concedere la cittadinanza ai figli degli immigrati abbia un effetto di salvifica integrazione, la rivolta francese dimostra che questa è una cosmica falsità. L’ennesima di una visione irenistica dell’uomo e della cittadinanza di una sinistra crepuscolare. Sono infatti cittadini francesi da una, due, tre generazioni le decine di migliaia di giovani che in questi giorni hanno incendiato e saccheggiato non solo le periferie, ma anche i centri città di tutta la Francia, duecentoventi i comuni con incidenti gravi, muniti di eccellenti app che indicavano dove era in corso il saccheggio del più vicino grande magazzino o negozio di Nike.

Il trenta per cento dei più di tremila arrestati era minorenne, che semplicemente si sentono “altri” e soprattutto contro, di fatto non si sentono parte di una comunità nazionale, di un patto sociale. Sono cittadini francesi ma non si sentono francesi. Odiano la Francia e non solo saccheggiano, ma anche distruggono scuole e edifici pubblici. Sono il prodotto di una decomposizione identitaria e di una deriva comunitaria in atto da decenni in Francia evidenziata già nel 2003 dal poderoso lavoro di inchiesta sociale e sociologica sulla base di migliaia di interviste e analisi sviluppata dalla Commissione Stasi voluta da Jacques Chirac, che tra l’altro sottolineò tra le sue caratteristiche un diffuso antisemitismo di matrice islamica. Un antisemitismo che ha prodotto, soprattutto dopo gli attentati del 2015, una fuga verso Israele di migliaia di ebrei francesi. La rivolta delle banlieues del 2005 confermò in pieno quella analisi.

Questa stessa deriva comunitaria e decomposizione identitaria ha inoltre incubato quel «separatismo» di matrice islamica denunciato da Emmanuel Macron nel suo famoso discorso di Mureaux nell’ottobre del 2020. I cui punti salienti sono:

– L’integrazione e soprattutto l’assimilazione degli immigrati musulmani e dei musulmani con cittadinanza francese è fallita in componenti non marginali a causa del «separatismo islamico» che mira «a costruire una contro società». Infatti, come evidenzia una inchiesta Ifop del 2020, il cinquantasette per cento dei giovani musulmani in Francia «considera la sharia più importante delle leggi della Repubblica».

– Questo fallimento deriva essenzialmente da una crisi dell’Islam da cui è emersa una corrente politica che pretende di sostituire le leggi della Repubblica con quelle della Sharia. I Fratelli Musulmani, i salafiti e i wahabiti hanno promosso e innervato questa corrente con un progetto politico e una ideologia strutturata.

– Per contrastare questo fenomeno che, letteralmente, «incancrenisce la Repubblica» e mette in pericolo il patto sociale e nazionale, vanno attuati nuovi e rigidi strumenti legislativi e amministrativi.

Dunque, in Francia deflagra oggi una miscela esplosiva composta da più componenti: una emarginazione sociale dei giovani immigrati di seconda, terza generazione, un rifiuto di massa di sentirsi parte della comunità nazionale francese, la chiusura in contesti comunitari omogenei, con un proprio linguaggio e propri valori antagonisti al patto sociale e anche, per molti, il riferimento a una legge “altra”, la sharia, che è quella dei padri, delle proprie radici, che deve regolare i rapporti sociali, familiari e con le donne in senso opposto a quello dei francesi, della Repubblica. 

Un separatismo che conferma la previsione del cardinale Giacomo Biffi che fece scandalo nel 2000 nel pronunciare queste parole che si sono rivelate profetiche: «Gli islamici – nella stragrande maggioranza, con qualche eccezione- vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra “umanità” individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più preziosa, di più “laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare sostanzialmente come loro. Hanno (…) un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (sino a praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli Stati occidentali moderni a dover far bene i loro conti a questo riguardo».

Dunque, non la sostituzione etnica è il vero problema, non il Grand rémplacement, che più del sessanta per cento dei francesi è convinto sia in atto, ma il rapporto irrisolto tra Islam e modernità e quello ancora più confuso e incerto tra gli Stati europei e il radicarsi dell’Islam sui loro territori e nelle loro comunità.

Peraltro, va detto che l’innesco che fa esplodere questa miscela sociale, identitaria e culturale, in Francia nel 2005 come oggi, non a caso è la violenza della polizia: il poliziotto, il gendarme incarna il volto dello Stato, più vicino, più presente. Ed è una polizia, quella francese, con un patrimonio storico di violenza e di durezza che non ha pari in Europa. L’opposto della polizia di prossimità, attrezzata e formata non alla mediazione sociale, ma al conflitto. Una polizia peraltro apprezzata nel suo ruolo violento da una massiccia minoranza silenziosa di francesi che si sentono minacciati. Non è un caso che la sottoscrizione a favore del poliziotto che ha ucciso a freddo e senza alcuna giustificazione il giovane Nahel, immigrato di terza generazione, abbia ricevuto otto volte più fondi della raccolta fondi a favore della madre di Nahel, più di un milione e mezzo di euro.

Questo il rebus francese oggi. La crisi di un paese che esplode nella violenza provocata da un fallimento totale dell’integrazione o della assimilazione dei suoi milioni e milioni di immigrati e dei loro figli. Una crisi apparentemente insolubile. Da destra come da sinistra, da Chirac, da Nicolas Sarkozy, come da François Hollande e oggi da Emmanuel Macron.

L'Isis è tornato a comandare. Stefano Piazza su Panorama il 5 Luglio 2023

Afghanistan, Iraq, Siria, mentre il mondo è distratto dalla guerra in Ucraina il Califfato sta riprendendo forza e pericolosità

Come ha scritto la BBC lo scorso 2 luglio i Talebani hanno ordinato ai parrucchieri e ai saloni di bellezza in Afghanistan di chiudere le loro attività. Un portavoce del Ministero del vizio e della virtù ha detto che le aziende hanno tempo un mese dal 2 luglio scorso per obbedire alla direttiva. I Talebani hanno anche decretato che le donne debbano essere vestite in modo da mostrare solo i loro occhi e devono essere accompagnate da un parente maschio se viaggiano per più di 72 km. La chiusura dei saloni di bellezza faceva parte di una vasta gamma di misure imposte dai Talebani quando erano al potere tra il 1996 e il 2001 ma hanno poi riaperto negli anni successivi all'invasione dell'Afghanistan guidata dagli Stati Uniti nel 2001e la nuova chiusura non è che l’ennesimo colpo inferto alla libertà delle donne, dopo che i vertici talebani hanno disposto l’allontanamento delle ragazze e delle donne adolescenti dalle aule scolastiche, dalle palestre e dai parchi, oltre ad avergli vietato persino di lavorare per le Nazioni Unite. Il governo talebano non ha spiegato cosa ha spinto il divieto, o quali eventuali alternative sarebbero disponibili per le donne una volta chiusi i saloni, ma appare evidente che i Talebani totalmente isolati a livello politico internazionale e che vengono attaccati ogni giorni dai rivali dell’Isis-Khorasan (Isis-K) non abbiano alcun piano politico se non quello di concentrarsi ossesivamente sui corpi delle donne, visto che stanno cercando di eliminarle a ogni livello della vita pubblica. A proposito dello scontro tra al-Qaeda, i Talebani e la rete Haqqani che hanno la stessa visione del mondo, gli stessi obiettivi e lo stesso approccio, alcune testate lo scorso 9 giugno hanno raccontato che il leader dell’Isis-K Sanaullah Ghafari, noto anche come Shahabul Muhajir e Shahab al- Muhajir, sarebbe stato eliminato in un'operazione condotta dalle forze speciali del regime ad interim afghano. Vero o falso? Anche il comando centrale degli Stati Uniti, che sovrintende alle operazioni militari statunitensi in Medio Oriente e nell'Asia meridionale, ha dichiarato di non essere in grado di confermare la morte di Ghafari: «CENTCOM è a conoscenza di rapporti secondo cui un leader dell'IsisK è stato ucciso in Afghanistan all'inizio di questa settimana», aveva dichiarato a Voice of America (VOA) il maggiore John Moore che in una e-mail ha scritto: «Non abbiamo altro da fornire in questo momento». I funzionari dell'intelligence pakistana hanno confermato a VOA l'eliminazione del capo dell'Isis-K in Afghanistan in quelle che hanno descritto come «circostanze misteriose» salutando la circostanza come un «come un grande successo contro i gruppi terroristici che minacciano i due paesi». A quasi un mese dalla presunta morte dell’emiro dell’Isis-K Sanaullah Ghafari, gli Stati Uniti mantengono intatta la taglia da 10 milioni dollari sulla sua testa come si legge sul sito Rewards for Justice: «Rewards for Justice offre una ricompensa fino a 10 milioni di dollari per informazioni sul leader dell'Isis-K Shahab al-Muhajir. Nel giugno 2020, la leadership centrale dell'Isis ha nominato al-Muhajir, noto anche come Sanaullah Ghafari, a capo dell'Isis-K, un'organizzazione terroristica straniera designata dagli Stati Uniti. Un comunicato dell'Isis che annunciava la sua nomina descriveva al-Muhajir come un leader militare esperto e uno dei «leoni urbani» dell'Isis-K a Kabul, coinvolto in operazioni di guerriglia e nella pianificazione di attacchi suicidi e complessi. Nato nel 1994 in Afghanistan, è responsabile dell'approvazione di tutte le operazioni dell'Isis-K in tutto l'Afghanistan e dell'organizzazione dei finanziamenti per condurre le operazioni». Un chiaro segnale che per gli americani Ghafari è ancora vivo e vegeto. A proposito dei Talebani: non passa giorno che un membro del regime di Kabul affermi. «Non ci sono gruppi terroristici in Afghanistan. Non possono operare nel paese e noi non permettiamo loro di operare in Afghanistan», ma come visto con la morte del capo di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri, ucciso da un drone della Cia il 31 luglio 2022 sul terrazzo dell’appartamento di Kabul dove viveva da qualche tempo con la famiglia, i Talebani mentono. In realtà nel rapporto pubblicato agli inizi del giugno scorso dal gruppo di monitoraggio del supporto analitico e delle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si legge: «Con il patrocinio dei Talebani, i membri di al-Qaeda hanno ricevuto nomine e ruoli consultivi nelle strutture amministrative e di sicurezza talebane. Le relazioni tra i Talebani e al-Qaida restano forti e simbiotiche e circa 400 combattenti di al-Qaida sono in Afghanistan e si rilevano segnali che il gruppo terroristico sta ricostruendo la sua capacità operativa». I Talebani hanno respinto il rapporto, definendolo «di parte e lontano dalla realtà» ma non hanno spiegato perché Qari Baryal che per più di 15 anni è stato in una lista speciale dei leader Talebani e di al-Qaeda dei più ricercati da Washington in Afghanistan perchè accusato di aver effettuato attentati dinamitardi e attacchi suicidi in tutto il paese nel novembre 2021, quindi due mesi dopo il ritiro delle forze USA e NATO dall'Afghanistan, è stato nominato governatore della provincia di Kabul. Mentre nel marzo 2022 è diventato governatore provinciale della provincia di Kapisa, a nord-est di Kabul. Ma non è il solo perchè nel rapporto si leggono i nomi del governatore del Nuristan Hafiz Muhammad Agha Hakeem e Tajmir Jawad, vicedirettore dell'intelligence dei Talebani entrambi affiliati ad al- Qaeda. Inoltre altri qaedisti hanno posizioni di livello nei ministeri afghani, uno su tutti è Sirajuddin Haqqani, ministro dell'Interno dell'emirato islamico afghano, capo dell'omonimo gruppo che fa parte dei Talebani e contemporaneamente, secondo l'ONU, l'intelligence americana e quella britannica, un membro di lunga data di alQaeda. Nonostante le prove con una dichiarazione pubblicata su Twitter dal portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid, il gruppo insiste «sui suoi impegni e assicura che non vi è alcuna minaccia dal territorio dell'Afghanistan alla regione, ai vicini e ai paesi del mondo e non consente a nessuno di utilizzare il proprio territorio contro gli altri». Ma ormai a credere alle loro giustificazioni non resta più nessuno. Bill Roggio, un membro anziano della Foundation for Defense of Democracies, ha dichiarato a VOA che nominando leader con «doppio cappello», quindi di al-Qaida e Talebani tra cui Baryal, (che ha ucciso le truppe americane) i Talebani stanno apertamente beffandosi del cosiddetto accordo di pace. Queste nomine dimostrano che i Talebani non sono preoccupati per la percezione della comunità internazionale», ha detto Roggio aggiungendo che «i Talebani hanno sempre mentito sui loro legami con al-Qaida e altri gruppi terroristici e le loro dichiarazioni sono prive di fondamento».

Secondo Bull Roggio e altri analisti della regione l'Afghanistan potrebbe tornare ad essere un centro di addestramento per il gruppo terroristico visto che qui hanno un rifugio sicuro e il sostegno dei Talebani. Sami Yousafzai, un giornalista che si occupa di Afghanistan da molti anni, ha detto a VOA che crede che i membri di al-Qaeda ora in Afghanistan siano principalmente arabi, con solo pochi membri Talebani afghani che si sono uniti per necessità. Altri esperti regionali ritengono che il lungo conflitto militare della regione tra i Talebani e le forze guidate dagli Stati Uniti abbiano creato alleanze tra i gruppi di milizie regionali difficilmente incasellabili. L'ex portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale dell'Afghanistan Rahmatullah Andar non ha dubbi: «I gruppi Talebani nei distretti ospitano membri di al- Qaida da più di 20 anni. Pertanto, è difficile separarli. Non solo con al-Qaida, ma anche con i Talebani pakistani».

