Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LE RELIGIONI

PRIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 


 

LE RELIGIONI

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Natale.

La Befana.

La Pasqua.

Vaticano e Tasse.

Gli Abusi.

Il Battesimo.

La Confessione.

La Chiesa, i Gay, i Trans, le Donne.

La Politica.

Miracoli e Prodigi.

I Misteri.

Le Omelie.

Il Papa Emerito.

Padre Georg: il Padre molesto.

Il Papa Comunista.

Il Papa Santo.

Il Papa dimenticato.

Il Papa Buono.

Il Papa silente.

I Santi.

I Santi Laici.

Suore e Preti.

I Padrini.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comunione e liberazione.

La Fine della Cristianità.

Il Cristianesimo e gli Scismi.

Il Diavolo.

L’Esoterismo e l’Occultusmo.

La mattanza dei cristiani.

I Templari.

Gli Atei.

I Guru.

Il Karma.

Il New Age.

I Cibi sacri.

Le Sette Religiose.

La Massoneria.

I Buddisti.

L’Ebraismo.

L’Islam.
 


 

LE RELIGIONI

PRIMA PARTE


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ideologia.

La Nascita di Gesù.

La rappresentazione artistica.

I Simboli.

Babbo Natale.

Il Malumore e la depressione.

Le Tradizioni.

L’Ideologia.

La "sinistra cancella il Natale", caso a Verona: il sindaco Tommasi nella bufera. Luca De Lellis su Il Tempo l'11 novembre 2023

In nome del politicamente corretto anche un simbolo del Natale può venire meno. È quanto sta accadendo a Verona con la giunta del Partito Democratico, guidata dal sindaco Damiano Tommasi, che sta per sacrificare la stella cometa di Natale piantata da quasi 40 anni in piazza Bra in favore dell’installazione di lucette laser ormai un po’ convenzionali e prive di valore tradizionale. Lo riporta l’indiscrezione di Libero, secondo la quale “la trattativa con la ditta che fornirà le luci” sarebbe nella sua “fase conclusiva”, anche perché ormai non manca molto al periodo delle feste natalizie. La giustificazione del sindaco? “E’ rotta, e non c’era il tempo né la possibilità di ripararla”. In effetti nel gennaio scorso si era sgretolato il sostegno che la teneva sorretta, ma a settembre la cometa a due passi dall’Arena era stata liberata dal sequestro e sembrava potesse tornare alla normalità.

Invece non sarà così. Anzi, l’ex calciatore della Roma, ora nelle vesti di primo cittadino, sta già “pensando alle alternative” per sostituire uno degli emblemi della tradizione a cui i cittadini veronesi erano tanto affezionati. La grande stella cometa non solo rappresentava un punto turistico, ma anche un luogo di aggregazione tra diverse generazioni. E, secondo il retroscena del quotidiano, poteva essere salvata, con la ditta di presagomatura e posa dell’acciaio Iron Beton che si era offerta per sistemare tutto, sostenendo la fattibilità temporale del progetto di riparazione “del basamento che poggia sui gradoni dell’Arena, anche in collaborazione con qualche ingegnere o architetto specializzato in sicurezza, per riprogettare le fasi di montaggio e smontaggio con un protocollo più moderno e condiviso”.

La questione sembra non esser andata giù a molti cittadini, inclusi quelli appartenenti alla maggioranza che nel giugno 2022 aveva eletto Tommasi nuovo sindaco di Verona. In fin dei conti, è passata come una presa di posizione non necessaria l’eliminazione di un simbolo risalente al 1984 nella piazza più importante della provincia veneta. Intanto sono arrivate anche le critiche della giunta di centrodestra, secondo la quale sono state accampate solo delle scuse per togliere un elemento appartenente alla tradizione cristiana. E, unito ad altre politiche rivedibili attuate durante l’ultimo anno e mezzo di amministrazione, i Dem rischiano di veder vacillare il proprio consenso in una delle poche conquiste delle ultime elezioni amministrative.

La politica insorge contro i negazionisti del Natale. L'ira del centrodestra contro l'istituto. La Lega: "Dittatura delle minoranze". E il rettore fa un parziale dietrofront. Pier Francesco Borgia il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Parziale retromarcia da parte del rettore dell'Istituto universitario europeo di Fiesole. Uno scarno comunicato arriva a parziale rettifica: «Nessuna intenzione di abolire le feste religiose di fine anno». Comunicato che però sottolinea come l'istituto accogliendo «un numero crescente di studenti del mondo intero», necessiti «di una politica di inclusione delle diverse culture». Ecco quindi il perché dell'adozione di un «Piano per la parità etnica e razziale».

L'idea degli amministratori dell'istituto universitario (tra l'altro ospitato nella badia di San Domenico) di sostituire il Natale con una generica «festa d'inverno» non è piaciuta a gran parte del mondo politico. «Altro che inclusione! - afferma l'europarlamentare della Lega Susanna Ceccardi (foto) - Questa è la dittatura delle minoranze!» La Ceccardi oltre a ricordare che i finanziamenti dell'istituto arrivano da Bruxelles lamenta che si sta diffondendo, anche grazie a Bruxelles, una «propaganda negazionista e falsificazionista, negli istituti scolastici di ogni ordine e grado, La deputata di Azione, Daniela Ruffino, accusa direttamente il rettore Renaud Dehousse di «intolleranza poco laica», mentre il vicepremier Antonio Tajani «sorpreso» dalla decisione del rettore dell'Istituto. «Siamo fieri del rispetto delle nostre radici cristiane - sottolinea il ministro degli Esteri -, l'Europa è basata su questo. Non è un caso che l'Italia abbia scelto la Badia fiesolana come sede dell'Istituto». Ora la Lega, per voce del consigliere regionale Giovanni Galli, minaccia di togliere i contributi regionali allo Iue, mentre il deputato di Fratelli d'Italia Antonio Baldelli annuncia la presentazione di un'interrogazione parlamentare: «Non si possono pestare sotto i piedi del politicamente corretto - dice - secoli e secoli di tradizione nazionale».

La Nascita di Gesù.

Quando è nato davvero Gesù? La vera data in una pergamena. Tante le speculazioni in merito alla nascita di Gesù. È davvero nato il 25 dicembre, oppure si tratta di una data convenzionale? Ecco cosa ci dicono i rotoli di Qumran. Federico Garau il 25 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nella tradizione comune si è soliti credere che Gesù sia nato il 25 dicembre, motivo per cui festeggiamo il Natale. Nella realtà, tuttavia, sono in molti a ritenere che il 25 dicembre sia una data convenzionale, decisa dall’Imperatore Costantino per sostituire il culto del Sol Invictus, che vigeva all'epoca, con una festività cristiana.

Allora quando è nato veramente Gesù?

La scoperta dai rotoli di Qumran

Scoperti nel secolo scorso, i manoscritti di Qumran hanno confermato che Gesù è veramente nato a dicembre. Notizia che ha modificato la convinzione secondo cui la data del 25 dicembre fosse solo una convenzione per mettere d'accordo cristiani e fedeli di altre religioni presenti a quel tempo nell'impero romano.

Gli antichi papiri, rinvenuti a Qumran (Cisgiordania) nel 1947, a poca distanza dal Mar Morto, avrebbero fornito alcune importanti prove che si sono rivelate d'aiuto per gli studiosi. Fondamentali, in tal senso, il cosiddetto Calendario liturgico di Qumran e il Libro dei Giubilei, risalente al II secolo a.C.

A ragionare sulle date e a fornire qualche risposta circa il mistero della nascita di Gesù è stato Shemarjahu Talmon, docente presso la Hebrew University di Gerusalemme. Talmon ha inoltre ricavato dal Nuovo Testamento delle informazioni che, se incrociate, potrebbero fornire ulteriori conferme sulla data del 25 dicembre.

La conta dei mesi grazie al Vangelo di Luca

Nel Vangelo di Luca si parla delle due annunciazioni dell'Arcangelo Gabriele, la prima a Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, la seconda a Maria, madre di Gesù.

A Zaccaria, l'angelo annunciò la nascita di un figlio malgrado l'età avanzata e la sterilità della moglie Elisabetta. L'annunciazione a Zaccaria, riferiscono le scritture, avvenne quando questi era sacerdote della classe sacerdotale di Abia e stava svolgendo le sue funzioni nel Tempio. Nel Libro dei Giubilei trovato a Qumran viene rivelato che la classe di Abia accedeva al Tempio nella settimana fra il 23 e il 30 settembre. Contando i 9 mesi necessari per una comune gravidanza, il Battista nacque dunque intorno al 24 giugno, e sarebbe dunque confermata la data indicata dalla chiesa.

Si arriva quindi all'annunciazione a Maria, che si verifica quando la cugina Elisabetta è incinta di 6 mesi. Sarebbero dunque confermate la data dell'Annunciazione (25 marzo) e della nascita di Gesù, venuto al mondo 6 mesi dopo Giovanni il Battista, il 25 dicembre.

Estratto dell'articolo di Maurizio Bettini per “la Repubblica” il 23 Dicembre 2022.

«E questo chi è?» domandò Seneca vedendosi alla porta quello strano tipo. «Ma come, non mi riconosci?» rispose l'altro «sono Felicione, il figlio del fattore Filosito, ero il tuo cocco. Mi regalavi sempre i sigilla quando ero un bambinello». Che cosa sono i sigilla[…]? Si trattava di statuine che venivano donate ai bambini durante i Sigillaria,[…]. La cosa interessante però è che questa festa si celebrava ogni anno proprio alla fine di dicembre: ossia nel periodo che corrisponde al nostro Natale.

[…] L'invenzione del calendario, […] non solo permette di dare un'organizzazione condivisa alla nostra vita collettiva; ma suggerisce l'illusione che il tempo non sia in perenne fuga […] È inevitabile, però, che il periodo in cui il tempo "di prima" si interrompe per lasciare il passo al tempo "di dopo", sia percepito come un momento di passaggio, dal carattere eccezionale, che chiede di essere celebrato. Ed è appunto qui, all'interno di questa frattura fra calendari, che si collocano le nostre feste di Natale e fine d'anno; così come nello stesso periodo si festeggiavano a Roma i Sigillaria in concomitanza con un'altra importantissima celebrazione romana: i Saturnalia.

Questa festa si teneva in onore del dio Saturno e coinvolgeva tutti gli abitanti della Città. Sotto il segno del vecchio dio tornava a rivivere un mito, quello dell'età dell'oro, di cui Saturno era stato appunto il signore. Si era trattato di un periodo felice per l'umanità, quando non c'era bisogno di lavorare la terra per goderne i frutti e tutti vivevano in un regime di pace e giustizia. Sul modello di questa età felice, i Saturnalia erano caratterizzati dalla cancellazione rituale dello scarto che sussisteva fra liberi e schiavi.

In quei giorni, infatti, i liberi abbandonavano la toga, […] per indossare altre vesti; e mettevano sulla testa il copricapo tipico dei liberti, ossia gli schiavi liberati. […]. La festa poteva addirittura prevedere un rovesciamento dei ruoli fra liberi e schiavi. I padroni servivano cibo ai propri schiavi e si permetteva addirittura che i servi facessero il verso ai patrizi, prendendoli in giro.

[…] Del resto, la nostra tradizione vorrebbe che a Natale tutti si sentissero "più buoni" - che poi questo accada davvero, naturalmente, è un altro discorso. […] Ed eccoci tornati ai Sigillaria, la festa delle statuine. Queste "piccole immagini", i sigilla da cui abbiamo preso spunto, erano dedicate al dio Saturno ed erano poste in vendita nel mercato annuale che si teneva per la circostanza. 

[…] questi mercatini dei Sigillaria, con i loro teloni messi su alla fine di dicembre e in cui si vendevano statuine di terracotta, come quella che Seneca regalava al piccolo Felicione, somigliano molto ai nostri mercatini di Natale. 

 Nei quali, almeno in certe regioni d'Italia, dove ancora si pratica la tradizione del presepio, si vendono proprio statuine da collocare intorno alla grotta o nella capannuccia. Le botteghe di San Gregorio Armeno, a Napoli, con la loro meravigliosa offerta di sacre famiglie, pastori o personaggi bizzarri, sembrano dunque trovare in Roma antica un precedente abbastanza inatteso[…]

Anche nella Roma antica, infatti, il periodo di fine dicembre era caratterizzato dallo scambio dei doni, proprio come avviene in occasione del nostro Natale. Naturalmente in queste occasioni non si trattava semplicemente di esternare generosità o bontà. In qualsiasi società, infatti, la pratica del dono è inserita in realtà in un complesso sistema di relazioni sociali, che possono talora dar vita a vere e proprie forme di obbligazione. […] 

La cosa forse più interessante, però, è che le "statuine" dei Sigillaria venivano donate in particolare ai bambini, come Seneca usava fare con il piccolo Felicione. Le si donava addirittura ai più piccoli, "quelli che non camminano ancora", come giocattoli. Ora, se c'è una cosa che caratterizza il nostro Natale, è proprio l'attenzione dedicata i bambini. È a loro che sono destinati i regali che si fanno in famiglia, sono loro i piccoli eroi delle feste natalizie.

Lo si vede perfino dalle pubblicità che passano in televisione. Del resto, nel Natale cristiano il personaggio principale non è forse un bimbo adagiato in una mangiatoia? Un bambino divino, la cui nascita è salutata da un coro di angeli e che, per coloro che credono, è addirittura destinato a salvare il mondo.

La rappresentazione artistica.

Nella "Natività" di Giotto nasce la pittura moderna. La marginalità di Giuseppe, la cura di Maria per il figlio. Finezza e geometria s'incontrano. Vittorio Sgarbi il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Perché Giotto è il primo pittore moderno? È utile la parola «moderno» a definirlo? Chi è stato una volta nella Cappella degli Scrovegni a Padova ha provato una emozione irripetibile, perfino più forte di quella che suscita la Cappella Sistina. Negli Scrovegni c'è un'immersione, percepibile illusivamente anche nella riproduzione ambientale all'entrata della mostra «Giotto e il Novecento», al Mart di Rovereto. Si entra nel profondo azzurro di un cielo stellato e si assiste, d'un solo fiato, alle storie della vita di Cristo.

Nessun film ci darebbe questa emozione. Tutto è lì, davanti a noi, tutto vive, si muove, con una sorprendente presenza. La differenza, rispetto al cinema, è nel fatto che siamo noi a muoverci. Le storie sono immobili, il nostro corpo, i nostri occhi le seguono in un piano-sequenza. Tutto era nella mente di Giotto, tutto era in un eterno presente che si manifesta con una serie di istanti che i nostri occhi seguono nella serie di storie illustrate nei singoli riquadri.

La Natività è uno degli episodi più rappresentati dagli artisti. E proprio fermandoci davanti al riquadro degli Scrovegni che la illustra, ci rendiamo conto della assoluta modernità di Giotto. La storia è semplice, la raccontano i Vangeli. Luca scrive: «Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo. C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia. E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama. Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro».

Tutto è davanti a noi, in una composizione perfetta. Il paesaggio è montuoso, pronto ad accogliere una capanna provvisoria, come una pensilina, per riparare, sotto il suo tetto, la Madonna distesa all'antica, come su un triclinio. Intorno si muove un mondo. Seduto a terra, stanco, accoccolato nel suo mantello, Giuseppe dorme. È consapevole di non essere essenziale, e Giotto ce lo mostra estraneo al rapporto sentimentale che unisce la madre e il figlio. Poi ci sono i pastori. Non possono mancare. Ma sono distratti, di spalle. Mentre il loro gregge di pecore e capre è fermo e raccolto, loro sono attratti da un messaggio del cielo. Il gruppo di angeli che sta sopra il tetto rassicura della benedizione divina di cui gli angeli sono garanti. I pastori li guardano curiosi come si assiste ai fuochi d'artificio, a una apparizione imprevista ed eccezionale.

Tutto è perfettamente coerente e naturale, e proprio la distrazione dei pastori o l'assenza di Giuseppe ci sospingono a concentrare la nostra attenzione sul dialogo amoroso tra la madre e Gesù. Lì è il senso della storia: nell'amore materno, nell'infinita dolcezza della madre, con il volto bianco e luminoso, che stringe il bambino in fasce, amorevolmente, e pensa al suo conforto, aiutata da un'ancella, per porlo, con grande delicatezza, nella mangiatoia, e avere il soffio dell'alito caldo del bue e dell'asinello.

Giotto, in un colpo d'occhio, racconta la varietà delle condizioni umane. Il suo non è un teatro: è la vita. E la Natività è una storia di affetto materno, di tenerezza, di grazia. Nel ritmo perfetto della composizione ci colpisce la verità delle emozioni, la cura. Nella concentrazione su quell'episodio centrale, con gli sguardi assorti, la leggerezza dei gesti e delle mani di Maria e dell'ancella che spostano il bambino con infinita dolcezza, noi avvertiamo il sentimento profondo della maternità che è fatto di amore, e non ha bisogno di altro che di dedizione, ancora più intensa della devozione.

Giotto, come nessuno prima di lui, esprime affetti e delicatezza umana, come se Maria interpretasse le parole di Battiato nella canzone La cura: «Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza/ Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza./ (...) Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto/ Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono/ Supererò le correnti gravitazionali/ Lo spazio e la luce per non farti invecchiare/ Ti salverò da ogni malinconia/ Perché sei un essere speciale/ Ed io avrò cura di te/ Io sì, che avrò cura di te».

Se dalla rappresentazione di Giotto ci spostiamo alle tante successive rappresentazioni della Natività, non troveremo in nessuna di esse tanta esattezza nella descrizione dei sentimenti, un esprit de finesse che si esprime attraverso l'esprit de géométrie di una composizione perfetta, dove ogni elemento racconta una condizione umana, dallo stupore all'amore. Non si può fare di più, non si può dire di più.

Film, tutti i classici di Natale da vedere almeno una volta nella vita. Nel mese di dicembre è ormai tradizione guardare film di Natale. Ecco allora una lista dei classici da non lasciarsi scappare durante il mese delle festività natalizie. Erika Pomella il 23 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Una delle tradizioni più in voga durante le feste di Natale è quella di vedere pellicole a tema: film e classici di Natale ambientati durante le festività natalizie o che comunque ne rispecchiano i valori e la ricerca di un lieto fine a ogni costo. Da decenni, ormai, la settima arte si premura di produrre annualmente pellicole a tema natalizio da vedere nel mese di dicembre: una strategia di marketing che coinvolge ogni lato della produzione cinematografica, compresa quella che passa sulle ormai insostituibili piattaforme streaming.

Ci sono, quindi, dei film - più o meno vecchi - che sono diventati dei veri e propri classici di Natale, storie da vedere e rivedere durante il periodo più bello dell'anno, che vengono aggiunti ai palinsesti dei canali in diretta o aggiunti nei cataloghi sempre più ricche delle piattaforme on-demand come Netflix, Prime Video o Disney+.

Una poltrona per due

Non è Natale senza Una poltrona per due. Se c'è una tradizione ormai collaudata negli anni è quella di trasmettere, la sera della Vigilia, il film di John Landis su Italia 1 e il 2022 non fa eccezione. Per i pochi che ancora non conoscessero questo cult degli anni Ottanta con Eddie Murphy e Dan Aykroyd è una sorta di rivisitazione comica del classico Il principe e il povero. La trama, infatti, ruota intorno a un ricco uomo di Wall Street che, a seguito di una scommessa fatta ai suoi danni dai suoi due annoiati datori di lavoro, perde tutto. Al contrario, Billy Ray Valentine (il personaggio di Murphy) passa dall'essere un senzatetto ad avere più soldi di quanti ne abbia mai potuti vedere. Quando però i due capiscono di non essere altro che un gioco nella vita di due anziani con troppo tempo libero, decidono di prendersi la loro vendetta. Come ogni anno, da circa venticinque anni, l'appuntamento con Una poltrona per due è per il 24 dicembre su Italia 1.

La vita è meravigliosa

Un altro classico - non solo di Natale, ma della storia del cinema nella sua interezza, è La vita è meravigliosa, la pellicola di Frank Capra con James Stewart nei panni del protagonista. La trama ruota intorno alla figura di George Bailey, un uomo dal cuore buono che è costretto a rinunciare ai suoi progetti di vita quando accetta di portare avanti l'azienda di famiglia. Sempre altruista, generoso e pronto a sacrificarsi per gli altri, con una moglie innamorata di lui, George comincia a dubitare di sé e di ogni cosa quando gli eventi cominciano a virare verso difficoltà sempre maggiori. Arrivato al punto di rottura, George medita il suicidio, ma prima che abbia l'occasione di gettarsi nelle fredde acque del fiume viene raggiunto da un angelo custode che gli dimostrerà quanto la sua vita sia importante e, di fatto, meravigliosa. Il film di Frank Capra, che ha ispirato anche il brano Meraviglioso, è disponibile su Sky e Now Tv, ma non è da escludersi un canonico passaggio sui canali in chiaro.

SOS Fantasmi

Diretto da Richard Donner SOS - Fantasmi è una rilettura di Il canto di Natale di Charles Dickens. La storia ruota intorno al giovane presidente di un'emittente televisiva (Bill Murray) che vede il Natale come un'occasione per fare soldi e non crede in niente che non sia la sua pura ambizione. Ma, con l'avvicinarsi delle Feste, Frank riceverà la visita di tre fantasmi, che gli faranno rivivere i suoi Natali passati e che cercheranno di aprirgli gli occhi sul futuro che lo attende se non riprende in mano la sua vita. Disponibile su Prime Video.

Il piccolo Lord

Un altro classico di Natale è Il piccolo lord, il film degli anni Ottanta ispirato all'omonimo romanzo per ragazzi. La storia è quello di un bambino americano, orfano di padre, che scopre di aver ereditato un titolo nel Regno Unito ed è invitato a passare del tempo con il nonno burbero, che non ha mai voluto sapere nulla di lui, dal momento che non aveva visto di buon occhio il matrimonio di suo figlio con una donna americana di umili origini. L'incontro con il bambino, però, è destinato a cambiare l'indole del vecchio, che non potrà fare a meno di lasciarsi sedurre dal bambino. Anche Il piccolo lord è disponibile su Prime Video.

Mamma ho perso l'aereo

Non è Natale senza Mamma ho perso l'aereo, il film cult degli anni Novanta che recentemente è stato anche omaggiato nel film Una notte violenta e silenziosa. La storia è quella di Kevin (Macaulay Culkin) un bambino di otto anni che, durante le vacanze di Natale, viene accidentalmente lasciato a casa da solo dalla sua famiglia ed è costretto non solo a prendersi cura di se stesso senza averlo mai fatto prima, ma soprattutto a tenere testa a un duo di criminali (interpretati da Joe Pesci e Daniel Stern) che derubano le case lasciate vuote per le Feste. Diventato negli anni un vero e proprio cult, con delle scene intramontabili come quelle legate alla "caccia al ladro", Mamma ho perso l'aereo è davvero un titolo imperdibile. Disponibile su Disney+, dove c'è anche il sequel, Mamma ho riperso l'aereo: mi sono smarrito a New York

Nightmare Before Christmas

Sebbene sia diretto da Henry Selick Nightmare Before Christmas è una pellicola che porta impresso il marchio del suo autore e creatore, Tim Burton. Si tratta di un lungometraggio d'animazione realizzato con la tecnica dello stop-motion, che si ottiene creando ventiquattro frame al secondo. In più la pellicola ha una natura ibrida, che lo rende perfetto sia per Halloween sia per Natale. Questo perché il protagonista della storia è Jack (doppiato in italiano da Renato Zero), il re delle zucche che porta lo spavento nella Città di Halloween. Dopo le ultime celebrazioni, però, Jack comincia ad avere una sorta di crisi di identità e durante una sua passeggiata finisce nella Città del Natale. Colpito da questo mondo nuovo, Jack decide di portare il Natale anche nel suo mondo d'origine, con risultati tutt'altro che rosei. Disponibile su Disney+.

Una promessa è una promessa

Una promessa è una promessa è una rocambolesca e divertente avventura di Natale che vede un padre alle prese con la disperata ricerca del regalo per il figlio. Il protagonista è interpretato da Arnold Schwarzenegger, un uomo d'affari così impegnato col suo lavoro da mancare sempre alle promesse fatte al piccolo Jamie. Alla Vigilia di Natale l'uomo scopre che il giocattolo che suo figlio aveva chiesto per Natale, un modellino dell'eroe televisivo Turbo Man, è pressoché introvabile. Determinato a non rovinare le Feste al figlio e a dimostrare di essere un uomo di parola, il protagonista farà di tutto per ottenere il giocattolo. Anche a sfidare un postino disperato quanto lui. Questo classico di Natale è disponibile su Disney+

Un amore tutto suo

Sempre su Disney+ è disponibile un altro titolo che rientra nella lista dei classici di Natale: si tratta di una commedia romantica davvero deliziosa da vedere durante le feste di Natale. Un amore tutto suo racconta la storia di Lucy (Sandra Bullock), una donna che lavora alla biglietteria della metropolitana e che, durante il suo servizio la mattina di Natale, salva la vita a uno sconosciuto per cui si è presa una cotta. A causa di un'incomprensione durante il trasferimento in ospedale, i medici si convincono che Lucy sia la fidanzata del malcapitato e quando arriva la famiglia dell'uomo tutti sono pronti ad accoglierla come eroina e fidanzata. L'unico ad avere dei sospetti è il fratello della vittima, Jack (Bill Pullman), che finirà suo malgrado per provare qualcosa per la ragazza.

L'amore non va in vacanza

L'amore non va in vacanza è una commedia romantica con un cast eccezionale. La storia ruota intorno a due donne, Iris (Kate Winslet) e Amanda (Cameron Diaz), entrambe alle prese con il cuore spezzato e la difficoltà a trovare il vero amore. Davanti all'ennesima delusione d'amore, le due - che non si conoscono - accettano di partecipare al programma di scambio casa. Iris parte per Los Angeles e a casa di Amanda conosce Miles (Jack Black). Amanda, invece, va a nascondersi in Gran Bretagna, nel Surrey, dove incontra il fratello di Iris, Graham (Jude Law). Con un cast che include anche Rufus Sewell ed Eli Wallach, L'amore non va in vacanza è il classico film di Natale adatto a chi cerca nelle Feste un po' di romanticismo. Il film è disponibile sulla maggior parte delle piattaforme e passa spesso anche nei canali in chiaro.

The Family Man

Un altro titolo da inserire tra i classici di Natale disponibili su Netflix è The Family Man, il film del 2000 diretto da Brett Ratner che vede come protagonisti gli attori Nicolas Cage e Téa Leoni. La trama ruota intorno a un sotterfugio narrativo simile a quello di Sliding Doors: un uomo di successo (Nicolas Cage, appunto) ma dalla vita solitaria, si trova ad avere la possibilità di "sbirciare" in un'esistenza alternativa, osservando come sarebbero potute andare le cose se avesse preso decisioni differenti. Sebbene non sia interamente incentrato sul periodo natalizio, The Family Man rimane un titolo imperdibile nel mese di dicembre.

Il Grinch

La lista dei consigli sui classici di Natale si chiude con Il Grinch, pellicola degli anni '90 e firmata da Ron Howard che vede Jim Carrey vestire i panni della creatura verde che odia il Natale ed è determinato a rovinarlo per tutti gli abitanti del paese di Chinonsò, che invece non vedono l'ora di celebrare le festività natalizie. Al pari di Una poltrona per due, Il Grinch è un titolo che passa ogni anno nel palinsesto televisivo e anche quest'anno Italia 1 non si lascerà sfuggire l'occasione di portare sul piccolo schermo la storia di un Grinch pronto ad aprire il suo cuore. L'appuntamento, infatti, è per il 17 dicembre.

Tu scendi dalle stelle. Tra miracoli e presepi, così nacque la canzone natalizia più antica. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 24 Dicembre 2020.

Sette strofe composte nel 1754 che, insieme a “Quanno nascette ninno”, costituiscono un piccolo canone di melodie tradizionali. Mescolano elementi biblici a ispirazione popolare, accompagnando la speranza dell’avvento di un mondo migliore

«Questo Natale si è presentato come comanda Iddio». Oltre 5 milioni di persone hanno riascoltato due giorni fa la nota battuta eduardiana, che Sergio Castellitto ha interpretato nel riadattamento Rai di “Natale in Casa Cupiello”. E non poche avranno pensato all’attinenza dell’amara ironia di quelle parole a un 25 dicembre 2020, che difficilmente potremo dimenticare.

Ma il remake della più celebre opera teatrale di De Filippo ha fatto anche risuonare nelle case italiane le note di “Tu scendi dalle stelle”, sia pur nella versione tragicomica della consegna dei doni a Cuncetta Cupiello come da copione, e di “Quanno nascette ninno”. Quest’ultimo scelto da Enzo Avitabile come colonna d’apertura con l’aggiunta del tamburo al tradizionale suono dolce e malinconico delle zampogne.

A restituire una parvenza di clima natalizio in tempi di Covid-19 sono proprio questi due brani di un musicista, letterato, artista e napoletano doc come sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Soprattutto il primo, «senza di cui – come osservava quasi cent’anni fa Costantino Petrone – Natale non sembrerebbe Natale». Concetto espresso in tempi più recenti da Andrea Bocelli, secondo il quale «il brano che incarna lo spirito del Natale è “Tu scendi dalle stelle”. Ricordo che se non veniva cantato alla messa di mezzanotte, ci rimanevo malissimo».

D’altra parte la pastorale, che, scritta da Alfonso a Nola (Na) nel 1754, è il più antico canto popolare italiano ancora universalmente in uso, è intonata non solo in chiese e contesti familiari. Oltre a Bocelli si potrebbero infatti menzionare Luciano Pavarotti, Claudio Villa, Nini Rosso, Lucio Dalla, Alex Baroni, Mina tra gli artisti più celebri che l’hanno interpretata in un recente passato.

Le sette strofe di “Tu scendi dalle stelle”, in cui temi biblici s’intrecciano a quelli mistici, non potrebbero però essere valutate appieno senza correlarle alle 26 strofe in napoletano di “Quanno nascette ninno”, forse scritte precedentemente anch’esse a Nola o a Deliceto (Fg). Di esse, interpretate da nomi dal calibro di Eugenio Bennato, Peppe e Concetta Barra, Pina Cipriani, Enzo Avitabile e Mina, Giovanni Getto scrisse che sono «il vero capolavoro della poesia alfonsiana». Mentre, secondo il grande poeta partenopeo Ferdinando Russo, «costituiscono il primo contributo alla rinascita del nostro moderno dialetto; ed entra trionfalmente nella storia della canzone popolare».

In “Quanno nascette ninno” Alfonso utilizza linguaggio, simboli e immagini delle masse popolari a lui care per offrire alle stesse, in un crescendo poetico, il messaggio centrale del mistero del Natale: il rinnovamento integrale dell’uomo e del cosmo in un piano di rivolgimento totale. Non a caso l’autore canta: «Se rrevotaje nsomma tutt’o Munno», (“si rivoltò insomma tutto il mondo”).

È l’inveramento delle parole del profeta Isaia e l’anticipo di quanto avverrà con l’apocatastasi: alla nascita del bambino «arravugliato, e dinto a lo Presebbio curcato» (“in fasce e coricato nella mangiatoia”) i fiori, pur essendo inverno, sbocciano, la paglia si riempie di germogli, non ci sono più nemici sulla terra, la pecora pascola con il leone, il leopardo gioca col capretto, l’orso e il vitello sono insieme, il lupo è in pace con l’agnello: «Co tutto ch’era vierno, Ninno bello, nascetteno a migliara rose e sciure. Pe ‘nsì o ffieno sicco e tuosto che fuje puosto sott’a Te, se ‘nfigliulette, E de frunnelle e sciure se vestette. […] No nc’erano nemmice pe la terra, la pecora pasceva co lione; co o caprette se vedette o liupardo pazzeà; l’urzo e o vitiello e co lo lupo ‘n pace o pecoriello».

È quel mondo ideale di cui il Presebbio è immagine plastica. Non a caso, quando sant’Alfonso compose i due canti – ma furono anche altri i brani natalizi da lui scritti, come, ad esempio, Fermarono i cieli – il presepe aveva raggiunto a Napoli la sua piena espressione artistica sulle orme di Francesco Solimena.

Dai quartieri più poveri alla corte di Carlo di Borbone e di Maria Amalia di Sassonia non c’era abitazione in cui non si rappresentasse la scena della natività con pastori e ambienti dagli accentuati dettagli realistici. In un colpo d’occhio complessivo, in cui diseguaglianze e divisioni sembravano scomparire, almeno una volta, definitivamente. Un mondo migliore che, pur sempre auspicato, si spera tale col lasciarci alle spalle quest’annus horribilis.

Estratto dell’articolo di Orazio La Rocca per “la Repubblica” l’1 gennaio 2023.

Jingle Bells è sicuramente la melodia natalizia tra le più popolari. Ma non tutti sanno che fu composta per prendere in giro gli afroamericani. Un motivo dunque razzista. […] E che Last Christmas[…] fu scritto da George Michael nel 1984 per ricordare la perdita di un amore omosessuale avvenuta casualmente nell'ultimo Natale. Senza nessun riferimento religioso. 

Queste ed altre storie, genesi e apparenti "controsensi" che caratterizzano le radici delle più celebri canzoni natalizie raccontate nel libro Last Christmas (e le altre) scritto da Enzo Romeo, caporedattore-vaticanista del Tg2. […] l'autore seleziona dieci motivi natalizi tra i più popolari[…] cantati sia per celebrare la nascita del Bambino che per motivi non espressamente sacri e tanto meno teologici, ma legati alla «vita ed alle esperienze personali degli stessi autori ».

Ecco quindi che si viene a scoprire che le dolci note di Jingle Bells vedono la luce nel 1857 per mano di un autore, James Pierpoint, costantemente in bolletta, che le compone solo per soldi, prendendo spunto dalle slitte che in inverno negli Usa venivano guidate dagli afroamericani, munite di sonanti campanelli per segnalare la loro presenza agli incroci delle strade. Il motivo ebbe successo, specialmente negli spettacoli chiamati Minstrel Show dove gli attori si dipingevano il volto di nero per prendere in giro gli africani mentre cantavano, appunto, Jingle Bells tra sberleffi e battute. […]

Storia simile ad un altro grande successo natalizio, Happy Christmas composta da John Lennon nel 1971 per celebrare le tematiche più care ai movimenti pacifisti dell'epoca, come il no alla guerra, la pace universale, l'uguaglianza, il libero amore. […]

Alcuni motivi, pur composti per le chiese protestanti e presbiteriane siano stati "adottati" anche dai cattolici. Come Joy to the World composta nel 1719 dal pastore inglese Isaac Watts, «non per celebrare la nascita di Gesù, ma - ricorda Romeo - per cantare la gioia per la Parusia, ovvero la seconda venuta di Gesù alla fine dei tempi...». […] 

Estratto dell’articolo di Katia Ippaso per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 2 gennaio 2023.

Questa è una storia antica che si rinnova continuamente, in cui il profano si intreccia con il sacro, e dove il teatro diventa origine e fine di tutte le cose. A raccontarcela è Peppe Barra, 78 anni, figura storica della grande tradizione canora (e teatrale) italiana che trova nella città di Napoli il suo «nutrimento terrestre» (per usare un'espressione del premio Nobel André Gide) […]

 Cosa c'è all'origine della Cantata dei Pastori?

«L'abate Perrucci (si fece chiamare Casimiro) a cui alla fine del Seicento i gesuiti commissionarono un'opera che aveva il compito di contrapporsi a tutti gli spettacoli blasfemi dell'epoca. Dobbiamo immaginare una Napoli sensuale e blasfema, dove la gente disertava la messa di mezzanotte della vigilia di Natale per andare a vedere spettacoli da baraccone». 

Quale è la prima grande metamorfosi?

«Inizialmente, la cantata durava cinque ore. Che cosa fa il popolo tra Settecento e Ottocento? La trasforma in un glorioso e gustoso pasticcio di sentimento religioso e teatro comico».

 E poi, nel Novecento, arriva Roberto De Simone.

«Per tanti anni, la cantata era rimasta appannaggio del clero e si rappresentava solo nelle sagrestie. Nel 1974 De Simone la disseppellisce e la mette in scena con la Compagnia di Canto Popolare. Per poi riscriverla nell'88. Prima con lo stesso De Simone, e poi con mia madre Concetta, tengo viva questa tradizione da più di quarant' anni».

 Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova versione?

«Nuove scene e musiche. Tutto è ancora più favolistico».

Quale è il tratto principale della maschera di Razzullo che lei indossa e come si relaziona al Sarchiapone di Lalla Esposito?

«Razzullo è uno scrivano ladro, un po' malinconico ed eternamente affamato. Sarchiapone invece è un assassino. Questi due poveracci napoletani si ritrovano catapultati in Palestina, proprio nei giorni dello scontro titanico tra Angeli e Demoni, mentre Maria e Giuseppe cercano un riparo per la nascita del Figlio di Dio. L'interpretazione che ne dava mia madre Concetta era sconvolgente: è stata la prima donna a cambiare per sempre la storia di Sarchiapone. Con Lalla Esposito ormai collaboro da diversi anni, è un grande talento». […]

I Simboli.

La Sindone. Estratto dell'articolo da msn.com martedì 26 settembre 2023.

L’intelligenza artificiale ha rivelato quella che potrebbe essere l’immagine più chiara del volto di Gesù attraverso l’analisi della Sacra Sindone di Torino. Proprio 90 anni fa, il 24 settembre del 1933 fu la prima volta che il tessuto è stato esposto al pubblico attirando una folla di oltre 25.000 persone nella Cattedrale di San Giovanni Battista a Torino. Alcuni sostengono che l’oggetto misterioso e controverso mostri il vero volto di Gesù dopo che è stato avvolto al termine della crocifissione. 

Il Daily Star ha voluto “dare in pasto” l’antica reliquia alla intelligenza artificiale. Con l’aiuto di Midjourney è stato creato quello che potrebbe essere il volto realistico di Gesù. L’Ia mostra un uomo con i capelli lunghi e la barba con gli occhi aperti che guarda direttamente fuori. Si può vedere anche una parte del suo corpo. 

La Sindone di Torino è un lenzuolo di lino che si ritiene abbia avvolto il corpo di Gesù dopo la sua morte. Sul lenzuolo è impressa l’immagine di un uomo che presenta segni di flagellazione, coronazione di spine, perforazione delle mani e dei piedi e ferita al costato. La Sindone è conservata nel Duomo di Torino e viene esposta al pubblico solo in rare occasioni. La sua autenticità è oggetto di dibattito tra credenti e scienziati, che hanno condotto diversi studi sul tessuto, sull’immagine e sulle presunte tracce ematiche. 

Tra questi, il più noto è l’esame del carbonio-14, che ha datato la Sindone tra il 1260 e il 1390, mettendo in dubbio la sua origine evangelica. Tuttavia, alcuni studiosi contestano la validità di tale datazione, sostenendo che la Sindone abbia subito contaminazioni nei secoli […]

Riflessioni cristiane. Il teologo commenta il Vangelo della domenica. Oggi inizia il tempo dell’Avvento. Che vuol dire attesa. Attesa del cambiamento. Che però dipende da noi. Un teologo commenta il Vangelo di Marco.  Armand Puig e Tarrech su L'Unità il 2 Dicembre 2023

Per i cristiani inizia domenica il tempo di Avvento, che si conclude con il giorno di Natale, giorno della nascita di Gesù.

Avvento è una parola antica, che si usa raramente, ma potente. I cristiani la usano non perché sono antiquati, ma perché siamo sempre dentro un tempo di attesa, perché la creazione non si è conclusa e dipende da noi, e la storia non è conclusa e dipende anche da noi, e il mondo attende cambiamento. 

Il brano del Vangelo è molto concreto. C’è un mondo intero, le proprietà che i servi amministrano e gestiscono, che hanno ricevuto come noi riceviamo il mondo in cui viviamo.

E c’è “un uomo che è partito dopo avere dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito” e che lascia un consiglio che conviene ascoltare: “Vegliate”, perché “non sapete quando il padrone di casa ritornerà”. 

Il nostro è il tempo del “tutto e subito”, non fa piacere aspettare, è il tempo della fretta. Verso dove non si sa, ma abbiamo disimparato la lentezza, tempi e pensieri lunghi, ognuno, a ogni livello, anche la politica e chi guida e influenza pensieri e comportamenti, che si trova ad amministrare per un po’ e ad avere più potere – e responsabilità – degli altri.

Per questo c’è un grande bisogno di questo tempo, bisogno di Avvento, davvero. Ma in un tempo di incertezza non fa piacere aspettare, perché non si sa cosa aspettarsi. 

Ci chiediamo come affrontare la realtà, i fatti ordinari e straordinari, apparentemente impotenti di fronte a quello che ci arriva addosso all’improvviso, senza sapere dove ci porterà. Per qualcuno è invece stimolante, l’incertezza. 

Altri vorrebbero conoscere prima tutti i dettagli, ma altri ancora si difendono dai cambiamenti con l’indifferenza, convinti che tanto, come si dice, “andrà tutto bene”. C’è un forte istinto, preventivo, per ridurre il rischio di ferirsi o di soffrire. Anche per questo perdiamo l’empatia con gli altri. E questo è incoraggiato socialmente.

La realtà, quella vera, però, non si lascia addomesticare facilmente. Le parole di Gesù sono più realiste della nostra “concretezza”: cosa vale la pena fare di più di fronte alla realtà? Essere vigili o dormire? Vivere le cose con attenzione o lasciarsi trasportare dalla sonnolenza? La realtà non può essere ignorata. C’è un invito a rifiutare di essere i parenti poveri del nostro istinto di conservazione o di possesso.

Accade spesso che mascheriamo un po’ la realtà per non doverla affrontare, come se parlarne possa diventare contagioso e toglierci quel po’ di benessere, anche interiore, che abbiamo. Mascherare, relativizzare la realtà, tenerla a distanza. O trasformarla? O impegnarsi per trasformarla, facendo dell’attesa il tempo del cambiamento?

La parabola del portinaio che vigila parla di un uomo a cui è stato affidato il compito di essere guardiano di una tenuta agricola. Deve controllare gli accessi, le entrate e le uscite delle persone, chi lavora e vive all’interno e chi viene da fuori. Deve capire chi arriva, farlo entrare o aspettare.

Tra i compiti che il padrone ha assegnato andandosene è menzionato solo il ruolo del portiere. Stare alla porta e accertarsi che nessuno abbia cattive intenzioni, o, anche, come può essere più utile all’interno.

Ovviamente la responsabilità aumenta durante la notte, perché è allora che il Tesoro, la proprietà diventa più vulnerabile. In quel momento, quando tutto è più buio e si vede poco, quel portiere ha più responsabilità. Ma non c’è niente che dica che il pericolo venga da fuori. Anzi.

L’invito a vegliare è rivolto a tutti e a ciascuno, vale per chi lì ci abita, in primo luogo al portiere stesso. “Vegliate!”. E’ un antidoto all’abuso di potere, all’appropriarsi di quello che si amministra e che non è proprio, escludendone altri, visto che il padrone di casa ha lasciato tutto a quei servi diventati amministratori a pieno titolo. 

Il portiere si gioca molto accettando quel lavoro. Può succedere che il padrone ritorni all’improvviso, quando il guardiano non se lo aspetta, in un tempo senza luce solare: di sera, a mezzanotte, in piena notte o all’alba.

Chi smette di vegliare, il portiere che dorme per primo, non avrà scusanti. Avrebbe dovuto essere sveglio e si è addormentato. 

Ecco il problema: dormire invece di svegliarsi. Quando ci addormentiamo diventiamo vulnerabili, come il portiere della parabola di Gesù. Rischiamo di non essere più al nostro posto, e di non vedere la realtà che ci circonda. Se mezzi addormentati siamo facilmente manipolabili. 

Il Vangelo di Marco entra in una delle grandi tentazioni contemporanee: quella di eliminare e allontanare da sé le sofferenze degli altri e del mondo, l’abitudine a cercare anestetici, la corresponsabilità di ognuno a costruire e vivere in un mondo anestetizzato, dove i rumori di guerra arrivano ovattati e non ci riguardano, il dolore degli altri, la domanda di essere presi sul serio, diventa brusio confuso. 

Gesù dice: “Vegliate, perché non sapete quando sarà il momento”. Vegliare non è solo stare attenti a evitare i pericoli, ma anche la capacità di cogliere quello che non ci si aspetta, riaprirsi alla sorpresa, alle sorprese della storia e a quelle nella vita attorno a noi.

Non c’è niente di impossibile, anche in pieno inverno, anche nella neve, possono nascere fiori. Forse la durezza si trasformerà in tenerezza, forse la rabbia lascerà il posto alla pace del cuore. Tutto è possibile, tutto può cambiare.

Ma dipende anche da noi. Intanto non dobbiamo gettare la spugna, non ritirarci nelle nostre insoddisfazioni, non chiuderci nel nostro mondo ristretto, dove l’arrivo di altri, anche delle buoine notizie, “vangelo”, preoccupa.

Può essere, se non lo lasciamo scivolare via, il tempo dello stupore e del cambiamento: perché da una vergine nascerà un bambino, e quando nasce un bambino la natura ritorna alla vita, e la vita riempie ogni cosa, compresi i cuori addormentati che hanno bisogno di svegliarsi e rinascere. Armand Puig e Tarrech - 2 Dicembre 2023

Il 25 dicembre, l'albero e il presepe: la vera storia del Natale. Natale rappresenta per i cattolici il giorno della nascita di Gesù, ma affonda le sue radici in altre tradizioni, e nel tempo si è evoluto moltissimo. Angela Leucci il 25 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Che cosa rappresenta il Natale e perché lo si festeggia? Molti potrebbero non essersi posti questa domanda, ritrovandosi a rispondere semplicemente che il Natale rappresenta e ricorda la nascita di Gesù Cristo. Ma questa ricorrenza è l’unione di grandi tradizioni, in cui quella cattolica è forse la più nota e valorizzata in Italia, ma non è la sola.

Le tradizioni legate a questo periodo dell’anno sono quindi tante ma sono per lo più a carattere religioso o comunque spirituale. Lo stesso Cattolicesimo in fondo si innesta su esperienze pregresse: prima della sua diffusione, in Europa c’erano religioni naturali e politeiste che poi sono parzialmente confluite trovando punti di contatto nelle “convenzioni ambientali” e nel messaggio ultimo del Cristianesimo: l’amore, la solidarietà, la fratellanza.

Cosa è accaduto a Natale

Per capire cos’è il 25 dicembre, bisogna fare un passo indietro. Tutte le religioni prevedono usanze e abitudini che dipendono dal retroterra culturale e dal luogo da cui si diramano: basi pensare al fatto che la cucina kosher o il divieto di bere alcolici per i musulmani sono legati più a questioni igieniche che non strettamente spirituali.

E la data del 25 dicembre per la Chiesa di Roma è una data molto speciale. Se Sheldon Cooper di The Big Bang Theory preferisce che si ricordi la nascita di sir Isaac Newton, quando il Cristianesimo iniziò a diffondersi liberamente a Roma, dopo la fine della persecuzione dei suoi fedeli, si dovette iniziare a decidere una serie di ricorrenze importanti. Una di queste era la nascita di Gesù: secondo alcuni c’è una teoria, e cioè che il 25 dicembre sia stato scelto perché molto vicino al solstizio di inverno e quindi alle festività del Sol Invictus. Ma si tratta appunto solo di una teoria, dato che il Natale, secondo altri studiosi, avrebbe avuto una genesi indipendente che nulla ha a che fare con il culto del Sole.

Secondo la storia raccontata da Luca nel suo Vangelo, questa è la nascita di Gesù:

"In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell’albergo".

Il 25 dicembre è inoltre una data importantissima nella religione ebraica, che poi era quella di Gesù, di Giuseppe e della Madonna. In questo giorni si festeggia infatti Chanukkàh, ovvero la Festa delle luci: con essa viene ricordata la consacrazione del nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme dopo l’emancipazione dagli Elleni. La sera del 24 dicembre, si accendono le candele che devono ardere per oltre una settimana.

Come nasce la tradizione

La tradizione del Natale nasce a Roma, e si stima risalga alla metà del III secolo (nel 354 papa Liberio fissò la data del 25 dicembre per la nascita di Cristo), anche se tuttavia esistono delle testimonianze scritte che la retrodatano di circa 50 anni. Nella stessa epoca sorsero comunque tradizioni natalizie ad Alessandria d’Egitto, per poi giungere in altri luoghi come Cipro, l’Armenia, l’Anatolia e poi Israele.

Molto più recenti sono invece le consuetudini relativi al presepe e all’albero di Natale. Il primo presepe lo si fa infatti risalire al patrono d’Italia, san Francesco d’Assisi, che nel 1223 realizzò quello che è oggi il celeberrimo presepe di Greccio con le raffigurazioni del bue e dell’asinello.

Se il primo presepe è umbro, furono però i napoletani a renderlo un fenomeno di massa folkloristicamente interessante. Le prime raffigurazioni napoletane risalgono infatti al XVI secolo: per questa ragione ancora oggi molti presepi riproducono le fattezze di uomini e donne italici cinquecenteschi, e gli ambienti ricordano Napoli, con tanto di montagne e talvolta anche il golfo. Nel XVIII secolo invece sorsero altre tradizioni regionali in Italia ugualmente interessanti, da Roma a Bologna.

Il primo albero di Natale dovrebbe essere invece stato addobbato a Tallin in Estonia nel 1441. Si stima che l’usanza sia legata anche in questo caso a culti pregressi, come quello germanico di Odino, dato che in effetti la diffusione degli abeti natalizi è avvenuta in maniera massiva nella Mitteleuropa.

Ecologico, provocatorio, artistico la tradizione dei presepi da Nord a Sud. Nicola Santini su L’Identità il 28 Dicembre 2022

Una tradizione secolare, che fa da trait d’union tra l’uomo e il divino. La rappresentazione della nascita di Cristo che si completa con l’arrivo dei Re Magi da sempre scatena la creatività e l’inventiva di artigiani e appassionati di ogni epoca. Piazze, chiese, spazi espositivi trasformano la loro vocazione naturale per accogliere paesaggi, pastori, case rurali, pecore e simboli che talvolta lasciano spazio a messaggi di attualità da mescolare con la storia, la cultura e il momento. Una macchina del tempo che muove visitatori da ogni dove, pellegrini, fedeli e semplici curiosi. Fino al 7 gennaio i presepi sono esposti in ogni città rappresentando una visione della natività di Gesù bambino reinterpretata di anno in anno. L’Identità ha selezionato tre installazioni per originalità, gusto e posizione geografica che meritano un viaggio da nord a sud, per un itinerario di fede, artigianato, creatività. A Frigento, in Irpinia, il grande Presepe della Misericordia domina la piazza Frontespizio (a sinistra). Non un semplice Presepe, ma un capolavoro artigianale già commissionato dall’Abbazia di Montevergine e allestito in piazza San Pietro a Roma nel 2017, l’anno della misericordia voluto da Papa Francesco. Artefici delle opere presepiali gli artigiani della Bottega Cantone e Costabile di Napoli, che hanno preso ispirazione da uno dei più grandi capolavori di arte barocca: “le sette opere di misericordia” del Caravaggio. Provocatorio, e al contempo un invito alla riflessione, il presepe ambientato a Bucha, la città ucraina al centro dei conflitti, così vicina a noi. Si trova a Firenze negli spazi del Rivoli Boutique Hotel (foto al centro). Aperta al pubblico a ingresso gratuito, per la 11a edizione, la Mostra dei Presepi quest’anno si arricchisce di nuovi simboli e di un messaggio di pace negli oltre 30 presepi di varia grandezza. Questa mostra, fortemente voluta da Gianni Caridi, classe 1933, albergatore di lungo corso, fiorentino doc, invade gli spazi comuni dell’Hotel, che nasce come convento delle suore Canossiane. Caridi si innamora dei presepi originali, ognuno un pezzo unico, come vuole la tradizione dell’artigianato, realizzati da un altro giovane, come lui, oltre 10 anni fa. Da lì l’idea della mostra, che, di anno in anno, chiama sempre più visitatori.

Ecologico, con richiami storici, che inneggia all’operosità del Carso e alla bellezza della sua natura aspra e vorace, quello allestito ad Aurisina (foto a destra), nella chiesa di Slivia, realizzato in totale ecosostenibilità, senza l’ausilio di materiali acquistati. Le figure sono tratte da pietre di calcare carsiche grezze dalle forme antropomorfe o che richiamano gli animali. E poi pezzi di legno, ceppaie, muschio, rami di pino dei boschi del luogo con i quali sono riprodotte figure come lo zopolo, antica imbarcazione locale.

Sara Ricotta per “La Stampa” il 24 dicembre 2022.

Non c'è bisogno di essere presepisti militanti per regalare e ricevere un libro come questo. Certo, si intitola Il presepe (Il Mulino, pp. 290, 16) e ha un inserto di foto a colori che portano subito a san Gregorio Armeno e al suo megaminimondo, ma il testo di Marino Niola e Elisabetta Moro lo racconta come un personaggio e fa di questa lettura un vero romanzo del presepe.

Che nasce in povertà a Greccio, cresce elegante nelle corti del Rinascimento e si fa sontuoso in quelle barocche; fino a diventare status symbol nelle dimore borghesi dove crea miti domestici e consente di mostrare gusto e ricchezza nelle scenografie e nello sfarzo di statuine come i re Magi. Il presepe è storia sociale, dunque, ma anche «teologia in dialetto». Napoletano, s' intende, visto che la sua «domesticazione» che lo ha portato dalle chiese alle case è iniziata nel Settecento nel Regno del Vesuvio.

È lì che è partita anche la sua «folklorizzazione», quando accanto a Sacra famiglia, pastori e Magi compaiono personaggi come il dormiente, lo stupefatto e, dalla Spagna, il «cagador» che non necessita di traduzione. Non a caso - ricordano gli autori - Papa Francesco nella sua Admirabile signum parla del presepe come di un «Vangelo vivo dove si intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c'è spazio per tutto ciò che è umano». 

Quindi negli anni si aggiungono i politici (Bassolino il primo), calciatori e star (ultimi i virologi), tanto che comparire sulle bancarelle di san Gregorio Armeno è un po' come essere persona dell'anno su Time. Niola e Moro entrano con seria ironia in questo teatro profano del sacro e ci fanno notare l'acribia «miracolosa, ai limiti del trompe-l'oeil» con cui sono riprodotti oggetti, verdure, animali, montagne e fiumi come quelli di Eduardo-Luca Cupiello «che, come un Vanvitelli in minore, arricchisce il suo presepe di una cascata "come Dio comanda".

Salvo il particolare che ad alimentare le rapide è un clistere...». Tantissime le citazioni e mai banali, ma qui c'è spazio per pescarne solo due: dello storico Gregorovius che definisce i figurinai «creatori di divinità per il popolo»; e di Manganelli per cui «il divino miniaturizzato ha la medesima statura della sua totalità». E alla fine di quasi 300 pagine dotte e divertenti, i ringraziamenti vanno «A Gesù, Giuseppe e Maria: senza di loro tutto ciò non sarebbe mai nato».

Serena Coppetti per “il Giornale” il 26 Dicembre 2022.

Sono passati esattamente 799 anni, da quando San Francesco d'Assisi allestì quello che è diventato il primo presepe della storia. Una mangiatoria, un po' di paglia, la grotta con il bue e l'asino e tutt' intorno le fiaccole e gli abitanti di Greccio, il borgo di pastori (reali) in provincia di Rieti. Era la notte di Natale del 1223. Francesco era appena tornato da un pellegrinaggio in Terra Santa e s'era messo in animo di «far memoria del Bambino che è nato a Betlemme e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi per la mancanza delle cose necessarie a un neonato», come scrisse fra Tommaso da Celano nella prima biografia del santo approvata nel 1229. Francesco a novembre aveva ricevuto la bolla pontificia per la sua «regola», motivo in più per «osare» nella richiesta a Papa Onorio III di poter inscenare la rappresentazione della natività in quella grotta a Greccio che gli ricordava Betlemme. 

Da allora sono trascorsi otto secoli e il Presepe è entrato nelle case di tutti gli italiani, ha oltrepassato i nostri confini toccando tutte le latitudini, si è popolato di personaggi, belli, brutti, buoni e meno buoni, veri, finti, antichi e contemporanei, si è vestito di carta e cartapesta, di stagnola, di fontane, fiumi, stelle, angeli, pastori e decine di animali. Ed è mutato non solo nella sua messa in scena, ma nella sua essenza: da rappresentare la natività è diventato la rappresentazione dell'umanità. 

«Da oggetto esclusivamente religioso, la rappresentazione della nascita di Cristo è diventato un teatro del sacro, una scenografia di moltitudini dove si fondono e si confondono soggetti sacri e soggetti profani», come sottolineano nel libro appena uscito «Il Presepe» scritto a quattro mani da Marino Niola, docente di Antropologia dei simboli e Antropologia della contemporaneità all'Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e da Elisabetta Moro, professore di Antropologia culturale nella stessa università. 

Un libro che è un viaggio che parte da Betlemme, tocca Greccio e il suo presepe immortalato da Giotto nella Basilica Superiore di Assisi e scolpito 70 anni dopo da Arnolfo di Cambio, nel 1291, in quelle prime otto «statuine» che sono il più antico presepe tridimensionale giunto fino a noi, oggi visitabile nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, dove sono conservate tra l'altro anche alcune reliquie della mangiatoia in cui sarebbe venuto alla luce Gesù. 

Da lì si allarga nel centro Italia, si allunga nel Cinquecento con le Natività Rinascimentali dei fratelli della Robbia (nel Duomo di Volterra, in San Marco a Firenze e Santo Spirito a Siena) o quella di Rosellino ora al Metropolitan Museum. La lista sarebbe ancora lunga ma ha sempre una caratteristica comune: sono tutte rappresentazioni «del nucleo sacro della Natività che escludono ogni scena di carattere mondano», precisano gli autori nel libro. Tant' è vero che sono tutte opere collocate fino a questo punto della storia in luoghi di culto. Sono presepi «noti soprattutto ai devoti nonché alla ristretta cerchia dei conoscitori d'arte». Ed è così finché non arriva a Napoli. 

E lì, nel '700 avviene la sua «domesticazione». Il presepe esce dalle chiese, scende nelle strade, si sporca le mani con la vita di tutti i giorni e la capanna del Bambin Gesù diventa il centro di una scena in continua mutazione. La «dimensione sociale» a poco a poco finisce per soverchiare quella religiosa.

Nel 1765 Napoli è ormai nota in tutta Europa come la capitale dei presepi. E tale è rimasta. Calzolai, falegnami, re neri, donne di malaffare, osti, venditori ambulanti, giocolieri, biscazzieri, pizzaioli, angeli, monacelli sopravvivono accanto ai vari Maradona, Totò, Madre Teresa di Calcutta, Lady Diana e, ora, persino ai Maneskin. C'è il passato e il presente. C'è il bene e c'è il male «perché questo significa far entrare la vita di Gesù nelle nostre vite - commenta Marco Ferrigno che costruisce i pastori da una vita -. Non ci sono persone o luoghi che non possono stare dentro al presepe». Questa è la vera rivoluzione partenopea che finisce per contagiare tutta Europa. In Spagna ad esempio uno dei personaggi più amati è il cagator conosciuto anche come el cagòn del belén cioè «il cagone del presepe». Di sottinteso c'è poco: pantaloni abbassati, posizione accovacciata, deiezioni in bella mostra, con l'angelo celestiale che guarda tutti dall'alto. 

E da noi? Ogni luogo trasforma la Galilea a sua immagine e somiglianza. Ogni paese ne fa lo specchio di se stesso. Ma in continua mutazione, con accostamenti anche azzardati che però, tra muschio e montagne di carta mai risultano non tollerabili. Fianco a fianco tra una pecora e l'altra ci sono soggetti che neanche stanno nello stesso tempo né nello stesso spazio. Personaggi appartenenti a epoche diverse come il prete che celebra la messa, il cacciatore con il fucile quando ancora non era sta neanche inventata la polvere da sparo, il pizzaiolo con la pala, la dama vestita alla moda parigina. Il presepe va sempre avanti, alimentando le contraddizioni, con la sua umanità indifferente, nelle sue faccende affaccendata, e i poveri pastori in adorazione.

Oggi, accanto a quelli della tradizione ci sono volti dell'attualità ma ora è possibile anche farsi fare il pastore con la propria faccia e posizionarsi accanto ai personaggi senza i quali un presepe non è un presepe. Quali? Primo fra tutti «Benino», il dormiente che non può essere svegliato perché sta sognando proprio il presepe. E guai a destare questo sogno. Sparirebbe la magia del presepe e forse anche il presepe stesso... Viene rappresentato un po' infreddolito, sotto una piccola capannina, chi lo fa giovane, chi più vecchietto, chi di mezza età, ma sempre circondato da 12 pecorelle bianche che rappresentano i 12 mesi dell'anno, «cioè il presepe nella sua interezza annuale», racconta il presepaio Ferrigno.

Benino c'è sempre stato, fin dal '700, c'era già nel presepe di Cuciniello, il più «colto» e il più famoso al mondo, conservato nella Certosa di San Martino a Napoli. Benino è così importante, ed è così fondamentale che non si svegli che vicino a lui non può mancare Armenzio, il vecchio padre, che veglia sul sonno del figlio. Immancabile è anche il cosiddetto «Pastore della meraviglia», l'unico che va a far visita alla Madonna a mani vuote, senza un dono, solo con una lanterna e la bocca spalancata.

Ma Maria, come spiega Ferrigno, secondo la tradizione, si rivolgerà a lui dicendo che il mondo sarà meraviglioso finché ci saranno persone come lui in grado di meravigliarsi. Nel presepe napoletano la tradizione vuole anche «Ciccibacco», seduto su un carro di buoi che trasporta il vino ed è un po' il dio del vino che ha la funzione di collegare il mondo dei viventi al mondo divino. Per questo sta su un ponte, altro oggetto imprescindibile, così come la taverna con l'oste dalla faccia arcigna, la personificazione del Male, tra carni appese, donne che ballano, uomini che suonano, in un luogo dove sono rappresentati tutti i vizi, dove il «materiale» si contrappone allo spirituale, dove l'oste vuole impedire agli uomini di accorgersi di quello che sta accadendo poco più in là.

Più in là dove invece non può non esserci «Stefania» che sarebbe riuscita ad arrivare al cospetto della Madonna, anche se la visita era consentita solo alle donne sposate e con figli e lei non era né l'una né l'altra. «Stefania - racconta Ferrigno - raccoglie un sasso, lo fascia come fosse un neonato, e non solo raggiunge Maria ma è lei a soccorrerla nei primi momenti dopo il parto. È talmente brava e talmente gentile che il giorno dopo il sasso starnutirà... Da lì la tradizione di Santo Stefano il giorno dopo Natale». Poi c'è Donna Carmela con pane, vino e uova, simboli della prosperità, e ci sono i 12 mestieri, che rappresentano i 12 mesi dell'anno, come il castagnaro a simboleggiare novembre e il pescivendolo agosto. C'è e continuerà ad esserci la storia e l'attualità, in un intreccio che non relega mai il presepe nel passato.

Ierofanie borghesi. L’obbligo estetico e affettivo del Presepe nel nostro panorama domestico. Marino Niola e Elisabetta Moro su L’Inkiesta il 24 Dicembre 2022

La cosiddetta “media nobiltà” era solita esibirlo allo scopo di competere con le famiglie del vicinato o di esibire i gioielli di famiglia. Rappresenta a tutti gli effetti un’eredità materiale e immateriale. Elisabetta Moro e Marino Niola illustrano la storia, le usanze, i costumi, i vizi legati a questo rito antichissimo

«Il presepe era, in specialità, una devozione ed una magnificenza della nostra borghesia» [Proto 1889, 55]. È un passo tratto dalla prolusione letta da Francesco Proto, duca di Maddaloni, grande collezionista nonché esperto di arte presepiale, all’Accademia Pontaniana il 3 gennaio 1889 e dedicata alla storia di questa tradizione.

In effetti, lo stretto legame del presepe con la svolta della devozione tardoseicentesca in senso intimistico, familiare, domestico è uno dei riflessi del nuovo protagonismo sociale e culturale della borghesia. Gli storici sono generalmente concordi nel considerare quella presepiale una tradizione prevalentemente borghese. Le collezioni più celebri, di cui ci restano le descrizioni ammirate dei viaggiatori, costituivano il vanto delle ricche dimore dei particulari.

Sono valori tipicamente borghesi come la domesticità, come il culto della famiglia, come l’orizzonte sociale e religioso che determinano l’affermarsi del presepe inteso come fatto privato, come intimità parentale, al punto da dar vita a una forma collettiva, un’espressione obbligatoria del sentimento, destinata ad avere lunghissima durata.

Una sorta di altare domestico, un larario familiare. È nell’investimento affettivo ed economico sulla casa da parte della nascente borghesia e della media nobiltà (quella per nomina e non per stirpe) che si pongono le basi della completa affermazione del presepe casalingo. A partire dalla seconda metà del Seicento, infatti, è lo spazio domestico a costituire la cornice rappresentativa dell’ascesa sociale ed economica dei ceti emergenti [Borrelli 1970, 46].

Ogni casa e palazzo «gareggia di rappresentare il detto Mistero della Sacra Nascita in varie fogge espressive e tal volta per la materia splendente e sontuosa» [ibidem]. Nelle parole del padre Presepio Presepi si riflette, oltre alla crescente e trasversale diffusione della tradizione, anche un indiscutibile primato napoletano.

Tra i grandi borghesi si instaura una competizione suntuaria, la cui posta è la costruzione di un presepe sempre più sfarzoso al fine di accrescere il soft power della famiglia. Molti collocano la scenografia della Natività sulle terrazze dei palazzi, perché l’inserimento nel paesaggio reale della scenografia costruita crei effetti illusionistici.

In una bella pagina del Viaggio in Italia Goethe parla di un sontuoso presepe allestito su un terrazzo, un vero spettacolo «cui conferisce una nota di grazia incomparabile lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni» [Goethe 1980, 339; Richter 2012]. E Samuel Sharp nel 1766 descrive il presepe di «un commerciante che ha in casa uno di quei presepi il quale, aperto da un lato, finge così bene la prospettiva che il paese e le montagne che si vedono in distanza ne divengono una continuità e sembrano far davvero parte del presepe stesso [Sharp 1911, 107].

Particolarmente cospicuo è l’investimento economico e d’immagine sugli abiti e sugli oggetti preziosi di cui molti ricchi borghesi sogliono ornare i pastori, soprattutto i Re Magi con il loro sontuoso seguito di mori, circassi, georgiane. Con l’effetto di trasformare la visita al presepe in un’occasione per esibire i gioiellidi famiglia. Non è casuale che un tale confronto ostentatorio tra i gruppi della borghesia emergente avvenga proprio a Napoli che, nel Settecento, è la città europea dove maggiore era l’investimento in oro e argento lavorati e in pietre preziose.

Il conte Giuseppe Gorani, avventuriero milanese al servizio del governo rivoluzionario francese, rileva con accenti illuministicamente moralisti il lusso stravagante quanto eccessivo delle collezioni, che egli giudica senza ombra di dubbio le più belle di tutto il mondo cattolico. E conclude: «questo gioco da cappella eccita la cupidigia; e le spese che si fanno a tale scopo, lungi dall’essere perdute, costituiscono dei profitti notevoli per il costruttore» [Gorani 1793, 22].

In effetti, l’aristocratico coglie perfettamente, nella pratica, una spesso sottostimata ratio calcolante – in cui Theodor Adorno scorge un tratto tipicamente borghese – che dà al gioco della devozione le forme profonde di un tempo e di un ceto sempre più mobili. In tal senso va letta la considerazione dello storico del Rinascimento Romeo De Maio, secondo cui il presepe settecentesco ha sempre meno in comune con l’intensa e drammatica pietà delle rappresentazioni rinascimentali della Natività, come quelle di Pietro e Giovanni Alamanno in San Giovanni a Carbonara, di Antonio Rossellino in Sant’Anna dei Lombardi o di Giovanni da Nola in Santa Maria del Parto.

Perché, in realtà, nella spettacolare macchina festiva partenopea, più che il cammino del Verbo verso gli uomini e degli uomini verso il Verbo – ovvero il mistero dell’Incarnazione – si esprimono i temi, i tipi e perfino le mode della vita sociale del tempo. Nella proliferante folla di statuine sono ravvisabili le tracce di fenomeni culturali e sociali come «l’opera buffa, il nuovo ordine cavalleresco di S. Gennaro, la moda dello “struscio”, ben evidenti nelle vesti dei Re Magi e delle dame, l’iconografia controriformistica e gli scavi di Ercolano» [De Maio 1971, 378].

Tale diffusione indica, di fatto, una secolarizzazione, almeno parziale, del presepe nel secondo Settecento. In effetti, lo scopo degli artisti era quello di porre in evidenza la vita cittadina «accantonando l’episodio natalizio» [Mancini 1983, 184]. Sta di fatto che il dinamismo sociale proprio della borghesia è una delle ragioni culturali, sociali ed economiche della sempre più larga diffusione del presepe. Anche per un effetto di emulazione. Come testimonia Samuel Sharp, a Napoli non solo i signori fanno il presepe: «tutta la povera gente che non ha un presepe ne compra di questi mesi uno di picciol conto e a buon prezzo: se lo mette in casa, lo conserva con tutte le cure e lo fa durare per secoli» [Sharp 1911, 105].

Siamo nel 1765 e Napoli è ormai nota in tutta Europa come la capitale dei presepi. In un secolo la città delle liquefazioni miracolose, che nel 1632 le valgono l’appellativo di urbs sanguinum da parte dello scrittore e diplomatico francese Jean-Jacques Bouchard, cambia radicalmente. E la città dei sangui diventa la città dei presepi. Di fatto, l’immaginario europeo elabora una nuova convenzione rappresentativa dell’identità religiosa partenopea. Se in età barocca la fama del sangue dei santi, rosseggiante nelle teche, tingeva di bagliori vividamente penitenziali l’immagine della città, nel secolo delle Utopie la nascita gloriosa del «Dio Infante» getta sulla capitale di Carlo III il chiarore solare dei Lumi.

In realtà, come diceva il duca di Maddaloni, non si videro mai tanti presepi a Napoli come nel secolo della Filosofia. Ogni casa ha il suo. La modesta borghesia, il paglietta, ossia l’avvocaticchio, l’artigiano, il pescatore si accontentano di pochi pastori raggruppati su un minuscolo scoglio gelosamente custodito dietro il vetro verdognolo della scarabattola, la modesta vetrinetta poggiata sul cassettone o appesa al muro a guisa di tabernacolo.

Molto spesso la scarabattola è il più bel mobile di quelle case modestissime. Fatto di casa e fatto di famiglia, di luogo e di tempo, sullo sfondo del presepe si disegna e si conserva la memoria genealogica delle grandi stirpi come delle famiglie comuni. Si afferma cioè l’idea del presepe come posta di un’eredità materiale e immateriale, come deposito dei sacra familiari che si accresce con le generazioni, con l’effetto di una progressiva ancestralizzazione della macchina mitico-rituale in cui la Natività diventa paradigma sacro della continuità del gruppo, del suo farsi e disfarsi attraverso le nascite e le morti, ma anche del suo rifarsi come ricordanza.

Che è poi l’essenza di un’architettura della durata come è quella della festa, che intreccia sempre irreversibilità e reversibilità. E all’immagine del tempo che scorre sovrappone quella del tempo che ricorre. Lo testimoniano le parole di Antonio Perrone, un ricco commerciante che nel 1896 stende un’importante rassegna dei presepi più famosi della città, compreso il proprio, dove racconta di come esso abbia preso l’avvio dalla piccola collezione costituita dai suoi antenati e sia stato gradualmente ampliato dalle generazioni successive [Perrone 1994, 36-37]. Dal racconto del facoltoso collezionista emerge l’idea di una stratificazione temporale e familiare, di una storia cumulativa del presepe.

Il presepe, Marino Niola, Elisabetta Moro, Il Mulino, 240 pagine 16 euro

Te piace ‘o Presepe? Report Rai. PUNTATA DEL 09/01/2023 di Giorgio Mottola

Collaborazione di Norma Ferrara

Una vera e propria faida tra due Comuni in provincia di Rieti per l'allestimento del presepe più prestigioso.

In provincia di Rieti è nata una vera e propria faida tra due comuni per l’allestimento del presepe più prestigioso di tutti: quello in piazza San Pietro in Vaticano. Per il presepe del 2023, Governatorato e Segreteria di Stato avevano inizialmente scelto il comune reatino di Contigliano, che si era proposto nel 2019. Ma due anni dopo si è sollevato il paese confinante, Greccio, che ha reclamato il diritto a occuparsi dell’allestimento in quanto patria del primo presepe a cui diede vita San Francesco d’Assisi nel 1223. Ne è nata una contesa senza esclusione di colpi che ha contrapposto sindaci contro altri sindaci, vescovi contro giunte comunali e cardinali costretti a schierarsi con l'una o l'altra parte. Uno scontro diventato particolarmente aspro dopo l'approvazione di un finanziamento ministeriale di quasi 4 milioni di euro per le celebrazioni dell’ottavo centenario del primo presepe di San Francesco.

Te piace “‘o presepio”? di Giorgio Mottola collaborazione Norma Ferrara immagini di Carlos Dias montaggio di Giorgio Vallati

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il presepe è il Vangelo tradotto in dialetto, secondo l’antropologo Marino Niola. Sarà per questo che a Napoli, dove il dialetto è ancora lingua vivissima, la tradizione dei presepi è più forte che in qualsiasi altra parte d’Italia. Qui operano i più grandi maestri presepisti viventi, come Salvatore Scuotto, che insieme alle sue sorelle e ai suoi fratelli da quasi trent’anni costruisce alcuni tra i presepi più belli del mondo.

GIORGIO MOTTOLA Per lei che cos’è il presepe?

SALVATORE SCUOTTO - MAESTRO PRESEPISTA È un mezzo di espressione potentissimo, è lo strumento che può consentire di raccontare la vita così com’è, tutta insieme, con il bene e con il male.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E bene e male, vizi e virtù coesistono nel presepe donato alla Basilica del rione sanità di Napoli dalla bottega del maestro Scuotto. Si chiama presepe favoloso ed è la sua opera più importante. La natività annunciata da un angelo nero è circondata da scene di osteria, mostri e figure mitologiche tratte dalle favole napoletane.

SALVATORE SCUOTTO - MAESTRO PRESEPISTA Lei è mamma sirena, una gorgonia cattiva, tra virgolette, che rapisce le vergini che osano mettere il piede nelle acque incantate.

GIORGIO MOTTOLA Nel presepe favoloso non può mancare Maradona vestito da scugnizzo, accanto a scorci di vita quotidiana come questo: una donna raffigurata nell’attimo sospeso della natività, mentre si fa il bagno. Una statua che quando venne esposta in una chiesa di Roma generò un grande scandalo tra le gerarchie ecclesiastiche.

SALVATORE SCUOTTO - MAESTRO PRESEPISTA Ahimè, il parroco poi tolse la scultura.

GIORGIO MOTTOLA Addirittura, venne censurata la statua.

SALVATORE SCUOTTO - MAESTRO PRESEPISTA Venne censurata, lui al telefono mi disse che si precipitavano in chiesa tante persone che a un certo punto dovevano chiamare i carabinieri per farli uscire fuori perché non riuscivano ad officiare e quindi fu costretto a togliere questo elemento diciamo di confusione.

GIORGIO MOTTOLA Come nella canzone di De André, Bocca di rosa, i carabinieri vennero e si portarono via di peso la statua della donna nuda…

SALVATORE SCUOTTO - MAESTRO PRESEPISTA Esatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il presepe consente di raccontare i personaggi e la vita nella sua rappresentazione anche del bene e del male. Ma anche quello che ruota intorno alla realizzazione di un presepe, personaggi compresi, può essere raccontato nella rappresentazione del bene e del male. Buonasera, “Te piace ‘o presepe?" era la domanda che Lucariello poneva ossessivamente al figlio Tommasino che rispondeva “no, non me piace”, per non dare soddisfazione al padre. Era l’indimenticabile commedia “Natale in casa Cupiello” dell’indimenticabile Edoardo De Filippo. Ora invece la storia che raccontiamo questa stasera, anche se reale, sfiora la commedia: ed è quella che hanno messo in scena due comuni, Greccio e Contigliano, entrambi della provincia di Rieti, che hanno aperto una vera e propria faida per realizzare il presepe più prestigioso al mondo, quello di piazza San Pietro in Vaticano, quello del 2023. Nel 2019 la Segreteria di Stato e il Governatorato hanno dato l’ok a Contigliano, anche perchè aveva presentato un presepe dall’idea della povertà ed era piaciuto molto. Poi però si è infilato dentro Greccio. Greccio si è ingelosito anche se fino a quel momento non si era occupato della vicenda, poi però ha calato il jolly. Perché a Greccio, nel lontano 1223, San Francesco ha realizzato il primo presepe della storia, il presepe vivente, proprio 800 anni fa. In occasione dell’Ottavo Centenario si è istituito anche un comitato a Greccio che è stato finanziato dal ministero dei Beni Culturali per 3 milioni e 900 mila euro. Questi soldi pubblici hanno anche alimentato il desiderio di Greccio di realizzare il presepe. In mezzo si è messo un vescovo famoso a cui piace il presepe, forse anche troppo, e il maestro presepista che è diventato il pomo della discordia. Il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come tutti gli anni, subito dopo l’Epifania, le decorazioni natalizie insieme ai presepi vengono riposte nelle scatole e messe da parte. Una tradizione rispettata anche in Vaticano, dove stamattina è stato smontato il presepe più prestigioso di tutti, quello ospitato in piazza San Pietro. Vista la sua enorme importanza simbolica, ogni anno centinaia di comunità cattoliche di tutto il mondo provano ad aggiudicarsi il suo allestimento. Se nel 2021 furono selezionati presepisti provenienti addirittura dal Perù, lo scorso Natale è toccato al comune friulano di Sutrio il privilegio di donare al Papa un presepe intagliato nel legno della Carnia.

MANLIO MATTIA - SINDACO DI SUTRIO (UD) - 3 DICEMBRE 2022 Questa sera ho il grandissimo onore di rappresentare la comunità di Sutrio e le vallate della Carnia a cui è stata concessa l’opportunità di allestire il presepe qui in questa piazza, simbolo della cristianità nel mondo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le comunità locali si propongono innanzitutto per devozione nei confronti del Santo Padre, ma gli alti rappresentanti istituzionali, soprattutto se politici, mettono volentieri in conto anche la visibilità e il prestigio internazionale che deriva dal vedersi assegnato un così alto compito in grado di attirare munifici e volenterosi sponsor privati.

MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA - 3 DICEMBRE 2022 Prima di tutto voglio portare i ringraziamenti della Regione Friuli Venezia Giulia a sua eminenza presidente del Governatorato per averci fatto l’onore di poter esporre un’opera frutto dell’ingegno e della manualità della nostra terra.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è quindi impresa assai ardua comprendere se si celi un eccesso di sincera devozione o qualche interesse molto più terreno dietro la contesa nata per l’allestimento del presepe in piazza San Pietro nel 2023, che in provincia di Rieti ha scatenato sindaci contro altri sindaci, vescovi contro giunte comunali e opposte fazioni di monsignori e porporati a tifare per l’una o per l’altra parte in causa.

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) La provincia di Rieti non aveva mai partecipato a questa rappresentazione. E quindi mi hanno detto perché non chiedi. Ho fatto questa richiesta al Governatorato della Santa Sede e un mese dopo, nel fine settembre 2019, la Segreteria di Stato ha designato Contigliano per il presepe di Piazza San Pietro dell’anno 2023.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2019, il Governatorato, vale a dire l’organismo che si occupa degli affari interni della Città del Vaticano, ha scelto per l’allestimento del presepe del 2023 il comune di Contigliano. Un paese di ottomila anime della provincia di Rieti, situato nel cuore di quella che viene definita la Valle Santa per la presenza di quattro importanti santuari dedicati a Francesco d’Assisi, che in questa zona si stabilì per diversi anni. Qui dispensò miracoli e scrisse la Regola, sui cui si fonda l’ordine francescano.

GIORGIO MOTTOLA Che tipo di presepe avevate in mente?

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Il verde, innanzitutto, con degli alberi veri e le acque. Un progetto che fosse rappresentativo esteticamente di quelli che sono i valori principali della provincia di Rieti. GIORGIO MOTTOLA Ma questo presepe quanto sarebbe costato al suo comune e ai contiglianesi?

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Al comune niente. Si pensava a una realizzazione fatta mediante sponsorizzazioni ma anche a una realizzazione diciamo povera, nel senso che, per esempio, questa grande composizione di verde sarebbe stata prestata da un vivaio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comune di Contigliano presenta presto un bozzetto ufficiale del presepe al Governatorato e stima intorno ai 40mila euro il costo complessivo dell’opera. La raccolta fondi tra gli sponsor procede spedita ma l’assegnazione non va affatto giù al comune confinante, vale a dire Greccio, che è per antonomasia il paese del presepe. Qui, nella grotta situata all’interno di questo santuario, ottocento anni fa San Francesco diede vita al primo presepe della storia con figuranti in carne e ossa. Per questa ragione Greccio vive l’investitura vaticana di Contigliano come un affronto.

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Per qualche motivo sempre che mi sfugge a nessuno era venuto in mente nei decenni precedenti di chiedere di fare ‘sta rappresentazione a piazza San Pietro, avrebbero potuto farla in qualsiasi anno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Due anni dopo la designazione Vaticana di Contigliano, il comune di Greccio si solleva e fa presente che il 2023 ricorre l’ottavo centenario del primo presepe realizzato da San Francesco, proprio nel comune reatino. E quindi, il più titolato ad organizzare l’istallazione presepiale in piazza San Pietro non può che essere Greccio. In questo modo nasce una guerra tra campanili, senza esclusione di colpi.

GIORGIO MOTTOLA È nata una faida tra il suo comune e quello di Contigliano per allestire questo presepe?

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Oddio, addirittura? Non pensavo. Sicuramente non è la parola che assocerei di più al presepe, soprattutto al presepe di pace che è il presepe di Francesco.

GIORGIO MOTTOLA Però anche questi litigi per un presepe di pace non sono così adatti.

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 No, io penso che a non farci una bella figura è chi ritiene il presepe un bene, diciamo, di proprietà di qualcuno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il problema però è che anche Greccio sembra ritenersi proprietaria del presepe e così, dopo mesi di schermaglie e attraverso i giornali locali, il sindaco di Contigliano tende un ramoscello di olivo in segno di pace al primo cittadino di Greccio.

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Io mi sono anche rivolto anche ufficialmente all’intero comitato eccetera dicendo di far diventare questo presepe un patrimonio diciamo così di tutti.

GIORGIO MOTTOLA Lei era disposto a mettere da parte il nome di Contigliano e dice facciamolo insieme con un’etichetta comune?

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Assolutamente sì, assolutamente sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma il sindaco di Greccio rifiuta la proposta della giunta contiglianese e a mezzo stampa ribadisce: spetta a noi fare il presepe.

GIORGIO MOTTOLA Non potevate farlo insieme a Contigliano questo presepe?

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Guardi, in realtà il presepe… qui non è un problema di Greccio, né un problema di Contigliano.

GIORGIO MOTTOLA Il sindaco di Contigliano ha detto: io faccio un passo indietro, non è più il presepe di Contigliano, diventa il problema di tutti quanti, però voi avete detto: no, deve essere il comitato Greccio.

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Ho detto semplicemente che il comitato mesi prima aveva, diciamo, deliberato e deciso o accettato, mettiamo così, la proposta della diocesi di chiedere una collaborazione del comitato che è appunto il comitato Greccio 2023.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comitato Greccio 2023, presieduto dal sindaco Fabi, è stato istituito due anni fa dal ministero dei Beni Culturali per le celebrazioni dell’ottavo centenario del primo presepe di San Francesco. A questo scopo, con emendamento alla manovra finanziaria del 2021, sono stati stanziati al comitato tre milioni e 900mila euro e da quel momento la contesa si è fatta più aspra. La scorsa estate, sebbene Contigliano avesse la benedizione del Vaticano, il Comitato Greccio scrive in un documento ufficiale di aver ricevuto l’incarico di co-produrre il presepe in piazza San Pietro dal vescovo di Rieti, Domenico Pompili.

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Il vescovo mi chiamò per dirmi che si era rivolto al Governatorato, me lo disse lui, con una lettera nella quale chiedeva che fosse revocata la designazione di Contigliano.

GIORGIO MOTTOLA Quindi il vescovo in Vaticano chiede la revoca a voi per assegnarla a Greccio?

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Esatto, per assegnarla Greccio. Quindi io mi trovo da quel momento in poi in una situazione di grande imbarazzo perché da un lato continuo ad avere questa designazione a fare il presepe, d’altra parte non ho più o forse non ho mai avuto l’assenso e la partecipazione attiva che io avevo chiesto naturalmente al vescovo in modo particolare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla richiesta del vescovo di Rieti di revocare la nomina di Contigliano, il Governatorato oppone inizialmente un diniego. Ma monsignor Pompili non si dà per vinto e per mesi continua a fare pressione sui cardinali della città del Vaticano, comportandosi come se spettasse a lui organizzare il presepe del 2023.

GIORGIO MOTTOLA Il presepe di Francesco è il presepe di pace, giusto?

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Infatti.