L'"infermiere" Abdalmasih e l'asilo concesso dall'Italia. Il rischio era di ritrovarselo a lavorare come infermiere in qualche ospedale d'Europa. Francesco De Remigis il 9 Giugno 2023 su Il Giornale.

Il rischio era di ritrovarselo a lavorare come infermiere in qualche ospedale d'Europa. Perché il 31enne siriano che ieri ha assalito il gruppo di bambini ad Annecy, con un coltello in mano e una kefiah in testa, stava studiando per diventarlo. Fino all'anno scorso, faceva un corso insieme alla moglie in Svezia, lasciata però nel Paese dove ha vissuto con lei per anni. E dove ha ricevuto il suo primo documento di rifugiato politico, nel 2013. «Aveva seguìto tutte le procedure lì», spiega la portavoce del ministero dell'Interno francese, rimbalzando su Stoccolma il passato (e il profilo) dell'uomo, e ribadendo che le leggi Ue non prevedono un bis della domanda. Se già accolta da uno dei Paesi membri, Schengen è in sostanza casa sua.

Non avrebbe senso cumulare le stesse richieste di asilo. Ma lui lo ha fatto. E la Francia gliel'ha bocciata giusto domenica scorsa, il 4 giugno. Nel dossier, presentato il 28 novembre, si era dichiarato ancora una volta «cristiano siriano». Come in Svezia, dov'era arrivato una decina d'anni fa e aveva messo su famiglia: moglie, una figlia nata lì che oggi ha tre anni. La piccola è rimasta con la madre. Lui è diventato un fantasma: otto mesi fa, quando si sono separati. «Non gli piaceva la Svezia», rivela lei. Ha quindi apparentemente intrapreso una sorta di road trip. Svizzera, Italia. Paesi che per BfmTv avevano già accettato le sue domande di asilo (inutili).

Infine è arrivato in Francia, puntando forse alla cittadinanza. La prefettura francese ha fatto il suo lavoro, spiegano Oltralpe, non prendendo in considerazione la richiesta d'asilo perché già in tasca. La moglie, da 4 mesi, non aveva più sue notizie. Abdalmasih Hanoun è quindi ancora un enigma: originario di Hassaké, la città del Kurdistan siriano strappata poi all'Isis. Folle, posseduto, feroce e spietato assassino o solo un persona in crisi d'identità con un passato traumatico? Difficile stabilire la premeditazione, secondo gli analisti. La pista psicologica viene tenuta in alta considerazione per carpire i segreti dietro questo rifugiato che prima di azionare la furia contro i passeggini aveva fatto il giro di mezza Europa. Era senza fissa dimora, ad Annecy, si appoggiava in una chiesa per dormire. Nel commissariato, in arresto, ieri gridava: «Uccidetemi, uccidetemi». Ai poliziotti non ha detto granché. Niente precedenti psichiatrici, né schedato per reati. Sconosciuto agli 007. Dopo l'arresto - che durerà al massimo 48 ore se non ci saranno sviluppi nell'inchiesta - si rotolava per terra. Tatuaggi sulle gambe, i bermuda con cui era andato nel parco. Deliri mistici o cosa? Per alcuni testimoni, da almeno tre giorni si vedeva in zona. Era entrato legalmente in Francia. In tasca un documento. Per ora ha avuto il «merito» di mettere in evidenza certe apparenti lacune Ue: e procedure di rilascio di «doppioni» talvolta troppo automatiche.

Per la ex moglie, «non era capace di colpire, era una brava persona». In Francia non conosceva nessuno, non aveva contatti, insiste ignara di tutto. Ma in quattro mesi di buco tra i due può essere cambiato qualcosa. Deluso dal «No» francese? Ieri aveva con sé uno zaino e un coltello e un paio di occhiali da sole indosso; sufficienti per seminare il terrore e far ripiombare la Francia nell'incubo attentati. L'ex moglie ricorda che abitavano insieme a Trollhättan nella Svezia occidentale, e che si erano incontrati 5 anni fa in Turchia. La Svezia è il Paese Ue che riceve più cristiani d'oriente. Dà titoli di soggiorno permanenti. Era «gentile», dice lei. «Si occupava molto di sua figlia». Ma tutto è ancora da decifrare. Fatti, dichiarazioni, e perfino le testimonianze.

"Stupri, aggressioni e accoltellamenti: ecco i crimini degli immigrati in Francia". Matteo Carnieletto l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.

Il caso del siriano che ha accoltellato i bambini in Alta Savoia torna a far puntare i riflettori sul fallimento del modello francese sull'immigrazione

Laurent Obertone traccia pennellate ampie e fosche per descrivere ciò che sta accadendo in Francia. Lo ha fatto nei primi due volumi di Guerriglia (Signs publishing) - Il giorno in cui tutto si incendiò e Il tempo dei barbari - e pure nel terzo volume che uscirà a dicembre. Lo scenario è semplice e drammatico allo stesso tempo (e soprattutto inquietante perché basato su alcuni report dei servizi segreti francesi): in un giorno come tanti altri, una serie di azioni provoca la ribellione degli immigrati presenti sul suolo di Francia. È l'inizio della rivolta. Della guerriglia, appunto. Della violenza senza freni. Degli omicidi impuniti. Dei furti liberi. Dello stupro come arma. Obertone conosce bene la Francia. E conosce bene ciò che un'immigrazione incontrollata sta provocando ai francesi. Dopo l'aggressione di un siriano contro alcuni bambini ad Annecy, in alta Savoia, abbiamo deciso di intervistarlo.

In Francia c'è stato un altro reato commesso da un immigrato. Quello che aveva predetto nei suoi libri si è avverato?

Sfortunatamente, questo accade ogni giorno da anni. Ma è di cattivo gusto parlarne, come se il problema fosse un solo caso, come se le nostre parole - quando invece si tratta di azioni criminali commesse da immigrati - sconfiggessero la "convivenza", questa fantasia delirante delle nostre élite, a cui dobbiamo il crollo del nostro modo di vivere e del nostro capitale sociale.

Si dice che l'uomo che ha aggredito i bambini sia un siriano venuto in Europa affermando di essere cristiano. Secondo lei è possibile o era una scusa per avere più facilmente il diritto d'asilo?

Non ne ho idea, so solo che è un "rifugiato", che ha accoltellato bambini nei passeggini, che non ha affari sul nostro suolo, che nel 2022 sono state presentate più di 137mila prime domande di asilo, che quest'anno abbiamo battuto il record di permessi di soggiorno rilasciati (oltre 320mila), senza contare 1,7 milioni di visti. E sto parlando solo dell'immigrazione legale, che è stata imposta alla nostra gente, completamente contro la sua volontà, per decenni.

Il caso Lola sembra dimenticato. Ci sono stati altri crimini efferati che hanno scosso la Francia negli ultimi mesi?

Ce ne sono alcuni ogni giorno. Ogni giorno più di 200 donne vengono abusate o stuprate. Migliaia di cittadini vengono attaccati. Ci sono 120 colpi e coltellate al giorno. Questo sordo terrore è la norma. Ma secondo i nostri leader l'insicurezza è solo un sentimento e parlarne farebbe il gioco dell'estrema destra. Quindi è vietato farlo, pena l'accusa di “recupero”.

Quello che sta accadendo in Francia potrebbe accadere anche in Italia?

Assolutamente, ovunque, le stesse cause producono gli stessi effetti. E questo è solo l'inizio, finché le nostre élite si rifiutano di prenderne atto.

Quale futuro per l'Europa?

Per ora sembra decisa a uccidersi, a distruggere la sua coesione, ad assecondare tutti i pazzi della terra. Le mie parole sono forti, ma la passività generale, la negazione di questa realtà che da anni denuncio tende a infastidirmi, a rimanere educato. Perché oggi un profugo ha accoltellato dei bambini nei passeggini, in una piazza, e tra qualche giorno nessuno ne parlerà, né se ne ricorderà, e nulla cambierà. Fino al prossimo episodio.

Annecy ci dice che l'allarme terrorismo esiste, anche se non lo vogliamo vedere. Stefano Piazza su Panorama l'8 Giugno 2023

Distratti dalla guerra in Ucraina e dalle politiche pro accoglienza abbiamo sottovalutato o non visto le decine di attacchi di un terrorismo islamico che ha ripreso forza. Anche grazie a noi

L'errore principale che potremmo fare nel commentare il barbaro attentato contro i bambini nel parco giochi di Annecy è pensare sia il gesto isolato, di un lupo solitario. I segnali, non colti dalla massa anche perché troppo poco resi pubblici dalla stampa, arrivati negli ultimi mesi in Europa raccontano infatti una realtà ben diversa: il terrorismo islamico è più vivo che mai. Questa mattina intorno alle 9.45 un uomo armato di coltello ha ferito almeno 9 persone in un parco di Annecy, in Alta Savoia (Francia). Almeno un adulto e quattro bambini sarebbero «in assoluta emergenza» secondo un primo rapporto provvisorio. I bambini feriti, secondo fonti della prefettura, hanno circa tre anni e sarebbero alunni di una scuola materna che si trova nelle vicinanze del parco. A colpire è stato un cittadino siriano Abdalmasih H., 31 anni, che aveva presentato domanda di asilo all'Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (Ofpra) il 28 novembre 2022 e che nel frattempo aveva ottenuto lo status di rifugiato in Svezia (sempre generosa in questi casi) con provvedimento del 26 aprile 2023. L’uomo fino ad oggi era sconosciuto dalla polizia e all’intelligence francese. Gli agenti hanno sparato all’uomo e lo hanno colpito a più riprese, soprattutto alle gambe, ha detto un testimone all’emittente Bfmtv. Il premier francese Elizabeth Borne e il ministro dell’Interno Gérald Darmanin sono arrivati sul posto, mentre il presidente francese Emmamnuel Macron in un tweet ha espresso il suo sdegno: «È un attacco di una vigliaccheria assoluta. Dei bambini e un adulto sono tra la vita e la morte. La nazione è sotto shock». Secondo alcuni testimoni oculari «l’aggressore è saltato, si è messo a urlare, si è avvicinato ai passeggini e ha iniziato a pugnalare ripetutamente i piccoli». Poi quando ha visto che era circondato dalla polizia è andato da una coppia e ha accoltellato l'anziano. È andato dritto da un nonno che era con sua moglie e l'ha accoltellato. Si tratta dell’ennesimo attacco compiuto da un richiedente asilo nei confronti di civili ed in tal senso la memoria va ad Anis Amri, l'autore dell'attacco terroristico del 19 dicembre 2016 (12 morti 56 feriti) a Berlino, poi neutralizzato a Sesto San Giovanni il 23 dello stesso mese; a Muhammad Usman e Osama Krayem che erano nel commando delle stragi del 13 novembre 2015 che hanno provocato 137 vittime (7 attentatori); oppure a Rakhmat Akilov, 39 anni, un richiedente asilo uzbeko che il 7 aprile 2017 alla guida di un cammion travolse la folla a Stoccolma ( 5 morti e 15 feriti). Infinita la serie di attacchi con arma bianca compiuti da rifugiati, ad esempio quello del 18 agosto 2017 a Turku, città del sudovest della Finlandia, dove diverse persone vennero accoltellate nella Piazza del Mercato da un assalitore successivamente identificato come un giovane richiedente asilo. Dopo aver accoltellato dieci persone, attaccando delle donne e ferendo due uomini accorsi a prestare aiuto, l'attentatore fu colpito alle gambe dalla polizia e arrestato. Stessa dinamica ha usato il 25 settembre 2020 Ali H., giovane pakistano, arrivato nel 2017 nella capitale francese come minore non accompagnato, che ha ferito a colpi di mannaia due collaboratori dell'agenzia di stampa Premieres Lignes, la stessa che il 7 gennaio 2015 mostrò le immagini dei fratelli Said e Cherif Kouachi e Amedy Coulibaly prima del loro ingresso nella redazione di Charlie Hebdo, dove uccisero 12 persone. Altro attacco quello del 27 giugno 2021 Wurzburg, in Baviera (Germania) dove un un uomo di nazionalità somala ha accoltellato a morte tre persone ferendone almeno alte dieci per poi essere fermato dalla polizia. Sempre in Germania, il 7 novembre 2021, un 27enne siriano armato di coltello aveva attaccato i passeggeri del treno ad alta velocità che collega Ratisbona a Norimberga, ferendo in maniera grave tre persone prima di essere fermato. Sul treno al momento dell'attacco c'erano 300 passeggeri che sono vennero fatti scendere a Seubersdorf (distretto di Neumarkt). In precedenza il 13 ottobre 2021 il 37enne Espen Andersen Brathen, convertito all'islam nel 2017, uccise cinque persone e ne ferì altre due a Kongsberg, una piccola città vicino a Oslo (Norvegia), due giorni dopo a Londra a cadere sotto i colpi di Ali Harbi Ali, un 25enne britannico di origine somala nel Regno Unito dal '90, era stato il parlamentare britannico Sir David Amess, 69 anni, deputato conservatore di Southend West, assassinato con 17 coltellate mentre incontrava i suoi gli elettori in una chiesa nell'Essex. Episodi che hanno convinto le intelligence e le strutture anti terrorismo di tutta Europa che l'Isis si è riorganizzato, che il terrorismo islamico ha sfruttato la distrazione dell'occidente da più di un anno con gli occhi rivolti solo all'Ucraina; tutto questo in un momento politico che predilige l'accoglienza indiscriminata alla sicurezza. Per questo la certezza è che dopo Annecy ci saranno altro attacchi, altri terroristi, altri morti in Europa con tutti i rischi che corriamo ogni giorno. Anche portando i nostri figli e nipoti al parco.

Lo stato di Al Qaeda 22 anni dopo l’11 settembre. Lorenzo Vita il 10 Settembre 2023 su Inside Over.

Ventidue anni dopo quel fatidico 11 settembre 2001, di Al Qaeda, la creatura di Osama bin Laden, sembra essere rimasto solo un lontano ricordo. Rispetto all’incubo che per anni ha imperversato nel mondo, diventando anche oggetto di una vera e propria guerra, oggi l’organizzazione terroristica di matrice islamica è rimasta solo come nome, cambiando radicalmente pelle. Morto il suo vertice e con l’ascesa e la caduta del grande rivale dello Stato islamico del califfo Abu Bakr al Baghdadi, al Qaeda è sembrata condannata alla scomparsa, o quantomeno al totale ridimensionamento. Nessun desiderio di ottenere, tramite il sangue degli innocenti, il cambiamento della politica internazionale o della società, ma solo una rete criminale che si è modellata sulla realtà geopolitica in grande mutamento.

In realtà, le cronache anche delle ultime settimane, ma in generale degli ultimi anni dimostrano due dati. Da una parte, è certamente vero che la morte di Osama bin Laden e la fine del periodo dei grandi attentati terroristici dei primi Anni Duemila è andata di pari passo con una sostanziale riduzione del raggio d’azione della rete terroristica che appariva così granitica. Ed è altrettanto vero che l’ascesa di Daesh, o del sedicente Stato islamico (nato da una costola proprio di Al Qaeda) ha sancito un inevitabile declino anche mediatico dell’organizzazione che ha terrorizzato l’Occidente e non solo. Tuttavia, Al Qaeda in questi anni ha anche saputo modificare in modo radicale i propri obiettivi e le proprie modalità di azione, sopravvivendo al corso degli eventi e anche ai suoi numerosi fallimenti e colpi inferti dalle forze avversarie. E in questo, ha certamente influito anche il passaggio ideologico dalla leadership di bin Laden a quella di Al Zawahiri, che, come ha spiegato l’analista Claudio Bertolotti in un’intervista ad Huffington Post, rispetto al potente predecessore “è stato più pragmatico, avendo come obiettivo una somma di vittorie quotidiane, concrete, che ogni generazione vivente può contribuire a realizzare e vedere realizzate.”. 

Questo non significa che al Qaeda sia egualmente potente rispetto a venti anni fa. La guerra fratricida con lo Stato islamico, che si è combattuta in diversi campi di battaglia ha mostrato tutti i limiti dell’organizzazione islamista e anche la sua perdita di consenso rispetto a un enorme bacino di possibili affiliati. È però vero che rispetto a Daesh, di fatto relegato a pochissimi e piccoli santuari tra Siria e Iraq, il modello qaedista ancora resiste in conflitti locali in grado di spargere sangue ovunque. I migliori alleati di Al Qaeda, i Talebani, governano con difficoltà l’Afghanistan dopo che il potere di Kabul gli è stato consegnato dagli stessi Stati Uniti una volta conclusa l’infinita guerra scatenata proprio dopo l’11 settembre 2001. In Siria, Iraq e Yemen ancora persistono delle sacche di resistenza. E in Africa, dalla regione orientale fino a quella occidentale includendo gran parte del Sahel, una serie di organizzazioni affiliate ad Al Qaeda e presuntamente legate a essa continuano a macchiarsi di crimini, compiere attentati terroristici o essere coinvolti in conflitti locali profondamente violenti e capaci di portare destabilizzazione in tutti i teatri bellici. A questo proposito, è utile ricordare l’ultima tragica notizia giunta dal Mali, dove proprio un gruppo affiliato ad Al Qaeda ha rivendicato due attentati in cui hanno perso la vita 49 civili e 15 soldati, colpendo un’imbarcazione sul fiume Niger, la “barca di Timbuctu”, e una base dell’esercito maliano a Bamba, nella regione settentrionale di Gao. A preoccupare gli esperti è soprattutto il Gruppo di difesa dell’Islam e dei musulmani (Jnim).

D’altro canto, va anche rivelato che i problemi di Al Qaeda non sono pochi e, dopo venti anni di terrore, l’assenza di una leadership definita dopo l‘uccisione di Ayman al-Zawahiri può essere l’esempio più chiaro delle sue difficoltà. Per il Dipartimento di Stato americano, il nuovo vertice della rete è Saif al Adel, ex membro delle guardie di sicurezza egiziane, che secondo molti analisti è nascosto in Iran. Ma l’assenza di un riconoscimento globale può essere un deficit per la sua organizzazione. Inoltre, come ricordato da Foreign Policy, in questo momento alcuni segmenti di Al Qaeda, in particolare africani, sarebbero in grado di colpire anche in Occidente. Ma la violenza sembra sfogarsi principalmente in conflitti regionali anche tra sigle jihadiste che non solo continuano a mietere vittime innocenti, ma che distraggono l’organizzazione terroristica da propositi più ampi. LORENZO VITA

Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell’11/9. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 17 Aprile 2023  

Veterano della resistenza dei mujāhid all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Laureato in ingegneria. Ossessionato dai dirottamenti aerei. Scrivere degli attentati dell’11 settembre 2001 equivale a fare il suo nome. Eppure no, non stiamo parlando di Osama bin Laden, anche se la descrizione gli calza a pennello. Stiamo parlando di Khalid Sheikh Mohammed, la mente profonda dell’11/9.

Genesi di un terrorista

Khalid Sheikh Mohammed, popolarmente noto come lo Sceicco, è stato uno dei terroristi islamisti più importanti dell’epoca d’oro del jihadismo. La data e il luogo di nascita di Mohammed non sono mai stati accertati definitivamente – potrebbe essere nato in Pakistan o in Kuwait, nel 1964 o nel 1965 –; quel che è certo è che suo padre fosse un predicatore della scuola deobandi, che suo nipote sia Ramzi Yousef, uno dei protagonisti dell’attentato al World Trade Center del 1993, e che la Commissione Nazionale sugli Attacchi terroristici contro gli Stati Uniti lo abbia definito “l’architetto principale degli attacchi dell’11/9”.

Dopo aver trascorso l’infanzia e la prima parte dell’adolescenza in Pakistan, dove impara l’urdu e il balochi, viene iniziato nei Fratelli Musulmani e viene allevato al culto del padre – l’Islam deobandi –, Mohammed si trasferisce negli Stati Uniti nel 1983, all’indomani del conseguimento del diploma, per studiare all’università. L’esperienza sarà breve, tre anni, ma sufficiente a sviluppare i primi sentimenti di astio verso gli Stati Uniti.

Abdullah Azzam, il mentore di Osama bin Laden

Sayyid Qutb, il padre dell’Islam politico

Nel 1987, forte di una laurea in ingegneria meccanica ottenuta in un’università americana, Mohammed fa ritorno in Pakistan. È poco più che ventenne, ha tanti sogni, ma il richiamo del Jihād avrà il sopravvento: insieme ai fratelli parte alla volta dell’Afghanistan come mujāhid, un’esperienza destinata a cambiare la traiettoria della sua vita.

Di ritorno dall’Afghanistan, dove è rimasto stregato dalla figura di ʿAbd Allāh Yūsuf al-ʿAzzām, Mohammed è un uomo profondamente cambiato. Vuole dedicare la vita all’esportazione globale dell’Islam praticato dall’allora emergente Al Qaida. Un ideale che lo avrebbe portato nelle Filippine in guerra contro il separatismo islamista di Abu Sayyaf.

Il terrore in volo

1993-95, il triennio più misterioso di Mohammed. Triennio caratterizzato da un attentato semiriuscito a New York, nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center, e da una super-cospirazione passata alla storia come il progetto Bojinka. Due trame terroristiche avvenute in luoghi tra loro distanti, ma legate da un filo conduttore: Mohammed.

Il progetto Bojinka, pianificato nelle Filippine da Al Qaida e al-Jamāʿah al-Islāmiyyah, avrebbe dovuto consacrare l’ingresso di Osama bin Laden nell’Olimpo dei jihadisti. Trattavasi, invero, di uno dei più grandi complotti terroristici studiati da una realtà jihadista: undici voli da dirottare e/o da far esplodere, l’assassinio di Giovanni Paolo II, la distruzione del quartier generale della Central Intelligence Agency.

L’intera galassia jihadista sarebbe stata mobilitata per reperire i fondi necessari alla costruzione delle bombe artigianali, manifatturate da Mohammed in persona. Decine di soldati sarebbero stati inviati in lungo e in largo le Filippine per testare i prodotti di Mohammed e la fattibilità del piano terroristico. Tra gli esperimenti più eclatanti, il piazzamento di una bomba sul PAL434, l’11 dicembre 1994, atterrato nonostante l’esplosione avvenuta in volo.

Abu Musab al-Zarqawi, il (vero) padre del Daesh

Bojinka avrebbe dovuto inaugurare in grande stile la campagna di Jihād globale di Al Qaida. Qualcosa, però, andò storto a causa della più imprevedibile delle variabili: il caso. Un rogo in uno degli appartamenti utilizzati dalla cellula di Mohammed per produrre le bombe artigianali, avvenuta alla vigilia dell’approdo a Manila del Papa in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 1995, avrebbe condotto le autorità, fino ad allora ignare dell’esistenza di Bojinka, a sgominare l’intera operazione.

Mohammed, onde evitare l’estradizione negli Stati Uniti, avrebbe abbandonato le Filippine per i porti più sicuri del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana. Ma l’idea del dirottamento in serie con cui fare il “grande botto”, Bojinka, non sarebbe finita nel dimenticatoio. L’idea, al contrario, sarebbe sopravvissuta, in quanto ossessivamente presente nei discorsi fra Mohammed e bin Laden, e portata avanti in quel di Amburgo. E l’11 settembre 2001, a sei anni dalla débâcle di Manila, avrebbe preso forma.

Il tramonto sullo Sceicco

2002. L’equivalente americano e su larghissima scala dell’operazione Ira di Dio, la Guerra al Terrore pianificata dagli strateghi neoconservatori di George Bush Jr, è ufficialmente iniziata. I talebani stanno combattendo l’esercito degli Stati Uniti. La Casa Bianca sta mettendo in piedi la coalizione dei volenterosi che a breve dovrà intervenire in Iraq. La guerra dei droni è cominciata, sembra in Yemen, con l’uccisione di alcuni qaedisti.

2002. Mentre gli Stati Uniti conducono la loro Guerra al Terrore, la Russia conduce la sua in Cecenia e dintorni, e la Cina è impegnata nella propria nello Xinjiang. Il filo conduttore delle tre guerre al terrore è Al Qaida, l’organizzazione che ha risvegliato sentimenti di separatismo religioso in tutta l’Eurafrasia, dal Daghestan alle Filippine, che produce emuli, che si unisce in matrimoni di convenienza con altre realtà dell’Internazionale jihadista e che esporta, oltre che idee, armi e combattenti.

Nel 2002, mentre Al Qaida è in piena fase ascendente, per Mohammed è l’inizio della fine. A sancire la caduta del primo pezzo della Trinità del Jihād globale sarà l’omicidio in mondovisione di un giornalista statunitense, Daniel Pearl, sequestrato a Karachi da un commando agli ordini di Mohammed e poi da questi decapitato davanti alle telecamere. È febbraio. 

La guerra (infinita) al terrore

Mohammed Atta, il volto dell’11/9

Dopo la pubblicazione del video dell’uccisione di Pearl, costretto a sconfessare l’America attraverso una serie di frasi pronunciate sotto minaccia, parte la caccia all’uomo. Le indiscrezioni vogliono che l’esecuzione sia avvenuta su mandato di Mohammed, sebbene le prove inconfutabili del suo coinvolgimento arriveranno (molti) anni più tardi, ed è così che sulle sue tracce si mettono la Central Intelligence Agency e l’ISI pakistana.

La prima operazione ha luogo nel primo anniversario dell’11/9, a Karachi. Operativi dell’ISI, supportati da intelligence della Cia, entrano in un alloggio nel quale si troverebbe lo Sceicco. Lui non c’è, ma il blitz è tutto fuorché un fiasco: uno degli identificati (e degli arrestati) è Ramzi bin al-Shibḥ, membro della cellula di Amburgo e colui che avrebbe dovuto essere il “ventesimo attentatore” l’11 settembre 2001.

Il secondo tentativo, il primo marzo 2003, è quello giusto. Una squadra mista, composta da agenti ISI e operativi SAC – divisione specializzata in operazioni coperte della CIA –, cattura lo Sceicco a Rawalpindi, la “sorella di Islamabad”. L’inizio di una detenzione infinita, con capolinea Guantanamo, e particolarmente violenta, a causa del frequente ricorso alle tecniche di interrogatorio potenziato su Mohammed – dall’annegamento simulato alla reidratazione rettale –, che non mancherà di suscitare le proteste dell’internazionale dei diritti umani.

Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara per “La Verità” il 10 aprile 2023.

Domenico sui social ha un soprannome: Mohammed al Itali. La foto del suo profilo è un talebano che sventola una bandiera con uno slogan arabo. E per l’immagine di copertina ha scelto una mappa delle storiche conquiste islamiche in Europa e in Africa. Il primo post è dedicato a una notizia: «L’Isis pubblica la foto di Luigi Di Maio con Antony Blinken e minaccia: Conquisteremo Roma». Adil, suo amico social, commenta: «Purtroppo hanno ragione. Roma verrà conquistata». […]

 Domenico Mohammed si è convertito nel 2016: «È stata la mia rinascita», scrive, «ho capito che tutti gli uomini nascono musulmani e se vogliono raggiungere il paradiso devono tornare alla Vera Fede». Per lui «la donna del Paradiso» è totalmente coperta di nero. E ritiene il Covid «una punizione di Allah». Posta video sul giorno del giudizio e proclama: «L’Italia è il mio Paese e l’Islam è la mia anima». […]

 Finché, andando indietro alla fine del 2021, si trova qualcosa di inquietante: «Aspetto la chiamata per difendere la legge di Dio dai miscredenti. Solo la sharia e niente altro». Un concetto che sembra un punto di comunione per una buona fetta della comunità islamista in Italia.