GIORGIO MOTTOLA Però è scoppiata una piccola guerra, lì in provincia di Rieti.

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Quale sarebbe il problema?

GIORGIO MOTTOLA Inizialmente era stato assegnato a Contigliano l’allestimento di questo presepe,e poi però è nata una piccola polemica, che diciamo nasce un po’ anche da lei, perché inizialmente lei si complimenta con il sindaco poi però chiede la revoca.

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 In realtà il comune di Contigliano aveva preso questa iniziativa in solitaria per quello che io ne so, invece io mi sono limitato…

GIORGIO MOTTOLA E la segreteria di Stato aveva dato l’assegnazione.

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Le polemiche però come le ripeto nascono da una situazione di chi ha voluto, non si capisce per quale ragione, intestardirsi a fare una proposta che secondo me non era nella logica delle cose.

GIORGIO MOTTOLA Che però ha accettato la segreteria di Stato, mi scusi monsignore.

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Ok, io penso che si sarebbe potuto gestire diversamente se non ci fosse stato qualcuno che si fosse messo in testa di fare cose che non erano…

GIORGIO MOTTOLA Quindi la colpa è del sindaco di Contigliano che in realtà…

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 No, no, no, no… io non sto dicendo adesso, di questa dinamica che si è prodotta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Monsignor Pompili ne prende le distanze ma inizialmente sembrava aver espresso grande entusiasmo e felicità per la designazione di Contigliano.

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Mi disse che era insomma una notizia importante, una cosa molto bella.

GIORGIO MOTTOLA Non le ha posto qualche dubbio sul fatto che fosse Contigliano?

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) No, no. All’inizio lui mi scrisse e mi disse che andava valorizzata al massimo e che l’avremmo fatto insieme e quindi aspettare il momento giusto per darla al pubblico per poi costruirci sopra tutto un cammino per poi arrivare chiaramente fino al 2023.

GIORGIO MOTTOLA Lei all’inizio dice al sindaco di Contigliano bellissimo, facciamo la conferenza stampa insieme, giusto?

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Ma assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Perché lui così ci ha raccontato e che però i rapporti si incrinano quando lei consiglia...

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Avrà avuto qualche perdita di memoria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in questa conversazione con il sindaco Lancia risalente al 2019, a proposito della designazione di Contigliano, il vescovo scrive: “è una bella notizia, vediamo di costruirla insieme”, acconsentendo alla richiesta del primo cittadino di comunicare pubblicamente la benedizione del vescovo all’iniziativa. Come mai il monsignore ha poi cambiato idea?

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Successivamente lui mi disse che avrebbe visto per una realizzazione del genere questo artigiano che fa presepi che si chiama Artese mi pare e che evidentemente gli stava a cuore.

GIORGIO MOTTOLA Il rapporto si incrina quando lei indica, suggerisce come artista Francesco Artese e lui è un po’ freddino rispetto a questa proposta.

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Ma no, il problema vero è che…

GIORGIO MOTTOLA È vero che lei aveva proposto subito Artese al sindaco?

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Ma no, io ho sempre detto che la questione del presepe non competesse a lui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Francesco Artese è un maestro presepista proveniente dalla Basilicata che nel 2018 per la diocesi di Rieti ha realizzato nell’atrio del vescovado una quadrilogia di presepi che hanno come tema la figura di San Francesco e le sue gesta nella provincia di Rieti.

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA Don Domenico Pompili che ha avuto l’intuizione di mettere sotto gli archi, di posizionare questa quadrilogia.

GIORGIO MOTTOLA Quindi è stato monsignor Pompili a chiamarla a realizzare questo presepe.

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA Sì, sì, a realizzare questo presepe… e io poi subito sono accorso e quindi ho collaborato in questo progetto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I presepi sono stati realizzati nell’ambito della Valle del primo presepe, un progetto della diocesi di Rieti finanziato con quasi 300mila euro in quattro anni dalla fondazione della Cassa di Risparmio di Rieti e con circa 100mila dalla Regione Lazio a cui si sono aggiunti altri contributi dei comuni reatini.

GIORGIO MOTTOLA Quanto è costato realizzare questi…

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA Questo non lo so. Questo non lo so di preciso quanto è costato. Il maestro si contenta di poco, quel poco che basta per vivere, me lo insegna San Francesco. A me piace realizzare il presepe perché ritorno bambino. Se mi danno mille, duemila euro non mi interesse.

GIORGIO MOTTOLA Cifre così basse? Non si butti così giù.

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA E da mangiare, lasagne al forno!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per il presepe di piazza San Pietro in ballo c’era però ben più di un piatto di lasagne. La scorsa estate, senza avvertire il comune di Contigliano che sulla carta era l’assegnatario ufficiale del Vaticano, il vescovo di Rieti prende l’iniziativa e scrive al comitato Greccio 2023. All’organismo ministeriale chiede di finanziare la realizzazione del presepe in piazza San Pietro e di riconoscere al maestro Artese un compenso di 175mila euro.

GIORGIO MOTTOLA Ne realizzerà un altro in piazza San Pietro l’anno prossimo?

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA No.

GIORGIO MOTTOLA Come no? So che in piazza San Pietro il Comitato Greccio l’ha incaricata di progettare il nuovo presepe?

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA Non ancora, praticamente. Cioè voglio dire… ancora…

GIORGIO MOTTOLA Ancora non le è stato detto?

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA Ancora non se ne parla assolutamente. Se mi inviteranno, glielo farò senz’altro, ci mancherebbe.

GIORGIO MOTTOLA Il comitato Greccio ha già fatto una determina di 175mila euro per…

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA No.

GIORGIO MOTTOLA Come no, lei non ne sa niente?

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA No… un attimo…

GIORGIO MOTTOLA Ho detto qualcosa di sbagliato?

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA No, no, assolutamente, ci mancherebbe, io non so niente, voglio dire.

GIORGIO MOTTOLA Ma lei sa che deve fare questo presepe l’anno prossimo?

FRANCESCO ARTESE - MAESTRO PRESEPISTA No, no… aspetta un attimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La nostra domanda crea un grande imbarazzo al maestro e ai suoi collaboratori. Ci chiedono di interrompere l’intervista e ci passano al telefono una funzionaria della Diocesi di Rieti.

GIORGIO MOTTOLA Stavo appunto facendo un’intervista al Maestro Artese.

FUNZIONARIA DIOCESI DI RIETI Artese? Sul nostro presepe? Sulla nostra quadrilogia?

GIORGIO MOTTOLA Esatto. E anche su quello dell’anno prossimo che si terrà in piazza San Pietro.

AL TELEFONO FUNZIONARIA DIOCESI DI RIETI E però è top secret, lei comprenderà.

GIORGIO MOTTOLA È top secret?!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, non è uno dei segreti meglio custoditi al mondo. Basta andare infatti sul sito del Comitato Greccio 2023 e scaricare la determina dello scorso 5 agosto in cui l’organismo ministeriale annuncia di aver accontentato le richieste del vescovo Pompili assegnando la costruzione del presepe al maestro Artese, per il quale viene contestualmente stanziato un compenso di 175mila euro. Un’assegnazione che viene fatta senza alcun bando pubblico, sebbene sopra i 150mila euro sia prevista una gara.

GIORGIO MOTTOLA È una cosa un po’ anomala questa di fare un’assegnazione senza almeno vedere altri nomi, almeno vedere altri progetti, cioè voi comprate quell’artista a scatola chiusa senza nemmeno sapere che cosa avrebbe fatto.

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Diciamo a scatola chiusa non… cioè… non è che a scatola chiusa. Un bozzetto era stato comunque, come posso dire, rappresentato rispetto al contenuto.

GIORGIO MOTTOLA Ah, quindi il maestro aveva presentato un bozzetto per San Pietro?

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 No, un bozzetto, un disegno, nel senso che.

GIORGIO MOTTOLA Un disegno?

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Sì.

GIORGIO MOTTOLA Cioè, lo aveva già presentato il maestro?

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 No, non è che lo aveva presentato, però il tema…

GIORGIO MOTTOLA Ma c’era o no un disegno, un progetto, presentato da Artese?

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 C’era un disegno… cioè… o meglio.

GIORGIO MOTTOLA Voi avete valutato un disegno?

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Noi non abbiamo valutato, noi in sede di comitato non abbiamo valutato.

GIORGIO MOTTOLA Niente.

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Abbiamo valutato che c’era stata una richiesta rispetto al fatto che… avevamo appunto…

GIORGIO MOTTOLA Vi siete fidati ciecamente di Pompili, del vescovo!

EMILIANO FABI - SINDACO DI GRECCIO (RI) E PRESIDENTE COMITATO GRECCIO 2023 Ci siamo fidati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E pare il Comitato bene abbia fatto a fidarsi del vescovo. Lo scorso novembre, Pompili ha infatti annunciato con una conferenza stampa di aver ottenuto dal Governatorato l’incarico ufficiale di occuparsi dell’allestimento del presepe conteso al posto di Contigliano.

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 - CONFERENZA STAMPA 17 NOVEMBRE 2022 Ho ricevuto in data 9 novembre questa lettera del Governatore del Vaticano, il cardinale Fernando Vergez. Come da questa lettera si ricava, nell’anno centenario il presepe che tutti vedranno in tutto il mondo ha come suo focus il presepe di Greccio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma l’annuncio del vescovo non è bastato a portare quiete nella vicenda del presepe di piazza San Pietro. Dopo che monsignor Pompili ha dato la notizia sono sorte frizioni con il comitato Greccio 2023, a causa di dissidi sulle modalità di finanziamento dell’opera. E così la Diocesi ha dovuto, per ora, rinunciare alla collaborazione con il comitato.

GIORGIO MOTTOLA Come mai avete chiesto la revoca?

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Perché dovendo portare a casa questo risultato ci sembrava che il comitato avesse diciamo una complessità interna.

GIORGIO MOTTOLA Delle spaccature interne diciamo?

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Una complessità.

GIORGIO MOTTOLA Ecco delle spaccature.

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Però ti ripeto.

GIORGIO MOTTOLA Perché è un tema sensibile finanziare con soldi pubblici un presepe?

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Mah, diciamo che è un’iniziativa questa di carattere culturale.

GIORGIO MOTTOLA Con quali soldi verrà finanziato quindi questo presepe?

DOMENICO POMPILI - VESCOVO DI RIETI 2015-2022 Faremo una raccolta fondi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il vescovo, tuttavia, non esclude che tali fondi possano essere comunque almeno in parte pubblici. Ma i soldi potrebbero non essere l’unico problema. Perché la contesa sul presepe non è ancora formalmente chiusa.

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) La segreteria di Stato a tutt’oggi, non ci ha ancora revocato da questo mandato ma insomma io mi ritengo naturalmente libero ormai dall’impegno che avevamo assunto con la Segreteria di Stato. Per noi penso sia una storia che deve considerarsi conclusa.

GIORGIO MOTTOLA Il presepe se lo fa a casa sua l’anno prossimo e basta?

PAOLO LANCIA - SINDACO DI CONTIGLIANO (RI) Certamente, lo faccio fare ai bambini, che è meglio, che sono gli innocenti e quindi sono i più titolati o gli unici titolati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che doveva essere il presepe di Francesco, della pace, è diventato il presepe della discordia, delle divisioni, degli egoismi, degli esercizi di potere. Qualche frizione l’ha causata anche in Vaticano, tra Segreteria di Stato e Governatorato. All’inizio anche monsignor Dario Viganò aveva supportato l’idea del presepe di Contigliano perché era un presepe povero, nella linea della povertà francescana. E per questo il sindaco Lancia aveva proprio ipotizzato un presepe quasi biologico, bio, con acqua, verde e con 40mila euro raccolti dai privati e il Governatorato aveva accolto con un certo imbarazzo l’intrusione di Greccio, per questo aveva provato anche ad offrire una soluzione salomonica e aveva detto: al presepe, in piazza San Pietro, lo fa Contigliano. Quello invece nella prestigiosa aula Nervi lo fa Greccio. Ma ha dovuto fare i conti con l’intransigenza di monsignor Pompili che poi ha insistito tanto per due anni al punto di spuntarla. Ora però Pompili ha rotto anche con il comitato di Greccio che è quello che ha la cassaforte del denaro pubblico per le celebrazioni del presepe, in particolare si è finiti in una situazione di stallo per i finanziamenti che dovevano riguardare la realizzazione del presepe, in particolare poi, quel compenso da 175mila euro che il vescovo aveva chiesto per il maestro Artese, lui dice a sua insaputa, lui che francescanamente si sarebbe accontentato di un piatto di lasagne. Ora però siccome si trattava di uno stanziamento di denaro pubblico, ispirato del resto da un vescovo e per una cifra che avrebbe richiesto una gara pubblica, ci si è trovati in una situazione di stallo. E con questa anche i comuni di Contigliano, oltre che Greccio, e anche se volete il Vaticano, perché la Segreteria di Stato ancora non ha revocato a Contigliano il mandato di realizzare il presepe. Come se ne esce? Visto che siamo nell’ottavo centenario della realizzazione del Primo Presepe di San Francesco, ma perché non mettere, realizzare questo presepe tutti insieme, Contigliano e Greccio, un presepe vivente dove dentro come personaggi ci sono anche i sindaci, il monsignore, monsignor Pompili e anche il maestro presepista. Tutti a partecipazione gratuita. C’è miglior modo per incarnare lo spirito francescano dell’amore nella sua gratuità? E a proposito di presepe, insomma capita spesso di vedere i polli che razzolano davanti alla grotta della natività però purtroppo non è sempre quella la realtà.

A me piace il presepe ma se c’è «u’ sckandat». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Dicembre 2022.

In tanti ricordiamo un personaggio di «Natale in casa Cupiello», capolavoro di Eduardo, per una battuta pronunciata con sciatto cinismo dal giovinotto Tommasino: «A me non mi piace il presepio». Più che pronunciata, era borbottata con livore screanzato. Quello dello scansafatiche accidioso e parassita che vuole rovinare la festa a Luca, il «presepiaro» protagonista.

E lo sprezzo del Presepio riassumeva iattanza e pigrizia mentale. Sotto l’egida di queste si arruolano da sempre molti stupidi sfiancati da uno snobismo attivato dal complesso dei provinciali che non riescono a capire che la Provincia è il sale della cultura italiana. «A me non mi piace il presepio». Avvertono i caporali di tutte le estrazioni sociologiche quando pretendono di altezzosamente di infliggerci il loro ego frustrato. Ma, per fortuna ci sono caporali e ci sono uomini. A me i caporali, quelli in uniforme che servono il Paese, piacciono come mi piace, moltissimo, il Presepio e l’ho messo in opera. Quest’anno l’assetto strutturale è pianeggiante e solo qua e là collinoso, un poco brullo con qualche zona sabbiosa e solo un laghetto con inevitabile fontana con vasca circondata da palme noncuranti della presenza, poco più in là, di abeti dolomitici che non ci azzeccano niente ma fanno tanta scena come le arance che danno colore gioioso.

Ho portato un cambiamento sostanziale nella regìa: la sacrosanta capanna non è più posta contro la parete, no. Tale dislocazione costringeva i pastori ad offrire le terga ai fedeli spettatori privandoli delle espressioni del viso che contano, e come! E, dunque, la capanna sta al centro del tavolo e i pastori, i pellegrini dall’incontenibile stupore, accerchiando la sacra famiglia e provenendo da l’ogni dove del mondo, mostrano il volto a noi che c’incantiamo. Non manca niente in un tripudio sincretistico di figure d’ogni provenienza: tutta la gamma dei pastori, da quello tradizionale con pecore e abbacchio regolamentare sulle spalle, al porcaro con maialini e scrofa premurosa, alla donna con formaggi e caciocavalli, allo zampognaro, si mescola allo scrivano ottocentesco, al venditore di libri usati, al fiaccheraio e al cantiniere. Da un pezzo ho esiliato il cacciatore dietro un albero e gli ho messo un fiore nel fucile. Ora non spara più agli uccellini e io gliene ho messi tre sulle spalle. La lavandaia esibisce vicino alla grotta una generosa scollatura che mostra grazie di Dio e che si prodiga lavando i panni ruvidi della Luce del mondo. Sono sicuro che Questa non rinnegherà la pia governante. Nel presepio non sono graditi i bacchettoni.

A me il presepio piace. Chi vede il teatro che «faccio» se ne accorge. Lo inventò San Francesco come una pièce teatrale e Giotto a Greccio lo testimoniò, figuriamoci. Ma amo anche il presepio regolamentare, s’intende, con tutti i personaggi e i requisiti che la tradizione impone: Sacra Famiglia, bue, asinello, angelo annunciatore di pace, lavandaia, pastore semplice e pastorella con caciotte, guardiano di porci, pescatore, suonatori di cornamuse, vagabondo addormentato. Animali in quantità.

Ho nostalgia di tutto questo e pratico con testardaggine la minuscola e tenerissima edilizia del presepio anche a casa mia, la casa di un adulto pensieroso. Ogni anno lo aggiorno con nuovi santi pastori vagabondi, con pecorelle devotissime, con magi in buona fede, ma anche con ospiti pellegrini dell’attualità e della cronaca. Devo ammettere che m’era più facile prima e, infatti, ancora annovero davanti alla capanna una «band» di suonatori di Jazz, un duo di scrivani somiglianti a Totò e Peppino e uno zampognaro tale e quale al mio dolce amico Massimo Troisi. Oggi, stante nella cronaca la penuria di nuovi candidati, candidati nel senso del candore dell’innocenza, in grado di assumere un ruolo in pianta stabile tra le pecorelle, scelgo come protagonista il pastore dei pastori: «u’ sckandat». Letteralmente, nel dialetto nostro, sta per «lo spaventato». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta, orante, con gli occhi sbarrati, le braccia spalancate e la bocca semichiusa in un fonema intelligibile, solo dai puri di cuore che sembra esprimere l’atterrita gioia della salvazione annunciata. È povero, non porta niente, né caciotte, né agnellini, né vino, né uova, né, tanto meno stoffe preziose o spezie: «u sckandat» porta al Dio vivente solo il suo stupore di fede e la sua letizia di speranza. E la mostra sul volto che, finalmente si vede nella nuova struttura della regìa. Nel Presepe di oggi, «u’sckandat» è il cittadino onesto, generoso, prodigo con gli ultimi e che offra, magari, le risorse utili a far presepi dovunque. Presepi fatti di altruismo, civismo, giustizia, rispetto per l’ambiente, la cultura, la scuola, la ricerca. Dovrebbe promuoverli lo Stato, questi Presepi. In attesa, diamoci da fare col candore dello «sckandat» che mi piace e mi commuove. Chi vorrà negarsi alla peregrinazione alla grotta, sarà libero di farlo e nessun pastore gli toglierà il saluto, ma se ne assuma la responsabilità. Chi vorrà ubbidire all’«Adoremus» potrà farlo con gioia. A me piace il Presepio.

Alchimisti, fattucchiere e magia dei nodi. L'anti presepe 2022 di Bergoglio in Vaticano. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Anche quest’anno la falsa chiesa antipapale di Bergoglio ha proposto il solito anti-presepe, con infilati di soppiatto elementi esoterici, pagani, eretici, magici e anticristiani.

Questo è il prezzo da pagare quando non si difende il vero Papa e si permette a un ecclesiastico privo del Munus petrino, l’investitura papale di origine divina, di ricoprire la carica di Pontefice romano.

Ricordiamo il presepe 2020, con le statue in ceramica di Castelli di epoca conciliare: figure con braccia incrociate, tipiche del mondo rosacroce ed egizio, con il guerriero cornuto col teschio sulla fronte, un simbolo demoniaco inserito nel presepe per la solita dottrina esoterica dell’unione degli opposti.

Clamorosamente evidente, poi, il presepe etnico 202,  proveniente dal villaggio di Choppca, il villaggio dove sopravvive nel modo più sentito il culto per la Pachamama, che per la dottrina cattolica, non può non essere considerato altri che un demone. Si ricordi a tal proposito il sacrificio umano svoltosi il 5 agosto scorso a El Alto in Bolivia, in onore della madre terra incaica QUI  .

Quest’anno c’è voluta qualche ricerca in più per scoprire cosa si nasconde dietro al presepe ligneo proveniente dal paese di Sutrio in CARNIA (Friuli).

Realizzato in legno di cedro, anche con legname proveniente dai tronchi abbattuti durante la tempesta Vaia del 2018, evoca dei concetti apparentemente innocui e banalmente demagogici di ecosostenibilità e valorizzazione delle tradizioni locali.

NON FIDATEVI.

Occorre un poco di studio per scoprire cosa si nasconde sotto, ma siamo andati a colpo sicuro.

I personaggi dell’antipresepe non sono molti, ma fra questi ve ne sono due estremamente significativi. Il “CRAMAR” e la TESSITRICE che sono accuratamente evitati dalla maggior parte delle riprese foto-video disponibili sul web. La tessitrice è poi quasi introvabile, perché collocata in secondo piano.

Ci siamo documentati sui testi di due autorevoli studiosi delle tradizioni friulane, Elio Varutti e Paolo Paron e abbiamo appreso che la Carnia costituisce una sorta di piccolo cuore magico-esoterico dell’Europa che si allarga fino a coinvolgere altre aree del mondo ladino e a lambire i Grigioni svizzeri. Zone di montagna che sono rimaste molto isolate nell’arco dei secoli, dove sono sopravvissuti una lingua antichissima e un sapere antico di radice pagana, i cui riti nel periodo del Solstizio d’inverno, come i grandi falò epifanici, vengono allestiti ancora oggi come tradizione locale.  Documentatevi pure su “Streghe, eretici e benandanti del Friuli Venezia Giulia. Processi, rituali e tradizioni di una terra magica”  (Intermedia ed. 2021) di Monia Montechiarini. 

La Carnia in particolare, affascinantissima e misteriosa, è stata nei secoli passati, regione popolata di questi personaggi, duramente combattuti dalla Chiesa cattolica.

Fatta questa premessa, si comprende il ruolo del cramar, o cramaro: si trattava di un venditore ambulante che portava sulle spalle una specie di armadio-zaino pieno di cassettini il quale faceva la spola tra Venezia e il mondo slavo-tedesco. Generalmente era una persona istruita, che sapeva leggere e far di conto e commerciava in spezie e sostanze rare. Lo studio del ricercatore prof. Elio Varutti “Pedlars and Alchemists in Friuli” ha evidenziato come i cramari praticassero spesso e volentieri l’ALCHIMIA, sia manipolando erbe e sostanze naturali di cui facevano commercio, sia fondendo i metalli alla ricerca della pietra filosofale, tanto che alcuni di loro, poi, a Lubiana diverranno anche campanari. Entrando in contatto col mondo tedesco, spesso e volentieri assorbivano altre visioni del mondo, luterane, non-cattoliche e/o magico-esoteriche legate a culti precristiani. Erano esperti dell’arte della tessitura, e profondi conoscitori dei nodi, tanto da lasciare in famiglia dei manuali per tramandare queste capacità.

E qui veniamo all’altro personaggio inserito nell’antipresepe bergogliano: la tessitrice.

In Carnia, le donne, quasi tutte tessitrici, ovviamente, erano depositarie di saperi antichi e, tra questi, l’arte magica della legatura o slegatura.

Scrive Paolo Paron: “Le donne conoscevano le proprietà delle piante, delle essenze, ma anche dei cicli lunari, i tempi di raccolta in concomitanza con il massimo potere terapeutico di foglie, cortecce, radici, erbe […] Dietro le cure e le terapie delle donne di campagna, l’Inquisitore scorgeva qualcosa che andava al di là della semplice superstizione, un qualcosa di più temibile e pericoloso: un patrimonio di conoscenze naturali, di esperienze, di cultura medica tramandata dalle donne per le donne, attraverso le generazioni, da tempo immemorabile. Faceva paura questo legame con il passato, questa continuità della carità e della solidarietà femminile, che attraverso i secoli, giungeva dal campo oscuro del paganesimo […] I doni di guarigione che a, volte, erano attribuiti a queste massaie rurali erano detti preenti che “potevano essere trasmessi solo in una particolare notte all’anno: la notte della Vigilia di Natale, notte magica come la notte di san Giovanni del 24 giugno”.

Apprendiamo anche come le antiche donne della Carnia raccogliessero “l’acqua della RUGIADA della notte di San Giovanni, utile e necessaria per molte azioni che riguardavano, la bellezza, la salute e la magia”.

La guaritrice carnica “agisce misurando, annodando, snodando fasce, cinture, nastri, legacci, passanti, stringhe, frange, fili e cordelle […] Utilizza conoscenze simboliche che vengono da lontano, come il rituale della misura e la magia dei nodi, sfruttando per intero lo spazio ambivalente esistente fra le polarità del legare/slegare, la pratica del misurare/rimisurare. Sa interpretare i legamenti come malefìci, scoprendone la natura di armi d’offesa di streghe e stregoni; utilizza però i nodi, allo stesso tempo, come mezzo di difesa contro i sortilegi altrui, come efficaci contro-farmaci”.

Come leggete, dietro il nuovo presepe in Piazza San Pietro, ritorna quindi tutto il solito armamentario anticattolico del Bergogliesimo: Sincrestismo, Misericordismo, Neoluteranesimo, Neoarianesimo, Neognosticismo, Neopaganesimo, una specie di micidiale cocktail di eresie e apostasie.

Come scrisse il Santo Padre Benedetto XVI, in puro codice Ratzinger, rifiutando di recensire i libri della sua pseudo-teologia: “I PICCOLI volumi mostrano, a ragione, che papa Francesco ha una PROFONDA formazione teologica e filosofica”. Essa infatti attinge alle più oscure profondità ctonio-misteriche. 

Torna infatti – per l’ennesima volta, e in modo estenuante - la MAGIA DEI NODI, già propagandata in tutto il mondo da Bergoglio, a partire dagli anni ’80, con l’idolo pseudomariano della “Maria che scioglie i nodi” e della sua novena, citata nel libro “Pillole di magia” di Michela Chiarelli in merito al rito magico dei nove nodi. Torna la RUGIADA, il nettare dei Rosacroce, elementale alchemico che è stato inserito di soppiatto nella preghiera eucaristica della messa. Tornano i culti precristiani legati alla Grande Madre,  o Madre Terra, l’ammiccamento all’alchimia,  all’esoterismo, al mondo pagano, all’unione degli opposti alla “conoscenza” alchemica, al tema ossessivo della guarigione del corpo, anche a costo della dannazione dell’anima.

(A proposito: provate ad annodare qualche cordicella, magari il sito vaticano del Codice di Diritto Canonico  dopo il presunto attacco hacker subito giorni fa riuscirà anche a ripristinare la pagina coi canoni dal 332 al 335, proprio quelli che parlano di rinuncia al munus e di sede papale totalmente impedita. Si aprono quasi tutte le altre pagine, ma non quella. “Tanto chi se ne accorge”: abbastanza ridicolo).

Insomma: ve lo stiamo ripetendo da due anni che Bergoglio non è il papa, questo perché il Santo Padre Benedetto XVI non ha mai abdicato, ma si trova in sede impedita. la spiegazione “for dummies”. Purtroppo, la censura assoluta imposta dall’informazione mainstream, il silenzio del clero consapevole, l’ottusa cecità “preternaturale” dei cattoconservatori una cum, (che pur additando Bergoglio come “malvagio” e “diabolico” si ostinano a considerarlo legittimo papa), le strategie "politiche" fallimentari di Mons. Viganò, che invece di invocare un sinodo provinciale per pronunciarsi sulla sede impedita del vescovo di Roma, con ogni probabilità mira alla propria candidatura come prossimo antipapa, fanno sì che un miliardo e 285 milioni di cattolici continuino ad andar dietro a un Pifferaio di Hamelin che partecipa a riti negromantici in mondovisione e li sta portando a venerare alchimisti, fattucchiere, divinità pagane, Grandi Madri, Nonne Ragno, Gesù serpente-diavolo  Streghe dei Nodi e così via. Pensate solo ai bambini che andranno a vedere quel falso presepe…

Viene da piangere, ma più che dirvelo, non possiamo fare. Buon Anti-Natale a tutti.

Natale, il sogno della sinistra: un 25 dicembre senza religione. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2022

Vicino alla basilica di San Petronio, dove tra poche ore si celebra la Notte Santa, le luminarie compongono i versi che annullano il Natale, il suo senso, la sua storicità. Niente Gesù. Lo privano di carne e ossa, nessun vagito di bimbo. L'amministrazione comunale di Bologna scandisce con le lampadine nella strada centrale dei negozi le due frasi di John Lennon (ispirate dalla sua musa e moglie, Yoko Ono) che affermano la religione del post cristianesimo: «Imagine there' s no heaven... and no religion too», cioè «immagina che non ci sia il paradiso e non ci sia neanche la religione». Il senso è: sarebbe fantastico, allora sì nascerebbe il mondo nuovo. Non ci sarebbero nazioni, nessuna identità particolare, ma un cosmopolitismo che darà all'uomo la pace senza bisogno di cercare Dio.

LA PROTESTA

Informato della faccenda per fortuna un vescovo si è inalberato. Monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, ha qualificato questa operazione come «insulsa provocazione anticlericale». E lo ha fatto su Avvenire, con ogni evidenza con la benedizione del cardinale Matteo Zuppi, che da questa città capeggia i vescovi italiani, e ha personalmente voluto evitare la polemica. C'è un problema. Qui non si tratta da parte dei citazionisti di Lennon di un uso distorto e fedifrago di «un meraviglioso Inno alla pace», come sostiene il prelato siciliano, il quale trasforma il fondatore dei Beatles in una sorta di precursore di Papa Francesco. Su, un po' di lealtà con gli autori, chieda pure alla artista giapponese che a 89 anni opera ancora tra noi: quelle frasi vogliono dire proprio quel che dicono. Nascono da un'opera di Yoko Ono, non c'è bisogno di nessun Salvatore per arrivare a pace e felicità.

Trattiamo perciò la faccenda per quello che è: non un tradimento del vero Lennon, il quale ha già miliardi di cultori del suo mito, ma un episodio nostrano e sfacciato di cancel culture. Il quale rivela di quale ideologia si nutra la sinistra anche oggi, soprattutto adesso: un'ideologia dove si mescolano ateismo e panteismo, nichilismo e utopia, negando l'essenza stessa della nostra identità di popolo e nazione.

Abbiamo rintracciato un antecedente. La Grande Enciclopedia Sovietica, che a Bologna negli anni '50 valeva più della Bibbia. Essa evidentemente fa ancora scuola. Ovvio, senza le rudezze della propaganda staliniana, ma il concetto è lo stesso: a Natale non è nato nessuno. Nella prima edizione, della colossale opera in 65 volumi, tra le 65mila voci, c'era infatti pure quella dedicata a Gesù Cristo. Tutto un fuoco d'artificio di scienza e di cultura marxista per arrivare alla verità-tà-tà: Gesù detto il Nazareno non è nato in alcun luogo, il personaggio narrato nei Vangeli è un'invenzione, un mito creato per abbindolare le masse popolari. I comunisti pur di impedire che qualcuno osasse porsi la domanda su chi fosse Gesù, troncarono il problema alla radice, negandone non solo morte e resurrezione (come il Corano) ma pure la nascita. Stalin fece insomma con Cristo un lavoro di sbianchettamento come se i Vangeli fossero il dossier Mitrokhin.

ADDIO AL FESTEGGIATO

E così siamo al Natale 2022. Per festeggiare il compleanno di Gesù niente di meglio che far sparire il festeggiato. Idea geniale del Minculpop del soviet municipale: niente Bambinello, zero stella cometa, figuriamoci Madonna e San Giuseppe.

Non che li si neghi apertamente. Non siamo davanti a gente volgare, ma a creature acculturate come volpini - direbbe Ezio Greggio - : fini lettori dei tempi. Nessuno striscione dunque tipo: «Gesù? No grazie». Neppure ci si sogna di emulare anche solo pallidamente la militante di Femen. (Nessun giornale o tg lo ha raccontato: nella chiesa di santa Maddalena a Parigi questa signora del movimento ceco ha mimato l'aborto del Messia, indi orinato sull'altare. Condannata in Francia, è stata considerata vittima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo come eroina della libertà di espressione: sul serio, ottobre scorso). L'amministrazione degli Asinelli (nessuna allusione al presepe per carità, è il caso ci querelino) ha deciso, in occasione di quell'evento che pure conta qualcosa nella storia dell'umanità, forse addirittura più di Yoko Ono, di appendere luminarie dove Gesù è consegnato alla muffa degli spettri scaduti. Come voleva il compendio della cultura comunista sopra citato, si tratta di un mito superato, una leggenda ingannevole. Il titolo del Natale post-comunista e post-cristiano di Bologna, ma in piena aderenza all'idiozia dominante (citazione di Lars von Trier), potrebbe essere: dimenticare Betlemme. Noi ci ricordiamo, alla faccia vostra.

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 27 dicembre 2022.

Una confessione involontariamente un po’ blasfema, di cui mi scuso coi ferventi cattolici. A me il Natale non piace perché commemora la nascita di un grande uomo morto quasi duemila anni fa, quindi lo conosciamo per sentito dire. Ma non è con lui che ce l’ho, ci mancherebbe. Prima lo crocefiggono senza un vero perché, e si tratta di una atroce tortura, poi lo festeggiano. Un minimo di coerenza sarebbe gradita. Il problema è che il Natale non serve a ricordare Gesù (che meriterebbe una riflessione). 

Cosa c’entrano i cenoni della vigilia, con relative abboffate di cibo, col sacrificio di un martire che si dice addirittura essere stato figlio di Dio? Non capisco la relazione tra un tragico decesso col consumo smodato di panettoni e bottiglie di spumante. Sarò scemo ma me ne sfugge il senso. Anche a casa mia, che non è un tempio pieni di intelligentoni, ad eccezione di me, il Natale è vissuto come l’occasione per radunare in sala da pranzo un numero elevato di parenti (sinonimo di rompicoglioni) che spazzolano quantità enormi di cibo, tra chiacchiere insensate e tediose.

Personalmente durante la cena non riesco a dire una parola per il semplice fatto che la stanza è resa rumorosa a causa delle discussioni senza soluzione di continuità dei presenti. Meglio così. Risparmio il fiato. A una certa ora non potendone più del frastuono, me ne vado in camera mia, al piano superiore, dove però l’eco delle ciance giunge imperioso impedendomi di chiudere occhio. Prendo una pastiglia che mi rimbambisce, come non fossi già abbastanza intontito di mio, e finalmente mi addormento incazzato nero. L’indomani mattina, dopo regolamentare doccia, scendo per fare colazione e vedo la tavola disseminata di avanzi del pasto e di vettovaglie sozze. 

Vorrei togliermi dai piedi e andare a lavorare per trovare un minimo di ordine, ma ricordo che a Natale e il giorno dopo non escono i giornali, e di conseguenza anche Libero è chiuso. Che esco a fare? Le edicole hanno abbassato le saracinesche, idem quasi tutti i negozi e pure i bar che sono il refugium peccatorum. Devo rassegnarmi a leggere i giornali del giorno prima che già li ho imparati a memoria.

Non ho di meglio da fare che recarmi in salotto e sprofondarmi in poltrona a fissare il soffitto arricchito da mille crepe provocate dal tempo. Non mi rimane che avviare il televisore, che rimarrà acceso tutto il giorno benché le trasmissioni siano una più cretina dell’altra. I film che vanno in onda hanno almeno mezzo secolo di anzianità e li hai visti mille volte, da “Via col vento” al “Gattopardo” più durevole di una penosa agonia. Stendiamo un velo pietoso sui notiziari, fotocopie l’uno dell’altro e noiosi come rosari della nonna.

Poi a scassare l’anima definitivamente il piccolo schermo offre programmi di cucina, dove due o tre deficienti ti insegnano a fare la frittata come se tu non l’avessi mai mangiata. Non bastasse ciò a renderti nervoso, le varie emittenti attaccano con salotti, ospiti cantanti sull’orlo della pensione che ripropongono brani che avevano già stufato all’epoca di Nilla Pizzi. Meno male che il Natale dura un giorno solo, come le farfalle che alle sei di sera ne hanno già piene le palle. Meglio comunque il 2 novembre, più vario.

Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 27 dicembre 2022.

 «Venite, adoriamo», andrà bene per i personaggi del presepe, ma Michela Murgia e Roberto Saviano pretendono di avere l'ultima parola anche davanti alla grotta di Betlemme. Ce lo spiegano loro com' è andata 2022 anni fa. E all'improvviso, è come se vagonate di opere dei padri della Chiesa si estinguessero di fronte a tanta sapienza.

È la giusta punizione terrena per noi cristiani, che non abbiamo ancora capito che l'Italia è una terra di missione dove ormai la predicazione va fatta come nei Paesi di prima evangelizzazione, cioè in partibus infidelium. 

Come penitenza non ci si può sottrarre nemmeno a una meditazione sul significato del Natale così come ci viene proposta sulle pagine della Stampa e su Twitter, anche se affrontare le omelie degli intellettuali laici sulle pagine evangeliche significa prepararsi a riedificare dalle fondamenta l'edificio di una cultura esegetica di cui ormai si è perduta la consapevolezza in larga parte dell'Occidente ex cristiano.

IL MISTERO

Per spiegare il mistero dell'Incarnazione, e della conseguente Natività di Gesù Cristo, si dice che molti bambini siano diventati re, ma che nell'arco di tutta la storia umana solo un re è diventato bambino. In più occorrerebbe premettere che la scelta di incarnarsi in un infante è unicamente frutto della volontà di Dio. 

Così come anche la decisione di vivere nel nascondimento, rimandando l'inizio della vita pubblica fino all'età di trent' anni. Negli Esercizi spirituali di sant' Ignazio, il prologo della vicenda è spiegato in tre scene: «Le tre divine Persone osservano tutta la superficie o rotondità di tutto il mondo piena di uomini»; «vedendo che tutti scendevano all'inferno, decidono nella loro eternità che la seconda Persona si faccia uomo, per salvare il genere umano»; «e così, giunta la pienezza dei tempi, inviano l'angelo san Gabriele a nostra Signora».

Alla Murgia, critica nei confronti della tradizione cattolica e della «infantilizzazione» di Dio, a suo modo di vedere non fondata sulla Sacra Scrittura, non si può peraltro contestare, come fanno molti commentatori delle sue parole, di non essere in possesso di una formazione teologica. 

Qualsiasi contadina analfabeta sarda del Medioevo, abituata però a pregare tanto, ne avrebbe saputo più di lei, che sembra avere studiato parecchio pur non avendo capito nulla. Ne sarà sorpresa, ma ci sono anche altre fonti della divina rivelazione, come la tradizione della Chiesa. E anche il magistero, cioè l'insegnamento dei Papi e dei vescovi.

D'altra parte, malgrado lo scetticismo della scrittrice, non è nemmeno necessario conoscere a fondo la Parola di Dio per avere qualche informazione in più sull'attesa che traspare in molti passi dei profeti - nei confronti di un Messia. Tant' è che ci sono ebrei messianici convinti che il Salvatore debba ancora arrivare. 

IL CONDOTTIERO

Alcuni nel popolo d'Israele speravano perfino che si trattasse di un condottiero che li avrebbe affrancati armi in pugno dalla dominazione dell'impero romano. 

A loro, e a quanti s' immaginano un Cristo-Guevara, eroe della lotta o della teologia della liberazione, si presenta un neonato inerme, che non vuole scatenare una Rivoluzione facendo leva sulle contraddizioni sociali, ma sanare ciò che le causa. Eppure, allo scrittore Roberto Saviano è parso di dover ricordare «a chi blatera in loro nome» che «Maria, Giuseppe e Gesù sono stati profughi».

Quel che lo «emoziona» è «che si cerchi redenzione in una famiglia stretta intorno a un bambino la cui innocenza lo proclama re». Innanzitutto, la genealogia del Redentore degli uomini, rintracciabile dalla prima riga del primo libro del Vangelo di San Matteo, spiega che proviene da una stirpe di monarchi risalente al re Davide, che decisamente non fu sempre innocente. 

E poi, siccome insegnare agl'ignoranti è una meritoria opera di misericordia spirituale, l'autore di Gomorra merita di essere corretto almeno su un altro punto. Quello che lui definisce «un bambino perseguitato» e «costretto alla fuga insieme alla sua famiglia per salvarsi la vita», non fu mai «respinto ai confini» o «arrestato insieme a chi lo avesse aiutato ospitandolo». Nacque in una provincia dell'Impero romano, la Giudea, poi si spostò in un'altra, l'Egitto, per evitare la strage degli innocenti voluta da re Erode nei confronti dei figli del suo stesso popolo. Infine fu crocifisso, certamente non in quanto straniero, ma in quanto Dio. Poi risorse. Ma ne riparleremo a Pasqua con Murgia e Saviano.

La banalità di Michela Murgia. Francesco Giubilei su Il Giornale il 28 Dicembre 2022.

Provo un certo stupore non tanto per le tesi volutamente provocatorie quanto per la banalità con cui scrive e il livello davvero scarso del ragionamento complessivo

Negli ultimi anni i cristiani si sono abituati a subire attacchi di tutti i generi in ogni ambito della società. Dalla famiglia ai temi etici, dal rispetto delle tradizioni alla difesa dell'identità. Un tentativo di delegittimare la religione cristiana avvenuto a più livelli e con varie sfumature che vanno dai crescenti episodi di cristianofobia alla volontà di cancellare le radici cristiane dell'Europa fino alla delegittimazione dei simboli cristiani. Tale delegittimazione colpisce in ogni momento il crocifisso e, nel periodo natalizio, si rivolge al presepe e alla rappresentazione della natività. Si cerca così di ridurre il Natale a una generica “festività” privandolo di ogni valore e riferimento cristiano. Ultima in ordine di tempo è stata la scrittrice Michela Murgia, non nuova ad articoli o prese di posizione fuori luogo e radicali. Il giorno della vigilia di Natale, l'autrice sarda ha pubblicato su “La Stampa” un articolo dal titolo emblematico I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità aggiungendo nel sommario: “la Sacra Famiglia è una storia di migranti, schiavi, povertà, ma è stata semplificata Non potremo mai assomigliare alla divinità. È umano soffrire, sbagliare, perdere”. Un testo che, oltre ad essere errato nel merito, lo è anche nei tempi, essendo stato pubblicato il 24 dicembre.

La Murgia afferma che il cattolicesimo sia “l'unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio” sostenendo che “nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato - o per Maria bambina, di sponda - è praticamente inesistente”. Già dalle premesse emerge un'affermazione falsa poiché nell'iconografia ortodossa il bambino Gesù viene raffigurato con grande frequenza tra le braccia della Madonna. Ma il suo articolo è un crescendo di banalità davver sconcertanti come il passaggio in cui scrive “nelle Scritture il racconto della nascita di Gesù somiglia infatti più alla trama di un film drammatico, sebbene cominci da un innesco piuttosto banale, di quelli in cui potremmo presto o tardi incappare tutti: si parte da un viaggio scomodo intrapreso per obbligo burocratico imposto dal governo”.

Confesso di non aver mai letto un libro della Murgia (è peccato?) e l'articolo in questione è uno dei pochi in cui mi sono imbattuto dovendolo leggere per lavoro e non certo per piacere poiché in passato titoli come God save the queer. Catechismo femminista non avevano attirato la mia attenzione. Terminata la lettura ho provato un certo stupore, non tanto per le tesi volutamente provocatorie quanto per la banalità con cui è scritto e il livello davvero scarso del ragionamento complessivo. Esistono altre figure del mondo culturale di sinistra che, pur nella fallacia delle loro tesi, espongono però ragionamenti di alto profilo ma questo articolo di Michela Murgia mi ha colpito in negativo. Come può una figura che esprime concetti del genere “per secoli abbiamo giudicato torvamente gli albergatori di Betlemme, ma alla fine la loro sola colpa, se tale la vogliamo considerare, era di essere sold out”, aver acquisito spazi, visibilità, posizioni nel mondo culturale?

Eppure sarebbe errato derubricare articoli di questo genere come una semplice provocazione poiché è qualcosa di più profondo, ovvero il tentativo di banalizzare e ridicolizzare la religione cristiana raccontando la natività come fosse una storiella.

Don Angelo Citati, in un illuminante articolo sulla vicenda, scrive: “la disamina della Murgia diventa contestabile quando si spinge fino a dire che è l’idea stessa di rivolgere la propria devozione a Gesù bambino ad essere un segno di immaturità, di «rifiuto della complessità». Un Dio che si fa bambino le sembra una cosa semplice? Nella sua storia plurisecolare, la cultura occidentale non ha affatto recepito il mistero dell’incarnazione del Verbo in questo modo, come qualcosa di semplice”.

Lecito chiedersi in conclusione a cosa serva la teologia, leggere Sant'Agostino, San Tommaso d'Aquino, approfondire secoli di studi teologici, se c'è Michela Murgia che può spiegarci il senso del Natale con analisi così profonde e complesse?

Alberto Dandolo per Dagospia il 27 dicembre 2022.

E grazie a Dio anche ‘sto Natale ce lo siamo tolti dalle palle. Solo un altro piccolo sforzo: una volta deragliati i trenini di fine anno sarà tutto davvero finito. Intanto i soliti morti di fama durante questi santi giorni non hanno perso occasione per celebrare quel che resta di sé 

Ecco una carrellata di video ultracafonal e delle istantanee più iconiche di questo trucidissimo Natale.

Epico il video-messaggio postato dalla mitologica Ornella Vanoni e dalla sua barboncina birichina Ondina. La sua improvvisata canzoncina natalizia e le candele che faticavano a spegnersi per assenza di fiato hanno infiammato la rete. Poi c'è il gruppo delle regine del giornalismo. 

Dalla effervescente Vittoriana Abate che nei giorni pre festivi ha postato una foto in cui mirava le stelle del cielo di Roma con una naturalezza da far impallidire persino le protesi delle tette della neo sposa Francescona Cipriani, a una Myrta Merlino fresca di comunicato stampa sindacale che in un video casalingo si è mostrata in tutta la sua docile semplicità a piedi nudi nel tinello del suo attico romano.

Ma la più gettonata è stata la conturbante Monica Setta. Lei è apparsa sulla sua pagina per-vestita da un tubino dorato assai succinto scatenando l'ammirazione delle mejo drag queen milanesi. Alcune di loro, una tra tutte la famosa La Vanda Gastrica, è già all'opera per ricreare un abito identico a quello della giornalista per la sua performance di Capodanno. Monicona ha anche eccitato la rete con una sua performance ballerina in tv assieme a Carmen Russo. Milly Carlucci è avvisata! 

Memorabile il video postato dalla ex senatrice Pezzopane e dal suo aitante fidanzato Simone. Augurano buon Natale dalle trincee della "Casa del soldato" (che vor di'?). Loredana Lecciso discetta a mo' di tutorial sulle ricette per essere felici nella vita. 

Mauro Coruzzi e il suo amico del cuore conquistano invece il titolo di MIGLIOR  VIDEO STRA CUL. Indimenticabili mentre travestiti da Babbo Natali si mettono a pecorina sul pavimento canticchiando hit festive. E poi quelli freschi di mummificazione: Donatella Versace, Rosanna Lambertucci e Roby Facchinetti.

Ma il numero uno è sempre lui: il Banana. La sua foto di auguri con la moglie per mancanza di matrimonio Marta Fascina e quel che resta del barboncino Dudu' resterà nei libri di storia.

Vandali e luminarie anti-clericali. La natività cristiana è sotto attacco. Francesco Giubilei il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A Bologna citazioni atee da "Imagine": il fastidio della Chiesa. Presepi vietati a scuola e distrutti in piazza. Altro che bravate

Il Natale è sotto attacco. Non si tratta purtroppo di una novità ma di un tentativo che va avanti da tempo di delegittimare, riscrivere, cancellare la principale festività cristiana. Ogni anno la situazione peggiora e si aggiungono nuovi episodi di cronaca che testimoniano come in Occidente (l'Italia purtroppo non è da meno), l'assalto ideologico sia sempre più profondo e radicato.

Il primo passo è negare il senso del Natale e il suo valore cristiano, sostituendolo con generiche festività prive di ogni carattere religioso in un delirio di negazione delle proprie tradizioni e di oikofobia (odio verso noi stessi). È il caso di Bologna, dove nella centralissima via d'Azeglio (a pochi metri dalla Basilica di San Petronio), per le luminarie sono state scelte le parole della canzone Imagine di John Lennon che recitano «immagina che non ci sia il paradiso» e «immagina che non ci sia neanche la religione». Una decisione che ha suscitato l'ira dei vescovi e, secondo monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, è «un'insulsa provocazione anticlericale», mentre per Avvenire «ci eravamo abituati da tempo a vedere il Natale spogliato delle sue origini religiose. Ma un Natale antireligioso ancora mancava».

Si tratta di fenomeno più ampio che mette in discussione i simboli cristiani del Natale e, a farne le spese, è soprattutto il presepe che, quando non viene fatto scomparire dalle celebrazioni natalizie, è vandalizzato o distrutto. Ha fatto discutere quanto avvenuto a Belmonte del Sannio, in provincia di Isernia, dove le insegnanti della scuola elementare «Tonino Trapaglia», in accordo con la preside, hanno deciso di rimuovere la natività dalla recita scolastica «per non offendere la sensibilità delle famiglie di cinque alunni musulmani». Una decisione che ha provocato la reazione del parroco Don Francesco Martino: «Tutti i simboli del Natale sono cristiani. Come io rispetto le tradizioni islamiche, così loro devono rispettare le mie». Non va meglio a Roma nel quartiere Cornelia dove, come racconta il giornalista Emanuele Mastrangelo, all'asilo della figlia gli insegnanti prima si sono rifiutati di realizzare il presepe poi, dopo che lui stesso lo ha portato a scuola, lo hanno fatto sparire. Complice l'attenzione sollevata, è poi stato esposto. Sempre nel Lazio a Ferentino, la responsabile cittadina di Cultura Identità Claudia Angelisanti, denuncia ''assenza del presepe in città a fronte delle tanti luci installate dal comune.

Se i casi in cui il presepe non viene realizzato sono numerosi, non si contano gli episodi di vandalismo. A Saronno è stato vandalizzato il presepe allestito dai residenti al Villaggio Frau. Ad Aci Sant'Antonio (Catania) è stato invece preso di mira il presepe realizzato di fronte alla chiesa arrivando perfino a decapitare la statua di San Francesco presente in piazza da ormai tredici anni. A Vercelli i vandali hanno distrutto le sagome del presepe che avevano allestito i bambini delle Scuole Cristiane, oltre alle statue del bue e dell'asinello in cartapesta, è stata rovinata con il lancio di sassi anche la cassetta delle lettere per Gesù Bambino. A Sora sono stati danneggiati e imbrattati i personaggi del presepe.

Atti di vandalismo che si vorrebbero derubricare a semplici bravate, ma che in realtà rappresentano qualcosa si più profondo, ovvero la volontà di scristianizzare il Natale e i suoi simboli. L'ennesimo schiaffo alla nostra storia e identità.

Da leggo.it il 27 dicembre 2022.

Nella notte di Natale a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, in molti hanno pensato al peggio. Monsignor Corrado Pizziolo, il vescovo del comune, avrebbe dovuto celebrare la messa di mezzanotte, ma non si è presentato. Fedeli e preti hanno temuto che fosse accaduto qualcosa di grave, ma si è trattato di un banale errore. A far saltare l'importante appuntamento, infatti, è stata una sveglia impostata nel modo sbagliato. 

La storia

A raccontare l'accaduto è stato lo stesso vescovo. Il giorno successivo, infatti, mentre era sull'altare per la messa del giorno di Natale si è scusato con i presenti scatenando l'ilarità dei fedeli. «Ringrazio don Graziano e gli chiedo scusa perché gli ho fatto prendere quasi un colpo», ha detto monsignor Pizziolo rivolto al parroco della cattedrale di Sacile dove, come di consueto, il vescovo avrebbe dovuto celebrare la messa della notte di Natale. 

L'errore

«C'era la messa alle 24 e alle 9 io avevo finito di mangiucchiare qualcosa. Ho detto 'mi metto un po' sul divano in attesa' e ho messo la sveglia ma, invece di metterla alle 22.50, l'ho messa alle 10.50 del giorno dopo e quindi non ha suonato», ha raccontato tra le risate e gli applausi. «Ad un certo punto ho sentito bussare alla porta.

Ed era la direttrice, fatta venire da Don Graziano preoccupato che mi avesse preso un colpo, come era immaginabile» ha aggiunto monsignor Corrado Pizziolo ridendo. Sfortunatamente, però, a quel punto era tardi per celebrare la messa e a sostituire il vescovo ci ha pensato il direttore dell’ufficio liturgico diocesano, don Mirco Miotto, annunciando che il prelato aveva avuto un imprevisto. «Ringrazio don Mirco che mi ha sostituito e ha celebrato la messa di Mezzanotte - ha aggiunto -. Non merito proprio l'applauso ma cosa volete, sono cose che capitano».

Il vescovo che ha saltato la messa di Natale perché dormiva: «Pensavano fossi morto. I fedeli si sono preoccupati perché mi vogliono bene». Monsignor Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto, non ha officiato la messa perché ha sbagliato a mettere la sveglia e non si è alzato: «Un errore ma anche noi vescovi siamo umani».  Matteo Riberto su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2022

Monsignor Corrado Pizziolo

«So che in molti si sono preoccupati che mi fosse successo qualcosa, che potessi essere morto: confesso che un po’ mi ha fatto piacere, vuol dire che ci sono tante persone che mi vogliono bene». Monsignor Corrado Pizziolo, il vescovo di Vittorio Veneto (Treviso) che non si è presentato alla messa di Natale che avrebbe dovuto officiare perché stava dormendo, sorride pensando a quanto successo.

Monsignore, ci racconta l’accaduto?

«Il 24 dicembre, durante la giornata, ho avuto molti appuntamenti, ho partecipato a diversi incontri. Dopo mangiato, ho fatto una cena leggera, ho quindi deciso di riposarmi un paio d’ore per non essere troppo stanco durante la messa di Mezzanotte che avrei dovuto celebrare nella Cattedrale di Vittorio Veneto. Dovevo mettere la sveglia alle 22.45, anche perché era previsto che prima andassi a salutare la comunità ucraina, ma per errore l’ho messa alle 10.45. La sveglia non ha quindi suonato. Sono arrivati a bussarmi che ormai era troppo tardi».

Non c’era qualcuno con lei che potesse svegliarla prima? Lavora da solo?

«No non lavoro da solo. Solitamente mi affiancano sempre il segretario e il direttore dell’ufficio liturgico. Ma quella sera, ovviamente, erano previsti diversi appuntamenti. Il segretario non era con me e il direttore dell’ufficio liturgico era nella Cattedrale per concludere alcuni per preparativi per la messa che avrei dovuto celebrale. Ero quindi da solo in quel momento».

L’agenda degli appuntamenti a cui ha partecipato il 24 è fittissima. Immagino l’abbiano stancata, non sarebbe opportuno che i preti avessero più aiuto in queste giornate?

«Probabilmente sì, ma sappiamo che da tempo c’è una crisi di vocazioni e quindi mancano figure che possano dare supporto. Comunque, come detto, io ho chi mi dà una mano. E poi va specificato che le funzioni di un vescovo non possono essere fatte da qualcun altro».

Visti gli impegni e l’età di molti preti non sarebbe opportuno anticipare la messa di Mezzanotte? Il prossimo anno la farà prima?

«La possibilità è contemplata, lo stesso Papa l’ha anticipata. Sinceramente io il prossimo anno la farò comunque a Mezzanotte. Non mi era mai successa prima una cosa del genere, anche perché solitamente dormo poco. Le prime ore di sonno sono però quelle più profonde. Mi hanno tradito queste nuove sveglie tecnologiche dei telefonini».

Sui social, dopo che si è diffusa la notizia, molte persone le hanno espresso solidarietà. Sono stati pochissimi i commenti negativi. La maggior parte delle persone ha visto un semplice errore umano in quello che le è accaduto..

«Alla messa del giorno dopo, che ho celebrato, sono stato io stesso a raccontare l’accaduto ai fedeli. Credo che sia un fatto che suscita simpatia: gli scandali sono altri. Ho esposto la mia umanità: tutti possono fare degli errori, è proprio dell’uomo. Ma questo mio errore ha fatto trasparire la mia umanità, credo avvicinando la gente a una figura, quella del vescovo, che a volte viene percepita come lontana. E invece siamo umani anche noi. Per quello credo che le persone abbiamo reagito bene a quanto accaduto. La messa di Mezzanotte, poi, è stata celebrata egregiamente al mio posto da don Mirco Miotto»

Molti fedeli si erano spaventati e preoccupati nel non vederla arrivare alla messa di Mezzanotte.

«E’ vero, qualcuno credeva che mi fosse accaduto il peggio. Un po’ mi ha fatto piacere: significa che c’è chi mi vuole bene».

Babbo Natale.

Barbara Costa per Dagospia il 26 Dicembre 2022.

Da quando esiste Babbo Natale? Di sicuro non da poco. Ed è da quando esiste la pornografia, specie cinematografica, che Babbo Natale è stanato nelle più lerce pose! Che sesso e Babbo Natale stessero d’incanto insieme, chi fa porno lo ha capito all’istante, e infatti si giura che, tra i primissimi girati cinematografici, vi sia Babbo Natale che sc*pa e si fa sc*pare.

Un filmato degli anni '20 del Novecento, giusto un secolo fa, è fruibile sui siti porno free: se sia autentico o no è questione dibattuta, quel che è certo è che Santa Claus le donne non vedono l’ora di averlo tra le gambe, per scartare altri doni, per ricevere ben altro "pacco"! È quello porno un Babbo Natale senza candore, che reclama potenza virile, e se oggi, Babbi Natale e più Mamme, ci tentano in natalizia offerta speciale sulle app hot, pronte/i previo pagamento a offrirci focosi virtuali sollazzi, in tempi pre app il cinema porno sotto le Feste si scatenava a sfornare Babbi Natali e i più arrapati, sfoderanti sacche di sperma letizia. 

Non c’è pornoattore acclamato (passato, ma pure del presente) che una volta l’anno non abbia indossato – e subito dismesso – divisa rossa e barba bianca per omaggiare la più cedevole fanciulla o – ma solo all’inizio – la più ritrosa.

Fin troppo ovvio oggi tacciarli di maschilismo, ma sono stati gli anni '70, se non di più gli '80, a regalarci i Babbi Natali pornografici migliori, e mi si permetta l’onta di mettere sotto le natalizie luci della ribalta il divenuto innominabile Ron Jeremy (e a proposito: magari col nuovo anno ci daranno sue nuove, lo faranno uscire di galera o sanciranno di farlo marcire tra le sbarre perché è come dice l’accusa, Jeremy è un vecchiaccio stupratore, e di minorenni, e merita di finire la sua vita in prigione), Ron Jeremy, sottolineo, che, col suo panzone, era un Babbo Natale credibilissimo, e porno primeggiante su colleghi stalloni a pene messi pure meglio di lui. I porno di Natale con Jeremy si trovano in rete, e alcuni sono serial. 

Le cosce e i seni vieppiù se pompati e il fisico tutto delle attrici porno sono stati sotto Natale chiamati agli straordinari, fin dalla notte dei porno tempi. Non c’è pin-up che a Natale non abbia "dato" il meglio di sé e colmato le Sante Feste di urli e ansimi i più deliranti. È "Hustler" che come al solito frantuma ogni tabù e il vischio l’infila dritto nella f*ga (vischio masturbatore!), come sì che infila un Babbo Natale alticcio, reduce da gozzovigli ma per niente stanco a letto, con l’ennesima femmina atta a prendergli il pene in bocca a compiacerlo compiaciuta di un Babbo Natale che sa in acrobazie soddisfarla, e a ripetizione.

Sarà per la patina glamour che fu, o per il vello femminile non depilato e nemmeno piallato e assolutamente non minato da fotoritocchi, ma le f*ghe dei '70 sono per me irresistibili e irripetibili. Fresca, vergine del volgare barocco degli 80s e della grandeur dei 90s, la Seventies Pussy a Natale si prende licenza di e su ogni cosa, dalla stecca di pan di zenzero spinta al clitoride, alla mano che in primo piano spinge e affonda nei peli bagnati. 

Perdendo niente in grazia. Il Natale porno vintage libera gli ardori di lotte LGBT+ nascenti, e culturisti affogati di anabolizzanti – e non tutti gay – gaiamente folleggiano su riviste omoerotiche camuffate da stampa trattante salute e benessere. Vi sono poche esitazioni: a Natale i porno più aizzanti rimangono quelli a orgia. Di femmine!!! Tolgo qualcosa alle f*ghette le più a Natale glabre e luccicanti sui social, e con i video e le foto a richiesta sonanti, se dico che Bettie Page, nuda, anche sotto Natale, e massimamente sotto Natale, ti annega la bocca di saliva, e ti allaga tra le cosce, pari a nessuna?

Natasha Pearl Hansen per “Men’s Health” il 26 Dicembre 2022.

Quanto fa male lo stress da vacanza? Così tanto che, come abbiamo già scritto, in molti durante Natale smettono di fare sesso. E se invece riuscissimo a ridurre le preoccupazioni per lasciare intatta la nostra vita intima? Be’, è più facile di quando si pensi, basta mettersi nudi. 

Mia nonna diceva che i vestiti implicano prendere decisioni, e le decisioni sono fonte di stress, quindi liberarsi dei vestiti significa liberarsi dallo stress. Le nonne hanno sempre ragione. Più ci liberiamo di elementi della routine, più ci liberiamo emotivamente.

Natasha Turner, dottoressa in naturopatia, è convinta che stare nudi elimini lo stress. I migliori risultati si ottengono condividendo la nudità con un’altra persona. I bambini appena nati non sono gli unici a godere del contatto pelle a pelle, ne godiamo tutti perché riduce il cortisolo, l’ormone dello stress. Inoltre stare nudi aiuta la circolazione e ad eliminare le tossine, previene infezione fungine, riduce i rischi di irritazione 

Come affrontare un Natale “nature”? Con il vostro partner decorate l’albero, uno dei due dovrà mettere quell’angelo in cima e finirete come già sapete, rotolati a terra, ma pieni di brillantini e con qualche ornamento distrutto. Invece di andare in giro a fare i cori natalizi, restate in casa, nudi, versatevi un buon bicchiere di whiskey e ballate in intimità. Cucinate nudi, sarà un incontro particolarmente piccante. Niente è meglio che sdraiarsi nudi sul divano e godersi un po’ di televisione, il lieto fine è assicurato.

Babbo Natale, ecco la vera storia. Che inizia 1752 anni fa. Marino Niola su La Repubblica il 23 Dicembre 2022

Da San Nicola, un santo orientale nato a Mira, nell’odierna Turchia. Al signore in rosso che tutti i bimbi aspettano oggi

Babbo Natale ha 1752 anni ma non li dimostra. Anche perché in tutto questo tempo non ha mai smesso di ritoccarsi. Ha cambiato i connotati e anche le generalità. Il risultato è che a furia di trasformarsi è diventato un altro, pur restando sé stesso. Di fatto, il vecchio con la veste rossa e la barba bianca, il viso rubizzo e lo sguardo bonario, non somiglia per niente al Babbo Natale dell’origine. Che peraltro si chiama San Nicola, un santo orientale nato a Mira, nell’odierna Turchia, duecentosettanta anni dopo la nascita di Cristo e conosciuto per essere particolarmente vicino ai bambini. Addirittura, secondo la leggenda, ne resuscita tre fatti a pezzi da un orco cattivo. E per di più, salva anche tre ragazzine dalla prostituzione, regalando loro dei giocattoli d’oro.  Così si conquista la fama di amico dell’infanzia, oltre che la nomea di portadoni.

Nell’Europa del Nord dopo la conversione al cristianesimo la sua figura si fonde con quella del dio germanico Odin che nei giorni del solstizio d’inverno, corrispondenti al nostro periodo natalizio, va in giro volando su un cavallo alato a portare regali ai bambini. Nel Seicento, questa tradizione approda negli Stati Uniti con i migranti tedeschi e scandinavi. Ma soprattutto con quelli olandesi che, sulle rive dell’Hudson, fondano la città di New Amsterdam, l’odierna New York. E così dalla fusione del tedesco Sankt Nikolaus e dell’olandese Sint Niklaas nasce Santa Claus. Che incarna lo spirito del Natale americano e diventa popolarissimo tra i ragazzi. Anche perché il 6 dicembre, giorno della sua festa, lui a portare i regali a quelli che si sono comportati bene. Insomma, è una nuova metamorfosi di questo personaggio favoloso e generoso, ma non l’ultima. 

Perché fino agli inizi del Novecento il suo abito è verde, la sua barba è scura e la sua taglia non è ancora quella extra large che ormai lo identifica in tutto il mondo, perfino in quello non cristiano. A dargli il viso e il profilo attuale è la Coca Cola Corporation. Che all’esordio in commercio della sua bibita ha il problema di salvare l’immagine del suo marchio sotto attacco da parte dei moralisti dell’epoca, capeggiati dal chimico Harvey Wiley, che considerano la bevanda con le bollicine un pericolo per la salute. Ma anche per la morale, perché secondo i suoi denigratori provocherebbe nei più piccoli una insidiosa sovraeccitazione dei sensi. Il risultato è un processo in piena regola, celebrato nel 1911, da cui la bevanda esce assolta. Ma la sentenza vieta ogni pubblicità in cui siano presenti bambini che la bevono. La conseguenza è una bella fetta di mercato in meno. 

La mossa vincente arriva nel 1931, quando la compagnia di Atlanta affida al disegnatore Haddon Hubbard Sundblom una nuova campagna per avvicinare la Coca ai bambini, ma senza dirlo esplicitamente. Il geniale Haddon ricorre a un testimonial insospettabile come Santa Claus, ma gli dà il volto gioviale e rassicurante del suo vicino di casa Lou Patience. Lo dota di una soffice barba bianca come la neve e lo veste con i colori del marchio. Ma la vera furbata consiste nel disegnarlo mentre beve con sommo piacere una Coca circondato da bambini adoranti. Così il divieto è aggirato. 

Di fatto grazie a questa campagna pubblicitaria nasce il nuovo patrono della società dei consumi. Di lui il mondo dell’advertising non è più riuscito a fare a meno, perché nell’arco di poco tempo è diventato il dio del Natale di oggi. In un certo senso è il vecchio che ha detronizzato il bambino Gesù, ma si fa perdonare a forza di regali. Insomma, Babbo Natale è il moderno simbolo dei consumi natalizi, proprio perché incarna l’antico spirito del dono, della gratuità festiva e spesso anche festosa, in grado di cambiare di segno alla logica dell’interesse che regge la vita quotidiana. Che poi tutto questa girandola di doni e controdoni faccia anche economia e che imprima un’accelerazione vorticosa alla corsa agli acquisti non deve stupire, visto che ormai il consumo è la forma profonda del presente.

E in ogni caso, perfino nel nostro mondo, dominato dalla legge dell’utile, dove nessuno ti dà niente per niente, in certi momenti lo spirito della gratuità si fa strada tra le aride pieghe della domanda e dell’offerta e fa balenare la possibilità di un diverso algoritmo della vita.  È proprio quel che succede a Natale, quando un brivido dolce accarezza la schiena della società. E si mette in moto quella inarrestabile girandola di pacchetti e contropacchetti che prende tutto e tutti. È un intreccio ormai inestricabile tra celebrazione religiosa e sacralizzazione del mercato, tra fede ed economia. Fra altruismo e desiderio. Che divide in parti eque quel che è di dio e quel che è mio.

Barbara Carbone per "il Messaggero" il 26 Dicembre 2022.

Nelle commedie romantiche i giorni che precedono il Natale sono un susseguirsi di abbracci, doni, camini scoppiettanti e bambini arrampicati sulla scala per aggiungere l'ultima pallina all'albero di Natale. Ma nelle famiglie, quelle vere, funziona proprio così? Pare di no. La magica attesa della festa più bella dell'anno (come la festa stessa) mette in realtà a dura prova anche le relazioni più solide. Lo stress dei preparativi, l'ansia dei regali, le cene di auguri, i figli a casa e, per finire, i parenti. Sono loro i principali responsabili delle liti tra moglie e marito. Ma anche tra fratelli, cognati, amici. Perché il Natale ha un suo risvolto: tanta voglia di intimità e famiglia ma anche nostalgia, irritazione, insofferenza.

L'AMORE

Sarà, appunto, che le festività natalizie sono un amplificatore dei nostri stati d'animo o che il collante di tante coppie non è l'amore quanto piuttosto il vedersi poco. Non è possibile sottovalutare queste dinamiche se si vuole superare (quasi) indenni la cena della Vigilia come il pranzo di Natale con i parenti. Un vero e proprio esercizio per non rovinarsi le giornate in un'epoca che non ha certo bisogno di altre ansie e conflitti. Dicembre è un mese tutt' altro che facile e non sono poche le coppie che, proprio in questo periodo, scoppiano. 

A ben guardare il Natale perfetto esiste solo negli spot pubblicitari. Per gli esperti, però, esistono delle strategie per mantenere l'armonia. Secondo Costanza Marzotto, docente di Teorie e tecniche della mediazione familiare all'Università Cattolica di Milano, tra coniugi si parla poco. I silenzi si trasformano in litigi.

«L'aggressività nasce perché la comunicazione è scarsa. Bisognerebbe nominare i propri sentimenti, in qualche modo autorizzarli. Dialogando si scopre che mentre io temo le critiche della suocera, mia moglie ha paura del confronto con la cognata magra e che può indossare abiti aderenti- spiega Marzotto - Molti soffrono proprio la costrizione di trovarsi a Natale. Si tratta di un evento nel quale c'è un'aspettativa diversificata. 

I bambini sono felici per i doni e per il senso di appartenenza ad una stirpe, gli anziani attendono questo periodo per trasmettere tradizioni e godersi i nipoti invece, la generazione di mezzo, ha una serie di fonti di stress enormi. Tanti hanno perso il lavoro, altri hanno paura di riunirsi per il Covid, alcuni temono il giudizio della parentela. C'è troppa aspettativa verso i festeggiamenti e questo rende tutto più complicato. Le attese spasmodiche portano come conseguenza la paura. Bisognerebbe ridare più centralità alla nascita di Cristo e meno alle cose accessorie come i regali o la preparazione di piatti molto elaborati». 

L'OBBLIGO

A bene vedere sono essenzialmente due i motivi che, davanti a torrone e panettone, scatenano gli scontri generando grande malessere generale. Uno è legato al livello di intimità è molto alto perché il Natale viene condiviso con le persone a cui siamo più legate. E sappiamo che l'intimità spesso apre le porte a possibili conflitti basati sull'eccesso di conoscenza dei reciproci difetti, storie di vita, segreti. 

L'altro è strettamente legato all'obbligo sociale (e culturale) di condividere la festa. Che, per molti, è difficile, soprattutto di questi tempi, da accettare. La nuova ondata di Covid 19 certamente non aiuta a stemperare gli animi. Si discute se vaccinare o meno il figlio e se andare a cena dal cugino no vax. Tanti, troppi, devono anche fare i conti con i problemi economici e hanno davvero poca voglia di brindare. «Il Covid ha levato i freni alla violenza. La risposta alla coercizione che abbiamo subìto è stata l'aumento della disinibizione rispetto alla comunicazione violenta - commenta la psicologa e psicoterapeuta Annamaria Mandese - Questa reazione si è vista sia a livello sociale che familiare.

Oggi nelle relazioni vige l'intolleranza. E poi diciamolo, le festività sono un amplificatore dei doveri, se devo fare i preparativi, i regali, la spesa e poi anche preparare i tortellini a mano è chiaro che non posso farcela e mi aspetto che il partner mi dia una mano. L'aspettativa genera poi frustrazione. Il Natale dovrebbe essere letizia non la somma di tanti doveri». Ma, allora, come fare a salvare il Natale? Per Mandese dovremo introdurre nelle nostre case il divertimento. Chiedere meno a noi stessi ma divertirci di più. La felicità, o almeno la serenità, sono raggiungibili più facilmente di quello che immaginiamo.

Il Malumore e la depressione.

Sindrome del Grinch: cos'è e come superare il "malumore" per le feste. Durante il periodo natalizio, molte persone diventano tristi e irritabili. Gli psicologi identificano questo stato d'animo con la "sindrome del Grinch". Ecco quali sono i sintomi e qualche suggerimento per stare meglio. Rosa Scognamiglio il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il Natale non è sempre sinonimo di gioia e armonia o, almeno, non per tutti. Ne sa qualcosa chi, con l'arrivo delle festività, si lascia sopraffare dalla malinconia. Anzi, a dirla tutta, si tratta quasi di depressione: un mix di "odio" e tristezza che viene identificata come sindrome del Grinch. Prende il nome dal protagonista di un film d'animazione per bambini, un elfo verde - il Grinch, per l'appunto - che "ruba" il Natale.

"Il Natale è un periodo teoricamente felice, dove sembra che la tristezza non riesca a trovare spazio - spiegano gli esperti di Guidapsicologi.it - Tuttavia, molte persone, in queste date non si sentono in linea con i sentimenti di gioia e armonia. Il primo passo è riconoscere e accettare il proprio stato d'animo, senza giudizi".

Cos'è la sindrome del Grinch

Nota anche come Christmas blues - dall'inglese "malinconia di Natale" - la sindrome del Grinch si verifica quando le persone manifestano avversione per il Natale. Al punto da diventare suscettibili anche solo in presenza di elementi decorativi (luminarie, addobbi, eccetera) o canzoni che rimandino al periodo festivo. Chi ne è affetto prova una sensazione di profonda inadeguatezza rispetto al contesto circostante. Talvolta, assumendo un atteggiamento scontroso nei confronti di chi, invece, si rallegra dell'atmosfera natalizia.

"A volte le persone non sono consapevoli del disagio provocato a livello profondo e inconscio delle loro emozioni. - continuano gli esperti - Inoltre, si trovano a soffrire doppiamente quando vedono il contrasto tra ciò che provano rispetto alla gioia prevalente nell'ambiente esterno, che è solito produrre un senso di frustrazione". Questa frustrazione "può diffondersi e riversarsi su altre persone, soprattutto verso tutti coloro che sembrano godersi le feste e l'allegria".

Quali sono i sintomi

I motivi per cui una persona percepisce negativamente l'arrivo delle festività natalizie possono essere molteplici. La perdita prematura di un caro o eventuali conflittualità familiari, condizionano inevitabilmente lo stato d'animo di chi sta già attraversando un momento di vulnerabilità personale.

Senza contare, inoltre, che anche l'attuale situazione di precarietà economica e instabilità sociale rappresentano una non trascurabile aggravante. "L'inflazione ha un grande peso sulla maggior parte degli italiani. - chiariscono i professionisti di guidapsicologi.it - che si trovano a dover sostenere spese extra tra banchetti e regali".

Ma quali sono i sintomi della sindrome del Grinch? "I più comuni sono un turbamento emotivo che ci assale prima di Natale, includendo tutto ciò ad esso relazionato. - precisano gli esperti - Molto spesso si tratta di emozioni come tristezza e rabbia. Inoltre, c'è una tendenza all'isolamento, perché anche la folla, lo shopping, le luci e i canti natalizi sono fastidiosi per queste persone. Questa sindrome è sofferta prevalentemente in età adulta, a seguito di eventi negativi che hanno portato a respingere questa tipologia di festività e di buon umore collettivo dettato dal calendario".

Suggerimenti utili per superare la depressione natalizia

Così come suggeriscono gli esperti, è fondamentale che la persona affetta da sindrome del Grinch riconosca ed accetti il disagio che sta vivendo. "Bisogna capirlo, - spiegano - senza giudizi" rivendicando il "diritto" di essere tristi e nostalgici in un momento in cui gli altri non lo sono.

Ciò detto, vi sono una serie di attività a cui ci si può dedicare per superare il cattivo umore. Alcuni suggerimenti:

Viaggia. Se stare a casa durante le feste aumenta la sensazione di malinconia, perché non trovare un'alternativa che consenta di stare bene?

Dedica un tempo limitato agli impegni formali. Occorre stabilire un limite agli impegni natalizi. Non c'è nulla di sbagliato a declinare qualche invito.

Premia la tua resistenza. Un regalo, un momento per sé e un po' di consapevole autocompiacimento non hanno mai fatto male a nessuno.

Rifiuta senza sentirti in colpa. Perché mai? Talvolta un "no" è liberatorio.

Cerca di vedere il lato positivo delle cose. C'è sempre il rovescio della medaglia, qualcosa di buono in ogni situazione contraria della vita.

Fai yoga, mindfulness o esercizi di rilassamento. La meditazione, in particolar modo, aiuta a scaricare la tensione accumulata. Perché non provarci?

Fai qualcosa di socialmente utile. Mettersi al servizio della comunità o di chi ha più bisogno placa sicuramente il cattivo umore e aiuta a ricollocare tutto nella giusta dimensione.

Prenditi del tempo per te stesso. Non c'è momento più azzeccato del Natale per staccare dalla routine e dedicarsi alle attività di svago in totale libertà.

Infine, è molto utile ricordare che la sindrome del Grinch è solo un fenomeno transitorio. Il Natale passerà e la vita tornerà al suo ritmo naturale. Magari, con un pizzico di entusiasmo in più che, si sa, non guasta mai.

Sindrome del Grinch: come sopravvivere al Natale e godersi le vacanze. Malinconia, rabbia, fastidio: molte persone nel periodo delle Feste si trovano a fare i conti con uno stato d'animo tutt’altro che sereno.  Ecco da cosa dipende e qualche dritta utile per chi affronta il Natale in 'modalità Grinch'. FRANCESCA GASTALDI su Io Donna il 25 Dicembre 2022.

Lucine, addobbi, regali: se per alcuni il periodo di Natale porta un’incontenibile gioia, altri si trovano invece a fare i conti con emozioni come malinconia, tristezza e rabbia. Si tratta della Sindrome del Grinch, il cui nome prende spunto proprio dal celeberrimo racconto per bambini. Il protagonista infatti è una creatura verde, scontrosa e burbera, il Grinch appunto, che  infastidito dalle celebrazioni natalizie, decide di rubare il Natale.

Favole a parte, non è poi così raro vivere le festività provando tristezza e in qualche caso persino rabbia che finisce per riversarsi su chi sembra godersi in assoluta serenità questo periodo dell’anno.

Perché dunque a Natale ci sono persone che provano sentimenti di questo tipo? Che cos’è davvero la sindrome del Grinch? E quando questa tristezza si trasforma in odio? 

Sindrome del Grinch: da cosa ha origine

Tradizionalmente quello di Natale viene indicato come il periodo più felice dell’anno, un periodo in cui si pensa che tutti siano portati ad essere più sereni e in cui sembra che la tristezza non possa avere spazio. Trovarsi a sperimentare stati d’animo opposti quindi può non essere facile da gestire. Per questo il primo passo da fare è riconoscere e accettare le proprie emozioni, senza giudizi.

«In questo periodo, in cui tutti i messaggi che ci arrivano sono di felicità e armonia familiare, in quelle famiglie dove vi sono conflitti o dove recentemente è avvenuto un decesso, si crea una sensazione di profondo disagio, esattamente a causa del contrasto che si genera tra come ci si sente e come invece la società richiede che ci si dovrebbe sentire. – spiega la dottoressa Patrizia Mattioli, Psicologa e Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, collaboratore del Comitato di GuidaPsicologi.it –  Ci si sente fuori posto, sbagliati, come se il proprio stato d’animo fosse illecito, come se in questi giorni il diritto di essere tristi e nostalgici fosse sospeso. E questo fomenta il malessere interno».

Sindrome del Grinch: dalla rabbia alla frustrazione

«Le cause che danno origine alla sindrome del Grinch possono essere molte e diverse – spiega ancora la psicoterapeuta – questa condizione può riguardare chi è stato lasciato dal partner, chi sta vivendo una difficoltà economica a seguito della perdita del lavoro… Si tratta in generale di situazioni che possono essere vissute come un’ingiustizia e che scatenano, anche comprensibilmente, delle sensazioni di avversione e di rabbia. Sensazioni che poi possono riversarsi su chi non ha le stesse problematiche. In quei momenti la gioia che appartiene alla dimensione delle feste si sente molto distante».

Spesso non si è consapevoli del disagio provocato a livello profondo e inconscio dalle proprie emozioni e ci si trova a soffrire ancora di più quando si nota la differenza con gli altri. Questo provoca un senso di frustrazione che può riversarsi su altre persone, in primis verso tutti coloro che sembrano godersi le feste. 

Può succedere a tutti

Ma attenzione: parlare di sindrome fa pensare ad una condizione che riguarda per lo più persone maggiormente predisposte, quando in realtà non è cosi.

«Nel corso della vita può capitare a chiunque di fare i conti con la sindrome del Grinch – precisa ancora la dottoressa Mattioli – poiché a chiunque può capitare di vivere momenti difficili che non sono per nulla coerenti con il clima dei festeggiamenti».

Sindrome del Grinch: come si manifesta?

«Questa sindrome è sofferta prevalentemente in età adulta, a seguito di eventi negativi che hanno portato a respingere questa sorta  di buon umore collettivo dettato dal calendario – sottolinea ancora la psicologa –  I sintomi più comuni sono un turbamento emotivo che assale prima di Natale. Molto spesso si tratta di emozioni come tristezza e rabbia. Inoltre, c’è una tendenza all’isolamento, perché anche la folla, lo shopping, le luci e i canti natalizi sono estremamente fastidiosi per queste persone».

Quanto incide la situazione economico-sociale

Senza contare che a tutto questo si aggiunge oggi anche il peso del periodo che stiamo vivendo e degli ultimi eventi sociali e mondiali a cui stiamo assistendo.

«Molte persone provano comprensibilmente tristezza davanti alle notizie quotidiane. – precisa la psicoterapeuta – Inoltre, l’inflazione ha un grande peso sulla maggior parte degli italiani, che si trovano a dover sostenere spese extra tra regali e banchetti. Anche se in misura minore, poi, rispetto agli altri anni, alcune persone non sono ancora in grado di ricongiungersi con le loro famiglie nei giorni designati a causa del Covid. Tutto ciò influisce sul nostro stato d’animo e sul modo in cui percepiamo le festività natalizie».

E come comportarsi allora se nel gruppo degli amici più cari o in famiglia c’è qualcuno che vive le Feste con la classica Sindrome del Grinch?

«Non è facile stare accanto a una persona se non si vivono le sue stesse difficoltà – risponde la dottoressa Mattioli – Il primo passo è certamente cercare di capire quali sono i vissuti della persona che soffre e provare a entrare più in empatia, trovando uno spazio comune dove poter offrire sostegno. Non bisogna però forzare o pensare di poter in qualche modo modificare la sofferenza. Per fare un esempio concreto, se in famiglia c’è qualcuno che sta attraversando un momento difficile, che non gli consente di vivere il Natale con serenità, si può trovare una misura condivisa nel festeggiamento. Magari attraverso modalità più contenute che siano compatibili con la sofferenza di chi sta attraversando una difficoltà.

Quanto è diffusa la Sindrome del Grinch?

Bisogna inoltre considerare che provare malinconia, rabbia o tristezza nel periodo di Natale, sembra essere una condizione più comune di quanto si creda.

Almeno secondo quanto emerge da una recente indagine di MioDottore che ha voluto indagare le sensazioni che le festività generano negli italiani, osservando anche come queste si siano modificate nel corso degli anni.

I dati mostrano che, mentre il 42% degli italiani vive con felicità il periodo natalizio, un altro 40% sembra tenere ben presente i pro ma anche i contro delle festività e un restante 18% non riesce proprio a sopportare lo spirito natalizio che si respira in ogni angolo. A prescindere dalle differenti vedute, quello che emerge dall’indagine, però, è che questo momento dell’anno rappresenta una fonte di stress per il 78% degli italiani.

Cosa stressa di più gli italiani

Le ragioni? Quasi 2 italiani su 5 (39%) attribuiscono il malessere a una situazione familiare delicata che non permette loro di godere appieno delle feste e una percentuale simile (36%) soffre le classiche dinamiche legate ai “parenti serpenti” con i quali ci si sente obbligati a condividere la stessa tavola. In parallelo, anche l’avvicinarsi della fine dell’anno lavorativo genera ansia, tanto che il 39% degli intervistati lamenta una maggiore preoccupazione causata dai numerosi impegni sul luogo di lavoro, tra bilanci, scadenze e pianificazioni per il nuovo anno.

E se le questioni familiari e lo stress da lavoro pesavano anche prima della pandemia, dal 2019 sembra essere cresciuta la percentuale di chi si dichiara stressato dalla socialità allargata tipica delle feste.  Il tour de force di aperitivi pre-natalizi, cene aziendali e brindisi fa entrare in ansia il 36% degli italiani, precisamente il 16% in più rispetto al 2019. 

Sindrome del Grinch: come superarla

Numeri e statistiche a parte, quello che è utile sapere è che, anche se sembra impossibile, la Sindrome del Grinch può essere superata. O meglio, è possibile superare indenni le feste anche quando il proprio stato d’animo è decisamente simile a quello del verde mostriciattolo che voleva rubare il Natale.

Prima regola: tenere a mente che si tratta di un fenomeno temporaneo. Le Feste passeranno e la vita tornerà al suo ritmo naturale. Meglio concentrarsi allora su quelli che possono essere gli aspetti positivi del periodo.   

Io Donna

Le Tradizioni.

Natale da Nord a Sud. Pasta ripiena, ragù con carne, impasti con farina e piatti di recupero: la tradizione di Natale in cucina è piena di gusto da nord a sud, isole comprese. Angela Leucci il 25 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il Natale in Italia è un trionfo di tradizioni e di gusto. Esistono infatti da Nord a Sud, isole comprese, tantissimi piatti tipici delle feste che è impossibile prescindere. Spesso si inizia molto presto e tutti insieme a preparare da mangiare per le grandi tavolate, dove ad attendere i commensali ci sono cibo e vino, ma anche risate, abbracci ed eterne tombolate. Qui di seguito una selezione di alcuni piatti tipici della tradizione natalizia italiana: e sono solo alcuni perché servirebbe un libro intero per includerli tutti.

Il Nord della pasta ripiena

Che sia la vigilia della festa o la festa stessa, al nord Italia la pasta ripiena la fa da padrone. In Emilia Romagna per esempio un must è rappresentato dai tortellini in brodo: una tenera sfoglia racchiude un ripieno a base di carne, e il tutto viene bollito nel brodo.

In Piemonte sono invece tradizionali gli agnolotti del plin, che sono fatti con un ripieno a base di carne arrosto (nel Monferrato) o di carne d’asino (nell’Astigiano). Questo particolare tipo di raviolo è perfettamente quadrato e viene condito con brodo, ragù di carne oppure con i classici burro e salvia. Tipici della Bergamasca sono invece i casoncelli, il cui ripieno è fatto di salame e manzo (ma anche altri ingredienti, dal pangrattato alla noce moscata).

In Valle d’Aosta i pranzi e le cene delle feste natalizie si aprono con antipasti a base di motsetta, un salume di carne magra che viene realizzato con manzo, pecora, capra, maiale o selvaggina: la particolarità è che la carne viene insaporita, nel processo di produzione, da erbe di montagna che crescono sulle Alpi.

Tra i primi piatti natalizi del nord è necessario segnalare i canederli, che sono gnocchi di pane raffermo del Trentino Alto Adige preparati in brodo, e il risotto alla trevigiana, che prevede un condimento di speck e radicchio. In Liguria si usa invece un piatto unico davvero consistente, ovvero il cappon magro: è un piatto di recupero che si prepara per lo più a Pasqua, ma la sua realizzazione è diventata pian piano anche natalizia. Consiste in un insieme di pesce, frutti di mare, verdure e talvolta anche uova, che vengono acconciati in un piatto interessante dal punto di vista scenografico, per colori e forma.

Il Centro del ragù

Se al nord brodo, preparazioni leggere e ripieno appaiono quasi una costante a Natale, al centro Italia invece non si può fare a meno dell’abbondanza e del ragù. Così sulle tavole di Roma e del Lazio non possono mancare i cannelloni con il ragù di carne macinata e la besciamelle, mentre nelle Marche si realizzano i vincisgrassi. Questi ultimi consistono in una pasta al forno con lasagne all’uovo e besciamelle: nel ragù si usa la carne tritata grossolanamente, rigaglie di pollo, spezie come chiodi di garofano e perfino un po’ di vin cotto.

In Umbria invece il ragù è a base di cinghiale e condisce le pappardelle, con l’aiuto anche di ottimi funghi porcini raccolti in loco. Questo piatto è comune anche a altre zone, come per esempio in Toscana. Dove ogni pranzo o cena natalizia che si rispetti si apre con i crostini farciti con paté di fegatini di pollo.

Il Sud e le isole del “falso magro”

Le cene delle vigilie al sud e alle isole è “di magro”: significa che ci si astiene dalla carne e si ripiega sul pesce e sui frutti di mare. Per modo di dire, perché digiuno e astinenza sono parole della tradizione che si traducono in lauti banchetti per nulla leggeri, in cui ci si scambia affetto e amicizia condividendo un piatto.

In Campania, sulla tavola delle feste, non può mancare il capitone ma anche il baccalà. Quest’ultimo viene preparato in vari modi: scottato in padella e condito con verdure sottaceto, pastellato, in versione polpetta e così via. In Calabria e Sicilia sono invece tipici gli spaghetti con le alici e la mollica di pane raffermo, mentre in Trinacria si cuociono anche in forno le sarde a beccafico: uno dei piatti più amati dal commissario Montalbano prevede che le sarde siano preparate con un composto di aglio, pangrattato, prezzemolo, pinoli, uvette e olio di oliva, oltre che naturalmente sale e pepe.

I carboidrati sono all’insegna degli impasti del sud. Si va dalle scacce ragusane, sottili focacce farcite con pomodoro, alle pittole (o pettole) pugliesi, che consistono in un impasto lievitato di farina e acqua che viene fritto nell’olio bollente. Simili alle pittole sono diverse ricette di frittelle in tutto il sud Italia e in Sardegna: tra quelle notevoli ci sono le frittelle di alghe tipiche della Campania.

In Campania, nei giorni di vigilia, si prepara tra l’altro la minestra maritata, una zuppa che contiene diversi tipi di carne, diversi tipi di verdure a foglia, pecorino locale grattugiato e spezie. Tra le carni utilizzate c’è la gallina, la salsiccia e il manzo, mentre le verdure di solito sono scarole, cicorie selvatiche (laddove diffuse), biete (che vengono chiamate per estensione menesc’), borragine, cavoli e verze.

Chiudono questa lista due ricette tipiche della Sardegna. Su questa isola si preparano a Natale i culurgiones, una pasta ripiena dall’aspetto molto suggestivo perché è chiusa a formare una sorta di spiga. È preparata con diversi ripieni: pecorino sardo, patate, aglio e menta, ricotta di pecora capra, spinaci o altro. C’è infine il porceddu al mirto, che consiste nel cuocere allo spiedo un maialino intero aromatizzato con rami di mirto e insaporito con il lardo.

Quesiti linguistici. Panettone, pandoro, panforte e gli altri: i nomi dei dolci di Natale spiegati dalla Crusca. Accademia della Crusca su L’Inkiesta il 24 Dicembre 2022

Il pane, elemento centrale dell’alimentazione in numerose culture, nelle festività natalizie diventa dolce in numerose varianti. Ma oltre la divisione tra “panettonisti” e “pandoristi”, la lista dei pani dolci in Italia è lunghissima

Tratto dall’Accademia della Crusca

Per augurare ai nostri lettori un felice periodo festivo, pubblichiamo una golosa lista di nomi di dolci natalizi.

Risposta

Il pane è elemento centrale dell’alimentazione in numerose culture, spesso caricato di particolare sacralità: si pensi solo che la tradizione suggerisce di non infilzarci il coltello e di non posarlo sulla tavola capovolto, e che vige quasi il divieto di gettarlo: non a caso, esistono infinite ricette per riciclare il pane raffermo. A Natale, questo alimento così simbolico si agghinda per le feste: in altre parole, diventa un pane dolce, che in molti casi conserva il richiamo all’alimento da cui deriva quasi solo nel nome.

I due “pani” più rappresentativi del Natale in Italia sono sicuramente il panettone di Milano e il pandoro di Verona, che dividono letteralmente il paese in “panettonisti” e “pandoristi”. Anche all’interno di questi schieramenti possiamo individuare ulteriori categorie: tra gli amanti del panettone abbiamo chi apprezza l’uvetta ma non i canditi o viceversa, tra gli appassionati del pandoro i “puristi”, che non ne vogliono sapere di farciture e glasse, e coloro che invece apprezzano le sperimentazioni: un vero scontro all’ultima fetta.

La storia del panettone, il dolce natalizio più famoso d’Italia (e più esportato nel mondo), appare indissolubilmente legata a Milano: già in un glossario dei primi del Seicento del dialetto milanese, il Varon milanes de la lengua de Milan, si fa cenno a un «pan grosso, qual si suol fare il giorno di Natale», come ricordato da Giuseppe Sergio (Il panettone, ovvero Milano alla conquista del Natale, in Massimo Arcangeli [a cura di], Peccati di lingua. Le 100 parole italiane del Gusto, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 201-203). Si trattava, ancora, semplicemente di un grosso pane preparato per le feste. La tradizione di preparare un grande pane (dal che panettùn) da dividere con i propri cari nelle festività pare risalire al Medioevo. Solo nel XIX secolo il panettone diventa il dolce di Milano, arricchendosi via via di ingredienti golosi e cambiando anche forma: da quella tonda e piatta di focaccia a quella di cupola. Giuseppe Rigutini, nell’Appendice al Vocabolario italiano della lingua parlata (1876), lo definisce «sorta di pane fatto con farina, burro, zafferano e lievitato con birra. Lo fanno assai bene a Milano», a ulteriore prova del fatto che la tradizione del panettone è da considerare milanese. Alberto Cougnet (L’arte cucinaria in Italia, Milano, Società tipografica Successori Wilmant, 1911), nel breve trafiletto che precede la ricetta della leccornia, scrive:

È il dolce più caratteristico d’Italia […]. Andate in qualsiasi città del mondo – vecchio e nuovo – e troverete che il panettone troneggia fra i grossi pezzi della pastellaria dulciaria. Infatti sono convogli intieri di cassette di panettone che partono verso la fine di novembre da Milano per avviarsi verso le lontane Americhe, specialmente, portando colà, ed in altre regioni divinate e scoperte dal genio di Cristoforo Colombo, di Amerigo Vespucci, di Caboto e di Pigafetta, e persino in quelle asiatiche percorse per la prima volta da un europeo, il veneziano Marco Polo, un ricordo folkloristico per la cena tradizionale del “ceppo”, il panettone di Natale, che ai buoni Ambrosiani, al di là dei vasti mari e dei continenti infiniti, rammenta l’antico rito che formava la gioia dei loro anni infantili, quando accomunati al domestico banchetto, trionfava, dopo il tacchino o pollin, farcito di mele, di marroni e di tartufi, il colossale panettone.

Pellegrino Artusi, dal canto suo, nell’edizione del 1911 del suo celebre volume La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie (Firenze, Tipografia Landi), a p. 417 riporta la ricetta (la 604) della versione del panettone preparata dalla sua governante, Marietta Sabatini, chiamata in suo onore proprio “Panettone Marietta”. In fondo alla ricetta, Artusi esprime la sua preferenza: «È un dolce che merita di essere raccomandato perché migliore assai del panettone di Milano che si trova in commercio, e richiede poco impazzamento»: all’epoca, insomma, esisteva già una produzione industriale di questa golosità.

La cerimonia del ceppo nominata dal Cougnet viene descritta nei particolari sulla pagina di Academia Barilla in questi termini:

All’inizio di questa sorta di cerimonia il capofamiglia si faceva il segno della croce, quindi metteva nel camino un grosso ceppo di quercia e lo faceva bruciare con un fascio di rami di ginepro. Una volta acceso il fuoco, riempiva un calice di vino e ne gettava qualche goccia sul fuoco, quindi ne beveva un sorso, per poi passarlo agli altri membri della famiglia perché ne bevessero tutti. Una volta terminato il vino, gettava una moneta sempre nel fuoco e ne distribuiva una a testa ad ogni familiare. A questo punto si portavano in tavola i panettoni, di solito tre. Da essi il capofamiglia tagliava una fetta da mettere da parte per farla benedire il giorno di San Biagio, a febbraio, per poi conservarla fino al Natale successivo come portafortuna.

Il nome panettone, dunque, deriverebbe semplicemente dalla sua natura originaria di “grande pane”. A questo etimo così disadorno si sono sovrapposte mille leggende, delle quali dà conto Stanislao Porzio in un volume del 2007 (Il panettone. Storie, leggende e segreti di un protagonista del Natale, Milano, Guido Tommasi). Secondo una di queste, il nome deriverebbe da “pane di Toni”: alla fine del XV secolo, alla corte di Ludovico Sforza, durante un lungo banchetto, un giovanissimo garzone di panetteria si addormenta mentre doveva sorvegliare il forno in cui cuoceva il dolce. Il dolce si brucia e lui, per riparare al guaio, improvvisa un dolce con la pasta di pane avanzata e tutte le leccornie che trova in giro per la cucina: burro, uvetta, canditi. Questo dolce nato per caso sarebbe piaciuto così tanto al duca da far sì che da lì in poi il pane di Toni venisse servito ogni Natale. In un’altra leggenda è quella di Ughetto della Tela che arricchisce via via la semplice pagnotta per risollevare le sorti della panetteria del padre della ragazza di cui si era innamorato. Si noti, peraltro, che in milanese l’uvetta si chiama proprio ughetta. Questa storia è stata anche usata molti anni fa dall’azienda Motta come pubblicità nel 1949 (foto dall’Archivio Alinari).

Nei libri di cucina dal Novecento in poi possiamo trovare infinite ricette del panettone, qualora volessimo prepararlo (con molta fatica) in casa. Esiste, però, un disciplinare di produzione di questo dolce che prevede l’uso dei seguenti ingredienti: farina, zucchero, uova, burro (almeno il 16% del prodotto), uvetta e scorze di agrumi canditi (almeno il 20% del prodotto), lievito naturale e sale. Gli altri ingredienti sono opzionali; il procedimento per la realizzazione è assai complicato, come si evince dalle molte ricette in circolazione.

Il pandoro viene, invece, da Verona. La storia sembra più recente, tanto che possiamo rintracciare con relativa certezza il “papà” del soffice dolce, che si distingue dal panettone per la mancanza di ingredienti aggiuntivi al suo interno (solo una morbida e burrosa pasta dorata). Si tratta di Domenico Melegatti, che, a fine Ottocento, avrebbe creato il Pan d’oro partendo dalla ricetta del tradizionale dolce veronese del Natale, il nadalin, cotto proprio in uno stampo a forma di stella a otto punte (ma molto più basso rispetto a quello dell’odierno pandoro) e aromatizzato anche con pinoli e anice. Alcune fonti riportano una possibile discendenza da un altro dolce veronese tipico delle feste, il levà (‘lievitato’), preparato con ingredienti semplici quali farina, latte e uova. In base al nome, si è data l’ipotesi che il dolce fosse invece nato ai tempi della Repubblica Veneta come Pan de Oro, seguendo l’uso rinascimentale che prevedeva di decorare i dolci con foglie di oro zecchino. Alcuni ritengono probabile anche l’influsso del pane di Vienna (Wienerbrot), un dolce della tradizione mitteleuropea preparato con una pasta tipo brioche (cfr. ad es. A. Lo Russo [a cura di], Dolce Natale: panettone e pandoro. Una tradizione italiana, Firenze, Alinari, 2004). In ogni caso, il Melegatti modifica le precedenti ricette, alleggerendole, e decide di cuocere il pandoro in uno stampo metallico a forma di stella a otto punte, come già quello del nadalin, ma, come dicevamo, più alto.

Il 14 ottobre 1884, Melegatti chiede la registrazione della ricetta del Pandoro (dolce speciale). Assieme alla ricetta, Melegatti registra anche lo stampo in cui l’impasto viene cotto, disegnato per lui dall’artista e pittore veronese Angelo Dall’Oca Bianca (1858-1942). Una forma così iconica da essere stata anche immortalata sulla facciata di Palazzo Melegatti-Turco-Ronca in corso Porta Borsari 21 a Verona, sede originaria del laboratorio di pasticceria omonimo. accademia della crusca

Luca de Gennaro per “la Stampa” il 26 Dicembre 2022.

Che la protagonista femminile del Natale si chiamasse Maria era fuor di dubbio fin da quella notte a Betlemme, ma nel 1994 la storia ha aggiunto una «h» al nome e da allora la «Queen Of Christmas» è lei, Mariah Carey, che scrisse, con Walter Afanasieff, e cantò All I Want for Christmas is You. Un brano che ogni anno a dicembre scala le classifiche, imprescindibile in ogni playlist natalizia, veglione o cenone, che il New Yorker ha definito «una delle poche moderne aggiunte di valore al canone musicale delle canzoni natalizie».

Forse l'altra canzone di Natale scritta nell'era moderna che si può paragonare a lei è Last Christmas degli Wham!, uscita dieci anni prima, talmente inevitabile che vi è stato creato attorno il buffo contest globale detto «Whamageddon», che consiste nel cercare di evitarne l'ascolto per tutto dicembre, e autodenunciarsi sui social nel momento in cui ti capiti accidentalmente di ascoltarla, in un negozio, alla radio o ovunque. Una gara difficilissima che in pochi riescono a portare a termine.

 Ma si scherza, ovviamente, e intanto Mariah e gli Wham! sono di nuovo ai primi posti della classifica globale delle canzoni più ascoltate. Ma la storia delle canzoni di Natale è lunga e nobile, e chiunque ci si è cimentato, da Bob Dylan a Bruce Springsteen, da Elvis Presley a Aretha Franklin. C'è chi ci ha costruito un pezzo di carriera, come Michael Bublè, il cui Christmas (2011) è il suo best seller assoluto, e che viene considerato una sorta di contraltare maschile alla regina Mariah.

Perché il Natale funziona anche commercialmente, tanto che centinaia tra le maggiori stazioni radio americane, ogni anno, dal giorno dopo Halloween, adottano il formato musicale All Christmas e per due mesi trasmettono esclusivamente canzoni natalizie. Ce n'è per tutti i generi. Il primo disco rap di successo fu Christmas Rappin'di Kurtis Blow, nel 1979, stesso anno in cui la ventenne Kate Bush (protagonista delle classifiche nel 2022 grazie al rilancio clamoroso di Running Up That Hill) pubblicava la deliziosa December Will be Magic Again.

Anche il rock progressivo inglese si era lasciato affascinare dalle atmosfere bucoliche delle festività: il Christmas Album dei Jethro Tull è un classico, ma nel genere la canzone più bella fu I Believe in Father Christmas di Greg Lake (1975), che malgrado la melodia tradizionale e i campanelli era una invettiva contro la commercializzazione del Natale. In Inghilterra è sempre stata tradizione (finché si vendevano i dischi) la lotta per la prima posizione in classifica nella settimana di Natale, quando le famiglie dopo pranzo si raccoglievano davanti alla tv per la puntata natalizia di Top Of The Pops.

Nel 1973, anno d'oro del «glam rock», la battaglia fu vinta dai tamarrissimi Slade, che con Merry Xmas Everybody scrissero uno dei più longevi inni britannici al Natale. Anche una band simbolo del punk come i Ramones, lontanissimi dalle melodie zuccherose, registrarono la loro Merry Christmas (I Don't Wanna Fight Tonight) , e i paladini del rock celtico alternativo, i Pogues, incisero nel 1987 la struggente Fairy Tale of New York, la canzone di Natale più trasmessa del secolo scorso dalle radio inglesi e da molti considerata la più bella di sempre. 

E se Paul McCartney si avvicinò al genere con la spensierata Wonderful Christmastime, John Lennon la prese più sul serio e fece della sua Happy Xmas (War is Over) un inno pacifista di protesta contro la guerra in Vietnam.

Perché se a Natale si è tutti più buoni allora anche le canzoni possono essere un veicolo per far del bene. Dal 1987 uscirono regolarmente quattro album della serie A Very Special Christmas cui le più grandi popstar del mondo, come Sting, U2 e Madonna, contribuivano con canzoni natalizie (le copertine erano firmate da Keith Haring) ad un progetto benefico per ragazzi con disabilità. In questo, il punto più alto nella storia delle canzoni di Natale venne raggiunto il 3 dicembre 1984, giorno in cui uscì Do They Know It' s Christmas, che le maggiori stelle della musica inglese, convocate da Bob Geldof, avevano cantato per aiutare la condizione di estrema povertà in Etiopia.

Vendette tre milioni di copie in un mese, record di velocità, e raccolse otto milioni di sterline per la causa africana. Una canzone può servire anche a questo, non solo come sottofondo allo spacchettamento dei regali sotto l'albero, può farci pensare a cosa succede nel mondo, a chi il Natale non può permettersi di festeggiarlo, e a far riflettere con versi spietati come quello urlato da Bono in quella canzone: «Questa notte ringrazia Dio che sono loro e non sei tu».

Dileggio di un corpo”. La Rai fa la guerra al “medievale” tacchino. Il tweet del consigliere di amministrazione della Rai dalla mensa di Saxa Rubra: “È offensivo”. Nicola Porro il 24 Dicembre 2022,

Facciamo questo gioco. Anziché scrivere un commento più o meno intelligente su quello che stiamo per raccontarvi, vi segnaliamo una notizia e poi penserete voi a dirci la vostra (commentate qui sotto, possibilmente senza esagerare coi toni).

Allora: siamo in Rai, viale Mazzini. Nella mensa della tv di Stato viene cucinato un bel tacchino arrosto che neppure al Giorno del ringraziamento americano. Il volatile abbrustolito se ne sta lì, meravigliosamente adagiato su un piatto di insalata finché in mensa arriva Riccardo Laganà. Il membro del consiglio di amministrazione Rai lo vede, indignato, scatta una fotografia e pubblica l’immagine sui social. Corredata dal seguente commento: “Presso mensa Rai di Saxa Rubra si torna al medioevo nel nome del rispetto di sedicenti ‘tradizioni’. Il dileggio di un corpo che voleva vivere crea disagio e offende sempre più persone. Nel 2023 occorre rispetto per gli animali, ambiente e le sensibilità di chi non mangia animali”. 

Ora, ognuno la pensa come gli pare. Quindi il discorso vale anche per Laganà, che è stato eletto consigliere nel 2018 e confermato nel 2021 e che, stando a quanto scritto sul sito della tv di Stato, è anche un “attivista e volontario nel campo della tutela e della salvaguardia degli animali e dell’ambiente”. Occupandosi insomma di “formazione” e degli “aspetti divulgativi per lo sviluppo di una cultura del rispetto di animali e ambiente”, si è sentito di condividere con i follower di Twitter questa intemerata contro il tacchino. Ovviamente i social si dividono tra chi lo prende un po’ in giro e chi lo difende, ricordando che “1500 studiosi del clima dell’Intergovernmental Panel on Climate Change” ci chiedono di “ridurre drasticamente il consumo di carne” per “salvare tutti”. Va bene, ok. Però voglio dire: manco a Natale?

Oggi brindiamo alla faccia delle virostar rompipalle. Max Del Papa su Nicolaporro.it 25 Dicembre 2022

Che sensazione di leggera follia/Sta rovinando la festa mia/Non ho neanche finito con la meringa e qualcuno/Stasera arriva qualcuno/Brandisce una siringa/La gioia la dura minga…

Per due Natali siamo andati così. Con certi loschi figuri, promossi a virustar, che regolavano cenoni e raduni con fanatico impeto statalista: come mangiare, cosa mangiare, come vestire, come distanziare, aerare, augurare, aprite le finestre al nuovo gelo, e soprattutto bucatevi, bucatevi, bucatevi.

Il bucato di Natale. Il Pregliasco, che mi hai dato tu, più fa fiasco, e più ne vuol di più. Ci volevano sigillati in casa. Senza aprire ai non sierati. Senza parlarci e senza baci sotto il vischio, anche se ormai si è estinto prima dei ghiacciai. Senza regali, “che sono focolai” (pure queste bestialità ci toccò sentire). Senza mangiare vicini: un commensale, un tavolino, come all’osteria. Senza effusioni. Tra moglie e marito, non metterci un candito. Al posto del salmone, infilaci un tampone. Nella televisione, un bombardamento da ufficio facce (chi ricorda Beppe Viola ed Enzo Jannacci, sa di cosa parlo): da Burioni, da Galli, da Pregliasco, da Lopalco, da Capua, da Viola, da Abrignani, da Ricciardi, da Rezza e da…

E poi, di colpo, il vuoto o quasi. Diciamocelo: non siamo più abituati. Senza il virompicoglioni che ti annuncia disgrazie, ci sentiamo persi. Anche se i telegiornali insistono. Anche se le solite facce non cedono. Anche se la mascherina non è più la regina della tavola, e non ce la ritroviamo al posto del tovagliolo. Due Natali e tre Pasque così, e siamo diventati sudditi. Frigidi. Incapaci di tornare alla normalità di prima. Di tanta libertà natalizia, si fa per dire, non sappiamo che fare. Ce l’hanno fatta, e ce l’hanno fatta – è il caso di dirlo – sotto il naso, anzi sopra. Adesso dobbiamo ricominciare tutto da capo, a vivere, a festeggiare questo straccio di Natale che rimane e già ti azzannano: se non per il Covid, almeno per l’influenza, per la sifilide, per la rogna ma almeno un buco fattelo, vaccìnati, drògati. Che abbiamo un miliardo di dosi da smaltire ancora. Che non bastano i centenari e neanche i feti. Che se no il presidente quadridosato e quadrinfettato ci rimane male (vedrete che nel pistolotto di fine anno non rinuncerà alla solita propaganda…).

C’è già qualche coglione che esulta: io sono alla quinta! Restano i disperati in giro con la mascherina, alla cinese. Il Tg1, sempre in prima linea, è arrivato a criticare la Cina che allenta le restrizioni dittatoriali sotto le proteste di un miliardo e mezzo di schiavi, a conferma che il regime sanitario non muore, passa come una staffetta da sinistra a destra ma resta, al limite lo congelano ma è lì, pronto a tornar fuori alla prossima ragion politica spacciata per esigenza sociale. Siamo come i carcerati che escono dopo 40 anni, come i deportati in un certo modo: non sappiamo bene come muoverci, tutto ci pare diverso, nutriamo latenti sensi di colpa, e se poi tossisco e infetto il nonno? E se quel malessere potevo curarlo meglio, con una raffica di shot? Ci hanno instillato il senso del pericolo e il senso di colpa, la ragione dice una cosa ma l’istinto ormai tira altrove.

Anche in chiesa resistono i preti oltranzisti che negano il segno di pace fisico e l’acqua benedetta; il clero in questa temperie ha dato il peggio da ottant’anni, ha rinnegato Cristo peggio di Giuda, ha sposato i trenta sicli, o disaggi, come voleva il regime. Che sensazione di leggera follia: abbiamo vissuto, celebrato per anni, una guerra, come in un incubo, ridotti a zombie e adesso, che abbiamo conferma di come tutto fosse inutile, una parte di noi si rifiuta di crederci: ma allora mi avete preso per il culo tutta la vita, come esclamava Fantozzi, disperato. E già ci impongono di non dirci “buon Natale” ma buone feste, più inclusivo, ma non per il Bambinello. E i piddini ci guardano in cagnesco, ah, voi credete di cavarvela ma ritorneremo! E i viropolitici si vendono al migliore offerente, mendicano candidature, sempre a sinistra, ecco dove finiva “la scienza”, ecco per cosa hanno messo in scena l’orrore. Ma non gli importa, una faccia non ce l’hanno, per questo insistono a coprirsela con la mascherina.

Sono un po’ tutti come il sardina Mattia, passato con la disinvoltura di un lancio di frisbee dal “Pd partito tossico” alla tessera con tanto di maglietta indossata. Poi dice che questi sono contro il merito: ma per forza, il Santori aspira, oltre le canne, anche ad un posto di vice Elly. E questa, attenzione, non è la meglio gioventù (sui 38 anni) che vuol rilanciare il partito con le armi petalose della “inclusione”, sono carognette, piranha che sognano il potere per ripristinare il regime a trazione cinese. Se si pensa che per prima cosa la candidata Schlein ha arruolato Francesco Boccia, quello con gli occhialini gelidi, alla Gramsci. E cosa diceva Boccia? “Serve l’obbligo vaccinale, la terza dose è scontata, riapriremo solo dopo che tutti gli over 60 si saranno vaccinati, o si vaccina il 90% della popolazione minimo o li faremo vaccinare con la forza, i novax sono irresponsabili, i dubbiosi vanno rieducati, via con la quarta dose, massimo rigore o chiusura totale”.

Il funzionario del Politburo fu uno dei più feroci, di lui si ricorda l’agghiacciante uscita “Molti italiani non ci saranno più nel prossimo Natale”. E riparte da Schlein. E a destra non dicono niente. E la tanto pompata commissione d’inchiesta sui crimini&misfatti della strategia sanitaria si è persa nell’oblio e nessuno ne vuole più parlare. In compenso, parlano, come prima, con l’arroganza di sempre, i falliti che hanno sfigurato la scienza, le facce truci del terrore sono le stesse, e le loro voci sembrano ancora uscire dall’oltretomba, annunciano stragi, nemesi: l’Apocalisse.

Ecco perché non siamo tranquilli neanche quest’anno. Sappiamo che questa normalità è fragile come vetro, può rivelarsi un miraggio, una crudele presa in giro. Ancora temiamo di sentire un colpo che non è il tappo dello spumante che salta, ma un asettico bussarci alla porta. Max Del Papa, 25 dicembre 2022

Natale, il sogno della sinistra: un 25 dicembre senza religione. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2022

Vicino alla basilica di San Petronio, dove tra poche ore si celebra la Notte Santa, le luminarie compongono i versi che annullano il Natale, il suo senso, la sua storicità. Niente Gesù. Lo privano di carne e ossa, nessun vagito di bimbo. L'amministrazione comunale di Bologna scandisce con le lampadine nella strada centrale dei negozi le due frasi di John Lennon (ispirate dalla sua musa e moglie, Yoko Ono) che affermano la religione del post cristianesimo: «Imagine there' s no heaven... and no religion too», cioè «immagina che non ci sia il paradiso e non ci sia neanche la religione». Il senso è: sarebbe fantastico, allora sì nascerebbe il mondo nuovo. Non ci sarebbero nazioni, nessuna identità particolare, ma un cosmopolitismo che darà all'uomo la pace senza bisogno di cercare Dio.

LA PROTESTA

Informato della faccenda per fortuna un vescovo si è inalberato. Monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, ha qualificato questa operazione come «insulsa provocazione anticlericale». E lo ha fatto su Avvenire, con ogni evidenza con la benedizione del cardinale Matteo Zuppi, che da questa città capeggia i vescovi italiani, e ha personalmente voluto evitare la polemica. C'è un problema. Qui non si tratta da parte dei citazionisti di Lennon di un uso distorto e fedifrago di «un meraviglioso Inno alla pace», come sostiene il prelato siciliano, il quale trasforma il fondatore dei Beatles in una sorta di precursore di Papa Francesco. Su, un po' di lealtà con gli autori, chieda pure alla artista giapponese che a 89 anni opera ancora tra noi: quelle frasi vogliono dire proprio quel che dicono. Nascono da un'opera di Yoko Ono, non c'è bisogno di nessun Salvatore per arrivare a pace e felicità.

Trattiamo perciò la faccenda per quello che è: non un tradimento del vero Lennon, il quale ha già miliardi di cultori del suo mito, ma un episodio nostrano e sfacciato di cancel culture. Il quale rivela di quale ideologia si nutra la sinistra anche oggi, soprattutto adesso: un'ideologia dove si mescolano ateismo e panteismo, nichilismo e utopia, negando l'essenza stessa della nostra identità di popolo e nazione.

Abbiamo rintracciato un antecedente. La Grande Enciclopedia Sovietica, che a Bologna negli anni '50 valeva più della Bibbia. Essa evidentemente fa ancora scuola. Ovvio, senza le rudezze della propaganda staliniana, ma il concetto è lo stesso: a Natale non è nato nessuno. Nella prima edizione, della colossale opera in 65 volumi, tra le 65mila voci, c'era infatti pure quella dedicata a Gesù Cristo. Tutto un fuoco d'artificio di scienza e di cultura marxista per arrivare alla verità-tà-tà: Gesù detto il Nazareno non è nato in alcun luogo, il personaggio narrato nei Vangeli è un'invenzione, un mito creato per abbindolare le masse popolari. I comunisti pur di impedire che qualcuno osasse porsi la domanda su chi fosse Gesù, troncarono il problema alla radice, negandone non solo morte e resurrezione (come il Corano) ma pure la nascita. Stalin fece insomma con Cristo un lavoro di sbianchettamento come se i Vangeli fossero il dossier Mitrokhin.

ADDIO AL FESTEGGIATO

E così siamo al Natale 2022. Per festeggiare il compleanno di Gesù niente di meglio che far sparire il festeggiato. Idea geniale del Minculpop del soviet municipale: niente Bambinello, zero stella cometa, figuriamoci Madonna e San Giuseppe.

Non che li si neghi apertamente. Non siamo davanti a gente volgare, ma a creature acculturate come volpini - direbbe Ezio Greggio - : fini lettori dei tempi. Nessuno striscione dunque tipo: «Gesù? No grazie». Neppure ci si sogna di emulare anche solo pallidamente la militante di Femen. (Nessun giornale o tg lo ha raccontato: nella chiesa di santa Maddalena a Parigi questa signora del movimento ceco ha mimato l'aborto del Messia, indi orinato sull'altare. Condannata in Francia, è stata considerata vittima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo come eroina della libertà di espressione: sul serio, ottobre scorso). L'amministrazione degli Asinelli (nessuna allusione al presepe per carità, è il caso ci querelino) ha deciso, in occasione di quell'evento che pure conta qualcosa nella storia dell'umanità, forse addirittura più di Yoko Ono, di appendere luminarie dove Gesù è consegnato alla muffa degli spettri scaduti. Come voleva il compendio della cultura comunista sopra citato, si tratta di un mito superato, una leggenda ingannevole. Il titolo del Natale post-comunista e post-cristiano di Bologna, ma in piena aderenza all'idiozia dominante (citazione di Lars von Trier), potrebbe essere: dimenticare Betlemme. Noi ci ricordiamo, alla faccia vostra.

Marino Niola per “la Repubblica” il 6 gennaio 2023.

L'Epifania tutte le feste porta via. Questo vecchio adagio ha rovinato le vacanze di intere generazioni. Perché sulla gioia per i giocattoli ricevuti dalla Befana si allungava subito l'ombra minacciosa del ritorno a scuola. Insieme a quella malinconia senza origine apparente che si associa da sempre alla sera del dì di festa. In realtà la ricorrenza di oggi è intimamente legata al sentimento del tempo, alla fine di un ciclo annuale, a un passaggio stagionale che proprio nella "dodicesima notte", come la chiama William Shakespeare, trova il suo magico epilogo. Quando col favore delle tenebre la vecchia volante si infila nelle case per saldare i conti con i bambini.

 Dispensando doni a quelli buoni, cenere e carbone a quelli cattivi. Ma in realtà la buona megera che svolazza a cavallo della sua scopa è come l'araba fenice, che ci sia ciascun lo dice cosa sia nessun lo sa. Non esiste eppure c'è. Nel senso che la sua antica magia è frutto di un equivoco.

La parola Befana, infatti, nasce dalla corruzione popolare del termine greco Epifania, che significa manifestazione. E indica la rivelazione della doppia natura di Cristo, umana e divina, ai Re Magi giunti a Betlemme per rendere omaggio al divino Infante. E soprattutto per portargli i fatidici doni. Oro, incenso e mirra. Il primo simbolo della regalità, il secondo della divinità, la terza della morte e della resurrezione.

 Ma nel corso di un morphing durato duemila anni, le tradizioni popolari hanno trasformato un termine astratto come l'Epifania in pifania, poi in bifania, poi ancora in befania e alla fine in Befana. Così il nome comune è diventato un nome proprio. E il dogma si è trasformato in una persona. Una vegliarda decrepita che rappresenta la senescenza del tempo, la personificazione di Madre natura al termine del suo ciclo annuale.

In fondo, la Befana che vien di notte con le scarpe tutte rotte è il risultato di una fusione tra i riti calendariali precristiani che celebravano il passaggio dal vecchio al nuovo anno e il ciclo cristiano del Natale con i suoi simboli. Ecco perché nelle credenze popolari europee, i dodici giorni tra Natale e l'Epifania erano considerati uno dei periodi dell'anno in cui più forte si avvertiva la presenza delle streghe. In particolare nella "dodicesima notte", quando la comunicazione con il soprannaturale si faceva più intensa.

Forse proprio per questo carattere così simbolico, il sei gennaio ha finito per essere dedicato a questa figura generosa e inquietante, amata e temuta, un po' fata e un po' strega. Perché in fondo la Befana non è che il "doppio benefico" delle streghe delle fiabe, infatti i bambini li ama e non li mangia. Ma al pari delle sue perfide colleghe vola di casa in casa a cavallo di una scopa, oggetto cui la mitologia ha sempre attribuito poteri straordinari.

Ma tutto questo armamentario di simboli non basterebbe a fare la Befana. Per trasformare una semplice rider dei cieli antenata di Amazon nella portadoni più celebre di sempre, ci è voluto un logo millenario come la calza. Un indumento dagli infiniti significati, che risale addirittura alle antiche divinità femminili del mondo mediterraneo.

Le arcane custodi del tempo, quelle che garantivano l'ordine delle stagioni e l'abbondanza dei raccolti. Tra queste signore del calendario spicca la ninfa Egeria, tutor soprannaturale del secondo re di Roma, Numa Pompilio. Il successore di Romolo avrebbe sviluppato la sua proverbiale saggezza grazie proprio ai consigli di Egeria, che alle calende di gennaio, in corrispondenza con la nostra Epifania, gli faceva trovare una calza piena di dolcetti contenenti previsioni e suggerimenti sul futuro. E accanto alla ninfa, operava anche Strenia, da cui discende la parola strenna. Che in origine era il regalo che i genitori romani facevano ai bambini, sempre nei primi giorni dell'anno nuovo, durante la festa delle sigillaria, cioè le statuette. Bamboline e animaletti, spesso commestibili.

Ma anche fave. Perché quest' umile legume veniva usato per pronunciare a scrutinio segreto condanne e assoluzioni. Fave bianche sì, fave nere no. Educare e castigare, sorvegliare e punire. E in fondo, persino nella società che ha abolito la bocciatura la calza della Befana resta a suo modo una pagella, uno scrutinio di fine anno.

 La vecchia dei regali viene insomma da molto lontano. Anche per questo resiste alle mode e non si è lasciata esodare da altri vettori, come Babbo Natale o la nordica Santa Lucia. Anche perché, come tutti i classici è sempre attuale. E si presta a recepire perfino le istanze civili del nostro tempo. Diventa una calza green, piena di gadget a energia solare come quella di minimoimpatto. com. O solidale, come quella di Save the Children. O quella zero waste, dove tutto è riciclato, contenente e contenuto. Calze etiche per un mondo in cerca di futuro. Numa lo trovava nei favolosi calzerotti di Egeria.

Noi lo cerchiamo ansiosamente in quelli eco-friendly. A ciascuno il suo.

Chi è la Befana: la vera storia del giorno dell'Epifania. La Befana è un personaggio fantastico la cui tradizione è solo italiana. Non tutti conoscono però la vicenda dietro al nome della Befana e la leggenda che la portò a incontrare i Re Magi. Angela Leucci il 6 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il 6 gennaio è l’Epifania, ed è la festa della Befana, oltre che una ricorrenza della religione cattolica. Non tutti conoscono però la vicenda dietro a questo nome, la leggenda che la portò a incontrare i Re Magi e perché questa vecchina voli in pieno inverno per far visita a tutti i bambini italiani. Questa è la sua vera storia.

Da dove viene il termine

Un po’ di etimologia e storia della lingua italiana, per capire come questa parola romanza (ovvero neolatina) si è trasformata. Il termine Befana viene dal latino epiphanĭam, che a propria volta viene dal greco, in cui aveva il significato di “manifestazione” o, in senso lato, di “nuova consapevolezza”. Dopo la classica caduta della -m dell’accusativo e l’aferesi della e- iniziale, con il passare del tempo, la i breve che proveniva in realtà da una i lunga accentata in iato è passata dall’essere un simbolo anche fonetico a un simbolo meramente grafico, e progressivamente sparire. La prima sillaba ha quindi accolto un suono vocalico più aperto (ma non troppo, perché la e di Befana è una e chiusa), passando inoltre da una labiale sonora a una sorda.

Chi è la Befana

La Befana è un personaggio fantastico la cui tradizione è solo italiana. Si tratta di una vecchina dall’aspetto bonario che, a cavallo di una scopa, vola di casa in casa per portare doni ai bimbi che sono stati buoni, mentre a chi è stato capriccioso porta solo cenere e carbone. Un tempo questi doni erano rappresentati da piccoli dolcetti o frutta candita, ma oggi vengono regalati oltre a caramelle e cioccolatini anche giocattoli e libri per bambini. Dal proprio canto, i bambini lasciano sulla tavola biscotti e latte caldo per la Befana, in modo che si possa ristorare nel suo lungo tragitto.

Com’è vestita la Befana? Solitamente viene ritratta con un cappellaccio vecchio e uno scamiciato con grandi tasche. Ha i capelli grigi ed è trasandata, però il suo aspetto non è spaventoso, ma scatena l’empatia nei bambini. Come recita la filastrocca: “La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte, con la cuffia alla romana, viene viene la Befana”. Tuttavia ci sono anche diverse versioni in merito.

La Befana e i Re Magi

L’Epifania è il giorno della “manifestazione” dei Re Magi al cospetto di Gesù bambino. Secondo la tradizione cristiana, tre Re Magi, provenienti dalla Nubia, la Godolia e Tharsis, partirono dai rispettivi territori per incontrare Gesù Bambino e offrire al Re dei Re oro, incenso e mirra. Si chamavano Gaspare, Baldassarre e Melchiorre e si incontrarono a Gerusalemme per poi essere guidati dalla stella verso Betlemme: parlavano lingue diverse, ma si intesero ugualmente e immediatamente.

Lungo la strada però incontrarono una vecchina, che li aiutò indicando loro il cammino. Loro la invitarono a seguirli, ma la donna rifiutò, cambiando però idea poco dopo. Mise insieme un sacco pieno di dolci e cercò i Re Magi, senza però trovarli, vagando di casa in casa a incontrare bambini, nella speranza di trovare anche lei la strada per il Salvatore.

Caccia ai tre Re Magi. Antonio Rocca su La Repubblica il 6 Gennaio 2022. Viaggio nell’iconografia segreta dei sapienti venuti la notte di Epifania. Tra Pisano, Stefano da Verona, Gentile da Fabriano e i tarocchi. Tra gli evangelisti il solo a fornire informazioni sui magi fu Matteo, che descrisse l’arrivo a Gerusalemme di alcuni magi senza specificarne il numero, il nome o le caratteristiche fisiche. In realtà quasi tutto ciò che sappiamo di questi sapienti ci deriva dai vangeli apocrifi e dalla tradizione popolare che, nel corso dei secoli, ne ha definito il ruolo di re, ha elencato i doni e ha stabilito che Melchiorre abbia tratti europei, Gaspare orientali e Baldassarre sia invece nero.

IL SIMBOLO PIÙ MISTERIOSO. Nella mirra portata dai Magi si incontrano amore e morte. Bruno Giurato su editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. L’epifania non è uno stato di cose, è un evento. L’etimo (greco: epi-faino) segnala la ripetizione di una manifestazione. La manifestazione si ripete non in modo identico – sarebbe semplice compulsione – ma in un modo ogni volta diverso. Il Vangelo di Matteo parla di tre doni: oro, incenso, mirra. Quest’ultima sarebbe stata offerta proprio dal “Black magus”. L’oro sarebbe il simbolo della regalità, l’incenso di divinità, la mirra di morte. Nella narrazione dell’Epifania i simboli, in particolare quelli meno frequentati manifestano oscillazioni imprevedibili. Sono appunto contenitori di narrazioni non concordi, non stereotipate, non riducibili a formule. 

BRUNO GIURATO. Laurea in estetica. Ha scritto per Il Foglio, Il Giornale, Vanity Fair e altri. Ha lavorato a Linkiesta.it e al giornaleoff.it. Ha realizzato trasmissioni di cultura e geopolitica per La7 e Raidue. È anche musicista (chitarrista) e produttore di alcuni dischi di world music.

Epifania e Befana 2022, significato e curiosità del 6 gennaio. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2022. Una ricorrenza religiosa ma anche tradizione legata alla calza donata ai bambini da una vecchia signora che vola su una scopa. Anziana, rugosa, vestita di stracci, accompagnata da un gatto (preferibilmente nero) e il cui unico mezzo di trasporto è una scopa volante. Stiamo parlando di chi, se non della Befana? L’arrivo della vecchietta dai modi gentili, ma che a tratti incute timore, segna il momento più malinconico delle festività natalizie. Il 6 gennaio si celebra infatti l’Epifania (dal greco «manifestazione», «rivelazione improvvisa» riferita alla visita a Betlemme dei Re Magi in adorazione di Gesù): albero e addobbi scintillanti tornano negli scatoloni, mentre la maggior parte degli studenti italiani fa i conti con il rientro a scuola. Se è vero che non ha nulla da invidiare a Babbo Natale quanto a popolarità, è altrettanto vero che le sue origini restano misteriose e sconosciute.

Befana, dal culto della dea Diana

Secondo storici e antropologi l’antesignana di quella che oggi chiamiamo Befana è la dea Diana, divinità romana della natura selvaggia, della caccia, dei cicli lunari e delle coltivazioni che, armata di arco e frecce, frequentava i boschi in compagnia delle ninfe. Per sapere quando sarebbe passata la dea bisognava contare 12 giorni partendo dal 25 dicembre. La tradizione voleva che la divinità si manifestasse la dodicesima notte volando sui campi in compagnia di altre donne con l’obiettivo di rendere fertile la terra per le semine imminenti. L’avvento del cristianesimo però tenta di mettere fine al culto della dea Diana e dà inizio alla persecuzione delle donne considerate streghe. Il testo più antico in cui si possono trovare tracce della criminalizzazione del mito di Diana è il Canon Episcopi dell’abate Reginone di Prûm che fa riferimento a «talune scellerate donne, rivoltesi a seguire satana, credono e professano di cavalcare nelle ore notturne sopra certe bestie, insieme a Diana dea dei pagani» e invita a trattarle come delle «infedeli».

L’incontro con i Re Magi

Il cattolicesimo dà un’altra versione della leggenda legata alla Befana, narrando che si tratti di un’anziana signora in cui i Re Magi si imbattono mentre seguono la stella cometa che li guida verso Betlemme. Fermandosi a chiederle informazioni la esortano a unirsi a loro per fare visita alla grotta in cui nascerà Gesù. Lei declina l’invito ma si pente quasi subito: scende in strada con un carico di dolci da donare a tutti i bambini che incontra sul suo cammino proprio nella speranza che si tratti di Gesù. In cambio, i piccoli le donano scarpe e calze di cui potrebbe avere bisogno nel corso della sua traversata.

I suoi simboli: la scopa, la notte, il camino

Oltre alla calza piena di dolciumi o carbone, ci sono simboli legati alla leggenda della Befana altrettanto poetici, ma meno conosciuti. L’anziana viene infatti raffigurata a cavallo di una scopa di saggina che simboleggia l’atto di spazzare via le fatiche dell’anno appena trascorso in vista di quello nuovo. La notte e il buio rappresentano invece il lungo inverno in cui Madre Natura, ormai esausta dopo aver dispensato tutte le sue forze durante l’anno, si prepara a morire per rinascere in primavera. Posata la sua scopa in cima al tetto della casa, la Befana si cala poi all’interno delle abitazioni scivolando attraverso la canna fumaria. Il camino rappresenta la connessione tra i due mondi, il cielo (magico) e l’ambiente domestico (reale).

La Befana nel mondo

Non tutti i bambini del mondo nella notte tra il 5 e il 6 gennaio aspettano la Befana. Quelli spagnoli ad esempio aspettano i Re Magi, ai quali scrivono una letterina spiegando quali regali vorrebbero ricevere. La sera prima del Dìa de los Reyes Magos, puliscono le scarpe e le collocano in un punto della casa che sia ben visibile, cosicché i Magi capiscano a chi devono lasciare i doni. Inoltre, si preoccupano di mettere a disposizione acqua e cibo in modo che i tre astronomi e i loro cammelli possano rifocillarsi durante il viaggio tra una casa e l’altra. In Ungheria invece sono proprio i bambini che vanno di casa in casa vestiti da Re Magi e in cambio ricevono qualche spicciolo. Così come in Romania, dove i bambini girovagano per le abitazioni raccontando storie. In Francia si prepara la galette des rois, un dolce di pastasfoglia ripieno di crema alle mandorle all’interno del quale viene nascosta la fève (che può essere una mandorla o un cece, così come un piccolo oggetto prezioso o una statuina di porcellana) e chi la trova viene proclamato re per un giorno con tanto di corona dorata di cartone posata sulla testa. Anche in Germania il 6 gennaio rappresenta l’arrivo dei Magi a Betlemme ma da calendario non si tratta di un giorno festivo.

6 gennaio, arriva la Befana! La nonnina che si divide il cielo con Santa Claus. Emma Brancati su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

E se provassimo a salire sulla scopa della Befana e a fare con lei il giro del mondo nella notte tra il 5 e il 6 di gennaio? Le sorprese non mancherebbero.

L’amata vecchina che si porta via tutte le feste e in Italia mette nella calza il carbone per i discoli o i dolcetti per i più meritevoli porta con sé riti e tradizioni. Basta fare anche solamente un giro sui vari siti internet e scoprire che la nonnina è attesa e festeggiata non ovunque e non allo stesso modo, però.

Si scopre così che in alcuni Paesi il 6 gennaio è ritenuto un festivo, mentre in altri coincide con un qualunque giorno lavorativo. In tal caso – che si tratti di Re Magi o di Befana – si resta a secco di doni. Non solo, Paese che vai tradizione che trovi perché le Befane non sono tutte le stesse.

Andiamo, ad esempio, dai cugini d’Oltralpe: in Francia, ai bambini in particolare per la Befana è riservato un dolce speciale che si chiama Galette des Rois. Al suo interno c’è una fava. Il motivo è presto detto: chi trova la fava diventa re o regina per un giorno.

Spostiamoci in Spagna, ai piccoli spagnoli più che attendere la Befana tocca attendere i Re Magi ed è per questo che si mettono tre bicchieri d’acqua all’uscio così che i loro cammelli possano dissetarsi.

In Islanda il 6 gennaio coincide con la festa del tredicesimo Babbo Natale – la conta inizia l’undici dicembre – che partecipa alla festa della Befana in compagnia di elfi e folletti. La magia è assicurata.

Si chiama, invece, Padre Gelo è protagonista del Natale Ortodosso che in Russia si festeggia proprio il 6 gennaio mentre alla vecchietta che lo accompagna è stato dato il nome di Babuschka.

Ancora, il 6 gennaio non è un giorno festivo nel Regno Unito, anche se la chiesa lo celebra ancora. Anche di là della Manica, troviamo un dolce dedicato. Si chiama Twelfth Night Cake e al suo interno ha un semino di fagiolo: come per le Galette des Rois chi lo trova sarà incoronato re o regina.

In Germania, il 6 gennaio è conosciuto con il nome: Heilige Drei Könige, Dreikönigsfest o Dreikönigstag e viene celebrato soprattutto nella chiesa cattolica ma è anche presente nel calendario della chiesa evangelica.

Nella maggior parte degli stati federati è un giorno lavorativo. Solo in tre di essi il 6 gennaio viene commemorato come il giorno della  venuta dei Re Magi e sulla porte delle case compaiono le lettere C + M + B + ad indicare i nomi di Magi o un’abbreviazione del latino Christus mansionem benedicat (Cristo benedica questa casa).

In America poi le calze si appendono al camino solo a Natale e a riempirle ci pensa Santa Claus e della Befana non vi è traccia.

La bellezza viene di notte. Ti so vecchietta, bruttina e con un senso profondo di giustizia. Antonio Staglianò su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

Cara Befana, stavolta scrivo a te! anche tu sei frutto dell’immaginazione umana e sei diventata un tratto simpatico della nostra cultura popolare. Esisti così, come personaggio fantastico e non devi crucciarti troppo se sei un po’ bruttina e vecchia.

Si, lo so, assomigli a una strega, piuttosto che a una fatina. Fattene una ragione, perché rispetto al tuo omologo natalizio – l’anziano omone con le renne, chiamato Babbo Natale – , tu, a uno sguardo meno superficiale, manifesti una “grande bellezza”. Non ci credi? È la sacrosanta verità invece.

Certo, gli umani devono poter riconoscere la bellezza là dove splende, non rimanendo irretiti dalle apparenze effimere dello sfondo lussureggiante delle pubblicità che rendono “ciechi” per poter meglio consumare. In occasione del centenario della nascita di Dostoevskij sono tanti a ripetere (un po’ maldestramente) quella frase dell’Idiota: “la bellezza salverà il mondo”.

Leggendo il romanzo si sa che Ippolit (un giovane nichilista morente) domandò al principe (=l’Idiota), senza alcuna risposta: “è vero principe che un giorno voi diceste che la bellezza salverà il mondo?”. Il principe fece silenzio, come Gesù alla domanda di Pilato: “cosa è la verità?”. E Ippolit incalzò: “Si, ma quale bellezza?”.

Se i piccoli fossero educati alla “grande bellezza” (oh, scusa, mi pare giri un bel film di Paolo Sorrentino con questo titolo), magari potrebbero scoprire la tua. Con il nome che porti riesco a pensarti quasi fossi una persona vera: pare derivi dal greco Epifania.

Da Vescovo gioisco perché mi rimandi all’autentico Natale di Gesù. Non si capisce bene chi ti abbia immaginata per primo. Tante storielle raccontano del tuo casuale ritrovarti sui passi di quei Magi in cerca del Bambino di Betlemme. Alcuni raccontano che portasti proprio a Gesù la prima calza coi doni. Questa immaginazione ti rende in qualche modo “viva”: l’accetto, perché non ha la presunzione di confezionare un Natale senza Gesù bambino.

Ti confido l’amarezza di vedere come tutto si sia ridotto a “clima natalizio” o a “magia” di un Natale consumistico e falso- l’ha detto l’altro ieri papa Francesco. Natale dice che “qualcuno è nato per noi”. È la festa di Gesù e noi facciamo festa senza il festeggiato (don Tonino Bello). E qual sarebbe la bellezza del Natale, se si sono perduti totalmente i valori umani della solidarietà, della fraternità e della giustizia e ognuno pensa solo a sé stesso e ai regali che deve ricevere? Tu un po’ di giustizia la pratichi però: ecco la tua bellezza.

La tua figura non mente: ti so vecchietta, bruttina, su di una scopa volante e con un senso profondo di giustizia. Tu porti doni solo ai bambini che lo meritano. E per quelli che non lo meritano, non solo non porti doni, ma lasci il carbone come ammonimento per ravvedersi. Sei una “bella” vecchietta, perché rappresenti l’anno appena trascorso: è quindi come se l’esito del tuo viaggio notturno, nei primi giorni del nuovo anno, riveli il bilancio di come ci si è comportati.

Sai, mi affascina pensarti in volo di notte, tra i comignoli fumiganti dei caldi focolari. Tu con la tua scopetta di paglia, in compagnia delle silenziose stelle che, da buone amiche, ti confidano le complesse strade dei desideri umani. In fondo siamo “polvere di stelle”, noi esseri desideranti. Già il Leopardi qualche tempo fa cantava “… e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle?” È anche questo che fanno le stelle: parlano con te, perché tu possa giudicare saggiamente e con giustizia i comportamenti, i sogni e le aspirazioni dei cuccioli dell’uomo. Potrai premiarli se sono buoni o eventualmente ammonirli, se reputi che siano stati dannosi per il loro progetto di vita. Tu “dai a ciascuno il suo”, per la giustizia. E ora ti chiedo, come e a partire da cosa tu giudichi “quale sia il suo di ciascuno”? A partire dalla legge morale che è dentro di te e in ciascuno di noi (I. Kant), senza però dimenticare il “cielo stellato sopra di noi” che tu giri in lungo e in largo con la tua scopa di paglia. Magari hai incontrato “Colui che scende dalle stelle” e si dirige alla grotta di Betlemme, dove hai intravisto direttamente quanta è bella la sua umanità. Anzi hai considerato che solo in quella umanità si trova davvero la grande bellezza. In quella umanità c’è tutto il sogno bello di Dio per ogni essere umano: un potenziale immenso di bellezza d’amore.

Ecco allora altri due motivi perché mi stai a genio: perché voli e perché lo fai ecologicamente, senza inquinare. Mi piace perché voli: d’altronde ogni uomo che coltiva bontà e bellezza di vita dovrebbe concepirsi sempre in volo, immerso nelle altezze del pensiero contemplativo, disponendo così di quella vista d’aquila che permette di mirare lontano e in profondità. E la tua umile scopetta di paglia, anche quella mi piace: mi ricorda che la povertà, l’essenzialità, permette all’uomo di librarsi in alto con libertà, senza far rumore e senza recare danni a nessuna cosa creata. Insomma sei ecosostenibile e carbonfree.

E sì cara Befana, anche se sei frutto di immaginazione, mi sei simpatica per la giustizia, la povertà – “vieni di notte, con le scarpe tutte rotte”, dice una nenia dedicata -, la libertà e l’altruismo che rappresenti.

Allora anche quest’anno immagino che tornerai a visitarci la notte tra il 5 ed il 6 Gennaio, nel giorno in cui la Chiesa celebra l’Epifania di Nostro Signore, cioè la manifestazione a tutti i popoli di Gesù salvatore. Tornerai a riempire secondo il tuo giudizio le calze che tutti i bambini ti faranno trovare appese o sul caminetto, o ai piedi del loro letto, o sulla porta di casa. Raggiungici cara Befana con i tuoi doni. Magari a te concederemo anche stavolta di offrirci doni più dimessi di quelli che a Natale i nostri piccoli avranno già ricevuto. Sola una cosa ti chiedo: diversamente da quello che l’omone con le renne ci ha educato ad attendere (diseducandoci l’anima alla voglia di “cose”, di regali costosi), magari io gradirei che ti fermassi a distribuire solo “dolcetti e caramelle” perché tutti i nostri bambini siano educati alle gioie semplici e senza pretese, ai sorrisi che non hanno prezzo e che fanno maturare il cuore. Perciò, vai da tutti e non solo da alcuni, come Gesù Bambino che è venuto per tutti, in particolare per i più poveri.

Vieni pure, dunque, cara Befana e rammenta a tutti noi, piccoli e grandi, il viaggio di quei Magi cercatori, anche loro confidenti di una stella: indicò loro il desiderio di tutta la creazione (e di tutti i tempi) di vedere il vero volto di Dio. Unisciti nel tuo viaggio a quei Magi e ai loro doni per il bambino Gesù: l’oro e l’incenso per compiacersi di quel bambino tutto buono e tre volte santo; la mirra per indicare il sacrificio necessario per la salvezza di tutti noi, talvolta così meritevoli di carbone perché imbruttiti dal nostro peccato, ma comunque sempre amati da Dio.

Ciao, cara Befana, magari riuscirò a vederti in volo, se nel cuore della notte mi ritroverò in preghiera a scorgere il cielo – per “riveder le stelle, bisogna togliersi fuori dall’inferno” (cfr. Dante Alighieri) -, chiedendo a Dio che, in Gesù, l’Amore si manifesti ancora per tutti e per ognuno, come l’unica luce per la mente e la vera pace per il cuore.

La scopa torna a volare con Bettino. LA BEFANA, ABOLITA DA ANDREOTTI IL POLITICO CRESCIUTO IN VATICANO, RIABILITATA DAL LEADER SOCIALISTA DOPO I PATTI CON LA CHIESA. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

C’è la Befana e c’è la festa dell’Epifania. Le due cose coincidono nella data, che è quella tradizionale del 6 Gennaio. Ma ci sono alcune differenze. O, meglio, il discorso è un po’ più complesso.

L’origine dell’Epifania è antichissima: pare risalga addirittura al II secolo d.C. e serviva per ricordare il battesimo di Gesù. Era celebrata, sembra, dalla setta degli gnostici seguaci di Basilide, maestro religioso di origine greca e probabilmente fra i primi commentatori dei Vangeli. Questi credevano che l’incarnazione di Cristo fosse avvenuta al suo battesimo e non alla sua nascita.

In seguito, eliminati gli elementi gnostici, la Festa dell’Epifania fu adottata dalla Chiesa Cristiana Orientale. Solo verso il IV secolo l’Epifania  si diffuse in anche in Occidente, e fu quindi adottata anche dalla Chiesa di Roma nel V secolo. Da allora, l’Epifania è la festa cristiana  che celebra la rivelazione di Dio agli uomini nel suo Figlio, il Cristo ai Magi: il termine di origine greca “epiphàneia” significa  appunto “apparizione” o “rivelazione”.

a Befana, invece, pare abbia un’età molto più avanzata:  è vecchia di secoli e la sua origine, folkloristica e pagana, precede di molto la stessa affermazione del cristianesimo. Dipende quasi certamente anche da questo la curiosa mescolanza di elementi che ancora oggi la caratterizzano, pur se del tutto assimilata all’interno delle festività religiose. Non è facile neanche per gli studiosi risalire al momento esatto in cui è nata la tradizione folkloristica della Befana: qualcuno ipotizza di potersi spingere fino al X secolo a.C., ma la tesi è dibattuta e non paiono esserci fonti sufficienti per dirimere definitivamente la questione.

I ricercatori invece concordano nell’identificare il VI secolo a.C. come quello in cui la figura della Befana è  entrata stabilmente nei riti propiziatori pagani. All’epoca si trattava quasi certamente di un rito propiziatorio personificato dell’avvicendamento delle stagioni (e più in generale del ciclo di mutamento della stessa natura): in questa prospettiva, le feste in suo onore sarebbero quindi legate alla speranza che alla stagione fredda, l’inverno, potesse far seguito un raccolto abbondante.

Anche la stessa iconografia che la rappresenta come  una vecchia dalle vesti logore, andrebbe letta nella direzione appunto di un rito di passaggio fra differenti cicli naturali. In seguito, nell’antica Roma i riti pagani preesistenti furono inglobati a quelli dell’epoca, in una sorta di integrazione nel proprio pantheon politeista; spesso la Befana veniva anche identificata con  la dea Diana, e forse è nata in quel momento l’idea che volasse, con la scopa sui campi coltivati, in una sorta di atto benaugurante.

Oltre al 25 dicembre, quindi, data scelta come giorno di Natale pare dalla festa pagana del Sol Invictus, quando il sole vince sul giorno più lungo dell’anno, il solstizio d’inverno, era tradizione festeggiare 12 giorni dopo la dea Diana, dea dell’abbondanza e della cacciagione.  Dodici giorni dopo il solstizio d’inverno si celebrava la morte e la rinascita – l’Epifania, appunto – di Madre Natura.

Festeggiare l’Epifania, insomma, rientra a pieno titolo in quelle che i sociologi chiamano azioni macro-rituali, che hanno la precisa funzione di favorire la coesione interna e la continuità delle forme sociali collettive.

Émile Durkheim e Randall Collins si sono occupati a lungo dello studio dei rituali religiosi, arrivando a definire il rituale come una sorta di vera e propria batteria, in grado di produrre energia sociale. Secondo questa interpretazione, attraverso determinati rituali si verifica il passaggio tra l’essere in forma individuale e l’essere in forma collettiva e, appunto, colui il quale aderisce al rito diventa polo di questa batteria.

Il rito permette insomma la creazione di un “noi”, attraverso la fusione delle identità sociali che vanno a formare un’identità collettiva. Tale fusione risulta più o meno durevole a seconda delle modalità e della frequenza con cui il rituale viene riprodotto e consolidato nel tempo.

I rituali avrebbero quindi un ruolo importante sui singoli – e sui gruppi – in quanto favoriscono l’operazione di uscita dalla routine quotidiana per essere elevati al contatto con qualcosa di sacro che essi stessi contribuiscono a creare.

Il tutto permette ai membri del gruppo di sentirsi parte di una comunità morale con la conseguente trasformazione dei sentimenti individuali in collettivi. Ogni rito ha degli effetti: ricarica la forza e l’energia dei partecipanti mentre questi venerano i simboli del gruppo ed esaltano il legame che li unisce. Non è quindi forse un caso che la festa dell’Epifania – la Befana, nella sua duplice veste – sia diventata così popolare, soprattutto fra i più piccoli: richiama infatti la tradizione religiosa di Santa Lucia, che dispensava doni ai bambini prima della Befana, come faceva San Nicola prima dell’avvento di Babbo Natale. E non è un caso neanche che in Italia fu il fascismo, a partire dal 1928, a rinvigorire la festività della Befana intesa come un momento di attenzione alle classi più povere.

L’idea e l’organizzazione furono di  Augusto Turati, che sollecitò commercianti, industriali e agricoltori a dare risorse per i bambini più poveri. La gestione dell’evento fu curata dalle organizzazioni femminili e giovanili fasciste ed ebbe un successo straordinario, tanto da entrare nel modo di dire: il detto “befana fascista” rimase per molti anni anche dopo la guerra e le aziende continuarono per molti anni, sino ai giorni d’oggi, a prevedere pacchi-dono per i figli dei rispettivi dipendenti. Sino ad oggi ma con una parziale interruzione.

Nel 1977 una apposita legge, emanata il 5 Marzo, abolì una serie di festività previste nel calendario fino ad allora: erano anni di austerity per la crisi petrolifera, anni di domeniche a piedi per gli italiani quando il governo del cattolicissimo Giulio Andreotti abolì con un colpo di spugna Epifania  (forse anche per un legame proprio con il fascismo), San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, Ss. Pietro e Paolo (ma non a Roma), mentre slittarono alla prima domenica di Giugno e alla prima di Novembre la celebrazione della Festa della Repubblica e quella dell’Unità. Austerity anche nel calendario, insomma. Ci furono cenni di rimostranze per tutte le cancellazioni, naturalmente; ma le critiche maggiori vennero proprio per l’abolizione della festa dell’Epifania, anche da parte della Santa Sede. L’allora Pontefice Paolo VI arrivò a dichiarare che “l’Epifania è più importante liturgicamente della Pasqua”, ed è rimasta famosa la battuta che il Premier avrebbe fatto al commesso Navarra: «Forse – chiosò Andreotti – aveva ragione Mussolini quando disse che governare gli italiani non è difficile: è inutile». 

Mugugni e proteste ufficiali andarono avanti per qualche anno; toccò quindi a Bettino Craxi, che nel frattempo era succeduto ad Andreotti nella carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, fare un passo indietro.

Nel 1985, il  governo Craxi  ripristinò la Befana, in  attuazione dell’intesa con la Santa Sede per i nuovi Patti Lateranensi. Un’assenza di sette anni come festività ufficiale sui calendari, insomma. Poi, appunto, il ritorno al colore rosso della festività, per il piacere dei più piccoli; e forse anche per un rituale, uno dei tanti, che serve a ciascuno di noi a figurarci e viverci come una comunità. 

L’attesa vana dei semprescalzi. Angelo Gaccione su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022. Per Allegra… A casa sua non aspettavano alcuna Befana; in verità non l’aspettava quasi nessuno nel quartiere; sapevano per certo che da lì non sarebbe passata. Come avrebbe fatto, del resto, ad orientarsi in quell’intrico di vicoli tanto stretti, fra quei budelli così poco illuminati, in mezzo a quelle case sbilenche addossate le une alle altre, a restare in equilibrio su quell’acciottolato sconnesso? E potevano chiamarsi comignoli quei miseri mozziconi di malta sbrecciata, quei poveri tubi di lamiera arrugginiti che si alzavano sui tetti? Non era mai passata dai loro padri, non era mai passata dai loro nonni, e non sarebbe passata da loro. Non ricordava di aver mai visto un regalo tra le mani degli altri bambini del rione: erano poveri come lui e la Befana si teneva lontana da quartieri come il loro. Solo i ricchi sono buoni, e solo i ricchi ricevono regali, questo lo aveva imparato presto. Era vecchia dicevano gli adulti, una vecchia stanca e affaticata, e non possedeva gambe per andare dappertutto, giungere in tutte le case. Di vecchie stanche e oppresse dalla fatica ce n’erano in ogni casa, con le mani raggrinzite, le dita stortate, le gonne fino ai piedi, i fazzoletti neri fra i capelli. Le insultavano chiamandole brutte befane, ed era certo che la Befana fosse brutta e vecchia e non avrebbe mai potuto essere generosa.

“Questa notte passerà” annunciò sua madre cogliendo tutti di sorpresa una gelida sera di gennaio in cui la neve aveva spento ogni voce, attutito ogni rumore, seppellito sotto una spessa soffice coltre bianca, vicoli, slarghi, tetti, ballatoi, davanzali, tanto da rendere il paesaggio un’unica massa informe luccicante e immota. “La calza è già sospesa al ferro del camino” aggiunse, ed era vero. Una robusta calza di lana grezza che mani sapienti avevano lavorato ai ferri, pendeva vuota, sotto la misera cappa del focolare che il fumo aveva reso di un nero infernale. Aveva la sinuosa forma del piede e allungava verso l’alto il cilindro del gambale. Le anziane sferruzzavano in tutte le case, spesso scucendo e recuperando lana da vecchie maglie per farne calze, berretti, mutandoni, che i nipoti si passavano l’un l’altro.

Com’era possibile che proprio quell’anno la Befana sarebbe passata dal loro quartiere per giungere alla loro casa? E come avrebbe potuto una vecchia priva di forze muoversi con un pesante sacco sulle spalle in tutta quella neve in cui si sprofondava quasi fino al bacino? L’avrebbe riconosciuta sommersa da tanta neve? E perché sua madre era così sicura di quella visita? Cos’era accaduto di particolarmente straordinario perché si compisse il miracolo? Lui non ricordava nulla, e se c’era stata qualche buona azione non se ne aveva avuta notizia. Provava a pensarci ma non affiorava che qualche frammento sbiadito, qualche brandello evanescente.

“Se ha proprio deciso di passare, io la sorprenderò” disse fra sé, e si ripromise di restare sveglio tutta la notte, fino a quando non avesse sentito il chiavistello della porta sollevarsi. Perché dal loro comignolo la Befana non avrebbe giammai potuto calarsi, di questo era fin troppo certo.

Guadagnato il letto infilò la testa sotto un risvolto di coperta e finse di dormire. Restò immobile per un lasso di tempo che a lui parve interminabile e solo quando si accorse che la casa era piombata nell’oscurità e nel sonno, si tirò su e sbarrò gli occhi. Era buio pesto e non si distingueva neppure un’ombra. Non restava che mettersi in ascolto, disporsi ad una paziente e vigile attesa. Man mano che la notte avanzava il silenzio diveniva sempre più denso e più solido. Infine si era fatto così totale, che se un topo avesse osato uscire dal nascondiglio, l’eco del suo zampettare gli sarebbe arrivato nitido e preciso fino al giaciglio. Arrivò invece l’eco dei passi di sua madre, un eco che si era impresso dentro di lui da un tempo lontano e che vi risuonava. Un eco che avrebbe saputo riconoscere fra mille, in qualunque luogo e in qualunque tempo, ad occhi chiusi, al buio come ora, e come gli era poi accaduto nell’età adulta quando ogni innocenza muore.

Nella calza aveva trovato due mandarini, dei fichi cotti al forno intrecciati a crocetta, una noce, una manciata di lupini, due mele piccole e sode dalle guance rosse e gialle, dei mostaccioli a forma di pesce, di alberelli, di comete. Si vergognava di tanta abbondanza e non fece parola con nessuno, non rivelò nulla neppure ai compagni del quartiere. Non gli avrebbero creduto se avesse detto loro che era arrivata ed era stata generosa, lo avrebbero preso per un bugiardo. Preferì tenersi tutto per sé: come convincerli che la sua era stata una Befana giovane e bella?

“Passerà la Befana quest’anno, nonno?”

“La tua sì, la mia non più”. 

Desiderio di meraviglie. Sogni, cioccolato e la lettera a mio figlio nascosti nel fondo della calza. Domenico Dara su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022. Figlio mio non immaginavi di trovare questa lettera stamattina in fondo alla calza nascosta dalle barrette di cioccolato e da una banconota di 20 euro.

Ma ogni tanto qualche sorpresa fa bene che ci dimentichiamo spesso del nostro bisogno di stupore.

Queste parole non esistevano ancora ieri sera quando ci siamo dati la buonanotte.

Sono nate stanotte all’improvviso che non riuscivo a dormire e sono venuto qui sul divano a fissare tra le luci intermittenti dell’albero di Natale le calze appese al mobile.

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Quand’ero bambino non sapendo ancora nulla di Numa Pompilio e della ninfa Egeria mi chiedevo perché non un cestino o un secchio ma proprio una calza con quella forma insolita stretta insidiosa che la mano deve far fatica ad arrivare fino in fondo che ero sempre convinto che qualche parte del dono rimanesse impigliato tra i fili della cucitura.

Una forma strana che definisce i tuoi desideri puoi volere tutto ciò che vuoi purché possa stare lì dentro e così da bambino nei giorni prima della festa cercavo nei cassetti la calza più grande che anche un paio di numeri in più sarebbero bastati a dilatare i desideri e non importava se tutte le calze fossero rammendate.

Poi non ricordo l’anno preciso quella festa cominciò a mettermi tristezza.

La Befana è un epilogo uno strascico viene sempre dopo è la porta che si chiude e io non volevo chiuderla e allora c’erano volte che avrei voluto dire a mia madre ti prego stanotte non appendiamo la calza ti prego stanotte non facciamolo non facciamo finire tutto questo ma non riuscivo a dirlo e così quando la preparavo la sera prima avrei voluto mettermi a piangere e lo facevo dopo ma attendevo aspettavo di andare nel mio letto e spegnere la luce ed essere solo.

Stanotte all’improvviso ho sentito tutto il peso di questa tristezza crollarmi addosso e mi sento come quella calza appesa e vuota e se scrivo a te proprio a te solo a te stanotte è perché tu un poco quella calza l’hai riempita ci hai infilato dentro una moneta l’hai impreziosita ma la calza continua a rimanere appesa desolante.

Scrivo a te perché mi somigli ed è come se scrivessi a me stesso mi confessassi allo specchio mi somigli negli occhi abbassati negli scatti rabbiosi nell’ira incontrollabile e inarginabile che irrompe a segno del suo continuo e clandestino rodimento mi somigli nella ritrosia del passo strascicato nel chiedo scusa rintoccato a battiti regolari nella parola zoppicante e sussurrata agli altri inudibile e mi somigli anche in ciò che non mostri al mondo perché è legge umana di uniformare al nostro sentire le persone che amiamo e io ti amo e ti uniformo a me somigliante nei silenzi nei pensieri negli affanni e vorrei scoprire cosa nascondi sapere la tua vera vita dove la vivi con chi e cosa aspetti anche tu perché anche tu aspetti tutti aspettiamo l’obolo lasciato nella calza vorrei scoprirlo perché tu non me lo dirai mai come mai io l’ho detto perché non ci fidiamo della parola non ci fidiamo del mondo.

Scrivo a te perché mi somigli e io non avrei voluto che fosse così la mia irrequietezza specchiarsi in te che me la ricordi ogni giorno e perdonami se non sono stato come avrei voluto l’ultimo anello e me la ricordi amplificandola come quegli specchi che ingigantiscono i nei i pori le rughe che alla fine dimentichi finanche cosa stai realmente guardando.

Siamo gli stessi anche se piantati in terreni diversi che pensavo il mio malo seme dipendesse dalla mancanza di concime di acqua di sole ma poi la vita non è questione di presenze o assenze è solo questione di porzioni giuste dosi corrette quantità misurate.

Non ho sbagliato vita ho semplicemente errato nel suo dosaggio confondendo ettolitri e decigrammi.

Mi somigli in tutto quello che fai per questo scrivo a te in questa notte e non so se sto veramente scrivendo o solo immaginando nella luce che vive e muore nel buio che vive e muore di scrivere queste parole non so nemmeno se esistono queste parole o sono solo l’eco della triste visione di calze appese di feste passate senza che accadesse il miracolo atteso che questa a pensarci è la vera tristezza di questa notte l’ultima possibilità persa per sempre l’attesa disattesa la speranza spezzata che quando sotto l’albero non troviamo ciò che volevamo non disperiamo fino in fondo perché c’è ancora una possibilità non disperare se quello che aspettavi non è arrivato tra soldatini e pastelli a cera perché c’è ancora la calza, la calza piccola ma vuota, la calza che va riempita, la calza che ha macinato chilometri e chilometri e salite e pendii solo per essere appesa e riempita e allora aspettiamo la Befana l’ultima speranza che mi porti quello che voglio ma che non ho scritto nella letterina di Natale nemmeno come postilla perché certe cose non si chiedono per iscritto e nemmeno per voce.

Certe cose si aspettano e basta.

Che poi come fai la mattina quando infili la mano nella tasca e togli fuori la prima caramella e poi la seconda e poi il carbone che si mangia e poi la moneta e poi poi poi continui a frugare fino in fondo e poi continui ancora come se non fosse una calza quella che stai esplorando ma l’universo intero infinito o la luna la luna dove ritrovare quello che abbiamo perso la luna che tu continui a scavare scavare e infilare la mano e vorresti che non finisse mai quella calza mai come fai come alla fine a toglierla fuori vuota vuota vuota.

Solo stanotte avrei potuto scriverti questa lettera che forse nemmeno esiste ma solo stanotte non il giorno del tuo compleanno o la sera di Natale o qualunque altra festa solo stanotte avrei potuto perché io non ho mai dimenticato quella mano vuota ma tu si tu puoi figlio dimenticarla tu che mi somigli come fossi io stesso in te dentro di te tu che mi somigli tu puoi dimenticare la mano vuota e puoi farlo adesso immediatamente appena queste parole finiranno e avrai svuotato la calza ti basterà indossarla ecco si fai questo per me alla fine di questa lettera che forse nemmeno esiste prendi la calza e infilaci dentro il piede e cammina per il mondo come se io non ci fossi e non dirmi niente quando i nostri occhi s’incroceranno non dirmi niente come se queste parole non fossero mai esistite 

Più adulti con le mani nere. Trovavo il carbone vero dentro la calza anche se ero stata buona. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022. In pochi ci pensano, in tanti lo ignorano, ma la Befana è il primo richiamo alla responsabilità delle nostre vite. 

Io l’ho capito quasi subito. Del resto, l’Epifania è “epì-fàinomai”, che dal greco significa “ciò che si manifesta”: l’Epifania è manifestazione. E ogni sei gennaio, grandi o piccoli che siamo, veniamo richiamati alle nostre responsabilità proprio da quest’ultima festa, quella che forse sotto sotto è anche la più odiata e che si porta appresso il fardello di essere l’incompresa e bistrattata fautrice della fine dei giochi, delle vacanze e della leggerezza. 

“Tutte le feste si porta via”, e lo diciamo col piombo tra le labbra, colpevolizzando questo sesto giorno del nuovo anno che già solo per il fatto che arriva per toglierci qualcosa, parte male. 

Però manifesta il nostro dovere, la nostra responsabilità. 

Quando da bambina toccava a me fare i conti con la responsabilità e il dovere, lo facevo con baldanzoso orgoglio. Non ero certo una bambina problematica: ero, piuttosto, il corrispettivo umano di un comodino.

ducata, composta, gentile, quasi fatata. Una specie di San Francesco d’Assisi in scala che tutti adoravano incontrare. Sotto sotto, sapevo di non meritare il carbone che trovavo puntualmente, ad ogni Epifania, dentro la calza appesa al camino eppure, sepolto sotto i cioccolatini e i torroni, era sempre lì che mi aspettava, a gonfiare il fondo della calza e sporcarmi le mani. 

Sì, famiglia tradizionalista, la nostra: talmente tradizionalista che all’epoca non esisteva il carbone in versione dolce, ma neanche un suo qualsiasi palliativo: la “mia” Befana era così intellettualmente onesta che il mio carbone era vero, verissimo, proprio preso dal camino e buttato nella calza. 

La mia Befana era anche la Befana dei regali stimolanti, intelligenti, al contrario di Babbo Natale che invece era il bonaccione barbuto che rimetteva tutti i peccati e dimenticava di buon grado le marachelle infantili, lasciando al loro posto dei bei pacchi regalo perfettamente corrispondenti a quanto richiesto nella rituale letterina: l’Amazon del 1998, potremmo dire. Ogni nostro desiderio, mio e di mio fratello, era un ordine. 

La Befana no. La Befana non guardava in faccia nessuno: mia madre e mio padre, a volte, per rendere il tutto più veritiero, ci raccontavano di plausibilissime discussioni tra Babbo Natale e la Befana, dibattiti in cui la bilancia pendeva tra un doveroso pizzico di rigidità e la rituale bontà del Re indiscusso del 25 dicembre. 

“Perché devi essere così arcigna?” si narra che Babbo Natale chiedesse alla severa collega, “non possiamo soltanto lasciar loro i regali e basta? A che serve il carbone?”

“Non capisci!” ribatteva duramente la Befana, “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”

La trovavo una cosa di un’idiozia infinita. Babbo Natale aveva ragione su tutta la linea: i regali e il carbone non c’entravano niente! Non erano correlati, giocavano in due campionati diversi. E a me sarebbe tanto servito un Sindacato dei Bambini Delusi che mi tutelasse davanti al Giudice dei Giocattoli. 

Perciò io, creaturina così dedita allo studio, alla lettura e decisamente inoffensiva rispetto al mio vulcanico fratello, molto più vivace e amante delle sfide già in tenera età, assimilavo la prima, grande ingiustizia della mia vita: il carbone nella calza, anche se non lo meritavo. 

Ad ogni modo, i regali della Befana me li godevo tutti: libri, giochi di società, cose utili per la scuola. “È cattiva, ma ha buon gusto”, dicevo tra me e me, armata di quella stessa presunzione che nascondeva il mio disappunto, per mostrare alla Befana di essere una sua degna avversaria. E però continuavo a non spiegarmi quel carbone. 

Con il passare degli anni, la Befana è passata sempre meno da casa mia. Io crescevo, i libri li compravo da sola, i giochi di società li avevo ormai quasi tutti. Mio fratello aveva nettamente ridotto il suo potenziale distruttivo, era diventato un ragazzo gentile, posato e dall’animo nobile: non c’era più niente da aggiustare, o almeno così pareva. 

Io, invece, all’alba di ogni nuova Epifania, aspettavo sempre più la resa dei conti, aspettavo che si manifestasse di nuovo la mia responsabilità. Paradossalmente, più gli anni passavano e più andava a finire che il carbone me lo sarei meritato. 

Ci ho pensato tanto e alla fine ho capito cosa volesse dire la Befana a Babbo Natale, quando lo rimproverava dicendogli: “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”

Ho capito che il carbone ti tiene con i piedi per terra, che i regali ingigantiscono una bontà che lui ridimensiona. Quando tocchi un regalo non ti segna la pelle, e questo contiene un sottotesto importante: il regalo, come viene, se ne va. Il carbone, invece, ti macchia, si fa ricordare. “Sì, sei stato buono”, dicono i regali, “ma c’è sempre qualcosa che puoi migliorare”, aggiunge il carbone. 

Mia madre questo lo sapeva bene. Il carbone che la mia mano piccola e contrariata trovava puntualmente sul fondo di quell’ingrata calza non era una punizione: era uno sprone. Un incentivo, un rilancio, piume nuove per ali più solide e piene, ché da bambini si ha più bisogno di incertezze che di certezze. 

Secondo i greci l’Epifania era il modo con cui la volontà divina si manifestava con segni potenti, significativi. 

A me l’Epifania invece ha sempre dato l’idea che tutto tornasse su un piano incredibilmente umano dopo le feste che imbellettano tutto: modi di fare, cortesie, sorrisi forzati. La Befana ha il grande pregio di portarmi davanti ai miei limiti ogni anno, ad inizio anno, come a dirmi: “guardali bene e abbi cura di loro, durante il tuo viaggio”.

All’Epifania si azzera tutto. Noi non siamo i regali che riceviamo, ma il carbone che ci rimane sulle mani e nel fondo della calza, lì dove nessuno guarda. E forse, alla fine, pure noi stessi abbiamo un fondo, dentro, in cui non guardiamo mai e che facciamo finta che non esista. 

Da bambina il mio lato migliore era tutto ciò che avevo: troppo acerba per commettere errori, ma già abbastanza grande da sapere cosa fossero. 

Col tempo quegli errori li ho fatti e forse la Befana non è più passata perché, finalmente, si è accorta che ci sono arrivata, che ho finalmente capito che col carbone si può fare tutto, perfino disegnare, e che i disegni di quel tipo sono di un’intensità che qualunque matita può soltanto sognare. Il carbone sa cosa significa essere disprezzati, oh, eccome se lo sa; eppure ciò che scaturisce da esso ha un valore che, seppur colto a scoppio ritardato, ha effetto permanente. 

Adesso non guardo più la Befana con lo sdegno cavalleresco che fermava il tremolìo del mio mento di fronte a quel l’immeritato carbone. Adesso la Befana l’aspetto alla finestra con una tazza di the caldo e qualche biscotto e ci facciamo grandi risate sul tempo, la stranezza folle della gente, le grandi domande della vita che alla fine invece sono piccole, talmente piccole che le perdi nel fondo delle tasche e poi le devi rifare da capo. 

E quando il suo tempo è finito e se ne va, mentre trascina la scopa di saggina per terra, così leggera che pare un sussurro, la richiamo indietro, tendo la mano e le dico: “dammi il carbone che mi spetta”. 

I doni appesi al soffitto di nonna. Una caccia al tesoro per tutta la grande casa, poi alzammo gli occhi…Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022.

La neve fuori ad imbiancare i giorni delle feste e il fuoco dentro, nella casa di mia nonna. Sempre acceso, anche d’estate.

La grande fornace rivestita di piccole piastrelle bianche e lucenti a casa di mia nonna serviva a scaldarsi ma anche a cucinare lentamente pietanze antiche ; serviva ad accompagnare le ore pigre delle letture e dei giochi ma anche ad accogliere chi arrivava e far ritrovare chi ci abitava.