 Gli esperti di intelligence ma anche della materia religiosa stimano in oltre 4.000 i profili social di chi propaganda Maometto in chiave estrema, ma di certo sono molti di più.

Molti di questi profili sono connessi direttamente. O tramite un altro profilo. E spesso sfuggono ai monitoraggi ufficiali.

Domenico per esempio è in relazione con tale Sajida, un magrebino che vive in Italia e usa una tigre ruggente come foto del profilo. E tra gli amici di Sajida è possibile trovare Ahmad, triestino con un profilo particolarmente anonimo ma che un’agenzia d’intelligence israeliana che collabora con il Mossad ha inserito in un dossier sulla propaganda del Califfato in Italia.

Nella ragnatela italiana è uno snodo importante Ahmad. È in relazione con tale Jibril, che vive a Lecce. La sua posizione la si intuisce già dal primo post: «La crisi del mondo moderno e forme di idolatria contemporanee in pochi fotogrammi». E da un pulpito, in abito tradizionale, il venerdì dispensa sermoni ai suoi seguaci.

 […]

Da Nord a Sud l’Italia sembra ormai piena di megafoni della propaganda estremista, soprattutto di quella salafita.

Said vive a Ferrara: la sua foto di copertina è una mano con l’indice alzato verso il cielo, un simbolo usato da molti estremisti perché indica l’unicità di Dio. Scrive: «In testa a tutto c’è l’Islam, il suo pilastro è la preghiera, la sua sommità è il Jihad».

 […]  Altro profilo particolarmente interessante è quello di Boussaha, un algerino che scrive in italiano e che appare come molto legato alle teorie salafite. Fa riferimento alla «spada di Allah» e sulla questione femminile si presenta come un estremista, condannando chi vuole «che la donna musulmana sia come la donna occidentale». Anche Alfredo dalla Puglia ha ingaggiato la sua battaglia sulla donna musulmana, alla quale ha dedicato decine di post di questo tenore: «Le donne musulmane hanno diritto ad avere un uomo che le soddisfi sessualmente».

[…] Sumaya, invece, sulla foto del profilo ha impresso «io scelgo Pd». Parla ai suoi contatti della finanza islamica e su una foto dell’operazione antiterrorismo dopo la strage di Charlie Hebdo indica come terrorista il poliziotto francese e come musulmano il terrorista a terra. Sull’immagine, a scanso di equivoci, campeggia uno slogan di matrice islamista: «Nel caso ti sentissi confuso».

Dall'attentato al Bataclan alla strage di Nizza, gli italiani vittime del terrorismo nel mondo. Storia di Redazione Tgcom24 l’8 aprile 2023.

L'attentato a Tel Aviv, dove è rimasto vittima il 35enne romano Alessandro Parini, è solo l'ultimo in ordine cronologico degli attacchi terroristici in cui hanno perso la vita cittadini italiani. Da Dacca al Bataclan, da Sharm el Sheik a Nizza, la lista è lunga. Ecco i principali episodi.

11 dicembre 2018  A Strasburgo, Cherif Chekatt apre il fuoco in rue Orfevres e colpisce alla testa il giornalista italiano Antonio Megalizzi, che muore tre giorni dopo. Cinque le vittime in totale.

17 agosto 2017  A Barcellona, Younes Abouyaaqoub, alla guida di un camioncino, piomba sulla zona pedonale de La Rambla, uccidendo 16 persone, tra cui i due italiani Luca Russo e Bruno Gullotta, e l'italo-argentina Carmen Lopardo.

19 dicembre 2016  Un camion, guidato dal tunisino Anis Amri, travolge la folla in un mercatino di Natale a Berlino. Dodici i morti tra cui la trentunenne abruzzese Fabrizia Di Lorenzo.

14 luglio 2016  Ancora un camion, questa volta a Nizza, sulla Promenade des Anglais. Si tratta di uno degli attentati più brutali degli ultimi anni: 86 morti, tra cui sei italiani.

1 luglio 2016  A Dacca, in Bangladesh, un commando irrompe e spara nel ristorante Holey Artisan Bakery. Nove italiani uccisi.

22 marzo 2016  In una serie di attacchi a Bruxelles muoiono 32 persone, tra cui - alla stazione della metro di Maelbeek dove un kamikaze si è fatto esplodere - l'italiana Patricia Rizzo.

13 novembre 2015  l tragico attacco multiplo dell'Isis a Parigi fa 130 vittime. Tra queste l'italiana Valeria Solesin che si trovava al Bataclan per un concerto.

18 marzo 2015  A Tunisi quattro italiani rimangono uccisi nell' attentato al museo del Bardo. In totale i morti sono 22.

13 febbraio 2010  Nadia Macerini, 37 anni, muore a Pune, in India, nell'esplosione di una bomba piazzata in un ristorante.

23 luglio 2005  A Sharm el Sheik 6 italiani muoiono negli attentati terroristici che uccidono 60 persone.

7 luglio 2005  Il terrorismo islamico colpisce nel cuore dell'Inghilterra, sulla metro di Londra. La 32 enne romana Benedetta Ciaccia è tra le 52 vittime.

7 ottobre 2004  Jessica e Sabrina Rinaudo, di 20 e 22 anni, muoiono nell'attentato all'Hotel Hilton di Taba, in Egitto.

16 maggio 2003  In una serie di attentati a Casablanca, in Marocco, il tecnico Luciano Tadiotto è tra i 41 morti.

«Ho difeso il killer del Bataclan. Anche lui ha diritto a un giusto processo». Parla Olivia Ronen, l’avvocata francese che ha difeso Salah Abdeslam nel processo sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015: «Il verdetto di ergastolo è stato emesso a dispetto dei principi cardine del diritto, come la presunzione di innocenza e l’onere della prova». Guido Stampanoni Bassi, direttore di “Giurisprudenza penale”, su Il Dubbio il 28 aprile 2023

Abbiamo intervistato Olivia Ronen, l’avvocata francese che ha difeso Salah Abdeslam nel processo sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Tanti i temi toccati durante il colloquio, molti dei quali attuali anche in Italia: dal diritto di difesa al processo mediatico; dal ruolo del difensore all’ergastolo ostativo. Il processo sugli attentati del 2015 è stato recentemente raccontato da Emmanuel Carrére nel libro V13 pubblicato da Adelphi.

Cosa ha rappresentato, dal punto di vista umano e professionale, come avvocata poco più che trentenne, difendere Salah Abdeslam, il principale imputato nel processo?

Gli attentati del 13 novembre 2015 hanno fatto molte vittime e lo choc provocato in Francia è stato grandissimo. Salah Abdeslam, unico membro del commando rimasto in vita, è rapidamente diventato per l’opinione pubblica l’incarnazione stessa degli attentati. È quindi evidente che difendere quello che alcuni già chiamavano “il nemico pubblico numero 1” rappresentava una vera sfida. Mi sono naturalmente posta parecchie domande. “Ho abbastanza esperienza? Ho le spalle abbastanza forti per un processo del genere?”. Anche se avevo già accumulato una decina di processi e una ventina di pratiche in materia di terrorismo, avevo meno di 5 anni di tribunale quando sono stata formalmente nominata dall’imputato, alla fine del 2020 (10 mesi prima dell’inizio del processo). Ma ben presto ho dovuto accantonare queste domande, non c’era tempo da perdere. Dovevo organizzarmi, calarmi e assimilare quel dossier tentacolare di un milione di pagine e, soprattutto, trovare il modo di capire colui che dovevo assistere. Mi ha anche molto aiutato una riflessione del mio collega e amico di Università Martin Vettes, al quale avevo chiesto di affiancarmi in questo caso: mi ha fatto notare che nessuno, nemmeno un principe del foro con 30 anni di esperienza, aveva mai affrontato un tale processo, così lungo (10 mesi) e con migliaia di parti civili. Così, la nostra giovane età, che inizialmente mi sembrava un difetto, si è rivelata al contrario un vantaggio: ci assicurava la tenacia, l’energia, la voglia e forse anche quella dose di incoscienza necessaria per lanciarci in questa esperienza. E queste considerazioni hanno fatto venir meno le esitazioni.

Com'è stato il suo rapporto con Salah Abdeslam? Ha mai avuto dubbi prima di accettare l'incarico?

Quando incontro le persone che mi domandano di assisterle metto da parte i reati che gli sono contestati per cercare di vedere chi sono, di che pasta sono fatti. Tutto quello che mi interessa è sapere se riesco a far nascere tra noi un dialogo costruttivo. È stato così anche con Salah Abdeslam. Non sarei mai entrata in solo per il brivido di esserci. Dovevo essere in grado di capirmi con lui. E ho sentito, incontrandolo, che riuscivamo a parlarci. Ho allora intravisto la possibilità di costruire una difesa assieme a lui, nel rispetto della sua dignità e della mia indipendenza in quanto avvocata.

Come è avvertito in Francia – e come è stato avvertito in questo processo – il tema del diritto di difesa dei così detti imputati "indifendibili" accusati di crimini efferati? Lei e gli altri avvocati che hanno difeso gli imputati avete subito pressioni o minacce? In Italia è stato recentemente arrestato uno storico “boss mafioso”, Matteo Messina Denaro, e si è discusso anche di questo aspetto.

Io credo che di fronte all’opinione pubblica sia sempre utile ricordare alcune cose, quali il diritto di ognuno di essere difeso e ancora, in generale, il concetto di giusto processo. Durante questi 10 mesi è stato talvolta necessario fare opera di pedagogia, per far capire a tutti che le regole della nostra procedura penale trovano la loro ragion d’essere proprio nelle situazioni in cui avremmo più voglia di liberarcene. Mi aspettavo che avremmo subito un’ondata di odio o che saremmo stati oggetto di minacce. Invece, niente di tutto questo. Ho ricevuto numerose lettere d’incoraggiamento ed anche di ringraziamenti da persone le più diverse, sensibili alla difesa che stavamo conducendo. È stato inaspettato e molto gratificante. Durante le udienze siamo anche stati piacevolmente sorpresi dalla benevolenza delle parti civili nei nostri confronti. Molte di loro, in occasione della loro deposizione, hanno chiarito che capivano il nostro lavoro e ci hanno incoraggiato a fare del nostro meglio. È molto commovente vedere che persone toccate nella loro carne o nella loro anima avevano l’apertura di spirito necessaria per accettare e addirittura incoraggiare la difesa degli imputati.

Sempre a proposito del diritto di difesa, è presente anche in Francia la pratica distorta di confondere l'avvocato con il suo cliente e di confondere la funzione difensiva con la difesa del reato? Le istituzioni forensi sono dovute intervenire in questo senso con prese di posizione?

Mi ricordo di una volta, una sola volta durante un’udienza quando una parte civile si è rivolta a me, in modo aggressivo, dicendomi che “a scegliere male i miei clienti finivo per assomigliargli”. Mentre il mio collega Martin Vettes si è alzato per sostenermi, il Presidente della Corte non ha trovato niente da ridire e l’incidente è finito lì. Mi ricordo di aver trovato molto grave che nessun magistrato avesse preso la parola per ricordare il ruolo essenziale della difesa in un processo penale. Se posso certamente capire che una parte lesa non apprezzi il mio ruolo, non capisco però come l’autorità giudiziaria non senta il dovere di ricordare cosa è un processo in democrazia. Questo comunque resta un episodio aneddotico, che non riflette assolutamente la grande dignità trasmessa dalla stragrande maggioranza delle parti civili nelle udienze.

Che influenza ha in Francia – e che peso ha avuto in questo specifico caso – la straordinaria attenzione mediatica riservata al processo? Ha influito? In particolare, ritiene che la magistratura giudicante sia stata in qualche modo influenzata?

Si, ne sono convinta. Per la buona e semplice ragione che il verdetto che è stato emesso dalla Corte d’Assise speciale (composta, in materia di antiterrorismo, unicamente da magistrati professionali e non da una giuria popolare come avviene normalmente nei processi penali) è una decisione simbolica e non giuridica. Infatti, il verdetto è stato emesso a dispetto di numerosi principi cardine della procedura penale, come la presunzione di innocenza, l’onere della prova o ancora l’interpretazione stretta della legge. Questo lo abbiamo spiegato, assieme ad alcuni avvocati della difesa, in un dibattito uscito sul quotidiano Le Monde nel luglio 2022. Un tale disprezzo del diritto è difficile da spiegare se non con la volontà che la Corte ha avuto di conformarsi a quello che il pubblico poteva attendersi da questo caso.

Che strumenti hanno, in Francia, gli avvocati per tutelare i propri assistiti dalle conseguenze della giustizia mediatica?

Purtroppo, tutti incontriamo le stesse difficoltà di fronte al “tribunale mediatico”. Vediamo spuntare trasmissioni televisive composte da pseudo esperti che commentano i casi senza conoscere la realtà dei fatti, spesso senza nemmeno avere competenza di diritto. I social permettono poi il meglio come il peggio e le manifestazioni di odio sono molto facili. Da parte nostra, ci siamo sempre fatti un punto d’onore nel non stare a questo gioco. Le nostre argomentazioni erano riservate alla Corte, perché era in quell’aula che il processo si svolgeva, e non sui media. Nei 10 mesi di udienze siamo intervenuti in televisione solo 3 volte, il mio collega ed io, e solo quando ci sembrava che certi argomenti essenziali per la nostra difesa non passassero i muri della Corte. Anche se bisognava talvolta amplificare l’eco di qualche nostro messaggio o se si doveva rettificare alcune idee mal comprese all’esterno dell’aula d’udienza, abbiamo sempre mantenuto l’obiettivo di dare la precedenza nelle nostre azioni e reazioni alla magistratura.