Scaldarsi, cucinare e raccontare. Era quello il cuore della casa di mia nonna; quello il luogo in cui lei incantava me e le mie sorelle – e poi via via i fratelli e i cugini che arrivarono negli anni – con le sue storie fantastiche ma anche con la magia dell’uovo cotto sotto la cenere mentre in una sorta di “soffitta-piccionaia” i colombi volavano liberamente e capitava che te li ritrovassi zompettare anche in cucina. Colombi ma anche conigli.

Mia nonna era una incantatrice: anche della grande fatica in campagna condivisa con mio nonno, lei sapeva fare un dono trasformandola in racconti mirabili che seguivano il mutare delle stagioni. L’incantesimo di un dono fatto di parole, di quelli che poi – negli anni a venire – torna puntualmente a manifestarsi in certi momenti della vita. Sapeva fare tutto, ma dico proprio tutto mia nonna: persino i cestini intrecciati, i mestoli di legno intagliato, ogni tipo di provvista comprese le amarene sotto spirito che io ci andavo matta. Sapeva riparare le scarpe rotte, lavorare a maglia, cucinare sapientemente, fare il vino e l’olio, tessere al telaio che era una meraviglia o farci monili con qualunque cosa le capitasse tra le mani.

Bella – così io la ricordo – con gli occhi di un grigio azzurro sempre acceso e di una rigidità tale che guai a dirle che il pane del giorno prima era troppo duro o che ti eri attardata a giocare o a passeggiare ed eri arrivata col fiatone corto a tavola apparecchiata: semplicemente saltavi il pranzo e mangiavi il pane tutto, anche quello del giorno prima e del giorno prima ancora…

«Il pane non si butta», diceva mentre affondava nel latte quello più duro trasformandolo in una zuppa da mangiare a colazione.

Una combattente che ti pigliava il cuore anche con certi scherzi architettati ad arte. Come quando mi faceva credere che il rumore degli zoccoli dei muli che stavano nelle stalle al piano terra erano le catene di un nobile fantasma che non prendeva pace, o quando s’inventava storie di spettri e ombre. Io, del resto – sempre dietro alle fantasticherie alimentate dalle letture di libri e libricini – ero perfetta per cadere nel tranello di quei racconti dello spavento che una volta appurata la verità finivano tutti con una risata.

Mia nonna era questo e molto di più.

Da lei bambina insieme alle mie sorelle trascorrevo spesso le feste di Natale: una gioia che ora – come una madeleine di Proust – ha il sapore della scirubetta fatta con la neve soffice e pulita che lei raccoglieva sul balcone e aromatizzava con amarene, mandarini o arance.

E da lei l’anno in cui miei zii – praticamente due ragazzi – tornarono da Torino dove lavoravano in Fiat e Pirelli, trascorsi anche un’Epifania indimenticabile. L’attesa carica di aspettative non andò delusa.

Io e le mie sorelle sapevamo in cuor nostro che quella sarebbe stata una Befana speciale: due zii che tornavano da Torino con i primi stipendi in tasca non potevano che aver parlato con la Befana per farci recapitare doni favolosi. A rendere tutto ancor più speciale ci pensò mia nonna. Buttate giù dal letto prestissimo – ma con lei era praticamente impossibile restare a poltrire – mangiato l’uovo cotto sotto cenere, indossati i vestiti della festa, raccolti in code, trecce e treccine i capelli quel 6 gennaio cominciammo a fare il giro della casa per trovare i regali della Befana.

Ora, siccome la casa di mia nonna era piuttosto grande, con le camere nelle camere e un “passetto” – così si chiamava il corridoio – che le collegava era facile perdersi e sperdersi dietro i suoi indovinelli: «guardate sotto i letti», «forse sono in cucina, nella credenza», «no, saranno nel salottino, sotto i divani», «sopra in soffitta, tra le scartoffie», «sotto, dove ci sono le botti di vino, chissà che non li abbia messi là…». Insomma fu tutto un andare e venire, sbirciare e ri-sbirciare, scendere e salire per le scale… ma dei giochi nessuna traccia. Sconsolate e ormai sul punto di mollare la caccia al tesoro, non ricordo se a venirci in soccorso fu mia madre o mia zia con un piccolo segno del capo verso l’alto.

Come non pensarci prima?! Poteva mai una nonna come la mia farci trovare i regali nei posti consueti o dentro la calza? Signornò! Alzammo gli occhi verso il soffitto che era piuttosto alto e meraviglia delle meraviglie là dove nessuno di noi avrebbe mai cercato, appese alle travi c’erano delle piccole, fiammanti biciclette che la Befana aveva comprato per noi naturalmente a Torino… Fu un attimo di gioia e luce la Befana torinese si materializzava davanti ai nostri occhi di bambine. La domanda all’unisono fu una e una sola: «Ma allora la Befana esiste veramente?».

La favola diventava realtà e portava con sé una lezione per la vita.

Alzare gli occhi, non rinunciare a sognare ma restare con i piedi per terra: ecco la lezione di quella caccia al tesoro inventata da mia nonna. Io non l’ho dimenticata neanche ora che mi son portata a casa le sue cose: i pettini del telaio, i fusi, e quei tesori di lino, cotone e seta che lei ha tessuto per me negli anni e che uso quotidianamente. La Befana torinese è ancora viva in certi “ti ricordi?” che si fanno con la famiglia al completo riunita a Natale.

“Ti ricordi quando nonna appese le biciclette al soffitto?” …

La Pasqua.

Le Palme.

Il Primo Processo politico.

I Sacrifici.

I Film.

Lunedì dell'Angelo.

Le Palme.

Perché si chiama Domenica delle Palme? Storia e origine della Festa. Alessandro Ferro il 2 Aprile 2023 su Il Giornale.

Il 2 aprile è la Domenica delle Palme: ecco il significato di questo giorno che ogni anno cambia data

Tabella dei contenuti

 Perché si chiama così

 Il perché della scelta dell'asino

 Perché la data cambia sempre

La Domenica di Pasqua di quest'anno sarà il 9 aprile, il giorno in cui i cristiani cattolici celebrano la Resurrezione di Gesù. La Domenica delle Palme, che segna l'inizio della Settimana Santa, cade sette giorni prima e quest'anno è il 2 aprile: ci troviamo ancora in pieno periodo di Quaresima che finirà soltanto giovedì prossimo, ossia i 40 giorni che Gesù ha trascorso nel deserto dopo essere stato battezzato nel fiume Giordano.

I riti della Settimana Santa in Italia

Perché si chiama così

Il nome che si rifà alla celebre pianta si deve a quando Gesù fece il suo ingresso trionfale a Gerusalemme (ne parlano tutti e 4 i Vangeli) con le ali di folla che sventolavano ramoscelli di alberi mentre il solo Vangelo di Giovanni parla espressamente di palme. L'episodio ricorda il Sukkot, conosciuto anche come "Festa delle Capanne" dove i fedeli in pellegrinaggio salivano in processione al Tempio portando in mano un piccolo mazzo composto da palme (che simboleggia la fede), mirto (ricorda la preghiera) e il salice (i fedeli in silenzio di fronte a Dio).

Per celebrare l'evento critiano, tradizione vuole che la Santa Messa domenicale inizi all'esterno della chiesa con il sacerdote che benedice palma e ulivi per poi proseguire con la liturgia all'interno della chiesa. Rispetto a tutte le altre domeniche di Quaresima, il sacerdote indossa paramenti rossi (gli stessi del Venerdì Santo). Come detto, alla fine delle celebrazioni liturgiche ai fedeli in chiesa vengono consegnati anche dei ramoscelli d'ulivo benedetti che simboleggiano la pace.

Il perché della scelta dell'asino

In segno di umiltà, Gesù fece il suo ingresso a Gerusalemme non a cavallo ma sul dorso di un'asina: nel primo caso la simbologia rimanda ai re che spesso combattevano le battaglie, l'asia rappresenta invece mitezza e umiltà. Sui Vangeli c'è scritto che una volta giunto con i suoi discepoli nei pressi di Gerusalemme, a Betfage, inviò due di loro per prendere un’asina legata a un puledro e portarli da lui: se qualcuno ne avesse chiesto il motivo, la risposta dei discepoli sarebbe stata che servivano al Signore ma che sarebbero subito stati riportati indietro. Quanto accaduto era già stato annunziato dal profeta Zaccaria: "Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un'asina, con un puledro figlio di bestia da soma".

Perché la data cambia sempre

A differenza di altre date cristiane che da calendario non cambiano mai (si pensi al Natale), il giorno della Domenica delle Palme è diverso ogni anno perché è legato al giorno di Pasqua che segue il calendario lunare: ecco perché è compreso nell'arco di un mese, dal 22 marzo al 25 aprile e varia rispetto alla prima luna piena successiva all’equinozio di primavera. Questa domenica viene anche definita "Domenica della Passione del Signore" perché apre la Settimana Santa che porterà, sette giorni dopo, alla Pasqua di Resurrezione.

Il Primo Processo politico.

La storia del Venerdì Santo: perché Gesù fu processato e crocifisso? Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2023

Il Venerdì Santo è il giorno in cui si ricorda il processo e la condanna a morte di Gesù. Quali furono i capi d’imputazione? Cosa aveva fatto il rabbi di Nazareth, secondo i suoi accusatori? E di che cosa è stato giudicato colpevole?

Gerusalemme, aprile dell’anno 30, mattina. Il procuratore romano Ponzio Pilato non ha fatto una gran carriera, se si trova a governare una regione, la Giudea, ai confini dell’Impero guidato allora da Tiberio. Non proprio hic sunt leones, ma quasi. La scena, probabilmente, ha luogo nel Palazzo di Erode il Grande, sulla collina occidentale, vicino all’attuale porta di Giaffa.

Davanti al «pretorio», perché il procuratore lo giudichi, hanno trascinato un predicatore trentenne ebreo della Galilea, un rabbì di Nazaret, forse un rivoltoso, vai a sapere. Tale Yehoshua ben Yosef, nella forma abbreviata Yeshùa. Un’altra sentenza, una delle tante.

Pilato, in carica da quattro anni, non capisce quel popolo che disprezza, ricambiato. E non può immaginare che da quel giorno la sua scelta e il suo nome saranno legati al caso giudiziario più celebre e clamoroso della storia dell’umanità, da fare impallidire pure Socrate.

n processo che si chiude in poche ore con la condanna alla pena capitale, nella forma più crudele e infamante: la crocifissione. Ma cos’ha fatto, per i suoi accusatori, Gesù? Quali sono i capi d’imputazione? Di che cosa viene giudicato colpevole?

Le fonti storiche e l’accusa falsa di deicidio

Duemila anni di analisi, migliaia di libri e interpretazioni spesso nefaste. La Chiesa cattolica ha le sue responsabilità, e sono enormi. Fino al Concilio Vaticano II è stata fatta gravare sul popolo ebraico l’accusa, insensata, di «deicidio», matrice dell’antigiudaismo che ha provocato secoli di persecuzioni e pogrom.

Come premette il cardinale Gianfranco Ravasi nel suo libro Biografia di Gesù, è bene anzitutto citare la dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 28 ottobre 1965, che ha finalmente segnato la svolta della Chiesa: «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo». Accusa insensata, anche perché in questa vicenda sono tutti ebrei: Gesù come i suoi accusatori, quelli che gridano «crocifiggilo!» come Maria, i discepoli, gli evangelisti (solo su Luca c’è qualche dubbio, la tradizione parla di origini pagane, ma si ritiene più probabile fosse un ebreo ellenista di Antiochia), la comunità cristiana primitiva. A parte Pilato: che era l’unico, in quanto procuratore romano, a poter decidere la pena di morte.

E poi la ricostruzione storica non è facile. Il processo è attestato nelle Antichità giudaiche (XVIII) dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, che in un passo cita Gesù e scrive: «Dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo avevano amato». Anche lo storico romano Tacito, negli Annali (XV), scrive dei «tormenti atroci» inflitti da Nerone ai cristiani e spiega che questi «prendevano il nome da Cristo, condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio».

Per il resto, le sole fonti sono i quattro Vangeli, che tuttavia non sono stati scritti con un intento storico, leggono gli eventi alla luce della fede nella resurrezione di Gesù e si rivolgono a comunità particolari (Marco a un ambiente di origini pagane, Matteo a giudeo-cristiani della diaspora ellenistica, Luca al mondo greco-romano, Giovanni a quello greco) che spesso hanno rapporti difficili e polemici con l’ambiente ebraico dal quale si sono distaccati.

Ne è un esempio la relativa indulgenza con la quale è descritto Pilato. Filone d’Alessandria, grande filosofo ebreo dell’epoca, ne offre nel De Legatione ad Caium un ritratto un po’ diverso: «Un uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate».

Giuseppe Flavio sempre nelle Antichità giudaiche, racconta le stragi di popolo ordinate da Pilato ai suoi soldati.

L’accusa e il primo processo davanti al Sinedrio

Comunque, nel racconto degli evangelisti i processi sono due. Il primo si celebra davanti al Sinedrio, parola greca che significa consesso, assemblea. Ad Atene era il collegio costituito da un magistrato e dai suoi assessori. Nella Gerusalemme del tempo era l’organo politico-religioso responsabile della amministrazione giudaica, molto relativamente autonoma, riconosciuto ma dipendente dall’autorità del potere romano occupante. Era composto da settanta membri più il sommo sacerdote che lo presiedeva. Vi erano rappresentate tre classi: i sacerdoti, gli anziani che appartenevano ad una sorta di aristocrazia laica e terriera e come in sacerdoti erano sadducei, di orientamento conservatore; e infine gli scribi, gli studiosi farisei, più aperti e progressisti, a dispetto della rappresentazione che ne fanno i Vangeli.

Nella notte del tradimento di Giuda, Gesù era stato arrestato nel podere detto Getsemani, «frantoio per olive», da una «folla con spade e bastoni» mandata dalle autorità del Sinedrio. Viene condotto davanti all’ex sommo sacerdote Anna e poi dal genero Caifa, sommo sacerdote in carica e quindi capo del Sinedrio. È a casa di Caifa che avviene la prima assise. I quattro Vangeli variano nel racconto, ma la sostanza non cambia. All’inizio lo accusano di aver detto «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», frase che peraltro Gesù aveva riferito a se stesso e «al tempio del suo corpo», nota Giovanni. Ma il momento decisivo è quando Caifa gli chiede: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Il Vangelo più antico, quello di Marco, che si ritiene scritto prima della distruzione del Tempio nel 70 d.C., riporta la risposta dell’imputato: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». È a questo punto che il sommo sacerdote si straccia le vesti e esclama: «Che bisogno abbiamo di altri testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E l’assemblea del Sinedrio risponde: «È reo di morte!».

Quella di Caifa non è una reazione isterica, lo stracciarsi le vesti è un gesto rituale davanti a un’ignominia. Ma che ha detto Gesù di così grave? Ha risposto di essere il Messia atteso da Israele (Mashiah, «unto» con l’olio sacro e quindi consacrato: in greco Christós, Cristo) e, quel che è peggio agli occhi del Sinedrio, lo ha fatto citando un passo del profeta Daniele (7) che presenta nel «Figlio dell’uomo», una figura non solo terrena che partecipa misteriosamente alla natura divina. Ma c’è di più. Il testo originale greco di Marco riporta come risposta di Gesù «egò eimi», che in genere viene tradotto «io lo sono» ma alla lettera significa «io sono»: la stessa risposta di Dio quando Mosé ne chiede il nome, rivolto al roveto ardente sul monte Oreb, il tetragramma YHWH (Jod, He, Waw, He) che gli ebrei non pronunciano. «Il vangelo sfocia in questa sua autotestimonianza, che risolve ogni mistero e sarà causa della sua condanna», scrive il grande biblista gesuita Silvano Fausti nel suo commento a Marco: «Gesù sarà condannato non per testimonianza altrui, ma per questa sua rivelazione».

Lo nota pure Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret: «Non vi risuona forse Esodo 3,14?». In effetti. Per il Sinedrio ce n’è abbastanza, ma l’assemblea non ha il potere di emettere sentenze. Così Gesù viene portato da Pilato.

Il secondo processo davanti a Pilato

Dal Sinedrio al praetorium, il luogo del giudizio. Nel Vangelo di Luca si dice che Pilato, diffidente, cercò invano di scaricare il giudizio su Erode, procuratore della Galilea, che rimandò indietro l’imputato. In ogni caso, per ottenere la condanna, al procuratore romano della Giudea viene presentata dai rappresentanti dell’assemblea un’accusa più politica: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re». Sarà la motivazione finale della condanna, che veniva apposta sul braccio verticale della croce come monito per chiunque volesse ribellarsi al potere romano: «Il re dei Giudei», l’acronimo INRI che nella lingua latina dell’impero si ritrova in innumerevoli dipinti e sculture: «Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum».

La versione di Marco è la più asciutta. Pilato chiede: «Sei tu il re dei giudei?». Gesù risponde: «Tu lo dici». Pilato insiste, Gesù non risponde più nulla. Ma a Gerusalemme sono i giorni della Pasqua ebraica, per la festa il procuratore «era solito rilasciare un prigioniero» e in quel momento c’è anche tale Barabba, «si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio», insomma un rivoluzionario politico vero, probabilmente uno zelota. La scena è celeberrima: Pilato si rivolge alla folla, «volete che vi rilasci il re dei Giudei?», ma la folla «sobillata dai sommi sacerdoti» invoca invece Barabba. E a Pilato che domanda cosa fare di Gesù, «che male ha fatto?», la folla risponde: «Crocifiggilo!».

Il «crucifige!»

E qui c’è un problema serio: chi invoca Barabba e chiede la crocifissione di Gesù? Marco, il testo più antico, parla di «óchlos», in greco la «folla» o «massa», appunto, un gruppo di persone formato probabilmente da sostenitori di Barabba. È il solo Vangelo di Matteo a parlare di «laós», che significa «popolo» o «nazione». Tutti i maggiori biblisti e teologi sono d’accordo: è un’esagerazione di Matteo. Anzi, «un’amplificazione fatale nelle sue conseguenze», nota Joseph Ratzinger, che nel suo Gesù di Nazaret chiarisce: «Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo a chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco».

Se Marco parla di folla, Giovanni indica i «giudei» nel senso dell’ «aristocrazia del tempio», Benedetto XVI è definitivo: «Il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell’amnistia pasquale, si associa ad essi la “massa” dei sostenitori di Barabba». Resta, storicamente, la tendenza dei primi cristiani «ad attenuare le responsabilità di Pilato e a marcare quelle giudaiche», come nota Ravasi. Matteo soprattutto, il più polemico con i suoi connazionali, il quale riporta la scena del procuratore che se ne lava le mani e dice: «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi!». E aggiunge - anche qui, solo lui tra gli evangelisti - la risposta del «popolo», cui arriva a far dire: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli».

Resta soprattutto il fatto che la responsabilità della sentenza di morte è del procuratore romano, Marco scrive: «Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso».

L’esecuzione

Gesù viene consegnato alla guarnigione romana per essere flagellato. È il racconto della Passione che in buona parte del mondo, il Venerdì Santo, scandisce la Via Crucis. I romani usavano un flagrum a corde grosse con pezzi di osso e di metallo. La derisione, le torture. Nella salita al Golgota, i soldati fermano un tale Simone di Cirene perché porti il patibulum, l’asse trasversale della croce. Quello verticale è già piantato sul luogo dell’esecuzione. Il condannato viene appeso alla croce, inchiodato per i polsi. La parola greca agonía significa lotta, per un crocifisso è lunga e dolorosa. Alla fine, un soldato tende a Gesù agonizzante una spugna intrisa di «aceto», in realtà un vino mescolato con acqua che soldati e mietitori usavano per dissetarsi: quello che popolarmente appare come l’ultimo gesto di scherno potrebbe essere invece un gesto estremo di pietà. «Tetélestai», è l’ultima parola di Gesù riportata da Giovanni: «“Tutto è compiuto”, disse. E, chinato il capo, spirò».

«Arrestate quel Gesù che pretende di essere un re». Ecco il primo processo politico della storia. Un'immagine di Jesus Christ Superstar, film del 1973 dove Gesù è interpretato da Ted Neeley

La catena di eventi che ha portato al martirio del Nazareno e alla successiva nascita del Cristianesimo passa attraverso un grande errore giudiziario. Ma la procedura non fu né illegale né arbitraria. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 3 aprile 2023

Come indica il Vangelo secondo Luca Gesù di Nazaret inizia la sua predicazione che aveva «circa trent’anni», subito dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni Battista lungo le sponde del fiume Giordano.

La sua attività non durerà più di 36 mesi, concentrata in una zona di pochi chilometri quadrati e con un seguito molto ristretto, le sue gesta avrebbero potuto in tal senso rimanere confinate nel piccolo circolo dei suoi seguaci e non arrivare mai nelle orecchie dei legislatori ebraici. Peraltro all’epoca la Giudea viveva un periodo di grande prosperità e pace sociale: gli ultimi movimenti rivoluzionari risalgono infatti all’anno 6 quando si compie il passaggio all’amministrazione romana e riappariranno solo dopo il 54 con la nascita del partito zelota e dei suoi violenti sicari.

Lo stesso movimento battista nel quale i vangeli collocano Gesù, pur predicando un giudaismo radicale e ascetico, è caratterizzato dalla mitezza e dalla moderazione politica dei suoi adepti che partecipano tranquillamente alla vita pubblica e prestano servizio nell’esercito di Roma. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe descrive Giovanni come «un uomo buono e pietoso» a differenza di altri profeti contestatori che lo precedettero paragonati a «banditi».

Gesù al contrario di Giovanni non era un asceta, dopo il ritiro dei quaranta giorni nel deserto ritorna in Galilea tuffandosi in una predicazione itinerante e carismatica. È probabile che l’entrata nel tempio di Gerusalemme con la proverbiale cacciata dei mercanti e dei cambiavalute abbia attirato l’attenzione sul “nazareno” oltre la sua reale influenza, causandone l’arresto nella celebre “scena” dell’orto dei Getsemani. Per il tribunale ebraico, il Sinedrio, quel predicatore che pretende di essere il figlio di Dio e di fare miracoli è un eretico pazzoide, un marginal jewish come lo definì lo storico biblista americano John P.

Meier, ma soprattutto un bestemmiatore, e la blasfemia è un peccato gravissimo che va punito con la pena di morte. Su questo c’è unanimità assoluta nel tribunale ebraico.

Autoproclamarsi re equivaleva a un atto di ribellione nei confronti del potere imperiale di Roma. E la violazione della lex Iulia de maiestate portava spesso alla sentenza di morte tramite crocifissione, per questo il prefetto Ponzio Pilato non poteva ignorare quelle accuse e aveva il dovere interrogarlo anche se controvoglia e con l’intenzione di lasciar correre. Gesù non è un usurpatore, non ha alcuna intenzione di ambire alla sovranità terrestre, il suo “regno dei cieli” non compete con l’autorità di nessun Cesare con nessun potere mondano.

Sarebbe bastato ricordare a Pilato questa ovvietà per venire scagionato dal reato di lesa maestà, ma Gesù sceglie il silenzio che lo porta diritto dritto verso la croce. «Sei il re degli Giudei?», chiede il prefetto, aspettandosi una risposta negativa per archiviare il caso. «Sei tu che lo dici» è però la sola risposta che riceve.

Nel codice romano un imputato che rifiuta di difendersi è infatti considerato colpevole: «Non ci può essere nessun processo se l’accusato tace» scrive il maestro di retorica Quintiliano nella Institutio oratoria: restando zitto Gesù manda in corto circuito il suo processo per compiere il volere divino e diventare così il Cristo salvatore.

Senza dubbio fu un processo politico e molto speditivo, ma non un’iniziativa illegale o arbitraria, in ogni caso del tutto conforme alle norme giuridiche dell’epoca e alla complessità della procedura. Perché Gesù ha dovuto rispondere a due convocazioni distinte, una dei giudici ebrei e l’altra della giustizia romana? Se la sentenza di morte poteva essere comminata soltanto da un tribunale romano che senso aveva il passaggio davanti al Sinedrio? I vangeli ci dicono che il Sinedrio lo aveva condannato per reati di natura religiosa dopo una breve istruttoria, ma se non aveva diritto di far eseguire la pena capitale qual era il senso di una condanna che solo i romani potevano sostanziare?

Nella tradizione cristiana si pone molto l’accento sulla decisione del Sinedrio, ovvero sulla volontà degli ebrei di sbarazzarsi di quel profeta ingombrante, e sulla loro crudeltà (i maltrattamenti subiti da Gesù durante gli interrogatori) il che è andato ad alimentare nel corso dei secoli lo stereotipo odioso del popolo deicida.

Ma la competenza penale e quindi la decisione definitiva spettava ai funzionari dell’impero romano. Ossia al prefetto Pilato il quale, per il principio della cognitio extra ordinem, esercitava allo stesso tempo il ruolo di procuratore e di giudice, (altro che separazione delle carriere!). Pilato da parte sua è convinto dell’innocenza di Gesù e lo “rinvia” dall’eccentrico Erode Antipa, sovrano tetrarca del piccolo regno di Galilea sotto il protettorato di Roma, episodio citato soltanto dall’evangelista Luca. Erode (responsabile della condanna a morte di Giovanni Battista) chiede a Gesù se è in grado di compiere miracoli e di darne una dimostrazione, ma di fronte al silenzio, lo irride rispedendolo ancora una volta davanti Pilato, dimostrando scarso interesse per la sorte di quel bizzarro predicatore che di certo non riteneva particolarmente pericoloso.

A quel punto Pilato tenta un ultimo stratagemma: vuole farlo liberare tramite il cosiddetto “privilegio pasquale”, ovvero l’amnistia di un carcerato in prossimità della Pasqua, proponendo alla folla di scegliere tra Gesù e Barabba, un «prigioniero famoso» dicono i Vangeli, che però divergono sulla sua descrizione, «un ribelle» vicino al movimento zelota responsabile di tumulti politici, «un brigante», un «assassino». Ma tutti convergono sul fatto che la folla, aizzata dai sacerdoti del Sinderio e dai partiti religiosi più radicali, sceglie di far liberare Barabba, destinando Gesù al martirio tramite la crocifissione. A quel punto il prefetto cede alle pressioni popolari, ignorando il suggerimento della moglie Claudia Procula che lo invita comunque a liberare Gesù.

Nell’immaginario collettivo è passata l’immagine di Pilato che “si lava le mani” affermando di non essere responsabile della sorte che attende il prigioniero, emblema e antonomasia dell’ipocrisia e vigliaccheria umana. Episodio probabilmente inventato, però funzionale sacrificio di Cristo e alla sua ascensione divina. Ma qui l’analisi e l’anatomia dell’istruttoria contro Gesù, la catena di eventi che lo ha portato alla morte (conseguenza perfettamente evitabile in quel contesto) si fermano. E il racconto entra in una dimensione tutta teologica e deterministica per la quale il più celebre errore giudiziario della Storia era un evento necessario e che ha gettato le fondamenta per la salvezza dell’intero genere umano. 

Gesù in croce tra i ladroni senza nome. ANTONIO STAGLIANÒ, Vescovo e presidente della Pontificia Accademia di Teologia, su Il Quotidiano del Sud il 2 Aprile 2023

«QUANDO furono giunti al luogo detto “il Teschio”, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra» (Luca 23,33). I vangeli, che raccontano l’evento della crocifissione di Gesù di Nazareth, non danno nomi ai due ladroni, diversamente dal Vangelo arabo dell’infanzia, un apocrifo del VI secolo, che affibbia ai due ladroni i nomi di Tito e Dimaco e aggiunge un racconto di come Tito (Disma) impedì ad altri ladroni della sua banda di derubare Maria e Giuseppe durante la loro fuga in Egitto.

È proprio ai vangeli apocrifi si rifà De Andrè per narrare della vicenda di Gesù in La Buona Novella, del 1970, in piena rivoluzione sessantottesca, ritenendo Gesù l’unico vero e autentico rivoluzionario di tutti i tempi. Così ne Il testamento di Tito, fa parlare il ladrone buono, mettendogli in bocca una esegesi (poeticamente controintuitiva) dei dieci comandamenti «Il settimo dice: “Non ammazzare”, se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno: guardate la fine di quel nazareno e un ladro non muore di meno».

Faber non crede (essendo agnostico) nella divinità di Gesù, ma ne apprezza la sua umanità, soprattutto perché sta dalla parte dei poveri, degli immiseriti, dei “maledetti della storia”, gli umili e gli straccioni, in una parola di quegli scartati iniquamente dalla società (ingiusta), ai quali rivolge l’attenzione di tutte le sue canzoni. Tutta l’opera è una critica a certe interpretazioni maldestre della religione (qui è in gioco il cattolicesimo) che con norme e prescrizioni (false) avrebbero snaturato l’insegnamento autentico di Gesù. Nell’ultima canzone dell’LP intitolata Laudate hominem, fa la sua confessione di fede nel Figlio dell’uomo – «Non voglio pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio» – e denuncia l’infamia più grande del potere che si fa Dio per esercitare la sua violenza uccidendo gli altri: «il potere che cercava il nostro umore […] nel nome di un dio uccideva un uomo, nel nome di dio si assolse poi […] poi chiamo dio quell’uomo e nel suo nome, nuovo nome, altri uomini, altri uomini uccise». Nella sua lezione magistrale a Regensburg, Benedetto XVI lo aveva detto, commentando alcune Sure del Corano: “agire con violenza è contro la natura dell’anima e di Dio”. Lo stesso Papa Francesco ha più volte insistito su questo: “uccidere in nome di Dio è satanico”.

Perciò il messaggio di De Andrè coincide con l’insegnamento degli ultimi due papi cattolici, nonostante una lunga storia di sciagurate vicende nelle quali il volto del Dio di Gesù Cristo – “Dio-agape, solo e sempre amore- è stato mascherato da improbabili tratti del Dio guerriero che uccide popoli e nazioni, un Dio partigiano che ancora oggi viene invocato come “il Dio che sta dalla nostra parte” nella guerra in Ucraina (vedi la posizione del patriarca Kirill). In verità, morendo sulla croce, Gesù fa morire – una volta per tutte- il Dio Signore degli eserciti e dichiara l’eterna comunione di amore di Dio in Dio. Se Pilato aveva profeticamente dichiarato, davanti alla folla che grida “crocifiggilo, crocifiggilo”, “Ecce homo” (=ecco l’uomo), Gesù con il suo silenzio muto invece dichiara: Ecce Deus (= ecco Dio). Nella condizione dell’assoluta impotenza di Dio, inchiodato a un legno e morente, Dio – in Gesù, il Figlio suo- si mostra assolutamente potente nell’amore. Egli che è onnipotente nell’amore, è anche assolutamente impotenza nel fare il male: può solo elargire misericordia e perdono.

Perciò De André può chiudere la sua “buona Novella”, avendo recepito l’autentico messaggio cristiano: «io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore». Una mossa di sapienza che supera ogni logica della ragione umana. La croce di Gesù resta follia per i greci e scandalo per tutti. Eppure svela il fondamento del tutto, rifondando (cioè mettendo sulle sue basi solide) la vita degli uomini sulla Giustizia. Il crocifisso, infatti, “giudica” il mondo con misericordia e chiede a tutti di interrogarsi: “come deve essere l’amore per essere come deve? Come deve essere la giustizia per essere come deve? Come deve essere la verità per essere come deve e così via?”. Interrogativi che potranno trovare risposta autentica, solo se trasmetteranno la “sapienza della croce”, nella quale si manifesta Dio-agape e l’uomo vero, in “qualità divina” che rende l’animale “umano” e gli impedisce di trasformarsi in bestia: la partecipante sensibilità al dolore e alla sofferenza degli altri. “Divino” non è Dio – perché, se Dio esiste, è Dio non divino-, divino è l’uomo che è creato a sua immagine e somiglianza (perciò è divino) e questa sua qualità divina lo porta ad autotrascendersi nell’amore, con empatia, immedesimazione, capace di “inaltrarsi” (A. Rosmini) con compassione.

È l’affezione originaria dell’umano-che-è-comune, questo istinto dell’animale-uomo che vuole aver cura degli altri, fino alla possibilità estrema di morire per amore, così solo amando davvero: “amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”. È il comandamento di Gesù, testimoniato sulla croce. Questa potente “mossa sapienziale” è stata ben colta dall’anticristiano F. Nietzsche: per lui l’unico cristiano vero morì sulla croce. Dopo la morte di Cristo la croce venne ideologizzata fino a produrre il concetto cristiano di Dio, il quale riassumerebbe sinteticamente tutte le menzogne di questa religione: «Dio degenerato fino a contraddire la vita invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno si! In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’ “al di qua”, di ogni menzogna dell’ “al di là”! In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla».

Tutto questo insegnerebbe il vangelo della croce ideologizzato da Paolo. Su un solo punto qui Nietzsche ha ragione: la croce dice la qualità cristiana di Dio. Dunque: ecce Deus, e non solo ecce homo. La pazzia della Croce, invece, genera una sapienza superiore, soprannaturale, aperta e disponibile a una sua declinazione in “saggezza filosofica”, capace di ridare slancio all’esercizio della ragione, per una risposta profonda ai tanti interrogativi emergenti dalla considerazione della massa enorme di sofferenza umana, dalla diffusa realtà di eventi dolorosi nella vicenda del singolo o dell’intera umanità: che senso ha la vita se è così penosa? Perché il dolore? Come si mostra lo sconfinato amore di Dio? Perché il male mondo non viene impedito da Dio? La Croce è anche “pensiero”, scientia crucis, evento rivelativo come sapere su Dio, sull’umanità storica e contiene dentro la sua folle sapienza una concezione generale della realtà: una metafisica che occorrerebbe enucleare o una ermeneutica dell’esistenza che bisognerebbe riproporre oggi.

Pensare intensivamente, criticamente, a partire dalla Croce, “filosofare con la Croce”, non è una idea peregrina, ma è un compito indispensabile per il terzo millennio allo scopo di rifondare una cultura della pace, della solidarietà, la sola che possa permettere un vero incontro tra etnie diverse, tra popolazioni più disparate nella società multirazziale e multireligiosa. D’altra parte, la tradizione filosofica abbonda di “esperti della croce” (Pascal, Kierkegaard, Edith Stein e tanti altri) testimoni della possibilità di filosofare con la Croce, di coniugare la sua sapienza in un pensiero filosofico, autenticamente tale, pur nel rispetto del carattere eccedente e non razionalizzabile della croce: qui il pensiero si lascia guidare dalla Croce, ma non riduce la Croce in uno schema logico, in un simbolo laicizzato, secolarizzato, in una cifra della legge del divenire del mondo, come accada nel “Venerdì santo speculativo” di Hegel. Si tratta infatti di filosofare con la croce, di produrre una spiegazione filosofica orientata dalla fede e non invece una spiegazione filosofia della fede, una razionalizzazione dei suoi misteri: la “croce speculativa” (Schelling).

La Croce resta dunque “pazzia” per la ragione, in quanto evento del manifestarsi salvifico della gloria di Dio all’uomo: in questa eccedenza – che deve essere mantenuta e non dissolta- essa irradia di sé con la sua luce la storia degli uomini, informa sapientemente anche sulla vicenda umana e sul suo significato, aprendo gli orizzonti della ragione sul quel legame tra Dio e l’uomo che non può essere eluso se si vuole cogliere realmente la verità sull’uomo. La Croce non è un geroglifico dell’umanità, un segno universale dell’uomo universale (René Guénon), ma è comunicazione sapiente di Dio alla domanda di significato che inquieta il cuore dell’uomo. Il dialogo tra i due ladroni diventa allora importante, perché designa “due tipi di umanità”.

Perciò, nei vangeli non hanno bisogno di avere “nomi”, essendo come delle “personalità corporative”, rappresentanti di due modi essenziali di essere umani difronte alla morte: il primo – provoca Gesù e lo incita a liberare se stesso e loro-, è l’uomo che utilizza strumentalmente il soprannaturale per le proprie faccende umane, perché non accetta la morte e ha paura di morire, così vivendo di una idea di Dio, molto vicina alle divinità delle tragedie greche, a uso e consumo delle proprie necessità materiali; è un egoista, nemmeno si accorge che l’altro soffre, coglie quel momento opportunisticamente, pensando solo a se stesso; il secondo – quello che riceve la promessa d’ essere “oggi stesso in paradiso con Gesù”- non è meno “ladro” del primo, ma riconosce le proprie colpe e accetta il giudizio e, diversamente, ha “occhi per il dolore e le sofferenze dell’altro”, guarda al morire crocifisso di Gesù come diverso dal suo stesso morire, perché riconosce Gesù “innocente”; così dicendo, il ladrone è “buono”, semplicemente perché è “rimasto umano”, il suo cuore non si è indurito per la sofferenza della condanna, non ha perduto la sensibilità al dolore degli altri e, pertanto, è gà entrato nel Paradiso di Gesù: il non-luogo e il non-tempo in cui l’umano spende in tutta bellezza nell’agape di Dio, solo e sempre amore.

«Quell’accusa di deicidio ha scatenato l’antisemitismo fino alla Shoah». Parla Moni Ovadia: «La “colpevolezza” degli ebrei, più che basarsi su fatti storici, fu strumentale per la diffusione del nuovo credo. Si trattò di una scelta geopolitica». Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 7 aprile 2023

È stata colpa del sommo sacerdote giudaico Caifa, il quale, strappandosi le vesti di fronte a Gesù, che confermava di essere il figlio di Dio, ha deciso che era giusto condannarlo a morte? O è stata colpa dei membri del Sinedrio che hanno condotto Gesù da Ponzio Pilato per farlo giustiziare, oppure della folla di giudei che di fronte al Pretore romano ha preferito liberare Barabba invece di Gesù?

La colpa a cui si fa riferimento non è quella della morte del fondatore della religione cristiana, bensì quella che ha determinato l’antisemitismo. Ma è vera questa suggestione che il sentimento antigiudaico trovi le sue radici nel racconto evangelico della morte di Gesù? Lo chiediamo a Moni Ovadia, noto musicista e uomo di teatro ebreo, oltre che attivista dei diritti civili e sociali, oggi direttore del Teatro Comunale di Ferrara.

«Indubbiamente questa accusa è alla base delle origini dell’antisemitismo, ma è il caso di precisare che, al di là del racconto del Vangelo sulla morte di Gesù, che ha una finalità religiosa, e non storica, vi sono diverse ragioni che spiegano questo addebito immeritato. Va però segnalato in primo luogo che gli storici del tempo, come Giuseppe Flavio, un ebreo romanizzato, nato poco dopo la morte di Cristo, che scrisse “Le guerre giudaiche”, fanno un riferimento solo molto vago e impreciso alla figura di Gesù.

Inoltre gli storiografi riportano che Ponzio Pilato non era affatto quel personaggio dubbioso e misericordioso, come risulta nel Vangelo, essendo al contrario feroce, e inviso perfino agli stessi romani. Ma il vero motivo per cui gli ebrei furono incolpati dell’uccisione di Cristo era più geopolitico che altro. Infatti, mentre Pietro, il principale discepolo di Gesù, era orientato a diffondere il verbo di Cristo solo all’interno della comunità ebraica, Paolo, che non ha mai conosciuto Gesù, fu il primo a rendersi conto che l’insegnamento di quest’ultimo poteva essere diffuso a tutti i popoli (da qui la parola katolikos, ossia cattolico, che in greco significa universale), e per riuscirci bisognava partire dalla capitale dell’impero, ossia Roma. A quel punto, fu gioco forza addebitare l’uccisione di Cristo agli ebrei, non potendo essere incolpati i romani.

D’altronde, non bisogna dimenticare che i primi seguaci di Cristo erano ebrei, così come lo era Gesù stesso, il quale si esprimeva in aramaico, che era la versione volgare dell’ebraico, che a quei tempi era usato solo in ambito religioso. Per di più, non vi è evidenza che Gesù volesse fondare una nuova fede, apparendo, per contro, che intendesse rinnovare la religione ebraica. A questo si aggiunge il fatto che le condanne a morte erano rare nella Giudea di allora, e avvenivano per lapidazione, e non per crocifissione, che era il metodo romano per giustiziare i condannati.

Insomma la “colpevolezza” degli ebrei, più che basarsi su fatti storici, fu strumentale per la diffusione del nuovo credo, che in appena 3 secoli divenne, con Costantino, la religione ufficiale dell’impero romano». Se il “peccato originale” fu la presunta responsabilità del popolo ebraico nell’uccisione di Gesù, vi furono poi diverse circostanze che alimentarono l’antisemitismo nel mondo occidentale, come spiega Ovadia: «Lo stereotipo dell’ebreo colpevole dell’uccisione di Gesù, che ha dato luogo a numerose ondate di persecuzioni, le quali, va detto, furono di gran lunga molto più numerose nei paesi cristiani, piuttosto che in quelli di fede islamica, non fu alimentato solo dalla chiesa cattolica, il cui antigiudaismo era esclusivamente di natura religiosa, considerando tra l’altro l’ebreo convertibile al credo cristiano, e quindi redimibile, quanto invece dalle teorie sulla razza, nate nella seconda metà del 800, ad opera dell’inglese Houston Stewart Chamberlain (il cui libro “I fondamenti del diciannovesimo secolo” fu alla base dell’antisemitismo nazista, ndr) e del francese Joseph Arthur de Gobineau (che scrisse il “Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane”, ndr), che considerarono l’ebreo una razza a parte, e soprattutto dalla diffusione agli inizi del 900 del libercolo “I protocolli dei savi di Sion”, che descriveva un presunto progetto ebraico di dominio del mondo, prodotto in realtà dalla polizia segreta dello zar per suscitare l’odio verso gli ebrei nell’impero russo, allo scopo di giustificare i pogrom, ossia gli attacchi alle comunità ebraiche in Russia a cavallo del XX secolo. In questo secolo l’antisemitismo ha poi raggiunto il culmine con la follia nazista, e la conseguente Shoah, che trovava però fondamento in questo background storico, del quale facevano parte anche gli attacchi agli ebrei di Lutero e di Torquemada, l’inquisitore spagnolo di fine 400».

Se queste sono le ragioni dello sviluppo storico dell’antisemitismo, va detto che tuttora persistono alcuni luoghi comuni sugli ebrei, che spiegano (senza giustificarla) una certa antipatia attribuita ad essi. Tra questi vi è la nota attitudine agli affari di alcuni esponenti dei discendenti di Abramo: «Se è vero che ci sono ebrei che hanno avuto successo nel mondo del business – ammette Ovadia – è altrettanto vero che non è l’unico popolo ad avere questa prerogativa. Per esempio, a fondare le prime banche sono stati i fiorentini nel XV secolo, ma non per questo sono oggi antipatici. L’accumulazione capitalistica è stata un fenomeno inizialmente anglosassone, e non certo ebreo, e non per questo inglesi e americani sono invisi. In realtà, dato che fin dall’antichità le comunità ebraiche erano sottoposte a divieti e obblighi, per cui poteva essere necessario spostarsi con una certa rapidità, fu naturale specializzarsi in quelle professioni che non legavano alla terra, come il commercio, la finanza, la sartoria. Da una lunga tradizione si svilupparono talenti, che hanno consentito, anche nella recente storia economica, storie di successo, in particolare in America, come, ad esempio, il caso dei jeans Levi-Strauss».

Un altro aspetto degli ebrei che a volte viene evidenziato in modo critico, è la chiusura della comunità giudaica nei confronti delle altre persone che vivono nella stessa città. «Questa circostanza – riconosce Ovadia – che oggi è molto meno marcata di un tempo, trova la sua spiegazione nel fatto che, fino all’emancipazione degli ebrei da parte di Napoleone, molte nazioni obbligavano i giudei a vivere in appositi quartieri, noti come ghetti. Certamente, soprattutto in Israele, vi è oggi una componente della società civile, ossia gli ebrei ortodossi, che sono a loro volta una galassia composita, che tuttora favorisce i matrimoni tra persone della stessa comunità, ma nel resto del mondo questo è ormai del tutto venuto meno, e i matrimoni misti sono all’ordine del giorno».

Le proteste di queste ultime settimane in Israele, sorte a seguito della tentata riforma della Suprema Corte di Giustizia, hanno evidenziato come il popolo ebraico, dopo decenni di relativa calma, è tornato a mostrare un impegno civico finora inedito: «Le recenti manifestazioni – conclude Ovadia – sono un segnale di indubbia vitalità della società civile ebraica, e spero che in un domani non troppo lontano, una nuova generazione di cittadini israeliani proponga l’unica soluzione possibile per porre fine al conflitto con i palestinesi, ossia uno Stato binazionale con 2 popoli».

«Impossibile accusare Gesù di sedizione». Parola di avvocato. Il penalista Alessandro Traversi: «Considerata la gravità delle imputazioni sarebbe stato forse opportuno cercare di rendere il giudice “docile”, “attento” e “benevolo”, mediante la captatio benevolentiae». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 7 aprile 2023

Il Dubbio ha dedicato un ampio approfondimento al processo a Gesù nell’edizione del 3 aprile. Un fatto storico che nei secoli ha interessato e appassionato studiosi di ogni tipo, giuristi compresi.

«Nessun altro procedimento criminale della storia – scrive Massimo Miglietta, ordinario di Istituzioni di diritto romano nell'Università degli Studi di Trento -, si pensi, ad esempio, al cosiddetto processo a Socrate, o quello intentato contro i Templari o a Galileo, soltanto per far cenno ad alcuni, è stato oggetto, sin dal momento della sua conclusione, a continui fenomeni di interpretazione e reinterpretazione. Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che esso costituisca un “processo costante”, ossia contro l'imputato Gesù, contro il magistrato romano Pilato, contro le autorità ebraiche e Caifa, in particolare. Persino contro l'intero popolo ebraico, laddove si voglia rievocare, prima ancora di esprimere una valutazione sulla sua attendibilità storica, l'emblematica affermazione dei Giudei racchiusa in Matteo: “Il suo sangue ricada su di noi e suoi nostri figli!”».

Ma come sarebbe stato difeso il Nazareno, se avesse avuto modo di beneficiare dell’assistenza di un avvocato? Lo abbiamo chiesto al penalista Alessandro Traversi del Foro di Firenze, autore, tra gli altri di un interessantissimo libro intitolato “Tecniche argomentative e oratorie” (Giuffrè Francis Lefebvre). «Considerata la gravità delle imputazioni – dice al Dubbio l’avvocato Traversi -, sarebbe stato forse opportuno cercare, innanzitutto, di rendere il giudice “docile”, “attento” e “benevolo”. In quale modo? Seguendo gli insegnamenti dei Maestri dell’arte retorica, mediante la captatio benevolentiae. Come nella celebre arringa pro Cluentio nella quale Cicerone si rivolgeva al giudice con questa bella apostrofe: “Un giudice assennato deve pensare di aver ricevuto dal popolo romano una facoltà di agire commisurata al compito che gli è stato assegnato e ricordare non solo che gli è stato conferito un potere, ma che è anche stata riposta in lui della fiducia. Ed è questa la vera prerogativa di un uomo grande e saggio, allorché è chiamato ad esprimere un giudizio, quella di avere come consiglieri la legge, la scrupolosità, l’equità, la buona fede e allontanare invece l’ostilità e ogni altra passione”».

A questo punto Traversi si addentra nella fase della costruzione della strategia difensiva in favore del suo illustre assistito. «Per quanto riguarda la confutazione delle accuse – evidenzia -, segnatamente quella di sedizione, avrei preso spunto da quel che Gesù, a detta di tutti, soleva ripetere. Ad esempio: “Beati i miti”, nella parabola delle beatitudini. E così pure: “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra” e “a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica”. Parafrasando Shakespeare, la sedizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa.

Per ultimo, in conformità all’ordine nestoriano raccomandato dagli antichi retori, l’argomento più forte: quando “uomini subdoli”, verosimilmente mandati dai sacerdoti del Sinedrio per coglierlo in fallo, chiesero a Gesù se fosse lecito pagare il tributo a Cesare.

Come rispose Gesù? “Mostratemi la moneta del tributo”. Gli presentarono un denaro ed egli chiese loro: “Di chi è l’immagine sulla moneta?”. Risposero: “Di Cesare”. E allora: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Fu questo un atto di sedizione?». Su questo punto l’avvocato Traversi non ha dubbi.

«Siamo quindi di fronte ad un “tipo d’autore” – afferma - addirittura antitetico a quello del ribelle o sobillatore politico. Al più, si tratta di un predicatore visionario o, come lo descrive Bulgakov, in una splendida pagina del suo “Il maestro e Margherita”, un semplice “vagabondo”, che va sostenendo che tutti gli uomini sono buoni. “Anche il centurione Marco? Anche Giuda?”, chiede Ponzio Pilato nella rielaborazione letteraria del racconto evangelico di questo celebre romanzo: “Sì, sono uomini buoni”».

Interpellato dal Procuratore romano della Giudea, Gesù diede dimostrazione del suo modo di fare mai incline alla sfida, ma improntato alla ragionevolezza. «Né d’altra parte – conclude Alessandro Traversi - può essere ritenuto un elemento a sfavore il fatto che alla domanda Quid est veritas?, postagli da Ponzio Pilato, Gesù sia rimasto in silenzio, poiché sarebbe stato invece segno di arroganza fornire una risposta ad una questione che ancor oggi si ripropone irrisolta nella sua assolutezza.

Nell’arringa difensiva, sarebbe stato forse opportuno utilizzare un argomento ad metum di questo tipo: confidiamo nella assoluzione, ma, se così non fosse, non c’è dubbio che un’eventuale sentenza di condanna sarà ricordata come caso esemplare di errore giudiziario, in secula seculorum».

Sappiamo come è andata a finire. L’uccisione e la morte sulla croce - da innocente - del figlio di Dio, cancellate poco dopo dalla Resurrezione, hanno cambiato la storia dell’umanità.

I Sacrifici.

Pasqua: il sacrificio dell’agnello di Dio “che toglie i peccati del mondo”. Raffaele De Luca su L'Indipendente l’8 aprile 2023.

Con l’arrivo della Pasqua molti italiani, come da tradizione, passeranno il pranzo in famiglia. Secondo le stime di Coldiretti su oltre 4 tavole su 10 non mancherà la carne di agnello, un dato che si prevede in aumento del 13% rispetto allo scorso anno. Proprio in occasione della Pasqua viene infatti acquistata la “gran parte dei circa 1,5 chili di carne di agnello consumati a testa dagli italiani in tutto l’anno“. Una tradizione ebraica fatta propria anche dal cattolicesimo, il cui sacrificio – secondo il Nuovo Testamento – “leva i peccati dal mondo”. L’agnello, secondo i testi sacri, è chiamato al sacrificio per la redenzione dell’umanità. E quello che passa un agnello, nella moderna filiera industriale dell’alimentazione, è effettivamente un sacrificio estremo e poco conosciuto: fatto di trasporti inadeguati, macellazioni inumane e maltrattamenti costanti.

Innanzitutto, però, bisogna fornire alcune informazioni di base. Come riportato dall’associazione Essere Animali nell’ambito di un’inchiesta, la produzione di carne di agnello è strettamente collegata a quella del latte di pecora, per il cui ottenimento le pecore devono aver partorito gli agnelli: se sono femmine, saranno allevate per il latte, mentre se sono maschi a soli 30 giorni dalla nascita verranno uccisi per diventare carne. Ma come vengono allevati gli agnelli? Stando a quanto riportato in un vecchio articolo dell’organizzazione Compassion in World Farming (CIWF) Italia, “come un po’ ovunque” anche nel nostro Paese gli agnelli “hanno accesso al pascolo”, con la loro breve vita che viene trascorsa in “allevamenti non intensivi”. Un modus operandi che ad oggi sembra sostanzialmente confermato: in Italia gli allevamenti di pecore allo stato brado sono quelli prevalenti, mentre nelle immagini della sopracitata inchiesta condotta da Essere Animali in Sardegna – la regione italiana con il maggior numero di ovini allevati – si vedono gli animali pascolare. Niente di cui preoccuparsi dunque? Assolutamente no. La notizia emersa dall’inchiesta, infatti, non è certo quella del pascolo riservato agli agnelli, bensì quella delle violenze sugli stessi.

Grazie all’ispezione di venti allevamenti, dall’inchiesta è emerso “un sistema diffuso di illegalità e maltrattamenti”, con gli investigatori che hanno filmato confessioni di allevatori che “ammettono di uccidere gli agnelli nei periodi di bassa richiesta di carne, perché antieconomico allevarli”, nonché “pratiche vietate perché causa di sofferenza per gli animali”. L’illegale pesatura per sollevamento, ad esempio, “viene effettuata prima del trasporto al macello”, mentre “gravi irregolarità sono state riscontrate anche in un grande macello nonostante la presenza dei veterinari”. Gli animali “assistono alla morte dei loro simili”, con alcuni che “subiscono due volte la scarica elettrica di stordimento, perché gli operatori attendono troppo a iugularli e nel frattempo si svegliano”, ed altri che “sono uccisi ancora coscienti”.

Prima di morire, però, a volte gli agnelli devono sopportare “viaggi estenuanti che durano anche 30 ore”: a riportarlo è sempre Essere Animali, precisando come 1 agnello su 3 di quelli macellati in Italia provenga dall’estero. Un dato preoccupante, soprattutto poiché secondo un’inchiesta diffusa recentemente da Animal Equality il trasporto risulta caratterizzato da “violazioni delle norme sul benessere animale e condizioni di viaggio pessime”, con gli animali schiacciati uno sull’altro. A soffrire prima di morire, dunque, oltre agli agnelli italiani sono anche, e forse in maniera maggiore, quelli stranieri. Ad essere sicuro, però, è il destino comune riservato a tutti loro: la morte. Ogni anno in Italia vengono macellati oltre 2 milioni di agnelli, di cui 375mila solo a ridosso delle festività pasquali: certo, dal 2010 al 2016 le loro macellazioni sono diminuite quasi del 50%, ma da allora risultano sostanzialmente stabili.

Sarà forse anche per questo che la tradizione in passato è stata criticata anche dal mondo cristiano. Famiglia Cristiana, ad esempio, già nel 2017 si era schierata contro di essa, con l’ex direttore don Antonio Rizzolo che l’aveva definita come «un’abitudine alimentare superabile», aggiungendo che non rispettandola sarebbero state evitate «inutili stragi e maltrattamenti sia nell’allevamento che nel trasporto». Al momento, tuttavia, non si registrano cambiamenti significativi, e tantissimi agnelli devono ancora fare i conti con una sanguinosa tradizione.

[di Raffaele De Luca]

Ammassati, affamati, feriti: i viaggi dell’orrore degli agnelli che arrivano in Italia per Pasqua. Francesco De Augustinis CorriereTv su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2023

L’inchiesta sul campo di Essere Animali evidenzia le inaccettabili condizioni di trasporto di centinaia di migliaia di capi importati vivi dai Paesi dell’Est europeo e destinati ai macelli di casa nostra. I controlli della polizia stradale. Le proposte di modifica delle regole da parte della Ue e le resistenze di alcuni Stati (tra cui l’Italia)

Teste incastrate tra sbarre di ferro, sovraffollamento, nessun accesso all’acqua, animali in viaggio senza essere stati neanche svezzati. Sono queste le condizioni in cui viaggiavano migliaia di agnelli stipati in alcuni camion provenienti dall’Est Europa, denunciati negli ultimi giorni alle autorità dall’associazione animalista Essere Animali.

«Sono messi male, ce ne sono diversi incastrati! Se guarda nello schermo della telecamera, si vede che è incastrato», sono le parole di un attivista che mostra a un agente della polizia stradale la situazione dentro un camion sovraccarico di agnelli, fermato in autostrada per le condizioni irregolari in cui trasportava gli animali. «I nostri investigatori sono riusciti a fare fermare un camion in arrivo dalla Romania all’altezza di Altedo Bolognese — racconta Simone Montuschi, presidente dell’associazione —. Vi erano 200 agnelli in più del numero che il mezzo poteva trasportare, gli animali nel mezzo si calpestavano praticamente tra di loro. Abbiamo allertato la polizia che a sua volta ha allertato l’Asl locale, e il veterinario una volta sopraggiunto ha deciso di sopprimere tre agnelli per porre fine alle loro sofferenze. È una cosa gravissima».

Nel corso di pochi giorni di monitoraggio, Essere Animali ha segnalato alle forze dell’ordine sette camion di più piani che arrivavano da Romania, Ungheria e Slovacchia, di cui sei sono stati sanzionati. L’associazione svolge ogni anno un’attività di monitoraggio dei carichi di animali in arrivo dall’Est Europa proprio nei giorni prima di Pasqua, quando i viaggi si moltiplicano per l’impennata della domanda e del consumo di carne di agnello. «Nel 2022, su un totale di 2.199.832 agnelli macellati nel nostro Paese (fonte Istat), ben 653.303 animali (fonte Eurostat Comext) provenivano dall’estero, principalmente da Ungheria e Romania», riferisce l’associazione. «Si tratta di animali spesso ancora non svezzati, strappati alle loro madri a pochissime settimane di vita e costretti a sopportare viaggi della durata anche di 30 ore all’interno di camion che possono essere inadeguati e sovraffollati. Nell’Unione europea, l’Italia è il primo importatore di agnelli vivi, davanti a Francia e Grecia».

Secondo Montuschi, «nel 2019, 1,6 miliardi di animali hanno viaggiato, o tra Paesi dell’Unione Europea o verso Paesi Terzi. Parliamo solo di animali che viaggiano per scopi di allevamento, riproduzione, ingrasso. Animali allevati a scopo alimentare».

Trasporti fuori controllo Il dibattito sul trasporto degli animali vivi tra Paesi europei e verso Paesi extra UE tiene banco da alcuni mesi a Bruxelles, dove la Commissione Europea è alle prese con la stesura di una proposta di revisione della normativa UE sul benessere animale, nell’ambito della strategia «Farm to Fork». «Il trasporto e l’abbattimento degli animali sono due aspetti estremamente importanti della normativa sul benessere animale, su cui sono determinata a sollecitare sostanziali modifiche», ha detto nei giorni scorsi la Commissaria europea per la salute e la sicurezza alimentare Stella Kyriakides, in occasione di una conferenza sul benessere animale a Bruxelles. «Diverse iniziative dei cittadini europei sulla protezione degli animali hanno dimostrato l’interesse dell’opinione pubblica sul tema del benessere animale — ha aggiunto —, vorrei quindi assicurarvi che stiamo ascoltando molto attentamente questi appelli in vista della revisione della normativa».

Il lavoro della Commissione Europea è basato su alcuni pareri scientifici, tra cui quelli dell’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa), che ha pubblicato delle raccomandazioni rispetto alle principali problematiche legate al benessere animale nel trasporto di animali vivi. «Ogni anno vengono trasportati circa 4 milioni di bovini tra stati membri Europei — afferma Denise Candiani, esperta scientifica del team benessere animale di Efsa —. Numeri simili si osservano per i suini, mentre sono numeri minori per cavalli e piccoli ruminanti e numeri enormi quando parliamo di polli, si parla di miliardi di polli». A questi numeri, precisa l’esperta, vanno aggiunti i dati degli animali vivi trasportati verso Paesi extra UE, su cui i dati sono meno puntuali. «Ci sono tre o quattro aree comuni a tutte le specie animali, che chiamiamo raccomandazioni chiave — afferma Candiani —. La verifica dell’idoneità al trasporto è un passaggio chiave, perché spesso vengono trasportati animali che non sono in condizione. Quindi bisogna evitare di trasportare animali che siano feriti, che presentino lesioni, presentino zoppie o animali nel terzo periodo di gestazione».

Un’altra raccomandazione riguarda le temperature massime a cui far viaggiare gli animali: «Soprattutto in Sud Europa nei mesi estivi gli animali sono sottoposti a quello che si chiama lo stress termico, in questo caso stress da caldo — spiega ancora l’esperta —. Il caso più eclatante è quello del caldo dei mesi estivi, parliamo di viaggi in Spagna, in Italia, le temperature salgono molto in certi mesi». C’è poi il tema della densità e la raccomandazione di garantire spazi minimi per ogni capo: «Gli animali spesso viaggiano con molto poco spazio disponibile, sono quasi ammassati». Infine c’è il tema della durata del viaggio: «Gli animali sono tenuti a digiuno prima di un viaggio anche per 12 ore prima di essere trasportati, e questo viene fatto per questioni igieniche durante il viaggio. Però immaginiamo un animale digiuno da 12 ore, parte per un viaggio di 4 ore e fa già 16 ore di digiuno, l’animale inizia a aver fame. Se questo viaggio diventa di 8, 10, 12, 16 o 20 ore, la fame diventa sempre più severa».

La posizione dell’Italia

Una proposta di regolamento da parte della commissione è attesa per l’autunno, e darà poi vita a un dibattito tra la stessa Commissione e il Parlamento Europeo che potrebbe durare ancora un paio d’anni. «E proprio lì che i decisori italiani dovranno dare il proprio peso», afferma Montuschi, che parla di «un’occasione un po’ unica, perché questo processo di revisione non viene fatto tutti gli anni. Per questo dobbiamo cercare di ottenere il più possibile». Per quanto riguarda il governo italiano sul tema trasporti animali, nelle scorse settimane il ministero della Salute ha diramato una nota in cui ha chiesto di «intensificare i controlli su strada e a destino sulle partite di agnelli diretti ai macelli nel nostro Paese» in vista delle feste di Pasqua. Analogamente, la scorsa estate il governo ha diramato una nota per vietare i trasporti di animali con temperature oltre i 30 gradi - sebbene gli animalisti abbiano denunciato frequenti violazioni. Di contro l’Italia finora ha tenuto una posizione conservativa in Europa. In particolare in una riunione del Consiglio Agricoltura e Pesca lo scorso 30 gennaio il ministro Italiano Francesco Lollobrigida ha sostenuto una mozione presentata dal Portogallo e altre otto delegazioni, che - pur ammettendo la necessità di nuove norme - chiedeva regole meno stringenti per il trasporto animale, definito «un’attività fondamentale per i sistemi di produzione animali in Europa e nel mondo».

I Film.

Dalla Passione al Re dei Re: tutti i film da vedere in tv a Pasqua 2023. Dal Venerdì Santo al Lunedì dell'Angelo: ecco tutti i film da vedere in tv per celebrare il weekend della Pasqua. Erika Pomella il 7 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 I film di Pasqua da vedere in tv

 Killing Jesus

 Jesus Christ Superstar

 La passione di Cristo

 Il re dei re

 La Bibbia: Barabba

Come ogni anno i palinsesti televisivi si sono organizzati per trasmettere film a tema da vedere in tv durante il weekend di Pasqua. Si tratta di pellicole che, per la maggior parte, tendono a raccontare soprattutto il miracolo della resurrezione o, comunque, il periodo in cui Gesù camminò per le strade di Gerusalemme con il suo messaggio di amore e perdono. Le pellicole a tema andranno avanti per tutto il weekend, a partire già dalla sera del Venerdì Santo.

I film di Pasqua da vedere in tv

Killing Jesus

Killing Jesus è un film della tv pensato e realizzato da National Geographic Channel che va in onda venerdì 7 aprile alle 22.30 su Tv2000. Tratto dall'omonimo romanzo di Bill O'Reilly e Martin Dugard il film prende il via quando, sotto il regno di Erode, Gesù comincia a diffondere il suo Verbo. Il film, in generale, punta a raccontare la figura chiave della Pasqua attraverso le lotte che ha dovuto affrontare e gli ostacoli, sia divini che sociali, che sono stati messi sulla strada del Messia e che lo hanno condotto poi a morire in croce.

Jesus Christ Superstar

Sempre venerdì viene trasmesso - come ogni anno - il musical televisivo diretto da Norman Jewison, Jesus Christ Superstar. Uscito al cinema nell'ormai lontano 1973 questo musical porta sullo schermo l'ultima settimana della vita di Cristo (Ted Neely), prima della morte per crocefissione. Si tratta di un film, dunque, che racconta un viaggio personale e comunitario, che serve a svelare anche il peso che Cristo ha avuto nelle persone che hanno deciso di seguirlo nel suo percorso di fede e cristianesimo.

La passione di Cristo

Immancabile, nel palinsesto televisivo dedicato ai film di Pasqua, La Passione di Cristo, la pellicola diretta da Mel Gibson che va in onda sabato 10 aprile alle 20.25 su Nove. La pellicola, girata in una lingua che ricalca l'aramaico antico per dare maggior verosimiglianza al racconto, si concentra sulle ultime dodici ore di Cristo (interpretato magistralmente da Jim Caviezel) che lo hanno portato poi a morire sulla croce e a cambiare così la vita a migliaia di fedeli. Nel cast del film c'è anche Monica Bellucci, che interpreta il personaggio di Maria Maddalena, mentre Rosalinda Celentano interpreta il diavolo.

Il re dei re

Sabato sera, alle 21.30 su Rete 4 va invece in onda un classico tra i kolossal cinematografici. Uscito nel 1961 Il re dei re è un cult della settima arte, firmato da Nicholas Ray. Si tratta di una pellicola che, al pari di film come Ben Hur, riuscì a far coesistere il tema religioso con lo spettacolo hollywoodiano, pur peccando di una ricostruzione storica non sempre precisa. Il film si apre con un preambolo in cui viene narrata la dominazione romana sul trono di Giudea, passando per l'editto di Erode che costrinse due sposi a cercare la fuga per non veder perire il figlio di Dio. Dopo il prologo, con alcuni salti temporali, il film comincia a raccontare la vita di Gesù (Jeffrey Hunter) fino alla crocefissione e alla successiva resurrezione.

La Bibbia: Barabba

Nata come miniserie per la tv, La Bibbia viene trasmessa nella sua forma completa la sera di Pasqua, alle 22.50 sul canale TV2000. La vicenda si apre con il criminale Barabba (Billy Zane) che vive una vita fatta di furti e violenze. Dopo aver portato il caos alle nozze di Cana, l'uomo si reca a festeggiare in un bordello dove conosce Ester (Cristiana Capotondi), che gli farà conoscere gli insegnamenti di Gesù Cristo (interpretato da Marco Foschi). A quel punto la vita di Barabba non sarà mai più la stessa.

Lunedì dell'Angelo.

Pasquetta, perché si chiama Lunedì dell'Angelo? La storia della Festa. Per tutti gli italiani è un giorno di festa ma non da sempre: ecco i significati del Lunedì dell'Angelo nel nostro Paese e le ricorrenze a esso associate. Alessandro Ferro il 9 Aprile 2023 su Il Giornale.

Ancora pochi giorni e celebreremo la Pasqua 2023 che quest'anno cadrà domenica 9 aprile. Il giorno successivo è da sempre segnato in rosso sul calendario ed è Pasquetta, anche conosciuta con il nome di Lunedì dell'Angelo. Si chiama in questo modo non a caso: nella tradizione cattolica, in questo giorno si celebra l’incontro tra l’Angelo e le donne che si sono recate al sepolcro dove Gesù era stato seppellito dopo essere stato crocifisso.

Cosa dice il Vangelo

Conosciuto anche con il nome di "Ottava di Pasqua" e secondo giorno del tempo pasquale, il Vangelo di Marco racconta dell'arrivo di Maria di Magdala, Salomé e Maria (madre di Giacomo e Giuseppe) nella tomba dove si trovava Gesù per cospargere il suo corpo con alcuni olii aromatici. All'improvviso, preoccupandosi, notarono che l'accesso al sepolcro invece di essere chiuso era aperto perché un grande masso era stato spostato: si ritrovarono smarrite mentre cercavano di comprendere chi potesse aver compiuto quel gesto quando all'improvviso un angelo apparve rassicurandole: "Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto", aggiungendo di andare dagli Apostoli per annunciare la lieta notizia.

Quando è stato introdotta

Non sempre il giorno dopo Pasqua è stato festivo per gli italiani: è soltanto dal 1947 che in Italia si celebra e festeggia la Pasquetta, quindi dal dopoguerra in poi. Il vezzeggiato "Pasquetta" deriva dal fatto che questa giornata allunga la precedente domenica di Pasqua ricordando i fatti avvenuti nel Vangelo. Si può forse considerare il primo giorno festivo (non domenica) dell'anno in cui ci si organizza per le prime gite fuoriporta dal momento che il Lunedì dell'Angelo cade sempre tra marzo e aprile quando le giornate si allungano ed è più facile stare all'aria aperta (meteo permettendo). È importante sottolineare che la dicitura "Lunedì dell'Angelo", non fa parte del calendario liturgico della Chiesa cattolica che lo chiama "Ottava di Pasqua".

Le celebrazioni in Italia

Sono numerosi i Paesi nel mondo che come noi festeggiano anche il lunedì dopo Pasqua. In Italia, ad esempio, sono ricorrenti soprattutto nei piccoli centri commemorazioni religiose come la festa della Madonna dei Miracoli di Nocera Inferiore o il pellegrinaggio verso un santuario che viene organizzato a Sarno. A Busto Arsizio, invece, è il giorno in cui vengono benedetti i trattori di chi lavora nell'agricoltura come buon auspicio per i raccolti e mesi a venire. Da nord a sud del nostro Paese, infine, sono numerosi gli eventi reiligiosi che fanno rivivere la resurrezione di Cristo.


 

Estratto dell’articolo di Giuseppe Colombo per “la Repubblica” il 4 marzo 2023.

Bussare al portone della Chiesa. E riscuotere. Un incasso che per l’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni, può valere fino a 3,5 miliardi. È un ordine puntuale quello che Bruxelles ha impartito al governo italiano: deve recuperare l’Ici, la vecchia imposta comunale sugli immobili, che la Chiesa non ha versato, tra il 2006 e il 2011, per le attività «di natura economica» all’interno delle proprie strutture.

Nulla da eccepire per i luoghi di culto e per gli oratori; il problema nasce per quella parte del patrimonio immobiliare adibita ad affittacamere, scuole e cliniche. In questo caso, spiega la Commissione europea, gli aiuti di Stato concessi sono da considerare «illegittimi». Per questo, ora, bisogna passare all’incasso del pregresso.

 […] A Roma l’indicazione è stata recepita con molti dubbi. Palazzo Chigi aveva messo in conto l’ordine di Bruxelles. E quindi anche la risposta, che a caldo è la stessa di quella approntata dopo il richiamo dell’Ue sulla proroga delle concessioni balneari: non mettersi di traverso, ma non per questo agire con urgenza.

Anzi, si ragiona in ambienti di governo, l’obiettivo è avviare una trattativa con la Commissione europea su due punti, che sono di fatto la sostanza del richiamo: come calcolare le cifre da riscuotere e con quale strumento procedere. Quesiti che puntano a prendere tempo perché la materia è delicata. Non solo nei rapporti con la Chiesa, ma anche con i Comuni. […] In ballo, secondo l’Anci, ci sono fino a 3,5 miliardi di mancati introiti, ma l’ammontare va depurato dalle somme che i Comuni sono riusciti a recuperare nelle aule dei tribunali. I contenziosi che hanno generato i recuperi hanno riguardato, tra gli altri, immobili religiosi ubicati a Roma, Milano e Genova. Sono però eccezioni. […]  Ma è il governo che deve decidere se e quando bussare al portone della Chiesa.

Mancato gettito. Perché la Commissione europea ordina all’Italia di recuperare l’Ici esentata (anche) al Vaticano. Europea su L’Inkiesta il 3 Marzo 2023.

La decisione segue la sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue che ha contestato all’esecutivo comunitario la rinuncia al recupero, anche solo parziale, da parte del nostro Paese degli «aiuti di Stato illegali» alle attività non commerciali tra il 2006 e il 2011

La Commissione europea riconosce le «difficoltà per le autorità italiane nell’individuare i beneficiari», ma non le ritiene sufficienti a motivare la rinuncia a recuperare «gli aiuti di Stato illegali concessi ad alcuni enti non commerciali sotto forma di esenzione dall’imposta sugli immobili».

Il tributo in questione è l’Imposta comunale sugli immobili (Ici), che tra il 2006 e il 2011 non hanno dovuto versare gli enti non commerciali che «esercitavano determinate attività sociali di natura economica». Tale esenzione riguardava gli «enti ecclesiastici» in senso lato, come la Chiesa Cattolica, che è stata tra i maggiori beneficiari, ma anche le altre confessioni e, in generale, gli enti no profit o con scopi filantropici.

La condizione (prevista dal decreto legge del 1992 che ha istituito l’imposta, sostituita nel 2012 dall’Imu) era che la destinazione dei locali fosse «esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive».

Il terzo governo Berlusconi, nel 2005, aveva fissato come discrimine solo la natura non «esclusivamente commerciale» delle attività. Anche se orientate al profitto, quindi, era il loro legame con finalità di religione o di culto a dar diritto all’esenzione. Mario Monti avrebbe sanato l’ambivalenza, escludendo appunto solo gli immobili dove viene svolta un’attività con modalità «non commerciale».

La Commissione ora ordina all’Italia di recuperare gli «aiuti illegali», di cui nel caso più emblematico della Chiesa non esiste una stima precisa. La decisione arriva dopo la sentenza del 2018 della Corte di Giustizia dell’Ue che annullava parzialmente un altro provvedimento dell’esecutivo comunitario, risalente al 2012.

Nel 2012, Bruxelles dichiarava l’esenzione fiscale incompatibile con le norme europee sugli aiuti di Stato, ma senza prescrivere al nostro Paese di rintracciare gli arretrati «in quanto le banche dati, fiscali e catastali non consentivano di individuare i beneficiari». Nel 2018, come detto, la Corte ha poi parzialmente annullato la decisione della Commissione, chiedendole di verificare invece se esistessero metodi alternativi per recuperare le somme, «anche se solo parzialmente».

Nella decisione di stamattina la Commissione riconosce «l’esistenza di difficoltà per le autorità italiane nell’individuare i beneficiari dell’aiuto illegale, ma conclude che tali difficoltà non sono sufficienti per escludere la possibilità di ottenere almeno un recupero parziale dell’aiuto». Quanto alle tecniche per farlo, l’esecutivo comunitario suggerisce di «utilizzare i dati delle dichiarazioni presentate nell’ambito della nuova imposta sugli immobili (l’Imu, ndr) e integrarli con altri metodi, comprese le autodichiarazioni».

C’è un’eccezione: non andranno recuperati gli aiuti concessi per le attività non economiche e quelli «de minimis», cioè quelli di modesto importo, la cui cifra massima è pari a duecentomila euro «per ciascuna impresa, nell’arco di un periodo di tre anni». Come riporta Pagella Politica, il passaggio dall’Ici all’Imu, tra il 2011 e il 2012, è valso un aumento del gettito complessivo per lo Stato da 9,2 miliardi di euro a 23,7 miliardi di euro.

Come tutti i provvedimenti di Bruxelles, anche questo è impugnabile. L’Italia, volendo, potrebbe fare appello alla Corte di Giustizia dell’Ue, ma – come spiegano a Linkiesta fonti della Commissione – la decisione di oggi arriva proprio sulla scia di una sentenza dei giudici del Lussemburgo, gli stessi ai quali Roma dovrebbe rifare nuovamente ricorso.

Abusi immobiliari.

Abusi Finanziari.

Abusi culturali.

Abusi sessuali.

Abusi immobiliari.

Il Vaticano fa sempre più soldi con il mattone: + 31 milioni di utili. Stefano Baudino su L'Indipendente venerdì 8 settembre 2023.

Non è soltanto uno stereotipo: il valore delle ricchezze controllate dalla Chiesa cattolica continua ad essere, anche di questi tempi, estremamente rilevante. Ad attestarlo è l’ultimo bilancio dell’Apsa, il dicastero vaticano che gestisce il complesso dei beni della Santa Sede. Che, nel 2022, sul versante del patrimonio immobiliare, ha chiuso con una rendita di 52,2 milioni (+31,4 milioni), vedendo invece una perdita di 6,7 milioni su quello del patrimonio mobiliare. In Italia, il Vaticano ha gestito lo scorso anno ben 4.072 unità immobiliari, versando direttamente o indirettamente nelle casse pubbliche appena 6,05 milioni di Imu e 2,91 milioni di Ires: imposte dalle quali continuano a rimanere esentati non solo i luoghi di culto (chiese, abbazie, ecc.), ma anche tutti quegli immobili che ruotano attorno alle attività religiose e ritenuti “no profit”.

Non è un mistero che, nel patrimonio della Santa Sede – che, al netto delle passività, ammonta in tutto a 2,8 miliardi -, si contino sontuosi palazzi nel centro della Capitale, nonché terreni e palazzi nell’area delle zone residenziali. Dal computo, vanno tolti gli immobili strumentali inalienabili come le basiliche e le sedi dei dicasteri, che non sono valutabili. Tra le oltre 4mila unità immobiliari gestite dal dicastero in territorio italiano (per circa un milione e mezzo di metri quadrati), 2.734 sono sue, mentre 1.338 appartengono ad altri enti. Complessivamente, 1.389 unità risultano ad uso residenziale, 375 ad uso commerciale, 253 sono a redditività ridotta e 717 sono pertinenze. All’estero, il Vaticano gestisce invece più di 1.100 unità immobiliari. Dai dati emerge che soltanto il 19% di questo patrimonio complessivo è locato a condizioni di libero mercato: il 12% lo è a canone agevolato, il 69% a canone nullo.

Passando alla voce di bilancio riferita al patrimonio mobiliare, si registra invece una  flessione, seppur di minore entità. Gli investimenti finanziari gestiti dall’Apsa ammontano, al 31 dicembre 2022, a circa 1,777 milioni di euro e sono comprensivi sia della gestione della proprietà che della gestione di terzi (enti della Santa Sede o ad essa collegati). Se alla fine del 2021 essi avevano portato a un risultato positivo (+19,85), al termine dello scorso anno si è assistito a un disavanzo di 6,7 milioni di euro, con una differenza di -26,55 milioni rispetto al 2021. A crescere sono stati anche i costi di gestione, da 10 a 13 milioni di euro. Lo scorso anno, Apsa ha poi contribuito con 32,27 milioni di euro alla copertura del fabbisogno della Curia, in leggero calo rispetto al 2021 (38,1 milioni).

L’arcivescovo presidente dell’Apsa, Nunzio Galantino, nella lettera che accompagna il bilancio parla di numeri che raccontano di «un’amministrazione che, come tutti, ha dovuto e continua a fare i conti con gli effetti della crisi pandemica e dall’incertezza derivante dai conflitti in atto», le cui «conseguenze negative finanziarie ed economiche» hanno fisiologicamente influenzato l’esercizio 2022. Inoltre, come già «si intuiva dai primi mesi, si sono verificati fenomeni di spinta inflattiva e di notevole rialzo dei costi per l’energia che hanno avuto ripercussioni negative sui risultati gestionali delle varie aree di attività dell’Apsa». In merito agli ottimi risultati legati alla gestione del patrimonio immobiliare vengono spese meno parole, ma l’arcivescovo tiene a sottolineare come l’Ufficio investimenti dell’Apsa operi non per perseguire finalità speculative, bensì a «contenuto tasso e a comprovato impatto sociale», in vista della conservazione e del consolidamento del patrimonio. Che in realtà, come nitidamente fotografato dai dati, continua a crescere e non di poco. [di Stefano Baudino]

Manuela Tulli  per l’ANSA domenica 20 agosto 2023.

Oltre 4mila immobili, la maggior parte dei quali sono ubicati a Roma. Ma alcune unità sono anche in Francia, Svizzera e Regno Unito. La metà sono ad uso residenziale ma ci sono anche locali, per lo più affittati, ad uso commerciale, garage e biblioteche, conventi e catacombe, stalle e cabine elettriche. E' la fotografia degli immobili del Vaticano così come emerge dall'ultimo bilancio dell'Apsa, l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Un bilancio che nel 2022 ha visto complessivamente un peggioramento del risultato operativo, a causa delle incertezze causate dal conflitto in Ucraina come l'aumento dei prezzi dell'energia.

La flessione però ha interessato il comparto mobiliare mentre quello degli immobili ha tenuto e in parte compensato il calo. Questo grazie anche ai primi frutti della nuova politica nel settore. Si cominciano ad archiviare i tempi nei quali la 'casa in Vaticano' era sinonimo di privilegio assoluto; l'Apsa oggi, grazie alle novità volute da Papa Francesco, ha cominciato per esempio a porre un freno sugli affitti gratuiti, gli spazi degli uffici esagerati, gli immobili lasciati sfitti perché privi di manutenzione. Proprio sul fronte dei locali sfitti è stata fatta una massiccia operazione, divisa in maxilotti, di ristrutturazione per metterli sul mercato.

Come anche sono stati destinati alla locazione gli spazi liberati grazie al ridimensionamento dei mega uffici, dove in alcuni casi sono state ridimensionate finanche le scrivanie. Ma ecco la fotografia aggiornata degli immobili vaticani. Il numero di unità è pari a 4.072 con una superficie commerciale di circa 1,47 milioni di mq. 

Per quanto riguarda la distribuzione territoriale in Italia, il 92% delle superfici degli immobili è localizzato nella Provincia di Roma, il 2% è collocato nelle province di Viterbo, Rieti e Frosinone, il restante 2% a Padova (Basilica del Santo), il 2% ad Assisi e il restante 2% distribuito in altre 25 provincie Italiane. Nel dettaglio della città di Roma, la maggiore concentrazione riguarda le zone immediatamente adiacenti lo Stato Città del Vaticano. Il 19% degli immobili è affittato a libero mercato, il 12% a canone agevolato, il 69% a canone nullo. L'ultimo bilancio rileva tuttavia un aumento dei ricavi immobiliari, a partire dai canoni di affitto, "grazie ad un sostanziale ritorno alla normalità dopo la fine degli effetti della pandemia".

Fino al 2021 l'Apsa per sostenere le attività commerciali che erano in affitto in locali della Santa Sede ha accordato uno sconto sui canoni tra il 30% ed il 50% e ha concesso dilazioni nel pagamento di una ulteriore parte variabile tra il 20 ed il 30%. Infine il capitolo tasse: per l'anno d'imposta 2022 sono stati versati allo Stato italiano 6,05 milioni di euro per Imu e 2,91 milioni di euro per Ires; di cui, per la sola Apsa, 4,65 milioni per Imu e 2,01 milioni per Ires.

Al tal proposito il presidente dell'Apsa, mons. Nunzio Galantino, sottolinea: "La trasparenza di numeri, risultati conseguiti e procedure definite è uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per allontanare, almeno in chi è libero da preconcetti, infondati sospetti riguardanti l'entità del patrimonio della Chiesa, la sua amministrazione o l'adempimento dei doveri di giustizia, come il pagamento di imposte dovute e di altri tributi".

Estratto dell’articolo di Carlo Marroni per il “Sole 24 Ore” il 18 agosto 2023. 

Il Vaticano e il suo patrimonio immobiliare. Per i vertici della Santa Sede la percezione dell’opinione pubblica sull’immensità delle ricchezze papali è una leggenda ma i numeri, in effetti, sono abbastanza consistenti. Palazzi di pregio nel centro storico di Roma, palazzine nelle zone residenziali, terreni. Valori importanti, da cui vanno tolti gli immobili strumentali inalienabili – le sedi dei dicasteri in Piazza Pio XII o il complesso di San Calisto a Trastevere e naturalmente le basiliche - e quindi non valutabili.

L’Apsa – il dicastero del “patrimonio”, che al netto delle passività ammonta a 2,8 miliardi da bilancio - complessivamente gestisce in Italia 4.072 unità immobiliari per un totale di quasi un milione e mezzo di metri quadrati. Fra queste 2.734 sono sue, e 1.338 di altri enti. Tra le unità dell’Apsa 1.389 sono ad uso residenziale, 375 ad uso commerciale 717 sono pertinenze e 253 sono quelle a redditività ridotta. Anche all’estero i numeri sono tutt’altro che irrilevanti: oltre 1.100 unità immobiliari, mentre in Italia il 92% degli immobili è in provincia di Roma, e in particolare nelle aree adiacenti lo Stato.

Ma quanto frutta questo patrimonio? Nel 2022 ha reso bene, 52,2 milioni di euro, in crescita di 31,4 milioni, e un dato importante deve essere tenuto presente: solo il 19% è locato a condizioni di libero mercato, il 12% a canone agevolato e il 69% a canone nullo. Meno bene è andata per la gestione del patrimonio mobiliare: gli investimenti finanziari gestiti dall’Apsa ammontano al 31 dicembre 2022 a circa 1,777 milioni di euro, e comprendono sia la gestione della proprietà che la gestione di terzi (enti della Santa Sede o ad essa collegati, tra cui la Segreteria di Stato, a seguito della nota vicenda del palazzo di Sloane Avenue): questo comparto ha visto una perdita di 6,7 milioni di euro, rispetto a quello positivo realizzato nel 2021 di 19,85. […]

[…]

Chiese ad uso “fantasioso”, ecco il festival degli orrori. Pio Daniele Mizzau su culturaidentita.it il 29 Aprile 2023 il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.

Chiese ed edifici religiosi, i più neanche sconsacrati, chiusi o riconvertiti ad altre fantasiose destinazioni. Il programma Report a fine 2022 denunziava il creativo utilizzo di numerose chiese nel centro di Napoli, chiuse o abbandonate. Il portavoce della diocesi dichiarava ironico che “… In città ci sono talmente tante chiese che neanche il Padre Eterno lo sa!”. Invero solo nel centro storico ve ne sono 203: delle quali 79 attive, 75 chiuse, in restauro o abbandono e ben 49 ridotte ad uso privato-profano. Sulle proprietà: 113 edifici appartengono a Enti Ecclesiastici, 20 al Fec, 15 al Comune, 11 al Demanio, 17 a Enti privati ed infine 26 risultano di nessuno!

Da questa canea di numeri non poteva che fiorire l’estro del popolo partenopeo. Ma facciamo un passo indietro, perché il cardinale Sepe nel 2010 concesse in usufrutto gratuito alcune strutture ad enti ed associazioni senza fine di lucro ma con l’obbligo al rispetto di chiari parametri: flatus vocis, parole al vento! E dal balcone apparso sulla facciata della chiesa di Sant’Arcangelo parte il festival degli orrori: parcheggio privato con terrazza e solarium, palestra, falegnameria con deposito, sale congressi per meeting, mostre e festeggiamenti di compleanni, sono solo alcuni dei nuovi dissacranti utilizzi delle povere chiese affidate ai privati. Dalla chiesa di Sant’Agostino alla Zecca con dimensioni da cattedrale e chiusa da ben 40 anni, sono state magicamente cedute le sacre cripte, poi adibite ad officine; nella Chiesa di San Francesco alle Monache un artista cileno con fanciulla mezza nuda sulle gambe, dissertava su sesso, masturbazione, esoterismo e tarocchi (nel 2013 la chiesa ospitò la conferenza di Alejandro Jodorowsky, il drammaturgo cileno le cui opere sono intrise di sesso, esoterismo, sciamani e tarocchi. Un caso che allora fece molto discutere, n.d.r.). Il tutto davanti ad un bel crocifisso, in luogo probabilmente non ancora sconsacrato, sfidando la misericordia di Dio che per fortuna del sudamericano risulta essere “ancora” infinita! Anche i frati del monastero di Santa Chiara per far quadrare i conti offrono un pacchetto matrimoniale con Santa Messa più ricevimento in antico refettorio, intendiamoci l’utilizzo dell’ambiente sarebbe anche coerente, l’opportunità di farlo meno! Ma il cardinale si difende riconducendo alla Curia solo il 15% dei sacri palazzi.

Secondo un censimento dell’Ufficio Nazionale dei Beni Culturali Ecclesiastici e l’Edilizia di Culto, in Italia ci sono oltre 200.000 edifici sacri, di cui solo 77.000 di proprietà delle parrocchie, il resto è di Regioni, Comuni, Ordini religiosi, privati cittadini e Ministero dell’Interno, che ne detiene oltre 800 gestiti dal Fec (Fondo edifici di culto), il quale deve assolvere ai quattro compiti indicati nella norma istitutiva: conservazione, restauro, tutela e valorizzazione.

Secondo il Wall Street Journal la Chiesa anglicana chiude in media 20 edifici religiosi all’anno, in Germania negli ultimi anni hanno chiuso centinaia di chiese e lo stesso accade anche nei Paesi cattolici come Italia e Francia, rispettivamente prima e seconda nazione per numero di edifici religiosi in Europa.

I monasteri abbandonati in Italia si stima siano oltre 800: edifici storici, unici, ricchi di tesori d’arte, spiritualità e cultura che rischiano di scomparire. Coagulano storia, tradizioni religiose e costruttive, divenendo rappresentativi presidi identitari. Quali le cause di tale abbandono? Aspetti meramente economici? Mancano prelati? Anche se la secolarizzazione ha un effetto diretto sul numero delle ordinazioni sacerdotali e quindi sul mancato incremento del clero, tuttavia la distribuzione dei sacerdoti segue criteri pastorali connessi alla densità degli abitanti e non a quella degli edifici di culto. Sovente le chiese, costruite e abbandonate, seguendo la parabola del loro uso liturgico, trovano oggi un’intera popolazione che vorrebbe adottarle e difenderle in ragione del loro valore iconico-identitario.

L’appello al Governo per la conservazione di queste architetture non si deve solo a ragioni intra-ecclesiali, piuttosto alla nuova sensibilità culturale di vincolo e difesa di beni rappresentativi del paesaggio.

Al novello ministro quindi, lo spunto per censire, accorpare, riordinare e pianificare una gestione unica del vasto patrimonio degli edifici di culto che storia, tradizioni e fede ci hanno generosamente tramandato e che affoga disperso tra enti e soggetti vari disordinati tra loro. Che “Giuliano SanGennaro” illuminato dall’omonimo patrono partenopeo possa rilanciare il nostro nazionale petrolio bianco.

Andate in pace. Report Rai. PUNTATA DEL 24/04/2023 di Danilo Procaccianti

Collaborazione di Goffredo De Pascale e Andrea Tornago

A Napoli una parrocchia cinquecentesca è stata occupata da anni abusivamente.

Una parrocchia cinquecentesca in pieno centro storico occupata da anni abusivamente da una famiglia, una parte della quale ha scontato lì anche gli arresti domiciliari; Il borbonico Cimitero monumentale delle 366 fosse che è stato ampliato, seppur vincolato dalla Soprintendenza… Prosegue così l’inchiesta sulla gestione dei beni della Curia di Napoli, tra assenza di controlli, singolari attività imprenditoriali e cospicui lasciti gestiti senza tenere conto delle volontà testamentarie come è accaduto per il maestoso complesso immobiliare che domina la collina di Posillipo, lasciato alla Curia purché destinato a scopi di beneficenza, istruzione ed educazione, ma messo in vendita con il nulla osta dell’Arcivescovo Emerito di Napoli Crescenzio Sepe. 

ANDATE IN PACE Di Danilo Procaccianti Collaborazione: Goffredo De Pascale, Andrea Tornago Immagini Carlos Dias, Marco Ronca, Andrea Lilli Montaggio e grafiche Monica Cesarani

DA REPORT DEL 7/11/2022 LA MESSA È FINITA DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il centro storico di Napoli ha un numero di chiese elevatissimo e forse anche per questo moltissime sono chiuse o adibite ad altro uso rispetto al culto. Una situazione di cui anche la Curia non ha contezza

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI Neppure il Padreterno sa quante chiese sono concentrate nel centro storico di Napoli. Proprio nel centro storico ce ne sono 203. Di queste 203, 79 sono aperte al culto

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio perché sfuggono al controllo nelle chiese di Napoli succede di tutto e addirittura abbiamo un record mondiale: un caso di abuso edilizio sulla facciata di una chiesa, quella di Sant’Arcangelo a Baiano, sede di un’arciconfraternita dove gli appartamenti confinanti si sono allegramente allargati

DANILO PROCACCIANTI Ma lei quindi ci abita là?

UOMO Sì

DANILO PROCACCIANTI E come è possibile che si fatto l'appartamento dentro la chiesa?

UOMO E perché quello poi gli appartamenti sono adiacenti, si vede che facendo qualche lavoretto interno…

DANILO PROCACCIANTI Si sono allargati

UOMO Hanno visto che ci stava la stanza a fianco…perché non è solo quella, ci sta anche il terrazzino sopra

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’utilizzo delle chiese di Napoli è fuori controllo, tante sono quelle trasformate in garage a pagamento…abbiamo poi la chiesa venduta ai privati e trasformata in palestra, così come la chiesa diventata negozio e la chiesa che si affitta per eventi, mentre San Gennariello a Spogliamorti oggi è diventata una vera e propria falegnameria

DANILO PROCACCIANTI Un’informazione: ma questa prima era una chiesa?

FALEGNAME Sì

DANILO PROCACCIANTI Quindi oggi ci state voi, una falegnameria…

FALEGNAME Un deposito, questo è un deposito

DANILO PROCACCIANTI Voi pagate l’affitto a un privato?

FALEGNAME Da 70 anni

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nessuna traccia della chiesa che fu ma basta alzare gli occhi al cielo ed ecco che emerge il tesoro che abbiamo perso.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il cavaliere Giacomo Onorato controlla che le chiese affidate in comodato d’uso gratuito non diventino fonte di speculazione

DANILO PROCACCIANTI Se poi ci faccio spettacoli teatrali faccio pagare il biglietto. Non pago Imu, non pago Tari. È un vantaggio…

GIACOMO ONORATO Un grandissimo vantaggio. Che non pagano il dovuto allo Stato. D'altronde dovrebbero essere così onesti da cambiare lo stato d'uso, ma è possibile cambiare lo stato d’uso di un luogo sacro, luogo pubblico sacro? DANILO PROCACCIANTI FUORICAMPO Quello che vedete è un concerto di Patty Smith e si è tenuto all’interno della basilica di San Giovanni Maggiore, affidata all’Ordine degli Ingegneri di Napoli a titolo gratuito. Il biglietto però costava 56 euro. Poi c’è la chiesa di San Gennaro all’Olmo, affidata sempre gratuitamente all’associazione Giambattista Vico, che nel 2018 ha pensato bene di organizzarci una festa di Halloween ritenuta pericolosa dalla Chiesa per il carattere occulto e per la visione distorta del culto dei morti

DANILO PROCACCIANTI A San Gennaro all'Olmo una festa di Halloween nel 2018…

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI E difatti qui è avvenuto la risoluzione del comodato lì, rispetto a quella festa, in maniera proprio istantanea

DANILO PROCACCIANTI Però l'associazione Giambattista Vico mi sa che gestisce altre chiese…

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI Perché ne ha due in comodato d'uso

DANILO PROCACCIANTI Se sono stati cattivi là…

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI Ma in quell’altra chiesa non è capitato nulla DANILO PROCACCIANTI Se tu hai sbagliato, ai miei occhi non sei affidabile

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI Perché si condanna il peccato, ma non il peccatore. E questo lo dovrebbe ricordare molto

DANILO PROCACCIANTI Ah, devo ricordarmi io…

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI C’è un’opera di misericordia, eh…

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO E di opere di misericordia ne hanno fatte tante. La chiesa di San Francesco delle Monache è stata addirittura affittata a un’associazione. Un caso unico, perché loro pagano un affitto di 1500 euro

DONNA Questa non è sconsacrata, se vuoi sapere delle notizie. Facciamo la media di un 50, 60 concerti all'anno

DANILO PROCACCIANTI E la proprietà di chi è, della Curia?

DONNA Dell'Istituto diocesano per il sostentamento del Clero

DANILO PROCACCIANTI Che l'ha affidata a voi?

DONNA Sì, noi facciamo cose di grande qualità voglio dire, di spessore

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tutte cose di spessore, non abbiamo dubbi, eccetto perlomeno una volta. Nel 2013 la chiesa ospitò la conferenza di Alejandro Jodorowsky, il drammaturgo cileno le cui opere sono intrise di sesso, esoterismo, sciamani e tarocchi

GIACOMO ONORATO Che cosa mi sono ritrovato? Uno pseudo mago! Alejandro Jodorowsky

DANILO PROCACCIANTI Jodorowsky

GIACOMO ONORATO Jodorowsky, sì, con una donna seduta tra le sue braccia, seminuda con tutto il seno da fuori. E addirittura, lungo la navata, ha raccontato come si masturba un clitoride

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio così. Questa è la foto della ragazza a seno nudo sulle gambe di Jodorowsky, e questa è la testimonianza della ragazza: “Le chiese sono piene di nudi dipinti alle pareti e scolpiti nel marmo – scrive - e se davvero avessero a cuore il futuro dell’umanità dovrebbero insegnare la masturbazione della clitoride da ogni pulpito”

DANILO PROCACCIANTI In quella chiesa, qualche anno fa, ci fu….

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI E siamo intervenuti

DANILO PROCACCIANTI Aspetti! Ancora non ho fatto la domanda…

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI Eh sì, perché sono domande...torniamo a una cosa… da dieci anni, siamo intervenuti

DANILO PROCACCIANTI E qui come siete intervenuti?

VINCENZO DORIANO DE LUCA – PORTAVOCE ARCIDIOCESI NAPOLI Siamo intervenuti chiedendo garanzie che questo non avvenisse più

DA REPORT DEL 21/11/2022 “QUESTI FANTASMI” DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Questa è la chiesa di San Biagio ai Taffettanari, un gioiello del Cinquecento nel centro storico di Napoli, chiusa e abbandonata ormai da diversi anni a differenza della sua canonica: un palazzo di quattro piani occupati dalla famiglia Macor. Al primo piano vive Margherita Macor, condannata per usura aggravata ed estorsione, sta scontando la pena proprio qui, insieme al marito Antonio Cortese, agli arresti domiciliari per vari reati tra cui rapine. Al secondo piano vive il figlio Salvatore Cortese, anche lui ha scontato gli arresti domiciliari per varie rapine. Al terzo e quarto piano altri membri della famiglia Macor.

DANILO PROCACCIANTI Scusa, scusa

DANILO PROCACCIANTI Qual è il profilo criminale di questa famiglia?

ARNALDO CAPEZZUTO – GIORNALISTA Tutto nasce da Giuseppe Macor, un associato al clan di Giuliano di Forcella. Tutte le zone a ridosso del centro storico di Napoli per anni sono stati sotto al verbo della famiglia Macor, con la gestione dei parcheggi abusivi, piazze in cui le forze dell'ordine neppure c'entravano e avevano un gettito di 10-12 mila euro al mese. Ma Macor si caratterizza anche per rapine, estorsioni associazione camorristica.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Lo spessore criminale della famiglia Macor emerge quando entrati nel palazzo sfrattano con la forza i legittimi inquilini e occupano gli appartamenti. Tutto avviene nell’inerzia di padre Emanuele Casole che pure ha gestito la chiesa per anni ed ha assistito in silenzio.

DANILO PROCACCIANTI Quel palazzo a fianco ci risulta che è occupato da anni

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Innanzitutto la chiesa di San Biagio ai Taffettanari non è della Curia.Abbiamo fatte ricerche su ricerche, tutto, ma non siamo riusciti.

DANILO PROCACCIANTI Il palazzo affianco sì però?

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI No nemmeno, difatti è occupato da persone quindi non…

DANILO PROCACCIANTI Lei sa che questi hanno diversi procedimenti penali.

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Questo poi non lo so.

DANILO PROCACCIANTI Che non pagano le utenze non pagano nulla.

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Non lo so.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il parroco non interviene nemmeno quando i Macor, per anni hanno disposto a loro piacimento del tetto della chiesa con a fianco il campanile. Il lastrico della chiesa negli anni è stato utilizzato come solarium, per il tiro con l’arco, come area per cani, per fare bagni in piscina.

ARNALDO CAPEZZUTO – GIORNALISTA Per me passa un messaggio devastante per questa città: che un immobile viene occupato con la forza intimidatrice…nessuno interviene, è tranquillo! È la città del mare, il Vesuvio, il Napoli vince e siamo tutti quanti contenti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci eravamo occupati delle chiese e dei beni lasciati in donazione gestiti dalla Curia di Napoli. Avevamo visto che due chiese su tre nel centro storico erano sostanzialmente abbandonate per via dei costi di gestione. Proprio per questo nel 2010 l’Arcivescovo di Napoli il Cardinale Sepe, di allora, le aveva date in comodato d’uso gratuito molte di queste chiese ad alcune associazioni, con l’impegno di svolgere delle attività che però mantenessero il decoro di un luogo di culto. Invece che cosa avevamo scoperto che in molte di queste chiese erano finite con l’ospitare eventi un po’ eccentrici: la festa di Halloween o congressi con donne con seno nudo teorizzavano la pratica della masturbazione. Poi avevamo visto anche che su alcune facciate, la chiesa di Sant’Arcangelo a Baiano, era addirittura spuntato un abuso edilizio, un balcone. E poi eravamo stati in via dei Taffettanari, in un’ex canonica che fa parte di un complesso, la chiesa di San Biagio, che era stata occupata abusivamente da una famiglia in odore di camorra, che aveva sfrattato gli inquilini che c’erano precedentemente e utilizzava questo palazzo e anche il tetto della chiesa a proprio piacimento. Tanto che ci siamo chiesti: ma di chi è questo bene? L’ex parroco don Emanuele Casole ha detto: “Non è sicuramente della Curia”, e l’Arcivescovo attuale, don Battaglia, ha detto: ”Se Report ha dei documenti sarebbe interessante, vederli. prendere in visione perché ci aiuterebbe a dipanare una intricata vicenda”. Ora il nostro Danilo Procaccianti è tornato in via dei Taffettanari, ha trovato un imponente schieramento di forze dell’ordine ha detto: Questa è la volta buona. Ha pensato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quando siamo tornati davanti la chiesa di San Biagio ai Taffettanari, un gioiello del Cinquecento chiuso e abbandonato con la canonica occupata da una famiglia in odore di camorra abbiamo trovato uno schieramento di forze della polizia municipale…ma non erano lì per il palazzo occupato, erano lì solo per portar via le auto in divieto di sosta. Per la storia del palazzo occupato non è intervenuto nessuno: né la Curia né il Comune né la Soprintendenza… Sulla vicenda l’onorevole Francesco Emilio Borrelli ha scritto un’interrogazione parlamentare.

FRANCESCO EMILIO BORRELLI – DEPUTATO - ALLEANZA VERDI E SINISTRA Questa zona è terra di nessuno e in buona parte è gestita da questa famiglia che io combatto da sempre. Purtroppo per ora ho perso questa battaglia. Io ho fatto un'interrogazione parlamentare, mi batterò affinché questa quest'area torni alla città di Napoli e che la Curia, il Comune o qualsiasi altro ente preposto si assuma le proprie responsabilità. Non puoi tenere occupato un bene monumentale. Ma stiamo scherzando?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio mentre intervistiamo l’onorevole Borrelli arriva un membro della famiglia Cortese/Macor che ci fa salire all’interno del palazzo occupato

EMANUELE CORTESE Clan camorrista. Ma di camorrista cioè, per curiosità, ha visto qualcosa lei?

DANILO PROCACCIANTI Vabbè non è che c’è scritto camorrista, ho ricordato le vicende.

EMANUELE CORTESE Ed è normale

DANILO PROCACCIANTI …di vostra madre anche cose del passato, di estorsione etc., c'è una condanna quindi non è che è l’ho inventata io.

EMANUELE CORTESE Sì e l'ha pagata

DANILO PROCACCIANTI E vostro padre invece abita pure qua.

DONNA Mio padre abita qua, qua. Però non c’è, sta in carcere.

EMANUELE CORTESE Non risiede al momento qui

DANILO PROCACCIANTI Certo

DONNA Mio padre è tossico, mio fratello è tossico, cioè… non penso che possono fare un clan. È così? O mi sbaglio?

EMANUELE CORTESE È vero che i più grandi clan si drogavano tutti quanti però noi non abbiamo mai fatto…cioè mio padre è sempre andato a rubare, mio fratello altrettanto. Cioè non c'è un marchio di camorra. Per voi chi va a rubare è camorrista?

DANILO PROCACCIANTI C'è un figlio di Macor che dice io mi sono rifatto una vita, adesso faccio il pizzaiolo.

FRANCESCO EMILIO BORRELLI – DEPUTATO - ALLEANZA VERDI E SINISTRA Pure la famiglia Macor si sono fatti anni… decenni di galera per associazione camorristica, anche per omicidio e non mi risulta che qualcuno ricordi i nomi delle vittime. Quindi io vorrei partire sempre dal fatto che ci sono delle vittime cioè non è che sono delle persone che hanno sbagliato così, sono delle persone ho fatto del male che hanno fatto girare la droga, che hanno fatto sopraffazione azioni violente e hanno anche ucciso. Adesso tutti hanno diritto ad avere nuove possibilità seguendo la legge. Non è che se li si vuole mettere a posto può tenere occupata una casa abusivamente che è un bene pubblico dei cittadini e in questo caso un bene monumentale

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Rimane il mistero di come un’intera famiglia con evidenti problemi con la giustizia abiti una canonica di una chiesa cinquecentesca dove fino a poco tempo fa padre Emanuele Casole celebrava messa, possibile che lui non si sia accorto di nulla?

DANILO PROCACCIANTI Ma lei la usava però… visto che non è della Curia come la usava lei?

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Noi...

DANILO PROCACCIANTI C’è qualcosa che non mi torna

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Innanzitutto, l’informazione dovrebbe essere precisa

DANILO PROCACCIANTI E infatti stiamo cercando di capire, sto chiedendo a lei..

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI E allora le sto dicendo, non è della Curia

DANILO PROCACCIANTI Mi sembra una situazione un po’ poco chiara.

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI No, no, no! Siete voi un po’ annebbiati con la testa!

DANILO PROCACCIANTI No, e perché annebbiati?

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI No, dovete dare delle risposte veritiere.

DANILO PROCACCIANTI E certo, ma infatti sono venuto a chiedere

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Allora se voi siete un reporter che vuole indicare alla gente delle verità e cose, dite la verità.

DANILO PROCACCIANTI Lei dice che quello non è della Curia

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI No.

DANILO PROCACCIANTI Tanto questo lo verifichiamo.

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Sì, verificate, a me che me ne importa DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO E noi abbiamo verificato. Sul sito della Curia stessa la proprietà della Chiesa San Biagio ai Taffettanari viene attribuita ad una confraternita, se così fosse, in punta di diritto canonico, a vigilare sul bene sarebbe appunto la Curia. Poi c’è la delibera del 2005 della Regione Campania che eroga dei contributi per i luoghi di culto, e a chiederli per la chiesa di San Biagio sarebbe stato proprio don Emanuele Casole. E ancora un ex dipendente della Curia, ci ha inviato un foglio excel in cui compaiono i locatari morosi degli immobili della Curia, e compare almeno fino al 2008 proprio Margherita Macor indicata come inquilina morosa abitante al primo piano di via dei Taffettanari…

DANILO PROCACCIANTI Qual è il rapporto con la Curia? Se c'è un contratto se in passato l'avete avuto.

DONNA Allora noi in passato l'abbiamo avuto il contratto però abbiamo anche richiesto il contratto di nuovo e non ci è stato dato a noi perché si dice che queste case non sanno di chi sono.

EMANUELE CORTESE Come non avessero padrone. Però noi per vent'anni a chi l'abbiamo pagato?

DANILO PROCACCIANTI Qualcuno vi ha fatto entrare, vi ha dato..

EMANUELE CORTESE Ma anche mia madre ha i domiciliari, io minorenne ho avuto i domiciliari anche lo Stato non credo che ci mettesse qua dentro mi state capendo se non avevamo un contratto

DANILO PROCACCIANTI Anche la Curia dovrebbe fare chiarezza, se ha percepito dei soldi.

FRANCESCO EMILIO BORRELLI – DEPUTATO - ALLEANZA VERDI E SINISTRA Io sono assolutamente convinto che l'attuale arcivescovo per come sta impostando la sua azione, farà piazza pulita. Perché non se ne sono occupati prima d'oggi? Perché purtroppo molto spesso è più facile girare la faccia dall'altra parte che far rispettare le regole.

DANILO PROCACCIANTI Sono di Report, si ricorda?

DONNA Un’altra volta?

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Mi dispiace…adesso

DANILO PROCACCIANTI Solo perché…si ricorda che noi avevamo detto che avremmo verificato, abbiamo verificato che lei aveva chiesto un contributo per Taffettanari… ci aveva detto che non ne sapeva niente

PADRE EMANUELE CASOLE – CHIESA SANT’ONOFRIO E SAN BIAGIO AI TAFFETTANARI Andate…

DANILO PROCACCIANTI Perché ci fa così?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Don Casole ci sbatte la porta in faccia, eppure si tratterebbe di un complesso monumentale del Cinquecento di grande interesse pubblico, tuttavia quando poniamo il problema dell’occupazione abusiva nessuno ne vuol sentir parlare. Fanno tutti finta di niente. Ora la patata bollente passa nelle mani del ministro dell’Interno, Piantedosi, che dovrà rispondere all’interrogazione dell’onorevole Borrelli che chiede di ripristinare la legalità in quel palazzo, visto che né il Comune - che con noi non vuole parlare - né la Prefettura sono intervenuti né don Salvatore Fratellanza che è il presidente della Commissione amministrativa permanente per la gestione dei beni delle arciconfraternite commissariate, da cui dipenderebbe appunto proprio la chiesa di San Biagio ai Taffettanari. Don Fratellanza è stato nominato a capo della commissione proprio dal cardinale Sepe. Anche lui non vuole parlare con Report. Certo che aprire il capitolo dei beni gestiti dalla Curia napoletana e anche quelli delle arciconfraternite è un po' come aprire il vaso di Pandora. I nostri Danilo Procaccianti e Goffredo de Pascale hanno trovato altre anomalie, che definire eccentriche è un eufemismo.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sull’uso anomalo che si fa delle chiese napoletane, sembra che le nostre inchieste non abbiano sortito nessun effetto. All’interno del complesso monumentale di Santa Chiara si continuano a fare i banchetti per i matrimoni tanto che di recente proprio lì ha fatto il suo ricevimento nuziale l’ex assessora al Comune di Napoli Alessandra Clemente. Proprio accanto a Santa Chiara nel complesso monumentale di Santa Maria la Nova, invece, continuano i concerti a pagamento, a breve ci sarà l’omaggio a Mina, dopo che ci sono stati quelli a Lucio Battisti e a Edoardo De Crescenzo

DANILO PROCACCIANTI Tutto a pagamento. GIACOMO ONORATO – CAVALIERE DELLA REPUBBLICA Tutto a pagamento. Attenzione a pagamento sì, però c'è diversificazione, c'è per i ricchi e per i meno ricchi. Cioè dipende dalla scelta dei biglietti che si vuole acquistare. Abbiamo il silver che costa 25€, poi abbiamo il gold 30 euro. Ahimè per i più ricchi ci sta il premium 35€. Ma che andiamo a teatro?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Di fronte alla sede della curia napoletana c’è la sede del museo diocesano e lì durante le feste natalizie hanno pensato bene di fare il tarantella show. Nella chiesa Stella Maris, invece, gioiello in stile neogotico ci hanno fatto addirittura una mostra con i cimeli di Maradona.

DANILO PROCACCIANTI Capisco che Maradona per voi è come un santo però addirittura una mostra dentro una chiesa

MASSIMO VIGNATI – COLLEZIONISTA No, questa è una cappella perché qua c’era un conte tanti anni fa…è tutto regolare

DANILO PROCACCIANTI No, non ho dubbi che è regolare.. però dico è un po’ strano

MASSIMO VIGNATI – COLLEZIONISTA Ma strano

DANILO PROCACCIANTI Siamo d’accordo, meglio che essere chiusa

MASSIMO VIGNATI – COLLEZIONISTA No strano, io dico le istituzioni, perché questa l’hanno affidata a un’associazione di amici e mi hanno chiesto di fare questa mostra e tutto…

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non è successo nulla nemmeno per il balcone abusivo sulla facciata della chiesa di Sant’Arcangelo a Baiano appartenente a una confraternita e non ci risulta che padre Salvatore Fratellanza indicato dalla Curia come commissario per la gestione dei beni delle confraternite ne abbia chiesto l’abbattimento.

DANILO PROCACCIANTI Don Fratellanza buonasera S

ALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Buonasera

DANILO PROCACCIANTI Sono di Report, Raitre

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Male…

DANILO PROCACCIANTI Ogni volta non ci vuole incontrare..

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE No, non vi voglio incontrare

DANILO PROCACCIANTI Ma perché non ci dà delle spiegazioni

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Perché siete scorretti…scusi perché sta riprendendo?

DANILO PROCACCIANTI Perché siamo scorretti? Le abbiamo chiesto l’intervista un sacco di volte

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Le ho fatto rispondere, ha risposto l’Arcivescovo per tutti, anche per me quindi vi prego

DANILO PROCACCIANTI Però ci sono delle cose delicate..adesso su

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Vi prego, vi prego, ha risposto l’Arcivescovo anche per me

DANILO PROCACCIANTI Lei non vuole dire nulla?

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Niente.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Di recente abbiamo scoperto anche un altro business che si stava provando a fare nella chiesa Santa Maria della Luce. La chiesa fino a qualche anno fa era stata affittata come officina di restauro, il nuovo prete però ha cacciato gli affittuari e con una società di Padova ha provato a trasformarla di fatto in un cimitero: Un luogo della memoria, un deposito con 400 urne cinerarie. A pagamento ovviamente. Stranamente però dopo la messa in onda delle nostre inchieste il progetto è stato bloccato per non meglio precisati problemi burocratici. Peccato però che come dimostrano queste immagini già avevano cominciato a portare dentro la chiesa le ceneri.

GIACOMO ONORATO – CAVALIERE DELLA REPUBBLICA Infatti, attualmente in quella chiesa si contano 40 morti 40 urne diciamo così che contengono le ceneri. Però ahimè è tutto bloccato per la burocrazia ma quale burocrazia tutto bloccato allora i morti adesso rimangono là?

DANILO PROCACCIANTI Sequestrati?

GIACOMO ONORATO – CAVALIERE DELLA REPUBBLICA Sequestrati. In una chiesa, una chiesa antica come si fa a modificarla a mettere queste strutture di 400 urne di due pannelli scorrevoli…ma come si fa.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il cavaliere Giacomo Onorato, detto Giacomino da tempo denuncia quelle che secondo lui sono le anomalie nella gestione delle Chiese e dei beni da parte della Curia partenopea.

DANILO PROCACCIANTI A proposito di loculi e di cimiteri, lei ha denunciato più volte la speculazione che starebbe facendo Don Fratellanza.

GIACOMO ONORATO – CAVALIERE DELLA REPUBBLICA Lei non deve dimenticare io sono Giacomino pane e pane e vino al vino. Io gliel'ho detto io l'ho scritto con un report fotografico perché lui, don Fratellanza lei deve immaginare nella cappella dove sono i miei genitori io ho due loculi, questi loculi io l'ho pagati 6.000€ al primo piano attenzione. Lui lo vende lo stesso loculo al terzo piano senza ascensore, perché io non so una persona anziana come fa ad arrampicarsi al terzo piano, lo stesso loculo lo vende a 12.000 euro…ahimè al 100%.

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Io vi dico solo questo e poi chiudiamo, quelli ai quali voi attingete notizie sono quelli che fanno più danno perché non sanno le cose, chiaro?

DANILO PROCACCIANTI Però alcune cose le abbiamo scoperte, viste noi con i nostri occhi

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Ma che avete scoperto?... Vabbè continuate a scoprire

DANILO PROCACCIANTI Non abbiamo scoperto niente? E’ tutto a posto

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Continuate a scoprire, grazie per le indagini che fate.

DANILO PROCACCIANTI Però capisce che così non ci aiutate a fare chiarezza…anche sul fatto che adesso loculi costano 12.000 euro.

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Ma non andate dietro alle cretinate che dice quella persona, ma l’avete visto in faccia a quella persona? Su questo vi screditate, vi state screditando.

DANILO PROCACCIANTI Però lei lo ha denunciato per diffamazione ed è stata archiviata.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Don Salvatore Fratellanza è commissario anche della confraternita proprietaria del cimitero delle 366 fosse, il primo cimitero per i poveri voluto da Ferdinando IV di Borbone nel 1862. Il cimitero è un complesso monumentale di importanza storica ma nonostante questo a maggio del 2019 a una scuola alberghiera fu consentito di fare un banchetto proprio sul terreno che ospita le fosse cimiteriali come testimoniano queste foto. Eppure, già nel 2001 era dovuta intervenire la soprintendenza per scongiurare alterazioni del già degradato complesso che aveva subito violente manomissioni.

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Nel 2000 interviene la Soprintendenza si accorge di questo abusivismo enorme e chiude il cimitero e lo riapre soltanto dopo sei mesi, per una gestione ordinaria, per consentire a chi aveva già i morti qua al cimitero di fare visita ai propri cari. Invece l'amministrazione ha continuato.

DANILO PROCACCIANTI Cioè la confraternita?

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 La confraternita, l’arciconfraternita, con i vari commissari hanno continuato a costruire abusivamente loculi assegnandoli, vendendoli praticamente.

DANILO PROCACCIANTI Entra in gioco lei? Che cosa le chiede dell'Arciconfraternita?

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Mi chiede di fare da tramite, assegnare questi loculi alle persone che ne avessero voluto usufruirne e però dicendomi a chiare lettere di incassare soltanto soldi in contanti. Facendomi intendere chiaramente che questi loculi erano abusivi senza nessun permesso di costruzione né da parte del Comune di Napoli né da parte della Sovrintendenza.

DANILO PROCACCIANTI Quindi lei prendeva i soldi e li portava in arciconfraternita?

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Io prendevo i soldi dalle famiglie che ne facevano richiesta e li portavano in Arciconfraternita.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’Arciconfraternita incassava dai loculi costruiti abusivamente pure le bollette della luce e le quote condominiali che inviava direttamente a casa dei familiari dei defunti.

DANILO PROCACCIANTI Lei perché si prestava a fare questa cosa che era illegale… no? Farsi dare i soldi in contanti, un loculo abusivo.

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Io mi prestavo per la salvaguardia del posto di lavoro.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Antonio De Gregorio ci è nato in quel cimitero, la sua famiglia lo gestisce da sempre e lui era il custode storico, a un certo punto però si mette paura perché la gente non vuole pagare più in contanti ma con gli assegni che lui stesso avrebbe dovuto versare sul proprio conto personale. Capisce che rischia lui in prima persona e allora si rifiuta di incassare altri soldi e protesta con il commissario dell’arciconfraternita.

DANILO PROCACCIANTI All’epoca il commissario dell’arciconfraternita era don Fratellanza.

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Era Padre Salvatore Fratellanza. Ho fatto le mie rimostranze e dalle mie rimostranze hanno incominciato nel giro di pochi mesi a trovare delle scuse per farmi, cioè per licenziarmi.

DANILO PROCACCIANTI Oltre al danno la beffa. Perché la Arciconfraternita invece poi ha denunciato lei

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Sì.

DANILO PROCACCIANTI Oggi lei si ritrova sotto inchiesta.

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Allora l’arciconfraternita ha denunciato me dicendo che io praticamente ho costruito un cimitero intero in venti, trent’anni, l’'assurdità che loro non erano a conoscenza di questo cimitero e di queste costruzioni ma è un boomerang che gli torna indietro perché si sono succedute diverse amministrazioni, diversi commissari che comunque ogni qual volta che cambiavano diciamo commissario venivano a fare i sopralluoghi.

DANILO PROCACCIANTI Per venti anni non si sono accorti di niente.

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Anche lo stesso…

DANILO PROCACCIANTI Ha fatto tutto lei di nascosto

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Anche lo stesso Fratellanza col suo gruppo il suo direttore eccetera sono venuti a fare i sopralluoghi.

DANILO PROCACCIANTI E mai sono andati a denunciare prima per dire sono abusivi, hanno incassato i soldi.

ANTONIO DE GREGORIO – CUSTODE CIMITERO 366 FOSSE 1996-2019 Hanno denunciato sei mesi dopo che mi hanno licenziato.

DANILO PROCACCIANTI È stato un custode a fare tutti i loculi del cimitero, possibile che voi non sapevate nulla?

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Posso chiedervi di…

DANILO PROCACCIANTI Sì, sì ma io con educazione le sto chiedendo un punto di vista.

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Con educazione vi ho detto che io mi sono consultato con l’arcivescovo DANILO PROCACCIANTI Visto che comunque lei ha molti incarichi.

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Io sono rappresentante del vescovo e quindi il vescovo…basta, siate corretti.

DANILO PROCACCIANTI Però dico tutti questi incarichi …

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE No no, ma non sono tutti questi..

DANILO PROCACCIANTI Prevedono anche la responsabilità di trasparenza

SALVATORE FRATELLANZA – PRESIDENTE COMMISSIONE GESTIONE BENI DELLE CONFRATERNITE COMMISSARIATE Certo, certo, è l’arcivescovo che risponde per me.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’arcivescovo di Napoli all’epoca era il cardinal Sepe che con noi non vuole parlare. Ce l’aveva fatto capire chiaramente quando avevamo chiesto del perché la cittadella apostolica che don Cascella aveva lasciato alla curia napoletana con finalità caritatevoli, era finita in usufrutto a un imprenditore che l’aveva trasformata in un hotel di lusso. All’epoca il cardinale emerito Crescenzio Sepe ci aveva gentilmente invitato ad andare in altri luoghi

CRESCENZIO SEPE – ARCIVESCOVO EMERITO DI NAPOLI Se vuole fare polemica facciamo pure polemica e io poi vi dirò qualche cosa però però... adesso lasciatemi

DANILO PROCACCIANTI Eh no ce lo dica

CRESCENZIO SEPE – ARCIVESCOVO EMERITO DI NAPOLI Ma andate a farvi fottere

DANILO PROCACCIANTI Un albergo a 4 stelle

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quello di don Cascella però non sarebbe l’unico testamento tradito dalla curia napoletana. In via Vittorio Emanuele, per esempio, in questo enorme palazzo tantissimi appartenenti erano di proprietà della signora Maria Laino che nel suo testamento aveva disposto che una parte di quelle abitazioni andassero alla curia di Napoli per fini di culto e religione e in una successiva lettera chiarisce addirittura che vanno utilizzati come ricovero per i sacerdoti poveri. La curia per un periodo mantiene fede al testamento ma con l’avvento del cardinale Michele Giordano, decide di trasformarli in un residence.

PIERGIUSEPPE DI NOLA - AVVOCATO Da un certo momento in poi l'utilizzo di quegli immobili dalla parte della Curia è per come dire a finalità commerciali, nel senso che erano stati frazionati in miniappartamenti ognuno dotato di bagno e cucinino.

DANILO PROCACCIANTI E questo appunto quindi in contrasto totale con le volontà testamentarie.

PIERGIUSEPPE DI NOLA - AVVOCATO Si stava avviando un'attività che era assolutamente diversa diciamo da una attività diciamo chiaramente direttamente a fini di culto religione e a fini caritatevoli com'era quella tenuta fino a quel momento.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Per questa ennesima storia paradossale si sta celebrando un processo da ben 25 anni, la curia ha perso in primo grado e in appello ma adesso la Cassazione ha rimandato tutto in appello.

DANILO PROCACCIANTI L'idea di trasformarlo in attività commerciale, io semplifico, fu dell'allora cardinale Giordano ma con il cardinale Sepe le cose non cambiano.

PIERGIUSEPPE DI NOLA - AVVOCATO Non c'è stata diciamo… la situazione non ho avuto nessun cambiamento negli anni.

DANILO PROCACCIANTI Cioè non è che il cardinale Sepe è arrivato e ha detto guardate troviamo un accordo ci facciamo veramente l'albergo per i poverelli oppure lo doniamo al Comune che ci fa qualcosa per beneficenza.

PIERGIUSEPPE DI NOLA - AVVOCATO No.

DANILO PROCACCIANTI Da un certo punto in poi la Curia si è comportata come un semplice privato qualunque.

PIERGIUSEPPE DI NOLA - AVVOCATO Non ha più destinato ai preti poveri quegli immobili.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Stesso copione per un immobile di pregio sulla collina di Posillipo di proprietà della congregazione delle religiose dei sacri cuori di Gesù e di Maria, le suore lo hanno avuto in donazione con la prescrizione di utilizzo a scopi di beneficienza, istruzione ed educazione, cosa che avviene, visto che per anni questo palazzo ha ospitato una scuola gestita dalle suore che però a un certo punto decidono di vendere tutto ma c’è un problema.

FLAVIO D’ECCLESIIS – AGENTE IMMOBILIARE Abbiamo scoperto che innanzitutto la donazione da cui derivava la proprietà era una donazione per fini religiosi, non quello che ci si chiedeva cioè di venderla comunque. E poi urbanisticamente non ci siamo.

DANILO PROCACCIANTI Quindi, se ho capito bene, le suore provano a vendere un immobile che non si sarebbe potuto vendere perché era stato donato per scopi di beneficenza e religiosi. E ve lo fa vendere anche che per più della metà abusivo.

FLAVIO D’ECCLESIIS – AGENTE IMMOBILIARE Un terzo circa un terzo, non sano urbanisticamente.

DANILO PROCACCIANTI Però è ancora in vendita.

FLAVIO D’ECCLESIIS – AGENTE IMMOBILIARE È ancora in vendita, è ancora in vendita come se fosse un edificio sano e come se fosse un edificio adibibile a qualsiasi destinazione.

DANILO PROCACCIANTI Lei però ha trovato anche un altro incartamento, queste suore per vendere hanno chiesto autorizzazione a chi e chi gliel'ha data?

FLAVIO D’ECCLESIIS – AGENTE IMMOBILIARE Al cardinale Sepe che ha… io ho sia la domanda delle suore sia la risposta firmata dal cardinale che ha dato autorizzazione.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ed eccolo il documento, le suore chiedono al Cardinale Sepe di alienare l’immobile e lui risponde che non ha nulla in contrario ad accogliere la richiesta.

DANILO PROCACCIANTI Eminenza buongiorno, si ricorda di Report che ci ha mandato a quel paese l’altra volta però dice che non è vero CRESCENZIO SEPE – ARCIVESCOVO EMERITO DI NAPOLI Eh, sì.

DANILO PROCACCIANTI Ma ci può chiarire meglio quella cosa?

CRESCENZIO SEPE – ARCIVESCOVO EMERITO DI NAPOLI Adesso ho da fare, salve

DANILO PROCACCIANTI Però ne abbiamo trovati altri casi di testamenti non rispettati…solo questa cosa eminenza. CRESCENZIO SEPE – ARCIVESCOVO EMERITO DI NAPOLI Andiamo, andiamo.

DANILO PROCACCIANTI Lei ha detto che ci voleva parlare e poi quando veniamo non ci parla.

CRESCENZIO SEPE – ARCIVESCOVO EMERITO DI NAPOLI Andiamo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Niente, con noi il cardinale non vuole proprio parlare. Chi affida, in punto di morte, i propri beni alla Curia napoletana, è proprio perché spera che venga rispettata la sua volontà di aiutare i più poveri e i più fragili. Ora, vedendo queste scene, ci sarà ancora chi avrà voglia di donare? Per quello che riguarda il cimitero borbonico delle 366 fosse specifichiamo che l’unico indagato oggi è il custode, proprio in seguito a una denuncia dei frati, secondo i quali il custode avrebbe approfittato del suo ruolo per aggirare gli anziani e vendere loro i loculi abusivi. Ma siamo certi che i frati non sapessero nulla? Il dubbio viene perché c’è una nota del 18 giugno del 2001, in cui la Soprintendenza ha inviato ai frati, e ricordava che “si chiedeva la sospensione di ogni attività all'interno del cimitero per scongiurare il pericolo di ulteriori e magari irreversibili alterazioni del già degradato complesso monumentale che ha subito violente manomissioni frutto di interventi illegittimi". Da allora l'Arciconfraternita non ha fatto alcuna azione per ripristinare i luoghi, inoltre ci risulta che incassasse anche lei dalla vendita dei loculi fatta dal custode e inoltre dai suoi uffici amministrativi sono partite le bollette della luce e del condominio da pagare ai poveri familiari dei defunti che sono sepolti nei loculi.

 Segnali divini. Report Rai. PUNTATA DEL 17/04/2023 di Chiara De Luca

Collaborazione di Marzia Amico

L’Italia è nota come il paese dei 1000 campanili. ​​​​​

Per la loro altezza e la posizione centrale dagli anni 2000 sono stati scelti dalle aziende di telecomunicazione che vi hanno installato le antenne telefoniche. L’ente ecclesiastico incassa un affitto di locazione dal gestore telefonico: questo comporterebbe l’uso del campanile per finalità commerciali e la perdita dell’esenzione fiscale dedicata agli immobili della chiesa destinati al culto. Come si sono comportate le diocesi italiane?

Segnali divini Di Chiara De Luca Collaborazione Marzia Amico Immagini Dario D’India – Andrea Lilli – Fabio Martinelli Montaggio Andrea Masella Montaggio e grafica Michele Ventrone

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In Sicilia, ai piedi dell’Etna, affacciata sul mare, si trova Acireale. Sullo sfondo ci sono i cento campanili che l’hanno resa storicamente famosa.

ANTONIO RASPANTI - VESCOVO DI ACIREALE (CT) La skyline si denota non certo per i grattacieli ma appunto per questi campanili che sono le grandi costruzioni di un tempo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO L’Italia è nota come il paese dei mille campanili. Per la loro altezza e la posizione centrale fanno gola alle aziende di telecomunicazioni, che dagli anni 2000 c’hanno piazzato le loro antenne.

MARZIA MINOZZI - RESPONSABILE NORMATIVA E REGOLAMENTAZIONE ASSOTELECOMUNICAZIONI Quello che guida l’installazione delle antenne è l’obiettivo di creare una rete performante su tutto il territorio italiano.

CHIARA DE LUCA I campanili essendo alti…

MARZIA MINOZZI - RESPONSABILE NORMATIVA E REGOLAMENTAZIONE ASSOTELECOMUNICAZIONI Assolutamente. Detto questo, un campanile o un altro edificio è la stessa cosa

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per far istallare le antenne sui campanili, l’ente ecclesiastico incassa l’affitto di locazione dal gestore telefonico. Questo, però, comporta l’uso del campanile per finalità commerciali.

DARIO CAPOTORTO – AVVOCATO - ESPERTO IN CONTRATTUALISTICA PUBBLICA Gli immobili destinati al culto non possono essere utilizzati per finalità commerciali, la locazione implica invece l’utilizzo del bene per finalità commerciali.

CHIARA DE LUCA Lei affitterebbe il campanile di una chiesa di Acireale?

ANTONIO RASPANTI - VESCOVO DI ACIREALE (CT) No, non ce la vedo questa cosa, assolutamente. Innestare un ripetitore significa un po’ violare, violentare un tipo di architettura che rappresenta soprattutto una cultura, insomma, un’epoca. Lì devi comunque pagare l’Imu perché cambia la natura dell’istituzione, dell’ente che sta usufruendo di quel bene. Poi si innescherebbero meccanismi impropri per un luogo di culto, secondo me.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora. Le compagnie telefoniche da decenni guardano con appetito i campanili per installare le loro antenne e non sempre trovano un baluardo come il vescovo di Acireale che è sensibile al patrimonio artistico e architettonico nonché alla natura giuridica della Chiesa. Infatti, i luoghi di culto che vengono utilizzati per un esercizio commerciale dovrebbero pagare le imposte. Anche la Conferenza Episcopale Italiana ha inviato una nota ai vescovi dicendo: non installate le antenne, rispettate la sacralità dei luoghi di culto. Insomma, come l’hanno presa i vescovi questa nota? La nostra Chiara De Luca

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A Pontedera, il parroco, con l’approvazione dell’arcidiocesi di Pisa, ha acconsentito all’installazione di due antenne della telefonia mobile sul campanile del duomo, prima nel 2000 e poi nel 2016.

MICHELE ROSATI - ECONOMO ARCIDIOCESI DI PISA Viene pagato un affitto mensile, il contratto è regolarmente registrato all’Agenzia delle Entrate e il parroco paga le tasse, cioè l’Irpef sul… Credo che per quanto riguarda Pontedera si aggiri grosso modo, lordo, su una cifra mensile di poco più di 300 euro al mese.

CHIARA DE LUCA E paga anche l’Imu?

MICHELE ROSATI - ECONOMO ARCIDIOCESI DI PISA Certo, come tutte le parrocchie che hanno, che fanno attività commerciale.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In Italia, infatti, sugli immobili destinati alla sola attività di culto, la chiesa non è tenuta al pagamento delle tasse

STEFANO CAPACCIOLI – COMMERCIALISTA – REVISORE LEGALE nel momento in cui quel fabbricato non è più destinato esclusivamente all’esercizio del culto ma viene utilizzato anche per altre attività non rientra più all’interno delle esenzioni

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E dunque quando viene prodotto un reddito, come nel caso dell’installazione di antenne della telefonia mobile.

MICHELE ROSATI - ECONOMO ARCIDIOCESI DI PISA Se io fossi stato presente nel 2016, avrei sconsigliato di firmare un contratto per le antenne sul campanile, assolutamente

CHIARA DE LUCA Come mai?

MICHELE ROSATI - ECONOMO ARCIDIOCESI DI PISA È più diciamo quello che si paga di tasse, di Imu, ecc., di manutenzione eccetera eccetera, che di entrata per la parrocchia.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E se nel piccolo borgo toscano i conti non tornano, a Treviso la diocesi il modo per farli tornare lo ha trovato. Nella città veneta Tim, Vodafone, Wind3 e Illiad hanno installato, attraverso Inwit e Cellnex, le società di telecomunicazioni proprietarie dei dispositivi, le antenne della telefonia mobile su ben cinque campanili: quattro di proprietà della diocesi e uno di proprietà comunale.

PERSONA 1 Sono bellissimi i campanili

CHIARA DE LUCA i campanili sì

PERSONA 1 fino a dieci anni fa dopo hanno cambiato con tutte queste antenne

CHIARA DE LUCA Le antenne!

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dei cinque campanili su cui sono state installate le antenne, quattro sono vincolati dalla soprintendenza e tra questi c’è anche quello del duomo.

FABRIZIO MAGANI – SOPRINTENDENTE ARCHEOLOGIA BELLE ARTI E PAESAGGIO PROVINCIA TREVISO 2019 - 2022 Io ritengo che, di volta in volta, va valutato il progetto di installazione. Quindi, se dovesse essere troppo invasivo, la risposta sarebbe negativa.

CHIARA DE LUCA La tutela, comunque, si sposa bene con l’installazione di queste antenne?

FABRIZIO MAGANI – SOPRINTENDENTE ARCHEOLOGIA BELLE ARTI E PAESAGGIO PROVINCIA TREVISO 2019 - 2022 ma io questo non l’ho detto, anzi, non lo penso proprio

CHIARA DE LUCA Se lei non è d’accordo con l’installazione di queste antenne perché la Soprintendenza ha dato l’autorizzazione all’installazione?

FABRIZIO MAGANI – SOPRINTENDENTE ARCHEOLOGIA BELLE ARTI E PAESAGGIO PROVINCIA TREVISO 2019 - 2022 No, io ho detto, non ho detto che non sono d’accordo dico che sconsiglio, come ha fatto la Cei, di proseguire in questa direzione

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La Conferenza Episcopale Italiana in una nota del 2000, confermata nel 2021, invita i parroci a rifiutare le antenne telefoniche per tutelare l’esclusività del luogo sacro, ma anche perché non conviene: l’installazione implica il pagamento di Imu e imposta sul reddito

CHIARA DE LUCA Qual è la cosa che proprio non tollera?

PERSONA 1 che la chiesa, a dispetto del Codice civile e del diritto canonico, si possa mettere in commercio con i gestori telefonici

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Sul tema la diocesi di Treviso ne sa una più del diavolo: le parrocchie hanno ceduto i campanili in comodato d’uso al comune, che a sua volta ha stipulato il contratto di affitto con le società proprietarie delle antenne. Il comune incassa ma il 60% lo gira nelle casse delle parrocchie. Dal 2015 a oggi il comune ha versato agli enti ecclesiastici più di 350mila euro.

CHIARA DE LUCA Ma perché non avete firmato voi come chiesa il contratto di locazione con il gestore?

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO Appunto perché sarebbe un’entrata diretta, proprio un commercio diretto. Allora l’amministrazione comunale dice beh facciamo un comodato d’uso gratuito.

CHIARA DE LUCA Quindi la chiesa non riceve nulla dal comune

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO con il comodato d’uso gratuito no eh

CHIARA DE LUCA perché da contratto a me risulta, ho letto il contratto, insomma, che la chiesa in realtà riceva un 60 per cento della somma che poi il gestore…

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO È un libero ristoro che l’amministrazione dà

CHIARA DE LUCA E non è libero però

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO Non è libero nel senso che è un accordo

CHIARA DE LUCA È calcolato

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO no, eh sì, calcolato

CHIARA DE LUCA Non è scritto che è un canone di affitto però è un accordo, una somma dovuta su un canone d’affitto

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO È un accordo

CHIARA DE LUCA Sembra quasi un miracolo!

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO Non sapevamo di essere così capaci, insomma. È una possibilità che viene data questo sì, però

CHIARA DE LUCA Conveniente comunque perché

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO Conveniente… Il sacrifico del Signore in croce è un sacrificio conveniente sì perché ci ha salvati tutti

 STEFANO CAPACCIOLI – COMMERCIALISTA – REVISORE CONTABILE Il contratto di comodato è un contratto gratuito. Stipulare un contratto con il nome di comodato quando, in realtà, comodato non è, è già qualche cosa che genera qualche perplessità, qualche dubbio

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Citando papa Pio XI a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina. Sembrerebbe un modo per aggirare il fisco. E infatti a margine dell’intervista il Monsignor Motterlini si fa scappare qualcosa…

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO E non potevamo dire di no

CHIARA DE LUCA Eh beh, sì. Però se vi chiedevano l’Imu dicevate di no

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO Eh beh, per diana

CHIARA DE LUCA Quindi se la sono studiata bene

MAURO MOTTERLINI – VICARIO GENERALE - DIRETTORE UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESI DI TREVISO Eh, scusa… Va ben becchi ma non bastonati!

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma il comune, invece, a che titolo incassa il 40 per cento restante dell’affitto dell’antenne sui campanili?

DARIO CAPOTORTO – AVVOCATO - ESPERTO IN CONTRATTUALISTICA PUBBLICA Non si capisce proprio a che titolo il comune percepisce quella somma così importante perché gli enti pubblici, quando stipulano dei contratti, anche di diritto privato, hanno l’obbligo di chiarire quali sono le finalità che stanno perseguendo

MARIO CONTE - SINDACO DI TREVISO Ma quale è il problema? Non riesco a capire. Cioè, due privati si siedono a un tavolo, ricevono un canone da parte della compagnia telefonica e due privati decidono che il 60 per cento va alla parrocchia il 40 rimane al comune di Treviso

CHIARA DE LUCA però non stiamo parlando di due privati, parliamo di un ente pubblico

MARIO CONTE - SINDACO DI TREVISO Sì, ma c’è un accordo tra il comune di Treviso e la parrocchia

CHIARA DE LUCA nel momento in cui la chiesa produce un reddito, perde l’esenzione fiscale. Avrebbe poi dovuto pagare le tasse al comune

MARIO CONTE - SINDACO DI TREVISO Verifichiamo insieme ai commercialisti delle singole parrocchie se è oggetto o meno di tassazione

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il Comune di Treviso continua a sostenere che, essendo luoghi di culto, non dovrebbero pagare imposte. Non è così. A Pontedera, l’arcidiocesi di Pisa, che ha autorizzato l’installazione delle antenne, incassa un canone e paga le tasse, perché così dovrebbe funzionare. Se metti delle antenne e incassi, dovresti pagare l’Imu e poi anche le imposte sul reddito. Ora, invece, la Diocesi di Treviso cosa si è inventata? Un meccanismo diabolico. Ha affidato in comodato d’uso gratuito i campanili al Comune di Treviso, il quale ha stretto poi degli accordi con le aziende telefoniche e poi gira il 60% di quello che incassa alla diocesi di Treviso. Oltre 350mila euro dal 2015 al 2022. Insomma. E la diocesi non ha pagato un euro di tasse. Alleluia

Abusi Finanziari.

Contro Becciu accuse contraddittorie, ma l'assoluzione non è scontata. Nico Spuntoni il 10 Dicembre 2023 su Il Giornale.

La sentenza sul processo per lo scandalo londinese è attesa in settimana. In dibattimento la difesa del cardinale si è fatta valere, ma basterà?

Tabella dei contenuti

 Un processo che scuote la Curia

 Le accuse

 Le stranezze del memoriale Perlasca

 Che ne sarà di Becciu?

I giorni della prossima settimana sono segnati in rosso in tanti dei calendari della tipografia vaticana appesi alle pareti di case ed uffici in Vaticano. Da martedì 12 a sabato 16, infatti, ogni giorno potrebbe essere quello buono per la sentenza nel processo per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Nonostante gli imputati siano dieci, l'attenzione di tutti è concentrata sul destino del cardinale Giovanni Angelo Becciu che si ritrova davanti al tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone a seguito di una modifica ad hoc dell’ordinamento giudiziario dello Stato della Città del Vaticano voluta dal Papa nell'aprile del 2021.

Un processo che scuote la Curia

Il processo nasce dall'indagine dell'ufficio del promotore partita dopo la denuncia dello Ior e del revisore generale sull'ormai famoso investimento immobiliare fatto dalla Segreteria di Stato a Londra ai tempi in cui l'allora monsignor Becciu era sostituto. Le complicate operazioni finanziarie relative al palazzo di Sloane Avenue, però, si concentrano anche dopo l'estate del 2018, in un periodo in cui Becciu non era più in Segreteria di Stato ma alla guida della congregazione per la causa dei santi. Gli affari economico-finanziari, si è difeso il cardinale in dibattimento, venivano seguiti dall'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Il responsabile di quell'ufficio, ai tempi di Becciu così come in quelli del suo successore Edgar Peña Parra, era monsignor Alberto Perlasca. Quest'ultimo è stato il grande protagonista dell'inchiesta e poi del processo che si avvia alla conclusione: tra i primi sei indagati dall'ufficio del promotore di giustizia nel 2020, ha clamorosamente evitato il rinvio a giudizio nel 2021 dopo essere diventato il teste chiave dell'accusa.

Le accuse

Monsignor Perlasca, spostato dal Papa in Segnatura Apostolica pochi mesi prima che lo scandalo del palazzo divenisse pubblico, è stato il grande accusatore del cardinale Becciu in fase di indagine. Le rivelazioni dell'ex funzionario della Segreteria di Stato iniziarono il 31 agosto 2020 durante un interrogatorio durante il quale depositò all'ufficio del promotore anche un memoriale sulle presunte malefatte del suo ex superiore: non solo Londra, ma anche i bonifici destinati alla società della sua ex collaboratrice - anch'essa imputata - Cecilia Marogna e quelli alla cooperativa sarda riconducibile al fratello del cardinale. Accuse, però, che in udienza lo stesso Perlasca in parte ritratta. Ad esempio sui soldi alla cooperativa Spes di cui era rappresentante legale il fratello di Becciu, Perlasca chiarì al pg vaticano Alessandro Diddi di aver inviato un bonifico di 100 mila euro al conto della Caritas di Ozieri e non a quello della Spes. Il vescovo della diocesi sarda, monsignor Corrado Ozieri, ha testimoniato in udienza l'attività a scopo sociale della cooperativa Spes per trovare occupazione ad ex tossicodipendenti ed ex carcerati, confermando di fatto la versione della difesa del cardinale.

Le stranezze del memoriale Perlasca

La solidità dell'impianto accusatorio contro l'ex sostituto ha dovuto fare i conti nel processo con le non poche contraddizioni del teste chiave e del contesto che lo circondava. In fase di dibattimento, infatti, lo stesso pg Diddi ha ammesso che "monsignor Perlasca ha ricevuto un’imbeccata per redigere quel memoriale". Il monsignore ha confessato che qualcuno gli mandò le domande da cui partì per scrivere il famoso memoriale contro Becciu, tirando in ballo la sua amica Genoveffa Ciferri che lo avrebbe convinto spiegandogli di avere un'interlocuzione in corso con un consulente giuridico. Questa donna è diventata protagonista del processo al punto da inviare, circa un anno fa, un messaggio Whatsapp al promotore di giustizia descrivendo un quadro di forte condizionamento del monsignore. Il messaggio-confessione di Ciferri è passato inosservato nell'opinione pubblica, ma non può essere considerato un dettaglio in un'inchiesta in cui Becciu è finito alla sbarra soprattutto grazie alla testimonianza di Perlasca. La gravità del contenuto ha spinto lo stesso promotore ad aprire un fascicolo ad hoc per ricostruire le ambigue origini del memoriale anti-Becciu del monsignore.

Che ne sarà di Becciu?

Il processo a Becciu, voluto ed autorizzato dal Papa che poi si è augurato di saperlo innocente, si potrebbe concludere con un'assoluzione del porporato sardo? L'andamento della fase dibattimentale farebbero propendere per quest'ipotesi ma inutile dire che quest'esito rappresenterebbe una sconfessione del lavoro della giustizia vaticana, particolarmente attiva sotto Bergoglio. Il primo obiettivo, tuttavia, specialmente per uno Stato in cui ad essere regnante è colui che è anche capo della Chiesa cattolica dovrebbe essere quello di perseguire la verità. Becciu sta scontando una "condanna" già da tre anni: Francesco, infatti, al termine di un'udienza quando l'ex sostituto non era ancora indagato lo indusse a dimettersi da prefetto della "fabbrica dei santi" e a rinunciare ai diritti del cardinalato. Infatti, nonostante abbia 75 anni, il porporato risulta ancora nell'elenco dei non elettori. Se venisse assolto, potrebbe riavere il privilegio di entrare in Conclave? Non è automatico perché così come la punizione non era direttamente legata al processo, anche un'eventuale riabilitazione non lo sarebbe. Inoltre, è stato il cardinale a rinunciare - sia pur su richiesta del Papa - ai diritti del cardinalato: con una sentenza favorevole in mano avrebbe la possibilità di chiedere a Francesco di restituirgli quanto perso nella drammatica udienza del 24 settembre 2020. Nico Spuntoni

(ANSA giovedì 28 settembre 2023) - Al termine della prima delle udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato dedicata alle richieste delle parti civili, l'avvocato Roberto Lipari, che assiste lo Ior, ha chiesto "la condanna degli imputati e l'accertamento delle loro responsabilità penali" e la loro "condanna alla restituzione di quanto illecitamente sottratto". 

"Il soggetto offeso dalle condotte degli imputati è in primo luogo il Santo Padre" essendo stata vanificata la destinazione al Papa dei 700 milioni di euro erogati negli anni dall'Istituto per le finalità del Pontefice e accantonati dalla Segreteria di Stato. Per quanto riguarda il danno subito in proprio dallo Ior, il legale ha inoltre chiesto la liquidazione equitativa del danno morale (plurimo) e di quello reputazionale, quest'ultimo stimato da una perizia in 287.494 euro.

"Sono state distratte somme destinate al Santo Padre per impiegarle in investimenti speculativi - ha denunciato l'avvocato Lipari nelle sue conclusioni -, quindi occorre restituire i fondi al vincolo che avevano e rimetterli nella piena disponibilità del Pontefice per le necessità della Chiesa". "Questi fondi siano depositati presso lo Ior", ha inoltre chiesto il legale. 

"In questo processo abbiamo visto tentativi di arricchimento personale, progetti di estrazione petrolifera in Angola, abbiamo visto il ricorso a strumenti finanziari nei quali l'amministratore di beni ecclesiastici perdeva ogni possibilità di controllo e l'impiego del denaro della Chiesa senza alcun controllo e accuratezza - ha elencato il difensore della parte civile Ior nelle sue quattro ore di arringa -, tutto in gestito in modo autoreferenziale da un monsignore esperto in diritto canonico e un commercialista privo di qualsiasi esperienza in investimenti finanziari. Abbiamo visto l'impiego di soldi senza due diligence, abbiamo visto ricatti estorsivi, abbiamo visto interni solidarizzare con gli estorsori, abbiamo visto ingenti risorse economiche gestite senza tenere conto dei vincoli imposti dai donanti".

Lipari ha ricordato che lo Ior - la cui denuncia al promotore di giustizia, insieme a quella del revisore generale, fece partire l'inchiesta sulla compravendita del palazzo di Londra - si è costituito parte civile per tutti i capi d'imputazione e per tutti gli imputati. Si è quindi soffermato sui vari reati, come il peculato, che "ha offeso il sacrificio di chi ha fornito le offerte alla Chiesa". 

Peculato, tra l'altro, che ha riguardato non solo le offerte dei fedeli, ma anche gli utili messi a disposizione ogni anno dallo Ior e accantonati dalla Segreteria di Stato per la disponibilità del Papa e della Santa Sede. "Non era solo l'Obolo di San Pietro, che non dura - ha spiegato -: quindi o i fondi dello Ior o i lasciti posti a riserva. Questi sono i fondi intaccati dal card. Becciu e da Fabrizio Tirabassi per indebitarsi". 

A proposito del palazzo di Londra, il legale ha parlato di un "investimento incompatibile col diritto canonico". "Quell'investimento nel fondo Athena di Raffaele Mincione non era in linea col profilo dell'investitore - ha sottolineato -. Non solo quello ipotizzato nel petrolio, ma non lo era anche investire in un fondo chiuso in cui tutto il potere è in mano al gestore. La Segreteria di Stato non poteva fare un investimento speculativo, non era un investitore qualificato". Lipari ha anche contestato l'aver ipotizzato l'investimento petrolifero in Angola, considerando "i danni all'ambiente, il fatto che fosse un Paese accusato di mancato rispetto dei diritti umani, e anche i presunti rapporti tra la Falcon Oil e un trafficante d'armi francese, Pierre Falcone".

Sulla corruzione, Lipari si è soffermato sui rapporti tra Mincione ed Enrico Crasso. Sulla truffa, l'ha ricondotta alla "manipolazione del valore dell'immobile, aumentati di 101 milioni di sterline nell'arco di un anno e mezzo" (ha ricordato due perizie stilate lo stesso giorno in cui c'era una differenza di prezzo di 49 milioni di sterline). 

"Perché la Segreteria di Stato doveva pagare 230 milioni, quando Mincione ce l'aveva in bilancio a 208 milioni?", ha chiesto. Infine ha parlato dell'estorsione, relativa alla trattativa con Gianluigi Torzi perché uscisse dalla proprietà, con in questo caso anche il ruolo dell'allora vertice dell'Aif, il presidente René Bruhlart e il direttore Tommaso Di Ruzza, accusati di abuso d'ufficio, "che non hanno solo violato la legge, ma hanno asservito il loro ruolo, ha asservito la funzione pubblica dell'Aif per un fine non lecito". E in definitiva "hanno portato al ridicolo il sistema finanziario vaticano", ha affermato l'avvocato Lipari.

Mario Nanni per beemagazine.it il 3 ottobre 2023.

Il processo in Vaticano al cardinale Giovanni Angelo Becciu, già Sostituto alla Segreteria di Stato poi cardinale e Prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, è entrato nella fase finale, con i primi interventi delle parti civili. Poi seguiranno le arringhe dei difensori, per ultimi parleranno i difensori del cardinale, Maria Concetta Marzo e Fabio Viglione. La sentenza, prima di Natale. 

La ripresa del processo ha segnato un cambio di atmosfera, di toni e di comportamenti processuali. La parte civile che rappresenta per voce dell’avv. Paola Severino la Segreteria di Stato in sei ore di discorso ha dedicato solo dieci minuti alla posizione del cardinale.

La parte civile che rappresenta APSA per voce dell’avvocato Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale, su uno dei capi di imputazione – operazione liberazione della suora – non h chiesto la condanna di Becciu. Si registra insomma, rispetto al furore inquisitorio del promotore di giustizia nella prima parte del processo, un cambio di atmosfera e di atteggiamento verso il cardinale, che fin dall’inizio di questo processo ha respinto tutte le accuse e ha protestato la propria innocenza. 

Sentiamo su questo processo dalla voce autorevole di un sacerdote, ex docente di diritto canonico, oltre che esperto in utroque jure e giornalista, che conosce come pochi le dinamiche interne al Vaticano e il mondo ecclesiastico che idea si è fatto di questo processo. Don Filippo Di Giacomo, la sua esperienza, i suoi titoli, la sua conoscenza del mondo ecclesiastico mi fanno ritenere prezioso un suo contributo per gettare un fascio di luce sul processo che si sta svolgendo in Vaticano al cardinale Giovanni Angelo Becciu. Le vorrei chiedere intanto: può darci un giudizio complessivo su questo processo?

“In questo momento, il processo è nella fase in cui si ascoltano le parti civili. Poi ci saranno le varie arringhe delle difese e quindi si spera che avremo un giudizio finale entro Natale, come ha auspicato anche il presidente del Tribunale Vaticano, Giuseppe Pignatone. 

Forse, solo allora comprenderemo quale codice procedurale è stato applicato, visto che tra leggi vaticane ad personam, leggi italiane mai recepite nell’ordinamento vaticano e improvvisazioni estemporanee, più che un processo, che qualcuno si ostina a definire “del secolo”, sembra una sceneggiata, con interpreti mediocri, dell’Ottocento”. 

Quali le principali anomalie di questo processo?

«Prima di tutto, il processo ha visto l’intervento del Santo Padre con quattro rescritti che hanno, tra le altre cose, aumentato il potere discrezionale del Promotore di Giustizia e ampliato lo spettro delle investigazioni. La seconda anomalia è che si tratta di un processo che in realtà ne include almeno tre al suo interno (la vicenda del palazzo di Londra, quella della cooperativa SPES in Sardegna, quella della sedicente esperta di intelligence, Cecilia Marogna), e dunque si tratta di un processo che rischia di creare confusione su chi sia imputato di cosa e quali siano i capi di accusa. Poi, per quanto riguarda i capi di accusa, sarebbe da definire se alcuni di questi capi di accusa, validi per la normativa vigente in Vaticano, erano validi anche al tempo in cui si sono svolti i presunti fatti.

Come valuta il comportamento processuale del promotore di giustizia e la costruzione delle accuse? 

La cosa che colpisce di più della requisitoria del promotore di Giustizia, Alessandro Diddi, è che sembra sia stata scritta tre anni fa, a procedimento avviato, e senza aver per niente tenuto in considerazione le testimonianze che sono emerse nel corso del dibattimento. 

Secondo il promotore di Giustizia, il suo impianto accusatorio regge. Si può notare, però, che diverse cose sono cambiate in questi mesi di dibattimento, a partire dal ruolo di monsignor Perlasca, considerato una sorta di “super testimone” e ora quasi scomparso dalla scena dopo che alcune testimonianze avevano messo in luce che era soggetto a varie pressioni.

La Segreteria di Stato si è costituita parte civile nel processo contro Becciu, e altri imputati. Ma fu il segretario di Stato cardinale Parolin a dare l’ok per l’operazione compravendita del palazzo di Londra. Come spiega questa contraddizione? 

La Segreteria di Stato ritiene di essere stata danneggiata dalla presunta estorsione del broker Emanuele Torzi e prima ancora dal fatto che il broker Raffaele Mincione, il primo gestore del palazzo, non avesse comunicato che sull’immobile gravava un mutuo. Dunque, al di là dell’ok dato all’operazione di recupero, la Segreteria di Stato ritiene si possa quantificare un danno pecuniario e di avere diritto a un risarcimento. 

Di contraddizioni ce n’è anche un’altra ed è clamorosa: il Santo Padre ha invitato il cardinale Becciu a partecipare al Concistoro e al Sinodo, ritenendolo evidentemente degno. Viceversa, la Segreteria di Stato, il governo centrale della Chiesa fa chiedere dai suoi avvocati di parte civile la condanna del cardinale. Che succede in Vaticano? Siamo alla doppia verità, a un imbarazzante gioco delle parti? 

La Segreteria di Stato non chiede la condanna di Becciu, chiede un risarcimento e non è detto che sia a Becciu, dato che il cardinale è entrato solo all’inizio dei fatti nell’operazione di Londra, per poi scomparire dalla scena quando il suo incarico da sostituto era cessato.

 Ognuno sta cercando di massimizzare il “guadagno”, se così possiamo chiamarlo, del processo. E non è detto che la verità processuale sia la verità dei fatti. Verrebbe da dire: al posto di far portare il cappello a un sostituto solo marginalmente coinvolto nell’affare, andassero a chiedere i danni a chi ha consigliato al Pontefice di chiudere il caso, spiegandoci perché sono stati così pavidi da non opporsi. Probabilmente, si ritroverebbero loro nella necessità di mettere le mani in tasca. 

In questo processo, le 65 udienze finora svolte lo hanno mostrato, sono comparsi personaggi, anche di genere femminile, purtroppo noti alle cronache anche giudiziarie, piuttosto inquietanti, che si sono aggirati in un certo sottobosco vaticano tramando vendette e manovre alle spalle del cardinale Becciu. Com’è possibile che in Vaticano siano lasciati circolare personaggi pregiudicati e di dubbia credibilità, che millantano, e forse anche hanno, frequentazioni delle somme sfere vaticane?

“Il mondo vaticano è un mondo piccolo, dove spesso i sacerdoti fanno i sacerdoti e sono facilmente raggirabili. Molte volte la presenza di personaggi di dubbia provenienza riguarda banali situazioni umane e fiducia mal riposta, non necessariamente una mala fede. Poi quando certe avventuriere, e certi avventurieri del Nuovo e Vecchio mondo, sono chiamate direttamente dal Papa a portare fango dentro le mura leonine…” 

Una domanda questa volta all’avvocato versato in utroque jure: come giudica il comportamento del promotore di giustizia che ha posto gli omissis su oltre cento messaggi whatsapp e mail, che probabilmente avrebbero scoperchiato un vaso di Pandora facendo emergere manovre, maldicenze, spifferi perfino alle orecchie del Papa, sempre contro il cardinale Becciu? 

È la conferma della recita a soggetto, su un copione scritto in anticipo. E comunque va detto che al momento della sua nomina a sostituto, la compagnia di giro che spolpava le casse vaticane era già all’opera, onnipotente, onnipresente e garantita da tutto il cucuzzaro. Il cardinale Becciu ne è stato vittima, non il regista come dice Diddi che oltretutto, per cultura, appartenenza e sensibilità oltre a non sapere cosa sia la Santa Sede ha anche dimostrato ampiamente di essere incapace di distinguere un’Ostia consacrata da un uovo al tegamino.

Sull’animo del credente quale effetto potrà avere lo spettacolo di questo processo, su cui è stata costruita una bolla mediatica, che si è poi sgonfiata ma ha fatto tanti danni e non solo al cardinale? 

Causerà un’enorme confusione tra Vaticano, istituzione strumentale per garantire la libertà del Papa, e la Santa Sede che per sua natura è lo strumento attraverso il quale il Sommo Pontefice esercita il Ministero petrino. Vedere la Santa Sede vaticanizzata, sottomessa cioè ad uno sbrindellato ordinamento statale, è come se il Papa stesse segando il ramo sul quale è seduto. Come sommo pastore della Chiesa, attraverso la Santa Sede, ente morale internazionale, ha rapporti praticamente con il mondo intero. Come capo di uno stato di 46 ettari, con poche centinaia di abitanti, una forma di governo quasi metafisica, senza economia e interscambio commerciale, chi lo prenderà in considerazione?

Nel corso delle 65 udienze le accuse al cardinale Becciu sono giorno dopo giorno miseramente cadute, con carte e testimonianze. E tuttavia il promotore di giustizia è stato insolitamente duro e ha chiesto sette anni. 

Più che altro, direi che quello che colpisce è il fatto che il promotore abbia chiaramente detto che l’unico per cui ha chiesto la pena massima è il cardinale perché il cardinale stesso non si sarebbe pentito ma anzi si sarebbe difeso durante il processo. In pratica, se uno si proclama innocente e cerca di difendersi non ha diritto, secondo questa argomentazione, nemmeno alle attenuanti generiche. Se non facesse piangere, farebbe ridere: un pubblico ministero che secreta le probabili prove favorevoli alla difesa che definisce “brutta persona” un vescovo cardinale della Chiesa davanti al tribunale vaticano. Il bue che dice cornuto all’asino. 

Ci può dare un sintetico profilo del Cardinale Becciu, dell’uomo e del religioso? 

Lo conosco dal 1980 e l’ho sempre considerato un figlio fedele, obbediente e operoso della Chiesa.

Non Le domando come andrà a finire, ma Le faccio una domanda forse irrituale: in tutto questo il Papa, vedendo il disdoro che una vicenda costruita sul nulla sta portando all’immagine della Chiesa, che cosa può fare? O cosa potrebbe fare? 

Una cosa molto semplice: visto che tiene tanto ad essere considerato innanzitutto “Vescovo di Roma”, ci spieghi perché nel caso Becciu, Pell, Barbarin, Aupetit, Voelki e tanti altri, essere cardinali di curia, di un’importante diocesi australiana, primate di Francia, arcivescovo di Parigi, primate di Germania non è mai contato nulla di fronte ad umiliazioni ingiuste e mediaticamente amplificate. Essere Vescovi della Chiesa Cattolica oggi è come ci insegna il Vaticano II oppure dobbiamo aggiornarci al ribasso e al dileggio?

Vaticano, la richiesta a Becciu e ai broker: «Danno d'immagine per 138 milioni». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2023.

La consulenza sul palazzo di Londra e il colpo alla reputazione della Santa Sede: oggi l'udienza  

C’è una perizia che quantifica il danno di immagine subìto dal Vaticano nella compravendita fallimentare del Palazzo di Sloan Avenue a Londra: un affare—patacca che ha fatto sperperare almeno un centinaio di milioni di euro dell’Obolo di San Pietro, destinato ai poveri. Per ripristinare la reputazione della segreteria di Stato serviranno 138,145 milioni. Cifra che la relazione tecnica desume da un calcolo medio dei costi da sostenere con una «campagna reputazionale mirata a riabilitare l’onore intaccato dai reati commessi dagli esponenti dell’istituzione». Costi quantificati in una forchetta fra 98,473 milioni di euro e un massimo di 177, 818. I 138 milioni sono, per gli analisti, la giusta mediazione.

Il Vaticano ne chiede conto a monsignor Angelo Becciu, ex prefetto della Congregazione delle cause dei Santi che, all’epoca, era sostituto per gli Affari Generali della segreteria di Stato. E che ora, dopo la richiesta di condanna da parte del promotore vaticano Alessandro Diddi per abuso d’ufficio, peculato e subornazione di testimone, rischia 7 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, la multa di 10.329 euro e la confisca di 14 milioni di euro. Ma anche ai broker, ai prelati e ai mediatori con lui imputati: monsignor Mauro Carlino, René Brülhart, Enrico Crasso, Tommaso Di Ruzza, Cecilia Marogna, Raffaele Mincione, Nicola Squillace, Fabrizio Tirabassi, Gianluigi Torzi.

Il danno

Oggi l’avvocato di parte civile, Paola Severino, chiederà per conto della Santa Sede il risarcimento di quel danno di immagine che nella consulenza viene analizzato nel dettaglio «su 50mila contenuti stampa, web e audio video, usciti tra il 1 ottobre 2019 e il 13 Aprile 2023 e la pianificazione di linea di intervento per contrastarli». Secondo i periti questa strategia «dovrebbe basarsi sulla divulgazione delle fasi del processo durante il quale non è mai stato messo in dubbio che la Segreteria di Stato — deputata a gestire le risorse, tra cui l’Obolo — è parte lesa. Vittima della condotta spregiudicata di chi ha sperperato milioni in operazioni rischiose e affidate a consulenti che avevano di mira soltanto i loro interessi».

Tra questi l’accusa indica due personaggi che in una chat del 3 dicembre 2018, finita agli atti del processo, ironizzano sull’inganno subito dal Vaticano. «Mi sto domandando, ma questa operazione come c... l’ho pensata???». «Ahahaha e chi c... lo sa!!! Probabilmente hai avuto un’ispirazione ...DIVINA».

L’intrigo

A parlare sono Gianluigi Torzi titolare della società Gutt S.A. sospettato di aver tirato un «pacco» alla Segreteria di Stato «cedendo 4mila azioni dell’immobile e tenendone per sé le 1000 che avevano diritto di voto nel consiglio di amministrazione della società che aveva la proprietà dell’immobile londinese». E di aver approfittato della situazione «esponendo a forti rischi l’investimento al punto che il nuovo sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, Monsignor Edgar Pena Parra, per seguire l’input di Papa Francesco di voltare pagina al più presto e ricominciare da capo fu costretto a sborsare altri 15 milioni per la restituzione del Palazzo». L’interlocutore è l’avvocato Squillace che al monsignore era stato presentato come legale di parte della Segreteria di Stato, dal successore di Becciu e suo predecessore Perlasca. Salvo però scoprire che quell’avvocato lavorava in realtà per Torzi, tramite lo studio Libonati-Jaeger.

Il pagamento 

Un’altra chat conferma il legame tra Torzi e Mincione. Il 20 settembre 2018 alle 7.26 Torzi scrive Mincione: «Qualunque sia l’esito e lo sforzo che questa avventura ancora richiederà ti volevo ringraziare. Le avventure fatte con questo spirito sono divertenti e vanno nella profondità delle persone che molte volte in questo lavoro non riusciamo a percepire!» E Mincione replica: «È con queste avventure che si cimentino (sic) le amicizie e io ti considero già un grande amico». Il 29 novembre la «avventura» per i due volge al bello. Torzi invia a Mincione la prova del pagamento ricevuto di 40 milioni di sterline. Mincione esulta: «Sti c...». Torzi gli fa eco: «Boooooom, ahahaha». L’altro soggiunge: «Non sembrano pochi». E giù altre risate con Torzi che rincara: «Oh, so veri. Ahahahaha».

Da “il Giornale” martedì 12 settembre 2023 

Caro Direttore Feltri, mi permetto anzi di chiamarla Vittorio, dato che in tanti anni l’ho sentita in confidenza con i miei pensieri e sentimenti, anche e soprattutto quando mi pareva di essere in minoranza anche in famiglia. 

Volevo domandarle, visto che se n’è occupato negli scorsi anni, del cardinale Becciu e se lo ritiene ancora innocente dopo due anni di processo. Dopo che era stato trattato da tutti, tranne che da lei, come un mostro, il coro tace. È morto e non ce lo dicono? Se fossi capace di farlo con il computer, a questo punto aggiungerei una faccina con lacrime che simboleggiano le risate...

Arcangelo

Risposta di Vittorio Feltri

Caro Arcangelo, mi risulta che il cardinale Becciu, che di nome fa Angelo, e pertanto inferiore a lei nella gerarchia celeste, sia vivo vivissimo. Ed è un fatto miracoloso, che papa Francesco dovrebbe far valutare dalla commissione dei medici di Lourdes. Tanto più che il prelato sardo è riuscito a sopravvivere alla mazzata che improvvisamente gli diede lo stesso Pontefice argentino, nel settembre del 2020 senza neppure dargli la possibilità di difendersi, cosa che non si usa neppure in Italia. 

In diretta mondiale la reputazione di quest’uomo fu appesa al pennone più alto della barca di Pietro, con i corvi a cavargli gli occhi. Questa unanimità pelosa mi indusse subito a dubitare della colpevolezza dell’oggetto di un trattamento tipico dei linciaggi nel Far West. Esaminai le notizie, risalii alle presunte prove, e mi resi conto della loro inconsistenza, bugie frutto di invidia, dalle quali si era fatto ingannare Bergoglio, nel caso molto assistito da consiglieri pelosi ma poco dallo Spirito Santo. 

Credo che l’ex arcivescovo di Buenos Aires abbia avuto modo di rendersi conto della sua troppo umana precipitazione, e abbia manifestato segni di aver recuperato stima e affetto per il suo collaboratore. E che però dopo aver dato via libera alla macchina della tortura non abbia più trovato il modo di fermarla. In compenso Becciu è, dicevo, vivo.

A essere morta è piuttosto tutta la schiera di fucilatori che i primi tempi si schierarono in plotone compatto sparandogli alla schiena, e trattandolo da ladro della peggior specie. Il contrario cioè di Robin Hood e nel caso specifico di Frate Tuck, che fungeva da cappellano dell’allegra brigata. Infatti l’Eminenza cui furono lasciati il titolo e la porpora, ma - quasi a sottolineare la beffa e lo sfregio - senza alcun potere, tra cui quello importantissimo di entrare in conclave, era stato accusato e immediatamente condannato dal Vicario di Cristo per aver rapinato i soldi destinati da Sua Santità ai poveri. Il tutto per ingrassare sé stesso e i suoi parenti.

Dopo tre anni dalla esibizione della sua testa tagliata e due dall’inizio del processo, siamo alla fase finale, e non credo ci sia nessuno che osi pensarlo colpevole, dopo aver assistito allo spettacolo indecente e volgare dei (delle!) testimoni d’accusa e alla violenza verbale da tribuno della plebe del pubblico ministero. 

Il 27 settembre – se sono bene informato – riprenderà il dibattimento, e avranno voce le parti civili. Sarebbe tragico proprio per la credibilità del Pontefice e del suo tribunale che la Segreteria di Stato, che è espressione diretta del Papa, chiedesse la condanna del Cardinale, con ciò sottoponendo il Tribunale ad una pressione tale da inficiarne in qualsiasi sede internazionale la credibilità. Infine toccherà alla difesa.

L’accusa, dopo aver ottenuto dal Papa di cambiare le regole in corso di indagine, per incastrare più facilmente l’imputato, non ha trovato un solo centesimo nelle tasche di Becciu, e i centomila euro destinati alla Caritas di Ozieri dall’allora sostituto alla Segreteria di Stato, restano lì intatti, pronti per essere usati a fin di bene dal vescovo. 

Eppure c’è una richiesta di condanna a sette anni e tre mesi di carcere, francamente troppo poco se davvero ritenesse Becciu un traditore del Papa a scopo di lucro, ma adeguata a marchiarlo come capro espiatorio per il cattivo uso delle finanze vaticane, tra l’altro consumatosi a Londra quando ormai Becciu non aveva più alcun potere in materia.

Il mio timore è che accada come capitò a Enzo Tortora.

Condanna in primo grado, assoluzione in appello, e morte dell’innocente. Gli esperti di affari di curia mi dicono che un contentino alla turba famelica dei colpevolisti, se non altro per giustificare l’enorme risonanza del caso, sia inevitabile sia data. Un piccolo graffio, come premessa della grazia papale. Sono certo, conoscendo il carattere sardo dell’uomo, in questo somigliante al mio carissimo amico Francesco Cossiga, che il cardinale si consegnerebbe serenamente ai carcerieri non so se dotati di alabarda svizzera o schiavettoni da gendarmi di Torquemada.

Mi ero ripromesso, davanti all’uso sfacciato della vicenda e del nome di Enzo, di non citarlo più. Ma chiedendo scusa ai suoi cari, e confidando nei sentimenti anticlericali ma laicamente cristiani del grande perseguitato che sono certo mi avallerebbe, faccio appello nella memoria di Tortora al sentimento di giustizia che di certo anima il presidente del Tribunale Vaticano, dottor Giuseppe Pignatone. Se lo Spirito Santo c’è, me Lo saluti.