Come è stato il rapporto con il Presidente della Corte e con i Pubblici Ministeri? Ci sono stati problemi legati al rispetto dei diritti degli imputati? Il Ministro Dupond-Moretti aveva dichiarato in un’intervista che «la sfida era rendere giustizia in conformità con le nostre regole, perché ciò che fa la differenza tra una civiltà e la barbarie sono le regole del diritto». È stato così?

Il nostro rapporto con i membri della Corte talvolta può essere stato teso, ma come può esserlo in un qualsiasi processo. Quello che mi ha invece sorpreso è il modo con cui il Presidente non ha vigilato sul rispetto delle regole d’udienza, credo per timore d’essere impopolare. Avveniva sistematicamente che non reagisse sia a fronte di domande parziali di membri della Corte sia a fronte di applausi del pubblico o ancora a fronte del comportamento di certi avvocati delle parti civili che ignoravano platealmente le più elementari regole del codice di procedura penale. È successo anche che il nostro microfono non fosse attivato quando domandavamo la parola per la difesa (dovevamo utilizzare il microfono per essere uditi dal pubblico, dalle altre sale nelle quali il processo era ritrasmesso e anche dalle parti civili che ascoltavano l’udienza da casa loro). Se pure ciò non ci ha impedito di formulare le nostre considerazioni o incomprensioni né di farle giungere alla Corte e agli altri attori di questo processo, pur tuttavia ha rappresentato una difficoltà. Un processo penale è un qualcosa di vivo nel corso del quale ciascuno deve poter essere ascoltato quando lo ritiene necessario, e non solo quando il Presidente lo concede. Io non penso che questo processo sia una vittoria dello Stato di diritto o della democrazia sulla barbarie. Uno Stato di diritto, per definizione, non mette da parte i suoi principi essenziali per giudicare, ma è quello che è successo in questo processo. Per quanto abbiamo denunciato queste deviazioni per tutta la durata del processo, non siamo stati ascoltati e ce ne dispiaciamo amaramente.

Salah Abdeslam è stato condannato alla pena più dura prevista dalla legge francese: un ergastolo con possibilità di libertà condizionale solo dopo 30 anni di detenzione. Che cosa pensa di questa pena? È un tema di cui si è discusso in Francia? In Italia è un tema ancora oggi molto discusso.

Salah Abdeslam è stato condannato al così detto “ergastolo incomprimibile”, il che significa che la sua pena è doppiamente blindata da una misura di sicurezza che impedisce ogni domanda di modifica. Così, potrebbe non essere mai in grado di chiedere di essere rimesso in libertà. Questo non è altro che una condanna ad una morte lenta. È interessante notare che quando in Francia abbiamo abolito la pena di morte nel 1981, è stato formalmente escluso che si introducesse una perennità “reale” che non prevedesse una vera possibilità di uscita. Badinter, il Guardasigilli di allora, aveva spiegato così la cosa: “non si sostituisce un supplizio con un altro supplizio”. Questa pena dell’ergastolo perpetuo però è stata introdotta nel codice penale francese nel 1994, in contrasto con questa idea essenziale. Come si può considerare giusta una pena che porta a creare dei “murati vivi”? Si può, dopo aver abolito la morte fisica, mantenere la morte morale? È un tema molto poco discusso in Francia, ma penso invece che un dibattito dovrebbe essere aperto.

Quali sono le condizioni di detenzione di chi, come Salah Abdeslam, è sottoposto a questo regime?

É necessario interrogarci sulle condizioni di detenzione eccezionali che abbiamo inflitto a questo detenuto. Abbiamo accettato di tenere Salah Abdeslam in isolamento completo per 6 anni, quando anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato come disumano e indegno un isolamento penitenziario che superi i 4 anni. L’interessato ha trascorso molte giornate senza dire una parola – malgrado le raccomandazioni del Comité de Prevention de la Torture (CPT) che prevede almeno due ore di contatti umani al giorno – senza accesso ad un luogo di moto e senza alcuna attività. Inoltre, in modo totalmente inedito (e in partenza illegale poiché tale possibilità non era prevista dal diritto) Salah Abdeslam è stato filmato all’interno della sua cella da due telecamere per 24 ore al giorno e 7 giorni alla settimana. Eminenti esperti psichiatri invitati a deporre presso la Corte d’Assise hanno parlato di condizioni di detenzione “delirogene”. In altre parole, lo Stato ha imposto una quotidianità che rende folli. So che non è mai semplice parlare delle condizioni di vita all’interno di un carcere e che c’è chi potrebbe essere tentato di dire che se lo è meritato. Ma è veramente questa la vittoria della democrazia sulla barbarie? Possiamo noi accettare che i nostri Stati creino delle condizioni di detenzione qualificabili come “tortura bianca”? Non lo credo. Io penso invece che i nostri regimi debbano battersi per non cedere a questa inclinazione naturale che privilegia l’idea di vendetta sulla dignità che si deve garantire ad ogni essere umano.

"Neutralizzato il capo dell'Isis": l'annuncio di Erdogan. Il presidente turco, in piena campagna elettorale, ha annunciato che Abou Hussein al-Qourachi sarebbe morto nel corso di un'operazione dei servizi segreti turchi. Alberto Bellotto su Il Giornale il 30 Aprile 2023

In clima di intensa campagna elettorale Recep Tayyip Erdogan prova a guadagnare terreno con una rivelazione notevole. Il "presunto capo" dello Stato Islamico sarebbe stato "neutralizzato" nella notte del 29 aprile in Siria. Nel corso di un'intervista il presidente turco ha fornito qualche dettaglio: "Il presunto capo di Daesh, nome in codice Abou Hussein al-Qourachi, è stato neutralizzato nel corso di un'operazione compiuta dal Mit (i servizi segreti turchi) in Siria". "Noi", ha aggiunto Erdogan, "continueremo la nostra lotta contro le organizzazioni terroristiche senza esclusione di colpi".

Per l'organizzazione si tratterebbe della seconda morte del leader in pochi mesi. Il 30 novembre scorso il gruppo aveva annunciato che l'allora capo Abou Al-Hassan Al-Hachimi Al-Qourachi era morto combattendo "i nemici di Dio". In particolare Al-Qourachi, il predecessore, era rimasto ucciso nel Sud della Siria combattendo i ribelli siriani.

Secondo un corrispondente dell’Agence France-Presse l'operazione che ha ucciso l'ultimo leader dell'Isis ha avuto luogo nel Nord della Siria. In particolare gli uomini dell'intelligence turca, in collaborazione con la polizia miliare locale, sostenuta sempre da Ankara, sarebbero entrati in azione nei pressi della località di Jindires, nel cantone curdo di Afrin.

Secondo diversi testimoni, riporta sempre Afp, l'operazione si sarebbe svolta nei pressi di un palazzo abbandonato che in passato era stato la sede di una scuola islamica. Levent Kemal, giornalista di Middle East Eye ha scritto di aver avuto conferma dai residenti di Jindires che gli scontri avrebbero coinvolto miliziani jiadisti e che il capo si sarebbe fatto saltare in aria al termine dello scontro.

Per quello che resta dello Stato Islamico si tratta di un secondo duro colpo in meno di un mese. Il 4 aprile il Comando centrale Usa, Centcom aveva annunciato di aver eliminato Khaled Aydd Ahmad al-Jabouri, uno dei leader storici della formazione, la mente dietro gli attacchi dell'Isis che hanno insanguinato l'Europa negli anni di massima espansione del Califfato.

Al-Jabouri prima e Al-Qourachi poi sono entrambi morti in quel lembo di Siria ancora fuori dal controllo di Damasco. Il primo nel "qaedistan" presente nel governatorato di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli nel Nord Overs del Paese, il secondo in quel cantone di Afrin, prima sotto il controllo delle forze curde e poi strappato dalla Turchia con l'Operazione Ramoscello d'Ulivo nel 2018. Ad oggi la Turchia formalmente controlla quello spicchio di Siria grazie a proxy locali.

Come ha sottolineato Le Monde, oggi lo Stato Islamico è fortemente indebolito, ma nonostante questo continua a colpire i civili, soprattutto in Siria. Solo il 16 aprile 41 persone, tra le quali 24 civili, sono morte in due attacchi attribuiti proprio a miliziani di Daesh. Nonostante la sconfitta in Siria e Iraq tra 2018 e 2018, l'organizzazione delle bandiere nere continua ad essere una minaccia.

Nel luglio scorso un dossier dell'Onu stimava che nei territori dell'ex Califfato ci sarebbero tra i 6mila e 10mila jihadisti, molti dei quali impegnati in operazioni di guerriglia e attacchi terroristici. Nonostante le operazioni chirurgiche contro la testa dell'organizzazione, l'Isis è ancora presente in molte parti del mondo. Secondo le Nazioni Unite le "province" più pericolose sono quelle attive in Somalia, nel Sahel, nel bacino del lago Ciad e soprattutto in Afghanistan.

(ANSA-AFP il 4 aprile 2023) - Un leader dell'Isis responsabile di attacchi in Europa è stato ucciso in un raid statunitense in Siria: lo ha reso noto oggi il Comando centrale Usa (Centcom). Si tratta di Khaled Aydd Ahmad al-Jabouri, ha affermato il Comando, commentando che l'uomo era tra l'altro il "responsabile della pianificazione di attacchi dell'Isis in Europa" e la sua morte priverà "temporaneamente" l'Isis della "capacità di organizzare attacchi all'estero".

L’incubo che ritorna. Quelle uccisioni che rivelano dove sta rinascendo l’Isis. Matteo Carnieletto il 4 Aprile 2023 su Inside Over.

Sono le tracce di un passato che non passa. Sulle mappe sono semplici chiazze nere affacciate tra il governatorato di Homs e quello di Deir Ez-Zor. Asettiche, come se si trattasse di un videogioco. Nere, come se fossero dei buchi dei quali si sa poco o nulla. Eppure rappresentano l’Isis, quello che, fino a non troppi anni fa, era lo Stato islamico che, dopo aver abbattuto i confini nati al termine della Prima guerra mondiale con gli accordi di Sykes-Picot, si estendeva tra Siria e Iraq, con filiali in Libia e nell’Africa più profonda. Oltre a lupi solitari pronti ad agire per conto proprio, oppure sotto il comando di Raqqa o di Mosul. Una rivoluzione geopolitica. Un sogno diventato realtà per migliaia di musulmani. Un incubo per l’Occidente, più volte colpito nelle sue capitali, soprattutto tra il 2015 e il 2017, in quello che è stato l’apogeo dello Stato islamico. Ora restano solo piccole tracce del Califfato. Attacchi e perdite eccellenti che, però, ci ricordano che i suoi uomini – tra i cinque e i settemila, secondo recenti stime – esistono ancora.

Oggi il Comando centrale Usa, Centcom ha annunciato di aver eliminato Khaled Aydd Ahmad al-Jabouri, considerato il “responsabile della pianificazione di attacchi dell’Isis in Europa”. Per gli americani, si priverà “temporaneamente” l’Isis della “capacità di organizzare attacchi all’estero”. Ciò che colpisce di questo omicidio mirato è che non è stato compiuto là dove, sulle mappe, è presente l’Isis ma nel governatorato di Idlib, la roccaforte ribelle nel nord ovest della Siria. Come nota Abc News, “l’attacco è stato l’ultimo di una serie compiuta negli ultimi anni contro militanti legati ad al-Qaeda e alti membri dello Stato islamico nella Siria nord-occidentale. La maggior parte delle persone uccise dagli attacchi statunitensi nella provincia di Idlib, controllata dai ribelli negli ultimi anni, erano membri di al-Qaeda, del ramo di Horas al-Din, che in arabo significa ‘Guardiani della religione’. Il gruppo include membri irriducibili di al-Qaeda che si sono staccati da Hayat Tahrir al-Sham, il più forte gruppo di ribelli nella provincia di Idlib”.

Solamente nel mese di febbraio, un drone aveva eliminato altri due membri di spicco dei ‘Guardiani della religione. Un doppio significato. Il primo: nella provincia di Idlib sono diversi gli elementi giudicati pericolosi dagli Stati Uniti, tanto che vengono eliminati con determinazione e costanza. Il secondo: è lì che i gruppi terroristi, Al Qaeda e Isis in primis, si stanno rifugiando e riorganizzando. Con buona pace di una certa narrazione che vedrebbe nella provincia di Idlib il centro dell’opposizione democratica che si oppone a Bashar al Assad. Non è così. E basta vedere dove sono stati ammazzati i più importanti leader dell’Isis, a cominciare dal primo califfo: Abu Bakr al Baghdadi. Era il 27 ottobre del 2019 quando il leader dello Stato islamico venne ammazzato, in un’operazione militare Usa (anche se alcune fonti dicono che si sia fatto saltare in aria), nel villaggio di Barisha, mille anime in tutto, a soli cinque chilometri dal confine turco. Al suo posto viene nominato Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. Tre anni alla guida dell’organizzazione terroristica e poi anche lui viene eliminato, sempre nella provincia di Idlib, in un’operazione delle forze speciali americane il 3 febbraio del 2022. Sorte diversa per Abu al Hasan al Hashimi al Qurashi, morto nel dicembre dello stesso anno mentre, probabilmente, durante una battaglia contro l’Esercito siriano libero. Ora la guida dell’organizzazione terroristica è affidata a Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi, di cui sappiamo poco o nulla.