(ANSA il 19 luglio 2023) - Secondo quanto è stato conteggiato, l'operazione dell'acquisto del Palazzo di Sloane Avenue 60, a Londra, "ha determinato un danno alla Segreteria di Stato fra i 139 milioni e i 189 milioni di euro, a seconda degli scenari da prendere in considerazione". 

Lo ha detto il promotore di giustizia Alessandro Diddi nella seconda giornata (su sei) della sua requisitoria al processo in corso in Vaticano. "Questo è il risultato di questa brillante operazione - ha ironizzato -: una voragine enorme, per di più fatta in spregio alle regole della costituzione apostolica Pastor Bonus sulla Curia romana e alle norme del Codice canonico".

Diddi ha voluto ricordare anche il discorso di papa Francesco sulla gestione dei beni ecclesiali che invitata alla "parsimonia", che richiamava alla "cautela nella gestione delle cose altrui" e all'atteggiamento "da buon padre di famiglia". Nel corso della requisitoria, il pg vaticano ha ricostruito come si è arrivati a investire nell'immobile di Londra e a "sperperare da 139 a 189 milioni di euro delle risorse della Segreteria di Stato".

E ha ricordato che "questa vicenda ha una data di inizio ben precisa , il 12 ottobre del 2012, quando arrivò in Segreteria di Stato la lettera della Falcon Oil dell'imprenditore Mosquito che proponeva l'investimento petrolifero in Angola". "Ci sono tante richieste di contributi che arrivano in Segreteria di Stato - ha osservato Diddi -. Ma questa non era un'opera di carità. Era di per sé un'operazione speculativa, e l'Obolo di San Pietro non può essere impiegato per finanziare operazioni di questo genere".

Mosquito era persona conosciuta dal cardinale Angelo Becciu almeno da 14 anni, da quand'era nunzio in Angola, e successivamente finanziò anche attività del fratello. in ogni caso, "la Falcon Oil non era una delle normali operazioni di conservazione dei beni della Segreteria di Stato". Tant'è vero che la svizzera Ubs non diede il finanziamento 'Lombard' richiesto. Lo diede invece il Credit Suisse, grazie a i buoni auspici dell'ora co-imputato Enrico Crasso. 

"Ma a che serviva un'operazione di credito Lombard se i soldi li hai già e così vai a pagare un mutuo? E' questa la diligenza da buon padre di famiglia?", ha chiesto il promotore di giustizia. "Era un'operazione rischiosissima - ha aggiunto - tant'è vero che otto mesi dopo stavano già sotto di mezzo milione di euro".

Come è noto, anche con la consulenza del broker Raffaele Mincione, l'investimento nella Falcon Oil non andò in porto per lo sfavorevole rapporto rischio-rendimento, e al suo posto si decise di mettere i soldi nel palazzo di Sloane Avenue, accogliendo la proposta proprio di Mincione. 

La valutazione fu di 230 milioni di sterline, e tanto pagò la Segreteria di Stato per sottoscrivere il fondo Gof di Mincione, che però quel palazzo lo aveva acquisito appena un anno e mezzo prima per 129 milioni di sterline, quindi secondo Diddi era chiaramente "sopravvalutato". Inoltre, "è stata fatta la scelta di investire in un immobile che si sarebbe dovuto rivalutare (fino a 489 milioni si euro, ndr) con l'immissione di altri capitali della Segreteria di Stato: e questa era un'operazione commerciale, e totalmente al di fuori delle norme del Codice canonico".

Per il magistrato dell'accusa, tra l'altro, "la parte più esilarante del processo - così l'ha definita - è quella della difesa da parte di Mincione dei numeri con cui ha venduto per due volte l'immobile di Londra". E qui è stato elencato un vero e proprio balletto di cifra sulle valutazioni del Palazzo fatte nel corso degli anni, anche con notevoli alti e bassi.

La verità sul processo a Becciu è nei verbali. Così è stato imbeccato il superteste Perlasca. Sette anni e tre mesi di reclusione all'ex sostituto della Segreteria di Stato monsignor Giovanni Angelo Becciu per aver eseguito gli ordini. Felice Manti il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Sette anni e tre mesi di reclusione all'ex sostituto della Segreteria di Stato monsignor Giovanni Angelo Becciu per aver eseguito gli ordini. Presumibilmente entro fine anno sapremo se il presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone darà ragione al Promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi o se il sedicente «processo del secolo» sui fondi della Segreterie di Stato si sgonfierà definitivamente. Presto parleranno le parti civili: staranno con lui o contro? Vedremo.

Dai verbali delle 67 udienze è emersa l'assoluta innocenza del cardinale, sia per la compravendita dell'ex magazzino di Harrod's a Londra, sia per la cattiva gestione di una parte dei soldi destinati alla liberazione di una suora. Becciu ha fatto sottoscritto decisioni prese da altri, portate avanti senza dinieghi dal Vaticano e senza conseguenze per i successori. La colonna portante dell'accusa era il famoso memoriale del grande accusatore di Becciu, monsignor Alberto Perlasca, che si è scoperto essere stato «suggerito» dall'amica di famiglia Genoveffa Ciferri e da Francesca Chaouqui, l'ex consigliera di Papa Francesco finita alla sbarra (e graziata) per il caso Vatileaks.

Basta leggere i tanti balbettii di Perlasca dalle trascrizioni del controesame, come nell'udienza del 25 e del 30 novembre 2022. Solo sei dei 126 messaggi tra le due donne, inviati a Diddi dopo il controesame di Perlasca, è stata risparmiata dagli omissis. Perché? Nel suo primo interrogatorio 29 aprile 2020 si capisce che pressione aveva subito dall'Ufficio del Promotore, tra minacce di sequestri e revoca della cittadinanza vaticana.

Un altro capitolo lo meritano i contributi erogati alla Diocesi di Ozieri per la cooperativa Spes che distribuisce il pane e che da lavoro a sessanta persone in un contesto di importante disagio economico e occupazionale, di cui si è dimostrato l'utilizzo solo per finalità di natura solidale e caritatevole (100mila euro sono ancora sul conto della Caritas). Durante le indagini a carico di Antonino Becciu (fratello del cardinale) nel territorio dello Stato italiano, è intervenuta la Gendarmeria vaticana. A quale titolo? Lo Stato ha autorizzato i Gendarmi a prendere parte alle procedure di perquisizione eseguite a Ozieri? Non ci risulta. Il fratello di Becciu è stato citato senza il rispetto delle procedure rogatoriali, un prete è stato sanzionato e incriminato per rifiuto di atti legalmente dovuti a fronte di una citazione illegittima. Ma il colpevole deve essere uno solo.

(ANSA il 19 luglio 2023) - "Il cardinale Becciu è stato l'ispiratore dell'operazione Falcon Oil in Angola, un'operazione che già di per sé aveva il carattere del peculato, e soprattutto era l'antefatto di un unico disegno". Ma in particolare, poi, "quella del Palazzo di Londra era la 'sua' operazione, prese le mosse da lui".

Lo ha detto il promotore di giustizia Alessandro Diddi nella seconda giornata della sua requisitoria nel processo in corso in Vaticano. Secondo il Pg, c'era anche la "regìa" del card. Becciu anche nell'offerta per l'acquisto dell'immobile londinese presentata dal fondo americano tramite la cordata dell'ex sottosegretario Giancarlo Innocenzi Botti e dell'ex ambasciatore Giovanni Castellaneta, accompagnata da "una ricostruzione totalmente falsa per far costringere la magistratura che stava operando a fermarsi e risolvere la questione sul piano extragiudiziale".

Estratto dell’articolo di sardiniapost.it il 23 luglio 2023.

“Il Promotore continua a raccontare fatti sul mio conto totalmente lontani dalla realtà, che respingo con forza cosi come respingo ogni singola accusa. Nessuna esclusa. E lo faccio per amore di verità”. Così il cardinale, Angelo Becciu, in una lunga dichiarazione spontanea all’inizio della 64° udienza del processo in corso sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato in Vaticano, la seconda dedicata alla requisitoria dell’accusa.

“Ancora, mi si accusa con veemenza di aver impedito che il cardinale Pell e la Segreteria per l’Economia (Spe) effettuassero dei controlli sull’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato: ribadisco che il denaro amministrato dalla Segreteria di Stato costituiva il Fondo sovrano del Papa dai tempi di Paolo VI (e da allora mantenuto riservato), non rientrava nel bilancio consolidato della Santa Sede e di esso si rendeva conto solamente al Pontefice e al segretario di Stato ogni sei mesi”.

“Il cambiamento delle prerogative della Segreteria di Stato che la ponevano al di sopra degli altri Dicasteri non poteva deciderlo il sostituto, come fatto intendere da Diddi, ma solo e soltanto il Santo Padre. La prova? È stato necessario un ‘motu proprio’ per mutare natura e competenze della Segreteria di Stato”, ha proseguito Becciu. 

“Il professor Diddi insiste innanzitutto sui 50 milioni annui donati dallo Ior al Papa per le necessità della Sede Apostolica e depositati nei conti della Segreteria di Stato, manifestando dubbi sul loro utilizzo”, ha spiegato l’ex sostituto per gli Affari generali, aggiungendo: “Quando arrivai in Segreteria di Stato questa tradizione era già consolidata e ricordo che la somma era ripartita tra Radio Vaticana, Osservatore Romano e Nunziature Apostoliche“.

“Sugli investimenti, è come se il promotore di giustizia mi avesse scambiato con il capo ufficio dell’Amministrazione della Segreteria di Stato, mentre ho svolto il ruolo di sostituto”, ha fatto notare. Infatti, “tutte le attività che Diddi ha attribuito a me le doveva svolgere e la ha svolte il capo ufficio, monsignor Perlasca. Nessuno tra chi ha avuto a che fare con il Palazzo di Londra ed è intervenuto in questo processo ha fatto il mio nome. 

Il promotore mi ha attribuito responsabilità che non avevo: mi sono sempre uniformato ai dossier preparati dall’ufficio e controfirmati da mons. Perlasca, e così anche per il Palazzo di Londra, semplicemente perché mi era stato presentato calorosamente come un affare vantaggioso per la Santa Sede. Se mi avessero presentato un minimo di svantaggi avrei certamente bocciato la proposta. L’autorizzazione a investire le somme depositate nell’Ubs di Lugano mi fu comunque data dall’allora segretario di Stato, card. Bertone”.

“Circa l’investimento nella Falcon Oil – ha detto ancora Becciu -, mi sono limitato a parlare a mons. Perlasca di questa proposta, affinché ne verificasse eventuali vantaggi, precisando che nel rispondermi non avrebbe dovuto guardare la mia faccia e tantomeno la mia amicizia con chi proponeva il progetto”. Quella proposta fu infatti poi bocciata, “a riprova che gli investimenti venivano decisi dall’Ufficio amministrativo e da me solo ratificati”. 

“Il promotore più volte mi ha accusato di non essermi comportato da ‘padre di famiglia’ nell’amministrazione dei beni della Santa Sede, ma respingo con fermezza anche questa accusa. Ne è prova quanto accaduto con il card. Pell, sebbene mi spiaccia menzionare un defunto: mentre molti pensavano che i nostri rapporti talvolta aspri fossero causati dalla mia opposizione alle sue riforme, in realtà cercavo solo di far notare che queste comportavano costi esorbitanti per la Segreteria di Stato. Ciò dimostra che quando vedo cose errate non ho paura di affrontare le persone e di far correggere le storture, perché per me viene prima il bene della Chiesa e della Santa Sede, nel cui esclusivo interesse ho sempre operato”, ha aggiunto il cardinale.

“Immaginate – ha quindi concluso su Pell – che al segretario personale fatto venire dall’Australia assegnò 25 mila euro al mese, alla sua segretaria 12 mila euro, come pure fece venire un funzionario dall’Apsa dove prendeva 2.500-3.000 euro e gli assegnò 9 mila euro. Non potevo stare zitto, perché il segretario di Stato aveva emanato una circolare in cui si bloccavano scatti di anzianità e assunzioni del personale vaticano”. […]

Estratto dell’articolo di Silvia Stucchi per “Libero quotidiano” lunedì 14 agosto 2023

Dici “IOR” e subito in chi ascolta si fanno strada una serie di luoghi comuni, dicerie di torbidi intrighi e ricchezze smisurate della “Banca del Papa”. Ma, per chi vuole saperne davvero di più, in modo storicamente fondato, c’è ora il bel saggio di Francesco Anfossi, IOR. Storie, vizi e virtù della Banca vaticana dagli inizi a Marcinkus, (Edizioni Ares, 232 pp., 16,80 euro), con prefazione di Agostino Giovagnoli. 

Anfossi, caporedattore di Famiglia Cristiana, fin dal suo lavoro di tesi in Storia si occupa delle finanze vaticane, e nel volume ricostruisce la storia dell’Istituto per le Opere Religiose (questo il senso dell’acronimo IOR), a partire dalla sua fondazione.

Infatti, dopo i Patti Lateranensi, il neocostituito Stato vaticano aveva bisogno, e diritto, come tutti gli Stati, di disporre di un istituto per regolare i suoi affari finanziari senza ricorrere ai servizi di banche estere. 

Anfossi smentisce anche un’altra parte della “leggenda nera” che ammanta lo Ior: non si tratta nemmeno di una banca munificente, dato che, in una ipotetica classifica delle prime 100 banche italiane per attivo patrimoniale, lo Ior si collocherebbe agli ultimi posti, sesta dal fondo. 

La “colossale ricchezza”, con cui si riempie la bocca chi si accoda a una certa “leggenda nera” goticheggiante, spesso alimentata dalla stampa anglosassone, sta tutta in questa dimensione: parafrasando Papa Francesco, potremmo definire lo Ior una banca “povera per i poveri”. 

Certo, parte dell’aura leggendaria che lo avvolge viene anche dalla sua sede, a partire dal 1938: il Torrione di Niccolò V, la fortezza rinascimentale che sorge davanti al Palazzo Apostolico, scelta perché in quella sede i furti erano pressoché impossibili.

Il libro è basato non solo sulla vastissima bibliografia esistente, ma anche su documenti inediti reperiti grazie alla desecretazione dell’Archivio di Stato di Parma, che custodisce le carte del Fondo Casaroli, oltre a conversazioni con economisti, consulenti, dipendenti e dirigenti dell’Istituto vaticano [...] 

Cuore del saggio sono però, i capitoli 7-10: il settimo capitolo è dedicato a Monsignor Marcinkus attraverso documenti inediti, in ordine ai legami con Sindona e Calvi; mentre i capitoli 8-10 ripercorrono le vicende del crack dell’Ambrosiano, visto dall’interno del Vaticano.

Come afferma Agostino Giovagnoli, storico di comprovata obiettività, agli occhi dell’opinione pubblica appare «sovradimensionato il carattere “criminale” di molte azioni compiute da uomini che hanno gestito le finanze della Santa Sede. Il caso del Banco Ambrosiano è eloquente: non sembra che Marcinkus partecipasse davvero alle trame criminali di Calvi, e non è impossibile che la sua fiducia sia stata tradita» (p. 16). 

 Ma certo, conclude Giovagnoli, questo non è affatto un titolo discolpatorio giacché «fidarsi di personaggi inaffidabili è stato un errore che chi amministra i soldi delle Chiesa non può permettersi. L’allora presidente dello Ior ha comunque esposto la Santa Sede e più in generale la Chiesa a pericoli molto grandi e ne ha danneggiato fortemente la credibilità, come sottolineò il Cardinal Martini. E dal profilo di Marcinkus emerge una forte componente di mondanità, che secondo Papa Francesco è, nella Chiesa, il più grave dei peccati»

[…] L’undicesimo capitolo, attraverso le carte del Fondo Casaroli, ricostruisce i fatti sfociati nel cosiddetto “accordo di Ginevra”, l’indennizzo di 250 milioni di dollari alle banche creditrici dell’Ambrosiano. Dopo l’accordo di Ginevra, a salvare con la sua liquidità lo Ior e le casse Vaticane fu nientemeno, pochissimi lo sanno, che Madre Teresa di Calcutta. 

Le origini delle Ior sono state legate alle urgenze della carità e della evangelizzazione, specialmente durante la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Purtroppo, guerre ed emergenze umanitarie non sono finite: e ciò spiega, annota Giovagnoli, perché l’autonomia finanziaria della Santa Sede e una gestione che spesso non può rispondere a regole rigidamente prefissate in anticipo rappresentino una necessità, se si vuole che sia possibile operare azioni straordinarie in situazioni straordinarie e non prevedibili. [...]

Cosa c'è di vero nella "leggenda nera" di Marcinkus. Lo Ior nacque per garantire autonomia finanziaria alla Chiesa. Ma la percezione cambiò quando la banca finì coinvolta nel crac Ambrosiano. Un libro aiuta a fornire una lettura particolare agli 80 anni dell'istituto e del più noto Monsignor Paul Casimir Marcinkus. Nico Spuntoni il 16 Luglio 2023 su Il Giornale. 

Nel racconto mediatico prevalente non c'è Vaticano senza mistero. E non c'è mistero vaticano senza Ior. Queste tre lettere hanno assunto dagli anni '80 ad oggi un'accezione negativa per l'opinione pubblica mondiale che le associa al potere, alla ricchezza e alla scarsa trasparenza. Ma è davvero così?

Perché lo Ior?

Una risposta ha provato a darla, con una seria ricostruzione storica, Francesco Anfossi nel suo libro Ior. Luci e ombre della Banca vaticana dagli inizi a Marcinkus (Edizioni Ares). Il volume contiene delle curiosità finora inedite che hanno conquistato in questi giorni l'attenzione dei giornali e che hanno testimoniato come nelle stesse gerarchie ecclesiastiche dell'epoca non ci fosse una difesa granitica della storica dirigenza della banca di fronte agli scandali che la travolsero negli anni '80.

Ma al di là di questi particolari più pruriginosi, il libro riesce proprio a smontare e ridimensionare tante leggende nere sullo Ior. Partendo dall'origine e dalle finalità.

L'Istituto per le Opere di Religione - questo il nome completo - venne fondato il 27 giugno 1942 da papa Pio XII. Non è una banca pur essendo chiamato a svolgere servizi bancari. Lo Ior non ha azionisti e l'utile ricavato va appunto in favore di Opere di religione. Quest'organismo finanziario venne pensato proprio, nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, proprio per mettere la Chiesa al riparo dagli scossoni internazionali e garantirle autonomia. A questa logica risponde la decisione di connotarlo sin dall'inizio come ente centrale della Chiesa cattolica e dunque da non confondere con la Curia Romana da cui è distinto.

Le finanze vaticane in generale riuscirono ad avere un margine di libertà in quegli anni difficili come sottolinea il professor Agostino Giovagnoli ricordando il ruolo di Bernardino Nogara, storico capo della Speciale, l'antesignana dell'odierna Apsa, nata per gestire i soldi sborsati dallo Stato italiano all'indomani della firma dei Patti Lateranensi come risarcimento. "Fu l’ingegnere Nogara, presumibilmente su sollecitazioni di Pio XII, a trovare i lingotti mancanti ai 50 chili d’oro richiesti dai nazisti alla comunità ebraica romana, pena la deportazione di duecento ebrei", scrive Giovagnoli nella premessa.

La figura di Marcinkus

Monsignor Paul Casimir Marcinkus è forse uno dei prelati più noti al grande pubblico. Il suo nome viene abitualmente ricondotto agli scandali del crac del Banco Ambrosiano e alla parabola di Michele Sindona, il finanziere siciliano che finì la sua vita in carcere dopo aver bevuto un caffè al cianuro. La fama di Marcinkus ha fatto sì che spesso il suo nome finisse anche in cronache giudiziarie che nulla c'entrano con lui. Nel libro di Anfossi emerge un ritratto caratteriale già conosciuto, seppur senza gli eccessi circolati per metterlo in connessione con fatti di cronaca.

Chi lo ha visto a lavoro negli anni della presidenza dello Ior racconta di ricordarselo con i "piedi sulla scrivania e la bottiglietta di Coca Cola in mezzo alle carte". Trovano conferme le voci sulla sua passione per sigari cubani e per il golf, a cui si aggiungono anche gli stornelli romani e le canzoni del reuccio Claudio Villa. Di Marcinkus risultano i legami con Calvi e Sindona e il coinvolgimento dell'Istituto nelle operazioni dei due come dimostrano le partecipazioni nella Banca Privata e nel Banco Ambrosiano.

Tuttavia, vengono sfatate alcune leggende nere: ad esempio viene derubricata a millanteria di Sindona la rivendicazione di aver avuto un ruolo nel far nominare Marcinkus alla guida dello Ior nel 1971. Il finanziere di Patti, in effetti, aveva già rapporti con l'Istituto avendo dato consulenze strategiche per liberarsi di alcune partecipazioni non più redditizie.

Chi lo volle in quel ruolo dove, pare, l'arcivescovo americano non voleva andare? Don Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, è uno dei sospettati di aver aiutato la carriera di Marcinkus ma lui stesso anni dopo sostenne che Montini non avrebbe voluto nominarlo e che ad insistere fu l'allora potentissimo sostituto alla Segreteria di Stato, il futuro cardinale Giovanni Benelli che però dopo il crac Ambrosiano scrisse al suo superiore, il cardinale Agostino Casaroli, per chiederne le dimissioni.

Ad avvicinare Calvi e Sindona allo Ior è l'ambizione di dare un profilo internazionale alle loro rispettive banche sfruttando l'immagine del Vaticano. Fu Sindona a presentare Marcinkus a Calvi, ma quest'ultimo a un certo punto ne divenne l'interlocutore privilegiato a dispetto del finanziere di Patti caduto in disgrazia. Non a caso, nel processo americano pr il crac della Franklin Bank, l'allora presidente dello Ior si rifiutò di testimoniare in favore di Sindona. Più tardi, quando i guai giudiziari toccarono a Calvi, i dirigenti dell'Istituto chiusero le porte ai nuovi vertici dell'Ambrosiano che tiravano in ballo le lettere di patronage concesse dallo Ior a Calvi a garanzia della situazione debitoria di alcune società estere controllate dal Banco, facendo leva su delle altre lettere firmate dal banchiere milanese che esonerava da ogni responsabilità l'Istituto.

La vicenda del crac Ambrosiano fu all'origine anche di uno scontro tra Italia e Santa Sede con la dura reprimenda dell'allora ministro del Tesoro, il cattolico Beniamino Andreatta. Quest'ultimo chiese 1.159 milioni di dollari allo Ior. Ma dal Vaticano si contestò la responsabilità attribuita allo Ior e alla fine, senza il consenso di Marcinkus, si decise di versare 250 milioni di dollari come contributo volontario e non come risarcimento. Giovagnoli nella sua premessa al libro di Anfossi rileva come "il caso del Banco Ambrosiano è eloquente: non sembra che Marcinkus partecipasse davvero alle trame criminali di Calvi e non è impossibile che la sua fiducia sia stata tradita dal 'padrone' dell’Ambrosiano". Tuttavia non si nasconde la responsabilità dell'arcivescovo americano di essersi fidato di figure come il banchiere milanese e Michele Sindona.

La leggenda dei soldi a Solidarnosc

Solidarnosc è il sindacato anticomunista di Lech Walesa fondato negli anni Ottanta in Polonia che trovò l'appoggio del connazionale più famoso, Giovanni Paolo II. Da anni, proprio questa vicinanza con il Papa santo è stata all'origine della leggenda di finanziamenti arrivati dallo Ior nelle casse dell'organizzazione clandestina ai tempi del blocco sovietico. Tuttavia, sia Marcinkus che il segretario di Karol Wojtyla, il cardinale Stanislao Dziwisz, hanno negato questa circostanza. Lo stesso Lech Walesa ha, sì, affermato che la Chiesa polacca probabilmente finanziava il sindacato, ma ha anche precisato di ignorare da dove arrivassero quei soldi. Angelo Caloia, successore di Marcinkus alla presidenza dello Ior, ha detto all'autore del libro che "in realtà non c’è traccia che i finanziamenti a Solidarnosc siano passati dallo Ior".

Marcinkus, in ogni caso, smentendo l'invio di finanziamenti al sindacato ci tenne a dire "se l’avessi veramente fatto, meriterei, vista la piega degli avvenimenti poi presa, una medaglia d’oro". Il presidente più chiacchierato della storia dell'Istituto terminò i suoi giorni terreni a Sun City, in Arizona, dove celebrava messa la domenica per gli emigrati lituani come lui. L'epilogo fu senza medaglie d'oro: Marcinkus percepiva una pensione dal valore di 2000 euro nostrani e fu costretto a chiedere una donazione di 10mila dollari all'Istituto di cui fu presidente per potersi sottoporre ad un'operazione chirurgica in vecchiaia.

(ANSA il 13 luglio 2023) - "Un rinnovo al vertice dello Ior nel silenzio di questi anni non avrebbe significato ammissione di colpevolezza, ma semplicemente la volontà di riportare l'opera nei suoi fini iniziali". 

A scrivere queste parole per chiedere la rimozione del presidente della banca vaticana Paul Casimir Marcinkus dopo il crack dell'Ambrosiano è l'arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini in una lettera datata 6 marzo 1987 all'allora segretario di Stato della Santa Sede Agostino Casaroli.

La lettera inedita, conservata nell'archivio personale dell'allora segretario di Stato Agostino Casaroli, è uno dei documenti tratti dal volume di Francesco Anfossi "Ior, luci e ombre della banca vaticana", edito da Ares, di cui Famiglia Cristiana pubblica un'anticipazione. 

Si parla anche di un'altra missiva inedita, quella dell'arcivescovo di Firenze Giovanni Benelli, che cinque anni prima, a pochi mesi dalla morte, aveva scritto la stessa richiesta a Casaroli: "Lungi da me giudicare. Ma, anche ammesso che monsignor Marcinkus sia del tutto esente da colpa e abbia anzi compiuto con diligenza il suo ufficio, esiste oggi, ed è molto forte, l'odium plebis, che colpisce certi comportamenti, forse innocui in altri tempi, ma non più oggigiorno, e non risparmia né le persone né le istituzioni a ogni livello. È insomma un aspetto pastorale grave che mi permetto di sottoporre alla sua più alta e illuminata considerazione".

 Nell'articolo anche un'altra importante rivelazione tratta dal volume: l'accordo sull'indennizzo da parte del Vaticano alle banche creditrici del Banco Ambrosiano di 250 milioni di dollari fu avallato da Giovanni Paolo II in una riunione segreta che si tenne a Castel Gandolfo nell'agosto 1983 alla presenza del Pontefice, del segretario di Stato Agostino Casaroli, del sostituto alla Segreteria di Stato Eduardo Martinez Somalo, dell'allora assistente di Wojtyla Stanislav Dziwisz e dello stesso Marcinkus. 

 L'Istituto vaticano si riprese presto da quello "shock" finanziario grazie anche alla liquidità garantita dai conti di Madre Teresa di Calcutta, prima depositante per entità. Dunque tre anni dopo l'accordo detto di Ginevra (la città dove venne firmato), anche Martini, sconcertato, si domanda come mai Marcinkus fosse ancora al suo posto.

"In particolare il 'cristiano medio' dell'area milanese - scrive il cardinale - nella quale molte persone hanno perso i loro risparmi a causa della bancarotta del Banco Ambrosiano per la quale viene ora asserita dalla pubblica accusa la complicità di monsignor Marcinkus, si chiede se sia opportuno che persone colpite dal mandato di cattura debbano ancora occupare i loro posti di responsabilità, col rischio di una condanna per imputazioni gravissime (molti detenuti oggi nelle carceri italiane per fatti valutari lo sono per cause assai minori)".

Estratto dell’articolo di Agostino Giovagnoli per “Avvenire” il 13 luglio 2023.

Nel volume “Ior”, edito da Ares, Francesco Anfossi firma un’articolata indagine sull’istituto vaticano basata anche su documenti inediti Il ruolo di Marcinkus e i suoi rapporti con Sindona e Calvi La prefazione è dello storico Giovagnoli 

Quando si parla di Ior si pensa soprattutto alle vicende che più lo hanno esposto all’attenzione mediatica, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso o più recentemente. Ma questo singolare istituto finanziario ha una lunga storia: fondato nel 1942, ha raccolto in realtà un’eredità che affonda le sue radici negli ultimi decenni dell’Ottocento. Con efficace stile giornalistico Francesco Anfossi ne racconta le vicende, intrecciando con vivacità il racconto degli eventi e le leggende che ne accompagnano il ricordo, gli scandali presunti e quelli veri. […] 

La comparsa di monsignor Paul Marcinkus ai vertici dello Ior aprì invece un’altra stagione, molto più turbolenta. Il prelato americano «è stato persino accusato di aver ordito l’assassinio di Giovanni Paolo I e di essere coinvolto nel rapimento di Emanuela Orlandi». 

La strada dello Ior si intrecciò anzitutto con quella di Michele Sindona, di cui questo libro tratta ampiamente. Ma è soprattutto ai rapporti con Roberto Calvi e con il Banco Ambrosiano che Francesco Anfossi dedica la sua attenzione, utilizzando una documentazione inedita conservata nelle carte del cardinale Agostino Casaroli. 

La vicenda del Banco Ambrosiano si concluse tragicamente con il suicidio della segretaria di Calvi e la morte a Londra dello stesso banchiere, che venne trovato impiccato a un’impalcatura sotto il Blackfriars Bridge. Fu una vicenda oscura, in cui entrarono – nota Anfossi – Licio Gelli e la loggia P2, Umberto Ortolani, Francesco Pazienza e Flavio Carboni. 

Si trattò della «più grave deviazione di un’importante istituzione bancaria rispetto alle regole della professione verificatasi in un grande Paese industriale in questi ultimi quarant’anni», disse allora il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta.

Questi divenne uno dei principali protagonisti degli sviluppi che ne seguirono, tra cui uno scontro inedito tra lo Stato italiano e la Santa Sede. 

Il ministro democristiano, infatti, prese nettamente posizione contro quest’ultima e affermò che esisteva una corresponsabilità dello Ior nella mala gestione della più importante banca privata italiana, chiedendo al Vaticano di pagare l’ingente cifra di 1.159 milioni di dollari. Tutto ciò mise in seria difficoltà la Santa Sede e Casaroli avviò un’approfondita indagine interna per chiarire che cosa fosse effettivamente avvenuto. 

[…] Marcinkus respinse le accuse, spiegando che l’Istituto aveva concesso alcune “lettere di patrocinio” a Calvi per frenare ulteriori debiti e ulteriori finanziamenti alle società. Invece Calvi aveva utilizzato tali lettere per scopi ben diversi, tradendo la fiducia di Marcinkus. Il nome dell’Istituto «era stato utilizzato per la realizzazione di un progetto occulto, che all’insaputa dell’Istituto stesso collegava ad un unico fine operazioni che, se considerate singolarmente, avevano l’apparenza di essere regolari e normali» (...).

Casaroli, però, non si accontentò dell’autodifesa di Marcinkus e accettò di creare una commissione mista italo-vaticana. Per tutta la prima metà del 1983, all’interno della Santa Sede si svolse un’approfondita discussione. 

Venne anche effettuata una missione per visitare le sedi delle società collegate all’Ambrosiano a Lima, nelle Bahamas, in Nicaragua e per parlare con i diretti interessati, esaminare i bilanci, capire gli intrecci della rete che aveva fatto capo a Calvi.

Il 17 agosto i tre membri vaticani della commissione mista, Pellegrino Capaldo, presidente del Banco di Roma, monsignor Renato Dardozzi, brillante ingegnere divenuto sacerdote in età adulta, e l’avvocato Agostino Gambino, già difensore della Banca Privata di Sindona, inviarono al Segretario di Stato un promemoria, informandolo che difficilmente si sarebbe giunti «ad un univoco consenso nell’accertamento della verità». 

Ma prefigurarono notevoli danni d’immagine per la Santa Sede a causa di quella vicenda e sollecitarono Casaroli a un componimento amichevole della questione. Il segretario di Stato accolse questi suggerimenti e, nonostante il parere contrario di molti cardinali, si convinse che fosse necessario trattare con lo Stato italiano pur senza ammettere responsabilità dell’Istituto. Nello stesso mese di agosto 1983 si svolse a Castelgandolfo una riunione alla presenza del Papa, Giovanni Paolo II. A parte Marcinkus, tutti i partecipanti si espressero per l’indennizzo proposto da Casaroli e il Papa approvò la decisione.

Nell’autunno successivo, la Commissione presentò un documento finale con le differenti conclusioni dei sei commissari: due dei tre esperti italiani concludevano per una responsabilità da parte dello Ior, mentre il terzo non espresse un giudizio altrettanto netto; i tre consulenti vaticani espressero invece una posizione favorevole allo Ior. 

Ma ormai la decisione era già stata presa. La questione Ambrosiano-Ior venne chiusa il 25 maggio del 1984, a Ginevra, quando le parti stabilirono di addivenire a un accordo «in uno spirito di reciproca conciliazione e collaborazione». 

Lo Ior si impegnò a pagare 250 milioni di dollari, non a titolo di risarcimento ma coatto di «contributo volontario». Benché conclusa con un accordo, la vicenda segnò una sorta di spartiacque nelle relazioni tra Santa Sede e Stato italiano, influenzando molto anche le vicende successive delle finanze vaticane. 

La documentazione utilizzata da Anfossi spinge a ritenere che le responsabilità dello Ior fossero meno evidenti di come le aveva ritenute Andreatta presentando la banca vaticana come “un socio di fatto” dell’Ambrosiano (...). 

La vicenda ebbe uno strascico giudiziario nel 1987 quando i giudici istruttori di Milano spiccarono un mandato di cattura contro Marcinkus, Mennini e Pellegrino De Strobel accusati di concorso in bancarotta fraudolenta nel crac dell’Ambrosiano. 

La Segreteria di Stato chiese al cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, di informarsi discretamente sulle ragioni di quella decisione. Martini riferì senza commenti che per i giudici era un “atto obbligato” e riportò i dubbi di tanti circa l’opportunità che «persone colpite da mandato di cattura [continuassero a occupare] i loro posti di responsabilità, col rischio di una prossima condanna per imputazioni gravissime» e lamentò che non fossero già state sostituite in precedenza (...).

Probabilmente Casaroli non fu del tutto insensibile alle argomentazioni di Martini, ma gestì in modo soft il cambiamento ai vertici dello Ior. Li “congelò”, infatti, nel timore che un avvicendamento brusco sarebbe stato interpretato come un’implicita ammissione di responsabilità. 

Ma contemporaneamente fece passare le leve del comando a una Commissione di cardinali e a un Consiglio di Sovrintendenza di laici competenti, preparando così una successione che avrebbe sancito la fine dell’epoca dei prelati alla sua guida. […]

I “forzieri” della Chiesa sono generalmente sovradimensionati, perché intorno alle “ricchezze del Papa” tendono sempre a svilupparsi molte fantasie e leggende. Sovradimensionato appare spesso anche il carattere “criminale” di molte azioni compiute da uomini che hanno gestito le finanze della Santa Sede. 

Non va ovviamente escluso che ci sia stato tra di loro chi ha effettivamente avuto comportamenti criminali. Ma spesso ci si trova davanti ad altri problemi. Il caso del Banco Ambrosiano è eloquente: non sembra che Marcinkus partecipasse davvero alle trame criminali di Calvi e non è impossibile che la sua fiducia sia stata tradita dal “padrone” dell’Ambrosiano (...) Il caso Marcinkus suscita però altri comportamenti anch’essi molto gravi. Fidarsi di personaggi inaffidabili come Sindona o Calvi è stato un errore che chi amministra i soldi della Chiesa non può permettersi. 

Anche la pervicacia di Marcinkus nell’escludere qualunque sua responsabilità, anche involontaria, non depone a suo favore. L’allora presidente dello Ior ha comunque esposto la Santa Sede e più in generale la Chiesa cattolica a pericoli molto grandi e ne ha danneggiato fortemente la credibilità, come sottolineava il cardinale Martini […]

Negli ultimi decenni si è cercato di ovviare alle difficoltà che venivano così a crearsi attraverso una sorta di “normalizzazione” delle finanze vaticane, uniformandole il più possibile a standard internazionali. È una tendenza comprensibile, che rischia però di sacrificare le peculiari finalità di tali finanze. […] 

Quei 655 milioni di euro che l’Italia regala alla Chiesa cattolica grazie a una clausola dell’8 per mille. Grazie a una norma del Concordato i finanziamenti dello Stato italiano sono superiori a quanto decidono i contribuenti con l’8 per mille. Ma il Vaticano si è sempre rifiutato di cambiarla. Sergio Rizzo su La Repubblica il 23 marzo 2023.

Con 655 milioni di euro si possono fare un sacco di cose. Come aumentare di mille euro all’anno lo stipendio di tutti gli insegnanti delle scuole statali. O finanziare l’acquisto di 3 milioni di tablet per i nostri studenti. Oppure coprire abbondantemente per un anno intero la spesa sanitaria della Regione Molise e dei suoi 305 mila abitanti. Invece quella somma la regaliamo tutti gli anni al Vaticano. Conosciamo l’obiezione dei diretti interessati: “Regalare” non è il termine esatto. Non lo è per il semplice fatto che lo prevede una legge dello Stato italiano. Una legge approvata dal parlamento nel maggio 1985, governo di Bettino Craxi. È il provvedimento che ha recepito nel nostro ordinamento la revisione dei Patti Lateranensi firmati da Benito Mussolini e Pietro Gasparri, segretario di stato di Pio XI, nel 1929.

Con quella legge targata Craxi il finanziamento della Chiesa cattolica è stato affidato alla libera scelta dei contribuenti. Con l’8 per mille delle loro tasse. Tutto chiaro, all’apparenza. Quando si presenta la denuncia dei redditi basta esprimere la scelta compilando un piccolo modulo con il quale la somma viene destinata a una delle diverse confessioni religiose ormai riconosciuta, la Chiesa ovviamente in cima a tutte, oppure in alternativa allo Stato.

C’è però nell’articolo 47 una clausola diabolica: aggettivo non esattamente consono alla materia, ma che rende bene l’idea. «In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse», stabilisce il terzo comma.

Ecco in concreto come funziona e attenti ai numeri, anche se vi gira la testa. I contribuenti che compilano il modulo per assegnare l’8 per mille sono da sempre una minoranza. I dati del 2022, che si riferiscono alle dichiarazioni dei redditi del 2018 parlano di circa 17 milioni, cioè il 41,2 per cento del totale. Ed è ovvio che in un Paese cattolico come il nostro chi decide di finanziare la Chiesa ne rappresenti la maggioranza. Sono circa 13 milioni, il 77,5 per cento di quel 41,2 per cento di contribuenti.

Il gettito complessivo dell’8 per mille nello stesso anno ha raggiunto un miliardo e 434,3 milioni. Ne discende, sempre se la matematica non è un’opinione e supponendo un valore medio delle denunce dei redditi, che al Vaticano dovrebbe andare con l’8 per mille una somma di 456,5 milioni, cioè il 77,5 per cento del 41,2 per cento. Che sarebbe, a conti fatti, meno di un terzo del totale. La Chiesa ha incassato invece un miliardo 111 milioni 579.111 euro, pari a oltre i tre quarti dell’intero gettito.

Come si spiega? Con il fatto che grazie a quel comma anche la parte dell’8 per mille che nessuno ha destinato, ed è la fetta più grossa (oltre il 58 per cento), va comunque ripartita. E si ripartisce in proporzione delle «scelte espresse». Ciò significa che pure il 77,5 per cento di chi non ha deciso di finanziare la Chiesa cattolica sarà costretto a farlo a sua insaputa. Sono ben 19 milioni di contribuenti, moltissimi dei quali probabilmente convinti che non esprimendo alcuna scelta i soldi sarebbero rimasti all’Erario. Come la logica suggerirebbe. Ma qui la logica è diversa. E il Vaticano ovviamente ringrazia per i 655 milioni l’anno in più garantiti da quel comma del nuovo Concordato. Alla faccia del libero arbitrio.

Di tanto in tanto si leva qualche flebile voce per far presente l’assurdità di quel comma della legge approvata dal parlamento al tempo del governo Craxi. Ma cade regolarmente nel vuoto. L’ha fatto la Corte dei Conti, ripetutamente, senza successo. Alcuni politici, soprattutto i radicali, con il medesimo risultato. Nel dicembre del 2015 il Fatto quotidiano chiese al futuro capo delle finanze vaticane, monsignor Nunzio Galantino, se non fosse arrivato il momento di accettare di lasciare allo Stato la quota dell’8 per mille non sottoscritta. «Non sono d’accordo. La Chiesa restituisce quei fondi decuplicati in termini di vicinanza, servizi e solidarietà», rispose lui risoluto.

Nessun dubbio. A parte il fatto che ogni tanto salta fuori qualche sgradevole caso di piccole malversazioni, e qui i vertici dell’attuale papato si mostrano risoluti. «Quando sento di casi di religiosi che si intascano soldi destinati alla carità, provo il vivo prurito di costituirmi parte civile in un processo a loro carico: non si possono calpestare né i poveri né i fedeli in questo modo, che getta fango su vescovi e preti esemplari. La Chiesa deve chiedere i danni», è la tesi di monsignor Galantino.

E per non parlare del ruolo degli intermediari delle denunce dei redditi che qualche volta si sostituiscono al contribuente nella scelta, circostanza sgradevole e niente affatto isolata. Una indagine condotta dall’Agenzia delle entrate sulle dichiarazioni del 2014 e 2015 ha riscontrato, racconta una relazione della Corte dei Conti, «casi di interferenza nel processo decisionale dei contribuenti e un numero significativo di infedeli trasmissioni dei dati da parte dei Centri di assistenza fiscale». Si è scoperto che per prassi consolidata alcuni Caf “consigliavano” semplicemente ai contribuenti che si rivolgevano a loro la destinazione dell’8 per mille alla Chiesa cattolica.

Il fatto è che anche senza questi presunti condizionamenti i soldi sono diventati davvero tanti. Ormai il doppio, o giù di lì, rispetto a 25 anni fa. Nel 1994 si toccò il record di 702 miliardi di lire, pari a 675 milioni di euro attuali, mentre da un decennio a questa parte si supera, e talvolta di slancio, il tetto del miliardo di euro. E questo nonostante la quota dell’8 per mille destinata dagli italiani alla Chiesa tenda a diminuire sempre più.

Lo Stato sa bene che quei soldi sono decisamente troppi. Anche in considerazione dello stato non certo esaltante dei nostri conti pubblici. L’ha fatto anche presente, più d’una volta, al Vaticano. Chi negoziò con la Chiesa all’inizio degli anni Ottanta, pur concedendo quella clausola folle in contrasto con il principio della libertà individuale stabilito dalla nostra Costituzione, si rendeva però conto dei rischi che avrebbe comportato. Infatti l’articolo 49 stabilisce che ogni tre anni una commissione paritetica debba procedere a una revisione del meccanismo. Peccato che da quando la commissione ha debuttato niente è mai cambiato.

Il verbale dell’ultima riunione di questo comitato di cui si abbia notizia è allegato a una relazione della Corte dei conti del 2018. Ma risale al 19 ottobre 2016, ed è assolutamente istruttivo.

Il capo delegazione del governo italiano è il luminare delle relazioni fra Stato e Chiesa Francesco Margiotta Broglio, già componente della commissione che mise a punto il nuovo Concordato, affiancato dal professor Carlo Cardia e dalla direttrice delle Finanze Fabrizia Lapecorella. E prova a saggiare la resistenza della controparte. «Tenuto conto degli anni trascorsi dall’entrata in vigore della legge del 1985 ritiene di dover proporre che venga concretamente discussa l’opportunità di una revisione della quota dell’otto per mille in vista di una sua riduzione quantitativa», fa mettere a verbale. Ma monsignor Galantino, che capeggia la delegazione vaticana, risponde cortesemente picche: «Considerato il risultato ampiamente positivo del sistema (…) non si ravvisano ragioni per valutare positivamente la proposta». Amen. Risponde picche anche alla richiesta di non utilizzare più i soldi dei contribuenti italiani per finanziare alcune attività, come i tribunali ecclesiastici e i «mezzi di comunicazione sociale». Cioè, banalmente, l’impiego di quelle risorse anche per la pubblicità.

E la cosa finisce così, più di sei anni fa. Nel frattempo gli incassi dell’8 per mille continuano a galoppare. Ingrossando i rivoli di denaro che dallo Stato italiano contribuiscono a mantenere gli apparati ecclesiastici. Non parliamo dei finanziamenti ai giornali, come i 2,7 milioni di contributi pubblici al quotidiano della Conferenza episcopale Avvenire, o i 3 milioni a Famiglia cristiana delle Edizioni Paoline: sono cifre perfino modeste, in rapporto ai fiumi di soldi dei contribuenti che vanno a pubblicazioni assai meno socialmente utili.

C’è poi la questione dell’imposta comunale sugli immobili della Chiesa, che si trascina da tempo immemore con il contributo della Commissione europea, che ci ha messo oltre un decennio per intimare allo Stato italiano di recuperare le somme dovute all’Erario. Ma solo per il periodo dal 2006 al 2011.

E quanti sanno che dal 1973 l’Inps paga anche le pensioni dei preti? All’Istituto nazionale di previdenza c’è un fondo apposito creato da un governo democristiano. Esattamente il secondo presieduto da Giulio Andreotti, e la legge istitutiva porta la firma del cattolicissimo Dionigi Coppo, uno dei fondatori del sindacato cattolico Cisl. Si chiama Fondo clero e perde decine di milioni l’anno. A fronte di entrate contributive per 31 milioni, le pensioni ne costano ogni anno 74. Ragion per cui il fondo ha accumulato un disavanzo patrimoniale di 2,3 miliardi: aumentato in 25 anni dell’89 per cento. Nel 2015 una verifica interna ha consentito di appurare non senza sorpresa che il 72 per cento dei circa 11.900 religiosi pensionati gode anche di una seconda pensione. Nessuno però è ancora riuscito a risolvere il mistero per cui gli iscritti al Fondo clero siano esentati dalle restrizioni previste dalla legge Fornero.

Da open.online su La Repubblica il 23 marzo 2023.

La Diocesi di Bologna ha incassato 71,3 milioni di euro. Ma non si tratta di elemosine. Si tratta degli utili della Faac, multinazionale bolognese dei cancelli automatici. Nella seduta che ieri ha approvato il bilancio, il cda ha preso atto delle dimissioni dell’amministratore delegato Andrea Marcellan per seguire un’altra opportunità professionale e ha deciso di attribuire tutte le deleghe al presidente Andrea Moschetti che sarà affiancato da un nuovo assetto organizzativo al vertice della società.

La Faac ha chiuso il 2022 con ricavi consolidati di 657 milioni (+12,2%) e le previsioni per il 2023 sono di ulteriore crescita, anche sulla base di un solido portafoglio ordini già acquisito. L’azienda è stata donata alla Curia in punto di morte dall’imprenditore Michelangelo Manini. Oggi alla guida della Chiesa di Bologna c’è il capo dei vescovi italiani, il cardinale Matteo Maria Zuppi, noto anche come il vescovo dei poveri perché viene dalla comunità di Sant’Egidio. Quest’anno i poveri di Bologna non avranno problemi di cibo.

Estratto dell'articolo di Iacopo Scaramuzzi per “la Repubblica” il 16 marzo 2023.

Rassicurazioni puntuali e circostanziate, scritte ed evidenziate in rosso. Ma false. È su questa base che monsignor Edgar Peña Parra, successore di Angelo Becciu come Sostituto della Segreteria di Stato, alla fine accettò di rilevare il 100% della proprietà del palazzo di Londra al centro del processo in corso in Vaticano.

 Una strada, poi rivelatasi un vicolo cieco, imboccata dopo aver sollevato molti dubbi, chiesto molti chiarimenti, e averne ricevuti da chi gli era stato presentato come avvocato della Segreteria di Stato ma rappresentava, al contempo, la controparte, il broker Gianluigi Torzi, oggi imputato nel tribunale dello Stato pontificio.

 Quando l’arcivescovo venezuelano, che oggi viene ascoltato in aula come testimone, arriva a Roma, a ottobre del 2018, la Segreteria di Stato ha già acquistato una quota del palazzo di Sloane avenue 60 e lo gestisce tramite una società del finanziere Raffaele Mincione. Un’eredità pesante.

Una manciata di settimane dopo il suo arrivo, il 22 novembre, il capo dell’ufficio amministrativo, monsignor Alberto Perlasca, lo avverte dell’«alto rischio di perdita totale dell’investimento» e gli prospetta di rilevare l’intera proprietà. Operazione, secondo Perlasca, da realizzare nel giro di una settimana.

 Peña Parra vuole vederci chiaro. Chiede la documentazione e scopre – prima sorpresa – che Perlasca ha già firmato, lo stesso 22 novembre, due contratti, un “Framework Agreement” e uno “Share Purchase Agreement”, con la società Gutt Sa di Torzi. I dubbi del nuovo Sostituto si infittiscono. Prende carta e penna e invia ai sottoposti una lunga serie di obiezioni su entrambi i contratti.

L’attenzione di Peña Parra si appunta su due aspetti: il ruolo di Torzi e la curiosa decisione di attribuire al broker molisano mille azioni della Gutt Sa, mentre la Segreteria di Stato è titolare delle altre 30 mila senza diritto di voto.

 Il 27 novembre gli arrivano le risposte, dattilografate in rosso. I due documenti, che sono agli atti del processo e che Repubblica ha potuto visionare, sono prodighi di rassicurazioni. A Torzi, «saranno conferiti i poteri di ordinaria ma non di straordinaria amministrazione »; il broker «continuerà ad essere amministratore di Gutt ma non rappresentante della Santa Sede». Quanto alle mille azioni, esse «hanno la mera funzione di consentire da parte del soggetto terzo l’amministrazione della società Gutt Sa. Tutti i diritti economici sono della Segreteria di Stato». I diritti di amministrazione «saranno condivisi con il Consiglio di amministrazione nel quale è rappresentata la Segreteria di Stato».

Confortato da queste rassicurazioni, Peña Parra procede. Informa i suoi superiori, ossia il cardinale Pietro Parolin e il Papa, e paga. Firma, spiega il monsignore in un memoriale a sua volta depositato agli atti il 13 aprile 2021, «esclusivamente in ragione delle rassicurazioni ricevute».

 Ma qualcosa non quadra. Passa meno di un mese e monsignor Perlasca, senza spiegazioni, vuole rescindere il contratto. Monsignor Peña Parra lo convoca, ma Perlasca è inspiegabilmente partito per le vacanze di Natale. Il Sostituto convoca allora un suo sottoposto, Fabrizio Tirabassi, che a sua volta chiede chiarimenti a un esperto della materia, l’ingegner Luciano Capaldo. Viene fuori — ed è la seconda, grossa sorpresa — che la Segreteria di Stato, come scrive Peña Parra a posteriori, «aveva di fatto acquistato una scatola vuota».

Torzi aveva trasformato la natura delle azioni: «In realtà la Segreteria di Stato aveva acquisito 30 mila azioni senza diritto di voto, rimettendo l’esercizio di tale diritto esclusivamente in capo al Torzi». Che arriva a espellere il rappresentante della Segreteria di Stato dal cda. Perlasca aveva offerto a Torzi la proprietà del palazzo «su un piatto d’argento».

 A stilare le rassicurazioni a Peña Parra era stato l’avvocato Nicola Squillace, «che all’epoca la Segreteria di Stato vedeva come il proprio legale», nota Peña Parra, ma più tardi si scopre che «lavorava in effetti per Torzi». È la terza sorpresa.

Il seguito della vicenda è noto: il Papa suggerisce di «voltare pagina e ricominciare da capo», viene pagato Torzi, gli avvocati consigliano alla Segreteria di Stato di riacquistare in proprio il palazzo, Peña Parra chiede uno stanziamento straordinario allo Ior che, insospettito, denuncia la vicenda alla magistratura vaticana. Si apre il processo. Il danno complessivo è stimato tra i 65 e i 135 milioni di euro. […]

(ANSA il 9 marzo 2023) - Nella 50/a udienza del processo in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, è stato ascoltato oggi, tra gli altri, come testimone d'ufficio citato dal Tribunale il comandante della Gendarmeria Gianluca Gauzzi Broccoletti.

 Il capo dei Gendarmi vaticani ha risposto in particolare sull'incontro da lui avuto insieme al commissario Stefano De Santis, la sera del 3 ottobre 2020 in casa del cardinale Angelo Becciu. "Fu lui a chiamarmi prima tramite messaggio e poi a invitarmi perché preoccupato per gli articoli di stampa che stavano uscendo e, dopo una riunione in Segreteria di Stato, lo raggiunsi a casa sua insieme a De Santis - ha riferito -. In quei momenti la stampa era molto assidua e pressante sul caso del Palazzo di Londra e altre vicende.

C'erano articoli che parlavano anche della possibilità di dazioni di denaro della Segreteria di Stato ai testimoni che accusavano il cardinale George Pell in Australia di abusi sessuali".

 "Ma io, con l'obiettivo di aiutare e sostenere il card. Becciu - ha proseguito Gauzzi - sentiii la necessità di esporgli la situazione riguardante Cecilia Marogna, perché erano arrivate carte dalla Slovenia su un utilizzo diverso e improprio delle somme che le erano state trasmesse".

"Ora - ha continuato -, sulla vicenda di Pell o sui soldi alla cooperativa Spes di Ozieri il cardinale parve molto distaccato, non particolarmente turbato. Ma quando toccai l'argomento Marogna si piegò, si mese quasi in ginocchio, con le mani sul viso. 'Se uscirà questo argomento provocherà un grave danno per me e per i miei familiari!', disse. E anche in altre occasioni sostenne. 'se fossero uscite quelle notizie mi avrebbero ucciso'".

 Secondo Gauzzi, "il cardinale espresse la volontà di rifondere il denaro utilizzato dalla Marogna tramite una sua dazione volontaria". Alla domanda del difensore da Becciu, avvocato Fabio Viglione, se il cardinale aveva detto ai due dirigenti della Gendarmeria che potevano parlare di quell'incontro, Gauzzi ha risposto che "non si è parlato del fatto che il colloquio dovesse rimanere riservato. Tra l'altro, all'epoca il cardinale non era neanche oggetto d'indagine".

Al termine dell'udienza, il card. Becciu, però ha replicato con una dichiarazione spontanea. "Certamente le affermazioni del comandante Gauzzi non mi hanno soddisfatto, sono rimasto piuttosto amareggiato - ha detto -. Gauzzi mi disse di tenere riservato l'incontro, me lo disse. Io non ne parlai con nessuno. Egli mi disse che il truffato ero io, e che non era giusto che ripagassi io le spese della signora Marogna".

"Io chiesi anche - ha continuato - del perché mi accusavano di peculato per i 100 mila euro alla cooperativa Spes e i 600 mila euro giunti dalla Cei. 'Perché lei ha condizionato la decisione della Cei, mi fu risposto. Io non parlai solo della Marogna. Se mi scaldai è perché quello era un segreto. Me lo disse pure il Papa e mi dispiaceva che ne potesse parlare tutto il mondo".

 "Non fu solo quello il problema per cui mi scaldai - ha ribadito il card. Becciu -. Il comandante mi disse 'lei è il truffato'. Sono rimasto amareggiato per quanto ha detto oggi. Sono certo che il Tribunale saprà pensare anche a queste prospettive, quando dovrà stabilire qual è la verità. Devo ammettere con grande rammarico che si è incrinata la mia fiducia nel comandante Gauzzi. Ma, pur nella sofferenza, non gli porterò rancore. Sono sacerdote, e portato a comprendere le debolezze altrui. E sempre a perdonare".

Fausto Gasparroni per l’ANSA il 9 marzo 2023.

Con una lettera del 24 luglio 2021 - la stessa data in cui fu registrata la telefonata col Pontefice - il cardinale Angelo Becciu chiese a papa Francesco di firmargli due dichiarazioni essendo "accusato dai magistrati di aver imbrogliato Lei sia per la vicenda della Suora colombiana, sequestrata in Mali, sia per la proposta di acquisto del Palazzo di Londra che Le presentai a nome di un Fondo Americano".

Alla lettera allegò anche due dichiarazioni con la richiesta al Papa di firmarle, cosa che però Francesco si è rifiutato di fare. Il carteggio è stato letto oggi nell'aula del processo dal promotore di giustizia Alessandro Diddi, riferendo di averlo ottenuto in un colloquio con la "Suprema autorità". Nonostante l'opposizione di alcune difese, il carteggio è stato ammesso dal Tribunale, presieduto da Giuseppe Pignatone, agli atti del processo. "Io dovrei citarLa come Testimone nel Processo, ma non mi permetterei mai di farlo, tuttavia ho bisogno di due Sue dichiarazioni che confermino come siano avvenuti i fatti (vedi Allegati)", scriveva Becciu al Papa nella lettera.

 "Circa la questione della liberazione della Suora colombiana io mi sento legato al Segreto di Stato per ragioni di sicurezza internazionale, mi dica Lei però se devo ritenerlo tale o se mi scioglie da esso e mi rende libero di rispondere a qualsiasi domanda che mi verrà fatta in Tribunale".

Nel primo allegato, dal titolo "Liberazione ostaggio", il Pontefice secondo la richiesta di Becciu avrebbe dovuto sottoscrivere "dichiaro che S.E. Mons. Angelo Becciu, allora Sostituto della Segreteria di Stato, fu da me autorizzato a procedere per la liberazione di Suor Goria Narvaez Argoti, di nazionalità colombiana. A tal fine egli fu autorizzato a recarsi a Londra per contattare un'agenzia specializzata in intermediazione. Dichiaro di aver approvato la somma necessaria per pagare gli intermediari e quella fissata per il riscatto.

 Per l'intera operazione ho richiesto assoluto riserbo e segretezza e nel momento in cui S.E. Mons. Pena Parra entrò in funzione di Sostituto, provvidi ad informarlo e ad autorizzarlo a seguire la pratica". Col secondo allegato, "Offerta Palazzo di Londra", il Papa avrebbe dovuto dichiarare "che nel giugno 2020 il Card. Angelo Becciu venne da me a riferire una proposta, ricevuta da parte dell'On. Giancarlo Innocenzi Botti, relativa alla Proprietà Immobiliare sita in Londra.

Ritenendo la proposta interessante, chiesi al cardinale di riferirla al Rev. Padre Guerrero Alves, Prefetto della Spe, e a S.E. il Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato, per le valutazioni di rispettiva competenza, rimettendosi al loro giudizio". Ma Francesco, nella sua risposta via lettera del 26 luglio 2021 - vigilia dell'inizio del processo -, spiega a Becciu che in una precedente lettera del 21 luglio sperava "di aver chiarito la mia posizione negativa sulle dichiarazioni che intende farmi sottoscrivere" sulla liberazione dell'ostaggio e sull'offerta per il palazzo di Londra da parte di Innocenzi Botti, "Evidentemente sono stato da Lei frainteso".

 Inoltre, aggiunge il Pontefice, "in particolare, circa l'opposizione del vincolo di segretezza, ribadisco che l'affidamento di denaro ad un intermediatore, per gli aspetti opachi emersi secondo la tesi accusatoria, non può essere coperto da Segreto di Stato per ragioni di sicurezza, né suscettibile di apposizione del segreto pontificio".

D'altra parte, nella precedente lettera del 21 luglio - che Becciu chiedeva al Papa di dichiarare "nulla" in vista del processo - Francesco scriveva che la proposta presentata da Innocenzi Botti per rilevare il palazzo di Londra "mi parve subito strana per i contenuti, le forme e i tempi scelti", e "la mia originaria perplessità si rafforzò ulteriormente quando compresi che l'iniziativa in questione era, tra l'altro, indirizzata ad interferire, con effetti ostativi, con le indagini dell'Ufficio del Promotore di Giustizia.

 La complessiva valutazione di tali elementi mi indusse ad esprimermi in senso negativo sul proseguimento dell'iniziativa". Per quanto riguarda invece le somme di denaro inviate dalla Segreteria di Stato alla società slovena di Cecilia Marogna, il Papa ne parlava come di "estemporanei ed incauti affidamenti di risorse finanziarie distratte dalle finalità tipiche e destinate, secondo le tesi accusatorie, a soddisfare personali inclinazioni voluttuarie. In tal contesto comprenderà bene come non sia possibile l'apposizione di alcun segreto pontificio".

Estratto dell’articolo di Francesco Capozza per “Libero quotidiano” il 10 febbraio 2023

Ieri mattina il Papa ha ricevuto in udienza ufficiale, nel suo studio di rappresentanza al Palazzo Apostolico, il cardinale Angelo Becciu.

 […] non tanto per l’eccezionalità dell’evento – i due si erano già visti varie volte negli ultimi due anni – ma per l’ufficialità del luogo. Una vera e propria riammissione a Palazzo che il cardinale ha voluto in qualche modo sottolineare parlando con le agenzie di stampa che, come prevedibile, lo hanno immediatamente contattato dopo l’incontro: “Sì, stamattina ho incontrato il Santo Padre. Abbiamo avuto un colloquio molto cordiale e sereno. Il Papa mi ha rinnovato la Sua stima e fiducia come accade ormai da tempo. Ogni incontro con lui per me è motivo di grande gioia».

Ed in effetti, come si diceva, non è la prima volta che il porporato, imputato per peculato nell’ambito dell’inchiesta legata allo scandalo finanziario per la compravendita del famigerato palazzo londinese, s’incontra con Francesco dopo che questi lo aveva privato, il 24 settembre del 2020, da tutti i diritti e le prerogative proprie di un cardinale elettore (Becciu ha 74 anni).

 Vari erano stati gli incontri che il Pontefice aveva concesso al presule sardo negli ultimi due anni, ma si erano svolti sempre a Santa Marta o, come nell’aprile del 2021, addirittura a casa del porporato.

Incontri, tuttavia, sempre privati e a cui non era mai stata data la pubblicità e l’ufficialità come invece è accaduto in questo caso, con la calendarizzazione nell’agenda quotidiana del Papa e l’annuncio dato dal Bollettino della Sala stampa […].

 Non più tardi di tre settimane fa, Becciu era tornato nell’aula del Tribunale vaticano, presieduto dal magistrato Giuseppe Pignatone, per una dichiarazione spontanea al processo che vede imputate Francesca Immacolata Chaouqui e Genoveffa Ciferri per la gestione dei fondi della Santa Sede, per rendere una dichiarazione spontanea.

In quell’occasione il cardinale aveva affermato, smontando totalmente le tesi di entrambe, che «io ho fatto il Sostituto alla Segreteria di Stato, ma non avevo la facilità di imporre al Papa delle decisioni come viene affermato», ma soprattutto Becciu ha smentito categoricamente di essere stato lui a dare l’ordine di arrestare la Chaouqui. […]

 L’udienza ufficiale di ieri con il Papa è solo l’ultimo tassello di una strategia difensiva o un primo passo verso la riabilitazione definitiva? Sono in molti ora ad aspettarsi che Francesco possa fare un ulteriore passo reintegrandolo a pieno titolo nel collegio dei cardinali e, quindi, tra gli elettori in un futuro Conclave.

Da iene.mediaset.it il 17 gennaio 2022.

 Stasera, martedì 17 gennaio, in esclusiva e per la prima volta in tv Antonino Monteleone intervista il Cardinale Angelo Becciu, al centro del processo in Vaticano per lo scandalo dell’acquisto del palazzo di Londra che, secondo l’accusa, sarebbe stato un investimento non redditizio effettuato utilizzando i soldi dell’obolo di San Pietro. Di seguito domande e risposte tra Monteleone e Becciu:

A. Monteleone: Eminenza buonasera, mi chiamo Antonino Monteleone. Sono un giornalista di un programma che si chiama Le Iene. Come sta? Bene?

 Cardinale Becciu: Bene, bene, però siete Le Iene.

 A. Monteleone: Lei è il primo cardinale nella storia della Chiesa processato dalla giustizia vaticana, non si era mai visto.

 Cardinale Becciu: No, no, no.

 A. Monteleone: Perché proprio lei?

Cardinale Becciu: No, io non intendo fare interviste.

 A. Monteleone: Lei sente di avere responsabilità sull'acquisto del palazzo di Sloane avenue?

 Cardinale Becciu: Ma che… Dico che già nel processo ne viene tutto fuori.

 A. Monteleone: Quando l'hanno accusata di aver approfittato dei soldi finiti ai familiari del Cardinale Becciu, cosa ha provato?

Cardinale Becciu: No, no, questo è falso, è falso. È falso. Io non ho mai usato i danari per i miei familiari, anzi. E poi, se volete andate lì e intervistate il vescovo e lui vi dirà come quei soldi sono e saranno utilizzati…in una casa che devono costruire per la carità, ma ai familiari no. Anzi, ho fatto un prestito dei miei soldi personali e ne ho lasciato metà a loro. Ho fatto centomila per l'opera, che stanno facendo per gli emigranti, per i disoccupati, di ragazze con problemi sociali. Quindi è falso.

 A. Monteleone: Senta, lei è stato accusato per i soldi del pagamento di un riscatto sui quali qualcuno ci avrebbe messo in mezzo degli interessi personali. La dottoressa Marogna è accusata. Lei ne era al corrente?

Cardinale Becciu: Allora, quello è un argomento che ho già trattato nel processo, ed è un argomento molto delicato. E quello non lo voglio toccare per niente. Lì c’è una materia di segreto e non doveva essere per niente toccato.

 A. Monteleone: Una cosa che ha colpito tutti è stato sapere che lei aveva registrato il Santo Padre e uno si chiede ma era l'unico modo per avere traccia del pensiero del Papa, di quello che lui le aveva chiesto di fare?

 Cardinale Becciu: Allora, ho già ha dato spiegazioni al Papa. Il Papa mi ha capito e tutto finisce lì.

A. Monteleone: Ha scritto in una chat “Papa Francesco mi vuole morto”.

 Cardinale Becciu: No, no.

 A. Monteleone: Ma in senso figurato o veramente?

 Cardinale Becciu: Ma no. Anzitutto queste chat perché sono state tolte dal loro contesto ma soprattutto perché sono state pubblicate? Queste erano delle chat di famiglia, private.

A. Monteleone: Che sono finite in un'inchiesta della Guardia di Finanza in Sardegna.

 Cardinale Becciu: Si ma queste non hanno nessuna rilevanza penale. Questa è stata una brutalità enorme, una violenza della privacy enorme. E non capisco perché in Italia succedono cose.

 A. Monteleone: Secondo lei perché erano utili nel processo in Vaticano sono state fatte circolare?

Cardinale Becciu: Servivano solo a mettere in cattiva luce me e la mia famiglia. E questo è stato un gesto davvero incomprensibile e che condanno.

 A. Monteleone: E lei cosa voleva dire quando dice “Ho paura che Papa Francesco mi voglia morto”?

 Cardinale Becciu: No, questo ve lo dico, per noi c'è una prova, è sempre una morte. Ma per poter resuscitare. Il Papa alla fine mi vuole bene. Abbiamo un rapporto speciale. Di tanto in tanto vado, parliamo, e…con la morte di Papa Benedetto. Ecco, adesso abbiamo un Papa e questo è il Papa della Chiesa e noi dobbiamo amare questo Papa. Non possiamo sognare un Papa del futuro o rimpiangere chi c'era prima. Per dire che il rapporto con il Papa è bello.

 A. Monteleone: C'è stato un momento in cui lei ha pensato di avere perso definitivamente la fiducia del Papa?

Cardinale Becciu: Beh, è chiaro. Non è facile sentirsi dire dal Papa ci sono queste accuse nei tuoi confronti. Però io l'ho presa come un figlio che si vede non capito dal proprio padre e viene mandato via dalla propria casa ma che non perde la speranza che il padre prima o poi capisca che ci sono state delle accuse false e che lo riabbracci.

 A. Monteleone: Li ha sentiti gli audio di Perlasca?

 Cardinale Becciu: Ma no, ma che audio, sono…non c'è niente di vero.

 A. Monteleone: È stato usato Perlasca secondo lei?

 Cardinale Becciu: Eh beh, l’ha detto lui, l'ha ammesso lui.

A. Monteleone: Lei quando ha saputo che dietro le accuse, parte delle accuse, che le vengono mosse ci fosse anche Francesca Chaouqui, che cosa ha pensato?

 Cardinale Becciu: Lei mi tocca un tasto doloroso. Guardi, sto venendo proprio ora dalla chiesa, ero lì a confessare. Dobbiamo avere sempre un cuore misericordioso, io, questa signora, io ho pietà di lei. Misericordia.

 A. Monteleone: Lei è infuriatissima con lei. Ma perché?

Cardinale Becciu: Mah…quando successe la pubblicazione di documenti riservati e furono accusati di questo reato sia la signora come un prete, la signora è stata processata, è stata condannata. Se poi ha cambiato vita, se tutto gli è crollato, non è colpa mia. Eh, se la prenda con i giudici. Ma mi dispiace che lei l’abbia presa così e abbia fatto tutte queste cose contro di me.

 A. Monteleone: Lei sa cos’ha detto? “Grazie a me Becciu non diventerà Papa”.

 Cardinale Becciu: Ma chi ci pensa a diventare Papa? Solo un irresponsabile, ma chi desidera diventare Papa? Grazie.

 A. Monteleone: Lei potrà mai dimenticare tutto questo tritacarne dove è finito?

 Cardinale Becciu: Certo che una sofferenza, però alla fine perdoniamo per dimenticare. Non è che non sempre può vivere in questo peso. E soprattutto sono prete e come prete dobbiamo dimenticare e perdonare.

 A. Monteleone: Glielo chiedo come consiglio per un giovane, tutto quello che ci portiamo dentro dove lo buttiamo?

 Cardinale Becciu: Ti sto dicendo che sto venendo da confessare. Ci si confessa se hai fatto del male. Se poi gli altri ti hanno fatto del male, li perdoni questo è. Gesù Cristo ci ha dato questa bella lezione ed è una bella libertà, credimi. Ed è il bello di fare il prete.

Dal “Corriere della Sera” il 14 gennaio 2023.

 «Convinse il Papa a mandarmi a processo mentre ero incinta. Adesso sono io che entro nel processo al cardinal Becciu, sarò ascoltata su tutti i capi di accusa di tutti gli imputati. E chiedo anche la revisione del processo Vatileaks». Francesca Chaouqui torna nel Tribunale Vaticano, stavolta come testimone nel processo per lo scandalo finanziario della segreteria di Stato vaticana che ha travolto Becciu. Lo attacca per aver mentito al Papa. E in aula sono scintille.

Lui contrattacca «lei, lo avrete capito, ha qualcosa contro di me. Anzi, molto contro di me. E una delle accuse che smentisco in pieno è quella di aver dato io ordine di arrestarla e di non aver avuto pietà del suo stato di donna incinta. È una bugia, falso, avvenne ai primi di novembre 2015». «Io ero nel mio paese, in Sardegna - ha ricordato Becciu -. Chi la interrogò fu il comandante Giani e mi telefonò: ho arrestato la signora Chaouqui. Gli dissi: "Ma sei matto?". "No, avevo tutte le ragioni per farlo". Poi disse in seguito che era in stato interessante, era di pochi mesi. Come si fa a vedere a tre mesi? La respingo totalmente».

(ANSA il 13 Gennaio 2023) - "Ho avviato un processo di revisione in questo Stato perché ho subito una condanna di dieci mesi per non aver usato la prudenza del buon padre di famiglia nel presentare ai giornalisti il monsignore che poi ha rivelato i segreti", "in quello che depositerò nel fascicolo di Emanuela Orlandi si capirà perché ho presentato quei giornalisti".

  Lo dice Francesca Chaouqui prima di fare ingresso in Vaticano per essere sentita come testimone al processo sui fondi della Segreteria di Stato vaticana. Alla domanda se abbia manipolato monsignor Perlasca, risponde: "Non mi sono mai finta un anziano magistrato, sono sempre stata Francesca Chaouqui con Genevieve Ciferri, è Genevieve Ciferri che non voleva che monsignor Perlasca sapesse che era Francesca Chaouqui quella che stava cercando di fargli partorire la verità.

 A me non interessava la verità processuale perché quel momento lì era il 2020, non esisteva un processo ai danni del cardinale, a me interessava una cosa esclusiva, ovvero che Papa Francesco sapesse la verità e la sapesse dal principale collaboratore del cardinale che lo aveva usato, manovrato, mentito e truffato". "Io non sono alla ricerca di una riabilitazione - perché nel momento in cui Papa Francesco nel 2018 mi ha richiamato e ha saputo come erano andate le cose io in quel momento lì ho già vinto", conclude

(ANSA il 13 Gennaio 2023) - "A me del processo non importa nulla quando sono venuta a conoscenza di questi fatti si parlava di indagini, io non capisco perché la Ciferri possa aver pensato che ci possa essere stata una qualunque forma di interposizione tra me e il tribunale, è tutto assurdo".

 Lo dice Francesca Chaouqui prima di fare il suo ingresso in Vaticano dove oggi sarà sentita come testimone nell'ambito del processo sui fondi della Segreteria di Stato. Alla domanda se ci sono rapporti tra lei e Maria Giovanna Maglie, risponde: "certo che ci sono rapporti con Maria Giovanna Maglie, è una persona che mi è molto vicina, mi ha presentato Geneviève Ciferri ed ha scritto un memoriale per spiegare che cosa Genoveffa Ciferri voleva, cioè Ciferri riteneva che Monsignor Perlasca avesse subito un tentativo di omicidio all'interno della casa Santa Marta". Da parte di chi? "Non lo sappiamo".

(ANSA il 13 Gennaio 2023) - "Ho avviato un processo di revisione in questo Stato perché ho subito una condanna di dieci mesi per non aver usato la prudenza del buon padre di famiglia nel presentare ai giornalisti il monsignore che poi ha rivelato i segreti", "in quello che depositerò nel fascicolo di Emanuela Orlandi si capirà perché ho presentato quei giornalisti".

  Lo dice Francesca Chaouqui prima di fare ingresso in Vaticano per essere sentita come testimone al processo sui fondi della Segreteria di Stato vaticana. Alla domanda se abbia manipolato monsignor Perlasca, risponde: "Non mi sono mai finta un anziano magistrato, sono sempre stata Francesca Chaouqui con Genevieve Ciferri, è Genevieve Ciferri che non voleva che monsignor Perlasca sapesse che era Francesca Chaouqui quella che stava cercando di fargli partorire la verità.

 A me non interessava la verità processuale perché quel momento lì era il 2020, non esisteva un processo ai danni del cardinale, a me interessava una cosa esclusiva, ovvero che Papa Francesco sapesse la verità e la sapesse dal principale collaboratore del cardinale che lo aveva usato, manovrato, mentito e truffato". "Io non sono alla ricerca di una riabilitazione - perché nel momento in cui Papa Francesco nel 2018 mi ha richiamato e ha saputo come erano andate le cose io in quel momento lì ho già vinto", conclude

(ANSA il 13 Gennaio 2023) - "A me del processo non importa nulla quando sono venuta a conoscenza di questi fatti si parlava di indagini, io non capisco perché la Ciferri possa aver pensato che ci possa essere stata una qualunque forma di interposizione tra me e il tribunale, è tutto assurdo".

 Lo dice Francesca Chaouqui prima di fare il suo ingresso in Vaticano dove oggi sarà sentita come testimone nell'ambito del processo sui fondi della Segreteria di Stato. Alla domanda se ci sono rapporti tra lei e Maria Giovanna Maglie, risponde: "certo che ci sono rapporti con Maria Giovanna Maglie, è una persona che mi è molto vicina, mi ha presentato Geneviève Ciferri ed ha scritto un memoriale per spiegare che cosa Genoveffa Ciferri voleva, cioè Ciferri riteneva che Monsignor Perlasca avesse subito un tentativo di omicidio all'interno della casa Santa Marta". Da parte di chi? "Non lo sappiamo".

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 13 Gennaio 2023. 

Il processo Becciu continua a riservare sorprese. L'imprenditrice Francesca Immacolata Chaouqui è stata sentita stamattina in dibattimento, dove ha ammesso di essere stata lei a contattare monsignor Alberto Perlasca nell'agosto del 2020 tramite una sodale di lui, l'ex analista del Dis Genevieve Ciferri.

 Anche quest'ultima è stata chiamata a testimoniare in merito ad alcune chat mandate due mesi fa al promotore di giustizia dove denunciava allo stesso di essere stata manipolata da Chaouqui.

La lobbista ha detto di aver solo “suggerito” le domande sull'ex sostituto a Perlasca, che poi confluiranno nel memoriale anti-Becciu scritto dall'ex braccio destro del cardinale.

 Accuse in merito a presunti peculati a vantaggio suo, dei fratelli e di Cecilia Marogna che daranno poi il via all'inchiesta dei promotori di giustizia e della gendarmeria.

Se gli avvocati delle difese gridano al complotto, Chaouqui, come anticipato giovedì da Domani, ha spiegato anche di aver chiesto al prelato di registrare alcuni audio (nei quali Perlasca di fatto legge alcune parti del dossier) affinché potessero essere ascoltati da papa Francesco.

Audio registrati in effetti il 26 agosto 2020, e che saranno ascoltati dal papa in anteprima. Chaouqui dice che li ha fatti pervenire lei direttamente, mentre Ciferri chiarisce che ogni documento e registrazione di Perlasca veniva sì mandato a Chaouqui, ma anche al papa.

 Le accuse di Perlasca (i cui temi come lui stesso ha dichiarato sono stati suggeriti dalle due donne) saranno fondamentali per convincere Francesco a punire Becciu prima ancora dell'inizio del processo. Domani ne pubblica alcuni in forma integrale

Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 12 gennaio 2023.

 Sono giorni difficili per papa Francesco. Il dolore per la morte di Benedetto XVI e il cardinale George Pell, in primis. Le tensioni crescenti tra bergogliani e conservatori. Poi gli attacchi personali dell’arcivescovo Georg Ganswein, per decenni segretario particolare di Ratzinger. Infine le denunce contro il teologo gesuita Marko Rupnik, amico di Francesco accusato da alcune suore di averle abusate sessualmente.

Ma c’è un altro fronte delicato che si riaprirà domani, e che potrebbe portare in Vaticano ripercussioni assai spiacevoli. Si tratta del processo contro il cardinale Angelo Becciu, ex braccio destro del papa finito nella polvere nel 2020 a causa di un’inchiesta della magistratura della città santa. L’udienza di venerdì promette novità importanti. Visto che saranno depositati dieci audio segreti del grande accusatore del cardinale, monsignor Alberto Perlasca, e alcune chat e conversazioni inedite – alcune di esse visionate da Domani - che potrebbero evidenziare il ruolo di due donne che, secondo gli avvocati della difesa, avrebbero «macchinato» contro Becciu costruendo accuse false.

Ora, è cosa nota che i promotori di giustizia Alessandro Diddi e Gian Piero Milano – indagando sulla compravendita di un palazzo a Londra per la quale sono alla sbarra anche finanzieri come Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi – hanno individuato nell’ex sostituto alla segreteria di Stato uno dei responsabili principali della presunta truffa milionaria.

 Soprattutto, indagini parallele lo indicherebbero come un prelato infedele, che si sarebbe appropriato di centinaia di migliaia di euro della segreteria di Stato per favorire se stesso, una cooperativa dei suoi fratelli e un’amica, l’analista Cecilia Marogna. Indagato per associazione a delinquere, peculato, subornazione di testimone e abuso d’ufficio, Becciu è stato indicato dalla stampa di tutto il mondo come sicuro colpevole quando, prima ancora dell’inizio del processo, Francesco gli tolse ogni diritto cardinalizio e lo licenziò da prefetto della Congregazione delle cause dei santi.

Su queste pagine abbiamo già evidenziato possibili responsabilità degli imputati e alcune contraddizioni evidenti dell’accusa. Oltre ai dubbi sulla reale terzietà della giustizia d’Oltretevere. Dal momento che dal papa, monarca assoluto dello stato, dipendono direttamente sia i promotori sia la nomina del collegio giudicante, ora presieduto da Giuseppe Pignatone. Mentre è storia che lo stesso Francesco abbia modificato d’emblée leggi e regolamenti attraverso “rescripta” ad hoc, che hanno permesso ai magistrati inquirenti poteri pressoché illimitati nelle indagini sul cardinale e gli altri imputati.

Un mese e mezzo fa, però, c’è stato una svolta nello sviluppo della trama processuale. Protagonista del colpo di scena è stato Alberto Perlasca, ex fedelissimo di Becciu diventato testimone chiave dell’accusa, fatto che secondo i malpensanti gli ha garantito di non entrare nel processo come imputato.

 Il 30 novembre in un drammatico interrogatorio il monsignore ha infatti ammesso che il memoriale che ha dato l’innesco, il 31 agosto 2020, all’inchiesta dei pm su Becciu non è stato integralmente farina del suo sacco, come aveva invece giurato sul vangelo solo il giorno prima.

 Ma che temi e domande contro l’ex sostituto «mi sono state in effetti suggerite da un anonimo magistrato, che poi ho scoperto essere solo due giorni fa Francesca Immacolata Chaouqui». Cioè la lobbista voluta da Francesco nella commissione per la trasparenza finanziaria Cosea nel 2013, poi condannata nel 2017 a 10 mesi per rivelazione di notizie riservate nel processo Vatileaks II (chi vi scrive fu imputato e poi prosciolto).

 L’ammissione di Perlasca è stata susseguente alla scelta improvvisa di una sua sodale. La misteriosa Genoveffa “Genevieve” Ciferri, che il 26 novembre scorso, dopo che Perlasca era stato messo alle strette dai legali di Becciu sulla genuinità del suo j’accuse, decide di inviare a Diddi alcune chat tra lei e la Chaouqui.

«Professor Diddi» scrive la Ciferri al promotore «i suggerimenti di quel memoriale a cui oggi Perlasca non ha saputo rispondere in merito a chi li avesse sono stati suggeriti dalla signora Chaouqui a me, come provenienti da lei». Cioè da Diddi stesso. Che, dopo aver depositato i messaggi (omissandoli quasi tutti), prima ha negato di conoscere o di aver avuto alcun contatto diretto con la lobbista, poi ha aperto un nuovo fascicolo penale su un ipotetico inquinamento della sua indagine.

Le due donne sono state convocate venerdì 13 in tribunale vaticano per raccontare la loro verità dei fatti. Domani, però, è in grado già ora di raccontare alcuni retroscena del primo processo della storia contro un principe della Chiesa.

Intervistando alcuni protagonisti chiave della vicenda (che per ora preferiscono rimanere anonimi), analizzando chat inedite e audio segreti che più testimoni dicono essere stati ascoltati anche da papa Francesco e forse determinanti per lo “scardinalamento” di Becciu, si disegnano le tappe controverse che hanno portato all’incriminazione del prete di Pattada.

 Partiamo dall’inizio. Per capire l’intrigo bisogna tornare al luglio 2017. Quando la Chaouqui viene condannata insieme a monsignor Angel Vallejo Balda nel secondo processo Vatileaks, inchiesta voluta da Francesco e dallo stesso Becciu, allora sostituto della segreteria di Stato. L’ex commissario Cosea è furiosa dell’esito, perché crede di essere innocente, e che ogni sua azione, anche nei rapporti con i media, sia stata fatta sempre con l’autorizzazione sottintesa dei vertici ecclesiastici.

L’imprenditrice, oggi a capo di un’agenzia di comunicazione (la View Point Strategy) con una ventina di dipendenti e di una onlus di beneficenza, nel 2018 prova così a riabilitarsi. Provando a chiedere la grazia a Bergoglio.

 Per farlo chiede aiuto all’arcivescovo di Siena Paolo Lojudice che l’anno successivo diventerà cardinale: è quest’ultimo a dare a Becciu la lettera di scuse della Chaouqui affinché la porti al papa. Il 16 aprile arriva la risposta di Becciu: «Sua Santità, pur apprezzando il ravvedimento spirituale, non intende contraddire l’equa e clemente sentenza». Niente grazia, insomma.

Chaouqui non crede che Bergoglio, di cui si dice amica e confidente, possa aver davvero opposto un tale diniego. Qualcuno racconta che l’astio per il cardinale sardo si sia trasformato in ossessione dopo un contatto segreto avuto con Francesco in persona, che le avrebbe detto che lui non aveva mai usato le parole scritte da Becciu.

 Fonti vicine al cardinale però negano a Domani di aver inventato nulla: «Il sostituto esegue fedelmente le indicazioni del suo superiore, così come comunicato nella lettera di non concessione della grazia, facoltà esclusiva del Sommo Pontefice». Sia come sia, l’obiettivo della Chaouqui da quel momento in poi è dimostrare al papa che Becciu è un bugiardo, se non peggio.

Passa più di un anno, e la lobbista ha una sua prima grande occasione. A fine settembre 2019 la gendarmeria perquisisce infatti gli uffici della segreteria di Stato. L’indagine vede coinvolti alcuni funzionari (lo stesso Perlasca, il laico Fabrizio Tirabassi, i vertici dell’Aif, i businessman Torzi e Mincione) con l’accusa di aver favorito la truffa del secolo. Cioè la compravendita da parte del Vaticano di un palazzo a Sloane Avenue con i soldi dell’Obolo di San Pietro destinati alla beneficenza.

 Becciu, che autorizzò l’investimento di 200 milioni di dollari nel fondo Athena di Mincione, da tempo aveva lasciato la segreteria di Stato e non era inizialmente finito nel mirino degli inquirenti. Il 30 ottobre 2019 Chaouqui si presenta in gendarmeria con il suo avvocato Alessandro Sammarco, e rilasciando spontanee dichiarazioni chiarisce di come da commissario Cosea «su esplicita richiesta del Santo Padre» avesse scoperto che Becciu aveva provato anche ad investire in una piattaforma petrolifera in Angola, affare poi saltato. Poi, l’affondo contro il nemico: «Il banchiere Enrico Grasso incaricò Mincione (per investire) 146 milioni dei 160 per procedere agli investimenti di cui sopra, facendo perdere in tal modo la tracciabilità dei 14 milioni mancanti. Apparrebbe lecito ipotizzare che parte di quest’ultima somma possa essere destina a Becciu, imprenditore edile, fratello del monsignore». Accuse pesanti che però non vengono suffragate da prove, tanto che Becciu querela.

 Passano i mesi, e ad aprile 2020 Perlasca viene sentito in un primo interrogatorio da Diddi. È sulla carta l’uomo dei conti della segreteria, è il monsignore che firma il contratto di acquisto definitivo del palazzo londinese. È il prete che meglio conosce Becciu essendo stato suo numero due per undici anni. Perlasca si difende con forza, dice di essere stato indotto in errore dai tecnici dell’ufficio amministrativo, e nega pure di essere a conoscenza di responsabilità dei suoi superiori. Becciu compreso.

L’inchiesta va avanti a rilento. Arriva l’estate 2020, e l’ex sostituto diventato cardinale e prefetto è ancora fuori dal raggio di azione dei magistrati. Perlasca intanto è isolato, stremato dallo stress, e da tempo chiede consigli a una sua confidente, la Ciferri. Con la donna, oggi 73enne, il prelato ha instaurato da tempo un sodalizio strettissimo, tanto che “Genevieve”, come preferisce essere chiamata Genoveffa, decide di regalargli la nuda proprietà di una villetta a Greccio in provincia di Rieti, tenendosi l’usufrutto.

 Anche Ciferri, che non ha figli né eredi, è angustiata per la sorte di Perlasca. È certa della sua innocenza, e crede che Becciu non stia facendo abbastanza per aiutarlo. Non è una sprovveduta: qualche giornale l’ha definita una «presunta» analista dei servizi segreti italiani, ma in realtà alcuni documenti letti da Domani evidenziano che la donna ha davvero lavorato, dal 2005 al 2012, per il Dis, il dipartimento che coordina i nostri agenti. Prendendo in qualità di «analista strategica» uno stipendio mensile da quasi seimila euro (ritirati sempre in contanti come d’uso in questi casi) più tredicesima, per scrivere dossier su paesi stranieri inerenti la nostra sicurezza nazionale. Report che, si legge in una nota del 2008 inviata dall’allora sottosegretario con delega ai servizi Gianni Letta a Ciferri in persona, dimostrerebbero «l’impegno» con cui la donna si era dedicata «al suo lavoro».

 La sodale di Perlasca entra in azione solo a partire dal 3 luglio 2020. Quando Perlasca gli riferisce che un medico non chiamato da lui lo ha raggiunto nel suo appartamento a Santa Marta per dargli delle goccine. A processo Perlasca ammette di aver preso solo 10 goccine di Valium volontariamente, ma al tempo Ciferri teme che dietro possa esserci un tentativo di avvelenamento da parte di Becciu.

 Così Genevieve prima scrive un messaggio su Messanger, sotto il falso nome di Augusta Piccolomini, alla giornalista Maria Giovanna Maglie che aveva visto in tv criticare il cardinale. «Gentile signora, si è cercato di eliminare fisicamente una persona scomoda residente nella Domus...un medico ha somministrato un potente tranquillante mettendolo a rischio di arresto cardiaco».

Il 10 luglio va ad affrontare il cardinale faccia a faccia bussando alla sua porta dell’appartamento in Vaticano. Dove gli consegna parole irriferibili poi riportate in alcune interviste (Becciu ha fatto causa civile a lei e a Perlasca per danni, ma ha perso e deve rimborsare le spese legali, stessa sorte per la causa dell’Espresso, il primo – come vedremo – a riportare le accuse di Perlasca).

La Maglie ricevuti gli strani messaggi chiama subito la sua amica Chaouqui, perché è certa che la stessa sia ancora vicina al papa e possa indagare meglio di lei su quanto detto dalla misteriosa donna. È la “papessa” a capire subito si nasconde dietro il nom de plume.

Con la logica «il nemico del mio nemico è mio amico», decide dunque di contattare Ciferri. In modo di convincere Perlasca, attraverso la sua sodale, a cambiare strategia processuale. E ha raccontare finalmente a lei e al pontefice le presunte malefatte di Becciu.

 Siamo agli inizi di agosto 2020. Le due donne cominciano a sentirsi al telefono e su Whatsapp. La Chaoqui secondo la ricostruzione fatta dalla Ciferri (e che Chaouqui nega) spiegherebbe all’amica di Perlasca che lo scenario è cambiato, e che i promotori rispetto ai tempi del primo interrogatorio del monsignore avrebbero hanno altre cose in mano contro Becciu. Sempre secondo Ciferri la Chaouqui nel corso delle settimane le descriverebbe con precisione l’andamento dell’inchiesta. «Lei millantava una stretta collaborazione con lei, professor Diddi, con Milano, la gendarmeria e il papa stesso. I riscontri che forniva e le indicazioni su di lei e gli atri erano così puntuali e dettagliati che non facevo fatica a crederle», spiega a Diddi.

La Ciferri inoltra al magistrato come prova di quello che denuncia una serie di messaggi (omissati da Diddi, altri l’ex analista li avrebbe conservati in una pennetta consegnata a un notaio) in cui Chaoqui farebbe spesso riferimento ai pm, ai vertici della gendarmeria guidata da Gianluca Gauzzi, e suggerirebbe come Perlasca debba finalmente collaborare e smettere di difendere Becciu, unica via per salvarsi dal processo e riconciliarsi con il papa.

 È questo quello che dovrebbe ribadire la donna in tribunale. Secondo Chaouqui però lei non ha mai parlato di promotori o di gendarmi con Genevieve, e che eventuali messaggi potrebbero essere stati creati ad arte. Si vedrà chi delle due antagoniste dice la verità. È certo però che le due donne concordano al telefono che l’intervento della Chaouqui deve rimanere ignoto a Perlasca: Ciferri deve riferire al sodale che li sta aiutando «un anziano magistrato in pensione». Sarà sempre l’imprenditrice che suggerirà alla nuova amica l’avvocato giusto per Perlasca, cioè il suo legale Sammarco.

L’operazione ha successo. Perlasca si convince a rispondere, mediante un memoriale, anche alle domande che «la Chaouqui mi manda attraverso Ciferri». I temi a cui Perlasca deve rispondere sono vari: i soldi dati da Becciu alla diocesi di Ozieri per favorire il fratello, quelli dati alla Marogna per il pagamento di un riscatto di una suora ma finiti in parte in abiti e borse firmate, i rapporti tra Becciu e i giornalisti e i presunti dossieraggi contro il nuovo sostituto Edgar Pena Parra, i lavori di falegnameria appaltati a un altro fratello.

 Il 26 agosto il dossier è pronto. Perlasca, prima di consegnarlo ai magistrati, registra però con il suo cellulare una decina di audio in cui legge i punti più importanti delle sue accuse contro Becciu. Audio – scopre Domani - che arrivano subito alla Chaouqui, e che – secondo più di una fonte - il giorno dopo vengono fatti sentire direttamente a papa Francesco.

Il 31 agosto Perlasca entra in tribunale e consegna a Diddi il memoriale. Becciu viene ufficialmente indagato dopo pochi giorni. La gendarmeria intanto verifica il bonifico fatto da Becciu alla Caritas di Ozieri e i soldi (circa mezzo milione) quelli mandati a una società slovena della Marogna. Controlli che secondo qualche maligno sono stati fatti prima ancora delle confessioni di Perlasca: «Fungendo anche da servizi segreti interni gli uomini di Gauzzi avrebbero potuto scandagliare i conti correnti quando volevano, e mettere solo dopo l’innesco dell’inchiesta le risultanze nel fascicolo su Becciu», spiega una fonte del tribunale.

Infine, qualcuno decide che le accuse ormai formalizzate debbano finire anche alla stampa. È a questo punto che appare sulla scena un altro personaggio: Fabio Perugia, portavoce italiano del Congresso mondiale ebraico. Chi è Perugia? Un esperto di finanza che era stato sentito a sommarie informazioni in Vaticano il 3 luglio 2020, perché nel 2017 – quando era consulente di Valeur, gruppo svizzero specializzato in asset management - aveva denunciato con un appunto a un gendarme alcuni comportamenti di Tirabassi, a cui Perugia aveva rappresentato alcune possibilità d’investimento che Valeur voleva incardinare con la segreteria di Stato, e che però non erano andate in porto.

Perugia era stato sentito dalla gendarmeria proprio su questo vecchio episodio. Ma sarà poi lui, risulta a chi scrive, il tramite per consegnare a un giovane collaboratore dell’Espresso le notizie criminis su Becciu e i suoi fratelli contenute nel memoriale. Nello scoop del settimanale tra le fonti viene citato un ex consulente di Valeur, ma Perugia smentisce che sia lui.

 Quando il giornale è ormai stampato, papa Francesco chiama Becciu per annunciargli l’indagine per peculato contro di lui, costringendolo a lasciare seduta stante la prefettura e i diritti cardinalizi.

Chaouqui esclude di aver operato, come oggi sospettano la Ciferri e gli avvocati difensori di Becciu, di comune accordo con gli inquirenti. Fatto che sarebbe secondo i legali di Becciu gravissimo, perché vorrebbe dire che l’accusa istruiva quello che al tempo era un indagato: il processo sarebbe fatalmente pregiudicato.

 Ma allora perché la donna avrebbe messo in piedi questa campagna in solitaria? La comunicatrice giura di non aver mai imbeccato le risposte di Perlasca ma di aver solo posto alcune domande a risposta libera. Con l’unico obiettivo di dare una mano alla ricerca della verità, e soprattutto dimostrare a Bergoglio che su Becciu lei aveva sempre avuto ragione.

Possibile che una volta avuto gli audio di Perlasca contro Becciu l’imprenditrice li abbia fatti pervenire al papa? Possibile, dicono fonti vicine a Santa Marta. Seppure la Ciferri, agli amici, spiega che non c’era audio o documento di Perlasca che prima di andare ai magistrati o altri non sia prima stato spedito al Santo Padre.

 Per la cronaca, abbiamo chiesto al portavoce del Vaticano Matteo Bruni se il pontefice abbia avuto rapporti con la Chaouqui dopo la condanna del 2017 e se il papa abbia mai davvero ricevuto il memoriale e gli audio di Perlasca contro Becciu e da chi, ma non abbiamo ricevuto repliche.

Se è ormai acclarato che il memoriale di Perlasca è effettivamente suggerito, le risposte sono del tutto genuine? L’imprenditrice e il monsignore negano qualsiasi manipolazione, ma in udienza gli avvocati chiederanno probabilmente alla donna come faceva a conoscere i temi investigativi a cui il monsignore doveva poi rispondere.

 Tra questi citano, per esempio, l’esistenza di un birrificio dell’altro fratello del cardinale Mario, notizia scoperta dagli inquirenti ad agosto 2020 grazie ad alcuni messaggi sequestrati tra Becciu e l’ex fedelissimo di Tarcisio Bertone Marco Simeon. Perlasca ha sostenuto prima di aver letto la notizia sui giornali, usciti però solo tre settimane dopo il memoriale. Poi di averlo saputo dalla Ciferri.

Soprattutto, Becciu è certo che nelle chat tra Chaouqui e l’ex analista del Dis in merito al ristorante “Scarpone” ci sarebbe la prova provata del legame tra Chaouqui e gli inquirenti. Nei messaggi a Diddi, Ciferri dice che è stata la lobbista a prenotare un tavolo e spingere Genevieve a persuadere Perlasca, nonostante quest’ultimo avesse già consegnato il memoriale ai promotori, a invitare Becciu il 4 settembre a cena. «Per farlo parlare e riferire al riguardo», modello agente provocatore.

 La Ciferri e Perlasca alla fine si erano convinti, ma il monsignore aveva fatto un passaggio preventivo in gendarmeria per avvertirli dell’appuntamento in trattoria. «Io dissi, forse a De Santis: “Guardate che io questa sera farò questa cosa qui”...Pensavo che un’azione di intercettazione avrebbero potuto farla» dice Perlasca «Mi risposero: “Buongiorno, va bene, grazie”. E andai».

Per i fan di Becciu la vicenda dello Scarpone non sarebbe una mera coincidenza, ma la prova regina della macchinazione contro di lui. Per i promotori invece non c’è nulla di strano, e la storia collaterale delle due donne non inficerebbe nessuna delle prove schiaccianti che avrebbero raccolto contro il cardinale in mesi di indagini. Di una cosa siamo sicuri: in questo guazzabuglio in pochi vorrebbero stare nei panni di Pignatone.

Abusi culturali.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” l’8 gennaio 2023.

Lo hanno ritrovato l'altra sera alcuni prelati, insospettiti perché per tutto il giorno non aveva risposto al telefono. Era riverso sul letto, privo di vita, in pigiama, con i piedi a penzoloni e, ad un primo sguardo, sembrava forse intento ad alzarsi. Monsignor Michele Basso, anziano canonico di San Pietro, è morto all'improvviso nel suo appartamento a ridosso della basilica vaticana, presumibilmente colpito da un attacco cardiaco. 

 Da tempo accusava malesseri e acciacchi dovuti all'età avanzata. L'uscita di scena di questo singolare collezionista d'arte trascina con sé nella tomba i misteri legati a un incredibile e favoloso giacimento di opere di sua proprietà.

 Decine e decine di pezzi antichi sui quali pesano forti sospetti, inchieste interne e naturalmente silenziosi imbarazzi da parte delle autorità vaticane perché ad oggi non si è mai saputo l'origine di quei lasciti. Il cardinale Mauro Gambetti, francescano, neo arciprete della basilica da poco più di un anno, eredita una gatta da pelare che prima di lui aveva tentato di gestire il suo predecessore, il cardinale Angelo Comastri, pensionato velocemente da Francesco dopo una serie di pasticci amministrativi.

 La favolosa collezione Basso era stata impacchettata e messa al sicuro all'interno di una trentina di casse ignifughe collocate in un luogo super sicuro. Vennero sigillate con l'autorizzazione della Segreteria di Stato e sistemate in un locale sotto la Cupola. Dentro si contano una settantina di pezzi tra materiale archeologico, statue in marmo e di legno, dipinti su tela, tavole incise su rame e schizzi su carta. Probabilmente il reperto più scottante tra tutti è una meravigliosa copia risalente agli inizi del Novecento del famosissimo Cratere di Eufronio, il cui originale etrusco è conservato nel Museo di Villa Giulia. 

Il Cratere dopo che venne trafugato dai tombaroli nel 1971, esportato illegalmente negli Usa e acquistato dal Metropolitan di New York, era stato al centro di un braccio di ferro diplomatico con l'Italia. La copia nelle mani del Vaticano rischia di rimettere tutto in discussione perché confuterebbe la data del rinvenimento dell'originale che il Metropolitan ha dovuto restituire. Se il vero Cratere è stato ritrovato solo nel 1971 in uno scavo clandestino vicino a Cerveteri, come è possibile che in Vaticano vi sia una copia fatta alla fine del Novecento? Un giallo nel giallo che dovrà essere prima o poi essere sbrogliato dalla Segreteria di Stato. 

 Il tesoretto chiuso a chiave nelle voluminose casse verdi e di diverse dimensioni era stato visionato a suo tempo dal Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. Poi la questione era stata messa sotto silenzio mentre monsignor Basso continuava a ripetere, a chi gli chiedeva lumi sulla provenienza di quel ben di Dio, che tutto era regolare.

Quei beni facevano parte di collezioni private ereditate da Basso? Erano regolari acquisti fatti nel tempo, o ancora, lasciti di conventi, istituti religiosi, regali ricevuti da benefattori o da beni ecclesiastici mai catalogati? Esistono tele della scuola di Mattia Preti, bozzetti di Pietro da Cortona, tavole lignee del Guercino, di Golzius, di Pasqualotto, oltre che sculture lignee del Seicento e persino una scultura in marmo bianca ispirata ai Prigioni di Michelangelo. 

 Tele autentiche mescolate però anche a diversi falsi, realizzati da falsari molto abili che operavano a Roma. Tra gli oggetti anche diverse copie di vasi etruschi, e romani riprodotti talmente bene da sembrare autentici compresa la famosa copia del Vaso di Eufronio del valore commerciale di 15 mila euro. A Roma verso la fine dell'Ottocento era quasi una moda quella di riprodurre manufatti romani o etruschi in ogni piccolo particolare. 

Si trattava di una abilità di alcuni maestri artigiani che ha dato vita a falsi talmente straordinari da avere anch' essi un mercato internazionale fiorente. Due anni fa Papa Francesco aveva dato disposizioni di avviare una ispezione interna sulla gestione della Fabbrica di San Pietro affidandola ad un ecclesiastico di sua stretta fiducia. 

 Il canonico don Michele Basso interpellato sui quadri, al Messaggero, raccontava: «Io ho donato tutto alla Fabbrica di San Pietro. Ora non sono più il proprietario. Non ne so più niente». Ma come ha fatto ad accumulare questo tesoro? «È come ritrovarsi con tante scarpe nell'armadio. Alcune sono state comprate e altre sono state regalate».

Chi era Don Michele Basso, la morte e il mistero della collezione in Vaticano: 30 casse di opere d’arte nel Cupolone. Elena Del Mastro su Il Riformista l’8 Gennaio 2023

Don Michele Basso era un grande appassionato di storia dell’Arte, aveva scritto pagine e pagine sulla Basilica di San Pietro e sulle Grotte vaticane in cui da giovedì riposa anche il papa emerito Benedetto XVI. Era anche un grande collezionista d’arte: nella sua vita aveva raccolto una intera collezione di sculture, reperti archeologici e dipinti chiusi in 30 casse ignifughe e sistemate in un locale sotto il cupolone. Il Monsignor Basso è stato trovato morto nelle sue stanze a ridosso della basilica vaticana, colpito da un attacco cardiaco. Da tempo accusava malesseri e acciacchi dovuti all’età avanzata. Si porta dietro una serie di misteri legati a quella incredibile collezione che già nel passato aveva scatenato curiosità e qualche grattacapo per la Santa Sede.

Come aveva messo insieme quel tesoretto? “È come ritrovarsi con tante scarpe nell’armadio. Alcune sono state comprate, altre regalate”, disse al Messaggero che oggi riporta alla luce la misteriosa storia tra le stanze vaticane. Secondo quanto riportato dal quotidiano la favolosa collezione conta di una settantina di pezzi tra materiale archeologico, statue in marmo e di legno, dipinti su tela, tavole incise su rame e schizzi su carta. Si tratterebbe di tele della scuola di Mattia Preti, bozzetti di Pietro da Cortona, tavole lignee del Guercino, di Golzius, di Pasqualotto, oltre che sculture lignee del Seicento e persino una scultura in marmo bianca ispirata ai Prigioni di Michelangelo. Tele autentiche mescolate però anche a diversi falsi, realizzati da falsari molto abili che operavano a Roma soprattutto all’epoca del Gran Tour, quando la città era meta obbligatoria per gli appassionati di storia dell’Arte di tutto il mondo che spesso volevano portare a casa copie fedeli di quelle opere. E si sviluppò una vera e propria tradizione tra gli artigiani che riuscivano a riprodurre copie fedelissime. Tra gli oggetti della collezione ci sarebbero anche diverse copie di vasi etruschi, e romani riprodotti talmente bene da sembrare autentici compresa la famosa copia del Cratere di Eufronio.

Ed è proprio quest’ultimo ad essere avvolto nel mistero. Si tratta di una copia molto fedele del grande vaso etrusco risalente a 600 anni prima di Cristo. L’originale è al Museo d’arte etrusca di Villa Giulia a Roma, restituito nel 2006 dal Metropolitan Museum di New York, perché frutto di esportazione illegale. La copia di Monsignor Basso sarebbe stata realizzata nei primi del ‘900, nonostante ufficialmente il ritrovamento sia avvenuto nella necropoli di Cerveteri nel 1971. Come poteva esistere a quell’epoca una copia di un oggetto non ancora ritrovato? Un esperto come il Monsignor Basso potrebbe non essersene accorto? Un giallo nel giallo. Scrive il Messaggero che il Cratere dopo che venne trafugato dai tombaroli nel 1971, esportato illegalmente negli Usa e acquistato dal Metropolitan di New York, era stato al centro di un braccio di ferro diplomatico con l’Italia.

Sulla collezione, come scrive sempre il Messaggero, fu aperta all’inizio di questo secolo persino un’inchiesta della Procura di Roma, che fu poi archiviata, Basso donò tutto al Vaticano e la polemica si chiuse. E durante tutta la sua vita continuò a ripetere a chi glielo chiedeva che era tutto regolare, frutto di una certosina opera di dedizione e ricerca iniziata negli anni ’90. Una storia da romanzo tra misteri, opere d’arte e stanze vaticane.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Abusi sessuali.

(ANSA giovedì 16 novembre 2023) Sono 54 le vittime di presunti abusi da parte di persone della Chiesa segnalati nel 2022 (che si riferiscono anche al passato). E' quanto emerge dal secondo report della Cei. I presunti abusatori sono 32. La maggior parte delle segnalazioni fa riferimento a casi reali (29), meno ad episodi via web (3). La maggior parte dei casi di abuso si è verificata in parrocchia (17 su 29).

L'età delle presunte vittime all'epoca dei fatti si concentra nella fascia 15-18 anni (25 su 54) e sono in prevalenza ragazze (44) rispetto ai ragazzi (10). I dati sono stati presentati ad Assisi, all'assemblea della Cei. Analizzando i casi segnalati per tipologia di abuso, si nota la prevalenza - spiega la Cei nel report - di comportamenti e linguaggi inappropriati (offese, ricatti affettivi e psicologici, molestie verbali, manipolazioni psicologiche, comportamenti seduttivi, dipendenze affettive), pari a 20 casi in totale su 74.

Nel 2022 il numero complessivo di contatti (ossia il numero di persone che hanno contattato il Centro di ascolto di una diocesi a vario titolo e per varie motivazioni, ad esempio, allo scopo di avere informazioni, non necessariamente per segnalare un abuso) risulta pari a 374. 

Un dato in netta crescita rispetto al primo e secondo anno di rilevamento (rispettivamente 38 contatti nel 2020 e 48 nel 2021). Il trend in aumento è confermato anche dal dato relativo ai Centri che hanno dichiarato "1 o più contatti" passati da 16 nel 2020 a 24 nel 2021 e a 38 nel 2022, cui corrisponde, di conseguenza, la diminuzione dei Centri che hanno avuto "0 contatti".

Nel 2022 la maggioranza dei contatti è avvenuta tramite persone terze rispetto alle vittime (87,7% non vittime, 12,3% presunte vittime), situazione molto differente rispetto al 2021, quando il numero dei contatti da parte di persone terze e quelli di presunte vittime erano pressoché uguali (47,7% e 52,3% rispettivamente). 

Per quanto riguarda il motivo del contatto, in oltre la metà dei casi, nel 2021 il motivo principale era rappresentato dalla denuncia all'autorità ecclesiastica (53,1%). Nel 2022 la situazione appare molto diversa, con l'81,9% di contatti avvenuti per richiedere informazioni; solo nel 18,1% si è contattato il Centro d'ascolto della diocesi per denunciare l'autorità ecclesiastica (18,1%).

Vaticano, 54 casi di abuso denunciati alle diocesi italiane nel 2022: 35 ai danni di minori. Storia di Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023

Sono 54 i casi di abuso denunciati nel 2022 alle diocesi italiane, 35 dei quali a danno di minorenni: due di questi sono bambini con meno di quattro anni. Si tratta di casi denunciati l’anno scorso ai 108 «centri di ascolto» aperti dai vescovi, attraverso i servizi per la tutela dei minori, in buona parte (160 su 206) delle diocesi italiane.

Gli abusatori («presunti»: approfondimenti e indagini sono in corso) sono 32, quasi tutti maschi (31), divisi tra preti secolari, religiosi e laici, due dei quali sposati. Avvenuti per lo più in parrocchia (58, 6 per cento), i casi denunciati si riferiscono a 3 rapporti sessuali e per lo più «toccamenti» (14), molestie sessuali (11) e abusi di coscienza (9).

È il secondo «report» che la Cei presenta da quando il cardinale Matteo Zuppi, divenuto presidente dei vescovi a maggio dell’anno scorso, aveva annunciato una ricerca sui casi di abuso «custoditi dalla Congregazione per la Dottrina della Fede tra il 2000 e il 2021» e insieme un aggiornamento annuale.

Il primo «report», presentato un anno fa, segnalava 89 casi di «presunte vittime» e 68 «presunti autori di reato» in base ai dati segnalati da 30 dei 90 centri di ascolto istituiti nelle diocesi. Nel frattempo i centri di ascolto sono arrivati a 108, alcuni dei quali servono più diocesi (in Basilicata, ad esempio, ce n’è uno per tutta la regione), ma ne restano ancora 46 che non lo hanno ancora fatto per problemi organizzativi o difficoltà a trovare personale competente, dicono alla Cei. Dipende anche dalle dimensioni e dalle risorse delle diocesi: la maggior parte dei centri è stata aperta al Nord (46), seguono il Sud (35) il Centro Italia (27). Il fatto che l’anno scorso ci siano stati 54 casi denunciati non significa che siano stati commessi nel corso del 2022: i casi del passato (56 per cento) prevalgono rispetto agli attuali (44 per cento), anche se al Nord prevalgono gli abusi recenti (55 per cento). Le «presunte» vittime all’epoca dei fatti avevano per lo più tra i 15 e i 18 anni (25 su 54), con una prevalenza di femmine (44) rispetto ai maschi (10).

La Chiesa italiana ha scelto la strada dell’indagine interna, diffidando delle commissioni indipendenti che in alcuni casi, come in Francia e di recente in Spagna, hanno elaborato i dati in base a proiezioni statistiche che non vengono considerate attendibili dalla Cei. Il cardinale Zuppi insiste sui passi avanti compiuti: «È difficile che oggi uno insabbi. Ci sono talmente tanti meccanismi, le linee guida, l’attenzione della Santa Sede, che il rischio è quasi il contrario: che uno, per evitare problemi, avvii dei procedimenti giuridici forse anche solo per verifica». Del resto, il presidente della Cei fa notare che «la prescrizione, nella Chiesa, non c’è: chiunque, anche a distanza di anni, viene ascoltato. Ci sono casi di persone che vogliono denunciare soltanto all’autorità ecclesiastica, ma la nostra spinta è andare a denunciare alle autorità civili. Facciamo sempre un procedimento interno. In molti casi non c’è il rimando al penale per la scadenza dei termini, ma per noi no».

L’associazione di vittime italiane “Rete L’Abuso” ha bocciato la rivelazione della Cei: «Oltre a non denunciare i casi alle autorità civili, non fornisce alcun dato su fatti, luoghi, eccetera, e di conseguenza è inverificabile. I dati sono decisamente meno rispetto alle segnalazioni pervenute alla “Rete L’Abuso” durante lo stesso anno e che la Cei non vuole recepire».

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “La Repubblica – Edizione Roma” venerdì 3 novembre 2023

«Si comportava con me come un ragazzo che cerca di approcciare, cercandomi e cercando di attendere il momento in cui stavo da solo, lontano dai miei amici». Mentre proseguono le indagini sul prof di religione e diacono arrestato a Latina, con l’accusa di violenza sessuale sui suoi studenti e su altri minori, emergono i racconti shock fatti dalle vittime agli inquirenti. 

«Guardate, mi ha mandato una sua foto», ha detto uno dei giovani agli investigatori, mentre scorreva le chat con l’insegnante. «È disteso sul letto, in mutande, a gambe divaricate...». Una situazione pesantissima, che sta preoccupando particolarmente magistrati e carabinieri e che sembra destinata ad allargarsi ulteriormente, andando anche oltre l’indagato.

Il caso è esploso a gennaio. La garante dell’infanzia e dell’adolescenza, Monica Sansoni, raccolte alcune confidenze da degli studenti del liceo scientifico ‘Majorana’ di Latina, e viste anche le chat tra i ragazzi e il prof, si è rivolta alla Procura. 

Il contenuto di quelle conversazioni era pesantissimo e l’insegnante, Alessandro Frateschi, diacono permanente e impegnato attivamente anche in una casa famiglia e in parrocchia a Terracina, la sua città, è stato subito bloccato. Il vescovo Mariano Crociata a febbraio gli ha revocato l’idoneità all’insegnamento e l’ha sospeso come diacono permanente, anche se da allora non risultano altre iniziative e accertamenti da parte della Diocesi.

Accertamenti ci sono però stati dalla Procura che, ipotizzando abusi a carico di cinque ragazzi, a luglio ha arrestato Frateschi, disponendo per il 50enne i domiciliari. Poi, a settembre, una seconda ordinanza di custodia cautelare, con l’accusa per l’ex prof di aver abusato anche di un altro ragazzino, che all’epoca dei fatti non aveva ancora 14 anni: «Quando sono arrivato ha spento la televisione e mi ha fatto spogliare. Io tentennavo e gli dicevo: sono troppo piccolo per queste cose. Ma lui mi diceva di stare tranquillo». […]

Gli studenti che hanno denunciato abusi sostengono che all’inizio i messaggi inviati tramite Instagram da Frateschi «erano normali», ma poi diventavano di tenore ben diverso. Per non parlare della pratica del sexual stage, che consiste nel cingere i fianchi e le gambe delle vittime. «Quando ho capito cosa stava facendo ho provato a stare lontano da lui - ha denunciato uno degli studenti - anche perché sapeva che i fianchi erano una parte che non volevo mi si toccasse.

Lui continuava a toccarmeli e a stringerli. Questa cosa mi infastidiva terribilmente». […] Il dubbio degli inquirenti? Che la vicenda vada oltre il diacono e ben oltre la provincia di Latina.

(ANSA venerdì 3 novembre 2023) - Giuseppe Rugolo, il sacerdote a processo davanti al Tribunale di Enna con l'accusa di violenza sessuale aggravata su minori, ha denunciato un'altra giornalista. Salgono così a tre i cronisti denunciati dal sacerdote. Dopo Pierelisa Rizzo e Manuela Acqua, ora è la volta di Federica Tourn, giornalista indipendente di Torino, che da freelance si è occupata soprattutto di migranti, diritti umani, lotta alla mafia e femminismo e che da oltre un anno, conduce un'inchiesta, finanziata dai lettori, sul Domani, che riguarda le violenze nell'ambito clericale.

Tutte le giornaliste denunciate sono accusate di diffamazione e diffusione di atti procedurali. Don Rugolo ha anche querelato Antonio Messina, il giovane che aveva denunciato il sacerdote tre anni fa, e Francesco Zanardi, presidente di Rete l'Abuso, associazione che riunisce le vittime di violenze clericali. Sia la Procura di Enna che quella di Savona, dove ha sede l'associazione di Zanardi, hanno dichiarato infondate le querele disponendo l'archiviazione ma i legali di Rugolo di sono opposti. 

Non si conosce ancora l'esito dell'ultima querela presentata alla Procura di Ferrara, trasmessa a Savona e approdata ora ad Enna. La sentenza del processo al sacerdote è prevista per il 10 gennaio 2024, mentre il prossimo martedì 7 novembre è prevista la requisitoria del pm Stefania Leonte e le arringhe conclusive delle parti civili.

Gabriella Mazzeo per fanpage.it il 13 maggio 2021

Voleva rientrare in Sicilia nonostante il divieto imposto dalla diocesi dopo le accuse di violenza sessuale. Don Giuseppe Rugolo era finito ai domiciliari per abusi nei confronti di un giovane della sua parrocchia. A dicembre aveva addirittura fatto irruzione durante una diretta Facebook del vescovo Rosario Gisana con i giovani di "Progetto 360".

"Non ha saputo evitare di fare casino – diceva a gennaio il vicario di Gisana, monsignor Antonio Rivoli -. Era via ma ha continuato ad essere qui ed è stato proprio questo il danno". Il tutto emerge dalle intercettazioni effettuate dalla squadra mobile di Enna, disposte dalla procura sul principale indagato e sui testimoni della vicenda di abusi sessuali ai danni di un minore.

"Nella sua stupidità ha coinvolto pure il vescovo – continuava il vicario – senza che lui ne sapesse niente. Per cui il suo gruppo gli dice dell'incontro e spunta lui. Così sembrava che il vescovo sapesse tutto". 

Il sacerdote stava cercando di rientrare in Sicilia da Ferrara, lì dove era stato trasferito dopo le denunce. Con monsignor Pietro Spina si lamentava per quanto accaduto. "Ora basta. C'è da aspettare maggio? Che passino dieci anni? Che questi non possano fare più niente?".

Le domande pressanti riguardavano il suo rientro sull'isola: sperava nella prescrizione, ma la vittima aveva già presentato una denuncia alla squadra mobile visto che la Chiesa non si era mossa dopo la prima segnalazione del 2014. Il ragazzo si era rivolto in prima battuta a monsignor Spina, che però aveva difeso Rugolo. "Tu sei stato punito senza processo" gli diceva al telefono.

L'indagato però insisteva. "Io dirò al vescovo che sono stato nell'obbedienza, che il 10 maggio il ragazzo compie gli anni e scattano 10 anni da quando ha fatto i 18 anni. Il 10 maggio è San Cataldo, è il giorno giusto perché io rientri" continuava Rugolo.

"Poi andrò dall'avvocato e gli dirò che non ho alcuna intenzione di aspettare, che io voglio procedere in qualsiasi modo. Il vescovo sotto ricatto si è fatto fregare, ma io certe volte arrivo a pensare che forse devo fare il cattivo per ottenere un minimo di verità". 

Il ragazzo vittima di abusi si è rivolto al Papa per ottenere giustizia dopo una prima denuncia nel 2014. Il parroco era stato mandato per due anni in un'altra diocesi. "Come dovevo comportarmi?" dice il vescovo Gisana in un'intercettazione. "Lui lo ammette, ma lo ha fatto da seminarista, dunque fuori dalla giurisdizione della Chiesa"

La vicenda

Il sacerdote delle Diocesi di Piazza Amerina era stato arrestato dalla squadra mobile di Enna per violenza sessuale e atti sessuali con minorenni commessi nel periodo da seminarista, oltre che dopo la sua ordinazione. 

L'aggravante, secondo la procura, era anche quella di aver approfittato delle vittime a lui affidate per ragioni di istruzione ed educazione religiosa. Le denunce fatte dal giovane nel mese di dicembre avevano dato il via alle indagini. La vittima aveva già tentato un approccio con la Diocesi nel 2014. Don Giuseppe Rugolo, 40 anni, era molto noto in città per il suo impegno con i giovani. 

L'arresto gli è stato notificato a Ferrara, lì dove era stato trasferito dopo la segnalazione.

Dopo la denuncia della vittima 27enne, il Papa aveva chiesto informazioni sul caso del seminarista al vescovo di Piazza Armerina, Rosario Gisana. La Chiesa non aveva mai segnalato la vicenda alla magistratura. Il sacerdote sotto accusa è stato allontanato a fine 2019 ma la scorsa estate sarebbe tornato ad Enna per una messa. Poi l'incursione nella diretta facebook con il vescovo Gisana.

Tiziana Lapelosa per "Libero Quotidiano" il 28 aprile 2021

È stato quando ha saputo che il don che gli ha segnato l'esistenza era tornato nella sua città, Enna. Era l'estate dell' anno scorso. Quelle mani scivolate addosso, quell'ansimare che preannuncia il peggio e quella forza per bloccare la preda e abusarne, li avrà immaginati addosso ad altri adolescenti, in una replica infinita. 

Così come era successo a lui. La prima volta quando aveva sedici anni. Era il 2009. L'ultima quando ne aveva 20 ed era il 2013. Sarà stato il timore che altri ragazzi come lui potessero essere marchiati a vita da quel sacerdote votato a Cristo ma con l'anima venduta al diavolo a fargli prendere la decisione più sofferta della sua vita.

Così don Giuseppe Rugolo, 40 anni, è stato arrestato, a Ferrara, dove ora è ai domiciliari. Violenza sessuale e abusi su minori che modeste e umili famiglie affidavano a lui per istruirli e avviarli al credo cattolico, è l'accusa al don mossa dalla procura di Enna.

E se è successo è soltanto perché il ragazzo abusato, che oggi ha 27 anni, a dicembre dell'anno scorso ha deciso di denunciare l'inferno iniziato dall'abuso psicologico poi diventato fisico.

Ci sono le prove, dicono gli inquirenti, documenti, chat, sms che confermano l'operato del prete della diocesi di Piazza Armerina. Prove alle quali si è arrivati grazie alle indagini della squadra mobile di Enna che, con gli uomini della polizia postale, hanno "spiato" nel cellulare del religioso con l'attività "extra" iniziata quando ancora vestiva i panni da seminarista. 

E che, nominato prete, quando le cose hanno iniziato a girare male, ai fedeli ha detto che si sarebbe trasferito al Nord, a Ferrara, per motivi di salute. Una decisione non sua, ma frutto della Diocesi di Enna, alla quale la vittima si era rivolta per fare luce su quegli incontri affatto sacri.

In cambio, dicono i suoi legali, gli sono stati offerti 25 mila euro, mentre il Tribunale ecclesiastico chiudeva il procedimento a carico di don Giuseppe per "difetto di competenza".

Gli abusi, in pratica, sarebbero avvenuti quando il don era seminarista e senza mai ascoltarlo se non attraverso una dichiarazione resa al vescovo Don Rosario Gisana, che oggi esprime «vicinanza alla comunità ecclesiale di Enna», assicura di pregare «per le presunte vittime» e dice di confidare nella magistratura.

La vittima aveva pure scritto a Papa Francesco per evitare che l'orrore si ripetesse. Ma niente. La procura parla di «un riscontro dell'attività investigativa, a conferma della piena genuinità dei fatti denunciati» dalla vittima. 

Fatti che si accompagnano ad altri abusi, nei confronti di due minori, quando don Rugolo si vestiva da prete. E il timore è che possano non essere gli unici casi dal momento che il 40enne, con il suo fare amichevole e con la gestione di una associazione nei cui locali sarebbero avvenuti gli abusi, era molto seguito.

Le famiglie si fidavano di lui con un volto che non tradiva misteri. «Quanti non lo sappiamo», dice il procuratore Massimo Palmeri, «pensiamo che possano esserci, e quasi certamente ci saranno, altre vittime di queste condotte reiterate nel tempo, iniziate quando i tre erano ancora minorenni e andate avanti a lungo». 

E invita, chi non l'ha fatto, a farsi coraggio e a parlare, a denunciare. «La mia dolorosa storia sia la testimonianza che anche dopo dodici anni dalle violenze si può denunciare», le parole della vittima che nelle forze dell'ordine ha trovato la fiducia tanto cercata. Quindi, l'appello: «Invito chi ha subito abusi a denunciare, un atto che impone coraggio, ma che ti rimette in pace con te stesso».

Il prete accusato di violenza sui minori denuncia la giornalista Federica Tourn per gli articoli su Domani. Giuseppe Rugolo su Il Domani il 03 novembre 2023

Tourn da un anno conduce un'inchiesta su queste pagine, finanziata dai lettori, che riguarda le violenze nell'ambito clericale. L’avvocato ha anche segnalato la giornalista all’ordine. Salgono così a tre le croniste denunciate dal sacerdote, che ha anche querelato chi lo ha denunciato

Giuseppe Rugolo, il sacerdote a processo davanti al Tribunale di Enna con l’accusa di violenza sessuale aggravata su minori ha denunciato la giornalista Federica Tourn, perché ha scritto del suo caso sulle pagine di Domani. Da freelance Tourn si è occupata soprattutto di migranti, diritti umani, lotta alla mafia e femminismo e per Domani ha condotto un’inchiesta, sostenuta dai lettori, su Domani, che riguarda le violenze e gli abusi nella chiesa.

Tourn era già stata segnalata anche all’ordine dei giornalisti dall’avvocato di Rugolo. Il prete non è nuovo a queste azioni, aveva già denunciato altre due giornaliste: Pierelisa Rizzo e Manuela Acqua, le croniste salgono così a tre. Non solo: ha querelato anche la presunta vittima che lo ha denunciato.

«DIFFAMAZIONE»

Tutte le giornaliste denunciate sono accusate di diffamazione e diffusione di atti procedurali. Rugolo avrebbe abusato di tre ragazzi, come Tourn ha scritto su Domani il 3 luglio del 2022. Il vescovo competente, quello di Piazza Armerina, Rosario Gisana, venuto a conoscenza della condotta dubbia di Rugolo avvertito da un altro parroco, di fronte al racconto della vittima, che dichiara di aver subito violenze fisiche e psicologiche, il vescovo si limita ad avviare un procedimento ecclesiastico e un trasferimento a Ferrara del prete presunto molestatore. Senza rivolgersi alla giustizia.

In sede processuale è poi emerso che per la sua difesa vengono utilizzati i fondi dell’8x1000. E dopo questo nuovo articolo scritto da Tourn è partita la querela.

Don Rugolo ha anche querelato Antonio Messina, il giovane che aveva denunciato il sacerdote tre anni fa, e Francesco Zanardi, presidente di Rete l'Abuso, associazione che riunisce le vittime di violenze clericali. Sia la Procura di Enna sia quella di Savona, dove ha sede l'associazione di Zanardi, hanno dichiarato infondate le querele disponendo l’archiviazione, ma i legali di Rugolo di sono opposti.

Non si conosce ancora l'esito dell’ultima querela presentata alla Procura di Ferrara, trasmessa a Savona e approdata ora ad Enna. La sentenza del processo al sacerdote è prevista per il 10 gennaio 2024, mentre il prossimo martedì 7 novembre è prevista la requisitoria del pm Stefania Leonte e le arringhe conclusive delle parti civili.

Enna, storia del prete pedofilo tenuto coperto da due vescovi. FEDERICA TOURN su Il Domani il 03 luglio 2022

Don Giuseppe Rugolo è stato arrestato il 27 aprile 2021 e il processo a suo carico si è aperto a Enna il 7 ottobre scorso. A porte chiuse. La prossima udienza sarà il 7 luglio. È accusato di violenza sessuale su tre minori, secondo gli articoli 81 e 609 del codice penale.

Soltanto nel 2016 il vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana viene informato dei fatti, iniziati sette anni prima. E decide di spedire il prete pedofilo nella diocesi di Ferrara, ufficialmente per motivi di salute. Lì viene nuovamente incaricato di seguire i ragazzi della parrocchia.

Intercettato, il vescovo ammette il suo coinvolgimento: «Il problema è anche mio perché io ho insabbiato questa storia… eh vabbè, pazienza, vedremo come poterne uscire!».

A novembre 2018 a Enna è tutto pronto per il solenne insediamento nella chiesa di San Cataldo. Ma qualcosa manda a monte la festa per il nuovo parroco Giuseppe Rugolo: la presa di possesso avviene in sordina per decisione del vescovo e don Giuseppe per il dispiacere finisce addirittura in ospedale.

Quello che sembra soltanto un intoppo nella brillante carriera di un prete molto popolare, leader indiscusso di un gruppo giovanile che conta più di duecento ragazzi, è invece il preludio di uno scandalo che culminerà più di due anni dopo nell'accusa di violenza sessuale su tre minori, secondo gli articoli 81 e 609 del codice penale.

A denunciare è un giovane, Antonio Messina, all'epoca dei primi abusi appena sedicenne; durante l'inchiesta vengono individuati altri due minorenni vittime del prete. La gip Luisa Maria Bruno dispone gli arresti domiciliari per il rischio della reiterazione del reato e la tendenza dell'indagato «a cedere alle pulsioni sessuali in maniera incondizionata».

UN LEADER PER I GIOVANI

Nell'estate del 2009 don Giuseppe ha ventotto anni, è ancora seminarista e si occupa della pastorale giovanile. Antonio Messina invece è uno degli animatori del gruppo estivo di cui Rugolo è responsabile; vorrebbe entrare in seminario ma è in una fase di confusione sulla sua identità sessuale.

Ne ha parlato proprio con don Giuseppe che con il suo modo di fare incoraggia le confidenze dei ragazzi. Secondo quanto racconta Antonio, Rugolo approfitta di un momento in cui sono soli per costringerlo a masturbarlo: «Non c'è niente di male», gli avrebbe detto il prete per calmarlo, lo stava solo aiutando «a comprendere le sue inclinazioni». Gli approcci vanno avanti fino al 2013, quattro anni in cui il ragazzo subisce una vera persecuzione, braccato in chiesa e controllato al telefono, blandito in privato e umiliato davanti a tutti se cerca di prendere le distanze.

Quando Antonio instaura una relazione con un suo coetaneo, don Rugolo si oppone dicendo che commette peccato perché deve fare sesso solo con lui. Spaventato, soggiogato dalla personalità manipolatrice del prete, il ragazzo viene aggredito in canonica, in sagrestia, dietro l'altare prima della messa: «Sentivo di non avere via di scampo», dice agli inquirenti.

Dopo Messina, il prete continua la caccia. Nel 2015 fonda l'associazione giovanile 360, nuovo bacino di pesca per le sue conquiste: sceglie cinque o sei ragazzi, il suo “cerchio magico”, con cui instaura un rapporto informale fatto di battute sessiste, toccatine sui genitali e ritiri notturni in canonica. A uno di loro, con cui divide il letto e la doccia, regala soldi e manda messaggi pieni di cuoricini e “ti amo”, “notte principessa mia”, “amore mio”.

Il ritratto di Rugolo che emerge dall'ordinanza di custodia cautelare è di una “prima donna”: egocentrico e permaloso, distribuisce favori e punizioni a seconda dell'umore. Anna (nome di fantasia), parrocchiana sua coetanea, ricorda: «Lo trovavi nei locali a tutte le ore, beveva e fumava canne coi ragazzi, li apostrofava con “ciao puttanella, ciao coglioncello”, li chiamava al telefono per chiedergli di raggiungerlo in piena notte. Un megalomane».

UNA FRENESIA MAI NASCOSTA

Rugolo non era discreto nella sua frenesia, ma le autorità ecclesiastiche sembravano non accorgersene, anche se il vizio di don Giuseppe era noto.

Nel 2014 Messina si era deciso a raccontare tutto al parroco che lo aveva visto crescere, Pietro Spina, che non gli aveva creduto.

L'anno successivo si era confidato con l'attuale vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico Vincenzo Murgano il quale gli aveva consigliato di non denunciare l'accaduto e tirare avanti senza nemmeno avvertire il vescovo. Soltanto nel 2016 il vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana, finalmente avvertito da un altro parroco, convoca Rugolo che però in un primo tempo nega. Gisana temporeggia, in attesa di parlare con Messina: incontro che si concretizza dopo altri due anni.

Di fronte al racconto della vittima, che dichiara di aver subito violenze fisiche e psicologiche, il vescovo richiama il prete che, proprio alla vigilia del suo ingresso ufficiale in San Cataldo, «dopo pianti e disperazione», ammette (almeno in parte) l'abuso.

La reazione del vescovo di fronte all'evidenza rappresenta bene l'atteggiamento della Chiesa: innanzitutto il silenzio. Da un lato avvia l'indagine sulla condotta del prete, dall'altro offre alla famiglia del ragazzo 25 mila euro purché non risulti da nessuna parte che si tratta di un risarcimento per un abuso sessuale.

«Dovevano essere in contanti, il vescovo disse ai miei genitori che li avrebbe presi dai fondi della Caritas», dice Messina. «Mi chiesero di firmare una clausola extragiudiziale di riservatezza in cui, in cambio di questa somma, io mi impegnavo a non parlare più con nessuno di quanto mi era successo. Ho avuto la sensazione di essere comprato». «Il riserbo era una richiesta della famiglia – dichiara invece l'avvocato della curia vescovile Gabriele Cantaro – Non è stata fatta alcuna offerta di denaro con l'intento di comprare il silenzio della parte offesa.

Anzi, la trattativa parte proprio dalla famiglia, in un primo momento come sostegno per le spese sostenute e poi a titolo risarcitorio». L'accordo economico in ogni caso non si conclude e Antonio non viene nemmeno informato sull'esito dell'inchiesta ecclesiastica, un nulla di fatto.

A FERRARA “PER CURARSI”

Intanto Gisana decide di mandare il prete pedofilo nella diocesi di Ferrara, ufficialmente per motivi di salute. Oggi il vescovo di Ferrara Gian Carlo Perego (presidente della commissione CEI per le migrazioni e della Fondazione Migrantes) sostiene che la permanenza del prete ennese «è stata concordata con la finalità del completamento degli studi presso l'ateneo di Padova».

Perego sapeva che Rugolo aveva precedenti pedofili? «Ero stato informato dal vescovo Gisana di un procedimento a carico di don Giuseppe per un episodio precedente la sua ordinazione, ma mi mostrò che tale vicenda era già stata valutata dalla Congregazione della Dottrina della Fede, e che non costituiva assolutamente una limitazione alla sua presenza da noi». Infatti Rugolo, nella parrocchia di Vigarano Mainarda in provincia di Ferrara, nell'estate 2020 organizza addirittura un campo per adolescenti.

Il suo cuore però è rimasto ad Enna, dove continua a seguire i “suoi” ragazzi e ogni tanto compare senza avvertire il vescovo: «Nell'estate del 2020 ha addirittura celebrato un matrimonio – ricorda Anna – lo si vedeva girare in centro, prendeva l'aperitivo con i ragazzi con un atteggiamento strafottente».

Lo confermano gli stralci delle intercettazioni citate nell'ordinanza di custodia cautelare: Rugolo si sente punito ingiustamente e fa pressioni sulla curia per tornare a casa. «Io voglio fare il Grest con i ragazzi! Perché sennò li perdo tutti questi ragazzi!», si lamenta con padre Spina a gennaio 2021, salvo disperarsi giorni dopo quando sui social si diffonde la notizia che un prete di Enna è stato denunciato per abusi: Messina, infatti, dopo aver scritto invano anche al papa, si è rivolto alla polizia.

IL VESCOVO INTERCETTATO

Se Rugolo piange, monsignor Gisana certo non ride. In un'intercettazione pubblicata integralmente dal Mattino, il vescovo ammette il suo coinvolgimento: «Il problema è anche mio perché io ho insabbiato questa storia… eh vabbè, pazienza, vedremo come poterne uscire!». Ma i fedeli firmano petizioni di solidarietà per il prete pedofilo e il vescovo che lo protegge, solidali con dei sacerdoti attenti a coprirsi le spalle l'un l'altro, e pazienza se a venire sacrificati sono i ragazzini. Significativo il commento del vicario generale don Antonino Rivoli che, interrogato dagli inquirenti, ammette: «Nessuno di noi pensò di dover informare l'autorità giudiziaria dato che gli abusi erano stati commessi su un minore».

Giuseppe Rugolo è stato arrestato il 27 aprile 2021 e il processo a suo carico si è aperto a Enna il 7 ottobre scorso. A porte chiuse. La prossima udienza sarà il 7 luglio. Nel frattempo gli sono stati revocati gli arresti domiciliari. Nell'ordinanza si legge che in Emilia ha avuto rapporti con due diciannovenni del luogo e incontrato in un albergo di Ravenna un suo ex allievo di Enna. Dall'analisi del suo pc sono emersi innumerevoli download di foto di uomini nudi; fra marzo 2020 e gennaio 2021 si sono registrati accessi a siti porno con la chiave di ricerca “teen” a qualsiasi ora, con una media di almeno 60 al giorno.

Per il vescovo Perego «durante il periodo trascorso in arcidiocesi, non è accaduto nulla di mia conoscenza che facesse dubitare della sua condotta sacerdotale». Don Murgano, il prete che aveva suggerito ad Antonio di dimenticare la violenza, è dal 2019 referente del servizio per la tutela dei minori della diocesi di Piazza Armerina. FEDERICA TOURN

Dossier choc in Spagna: 440mila abusi nella Chiesa. Oltre l'1% degli adulti spagnoli ha denunciato di aver subito violenza. Il Papa dà l'ok al processo a Rupnik. Serena Sartini il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il caso era già scoppiato da tempo e le critiche per una mancata pronuncia da parte del Papa non erano mancate. Ora la svolta. Francesco ha stabilito che padre Marko Rupnik, l'ex gesuita sloveno noto per i suoi mosaici, accusato di aver commesso abusi psicologici e sessuali su diverse religiose della Comunità di Loyola a Lubiana, di cui era il padre spirituale, sia processato in Vaticano. «Nel mese di settembre riferisce un comunicato della Santa Sede - la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori ha segnalato al Papa gravi problemi nella gestione del caso di padre Marko Rupnik e la mancanza di vicinanza alle vittime». Per questo, il Pontefice «ha chiesto al Dicastero per la Dottrina della Fede di esaminare il caso e ha deciso di derogare alla prescrizione per consentire lo svolgimento di un processo». Le accuse verso Rupnik sono emerse nel dicembre 2022. La Compagnia di Gesù confermò che il procedimento era stato condotto dal Dicastero per la Dottrina della Fede e si era concluso con la prescrizione dei delitti contestati. L'ex Sant'Uffizio riconobbe che da parte del religioso c'era stata l'assoluzione del complice, e quindi Rupnik era incorso nella scomunica, poi revocata per via del suo «pentimento». Nel frattempo, però, erano emersi nuovi casi. La Compagnia di Gesù chiese nuovamente alla Dottrina della Fede di svolgere un processo, ma il dicastero decise di non procedere. Molti «accusarono» il dicastero vaticano e il Papa in primis di voler coprire un gesuita. Fu invece il superiore generale della Compagnia di Gesù a imprimere una svolta nel caso, decidendo di «dimettere» Rupnik a causa del suo «rifiuto ostinato» di obbedire alle restrizioni impostegli, e invitò le vittime a farsi avanti. Infine la decisione tanto attesa di Francesco, ovvero di «derogare alla prescrizione». Rupnik che proprio negli ultimi giorni è stato incardinato nella diocesi slovena di Capodistria dovrà rispondere delle sue azioni.

Intanto, un altro dossier ha scosso la chiesa universale. Il difensore civico spagnolo ha presentato al Congresso dei Deputati il rapporto sui casi di abusi ai danni di minori commessi in ambienti della Chiesa cattolica. Si tratta del primo resoconto ufficiale sul fenomeno: un rapporto shock che parla di 440mila casi di abusi (la metà a danno di minori). Di questi lo 0,6% ha subito violenze da parte di sacerdoti o religiosi, il resto da parte di laici in ambienti cattolici. Il responsabile del rapporto, Ãüngel Gabilondo, ha anche proposto un fondo di risarcimento statale per le vittime, denunciando, in particolare, «il silenzio di chi avrebbe potuto fare di più per prevenire» il tragico fenomeno della pedofilia nella Chiesa. Immediato il commento del premier ad interim spagnolo Pedro Sanchez: «Oggi il nostro Paese è diventato migliore». Serena Sartini

Scagionato l'ex vescovo "dimissionato" dal Papa. Cosa farà Francesco? Archiviata l'indagine per violenza sessuale su mons. Michel Aupetit, ex arcivescovo di Parigi. Nel frattempo, però, Francesco lo ha sostituito. Nico Spuntoni il 17 Settembre 2023 su Il Giornale. 

Se non si parlasse di un uomo di Chiesa a cui è imposto il precetto cristiano del perdono, si potrebbe dire che quella di monsignor Michel Aupetit è una di quelle storie per cui vale la pena utilizzare l'espressione "che grida vendetta". E d'altra parte, come sosteneva C.S. Lewis, il perdonare i propri nemici è l'unica virtù cristiana più impopolare della castità.

Un vescovo in disgrazia

I guai di monsignor Aupetit, arcivescovo di Parigi dal 2017 nonostante il profilo conservatore, sono iniziati nel novembre del 2021 con un'inchiesta del settimanale Le Point che lo accusava di aver avuto una relazione con una donna nel 2012. Due giorni dopo l'uscita della rivista, pur smentendo quanto vi si sosteneva, l'allora primate di Francia inviò le sue dimissioni in Vaticano. E Francesco, a sorpresa, le accettò. Paradossalmente, però, il Papa difese il presule sul volo di ritorno dalla visita apostolica in Grecia e Cipro sostenendo che era stato condannato dall'"opinione pubblica" e dal "chiacchiericcio".

Bergoglio, inoltre, rivelò dettagli non noti dell'accusa rivolta ad Aupetit, dandoli per assodati: "E' stata una sua mancanza contro il sesto comandamento, ma non totale. Le piccole carezze, i massaggi che faceva alla segretaria". Infine, sostenne che "un uomo al quale hanno tolto la fama così non può governare" e pur ritenendola "un'ingiustizia" annunciò di aver accettato le dimissioni "non sull'altare della verità, ma sull'altare dell'ipocrisia".

L'indagine

Ma i problemi per l'ex arcivescovo di Parigi non sono finiti con le dimissioni. Dopo il clamore della pubblicazione di Le Point e delle parole del Papa, Nel dicembre 2022, infatti, la procura parigina ha aperto su di lui un'indagine preliminare con l'ipotesi di violenza sessuale ai danni di una persona vulnerabile.

I magistrati si sono mossi dopo aver ricevuto dall'arcidiocesi di Parigi la segnalazione di una lettera arrivata alla sede arcivescovile in cui si faceva riferimento ad una presunta aggressione avvenuta diversi anni fa. Fu proprio Aupetit, ai tempi del suo mandato, ad adottare questa procedura all'insegna della tolleranza zero nei casi di potenziali abusi commessi. La presunta vittima sarebbe stata una donna sotto protezione legale proprio perché riconosciuta persona vulnerabile.

Nessun reato

Nei giorni scorsi è arrivata la notizia che la procura ha chiuso il fascicolo perché "non c'è alcun reato". D'altra parte, la donna in questione ha negato la violenza sessuale e non ha presentato alcuna denuncia. Lo stesso Aupetit aveva smentito ai magistrati l'esistenza di qualsiasi relazione sentimentale con la donna tirata in ballo nella lettera inviata all'arcidiocesi. Indagine chiusa, dunque, con soddisfazione dell'avvocato che lo difendeva, Jean Reinhart che ha spiegato come il religioso ha vissuto la vicenda "con serenità perché era certo che non sarebbe stato possibile concluderla senza alcuna azione".

Tuttavia, la notizia della chiusura dell'indagine per assenza di reato è passata molto in sordina sulla stampa francese.

Le conseguenze del "chiacchiericcio"

Ma non tutto è bene quel che finisce bene. Michel Aupetit a soli 72 anni e dopo essere stato primate di Francia si ritrova a riposo nonostante un curriculum che all'indomani della sua nomina a Parigi, con la previsione di una porpora che poi non sarebbe arrivata, aveva fatto finire il suo nome tra i possibili papabili in un futuro Conclave. Matteo Matzuzzi su Il Foglio ha osservato che due anni dopo quelle dimissioni prontamente accettate dal Papa "l'accusa più grave e infamante è caduta. In compenso, un vescovo assai sgradito a certi settori della cultura parigina è stato pensionato anzitempo 'sull'altare dell'ipocrisia' 'per il chiacchiericcio'". Il chiacchiericcio che non ha colpito solo il presule ma anche le donne vicine a lui: le parole del Papa sull'aereo di ritorno da Atene avevano attirato l'attenzione sulla segretaria che avrebbe ricevuto carezze e massaggi dall'arcivescovo.

In realtà, come ha avuto modo di chiarire Aupetit, Francesco ha fatto confusione perché la segretaria - sposata e con famiglia - non c'entrava assolutamente alcunché con il comportamento che avrebbe potuto generare ambiguità e per il quale l'arcivescovo ha preferito dimettersi allo scoppio delle polemiche. Il massaggio, infatti, fu fatto ad una sua amica che soffriva di mal di schiena. Bisogna ricordare che Aupetit prima di essere ordinato sacerdote era un dottore con 11 anni di professione medica alle spalle ed anche per questo è molto legato alla figura di Jérôme Lejeune, il pediatra francese che scoprì la sindrome di Down ed è riconosciuto Venerabile dalla Chiesa cattolica (per la sua storia "Jérôme Lejeune. La libertà dello scienziato", Cantagalli, di Aude Dugast).

La segretaria, avendo accesso alla casella mail dell'arcivescovo, è entrata nella vicenda solo perché aveva potuto leggere la mail tra Aupetit e quella donna in cui probabilmente si faceva riferimento al massaggio.

La morbosità sulla vita privata dell'arcivescovo si è poi concentrata sulla teologa belga e vergine consacrata, Laetitia Calmeyn a lui legata da un rapporto di stima e di amicizia. Sebbene non avesse alcun legame con la vicenda della mail che aveva portato al passo indietro dell'arcivescovo, la donna è finita sui giornali francesi e la foto di una loro passeggiata è stata pubblicata dal settimanale The Paris Match col titolo "Monsignor Aupetit perduto per amore".

L'ingiustizia

Francesco aveva detto di considerare "un'ingiustizia" le dimissioni di Aupetit e di accettarle "sull'altare dell'ipocrisia" perché "un uomo al quale hanno tolto la fama così non può governare". La lista di vescovi su cui è forte il chiacchiericcio ma rimasti in ruoli di governo non è breve. In ogni caso, ora che la giustizia francese ha ripristinato la fama di Aupetit chiudendo l'unica indagine finora aperta su di lui, ci sarà un risarcimento "sull'altare della verità"?

Francesco è stato il Papa che ha avuto il coraggio, nel bel mezzo di una campagna mediatica ostile sul tema, di dedicare una meditazione della Via Crucis al racconto di un sacerdote ingiustamente accusato di abusi e rilasciato dopo dieci anni di detenzione. Questo tipo di ingiustizia è una forma di martirio dell'età contemporanea ed il rosso del sangue dei martiri è proprio ciò che si trova simboleggiato dal colore della porpora. Il cardinalato ad Aupetit, mancato ai tempi del mandato a Parigi, non sarebbe un bel segnale contro il chiacchiericcio diretto a danneggiare la Chiesa, le sue donne e i suoi uomini e che spesso parte proprio dall'interno della Chiesa?

Estratto da today.it martedì 22 agosto 2023.

L'Arcidiocesi di San Francisco, in California (Stati Uniti), è stata costretta a dichiarare istanza di fallimento per bancarotta a causa delle troppe cause per abusi sessuali risalenti anche a decenni fa. A darne notizia ai fedeli, sul sito dell'Arcidiocesi, è mons. Salvatore J. Cordileone: 

"Qualche settimana fa - si legge nella lettera aperta - vi ho scritto riguardo all’impatto di oltre 500 cause civili che sono state intentate contro l’arcidiocesi ai sensi della legge statale AB-218, che ha consentito a singoli individui di avanzare denunce per abusi sessuali su minori che altrimenti sarebbero state respinte a causa di la scadenza dei termini di prescrizione.

Oggi vi informo che, dopo molte riflessioni, preghiere e consultazioni con i nostri consulenti finanziari e legali, l'arcidiocesi di San Francisco ha presentato istanza di riorganizzazione fallimentare ai sensi del Capitolo 11". 

"Riteniamo che il processo di fallimento sia il modo migliore per fornire una soluzione compassionevole ed equa per i sopravvissuti agli abusi, garantendo nel contempo la continuazione dei ministeri vitali ai fedeli e alle comunità che fanno affidamento sui nostri servizi e sulla nostra carità - aggiunge Cordileone - l'arcidiocesi di San Francisco si unisce ad un elenco crescente di diocesi negli Stati Uniti e in California che hanno presentato istanza di protezione ai sensi delle leggi sulla bancarotta" […]

Cordileone sottolinea "che la stragrande maggioranza dei presunti abusi si è verificata negli anni ’60 e ’70, e negli anni ’80, e ha coinvolto sacerdoti deceduti o che non erano più in servizio" e ricorda come oggi si utilizzino "processi rigorosi per selezionare volontari, dipendenti e sacerdoti". […]

Troppe cause per abusi su minori. E la diocesi va in bancarotta. Storia di Massimo Balsamo su Il Giornale martedì 22 agosto 2023.

Lunedì l’arcidiocesi cattolica di San Francisco, in California, ha presentato istanza di bancarotta. Una mossa necessaria data l’impossibilità di gestire gli oneri determinati dalle oltre cinquecento cause giudiziarie per abusi sessuali su minori. Il numero di dispute legali è aumentato esponenzialmente ai sensi del California Assembly Bill 218 approvato nel 2019 che ha esteso il termine di prescrizione per le azioni civili nei casi di abusi sessuali su minori.

La diocesi di San Francisco dichiara bancarotta

L'istanza è stata presentata a nome dell'arcivescovo Salvatore J. Cordileone alla Corte fallimentare del Distretto settentrionale della California: “Crediamo che sia il modo migliore per fornire una compensazione giusta ed equa ai sopravvissuti innocenti e a quanti hanno subito danno, garantendo nel contempo la continuazione dei ministeri vitali per i fedeli e per le comunità che fanno affidamento sui nostri servizi e sulla nostra carità”.

L’istanza di fallimento fermerà tutte le azioni legali contro l’arcivescovo cattolico di San Francisco, mentre l’arcidiocesi metterà nero su bianco un piano di riorganizzazione basato sui beni e sulla copertura assicurativa disponibile da utilizzare per risolvere i reclami con i sopravvissuti agli abusi. L’arcivescovo Cordileone ha aggiunto: “La triste realtà è che l'Arcidiocesi non ha né i mezzi finanziari né la capacità pratica per discutere individualmente tutte queste denunce di abuso, e quindi, dopo molte considerazioni, ha concluso che il processo di fallimento era la soluzione migliore per fornire un risarcimento giusto ed equo ai sopravvissuti innocenti che sono stati feriti".

Gli altri casi

La strada intrapresa è la migliore, ha sottolineato l’arcivescovo, ponendo l’accento sulla necessità di proseguire la sacra missione verso fedeli e bisognosi: “Dobbiamo cercare la purificazione e la redenzione per guarire, soprattutto i sopravvissuti che hanno portato contro di loro il peso di questi peccati per decenni”. In base a quanto ricostruito dalla stampa statunitense, la stragrande maggioranza delle accuse di abusi sessuali su minori risale agli anni Settanta e Ottanta e riguardano sacerdoti che nel frattempo sono morti o sono stati privati dell’ordine.

Come evidenziato dal New York Times, quella di San Francisco è la terza arcidiocesi dello Stato a presentare istanza di fallimento nel 2023: quelle di Oakland e Santa Rosa hanno presentato istanza in primavera, citando come causa il numero di cause legali per abusi sessuali su minori intentate contro di loro. La diocesi di San Diego, una delle più grandi dello Stato, ha annunciato a maggio che intende presentare domanda entro la fine dell’anno. Secondo quanto riferito dalla professoressa Marie T. Reilly, circa una dozzina di arcidiocesi negli Stati Uniti sono attualmente in procedura di fallimento.

Abusi: archiviazione per Ratzinger. Video su ZDF: Bergoglio difese il pedofilo Grassi. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 05 maggio 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Parlare contro la pedofilia nella Chiesa è il sistema più facile per raccogliere consensi, ma alle parole devono corrispondere i fatti, altrimenti è PURA DEMAGOGIA.

Ratzinger è stato, sia da cardinale che da papa, il vero MARTELLO dei preti pedofili, tanto da farne spretare circa 400. Questo è stato riconosciuto mesi fa, unanimemente, perfino dai suoi nemici, dopo l'aggressione mediatico-giudiziaria orchestrata dal clero tedesco. Lo hanno attaccato, 94enne, per presunte “sviste” di 40 anni fa. “Non aveva saputo ben vigilare”: bufale conclamate, tanto che dopo la sua morte, il procedimento è stato ARCHIVIATO, ovviamente con notizie minime comparse sui giornali, che prima avevano dato un enorme risalto alla montatura.

Un trafiletto minimo sull’Ansa, QUI per rendere giustizia al vero papa, a fronte dei fiumi di inchiostro che parlavano delle accuse, getta un'ombra davvero inquietante sull'informazione nostrana. 

Ma intanto, del fango era stato gettato sulla sua figura, così come del fango è stato gettato pochi giorni fa su Giovanni Paolo II da recenti dichiarazioni di Pietro Orlandi, abilmente manipolate dalla stampa, che sono state smentite da Bergoglio il 16 aprile, con un clamoroso ritardo, solo dopo che lo aveva fatto già il 13 il cardinale Stanisław Dziwisz, storico segretario di papa Wojtyla.

La banale strategia di Francesco, ormai scoperto non essere stato canonicamente eletto, come apprenderete  è quella di convogliare consenso su se stesso e, al contempo, di far denigrare abilmente la memoria dei veri pontefici.

Ecco, infatti, cosa ha appena dichiarato: «L’abuso sessuale di minori da parte del clero e la sua cattiva gestione da parte dei LEADER ECCLESIASTICI sono stati una delle sfide più grandi per la Chiesa del nostro tempo».

E chi sarebbero questi LEADER ECCLESIASTICI? Nella categoria leader figurano inevitabilmente anche i papi precedenti, ci avete fatto caso? Bergoglio avrebbe dovuto specificare qualcosa sull’opera eccezionale di papa Benedetto XVI contro la pedofilia. E INVECE NO.

Quindi, per la percezione comune, anche Ratzinger è infilato nel calderone dei leader che hanno gestito malamente la questione. 

E così viene spontaneo riproporvi un documentario sconvolgente di Martin Boudot intitolato “Il Codice del Silenzio”, mai arrivato in Italia nonostante fosse stato trasmesso sulla ZDF tedesca e sulla tv di stato francese. Il documentario ha vinto il miglior programma europeo di attualità 2017 al Prix Europa. Grazie a questo documentario, Martin Boudot è stato tra i finalisti 2017 dell'Albert Londres Prize .

Ora, il canale Youtube Domina Tv Multilingual ha provveduto a sottotitolarlo in italiano e ve lo riproponiamo.

 per vedere il filmato. 

Il video afferma che Bergoglio, da Arcivescovo di Buenos Aires, non solo ha del tutto ignorato e rifiutato di ricevere sette persone abusate da preti, ma ha anche PROMOSSO – tentando di orientare il giudizio della Corte d’Appello argentina - una potente difesa del prete pedofilo Julio Caesar Grassi, condannato a 15 anni di reclusione per abusi su minori dai 9 ai 17 anni di età. Grassi è tuttora recluso in Argentina.

Fino ad oggi, nonostante il documentario e una petizione, Bergoglio non ha mai risposto ufficialmente.

Questo Grassi, personaggio mediatico sempre sotto i riflettori, gestiva un enorme orfanotrofio finché dei bambini presentarono denuncia contro di lui per abusi sessuali.

La Conferenza episcopale argentina si mobilitò in difesa del sacerdote abusatore e, come spiega l’avvocato difensore dei bambini, Gallego, nel 2010 questa commissionò al famoso avvocato Sancinelli di Buenos Aires una mega controinchiesta in 4 volumi dalla copertina accattivante, per un totale di 2800 pagine, PER DIFENDERE PROATTIVAMENTE IL PEDOFILO. Nei quattro tomi del lavoro, intitolato “Studio sopra il caso Grassi” i bambini venivano accusati di bugia, inganno, falsificazioni, di dubbio orientamento sessuale e quindi il prete doveva essere assolto in appello.

Un paragrafo parla chiaro sui quattro volumi: "Il lavoro fu commissionato nel 2010 "per iniziativa della Conferenza episcopale argentina, in particolare dal suo allora presidente S.E.R. il card. Jorge M. Bergoglio, oggi Sua Santità Papa Francesco”. 

Quindi il papa – prosegue il documentario - ha commissionato una controinchiesta per far assolvere un prete che era stato condannato per pedofilia e Bergoglio, il futuro papa, l’ha inviata con astuto tempismo poco prima delle varie udienze di appello di padre Grassi”.

La cosa viene confermata dall’ex magistrato della corte d’appello Carlos Mariquez, oggi giudice della corte suprema, che ammette: “Sì ho ricevuto questa controinchiesta. E’ una sorta di romanzo poliziesco, parziale in alcune aree ed estremamente parziale in altre, chiaramente a favore di Padre Grassi. Stavano cercando di esercitare una subdola forma di pressione sui giudici”.

Uno dei ragazzi vittima di abusi afferma: “Non scorderò mai quello che diceva padre Grassi al processo:  «Bergoglio non mi ha lasciato la mano». Ora Bergoglio è papa Francesco, non è mai andato contro le parole di Grassi, quindi sono certo che non ha mai lasciato la mano di Grassi”.

Per otto mesi i documentaristi cercano di essere ricevuti da Bergoglio, senza successo, così lo vanno a incontrare direttamente in Piazza San Pietro, durante un’udienza pubblica. Gli chiedono: “Santità, ha cercato di influenzare la giustizia argentina sul caso Grassi? Perché ha commissionato una controinchiesta?”.

Para nada”, risponde Bergoglio negando tutto e tirando dritto.

L’anima nera della Chiesa. Le Iene presentano – Inside: anticipazioni e ospiti del programma di Italia 1, 16 aprile 2023. Anton Filippo Ferrari su TPI il 16 Aprile 2023 

Le Iene presentano: Inside è il nuovo programma della domenica sera di Italia 1 a cura della redazione de Le Iene. In ogni puntata un argomento trattato in precedenza dalla trasmissione viene approfondito con ulteriori dettagli ed elementi inediti. “Inside significa dentro, e dentro il tema della serata è esattamente dove vogliamo portare le persone che ci seguiranno – spiega Davide Parenti, ideatore del programma -. A Le Iene ci siamo occupati praticamente di tutto ciò che è successo negli ultimi 25 anni in Italia, e con questo background possiamo mettere in fila le tante storie che abbiamo approfondito e, spesso, riportato all’attenzione che meritavano.” Di seguito le anticipazioni della puntata di stasera, 16 aprile 2023.

L’anima nera della Chiesa. Sarà questo il tema della nuova puntata di “Le Iene presentano Inside” con Gaetano Pecoraro e Riccardo Festinese. Partendo dalle novità del caso dei presunti abusi sessuali sui chierichetti del Papa all’interno del Vaticano di cui vi il programma ha già parlato e che ha occupato le prime pagine di tutto il mondo, il programma farà un viaggio nel lato oscuro della Chiesa che ben poco si concilia con la dottrina di Papa Francesco. Le Iene News il 15 aprile 2023

L'anima nera della Chiesa: stasera dalle 20.30 su Italia1 non perdetevi la nuova puntata di "Le Iene presentano Inside" con Gaetano Pecoraro e Riccardo Festinese. Partiamo, con elementi mai emersi e interviste inedite, dalle novità del caso dei presunti abusi sessuali sui chierichetti del Papa all'interno del Vaticano

Stasera, dalle 20.30 su Italia1, il quinto appuntamento stagionale con “Le Iene presentano Inside” è “L’anima nera della Chiesa”. L’inchiesta di Gaetano Pecoraro e Riccardo Festinese parla di scandali finanziari, morti sospette e rapimenti, storture difficilmente conciliabili con la dottrina della Chiesa Cattolica, con un approfondimento particolare su uno degli scandali più profondi che hanno investito la cristianità negli ultimi anni e che ha portato al primo processo della storia per i presunti abusi sessuali, avvenuti all’interno delle mura vaticane, sui chierichetti del Papa.

Nel 2019 sono stati rinviati a giudizio un seminarista diventato poi sacerdote, Don Gabriele Martinelli, e un monsignore, Enrico Radice, all’epoca dei fatti rettore del preseminario San Pio X, l’istituto frequentato da giovanissimi il cui scopo è orientare le vocazioni di chi lo frequenta. Le accuse erano pesantissime: violenze sessuali, abusi, favoreggiamenti. Il primo era accusato di aver compiuto le presunte violenze, il secondo di averle coperte. Vi racconteremo questo primo processo.

Abbiamo cominciato a parlarvi di questa terribile e delicata vicenda il 12 novembre 2017, ponendo il primo tassello di questa inchiesta grazie alla sconvolgente testimonianza di Kamil, il ragazzo che per primo denunciò pubblicamente, con un'eco mediatico mondiale che è arrivata fino a due procedimenti giudiziari non ancora del tutto conclusi.

Kamil aveva deciso di raccontare alle telecamere de Le Iene la propria versione, sostenendo di essere stato testimone oculare di violenze sessuali che il suo compagno di stanza, Marco (nome di fantasia) avrebbe subìto da ragazzino. Arrivò anche la testimonianza di Marco stesso che, esattamente come Kamil, aveva puntato il dito contro il seminarista Martinelli. Poi ci fu anche quella di Lucio (nome di fantasia), infine quella di Carlo (nome di fantasia): le accuse erano sempre le stesse e tutte nei confronti di Don Gabriele Martinelli e di Don Enrico Radice.

Gaetano Pecoraro riavvolge il nastro e ripercorre l’intera vicenda mostrando elementi nuovi e mai emersi fino a oggi. Dalle dichiarazioni inedite degli ex chierichetti del Papa alle interviste a tutti i principali protagonisti che, in questi anni, avrebbero direttamente o indirettamente delle responsabilità per quanto sarebbe accaduto.

Estratto da liberoquotidiano.it il 12 aprile 2023.

[…] Ma in questa vicenda a colpire sono state le parole di Pietro Orlandi pronunciate a Di Martedì ai microfoni di Giovanni Floris: "Sono convinto che Wojtyla, Ratzinger e Papa Francesco siano a conoscenza". E nel corso della trasmissione viene fatto ascoltare un audio che lo stesso Pietro Orlandi avrebbe consegnato alle autorità vaticane.

Nell'audio a parlare è un uomo vicino alla banda della Magliana: "Papa Giovanni Paolo II se le portava in Vaticano quelle, era una situazione insostenibile. E così il Segretario di Stato a un cero punto è intervenuto decidendo di toglierle di mezzo. E si è rivolto a persone dell'ambiente carcerario".

Sono tutte parole che ovviamente finora non hanno trovato alcun riscontro. Ma la frase con cui Pietro Orlandi commenta le parole dell'uomo della Magliana sono piuttosto inquietanti: "Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case...".

Estratto dell’articolo di Stefano Vladovich per “il Giornale” il 20 aprile 2023.

Parola d’ordine: «chiarire». Per il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, la Santa Sede non vuole altro che la verità sul caso Orlandi. «Lo dobbiamo alla mamma di Emanuela che soffre molto». 

Ieri alla Camera dei Deputati Parolin ha tenuto un incontro con i giornalisti sull’apertura dell’inchiesta della Santa Sede sulla scomparsa della 15enne cittadina vaticana il 22 giugno del 2023 e sulle accuse su Papa Wojtyla, oggi Santo, giunte come una bomba sull’intera vicenda. «Siamo molto sorpresi che non vi sia stata collaborazione - spiega Parolin-, perché questo avevano chiesto. Allora perché adesso tirarsi indietro in maniera così brusca? Non capisco...Il nostro intento è quello di arrivare veramente a chiarire».

Parolin si riferisce alla convocazione in Vaticano del legale della famiglia Orlandi, l’avvocato Laura Sgrò, che ha scelto di opporre il segreto professionale. […] 

È una vecchia intervista di un giornalista, Alessandro Ambrosini ideatore del blog Notte Criminale, a un personaggio vicino a Renatino de’ Pedis, Marcello Neroni, a scatenare il caso sulla figura di Papa Wojtyla negli anni della scomparsa della Orlandi. L’uomo, oggi ultra ottantenne, nel 2009 racconta delle strane passeggiate fuori dalla cittadella vaticana di Giovanni Paolo II e dell’intervento di due cappellani del carcere: 

«Wojtyla (...) pure insieme se le portava a letto, se le portava, non so dove se le portava, all’interno del Vaticano». Secondo quello che racconta Neroni, intervenne l’allora segretario di Stato Agostino Casaroli. «Essendo un esperto del carcere, perché faceva il cappellano al riformatorio (Casal Del Marmo ndr), si è rivolto ai cappellani del carcere, uno era calabrese, un certo Luigi, un altro un furbacchione, un certo padre Pietro». 

I due, sempre secondo il ricordo del testaccino, non fanno altro che rivolgersi a de’ Pedis, il «presidente». «Gli hanno detto: sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?». […]

Verissimo, Pietro Orlandi: "Wojtyla? Lo dicevano tutti". La pista del ricatto. Il Tempo il 30 aprile 2023

Pietro Orlandi torna sulle accuse e sui sospetti su Papa Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, nell'ambito della scomparsa della sorella, Emanuela Orlandi, caso tornato d'attualità anche per la volontà del Vaticano di scrivere finalmente la parola fine sulla vicenda e trovare la verità. "Quella cosa che Wojtyla uscisse di nascosto la sera era una frase che dicevano tutti quanti. Io non ho offeso nessuno e per questo non mi sono mai scusato. Ho riportato le parole di un audio, non mie, in cui si fanno dichiarazioni pesanti su Papa Wojtyla e sulla questione di Emanuela. Ho ritenuto opportuno farle ascoltare al promotore di giustizia affinché sentano questa persona", ha detto Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, a Verissimo su Canale 5. Il riferimento è all'audio che riporta le parole di Marcello Neroni, che negli anni 80 era vicino al boss della Banda della Magliana Enrico De Pedis, detto Renatino. 

"Non so come siano andate le cose, se lo sapessi...", precisa il fratello di Emanuela Orlandi, ma "secondo me, Emanuela è stata presa per ricattare qualcuno e De Pedis è stato utilizzato come manovalanza". "Sono sempre stato convinto che Wojtyla sapesse cosa era successo a Emanuela; quando ci venne a trovare 6 mesi dopo la scomparsa mi parlò di terrorismo internazionale, ma lui permise che calasse il silenzio e che il silenzio rimasse su questa vicenda anche dopo. Papa Francesco ci ha messo 11 anni a riaprire il caso e mi auguro ci sia la volontà di fare chiarezza", ha spiegato Pietro.

Nel corso dell'intervista viene toccato anche il tema degli abusi: "Se la pedofilia ha avuto un ruolo è perché qualcuno l'ha utilizzata per dare più forza all'oggetto del ricatto che non può essere una ragazzina, anche se cittadina vaticana. Emanuela non poteva avere questa enorme importanza. Magari Emanuela è stata messa in una situazione per creare poi l'oggetto del ricatto nei confronti di qualcuno - argomenta Orlandi - se il Vaticano da 40 anni fa di tutto per evitare che la verità possa uscire evidentemente la verità tocca qualcosa di molto pesante".

Da ansa.it l'1 maggio 2023.

"Io non mi sono mai scusato perchè non ho offeso mai nessuno, ho ritenuto opportuno fare ascoltare un audio, poi che io abbia detto quella frase, che Wojtyla usciva di nascosto, è una frase che dicevano tutti quanti, non era considerata una cosa grave, però qualcuno ha voluto legare questa situazione alle parole di questo componente della banda della Magliana".

Lo dice Pietro Orlandi, intervistato da "Verissimo", tornando sulla bufera innescata dalle sue dichiarazioni sulle uscite notturne di san Giovanni Paolo II.

Orlandi ha parlato anche di Wojtyla accostandolo alla figura del padre e affermando che uno era una figura "negativa", cioè Wojtyla, e l'altra "positiva", il padre.

"Mio padre è morto nel 2004 - ha raccontato - è stato un altro momento buio, nel giro di un anno sono morte due persone, nel 2004 mio padre, nel 2005 Wojtyla, sono le due persone che mi tenevano legato a questa vicenda, Wojtyla in negativo perchè io sono sempre stato convinto che lui sapesse che cosa era successo a Emanuela, ricordo quando venne a casa da noi e ci parlò di terrorismo internazionale, ci assicurò che avrebbe fatto il possibile ma poi permise al silenzio e all'omertà di calare su questa vicenda, ha mantenuto il silenzio fino alla fine, così è successo per Ratzinger e Papa Francesco lo ha fatto per dieci anni, forse ora hanno capito che il silenzio non è servito, questi 40 anni passati non posso però dimenticarli e la parola perdono l'ho cancellata dal vocabolario".

"Quando sento la dichiarazione del segretario di Stato, Parolin - ha aggiunto - sono contento che dica che con questa inchiesta dobbiamo fare chiarezza per una madre che soffre, ma questa madre adesso ne ha 93 di anni e in questi 40 anni non mi sembra che nessuno si sia stracciato le vesti per lei". 

"Quando sono usciti quei documenti tutti li hanno bollati come falsi, ridicoli, anche in Vaticano però non mi hanno mai risposto alla domanda come mai stavano in una cassaforte della Prefettura degli Affari economici. Non ho abbandonato quella pista, credo che Emanuela sia stata portata là e più che la Banda della Magliana c'entra Renatino De Pedis, Emanuela è stata presa per ricattare qualcuno, De Pedis è stato utilizzato come manovalanza", ha proseguito, a  proposito della pista di una Emanuela rapita e poi trasferita in un convento in Inghilterra.

"Io ci credo al passaggio raccontato dalla Minardi - continua sulle dichiarazioni di Sabina Minardi nella serie documentario di Netflix "Vatican girl" -, in quel momento era stata consegnata al Vaticano, poi se un abuso abbia avuto luogo potrebbe essere stato per creare l'oggetto di un ricatto". Orlandi ha esordito nella trasmissione affermando che per lui Emanuela "è viva", "la sento viva".