Pensare che l’Isis sia sconfitto è un’illusione. Cambierà nome. Cambierà obiettivi. Ma forse, più che cercare i suoi seguaci (e soprattutto i suoi leader) nei deserti nell’est della Siria, sarebbe meglio guardare a Idlib. Il nuovo santuario del jihad internazionale.

Estratto dell'articolo da rainews.it il 16 febbraio 2023

Saif Al-Adel, un egiziano con base in Iran, è diventato il capo di al-Qaeda dopo la morte di Ayman al-Zawahiri, avvenuta nel luglio 2022, lo afferma il Dipartimento di Stato Usa.

 "La nostra valutazione è in linea con quella delle Nazioni Unite: il nuovo leader de facto di al-Qaeda, Saif al-Adel, ha sede in Iran", ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Stato […]rappresentando per ora la continuità".

 Ma il gruppo non l'ha formalmente dichiarato "emiro" a causa della sensibilità alle preoccupazioni delle autorità talebane in Afghanistan, che non hanno voluto riconoscere che Zawahiri è stato ucciso da un razzo statunitense in una casa a Kabul l'anno scorso. Inoltre, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, l'islamista sunnita al-Qaeda è sensibile al fatto che Adel risieda nell'Iran, un Paese a maggioranza sciita.

"La sua posizione solleva questioni che hanno a che fare con le ambizioni di al-Qaeda di affermare la leadership di un movimento globale di fronte alle sfide dell'ISIL", si legge nel rapporto dell'Onu […]

 Estratto dell'articolo di Guido Olimpio per corriere.it il 16 febbraio 2023

Seif al Adel è la Guida di al Qaeda. Lo ha indicato un rapporto Onu, lo hanno ribadito gli Usa confermando un quadro emerso da tempo. È l’ex parà egiziano ad avere ereditato la leadership dopo l’uccisione di al Zawahiri a Kabul, fatto fuori da un drone americano. Manca solo il sigillo dell’ufficialità. La promozione è una scelta obbligata, quasi scontata […]

Partiamo dalla sua scheda: il suo vero nome è Mohammed Zeidan, nato a Shibin al Kawm negli anni ’60. Dopo un periodo nell’esercito, si è unito alla carovana jihadista partecipando alle “campagne” più importanti. Tra i primi ad andare in Afghanistan, quando Osama era ancora nell’ombra, poi Sudan, Somalia, Yemen e molte missioni con un ruolo attivo. […]

 È nel cerchio di dirigenti al fianco di bin Laden, conquista un peso militare sul campo, come dimostrano le tante ferite e l’expertise di combattente enfatizzato dal suo nome di guerra, “Spada della Giustizia”. Seif, però, è anche “stratega” e chi lo conosce sottolinea la determinazione, i toni caustici, la devozione alla causa.

 Dopo l’11 settembre si rifugia con altri quadri e alcuni familiari di Osama in Iran, paese nemico. I pasdaran giocano con gli ospiti, li mettono in residenza sorvegliata, ne scambiano alcuni, pensano di usarli per baratti e pressioni. In seguito il terrorista – come ha ricostruito in lungo profilo l’ex agente Fbi Alì Soufan – ottiene libertà d’azione in cambio del rilascio di 4 diplomatici rapiti in Yemen.

In questi anni, pur da lontano e sotto controllo, avrebbe coordinato attacchi e compiuto un viaggio nel Waziristan. Seif incarna il passato, ha il peso del veterano e le spalle robuste per provare a garantire il futuro di un’organizzazione scavalcata dallo Stato Islamico.

 Gli esperti sostengono che la casa madre non ha comunicato l’investitura, che deve poi essere accompagnata dal giuramento di fedeltà (Bayat) dei gruppi affiliati nei vari paesi, per diverse ragioni. Motivi di sicurezza: preferisce agire nell’ombra, di lui si conoscono solo vecchie foto. Necessità di non creare imbarazzo ai talebani e allo stesso Iran. Forse non tutti i mujaheddin sono d’accordo, anche se il militante può sempre rivendicare la sua storia.

L’interrogativo più grande però riguarda proprio il suo soggiorno in terra iraniana, un rifugio che rappresenta un limite. Almeno sulla carta. I pasdaran e gli apparati gli permetteranno di impartire disposizioni ad una formazione ideologicamente avversaria? Quali saranno i margini di manovra? Oppure dovrà trovare un nuovo nascondiglio? […]

Ora al Adel ha tre compiti. Primo. Restare in vita, cosa non facile, tenuto conto anche che sulla sua testa c’è una taglia da 10 milioni di dollari. Secondo. Ispirare un movimento oggi ripiegato per necessità e interesse sulle agende regionali come Somalia e Sahel. […] Terzo. Tenere viva l’eredità del fondatore. Un messaggio affievolitosi con il “pallido” e noioso Zawahiri rispetto al dinamismo e all’agilità – più fatti e meno dottrina - del Califfato. […]

Il nuovo capo di Al Qaeda è Seif al Adel, egiziano: sulla sua testa una taglia da 10 milioni di dollari. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2023.

L’ex militare, veterano della Jihad, vivrebbe in Iran. Secondo il rapporto Onu ha ereditato la leadership dell’organizzazione terrorista fondata da Osama bin Laden

Seif al Adel è la Guida di Al Qaeda. Lo ha indicato un rapporto Onu, lo hanno ribadito gli Usa confermando un quadro emerso da tempo. È l’ex parà egiziano ad avere ereditato la leadership dopo l’uccisione di al Zawahiri a Kabul, fatto fuori da un drone americano. Manca solo il sigillo dell’ufficialità.

La promozione è una scelta obbligata, quasi scontata anche se di scontato non c’è mai nulla in movimenti “fluidi”, con gerarchie orizzontali. Partiamo dalla sua scheda: il suo vero nome è Mohammed Zeidan, nato a Shibin al Kawm negli anni ’60. Dopo un periodo nell’esercito, si è unito alla carovana jihadista partecipando alle “campagne” più importanti. Tra i primi ad andare in Afghanistan, quando Osama era ancora nell’ombra, poi Sudan, Somalia, Yemen e molte missioni con un ruolo attivo. Farà parte della rete che pianta i semi qaedisti in Africa, una componente letale protagonista della doppia strage di Nairobi e Dar es Salaam nell’estate del 1998. È nel cerchio di dirigenti al fianco di bin Laden, conquista un peso militare sul campo, come dimostrano le tante ferite e l’expertise di combattente enfatizzato dal suo nome di guerra, “Spada della Giustizia”. Seif, però, è anche “stratega” e chi lo conosce sottolinea la determinazione, i toni caustici, la devozione alla causa. Dopo l’11 settembre si rifugia con altri quadri e alcuni familiari di Osama in Iran, paese nemico. I pasdaran giocano con gli ospiti, li mettono in residenza sorvegliata, ne scambiano alcuni, pensano di usarli per baratti e pressioni. In seguito iI terrorista – come ha ricostruito in lungo profilo l’ex agente Fbi Alì Soufan – ottiene libertà d’azione in cambio del rilascio di 4 diplomatici rapiti in Yemen.

In questi anni, pur da lontano e sotto controllo, avrebbe coordinato attacchi e compiuto un viaggio nel Waziristan. Seif incarna il passato, ha il peso del veterano e le spalle robuste per provare a garantire il futuro di un’organizzazione scavalcata dallo Stato Islamico.

Gli esperti sostengono che la casa madre non ha comunicato l’investitura, che deve poi essere accompagnata dal giuramento di fedeltà (Bayat) dei gruppi affiliati nei vari paesi, per diverse ragioni. Motivi di sicurezza: preferisce agire nell’ombra, di lui si conoscono solo vecchie foto. Necessità di non creare imbarazzo ai talebani e allo stesso Iran. Forse non tutti i mujaheddin sono d’accordo, anche se il militante può sempre rivendicare la sua storia. L’interrogativo più grande però riguarda proprio il suo soggiorno in terra iraniana, un rifugio che rappresenta un limite. Almeno sulla carta. I pasdaran e gli apparati gli permetteranno di impartire disposizioni ad una formazione ideologicamente avversaria? Quali saranno i margini di manovra? Oppure dovrà trovare un nuovo nascondiglio? Si era anche ipotizzato che Seif fosse andato, con alcuni esponenti di livello, in Siria, dove sono stati in gran parte “liquidati” dai droni statunitensi. Neppure Teheran è troppo sicura. Un altro “colonnello” della fazione, sempre egiziano, Abdullah Abdullah, è stato assassinato nelle strade della capitale, un agguato organizzato dal Mossad in coppia con la Cia.

Ora al Adel ha tre compiti. Primo. Restare in vita, cosa non facile, tenuto conto anche che sulla sua testa c’è una taglia da 10 milioni di dollari. Secondo. Ispirare un movimento oggi ripiegato per necessità e interesse sulle agende regionali come Somalia e Sahel. Scelta per conquistare consensi e sfruttare realtà locali rispetto a programmi globali troppo ambiziosi e irrealizzabili. Terzo. Tenere viva l’eredità del fondatore. Un messaggio affievolitosi con il “pallido” e noioso Zawahiri rispetto al dinamismo e all’agilità – più fatti e meno dottrina - del Califfato. Seif è considerato capace di tutto, giudizio scritto tenendo conto della sua carriera. Lunghissima, profonda, estesa. È “immerso”, muove protetto dal “buio”. Per questo è temuto. Se davvero “la spada della Giustizia” porterà ad un cambiamento lo diranno però le azioni e non le previsioni di una realtà sempre difficile da interpretare.

Estratto dell'articolo di Giordano Stabile per “La Stampa” il 17 febbraio 2023.

Ci sono voluti quasi sette mesi, ma alla fine il nuovo capo di Al-Qaeda è stato individuato. […] Al-Zawahiri è stato eliminato a Kabul, nel luogo dove l'organizzazione aveva raggiunto il culmine e dove era iniziata la sua fine. Ma il nuovo leader ha un rifugio molto diverso, anzi all'opposto.

 E cioè l'Iran. Lo ha rivelato ieri il dipartimento di Stato americano, nel comunicare il suo nome: Said al-Adel, 62 anni, egiziano pure lui, ex colonnello dell'esercito del Cairo, braccio destro operativo di Al-Zawahiri, uno degli organizzatori degli attentati alle ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya, e soprattutto uno degli addestratori dei terroristi dell'11 settembre. Al-Adel debutta negli anni Ottanta nella Jihad islamica egiziana, il gruppo che aveva assassinato il presidente Sadat.  

Una "carriera" lineare, negli standard dei qaedisti, ma con una sua singolarità. I buoni rapporti, fin dagli anni Novanta, con gruppi estremisti sciiti come l'Hezbollah libanese. Relazioni che gli avrebbero permesso un lungo soggiorno nella Repubblica islamica, fino a oggi. L'Intelligence americana è convinta che da quel rifugio Al-Adel guidi l'organizzazione, nonostante non ci sia stata una comunicazione ufficiale sulla sua nomina. […]

 […] Come quasi tutti i suoi compagni, dopo la fase egiziana, si è formato nelle valli afghane, al tempo della guerriglia contro i sovietici. Ma dopo l'11 settembre e la caduta del regime talebano del mullah Omar, nel dicembre del 2011, il suo nuovo orizzonte è stato l'Iran. In quei mesi Bin Laden era riuscito a far fuggire tre dei suoi figli e molti combattenti in territorio iraniano. Fra loro anche Al-Adel, che negli anni precedenti aveva compiuto più di un viaggio a Teheran, preso contatti con i Pasdaran e seguito "corsi" sulla fabbricazione di ordigni.

[…] Con l'invasione americana dell'Iraq nel 2003 e il deflagrare della lotta settaria tra sunniti e sciiti le cose cambiano. L'Al-Qaeda irachena, sotto la guida del sanguinario Abu Musab al-Zarqawi, massacra gli sciiti. Le autorità iraniane mettono allora agli arresti Hamza bin Laden, Al-Adel e gli altri qaedisti di spicco.  Poi li usano come merce di scambio quando i jihadisti sunniti rapiscono diplomatici iraniani in Pakistan e nello Yemen. È allora, nel 2015, che Al-Adel torna libero. Ma resta in Iran.

 […]  Il futuro leader di Al-Qaeda, però, ha una visione che risale ai primi anni Novanta, quando il teorico jihadista sudanese Hassan al-Tourabi teorizzava un'alleanza fra gruppi combattenti sunniti e sciiti contro l'Occidente. Una teoria che correva parallela all'idea di Khomeini per una santa alleanza fra tutti i musulmani, naturalmente sotto la sua leadership, con lo scopo di sfidare il Grande satana americano.

[…] Nel mondo del post-invasione dell'Ucraina, quello scenario è tornato di attualità. L'Iran appoggia la Russia come non mai e ha smorzato i toni contro gli estremisti sunniti, dialoga persino con l'Arabia Saudita. E che il capo di Al-Qaeda, la grande massacratrice di sciiti, abbia la propria base nella Repubblica islamica sciita, suona meno strano, quasi credibile.

Estratto dell'articolo di Antonio Giustozzi per “la Repubblica” il 17 febbraio 2023.

[…] Che la sua nomina non sia stata ufficializzata è una conferma, se una era necessaria, che Saif si trova in Iran. Per Al Qaeda è troppo imbarazzante nominare un leader che è sotto il controllo dell’Iran, che nei ranghi del gruppo non è mai stato popolare, anzi.

[…]  In quello che rimane della lobby della “guerra al terrore” si specula che sotto di lui Al Qaeda potrebbe rilanciare le sue operazioni in Occidente, tanto più che il regime iraniano, più che mai sotto assedio, potrebbe ben voler incoraggiare un ritorno a questo tipo di attacchi.

 Prima della recente crisi in Iran, causata dall’ondata di dimostrazioni contro il regime, e dell’attacco dei droni israeliani di gennaio, il regime di Teheran era più interessato a ottenere l’aiuto di Al Qaeda contro Daesh, ma è certamente possibile che le priorità siano ora cambiate. A Teheran si pensa che gli americani abbiano aiutato gli israeliani ad organizzare il raid con i droni e, sebbene il regime abbia deciso di evitare una ritorsione immediata, sicuramente c’è il desiderio di colpire bersagli americani, non fosse altro per dimostrare che l’Iran non è in ginocchio.

 Al Qaeda, tuttavia, sembra avere capacità molto limitate di compiere operazioni in Europa e ancora di più in America, per non parlare di Israele. Sembra improbabile che Saif possa resuscitare una campagna terroristica di Al Qaeda in Occidente in tempi brevi.

 Per Saif al Adel il vero problema è che finché rimane in Iran sarà difficile per lui e per Al Qaeda raccogliere fondi nel mondo arabo, e soprattutto nelle monarchie del Golfo. La dipendenza di Saif dall’Iran rischia di accentuarsi, mentre la scarsità di fondi rende difficile sostenere le poche filiali di Al Qaeda che ancora hanno un certo peso.

 […] Il rapporto con l’Iran è più controverso che mai dopo che l’esistenza stessa del regime viene oramai messa in dubbio da molti osservatori. In Afghanistan, Al Qaeda ha subito importanti defezioni, con circa 60 dei suoi membri (su un totale di poche centinaia) che sono recentemente passati dalla parte di Daesh, probabilmente irritati e preoccupati dai segnali che indicano come i talebani stiano cooperando con l’intelligence americana.

Inevitabilmente, tutto questo accresce la pressione su di Said al Adel, che però può probabilmente fare ben poco. Spostarsi altrove sarebbe l’unica soluzione, ma l’Iran evidentemente ha ben poco interesse a lasciar uscire Saif dall’Iran, sia per controllare lui e Al Qaeda che perché potrebbe aver bisogno di loro nel futuro. Saif e Al Qaeda sembrano pertanto intrappolati nella situazione attuale [...]

 Raid Usa in Somalia: ucciso uno dei leader dell'Isis. Storia di Alberto Bellotto su Il Giornale il 26 gennaio 2023.

Un'operazione rapida, chirurgica, con pochi uomini delle forze speciali e un elicottero. È stato ucciso così Bilal al-Sudani, uno dei leader dello Stato Islamico che operava in Somalia. La notizia è stata confermata dal New York Times e dallo stesso United States Africa Command in un comunicato.

L'operazione, avvenuta in un'area montuosa nel Nord del Paese africano, è stata condotta giovedì dalle forze statunitensi. Sempre stando al comunicato delle autorità americane nessun civile sarebbe rimasto coinvolto nell'attacco, così come nessun soldato americano sarebbe rimasto ucciso o ferito. Il segretario della Difesa Lloyd Austin ha spiegato che al Sudani è stato ucciso nel corso dell'operazione e con lui sono morte altre 10 persone legate all'organizzazione terroristica. Austin ha anche aggiunto che il raid ha ricevuto il via libera da Joe Biden all'inizio della settimana e che la Casa Bianca ha seguito tutte le fasi dell'attacco.

Il ruolo di al-Sudani

Lo stesso Austin ha spiegato che al-Sudani era una delle figure chiave dell'Isis, in particolare per il suo ruolo di facilitatore. Secondo i funzionari americani l'uomo era una figura chiave che lavorava per espandere la presenza dell'Isis in Africa, collaborando nella raccolta fondi a livello globale, comprese le operazioni in Afghanistan. In passato Al-Sudani era finito nel mirino del dipartimento del Tesoro americano perché dal 2012 era attivo come reclutatore di combattenti stranieri da inviare nei centri di addestramento jiadista in Somalia.

Come ha notato la Cnn è insolito che gli Stati Uniti colpiscano lo Stato Islamico in Somalia. Nel Corno d'Africa solitamente le operazioni si concentrano contro i combattenti di al-Shabaab, il gruppo terroristico dominante nel Paese e affilato direttamente ad Al Qaeda. L'operazione contro al-Sudani è il secondo attacco delle forze americane contro l'Isis in breve tempo. Verso la fine del 2022, infatti, un raid aveva ucciso due leader dell'Isis in Siria.

Le operazioni anti Isis dopo il ritiro dall'Afghanistan

Questi raid rappresentano la continuazione della strategia dell'amministrazione Biden per contenere le minacce terroristiche attraverso le cosiddette "operazioni over-the-horizon", campagne con mezzi aerei o forze speciali che partono dall'esterno del Paese in cui si trovano i bersagli. Una tattica varata dopo il ritiro completo delle forze americane dall'Afghanistan nell'estate del 2021.

Da diversi anni l'attenzione del Pentagono è fissa nel continente africano dove si è spostata una parte consistente dell'attività jihadista. Brian Nelson, sottosegretario al Tesoro americano, ha spiegato a Usa Today come l'attenzione delle autorità si stia concentrando sempre di più sui flussi di denaro che convergono verso alcune aree del continente africano.

"L'Isis sta cercando di espandere la sua influenza in Africa con operazione i su larga scala in aree in cui il controllo del governo locale è limitato", ha spiegato Nelson. "Le filiali dell'Isis in quelle regioni fanno affidamento su schemi di raccolta fondi locali come rapine, estorsioni alla popolazione locale e rapimenti, oltre ovviamente al sostengo finanziario della gerarchia centrale dello Stato Islamico".

Il blitz in Germania. Terrorismo, arrestati un iraniano e il suo complice: “Pianificavano attentato con armi chimiche”. Redazione su Il Riformista l’8 Gennaio 2023

Il blitz delle forze speciali Sek e degli agenti antiterrorismo è scattato intorno alla mezzanotte in un appartamento di Castrop-Rauxel, in Nordreno-Westfalia, nel nord ovest della Germania. Un cittadino iraniano di 32 anni è stato arrestato, insieme al fratello, con l’accusa di preparare attentati terroristici di matrice islamica usando anche tossine letali come cianuro e ricina che però non sono state rinvenute nella sua abitazione, secondo quanto ho riferito un portavoce della procura di Dusseldorf. Secondo la Procura l’uomo “stava pianificando un attacco molto serio” di matrice islamista.

La soffiata è arrivata da servizi segreti di un Paese “amico” che avrebbero messo in guardia la procura generale tedesca dal rischio di una bomba biologica. E così gli agenti hanno fatto irruzione nell’appartamento con le tute protettive e le armi spianate. La procura indagava da giorni ma non è chiaro dove dovesse avvenire l’attacco, né quando. Ora sono in corso indagini per trovare veleni e altre prove. La ricina è un agente molto tossico, classificato dal Robert Koch Institute come “arma biologica”, che viene estratta dai semi della pianta di ricina. Può diventare un veleno mortale, come il cianuro.

Già nel 2018 questo tipo di veleno era stato trovato in mano a una coppia di tunisini che stava organizzando un attentato con la ricina per conto dell’Isis. A casa della coppia gli investigatori avevano trovato 84,3 mg di ricina e 3.300 semi di ricino usati per fabbricare il veleno. La Germania è stata presa di mira negli ultimi anni da numerosi attacchi islamisti, tra cui un attacco con un camion ariete a un mercatino di Natale nel dicembre 2016 che ha causato 13 morti.

Silenzio papale. A differenza di Ratzinger, Bergoglio non ha mai denunciato la follia del terrorismo islamico. Carlo Panella su L’Inkiesta il 5 Gennaio 2023.

Benedetto XVI ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziare il jihadismo insito nel dettato coranico, mentre Papa Francesco cerca una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere l’aggressività in tanta parte dottrinale dell’Islam

Incredibilmente nel 2015 Papa Francesco ha giustificato l’attentato terrorista islamico a Charlie Hebdo che aveva mietuto 12 morti e 11 feriti. Papa Benedetto XVI con la prolusione di Ratisbona ha denunciato il dramma dell’Islam contemporaneo: la sua pratica del jihad violento e il divorzio tra fede e ragione che lo caratterizza.

Stranamente, in morte del papa emerito pochi hanno rimarcato questa enorme dissonanza tra i due pontificati.

Giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo, nonostante fosse ben noto il pesante bilancio di morte, così Papa Bergoglio ha risposto a un giornalista di La Croix che gli aveva chiesto la sua posizione sulle conseguenze tragiche della pubblicazione delle vignette su Maometto: «Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasparri che è un amico dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede».

Altrettanto sconcertante, come hanno rilevato molti, è il prolungato silenzio degli ultimi tre mesi di Papa Francesco di fronte alle crudeli e inumane condanne a morte di giovani manifestanti in Iran e alla uccisione nelle piazze di almeno cinquecento di loro.

Di nuovo sconcertante il suo giudizio del 2019 sulla persecuzione in atto dei cristiani: «La persecuzione dei cristiani è sempre la stessa: le persone che non vogliono il cristianesimo si sentono minacciate e così portano alla morte i cristiani».

Ancora un travisamento totale e radicale della realtà. I musulmani uccidono i cristiani – 16 al giorno, ogni giorno! –  non perché si sentono minacciati da questa esigua minoranza pacifica che non ha alcun mezzo per far loro del male, ma in applicazione rigida della sharia. La sharia wahabita giudica infatti i cristiani idolatri, apostati, blasfemi, i più gravi peccati per l’Islam. Da qui le uccisioni.

Di fatto, tutto l’attuale pontificato si distingue per un atteggiamento di accettazione passiva della violenza che proviene dal mondo islamico perché accetta la falsa e non reale versione che vuole che questa violenza islamica sia reattiva alla violenza dell’Occidente, non insita nel dettato coranico e nella sharia.

Di conseguenza Papa Francesco si impegna nella ricerca di una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere la aggressività insita in tanta parte dottrinale dell’Islam.

Opposta la posizione di Papa Ratzinger, che non si è limitato a denunciare il jihadismo insito nel dettato coranico, ma ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziarlo.

Il suo appello di Ratisbona a esaltare la convivenza tra fede e ragione ha indicato lo stesso, identico, nodo teologico individuato dai poco ascoltati e perseguitati riformatori islamici. Riformatori che non a caso sono tra i pochissimi nel mondo musulmano a rifarsi al razionalismo aristotelico di Averroè, tanto influente nella cristianità quanto rigettato dal mondo musulmano.

Tra questi, esemplare è stato il sudanese Mohammed Taha che appunto ha applicato la ragione per storicizzare il dettato coranico, per esercitare la esegesi, per interpretarlo, ritenendo contingenti, determinate dalla cronaca storica e quindi da superare le Sure che esaltano il Jihad contro gli ebrei, gli apostati, i cristiani e gli infedeli dettate da Maometto nel corso delle sue battaglie alla Medina.

Al contrario, Mohammed Taha ha invitato a fare tesoro delle Sure precedentemente dettate da Maometto alla Mecca – non a caso amichevoli e intrise di ecumenismo nei confronti di cristiani ed ebrei – che contengono i capisaldi della pura fede dell’Islam. Da questa esegesi derivava per Mohammed Taha il rifiuto del Jihad, della posizione subordinata della donna e quindi dell’obbligo del velo e anche una sorta di teologia della liberazione a favore degli oppressi.

Di fatto, come Mohammed Taha, i – pochi – riformatori dell’Islam intendono ripercorrere il cammino  del cristianesimo e dell’ebraismo che da secoli non seguono la lettera formale del Libro, del Verbo, ma la interpretano, la attualizzano, la spogliano dello specifico contesto storico.

Ma Mohammed Taha è stato impiccato a Khartoum nel 1980 come apostata sulla base – questo è fondamentale – di una fatwa di condanna emessa da al Azhar, stranamente considerata da molti in Vaticano come la più alta autorità morale sunnita (in realtà il suo prestigio si limita all’Egitto e al Sudan e i suoi Grandi Imam sono nominati e controllati ieri da Nasser e Mubarak e oggi da al Sisi). 

Dunque, la coesistenza, la compenetrazione tra fede e ragione, è una fase ancora chiusa in un Islam nel quale impera il dogma del Corano Increato, parola eterna e inscalfibile di Dio, precedente e successiva all’umanità, non interpretabile, da non sottoporre assolutamente a esegesi, da applicare alla lettera.

Con questo Islam il gesuita latinoamericano Papa Francesco intende solo convivere in pace, come dimostra il “Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune” firmato assieme al Grande Imam di Al Azhar Ahmad al Tayyeb nel 2019 ad Abu Dhabi.

L’europeo e agostiniano Papa Benedetto XVI, dopo decenni d’inconcludente dialogo inter religioso, ha voluto stimolare l’Islam ad affrontare finalmente la modernità con le armi di una teologia alta e coraggiosa.

Ma l’Islam gli ha risposto offeso e irato. E continua nella sua immobilità di pensiero e nella sua aggressività.

Lo Stato Islamico sta continuando ad avanzare in Africa. Enrico Phelipon su L'Indipendente Sera il 22 dicembre 2022.

Lo Stato Islamico (ISIS) negli ultimi anni è riuscito a conquistarsi un pezzo di Africa e continua ad avanzare. Se qualcuno lo pensava morto dopo la sconfitta patita in Siria, grazie in buona parte alla lotta delle Unità di Protezione Popolare curde (YPG), sbagliava. Il gruppo islamista è stato in grado di riorganizzarsi e mutare strategia, ottenendo un’avanzata favorita anche dall’instabilità crescente di cui soffre il continente, di cui la situazione libica e l’insurrezione islamista in Mali sono due degli esempi più lampanti. L’Isis si è così aperto la strada verso la penetrazione nel Sahel, una fascia di terreno a sud del deserto del Sahara che dal Senegal all’Eritrea arriva a toccare una decina di stati. In queste aeree negli anni ha guadagnato sempre più terreno lo Stato Islamico del Gran Sahara (IS-GS, EIGS).

L’espansione dello Stato Islamico in Africa non si ferma solo alla zona sub-sahariana del continente, esistono infatti diverse cellule attive anche in altre aree, come lo Stato Islamico nell’Africa Occidentale (ISWAP) e lo Stato Islamico dell’Africa Centrale (ISCAP). Oltre la metà delle provincie che il gruppo terrorista rivendica nel mondo, si trovano in Africa, rendendo di fatto il continente una zona strategica per il gruppo fondamentalista. Qui infatti sono attive alcune delle cellule con il più alto numero di miliziani, oltre al fatto che i paesi in cui il gruppo terrorista è presente sono spesso ricchi di risorse naturali da poter sfruttare.

Molti stati dell’Africa oltre ad avere delle strutture di governo deboli, ossia non in grado di controllare il territorio né di fornire alla popolazione i servizi più basilari, devono fare i conti anche con tutta una serie di problematiche interne e esterne che ne indeboliscono ulteriormente l’operato. Dal punto di vista interno questi paesi si trovano in molti casi a dover affrontare tensioni politiche, etniche, religiose e sociali. Fattori che spesso hanno favorito il reclutamento da parte dei gruppi fondamentalisti. Bisogna inoltre considerare le condizioni economiche, un ampia fetta della popolazione africana vive in condizioni di estrema povertà, altro fattore che sicuramente ha inciso nello spingere migliaia di giovani africani ad unirsi ai vari gruppi terroristi attivi nel continente, incluso l’ISIS.

Oltre ai fattori interni, anche quelli esterni giocano un ruolo cruciale nel creare instabilità. Le multinazionali, i gruppi terroristi e i cartelli criminali, sono attori non statali anch’essi interessati ad allargare la loro influenza su un continente ricco di materie prime e di canali “sicuri” per i traffici di armi, droga o esseri umani. Organizzazioni criminali che sono state capaci negli ultimi anni, ed anche durante il periodo pandemico, di allargare la propria influenza in diverse aree del continente. L’Africa subisce, secondo le stime, una perdita annuale di 88,6 miliardi di dollari in flussi finanziari illeciti legati ad attività criminali, ossia circa il 3,7% del PIL (Prodotto Interno Lordo) dell’intero continente.

Altro fattore esterno che incide nel creare instabilità sono i vari stati in lotta per l’influenza. Stati Uniti, Francia, Europa, Cina, monarchie del Golfo e Russia sono tra i principali attori coinvolti in questa lotta. In una moderna forma di colonialismo, che vede questi attori internazionali combattersi a colpi di interventi militari, aiuti economici, umanitari o “semplice” supporto politico ai vari regimi che si trovano alla guida dei paese. Scarsi risultati sono stati ottenuti dalle varie missioni militari sul continente, come l’operazione antiterrorismo Barkhane della Francia. Presente in Mali per quasi dieci anni e terminata negli scorsi mesi, l’operazione militare di Parigi ha probabilmente fatto più danni di quanti intendeva risolverne, dato che attentati terroristici e insicurezza sono notevolmente aumentati. In alcuni paesi invece i militari francesi sono stati sostituiti dai mercenari del gruppo Wagner, legati al Cremlino. Sfruttando l’instabilità, anche la Russia sta tentando di accrescere la propria influenza sul continente, ai danni di Francia e Stati Uniti. Uno scarso impatto, nel ripristinare una parvenza d’ordine, l’hanno avuto anche le Missioni di mantenimento della Pace a guida delle Nazioni Unite (UN). Negli scorsi mesi in Repubblica Democratica del Congo (RDC) ci sono state numerose proteste contro MONUSCO, la missione a guida UN presente nel paese dal 2010. Operazione che per la popolazione locale si è dimostrata totalmente incapace di contrastare le attività dei gruppi ribelli e terroristi presenti nelle regioni orientali della RDC. Anche l’operato dei militari nel continente è stato un fattore che in parte ha favorito il reclutamento dei gruppi fondamentalisti, i numerosi abusi subiti dalle popolazioni locali hanno influito nello spingere le persone ad unirsi ai vari gruppi.

Purtroppo il futuro per il continente africano non appare roseo, dato che le condizioni che hanno creato e mantenuto l’instabilità sono probabilmente destinate a durare, alla luce anche della crisi energetica e della conseguente inflazione. La lotta tra le potenze mondiali, acuitasi con la guerra in Ucraina, è un altro fattore che sicuramente avrà ripercussioni su un continente a cui servirebbe più di ogni altra cosa indipendenza, pace e stabilità. [di Enrico Phelipon]

Abu Musab al-Zarqawi, il (vero) padre del Daesh. Emanuel Pietrobon il 28 Dicembre 2022 su Inside Over.

Negli stessi anni in cui l’amministrazione Bush Jr lanciava la Guerra al Terrore, in risposta agli attentati dell’11 settembre 2001, un uomo che non era Osama bin Laden e che non apparteneva ad Al-Qāʿida stava spargendo sangue in Medio Oriente e minacciando gli interessi e le vite degli Stati Uniti.

Lo chiamavano lo sceicco dei macellatori. Era tra i fondatori di un gruppo terroristico noto come Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād, che nel 2006 sarebbe stato ribattezzato Stato Islamico. Il suo nome era Abū Mus‘ab al-Zarqāwī e questa è la sua storia.

Da Amman a Kabul

Abū Mus‘ab al-Zarqāwī, al secolo Aḥmad Fāḍil al-Nazāl al-Khalāʾil, nacque nella periferia di al-Zarqā, Giordania, il 30 ottobre 1966. Cresciuto in una famiglia numerosa – nove fratelli –, Zarqāwī aveva origini beduine. Perse il padre durante l’infanzia, un lutto che lo incoraggiò ad abbandonare la scuola in favore del crimine.

La ricerca di denaro facile lo avrebbe portato prima nel mondo dei combattimenti clandestini e poi nei traffici illeciti, incluso lo sfruttamento della prostituzione. Stanco del vagabondaggio e della violenza, sul finire degli anni Ottanta, Zarqāwī avrebbe colto l’opportunità presentatagli da alcuni contatti di recarsi in Afghanistan per combattere i sovietici.

Abdullah Azzam, il mentore di Osama bin Laden

Le fonti sul periodo afgano di Zarqāwī discordano: per alcune avrebbe combattuto, partecipando a degli scontri a Khowst e Gardez, per altre non avrebbe fatto in tempo, causa la ritirata delle truppe sovietiche, limitandosi a fare il giornalista per il bollettino islamista Al-Bonian al-Marsous.

Nel 1990, a guerra finita, Zarqāwī si sposta nel vicino Pakistan, il cuore pulsante dell’emergente e vigorosa internazionale jihadista, dove sarebbe avvenuto l’incontro della vita, destinato a cambiarlo per sempre, con l’ideologo salafita Abū Muḥammad al-Maqdisī. Zarqāwī, un criminale alla ricerca di uno scopo esistenziale, trovò negli insegnamenti di al-Maqdisī, un seguace di Sayyid Qutb, l’illuminazione.

Da Kabul al Jihad globale

Nel 1992, rientrato nella natìa Giordania, Zarqāwī viene arrestato per il ritrovamento di armi ed esplosivi nella propria dimora. Rivedrà la luce della libertà soltanto sette anni dopo, nel 1999, grazie ad un’amnistia generale concessa da re Abdullah.

L’uomo uscito di prigione è un soggetto pericoloso, una mina vagante, che ha completato il processo di radicalizzazione religiosa iniziato in Pakistan ed è pronto ad entrare in azione. Sgominato un piano terroristico che avrebbe dovuto colpire il Radisson hotel di Amman la sera di capodanno, e che lo vede coinvolto, Zarqāwī fugge in Pakistan. Dal Pakistan raggiunge l’Afghanistan, dove incontra Osama bin Laden. È ancora il 1999.

Tra Zarqāwī e bin Laden non è idillio, perché hanno idee diverse sulla conduzione del Jihād globale – il primo vorrebbe un’insorgenza inizialmente circoscritta al Medio Oriente, il secondo vorrebbe una guerra, da subito, mondiale –, ma trovano un modus vivendi e cominciano a collaborare. Con la benedizione del capo di Al-Qāʿida, fondamentale per operare nel paese, Zarqāwī stabilisce un campo di addestramento a Herat dedicato ai combattenti giordani, alla produzione di armi chimiche e alla crescita di un gruppo da lui fondato: Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād.

Dopo un periodo trascorso in Iran, per ragioni mai chiarite, Zarqāwī fa ritorno in Afghanistan con l’inizio dell’invasione americana. Guida i suoi combattenti nella resistenza all’occupazione, mettendosi e mettendoli a disposizione di Al-Qāʿida e Talebani. Ferito in un combattimento, viene trasportato in Iran per ricevere cure mediche tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002.

Sayyid Qutb, il padre dell’Islam politico

28 ottobre 2002. Zarqāwī è un fantasma che viene visto ovunque, dalla Siria all’Iraq, e al cui passaggio seguono spargimenti di sangue. Quel giorno, ad esempio, un commando agente per conto del terrorista assassinerà il diplomatico americano Laurence Foley ad Amman. Il salto di qualità di Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād.

2003: i terroristi di Zarqāwī estendono il raggio d’azione di quella che è destinata a divenire la principale rivale di Al-Qāʿida, assumendo ufficialmente le sembianze dello Stato Islamico tre anni più tardi. A Casablanca, negli attentati del 16 maggio, vengono uccise più di trenta persone e ferite oltre cento. A Istanbul, tra il 15 e il 20 novembre, di concerto con Al-Qāʿida, vengono lasciati a terra più di cinquanta morti e oltre settecentocinquanta feriti.

2004. Zarqāwī è in procinto di rubare la scena al fuggitivo dei fuggitivi, bin Laden, perché nell’attentato al Canal Hotel di Baghdad perde la vita l’inviato speciale per l’Iraq delle Nazioni Unite, Sérgio Vieira de Mello, e perché una maxi-operazione dei servizi segreti giordani scioglie una cellula pronta a compiere un attentato al vertice NATO di Istanbul, un attacco chimico all’ambasciata statunitense di Amman e degli assalti alla sede del primo ministro e al quartier generale dell’intelligence. Nel corso del raid verranno sequestrate circa venti tonnellate di armi chimiche, esplosivi e veicoli da impiegare per gli attentati. Per la trama terroristica, tre anni dopo, Zarqāwī riceverà una condanna a morte (in contumacia) dall’Alta corte di Giordania.

È ancora il 2004, l’anno più lungo dell’epopea del precursore dello Stato Islamico, quando Zarqāwī riesce a sequestrare un imprenditore ebreo americano attivo in Iraq, Nicholas Berg, e a scioccare l’opinione pubblica occidentale attraverso la diffusione del video della sua decapitazione. Una vendetta, sentenzia Zarqāwī, per lo scandalo di Abu Ghraib. Il gesto gli costerà l’ingresso in simultanea nell’Olimpo dei jihadisti e nella kill list della Central Intelligence Agency.

La visione premorte

Iraq, 2004. Zarqāwī giura fedeltà a bin Laden, trasformando Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād in Tanzim Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn (Al-Qāʿida in Iraq), cominciando a pubblicare video propagandistici in linea con la visione del primo sceicco del terrore. Una sottomissione necessaria o tattica, a seconda delle letture, che consente al terrorista di mantenere il controllo della propria organizzazione e, soprattutto, di mettersi al riparo da eventuali rappresaglie ad opera di rivali e invidiosi.

Costretto a circoscrivere le proprie azioni al solo Iraq, lasciando il resto del mondo ad Al-Qāʿida, Zarqāwī avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel provocare lo sprofondamento del paese nel baratro nel dopo-Saddam. Il paese diventa il laboratorio in cui testare alcune teorie, proprie di Zarqāwī, circa la possibilità di innescare una guerra civile tra sunniti e sciiti e di utilizzarla per impantanare gli americani in un’estenuante guerra di logoramento.

La strategia di Zarqāwī provocherà più di duecento morti in attentati soltanto tra marzo e dicembre 2004. Ma sarà soltanto nel 2006, a pochi mesi dalla morte, che la visione di un Iraq devastato dalla guerra di religione sembrerà prendere forma. All’indomani dell’attentato al santuario sciita ‘Askariyya, avvenuto il 22 febbraio e causa di settanta morti tra i fedeli, il paese cadrà in una settimana di scontri interreligiosi che lasceranno a terra oltre mille persone.

Il 7 giugno 2006 è il giorno della svolta. Zarqāwī viene localizzato in una casa a nord di Baʿqūba ed eliminato in un’operazione chirurgica da due bombe guidate sganciate da due F-16 dell’Aviazione degli Stati Uniti. È la fine di un uomo che era riuscito a impensierire bin Laden creando un’organizzazione capace di rivaleggiare con Al-Qāʿida, sua genitrice inconsapevole, e a spargere sangue da Casablanca a Istanbul. È la fine di un uomo, sì, ma non della sua creatura, giacché Al-Qāʿida in Iraq darà vita allo Stato Islamico nello stesso anno, né della sua diabolica visione per il Medio Oriente – pantano degli americani e trincea di una guerra intra-islamica tra sunniti e sciiti.