"Il Vaticano - ha infine accusato - da 40 anni fa di tutto per evitare che la verità possa uscire, altrimenti non mi posso spiegare tutti i comportamenti di questi 40 anni". L'inchiesta aperta dai pm d'Oltretevere, comunque, "io l'ho presa come cosa positiva - afferma -, da qualche parte dovrà portarci, questa inchiesta secondo me potrebbe durare pochissimo perchè io l'ho sempre detto, con un po' di buona volontà potrebbero farla durare pochissimo".

La cassetta "sadomaso" e la pornostar: il mistero sulla registrazione di Emanuela Orlandi. Angela Leucci l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Un audiocassetta misteriosa e due documenti che potrebbero rappresentare un depistaggio: sono ancora molti i punti oscuri nella scomparsa di Emanuela Orlandi

Tabella dei contenuti

 L’audiocassetta

 La pista inglese

Tutto falso oppure no? Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi presenta da sempre contorni foschi a causa dei numerosi presunti depistaggi. Alcuni si sono rivelati solo atti di mitomania, altri potrebbero essere indagati, dato che oggi il Vaticano ha aperto un’inchiesta sul caso. La trasmissione “Chi l’ha visto?” ha preso in esame alcuni di questi presunti depistaggi: dalla cassetta lasciata all’Ansa nel luglio 1983 alla cosiddetta pista inglese.

L’audiocassetta

Nel giallo di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 c’è un’audiocassetta che potrebbe rivelarsi cruciale. Questa audiocassetta è in realtà la seconda che fu lasciata alla famiglia della giovane, la prima pare sarebbe stata abbandonata e prelevata da membri del Vaticano: il condizionale in questi casi è d’obbligo, perché questa prima cassetta non è mai stata trovata. Tanto più che secondo gli inquirenti la seconda cassetta, ricevuta nella sede Ansa di Roma, conteneva solo spezzoni di film porno, mentre la famiglia è convinta che in alcuni punti la voce potrebbe essere quella di Emanuela Orlandi.

A “Chi l’ha visto?” i telespettatori si sono lanciati diverse ipotesi, come tale Axel, che si è occupato di ripulire l’audio e quindi sostituire la verosimiglianza della frase “Dio che mi lasci dormire adesso” contenuta nella cassetta in “Dove mi lasci dormire adesso?”. Un altro spettatore ha affermato di avvertire nel nastro un uomo che parla con intonazione napoletana dire: “Chi è questa poveretta?”.

Il giornalista Francesco Paolo Del Re ha ascoltato i pareri di due esperti. La prima è la pornostar, oggi produttrice, Jessica Rizzo, che è apparsa molto turbata mentre veniva riprodotto l’audio: “A me non sembrano tanto grida di piacere. O è un film sadomaso… Io ho fatto 250 film, ma c’erano più grida di piacere, poi mentre si gioca, ci si diverte, scappano anche delle parole, a volte spinte. Qui avverto qualcosa di lugubre, non di eccitante”. Si trattava di un video sadomaso - o meglio uno snuff movie - oppure la cassetta è autentica?

È stato intervistato inoltre il critico cinematografico Marco Giusti, che ritiene che il sonoro di un film porno dell’83 dovrebbe essere più chiaro, ed esclude si tratti di un horror. Piero Orlandi, presente in trasmissione, ha ricordato che secondo gli analisti del Sismi la seconda cassetta sarebbe autentica e ci sarebbe un’altissima probabilità che la voce sia di Emanuela Orlandi.

La pista inglese

Ci sono due documenti che potrebbero rappresentare un presunto depistaggio ma che fanno interrogare l’opinione pubblica: Emanuela Orlandi è rimasta viva dopo la sua scomparsa e ha soggiornato in Inghilterra?

"Emanuela e l'altra 'zozzetta'": violenza choc sul giornalista che indaga su Orlandi

Uno di questi documenti è una lettera in cui l’arcivescovo di Canterbury dal 1991 al 2002 George Carey avrebbe chiesto un incontro al cardinale Ugo Poletti - lo stesso che approvò la sepoltura a Sant’Apollinare per Enrico “Renatino” De Pedis della Banda della Magliana - per parlare di Emanuela Orlandi. Ma questo documento non è su carta intestata e un parente di Carey ha sottolineato come sia scritto in un pessimo inglese, impossibile che l’arcivescovo si sia espresso così.

L’indirizzo in cui Poletti avrebbe soggiornato, secondo quanto riportato in questo documento, assomiglia a un’altro che compare in una presunta nota spese. In questa nota spese sarebbero attestati dei costi di soggiorno per Emanuela Orlandi, con tanto di parcelle mediche (tra cui quella di un ginecologo), e un’ultima voce che lascerebbe pensare al trasporto di una salma da Londra in Vaticano. Il Vaticano ha smentito la veridicità della nota spese e in effetti, in base ad alcuni refusi presenti, sembra un falso prodotto in epoca successiva all’adozione dell’euro.

"Si sono tirati indietro". L'accusa di Pietro Orlandi al Comune di Roma per l'anniversario. Pietro Orlandi ha raccontato del passo indietro del Comune di Roma nell'organizzazione del quarantennale della scomparsa della sorella Emanuela Orlandi. Angela Leucci l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il Comune di Roma, dopo aver espresso entusiasmo per le iniziative dedicate al quarantennale della scomparsa di Emanuela Orlandi, avrebbe fatto un passo indietro. La cittadina vaticana scomparve il 22 giugno 1983 e attualmente il Vaticano ha aperto un’inchiesta ascoltando, ad aprile 2023 il fratello della giovane Pietro Orlandi.

Le successive dichiarazioni di quest’ultimo alla trasmissione DiMartedì avrebbero sollevato un polverone: Pietro Orlandi riportò in quel caso alcune chat, consegnate al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, in cui un ex esponente della Banda della Magliana aveva espresso delle parole forti nei confronti di papa Giovanni Paolo II, mettendolo tra l'altro in relazione con la scomparsa di Emanuela Orlandi. L’indignazione è costata a Pietro Orlandi anche la ricezione di una lettera minatoria.

“Io in questi 40 anni sono sempre stata una persona corretta e onesta - ha chiarito il fratello della scomparsa a ‘Chi l’ha visto?’ - Adesso qualcuno mi vuol far passare per una persona non corretta e non onesta. Per anni chiedo un incontro, di essere convocato per verbalizzare, finalmente vengo chiamato, si apre questa inchiesta: sto 8 ore là dentro, sono contento di stare 8 ore là dentro e alla fine dico ‘Chiamatemi quando volete, giorno, notte, in qualunque momento’. Per sicurezza porto anche un memoriale, in cui scrivo tutte le cose che avrei detto a voce, con le fotografie dei WhatsApp, tutti i documenti, i nomi di 28 persone. Sentirmi dire il giorno dopo, un voltafaccia, che noi ci rifiutiamo di andare avanti, di collaborare, perché ci rifiutiamo di fare i nomi di persone… Io sono rimasto così: sono impazziti qua dentro?”.

"Emanuela e l'altra 'zozzetta'": violenza choc sul giornalista che indaga su Orlandi

Pietro Orlandi ha inoltre lamentato che il Comune di Roma abbia cambiato idea a seguito del polverone. “Stavo per organizzare per il quarantennale della scomparsa di Emanuela, come nel 2012 - ha raccontato ancora l’uomo - mi sarebbe piaciuto fare questo sit in al Campidoglio e poi, come nel 2012 andare all’Angelus. Con la fotografia. Avevo chiesto al Comune: entusiasti, mi aveva dato pure appuntamento il sindaco di Roma il 26 aprile per incontrarci per organizzare. Appena esplode questa cosa qua, hanno fatto un passo indietro, mi hanno detto: ‘No, il Comune di Roma riguardo al quarantennale ha deciso di soprassedere per via del Giubileo del 2025’. E poi mi hanno detto: ‘Le motivazioni sono quella situazione che è successa con il Vaticano’. Quindi, quando io qualche anno fa, qualche mese fa, ho detto: finalmente mi sono accorto che da parte delle istituzioni non c’è più quella sudditanza psicologica nei confronti del Vaticano, purtroppo mi sto rendendo conto invece che c’è quella sudditanza psicologica, c’è chi fa un passo indietro”.

"Emanuela portata a Londra". Pietro Orlandi e la lettera che cambia tutto. Pietro Orlandi rivela una delle prove in grado di corroborare tale ipotesi: fondamentale anche il riferimento a Clapham Road. Federico Garau l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Emanuela potrebbe essere stata portata a Londra: Pietro Orlandi racconta a Sky Tg24 della lettera, consegnata al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, che potrebbe corroborare tale ipotesi.

"In Vaticano lo dicevano tutti...": Orlandi rincara la dose contro papa Wojtila

Una missiva datata 1993 nella quale l'allora Arcivescovo di Canterbury invitava esplicitamente il cardinale Ugo Poletti, in quegli anni Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, con l'obiettivo di "discutere personalmente la situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza". Si tratta, pertanto, di un episodio avvenuto dieci anni dopo la scomparsa di Emanuela, avvenuto il 22 giugno del 1993, e che potrebbe risultare fondamentale nella ricostruzione di cosa sia accaduto in realtà alla ragazza. La pista Londra, rivela durante l'intervista Pietro Orlandi,"non l'ho mai abbandonata. Ho motivo di credere che Emanuela, aldilà di questa lettera, sia stata portata là". "Sicuramente di questa lettera io non ho abbastanza la certezza che sia autentica, per quanto riguarda le altre cose sto verificando", aggiunge.

Cosa dice la lettera

"Cara Eminenza, sapendo che sarà per qualche giorno qui a Londra, mi sento in dovere di invitarla a farmi visita nei prossimi giorni per discutere personalmente la situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza", si legge nella missiva scritta dall'allora Arcivescovo di Canterbury e indirizzata al Cardinale Ugo Poletti. "Dopo anni di corrispondenza, penso sia giusto discutere di una situazione di tale importanza personalmente", prosegue lo scritto. "Mi faccia sapere se può servirle un traduttore personale o se nel caso la porterà con lei. Attendo la sua risposta nei prossimi giorni", conclude l'arcivescovo.

La vicenda

"È del 1993", precisa Pietro Orlandi,"Poletti già non era più vicario di Roma, era Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, e questa lettera viene intestata dall'arcivescovo George Carey di Londra proprio a 'Sua Eminenza il Cardinal Poletti Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore'". Quindi la data e il ruolo sarebbero in effetti congrui.

"Ma la cosa strana è che viene spedita in quel luogo, a Londra, che fa riferimento anche ai cinque fogli, a Clapham Road". I cinque fogli menzionati sono quelli nei quali il cardinale Antonetti contattava i monsignori Giovanni Battista Re (allora sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede) e Jean-Louis Tauran (segretario per i rapporti con gli Stati) per riferire un "resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi", tra cui, esplicitamente si citavano, le "rette vitto e alloggio 176 Clapham Road Londra". Tutti elementi, anche questi che emersero nel 1998, in grado di spingere verso tale ipotesi.

Consegnata la lettera a Alessandro Diddi, la speranza è che finalmente si faccia luce sulla vicenda: "Mi auguro che il Vaticano, da quando ho consegnato questa lettera, abbia ascoltato l’Arcivescovo, perché è ancora vivente", conclude Orlandi. Federico Garau

Emanuela Orlandi e la commissione d'inchiesta: il voto slitta, durata ridotta. Gualtieri nega la piazza al fratello. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Al Senato emendamento di Fratelli d'Italia per ridurre a due anni (massimo 3) la durata delle indagini. Il sindaco Gualtieri nega a Pietro Orlandi la piazza per i 40 anni dalla scomparsa, il prossimo 22 giugno

L'intrigo più lungo della storia repubblicana - 40 anni di depistaggi e misteri  sul mancato ritorno a casa di due quindicenni - e un emendamento brevissimo, telegrafico: soltanto 21 parole, dietro le quali si celano tutte le cautele nate nella maggioranza di centrodestra nell'ultimo mese, da quando Pietro Orlandi ha iniziato a attaccare pesantemente il papa Santo. Quale sarà la durata della commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Orlandi-Gregori? La Camera dei deputati il 23 marzo, all'unanimità, aveva fissato in almeno 4 anni l'operatività dell'organismo d'indagine. Non erano ancora arrivate, però, le accuse televisive del fratello di Emanuela che, in un contesto nel quale si parlava di pedofilia, aveva alluso alle «uscite serali di Karol Wojtyla con due monsignori, non certo per benedire le case». Parole che hanno suscitato sdegno e sconcerto ai vertici della Chiesa (qui la replica di papa Francesco all'Angelus) e che, adesso, hanno una prima ricaduta politica: il senatore Costanzo Della Porta, di Fratelli d'Italia, ha presentato un emendamento alla proposta di legge in discussione nella commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, con l'obiettivo di ridurre a due anni la durata della commissione. 

L'emendamento accorcia-tempi

Un intervento di cesello, semplicissimo. La modifica al testo base già approvato a Montecitorio, qualora la maggioranza decidesse di dare l'ok ( i numeri sono larghi), si realizzerà così: «Al comma 1, sostituire le parole: "per la durata della XIX legislatura" con le seguenti: "per la durata di due anni"». A scanso di levate di scudi dell'opposizione, in ogni caso, il senatore Della Porta ha previsto un piano B, presentando un secondo emendamento pressoché identico con una durata di 3 anni. Come dire: conta il segnale, la commissione deve avere tempi certi, possibilmente non lunghissimi. Il che rimanda alle perplessità espresse dal senatore Matteo Renzi dopo le esternazione di Pietro Orlandi («Io sono stato un Papa boy, il Parlamento non si presti a strumentalizzazioni contro Giovanni Paolo II») e a quelle esplicitate in un gesto silenzioso ed eloquente da un altro elemento del Terzo Polo, Mariastella Gelmini, che nelle ore di polemiche più accese aveva tolto la sua firma alla proposta di legge. La durata dell'organismo di indagine si accorcia, quindi, e contestualmente i tempi della nascita si allungano: il presidente della commissione Alberto Balboni, anche lui FdI, calendarizzerà il voto sui due emendamenti non prima dell'ultima settimana di maggio, per smaltire altri provvedimenti in attesa da tempo, come la riforma delle Province. L'ok definitivo, ammesso non emergano ulteriori prese di distanze, arriverà insomma a giugno, se non dopo l'estate.

Il no dei Cinquestelle

In allerta le opposizioni: «Le notizie secondo le quali nella maggioranza si starebbe pensando di modificare al Senato il testo per dare il via libera alla commissione d'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori sono un pessimo segnale per le loro famiglie e per il Paese. È impensabile che i correttivi allunghino l'iter per l'approvazione della commissione al fine di mozzarne la capacità di arrivare a verità e giustizia. Le storie di Emanuela e Mirella hanno minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Dare risposte su quanto accaduto è un dovere al quale il Parlamento non deve sottrarsi», ha dichiarato il capogruppo M5S alla Camera, Francesco Silvestri, presentatore del testo ora a Palazzo Madama. 

Pietro Orlandi: Gualtieri non mi ha ricevuto

«Ho il timore che ci sia la volontà di rallentare le cose», è stata invece la reazione di Pietro Orlandi (qui la lettera anonima a lui indirizzata giorni fa in Vaticano), il quale ha reso noto anche un altro fronte aperto nelle scorse settimane con il primo cittadino della capitale: «Il 26 aprile avrei dovuto incontrare il sindaco di Roma Roberto Gualtieri - ha dichiarato a LaPresse -  per organizzare una manifestazione in Campidoglio per i quarant'anni dalla scomparsa di mia sorella Emanuela (avvenuta il 22 giugno 1983, ndr). Poi mi è stato detto che l'appuntamento era stato rinviato, e mi hanno fatto sapere dalla segreteria del sindaco che "per quanto riguarda il quarantennale, il Comune ha deciso di soprassedere in vista del Giubileo", anche se sarà nel 2025. Alla fine, dopo mie richieste, amichevolmente mi hanno spiegato che lo stop era dovuto a quelle dichiarazioni che mi erano state attribuite su Giovanni Paolo II». Chiosa del fratello della "ragazza con la fascetta": «Non ho offeso Wojtyla, l'ho spiegato numerose volte. Le mie parole sono state strumentalizzate. Fino a qualche tempo fa sentivo vicine le istituzioni e ora spero che questa storia non rallenti la ricerca di una verità che io e la mia famiglia aspettiamo da 40 anni».  (fperonaci@rcs.it)

Cittadini che guardano Netflix a bocca aperta. Emanuela Orlandi moneta di scambio di Agca, basta fango su papa Wojtyla: “Va screditato o eliminato fisicamente”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Maggio 2023

Devo dire di aver provato un tale ribrezzo e sconcerto e istinto di ribellione vedendo frammenti del filmato sulla povera Emanuela Orlandi, da non riuscire a vedere tutto. Lo farò, ma devo placarmi perché avevo capito dai primi accenni e clip dove questa pretesa inchiesta andava a parare: la Orlandi? Una povera adolescente adescata nientemeno che dal Papa polacco. Quello che ha fatto cadere il comunismo? Sì, si vantava di questo ed era un brutto tipo… e seguono testimonianze balbettanti, tutte al condizionale allusivo mormorato, qui lo dico e qui quasi lo nego. E ho pensato: ben scavato, vecchia talpa. Stiamo assistendo alla degradazione come quella del capitano Dreyfuss nel quadrato militare. Oggi siamo nel 2023. Sono passati più di quarant’anni e abbiamo di fronte una platea di cittadini che poco o nulla sanno e che guardano Netflix a bocca aperta, milioni di giovani che non sanno nulla di questa storia e questo stupor della memoria in cui si ficca la banda della Magliana prêt-à-porter, la banca vaticana dello Ior dove il Pci cambiava i dollari di Mosca in lire italiane, e poi lo stupro.

Tutto avviene in televisione e – sorpresa incredibile – il Parlamento se ne fa carico e promuove una Commissione parlamentare d’inchiesta. Bravissimi. È così che si compie la direttiva secondo cui quel papa andava possibilmente ammazzato (per motivi di contesa territoriale) e comunque distrutto nel discredito, arso sul rogo per essere stato lui, l’agente Woytjla ad aver fatto crollare l’impero dell’Est. Quando fu eletto quel Papa, che era stato per anni arcivescovo di Cracovia e un osso durissimo per Mosca, il più longevo e lungimirante (e più crudele capo del Kgb) emise una direttiva per tutti i capi delle “residenture” (stazioni) del Kgb specialmente europee: “Caro compagno, è stato eletto Papa del Vaticano il pericolosissimo e famigerato Karol Wojtyla, nemico dei sistemi socialisti, per cui sarà necessario screditarlo o distruggerlo come immagine pubblica, oppure eliminarlo fisicamente”.

Una direttiva simile fu presa dal Presidium e del Comitato Centrale, firmata anche da Michail Gorbaciov in cui si raccomandava l’uso di misure attive vale a dire prima di tutto discredito, derisione, accuse infamanti atte a distruggere l’immagine, e in caso estremo l’assassinio. Tutto ciò è avvenuto già, la parte che riguarda l’omicidio, ma adesso stiamo assistendo con sadico candore alla “character assassination” dell’uomo che ha abbattuto il regime comunista in Polonia costringendo l’Urss a dare forfait, ridotta allo stremo dissanguata dall’inutile corsa agli armamenti. Come Presidente di una Commissione d’inchiesta, nel 2006 dalla cella del suo carcere in Turchia, Ali Agca, l’attentatore del Papa, mi scrisse una lettera manoscritta: “Se lei, Presidente Guzzanti, mi farà uscire da questo carcere, io le prometto di consegnarle viva Emanuela Orlandi”. Curiosamente, quella lettera non fu recapitata a me ma al quotidiano Repubblica che la pubblicò fotografata e ben leggibile.

Agca usava il rapimento della Orlandi come moneta di scambio per la sua liberazione e lo faceva sia con l’allora Cardinale Ratzinger che con lo stesso Wojtyla. Intanto, arrivò la notizia che l’ostaggio promesso dai generali bulgari era stato effettivamente catturato. E questo semplice e tragico fatto permise al mancato assassino di distruggere tutto quanto aveva confessato fingendosi pazzo, dichiarandosi Gesù Cristo tornato in terra e rendendo giudiziariamente inservibili le sue dettagliate confessioni. Poi l’ha usata come offerta di scambio: la mia libertà in cambio di Emanuela Orlandi. La Orlandi per avere la libertà.

Tutti sapevano che Emanuela Orlandi era stato l’asso nella manica dell’attentatore. Appena arrestato, aveva vuotato il sacco raccontando per filo e per segno, con nomi date e circostanze del suo addestramento per uccidere il Papa e come era fatta la squadra che lo accompagnava: Agca era un killer a pagamento e aveva assassinato da poco un famoso giornalista turco. Mentre era a Rebibbia, due sedicenti giudici militari bulgari erano andati a trovarlo e, come lui stesso raccontò più tardi, gli intimarono di ritrattare tutto sia minacciando i suoi familiari, sia rassicurandolo che presto sarebbe avvenuto un rapimento in Vaticano che avrebbe fatto da merce di scambio. Da quel momento Emanuela Orlandi diventa ostaggio, rendendo molto bene come investimento terroristico. Nella primavera del 1982, un anno dopo l’attentato, il giudice Ferdinando Imposimato indagando sulle Brigate Rosse, scoprì attraverso l’agente bulgaro Ivan Tomov Dontchev, che i bulgari volevano nel gennaio 1981 far saltare in aria sia Lech Walesa, in visita a Roma, che il Papa. Dontchev spiegò di essere stato personalmente in contatto con Ali Agca (il turco che sparò al papa il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro) e sostenne che un unico filo univa il caso Moro e l’attentato al Papa, di cui – sottolineò – il sequestro di Emanuela Orlandi fu “l’inevitabile sviluppo”. Di un certo Tomov e del caso Walesa aveva parlato anche Ali Agca, per conto proprio, al giudice Ilario Martella.

Il giudice Priore ricorda che nel 1986, si svolse un incontro fra tre polizie a Parigi per la ricerca della casa ove sarebbe stata Emanuela Orlandi. I servizi francesi non sbagliano. La Orlandi fu prigioniera anche a Parigi. Il giudice Imposimato confermò che Agca ritrattò tutto dopo il rapimento avvenuto il 22 giugno 1983 e fu colpito dal fatto che Agca aveva messo in relazione il rapimento Orlandi con la sigla “Turkesh”, utilizzata dai rapitori di Emanuela Orlandi perché molte delle loro lettere recavano la sigla Turkesh. Il servizio segreto della Germania Est Stasi (il film “Le vite degli altri”) si era certamente occupato della corretta gestione del rapimento Orlandi. E infine l’agente tedesco orientale Günther Bohnsack disse a Imposimato che dopo l’attentato al Papa, Yuri Andropov capo del Kgb, intimò al Ministro dell’Interno della Germania Est, Erich Mielke “fate tutto ciò che è necessario per dimostrare lo zampino della Cia e per distruggere le prove. Tutti i mezzi sono consentiti. Bisogna seminare tracce contro la Cia con disinformazione, aggressione, terrore, sequestri, omicidi”. Abbiamo avuto il sequestro di Emanuela Orlandi, che rappresenta uno di quei fatti misteriosi, ma connessi a questa vicenda e a quella dell’altra ragazza, Mirella Gregori. Emanuela Orlandi aveva la cittadinanza vaticana, invece Mirella Gregori era cittadina italiana. Come mai non se ne parla?

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

La vulgata “luciferina”. Caso Orlandi-Gregori, la commissione parlamentare d’inchiesta e la lotta di potere nel Vaticano: l’asse Meloni-Papa Francesco. Nicola Biondo su Il riformista il 22 Aprile 2023 

La commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Orlandi-Gregori influenzerà a lungo i rapporti tra Roma e Città del Vaticano e avrà un riflesso sullo stesso pontificato di Papa Francesco. I motivi sono molteplici e così legati tra loro che è facile immaginare un impatto geopolitico dell’indagine della Commissione. Certo non sarebbe la prima volta che gli affari di uno stato estero finiscono al centro di un indagine del Parlamento: ma rispetto a quanto avvenuto in Commissione Stragi o in quella sul dossier Mitrokhin in questo caso la scomparsa delle due adolescenti pur avvenuta sul suolo italiano è da ricondursi -qualsiasi movente si voglia contemplare- al Vaticano.

Partiamo da un dato di fatto: la commissione è stata richiesta solo da esponenti dell’opposizione, del Pd, del Movimento e di Azione, primo firmatario Roberto Morassut storico esponente della sinistra romana. Nel febbraio scorso la questione ha investito i piani alti del governo che aveva chiesto al Parlamento un rinvio per non meglio chiariti “approfondimenti”.

Sembrava uno stop, una pietra tombale. E invece a sorpresa direttamente da Giorgia Meloni è arrivato un semaforo verde. Fonti vicine al governo sostengono che il dossier commissione è stato attentamente valutato da Alfredo Mantovano che ricopre un ruolo chiave a Palazzo Chigi, quello di autorità delegata per la sicurezza, vale a dire interfaccia del governo con i servizi segreti. Mantovano, già magistrato di punta e con una vasta esperienza in tema di intelligence, ha incontrato nei mesi scorsi anche Pietro Orlandi.

Secondo altre fonti Giorgia Meloni ha personalmente tenuto a comunicare a Papa Francesco dell’avvio delle indagini parlamentari: nulla di scandaloso ovvio ma è un ulteriore spia che segnala l’importanza della questione. Tra i compiti della Commissione ci sarà quello di indagare e valutare le azioni compiute da apparati dello stato e dalla magistratura e se vi siano stati omissioni o depistaggi: ciò significa accendere un faro sulle modalità di contrasto a fenomeni criminali come la Banda della Magliana, se vi siano state protezioni con l’utilizzo di fonti interne e confidenti e di cosa è fatta quella terra di mezzo in cui Stato e crimine si fanno la guerra. E come non immaginare ampio il dibattito, anch’esso non privo di possibili riflessi internazionali, sulla incredibile messe di informazioni immesse nelle inchieste e nei media da Ali Agca, l’uomo che ha sparato a Karol Wojtyla. La domanda nell’aula di Palazzo S. Macuto ritornerà ad essere centrale: fu solo il gesto di un killer isolato o un network lo condusse nella primavera del 1981 armato a Piazza S.Pietro? 

Insomma, comunque la si voglia vedere la commissione parlamentare indagherà su uno dei periodi  più importanti, turbolenti e misteriosi nella storia del Vaticano e di riflesso dello Stato italiano. La cronologia è da brividi: 1981, attentato contro Wojtyla; 1982, morte di Roberto Calvi che poco prima di essere ucciso scrive una lettera minacciosa al Papa; 1983 sparizioni di Orlandi e Mirella Gregori, 1984, emersione dei legami della banca vaticana con i faccendieri Flavio Carboni (a sua volta legato a mafia e banda della Magliana) e Francesco Pazienza.

Per chi non lo dovesse ricordare il contesto è quello degli anni di piombo dell’alta finanza con i “banchieri di Dio” Sindona e Calvi, con fiumi di denaro di provenienza “sospetta” che affluivano nelle casse Vaticane e da qui finivano in mezzo mondo. Tutto questo però in fondo riguarda il passato. Non sfugge a nessuno che qualche riflesso l’indagine potrà avere sulla lotta di potere all’interno del Vaticano e più in generale della chiesa cattolica.

La storia, le opere e la geopolitica di Francesco sono totalmente opposte alla visione che fu di Wojtyla. Uno gesuita, l’altro conservatore, il primo che guarda a Oriente e al Sudamerica con una forte critica al capitalismo, l’altro tra i protagonisti della lotta al comunismo, legatissimo ai circoli americani e cattolici più oltranzisti, infine lontanissimi sul piano della dottrina. Per dirla tutta, Wojtyla ha fatto la storia della chiesa spingendosi oltre, Francesco in questo campo è ancora a distanza siderale come “leader” politico. Il Papa polacco ha archiviato il ‘900 delle ideologie, il Papa argentino lavora ad un nuovo ordine mondiale, per semplificare al massimo.

È in questo contesto di messa in discussione degli equilibri consolidati che affiora, maligno è il caso di dire, il sospetto che agita più di un porporato, e cioè che per affermare la visione “francescana” occorre mettere in ombra, magari “sporcare”, quella del predecessore e i suoi innegabili successi politici. La Commissione di inchiesta sarebbe l’occasione perfetta per un’operazione del genere, secondo questa vulgata “luciferina”.

Retro-pensiero che paradossalmente sembra essere stato confermato proprio da Papa Francesco quando tre giorni fa, con inusitata asprezza, ha contestato alcune ricostruzioni sulla vita di Wojtyla avanzate da Pietro Orlandi sulla scorta delle incredibili rivelazioni provenienti dagli interna corporis della Magliana. Un passo che va valutato attentamente: perché è per decisione di Francesco che si è aperta ufficialmente e per la prima volta una inchiesta vaticana sul caso Orlandi-Gregori e forse è proprio per non dare adito a quel retropensiero che di fronte alle parole di Orlandi si è dovuto intervenire.

Il cortocircuito a mezzo stampa è solo l’antipasto di ciò che vedremo con l’avvio dei lavori della Commissione, un circo mediatico che si attiva sempre e si polarizza intorno alle varie figure di questo intrigo internazionale: un tempo era Ali Agca poi i pentiti della Magliana oggi le dichiarazioni di Pietro Orlandi e l’emersione di nuove e sconvolgenti piste.

La cronologia aiuta l’analisi: l’11 aprile scorso Pietro Orlandi viene ascoltato dal Promotore di giustizia Alessandro Diddi per otto ore. Il giorno precedente Diddi aveva affermato che, “sul caso Orlandi papa Francesco e il Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, vogliono che emerga la verità senza riserve e senza condizionamenti”.

Nel corso dell’audizione Orlandi affronta la questione Wojtyla, porta con sé il famoso nastro con la verità alternativa che coinvolge il papa polacco e accenna alle voci ricevute sulle sue uscite notturne con alti prelati “non certo per benedire le case”. Il giorno dopo in tv Orlandi ripete le stesse cose e poche ore dopo arrivano le prime note di “censura”: a dare l’avvio è Stanisław Dziwisz, arcivescovo emerito di Cracovia, vero uomo ombra del papa polacco. Subito seguito dall’agenzia di stampa Vatican.news che addirittura accusa l’avvocato Laura Sgrò, legale di Orlandi, di tacere particolari fondamentali agli investigatori del Vaticano.

Per ultima arriva la durissima replica del Papa. “Certo di interpretare i sentimenti dei fedeli di tutto il mondo, rivolgo un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate”. Strana casualità: queste parole sono state pronunciate proprio in uno dei possibili “teatri” dove si sarebbe decisa la sorte della Orlandi, vale a dire Regina Coeli il carcere romano dove, secondo le rivelazioni del “magliaro” Marcello Neroni, due cappellani avrebbero dato l’incarico alla fazione di De Pedis di rapire la giovane romana.

Pietro Orlandi e il suo legale finiscono così sul banco degli accusati, ma la verità è semplice. Le uscite “segrete” in incognito di Wojtyla non sono un segreto per nessuno, tantomeno per il cardinale Dziwisz che le ha rivelate proprio nel suo libro, “Una vita con Karol”, e che lui stesso ideava e organizzava. Insomma una tempesta mediatica che ha ribaltato i ruoli esponendo Orlandi e la Sgrò negli inediti panni di mestatori e reticenti. E nella quale pare essere caduto lo stesso Papa Francesco la cui volontà è stata espressa per bocca del Procuratore Diddi, “massima libertà d’azione per indagare ad ampio raggio senza condizionamenti di sorta e con il fermo invito a non tacere nulla”

Di certo anche nel Parlamento italiano si è indebolito il fronte dell’insabbiamento del caso e si è preferita la trincea. Ma cosa potrebbe succedere se di fronte alle richieste documentali che la Commissione avanzerà al Vaticano o di audizioni di protagonisti importanti dell’epoca, come il cardinale Dziwisz, arrivasse una risposta negativa?

Chi farà da mediatore da Roma e la Santa Sede? Quante dosi di verità sul caso Orlandi-Gregori gli equilibri politici, nazionali e non solo, potrebbero sopportare? Nicola Biondo

La signora Pezzano vive ancora in Vaticano. Emanuela Orlandi e il dolore di mamma Maria, la pizza, la partita dell’Italia e le parole a Papa Wojtyla: “Quando torna mia figlia apriamo regalo”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 21 Aprile 2023

Maria Pezzano è la mamma di quattro figli, compresi Emanuela e Pietro Orlandi che ha rilanciato in tv (dicendosi poi “dispiaciuto”) un audio e pesanti insinuazioni su presunti giri di pedofilia ai massimi livelli del Vaticano. All’indomani del monito di papa Francesco il Segretario di Stato Pietro Parolin ha detto: “La Santa Sede vuole chiarire, arrivare alla verità. Credo che lo si debba innanzitutto alla mamma, che è ancora viva e soffre molto”.

La signora Pezzano è anche nonna, e per i suoi nipoti – soprattutto le tre ragazze di Pietro che sono in prima fila nella battaglia per la verità -, è una figura importante soprattutto dopo la perdita nel 2004 del capofamiglia, il messo pontificio Ercole Orlandi, che morì di crepacuore per non essere riuscito a trovare la sua Emanuela. Ancora oggi nonna Maria risiede in Vaticano, nello stesso appartamento di via Sant’Egidio dal quale “Lellè”, come lei la chiamava, uscì la sera del 22 giugno 1983 e non tornò più.

Nonostante l’età avanzata – come ricorda il Corriere della Sera – non ha mai mancato di far sentire la sua voce, ribadendo nelle interviste di continuare a sperare “nel miracolo di riabbracciare Emanuela” e indossando ai sit-in anche lei la maglietta bianca con il volto stilizzato della figlia e la scritta La verità rende liberi. La signora Maria è una donna del Sud, sorretta da una tempra forte e animata da un proposito: “Non voglio morire senza sapere dove sia Emanuela”.

Scomparsa Emanuela Orlandi, il fratello Pietro e l’incontro in Vaticano: “Il Papa vuole piena verità, non nasconderemo nulla”

Il figlio Pietro racconta come sua madre, nata in casa in un paesino dell’Irpinia negli anni ’30, sia venuta a Roma a 18 anni per fare l’infermiera ed abbia conosciuto così suo padre Ercole: “Si conobbero nell’Italia del dopoguerra, quando la felicità erano le corse in Lambretta fino alla rotonda di Ostia, lei con le gambe su un lato e la gonna ben stretta sotto le ginocchia. E si divisero 54 anni dopo, nel marzo 2004, quando il cuore ormai stanco del dipendente vaticano decise che era giunto il momento del commiato”.

La giovane coppia si trasferì presto a casa di nonno Pietro, capofila dei commessi papali, che nell’andare in pensione parlò con il prefetto pontificio, il quale nulla obiettò all’idea di rimpiazzarlo con Ercole, fino a quel momento impiegato come elettricista. Arrivarono i figli tra la fine degli anni ‘50 e i ’60.

Una vita felice fino al 22 giugno 1983. Di quel giorno la signora Maria conserva un ricordo vivido. La mattina aveva deciso di preparare per cena pizza per tutti. Nel pomeriggio, quando Emanuela stava suonando il piano, lei stava in cucina. La sera c’era una Italia-Brasile, e Ercole e Pietro erano interessatissimi. Dalle 21, quando Lellè ancora non rientrava in casa, l’armonia si spezzò. Telefonate, ricerche negli ospedali, i giri per Roma. Così mamma Maria gettò le  teglie di pizza nella pattumiera.

“Da quel momento – ha ricordato il figlio Pietro – Mamma Maria era sempre sul divano. Bianca, senza parole. Non voleva uscire, lo choc l’aveva fatta stramazzare”. Le cognate le dicevano: “Maria, prendi le gocce, ti tireranno su”, oppure: “Maria, mangia qualcosa, non puoi stare a digiuno”. Le questioni pratiche – senza più Emanuela – avevano perduto ogni senso.

Ma quando si trattò di confutare la valanga di indizi che le persone in possesso della figlia, o in contatto con i veri sequestratori, fornirono nei comunicati mamma Maria tornò forte in prima linea: l’ostaggio ha sei nei sulla schiena, soffre di pressione alta, è allergica al latte, ha una predilezione per le scarpe di colore bianco etc. Una continua verifica tra bluff e ricordi da riferire agli investigatori.

Maria Pezzano è soprattutto una donna devota. Il 24 dicembre 1983 accolse con emozione in casa il papa Wojtyla, venuto per gli auguri di Natale e per consolarla. Quell’abbraccio è una delle immagini iconiche della tragedia di Emanuela che è rimasta anche nella memoria di Pietro: “Giovanni Paolo II era in piedi, accanto al pianoforte di Emanuela, che ci porgeva i suoi regali: un bassorilievo raffigurante una Madonna e un cesto di dolci. Mia madre gli disse: Santità, non è una scortesia ma un gesto di speranza, questo lo apriremo quando tornerà Emanuela”. Non si è persa neanche la beatificazione il 1° maggio 2011: “Non potevo mancare. Ci è stato vicino quand’era in vita e adesso da lassù, da beato, spero possa fare il miracolo, regalarmi la gioia di riabbracciare mia figlia”.

Il 13 gennaio 2018, quando Emanuela avrebbe compiuto 50 anni, la signora Pezzano scrive una lettera aperta al Corriere della Sera: “Figlia mia, oggi compi cinquant’anni. Dovrei immaginarti con i capelli striati di bianco e qualche ruga in viso, ma non ci riesco. Ti rivedo sempre ragazzina, che mi corri incontro per darmi un abbraccio e un bacio dicendomi ‘ti voglio bene’. Lo aspetto ancora, il tuo abbraccio, così come aspetto da un momento all’altro di sentire le prime note del Notturno di Chopin che suonavi così bene e mille volte hai provato a insegnare a Pietro. Lui non è riuscito ad andare avanti nell’apprenderlo, così come noi non siamo riusciti ad andare avanti nelle nostre vite da quando t’hanno strappata via. Ti abbiamo cercata per tutti questi anni e continueremo a cercarti. Non ci arrenderemo mai. Finché avremo forza, finché avremo fiato, tu sarai il nostro primo pensiero. La mia speranza, mai sopita, è che chi sa possa avere un rigurgito di coscienza e indicarci come ritrovarti. Auguri Lellè, figlia mia”. Riccardo Annibali

Emanuela Orlandi, il fratello Pietro e papa Wojtyla: dalla devozione di 40 anni fa alle accuse recenti. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2023

Nell’album fotografico della famiglia Orlandi la gratitudine per il pontefice polacco. Quella volta che Giovanni Paolo II disse a Pietro: «Vuoi diventare banchiere?» Poi, dal 2011, il crescendo di critiche

Il caso Emanuela Orlandi dopo il duro monito di papa Francesco: uno spartiacque, nella vicenda (giudiziaria e mediatica) della "ragazza con la fascetta". All'indomani della replica netta e irritata di Bergoglio - durante  la recita dell'Angelus - alle “accuse offensive e infondate” contro Giovanni Paolo II fatte circolare dal fratello Pietro, nubi pesanti si sono addensate attorno alla ricerca della verità sulla scomparsa della quindicenne cittadina vaticana, avvenuta nel lontanissimo 22 giugno 1983 . La bufera delle ultime ore produrrà contraccolpi sull'inchiesta della Santa Sede aperta lo scorso gennaio? Il Senato si allineerà alla Camera dei deputati, che ha già votato per l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta, oppure subentreranno perplessità, come quelle già rese pubbliche da Matteo Renzi? 

Ira e sconcerto

Di certo "lo schiaffo di Pietro" ha suscitato ira e sgomento nelle sacre stanze. «Mi dicono che la pedofilia era su, molto in alto… E che il papa usciva la sera con due monsignori, certo non per benedire le case…» le parole pronunciate in tv dal fratello di Emanuela, salvo poi precisare che la fonte nel frattempo è morta. Un boomerang anche per molti follower del suo gruppo Fb, di solito compatti nel sostenerlo. Va bene chiedere trasparenza, ma le parole vanno maneggiate con cura... Ne è passato di tempo da quando nell'appartamento degli Orlandi, in piazzetta Sant'Egidio, a ridosso del Palazzo Apostolico, nessuno alzava un cucchiaio fino a che papà Ercole, compunto e severo, non si sedeva a tavola e con un cenno dava il via alla preghiera prima del pasto. La famiglia del messo pontificio morto nel 2004 è sempre stata credente, devota, quasi bigotta. La bufera di questi giorni, quindi, somiglia a una nemesi: l'unico figlio maschio, tenace e indomito per scoprire la fine fatta dalla sorella  (Emanuela era la quarta, le altre tre sono Natalina, Federica e Cristina), a causa dell'eccesso di presenza mediatica e di analisi molto tranchant («Non faremo sconti a nessuno»), rischia egli stesso di indebolire la battaglia contro omertà e reticenze.   

Le foto di famiglia

Ai tempi della scomparsa - in quel terribile 1983  - a casa Orlandi il profilo si teneva basso, nell'assoluto rispetto delle gerarchie: Wojtyla era considerato un papa carismatico e sensibile, quasi venerato. I genitori affidarono le loro speranze di riabbracciare la figlia proprio a lui, Giovanni Paolo II, che il 22 giugno 1983 (forse non un caso) si trovava in Polonia per sostenere la causa di Solidarnosc. Dopo il primo appello del 3 luglio (il famoso "Condivido le ansie e l'angosciosa trepidazione della famiglia Orlandi, la quale è nell'afflizione per la figlia...") lo ringraziarono con le lacrime agli occhi. Seguirono altri sette appelli dalla finestra dell'Angelus, segno della grande partecipazione del pontefice, anche intima, personale, alla tragedia del suo impiegato. L'album di famiglia racconta molto di quella sofferenza. Sono foto intense, insieme dolci e drammatiche. Mamma Maria consolata da Karol, che le accarezza i capelli. Pietro in posa con lui, elegantissimo. Pietro vestito casual - jeans e pullover - che lo fissa negli occhi, cercando in lui la forza di andare avanti. Ancora Pietro con semplice Polo davanti al Santo Padre, che lo indica quasi a volergli assegnare un compito. E ancora: la famiglia Orlandi al completo attorno all'illustre vicino di casa, Wojtyla con i bimbi della parrocchia, Emanuela all'estrema destra, vestita di bianco... 

L'offerta di lavoro

Il Papa santo, al di là del crescendo di critiche degli ultimi dieci anni e delle intemerate delle ultime ore, nella vita di Pietro è stato una figura cruciale, presente nei momenti topici. Fu lui ad assumerlo allo Ior, la banca vaticana, dove  Pietro conobbe Patrizia, sua moglie e madre dei sei figli. L'episodio l'ha raccontato lui stesso nel libro "Mia sorella Emanuela". Era il 24 dicembre 1983, vigilia di Natale. Eccola, la scena clou: «Il papa salì la rampa di scale che porta in casa Orlandi, percorse il corridoio, si affacciò nella cameretta di Emanuela con la bambola dalle gote rosse e arrivò in salotto. A Pietro sembra ieri. “Giovanni Paolo II era in piedi, che ci porgeva i suoi regali: un bassorilievo raffigurante una Madonna e un cesto... Fu in quell’occasione che mi posò una mano sulla spalla e disse: questo giovane vuole diventare banchiere? Vedremo di farlo lavorare allo Ior”...» E Pietro come reagì? Risposta: «Bisbigliai qualche parola di ringraziamento… Poi, al momento degli auguri finali, Wojtyla pronunciò davanti a tutti noi l’altra frase che non dimenticherò mai: cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale...».

La pista principale

La sintonia con il papa polacco, per il fratello-investigatore, durò almeno fino al 2011, anno in cui mamma Maria partecipò alla cerimonia di beatificazione (il 1° maggio): «Non potevo mancare. Sua Santità ci è stato vicino quand'era in vita e adesso da lassù, da beato, spero possa fare il miracolo, regalarmi la gioia di riabbracciare mia figlia». Quello stesso anno, nel mandare alle stampe il libro, fu lo stesso Pietro a scegliere la frase della quarta di copertina: «Io so chi ha rapito Emanuela quel 22 giugno 1983: le prove sono evidenti, un sistema, un intreccio di poteri… Basta collegare l’attentato al Papa con il sequestro di mia sorella… I mandanti volevano condizionare la volontà di Karol Wojtyla». L'adesione alla pista confidata da Wojtyla nella visita pre-natalizia, di cui di certo doveva aver parlato con suo padre, era dunque piena, meditata. 

Il cambio di rotta

Poi, la linea è mutata. Da quel momento, in coincidenza con la popolarità in crescita, il fratello di Emanuela ha iniziato a rivedere le proprie posizioni sull'accaduto. Possibilista sulla partecipazione al sequestro della banda della Magliana («ha avuto un ruolo come manovalanza»), ma ostile e infastidito da un personaggio come Marco Accetti, il fotografo che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto come quello di Emanuela, parlò di apressioni sui genitori (sia su Ercole Orlandi sia su Paolo Gregori, papà di Mirella, l'altra ragazza scomparsa) e delineò un movente non lontano dalla pista internazionale (rapimento con finalità multiple, da un lato indurre Agca a ritrattare le accuse a Est e dall'altro ricattare il capo della Ior Marcinkus per il flusso illegale di finanziamenti in Polonia). 

La popolarità

Man mano che l'attenzione dei media saliva, Pietro ha ritoccato a più riprese la sua versione, dando la sensazione di aver perduto precedenti certezze e di privilegiare un'indagine a 360 gradi, da tenere perennemente aperta. Due le frasi ricorrenti: «Io mia sorella la cerco viva» e «Sono convinto che ogni pista contenga un pezzetto di verità». Intanto, assieme alle interviste, alla collaborazione al film del regista Faenza ("La verità è in cielo", 2016), al confronto con i giornalisti nel ruolo non più di parente ma di collega (al tempo della conduzione di un programma su Sky, anni 2017-18), il fratello della quindicenne scomparsa, di volta in volta, rincarava le accuse al papa polacco. Eccolo, un altro mantra:  «La colpa di Giovanni Paolo II? Aver fatto calare una cappa di silenzio sulla vicenda di Emanuela». 

La trattativa (presunta)

Un presenzialismo forte, di certo motivato da passione sincera e dal desiderio di ottenere giustizia, ma anche frasi avventate, come quelle sulla mai dimostrata "trattativa" (nel 2012) tra magistratura romana e Gendarmeria vaticana «per la restituzione del corpo di Emanuela», gli annunci a ripetizione di essere a conoscenza di eventi inconfessabili «capaci di far crollare duemila anni di storia della Chiesa» o lo slogan scelto lo scorso gennaio per lanciare l'ennesimo sit-in a San Pietro: «Il silenzio li ha resi complici», scritto sopra la foto di ben tre papi, non più soltanto Wojtyla, ma anche Ratzinger e Bergoglio. E adesso è arrivato l'ultimo duplice attacco, giudicato "infamante e calunnioso" dai vertici della Chiesa, con la diffusione dell'audio (registrato nel 2009) di un malavitoso che blatera su Wojtyla e delle voci non provate (di una persona defunta) sul Papa santo a zonzo di notte per Roma. Inevitabile lo sconcerto, in Vaticano e fuori. 

Il senso di colpa

Ma sono proprio le foto dell'album di famiglia, in fondo, a dirci qualcosa in più: la dimestichezza con i pontefici, il fatto di averli incontrati spesso da ragazzino in casa o mentre giocava nei giardini  vaticani con i figli di altri dipendenti della Santa Sede, deve aver pesato su certe condotte sopra le righe di Pietro Orlandi. Un'attenuante?  Anche il quarantennale senso di colpa provato per non aver accompagnato Emanuela alla scuola di musica, quando lei glielo chiese con insistenza, quel maledetto pomeriggio del 22 giugno, potrebbe averi influito nell'approccio. I papi erano lì, tanto vicini, quasi di famiglia, e lui è cresciuto considerandoli come zii importanti e pronti a perdonare, senza cogliere fino in fondo né la straordinarietà del ruolo né la carica simbolica esercitata dal capo della cristianità agli occhi di milioni di credenti. A uno zio si può anche dire una parolaccia. A un papa, meno. E gli sviluppi della vicenda, adesso, restano più che mai incerti, imponderabili. (fperonaci@rcs.it)

Caso Emanuela Orlandi, dopo le parole del fratello Pietro parla Ali Agca: "Qual è la verità". Il Tempo il 13 aprile 2023

Caso Emanuela Orlandi, il mistero si infittisce. Dopo il fratello Pietro, adesso parla anche Ali Agca, l'attentatore di Giovanni Paolo II. Agca chiama in causa gli ultimi tre Papi e chiede esplicitamente al Vaticano di liberare Emanuela e Mirella, l'altra giovane scomparsa a pochi giorni di distanza dalla cittadina vaticana. Pietro Orlandi, fratello di Emanuela Orlandi, è stato ascoltato per più di otto ore in Vaticano da Alessandro Diddi, promotore della Giustizia incaricato da Papa Francesco di fare luce sulla vicenda della giovane cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno del 1983. Un incontro fortemente voluto dallo stesso Pietro che è stato ascoltato come «persona informata dei fatti» e durante il quale sono stati ricostruiti quarant’anni di misteri e di silenzio. Pietro ha potuto «verbalizzare tutte le cose» di cui ha parlato. «Ho parlato della trattativa, dei documenti sul trasferimento di Londra, degli altissimi prelati coinvolti nella pedofilia, dei famosi screenshot». Orlandi ha dichiarato, visibilmente provato, di aver trovato «molta disponibilità, il fatto stesso di avermi detto che l’incarico è arrivato direttamente dal Papa vuol dire qualcosa. Gli è stato detto di non fare sconti a nessuno - aggiunge - e se ci sono delle responsabilità anche in alto quelle devono venire fuori». Sul tavolo del Vaticano il fratello di Emanuela ha lasciato «una nota scritta facendo l’elenco delle persone che andrebbero ascoltate: il Cardinal Re, l’ex comandante della gendarmeria vaticana Giani, Pignatone. L’inchiesta - ha poi ricordato - è partita a gennaio ma da tanto tempo stanno interrogando persone, hanno una bella documentazione. La cosa positiva è che ho visto oggi la volontà a fare chiarezza per quanto è possibile. Un momento importante perché a qualcosa ora questo deve portare. Le cose che ho fatto verbalizzare ora devono per forza avere risposte».

Un incontro accolto positivamente anche da colui che entrò prepotentemente in questa storia, Ali Agca, quando pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela, la sala Stampa Vaticana ricevette la telefonata di un uomo dall’accento anglosassone, ribattezzato dalla stampa l’Americano, che sostenne di avere in ostaggio la ragazza e che l’avrebbe liberata solo dopo la liberazione di colui che aveva attentato alla vita di Giovanni Paolo II, il 13 maggio 1981. Agca a LaPresse definisce «l’apertura dell’inchiesta sul rapimento di Emanuela Orlandi in Vaticano un atto storico da elogiare, dando ragione a Pietro Orlandi "quando accusa gli tre ultimi Papi di non averla liberata pur essendo tutti e tre in grado di poterlo fare", rinnovando l’appello a Papa Francesco e chiedendo di liberare "immediatamente il Vaticano da questa atroce prigionia e tortura permanente liberando Emanuela e Mirella" Gregori, la giovane scomparsa a pochi giorni di distanza dalla cittadina vaticana. Agca esclude la pista della pedofilia. Per lui si tratta di "accuse terribili e orribili che devono terminare con l’immediata liberazione di Emanuela e Mirella. Altrimenti il povero Giovanni Paolo II, uomo onesto e innocente, sarà spacciato nel mondo come il Santo del satanismo. Non esiste nessun omicidio e nessuno stupro. La giustizia vaticana e la giustizia italiana non devono disturbare nessuno con infamanti accuse di stupro, pedofilia e omicidio".

Estratto da liberoquotidiano.it il 12 aprile 2023.

[…] Ma in questa vicenda a colpire sono state le parole di Pietro Orlandi pronunciate a Di Martedì ai microfoni di Giovanni Floris: "Sono convinto che Wojtyla, Ratzinger e Papa Francesco siano a conoscenza". E nel corso della trasmissione viene fatto ascoltare un audio che lo stesso Pietro Orlandi avrebbe consegnato alle autorità vaticane.

Nell'audio a parlare è un uomo vicino alla banda della Magliana: "Papa Giovanni Paolo II se le portava in Vaticano quelle, era una situazione insostenibile. E così il Segretario di Stato a un cero punto è intervenuto decidendo di toglierle di mezzo. E si è rivolto a persone dell'ambiente carcerario".

Sono tutte parole che ovviamente finora non hanno trovato alcun riscontro. Ma la frase con cui Pietro Orlandi commenta le parole dell'uomo della Magliana sono piuttosto inquietanti: "Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case...".

Estratto dell’articolo di Stefano Vladovich per “il Giornale” il 20 aprile 2023.

Parola d’ordine: «chiarire». Per il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, la Santa Sede non vuole altro che la verità sul caso Orlandi. «Lo dobbiamo alla mamma di Emanuela che soffre molto». 

Ieri alla Camera dei Deputati Parolin ha tenuto un incontro con i giornalisti sull’apertura dell’inchiesta della Santa Sede sulla scomparsa della 15enne cittadina vaticana il 22 giugno del 2023 e sulle accuse su Papa Wojtyla, oggi Santo, giunte come una bomba sull’intera vicenda. «Siamo molto sorpresi che non vi sia stata collaborazione - spiega Parolin-, perché questo avevano chiesto. Allora perché adesso tirarsi indietro in maniera così brusca? Non capisco...Il nostro intento è quello di arrivare veramente a chiarire».

Parolin si riferisce alla convocazione in Vaticano del legale della famiglia Orlandi, l’avvocato Laura Sgrò, che ha scelto di opporre il segreto professionale. […] 

È una vecchia intervista di un giornalista, Alessandro Ambrosini ideatore del blog Notte Criminale, a un personaggio vicino a Renatino de’ Pedis, Marcello Neroni, a scatenare il caso sulla figura di Papa Wojtyla negli anni della scomparsa della Orlandi. L’uomo, oggi ultra ottantenne, nel 2009 racconta delle strane passeggiate fuori dalla cittadella vaticana di Giovanni Paolo II e dell’intervento di due cappellani del carcere: 

«Wojtyla (...) pure insieme se le portava a letto, se le portava, non so dove se le portava, all’interno del Vaticano». Secondo quello che racconta Neroni, intervenne l’allora segretario di Stato Agostino Casaroli. «Essendo un esperto del carcere, perché faceva il cappellano al riformatorio (Casal Del Marmo ndr), si è rivolto ai cappellani del carcere, uno era calabrese, un certo Luigi, un altro un furbacchione, un certo padre Pietro». 

I due, sempre secondo il ricordo del testaccino, non fanno altro che rivolgersi a de’ Pedis, il «presidente». «Gli hanno detto: sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?». […]

Estratto dell’articolo di Alessandro D’Amato per open.online il 12 maggio 2023.

Non solo l’inglese torturato e gli errori nell’intestazione. C’è un altro elemento nel caso della presunta lettera dell’arcivescovo di Canterbury su Emanuela Orlandi che ci dà la certezza della falsità della missiva. Ovvero la firma di George Cantuar, al secolo Carey. Che è stata ricavata da un altro documento disponibile in rete. 

E poi apposta sulla missiva scritta in inglese maccheronico e indirizzata al cardinale Ugo Poletti. Il tutto fornisce la certezza che la lettera consegnata da Pietro Orlandi al promotore di giustizia Alessandro Diddi è frutto di un depistaggio. […] 

A spiegare a Open che la firma è un falso è Sara Cordella, grafologa forense, specializzata in grafologia criminologica, iscritta all’albo dei periti del Tribunale di Venezia e docente. L’esperta segnala che in un articolo di Christian Today che risale al 2016 e che parla degli abusi sessuali nella Chiesa d’Inghilterra c’è una firma di Carey come arcivescovo di Canterbury.

Carey scriveva al pubblico ministero che aveva sollevato un’accusa di abusi sessuali nei confronti dell’ex vescovo di Gloucester Peter Ball. «Anche a una prima valutazione “ad occhio” si vede che le due firme sono perfettamente sovrapponibili. E questa è la lezione numero 1 di metodologia grafologica penale: non possono esistere due firme identiche. Se sono uguali, una delle due è un falso». 

«Io lo definirei tecnicamente come un falso per fotomontaggio», assicura la grafologa. Che poi spiega di aver anche notato altro. In un dettaglio che si trova in entrambe le firme è presente quella che in gergo tecnico si chiama “intozzatura”. […] 

Appurato quindi che si tratta di una prova falsa, come del resto anche Diddi aveva subito detto, rimane da capire in che modo questa sia arrivata a Pietro Orlandi e chi ci sia dietro. Perché è evidente che l’intenzione di avvalorare la “pista inglese” e soprattutto la “nota spese” del Vaticano è un modo per depistare e indirizzare eventuali indagini.

Ecco la lettera segreta su Emanuela Orlandi. L’arcivescovo Carey: «È falsa». (Emiliano Fittipaldi e Emanuele Midolo, Domani 10 maggio 2023) «Cara Eminenza, dopo aver saputo che lei sarà qui a Londra per alcuni giorni, mi corre l’obbligo di chiederle di venirmi a trovare nei prossimi giorni per discutere personalmente in merito alla situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza. Dopo anni di carteggi scritti, credo sia giusto discutere personalmente di una questione così importante. Cordiali saluti». Così scriveva l’ex arcivescovo di Canterbury George Carey al cardinale Ugo Poletti, o almeno così vuole far credere una presunta missiva «confidenziale» datata 6 febbraio 1993 e consegnata da Pietro, fratello della ragazzina scomparsa nel 1983, agli inquirenti vaticani che da qualche mese stanno indagando su uno dei cold case più noti d’Italia.

Domani ha ottenuto il documento di cui Orlandi e il suo avvocato Laura Sgrò hanno annunciato in tv l’esistenza un mese fa, e lo pubblica ora sul quotidiano e sul sito. 

La lettera a Poletti

Il dispaccio firmato da Carey sarebbe stato spedito dall’allora primate della chiesa anglicana (la cui residenza ufficiale è Lambeth Palace, citata nell’intestazione) a un’indirizzo di Londra diventato celebre negli ultimi anni. Quello cioè dell’ostello femminile di proprietà dei padri scalabriniani, inserito in una delle voci contabili di una presunta nota spese firmata nel 1998 dall’allora numero uno dell’Apsa, cardinale Lorenzo Antonetti. Un documento che elenca i soldi spesi dal Vaticano per «l’allontanamento domiciliare» della Orlandi, divulgato da chi vi scrive nel 2017 e subito bollato come «falso e ridicolo» dalla Santa sede.

La missiva di Carey, rivolta a Poletti che al tempo era arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, si conclude così: «Mi faccia sapere se ha bisogno di un traduttore personale o se ne ne porterà uno con lei. Aspetto una sua risposta nei prossimi giorni». Firmato, a penna: «Cordiali saluti, George Cantuar». «Cantuar» sta Canterbury in latino: gli arcivescovi anglicani firmano così, con una croce anteposta al nome di battesimo.

Fosse genuino, il messaggio sarebbe di interesse notevole, perché di fatto complementare alla storia disegnata dalla lettera di cinque pagine di Antonetti. Quest’ultima si presenta come un «resoconto sommario delle spese» sostenute dal Vaticano, redatto come documento di sintesi «delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi».

La pista inglese

 Il rapporto (che spiega come allo stesso sarebbero stati allegati 197 pagine di fatture e resoconti bancari delle ipotetiche spese) elenca una serie di voci contabili, che portano il lettore a ipotizzare come l’adolescente, dopo essere scomparsa, sia stata in qualche modo rintracciata da uomini del Vaticano. Gli stessi, invece di restituirla alla famiglia, avrebbero – per motivi che la missiva indirizzata agli allora arcivescovi Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran non spiega – nascosta in vita a Londra.

Nella prima pagina delle spese, quelle che vanno dal 1983 al 1985, una voce indica «rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra», e una spesa relativa di otto milioni. Nella capitale inglese esistono tre strade con quel nome, ma nessuna con quel civico. L’estensore (sia davvero il cardinale, sia come molti credono un falsario che si è firmato a suo nome) ha probabilmente sbagliato digitazione. L’indirizzo corretto è infatti Clapham Road, dove al numero 176 dall’inizio degli anni Ottanta c’era (e c’è ancora) l’ostello femminile cattolico. Destinato alle ragazze, studentesse e lavoratrici che volevano (o vogliono) soggiornare a Londra a prezzi contenuti in semplici mini-appartamenti.

La missiva firmata «George Cantuar» consegnata da Pietro Orlandi al promotore di giustizia Alessandro Diddi, che qualche mese fa ha aperto il caso giudiziario in Vaticano per provare a dare rispose alla famiglia dopo quarant’anni di silenzi e reticenze, viene spedita da Carey a Poletti allo stesso indirizzo citato nel documento di Antonetti: Clapham Road 170, che è un altro ingresso del comprensorio.

Il dettaglio, dunque, accrediterebbe la cosiddetta “pista inglese” e la stessa missiva di Antonetti. In cui – come è noto – si lascia intendere sia la partecipazione di Poletti all’affaire Orlandi (una voce ipotizza che 80 milioni siano stati spesi per «l’attività di sua Eminenza Reverendissima cardinale Ugo Poletti»). Sia la circostanza che Emanuela sia rimasta assurdamente nascosta (in cattività?) in Inghilterra fino al luglio del 1997, quando il resoconto indica, in un’ultima nota spesa, un esborso di 21 milioni di lire per «l’attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali».

Dubbi e falsari

Fosse vera la lettera di Carey sarebbe dunque il primo elemento concreto che avvalorerebbe le cinque pagine. Domani, in attesa delle conclusioni delle indagini dei magistrati di Francesco, ha cercato di verificare per quanto possibile l’attendibilità del documento. Che presenta certamente più di un interrogativo. L’inglese in molti passaggi è maccheronico. Il testo non sembra scritto da un madrelingua, ma forse da un italiano che traduce alla lettera.

Anche in questo caso, come nella lettera di Antonetti, la carta non è intestata né timbrata. I riferimenti temporali sono corretti (Carey, che aveva ottimi rapporti con Giovanni Paolo II, era arcivescovo di Canterbury da meno di due anni, Poletti era stato fatto arciprete nel 1991) ma non è chiaro per quale motivo il capo della chiesa anglicana avrebbe dovuto essere partecipe del caso Orlandi che terremotava i cattolici.

Domani ha inoltre mostrato la lettera a Carey in persona, che vive a Londra e ha 87 anni. Il suo segretario, il figlio Andrew, spiega che della faccenda di Emanuela l’ex arcivescovo «non ne sa nulla, e non crede che la questione sia mai stata sottoposta alla sua attenzione. La lettera inoltre non è autentica: è scritta su carta che non reca un’intestazione corretta, contiene errori di sintassi e di grammatica e sarebbe stata ritenuta non conforme ai criteri qualitativi per la corrispondenza di Lambeth Palace».

Invece Carey riconosce la firma in calce come autentica: «La firma sembra genuina». Fosse davvero una patacca, un falsario avrebbe dunque composto il documento, appiccicando la firma dell’ex arcivescovo (su Ebay abbiamo trovato delle cartoline in vendita dove appare un autografo di Carey molto simile) a un testo farlocco mal scritto, per poi spedire la patacca in formato digitale a Pietro Orlandi che lo ha denunciato al Vaticano.

Fonti interne alla Città Santa spiegano che la gendarmeria e i promotori non hanno ancora sentito l’arcivescovo Carey, ma chiariscono che Diddi (e papa Francesco, che è stato messo al corrente) sono «tranquilli: la lettera è un falso sesquipedale».

Fossero confermati i sospetti di un ennesimo depistaggio su caso Orlandi, nessuno per ora riesce a rispondere a una domanda chiave: cui prodest? Chi avrebbe interesse a realizzare una nuova contraffazione (che servirebbe a convalidare la pista inglese già definita una patacca dal Vaticano) e spedirla alla famiglia dopo quarant’anni dalla scomparsa di Emanuela?

Non sappiamo se Pietro ha svelato, nella lunga testimonianza fatta a Diddi qualche settimana fa, chi gli ha dato la presunta lettera di Carey. Non sappiamo dunque se si tratta di un anonimo oppure di una persona della quale è possibile risalire all’identità e che potrebbe spiegare l’origine del foglio in inglese. Ma è certo che è interesse degli Orlandi e del Vaticano fare chiarezza sull’ennesimo documento che rischia – se falso come afferma Carey – di allontanare la verità sulla sorte della ragazza.

Emanuela Orlandi: le “ rivelazioni” suWojtyla sanno di ennesimo depistaggio Le accuse sono state lanciate da Pietro Orlandi, fratello della ragazza scomparsa. Valter Vecellio, Sciascianamente, il 15 Aprile 2023 su La Voce di New York. 

Si contravviene una delle regole del giornalismo, quello di auto-citarsi. Epperò… Proprio su La Voce di New York, il 14 gennaio di quest’anno, il punto per quello che riguarda la vicenda di Emanuela Orlandi. La ragazza, fosse viva, avrebbe oggi 55 anni. Ne aveva quindici, quando il 22 giugno del 1983, scompare e sul suo conto di dice di tutto, ma di vero, verificato, provato, si sa pochissimo.

Cittadina vaticana, figlia di un dipendente della Santa Sede, la sua scomparsa è stata messa in relazione ad Alì Agca, il turco che il 13 maggio 1981 a San Pietro cerca di uccidere papa Giovanni Paolo II: liberare lui in cambio del rilascio di lei. Un paio di volte, quand’era detenuto in Italia, chi scrive ha avuto la possibilità di intervistarlo. Una prima volta subito dopo l’incontro, in carcere, con il pontefice che voleva uccidere. Entrambe le volte con il suo italiano gutturale, sillabava: “Emanuela è viva”. Suggestivo, Agca; tutto meno che un imbecille, ma dargli credito è altra cosa.

Un filone investigativo vuole che nella vicenda sia coinvolto Enrico De Pedis, da molti considerato uno dei capi storici della Banda della Magliana. Il coinvolgimento della banda nella scomparsa di Emanuela, disegna, almeno ipoteticamente, un quadro inquietante: la Banda avrebbe cercato di condizionare le politiche del Vaticano, e fa intravedere oscure gestioni di fondi dirottati dallo IOR al tempo del defunto cardinale Paul Marcinkus in favore del sindacato polacco Solidarnosc in funzione antisovietica. Però: il Vaticano, per finanziare il sindacato di Lech Walesa si rivolge a quattro delinquenti romani?

L’auto-citazione. Una sorta di prontuario stilato con il fondamentale aiuto di Pino Nicotri, giornalista autore di un paio di libri sull’ “affaire”. Grazie a Nicotri si possono fissare alcuni punti fermi:

1. Emanuela NON è stata rapita per essere scambiata con Mehmet Ali Ağca, anzi il “rapimento” i magistrati lo vedono come un depistaggio per coprire i reali motivi della scomparsa.

2. Il Vaticano non solo non ha MAI voluto collaborare, ma ha anche mentito e ordinato di mentire. Per esempio, lo ha ordinato al vice capo della sicurezza vaticana ingegner Raul Bonarelli il giorno prima di essere ascoltato come testimone dai magistrati citati. Per questo dirigente della vigilanza vaticana a suo tempo il magistrato ha chiesto uno stralcio per concorso nella scomparsa.

3. Il prefetto Vincenzo Parisi, poi capo della polizia di Stato, ha testimoniato la propria convinzione che la montatura del “rapimento” NON può essere stata tenuta in piedi senza complicità interne al Vaticano.

4. Nelle stesse ore il cui papa Karol Wojtyla lanciava i suoi ripetuti appelli ai “rapitori” perché lasciassero libera la ragazza, monsignor Giovanbattista Re, dirigente di una sezione della Segreteria di Stato, rifiutava l’offerta di monsignor Giovanni Salerno di auscultare, lui che si occupava di finanze del Vaticano, i molti ambienti con i quali aveva contatti, per cercare di capire che fine avesse fatto Emanuela. Ovvero: mentre il Vaticano con la mano destra, cioè con Wojtyla, lanciava appelli buonisti ai “rapitori”, con la mano sinistra, cioè con la Segreteria di Stato, se ne fregava bellamente della sorte della “rapita”. Deve essere stato in ossequio al precetto evangelico “Non sappia la sinistra cosa fa la mano destra“.

5. Cosa straordinaria, ma sulla quale si accanisce significativamente il silenzio di tutti, nessuno chiede ad alta voce come mai il funzionario del parlamento italiano, dottor Gianluigi Marrone, che inviava in Vaticano le rogatorie internazionali dei magistrati italiani desiderosi di interrogare alcuni cardinali, era lo stesso che dal Vaticano, in qualità di suo Giudice Unico, rispondeva “NO!” a quelle sue rogatorie. Cioè a se stesso! Con l’eccezione del parlamentare radicale Maurizio Turco, che ne chiede ufficialmente conto al presidente della Camera dell’epoca Fausto Bertinotti (senza peraltro ottenere una risposta soddisfacente), nessuno se ne stupisce, trova la cosa meritevole di attenzione e spiegazione; neppure una sua segretaria, Natalina Orlandi, ha mai avuto nulla da eccepire su questo straordinario doppio ruolo, pur essendo lei una sorella di Emanuela. Marrone è stato autorizzato, per questa sua doppia mansione il 20 febbraio 1989 (presidenza Nilde Iotti). Continua ad esercitare il doppio lavoro durante le presidenze di Oscar Luigi Scalfaro, Giorgio Napolitano, Irene Pivetti, Luciano Violante e Pier Ferdinando Casini. Va in pensione subito dopo l’inizio della XV legislatura. Alla richiesta di Turco di sapere esattamente quando, gli si risponde che c’è la privacy.

Così non si sa se Bertinotti ha avuto modo e tempo di non revocargli l’autorizzazione della Iotti, tantomeno di sapere di cosa si è occupato alla Camera dei deputati in 18 anni di funzionariato italo-vaticano”.

Questi cinque punti individuati da Nicotri sono una buona base di partenza. C’è poi, da aggiungere, la confidenza di un’amica di scuola che racconta di aver saputo da Emanuela che in uno dei suoi giri in Vaticano una persona molto vicina all’allora pontefice l’aveva infastidita, “e si trattava di un’attenzione sessuale”.

La notizia viene rivelata da Tommaso Nelli, un giornalista free-lance nel suo libro sul caso Orlandi Atto di dolore, prima edizione 2016. Se si considera che Emanuela è stata rapita nel 1983… In tutto questo arco di tempo, lo racconta lo stesso Nenni, la notizia “non è mai stata riportata da alcun organo o mezzo di informazione”, è stato Nenni a trovare quella persona e a raccogliere la sua testimonianza.

Congetture, ipotesi, “rivelazioni”, “supertestimoni” in cerca di visibilità, mitomani…un avvilente circo mediatico. Il Vaticano, su diretto impulso di papa Francesco, riapre il caso: “rileggeranno” tutte le carte e i fascicoli, ascolteranno i testimoni sopravvissuti.

L’affaire in questi giorni si arricchisce un nuovo capitolo da prendere con le proverbiali molle. Un capitolo che contribuisce a creare un polverone che forse non è liquidabile con la semplice deprecabile voglia di protagonismo. Forse va inquadrato in una più vasta manovra, in un progetto di intorbidare acque di suo inquinate, e rendere incredibili e inattendibili anche quei non molti punti fermi finora acquisiti. La cosa che fa ulteriormente pensare è che a questo tipo manovre si prestano anche personaggi che avrebbero al contrario tutto l’interesse a fare il massimo della chiarezza.

Il fratello di Emanuela, Pietro, partecipa a una trasmissione televisiva, Di Martedì, e si dice convinto che “Wojtyla, Ratzinger e papa Francesco siano a conoscenza” dell’indicibile che riguarda la vicenda della sorella. Fin qui…

Nel corso della trasmissione viene fatto ascoltare un audio che lo stesso Pietro Orlandi avrebbe consegnato alle autorità vaticane durante una sua recente audizione. Nell’audio parla un uomo che si presume essere vicino alla banda della Magliana: “Papa Giovanni Paolo II se le portava in Vaticano quelle, era una situazione insostenibile. E così il Segretario di Stato a un cero punto è intervenuto decidendo di toglierle di mezzo. E si è rivolto a persone dell’ambiente carcerario“.

Qui siamo già nel torbido. Sono parole che finora non hanno trovato alcun tipo di riscontro. Pietro Orlandi ci mette del suo, commenta le parole del presunto affiliato alla Banda della Magliana con una pesantissima insinuazione: “Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case...”.

La tecnica è quella di chi scaglia il sasso e poi nasconde la mano. Non si dice, ma si lascia intendere; si insinua. Venuti al dunque, quando l’incaricato vaticano, il Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, chiede formalmente e seccamente al Pietro Orlandi e al suo avvocato, Laura Sgrò di fornire elementi concreti che suffraghino la pesantissima insinuazione circa il possibile coinvolgimento di Wojtyla, la risposta è un impenetrabile silenzio. Il direttore della sala stampa del Vaticano Matteo Bruni dichiara: “Il Promotore di giustizia Diddi, insieme al professor Gianluca Perone, Promotore applicato, ha ricevuto l’avvocato Laura Sgrò, come da lei ripetutamente e pubblicamente richiesto, anche per fornire quegli elementi, relativi alla provenienza di alcune informazioni in suo possesso, attesi dopo le dichiarazioni fornite da Pietro Orlandi. L’avvocato Sgrò si è avvalsa del segreto professionale”.

Un collega che è sempre stato molto vicino a Pietro Orlandi, Fabrizio Peronaci del Corriere della Sera, va giù pesante: “Quando ho letto questa dichiarazione, ho stentato a credere che Pietro potesse averla pronunciata”. Peronaci ha scritto un libro a quattro mani con Pietro, Mia sorella Emanuela. Poi si sono allontanati, per diversità di vedute. Secondo Peronaci la rottura è dovuta alla esasperata ricerca di visibilità dello stesso Orlandi, che lo ha portato ad accreditare qualsiasi pista: “...ha scelto la linea diretta dell’insulto non provato al massimo rappresentante della chiesa cattolica”. Ha gioco facile l’Osservatore Romano (l’organo della Santa Sede) che in un suo editoriale scrive: “Prove? Nessuna. Indizi? Men che meno. Testimonianze almeno di seconda o terza mano? Neanche l’ombra. Solo anonime accuse infamanti”. E ancora: “Una follia. E non lo diciamo perché Karol Wojtyla è santo o perché è stato papa. Anche se questo massacro mediatico intristisce e sgomenta ferendo il cuore di milioni di credenti e non credenti, la diffamazione va denunciata perché è indegno di un Paese civile trattare in questo modo qualunque persona, viva o morta, che sia chierico o laico, papa, metalmeccanico o giovane disoccupato”. Secondo l’Osservatore Romano, “è giusto che tutti rispondano degli eventuali reati, se ne hanno commessi, senza impunità alcuna o privilegi. È sacrosanto che si indaghi a 360 gradi per cercare la verità sulla scomparsa di Emanuela. Ma nessuno merita di essere diffamato in questo modo, senza neanche uno straccio di indizio, sulla base dei ‘si dice’ di qualche sconosciuto personaggio del sottobosco criminale o di qualche squallido anonimo commento propalato in diretta Tv”. Sia consentita una previsione: non se ne verrà a capo di nulla. La scomparsa e presumibile morte di Emanuela Orlandi resterà sempre un mistero; molti di quanti sono a conoscenza di come si sono svolti i fatti, sono morti. E’ possibile che si solleveranno altri polveroni. La vicenda sarà utilizzate nell’ambito di “primarie” in corso da tempo, per il successore di papa Francesco. Dunque altri “clamorosi” capitoli di questa infinita vicenda che ormai si perde nel tempo; e nulla comunque hanno a che fare con la verità.

Valter Vecellio Sciascianamente Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'an…..

Emanuela Orlandi e la lettera al fratello Pietro. La grafologa: «Scritta da persona autoritaria». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

La missiva inviata alla madre della ragazza scomparsa: l'autore è un buon oratore (scrittura flessuosa), ma poco dialogante ("t" acuminate). Nel falso cognome un riferimento all'Opus Dei? 

Pietro Orlandi e la lettera esaminata da una grafologa

L'inchiesta vaticana sul caso Orlandi che, stando alle dichiarazioni del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, va avanti con speditezza.  Una lettera di accuse a Pietro Orlandi per le «vergognose allusioni» da lui rilanciate in tv su Karol Wojtyla, che ha suscitato grande curiosità. La replica spazientita del fratello di Emanuela: «Io devo rispondere a Dio delle mie cattiverie? Beh...» E, da due giorni,  un rovello: chi è il misterioso personaggio, forse un alto prelato, che ha recapitato alla madre di Pietro e di Emanuela (qui il ritratto della signora Maria), tuttora residente nella Città del Vaticano, quella missiva che dà del "bugiardo" al suo unico figlio, da sempre in prima linea nella battaglia per la verità?

La lettera misteriosa

Elementi utili a tracciare il profilo dell'autore della lettera possono venire da un'analisi scientifica dello scritto, che il Corriere ha affidato alla grafologa giudiziaria Monica Manzini, già intervenuta in uno dei gialli collegati al caso della "ragazza con la fascetta" (la scomparsa di Alessia Rosati, luglio 1994). Ebbene, l'esame della grafia di quella paginetta che inizia con l'esclamazione «Caro Pietro, sei un bugiardo e lo sai!» e si chiude con una firma di comodo («Saluti, Luciano Dei»), di spunti ne offre parecchi. Basta scorrere una ad una le notazioni integrative dell'esperta per dedurre che il messaggio è stato quasi certamente scritto da persona volitiva, «di alti ideali», con «una buona oratoria» e propensa a un certo «autoritarismo».  

La pressione sul foglio

E allora eccola, riga dopo riga, l'analisi della grafologa. La premessa di metodo, osservando i colori dello schema, è che il giallo evidenzia i tagli della "t" acuminati, l'azzurro la presenza di lettere più grandi della norma in mezzo alle parole, il verde gli assi letterali oscillanti, il rosso le "t" o le "f" più alte della media, il viola una gestualità morbida e il marrone la tendenza ad arrotondare le "d" in un ovale. Già, ma le caratteristiche dello scritto a che tipo di personalità conducono? Questo è il punto che più interessa: «Dalla grafia non è possibile stabilire con ragionevole certezza sesso ed età, anche se propenderei per una persona adulta di sesso maschile - spiega la dottoressa Manzini - Quasi certo, invece, è che si tratti di un soggetto portatore di alti ideali, come si evince dai prolungamenti superiori elevati delle "t", idealità che entrano però in conflitto con una certa pragmaticità, evidenziata dalla pressione esercitata con la penna sul foglio e dalle dimensioni delle lettere della zona centrale, di media grandezza». 

«Tratti flessuosi? Buon oratore»

Un altro elemento si desume dalla forma a tratti svolazzante di alcune parole: «Lo scrivente - aggiunge la grafologa - deve essere tendenzialmente conciliante, come mostra la gestualità morbida e flessuosa accompagnata da lievi oscillazioni assiali», ma  è anche vero che mister X «non lascia spazio al dialogo e non manca di far valere la sua autorità quando ritiene di avere ragione, come ci dicono alcuni tratti delle lettere rigidi alla base e i tagli delle “t” acuminati». Inoltre - esaminando come scrive - il "fake" Luciano Dei dovrebbe possedere una «buona capacità oratoria, evidenziata dai tratti flessuosi accanto a gesti dinamici e recisi» e in certe circostanze si «lascia sopraffare dalle emozioni e dall’impulsività, come attestano le dimensioni delle lettere irregolari, lo spazio ridotto tra alcune parole e l'ammassamento dei grafemi verso il margine destro». Ultimo dettaglio, gli ovali arrotondati delle "d", che denotano «senso dell’opportunità». 

L'errore nel cognome del Papa Santo

E dunque? A spanne, unendo gli indizi sul carattere tenace, il forte senso del sé e la buona oratoria, la prima ipotesi fatta da Pietro Orlandi, secondo il quale la lettera potrebbe essere stata scritta da qualcuno di casa dentro le Sacre mura, appare confermata. Un religioso stizzito, se non scandalizzato, dalle calunniose accuse di pedofilia al Papa Santo? Tutto lo lascia pensare, se non fosse per la scivolata su come è stato scritto il cognome di Giovanni Paolo II ("Woytila" invece che "Wojtyla"), ma è anche vero che si tratta di un errore comune, spesso frutto di un automatismo, e come tale meno indicativo di quanto possa sembrare. 

Gli indizi nelle frasi-chiave

C'è poi l'altro piano di interpretazione della lettera: quello sui contenuti. La missiva potrebbe essere attribuibile - hanno fanno presente ambienti investigativi che si sono rivolti all'autore di questo articolo - a «persona ben informata all’interno della Santa Sede», e ciò sulla base di alcuni precisi «elementi». Meritano attenzione -  oltre al tono vagamente paternalistico, ulteriore indizio di età matura dello scrivente - soprattutto questi passaggi: «Hai complicato le cose...» (frase rivolta a Pietro Orlandi, da interpretare in tal senso: peccato, le tue dichiarazioni su Wojtyla penalizzano la ricerca della verità);  «I soliti documenti falsi...» (ove quel "soliti" potrebbe leggersi come un «ne abbiamo già viste tante, di denunce infondate...»); «Il Vaticano ti ha concesso un’inchiesta» (leggi «ti abbiamo concesso»); e infine «Il Vaticano è stato fin troppo paziente» (analogamente da decodificare come un «noi siamo stati fin troppo pazienti»). 

Un ecclesiastico vicino di casa?

Sono mere congetture, sia chiaro. Tale identikit potrebbe essere smentito in una frazione di secondo qualora mister X decidesse di uscire allo scoperto, attribuendosi pubblicamente la paternità del foglietto depositato nella cassetta di mamma Maria, dentro una busta con un francobollo, sul quale campeggia la scritta "Padova 2020 / Capitale volontariato". Nella scelta del francobollo (non timbrato) si può leggere forse una comunicazione criptata? Chissà. Alla luce di tali considerazioni, in ogni caso, le ipotesi più accreditate appaiono le seguenti:  

1- la lettera proviene da una personalità che ha un ruolo preciso nell'indagine di recente aperta dalla Santa Sede.  

2 - a scriverla potrebbe essere stato un ecclesiastico (vedi il finto cognome, Dei, “di Dio”) sentito come testimone dal procuratore Diddi, con un'ulteriore possibilità: che quel "Dei", oltre a un'indicazione sul mondo di provenienza, rappresenti un riferimento alquanto esplicito all'Opus Dei, organizzazione più volte chiamata in causa in snodi importanti della vicenda Orlandi nei quasi 40 anni trascorsi dal 22 giugno 1983.  

3 - l’autore, infine, molto semplicemente, potrebbe essere un prelato residente all'interno delle Mura Leonine, magari non distante dalla casa della mamma di Emanuela, che in preda a un moto di rammarico e di sdegno per le «allusioni infamanti» ai danni di Giovanni Paolo II abbia inteso rimproverare con severità Pietro Orlandi, scrivendo guarda caso a sua madre, la cui devozione alle alte gerarchie della Chiesa è sempre stata fuori discussione. 

Giallo più che mai aperto, dunque. A sciogliere i dubbi potrà essere solo il misterioso mittente, facendosi avanti. (fperonaci@rcs.it)

Estratto dell’articolo di Fabrizio Peronaci per roma.corriere.it il 28 aprile 2023.

L'inchiesta vaticana sul caso Orlandi che, stando alle dichiarazioni del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, va avanti con speditezza.  Una lettera di accuse a Pietro Orlandi per le «vergognose allusioni» da lui rilanciate in tv su Karol Wojtyla, che ha suscitato grande curiosità. La replica spazientita del fratello di Emanuela: «Io devo rispondere a Dio delle mie cattiverie? Beh...» 

E, da due giorni, un rovello: chi è il misterioso personaggio, forse un alto prelato, che ha recapitato alla madre di Pietro e di Emanuela (qui il ritratto della signora Maria), tuttora residente nella Città del Vaticano, quella missiva che dà del "bugiardo" al suo unico figlio, da sempre in prima linea nella battaglia per la verità? 

Elementi utili a tracciare il profilo dell'autore della lettera possono venire da un'analisi scientifica dello scritto, che il Corriere ha affidato alla grafologa giudiziaria Monica Manzini, già intervenuta in uno dei gialli collegati al caso della "ragazza con la fascetta" (la scomparsa di Alessia Rosati, luglio 1994). Ebbene, l'esame della grafia di quella paginetta che inizia con l'esclamazione «Caro Pietro, sei un bugiardo e lo sai!» e si chiude con una firma di comodo («Saluti, Luciano Dei»), di spunti ne offre parecchi.

[…] E allora eccola, riga dopo riga, l'analisi della grafologa. La premessa di metodo, osservando i colori dello schema, è che il giallo evidenzia i tagli della "t" acuminati, l'azzurro la presenza di lettere più grandi della norma in mezzo alle parole, il verde gli assi letterali oscillanti, il rosso le "t" o le "f" più alte della media, il viola una gestualità morbida e il marrone la tendenza ad arrotondare le "d" in un ovale. 

Già, ma le caratteristiche dello scritto a che tipo di personalità conducono? Questo è il punto che più interessa: «Dalla grafia non è possibile stabilire con ragionevole certezza sesso ed età, anche se propenderei per una persona adulta di sesso maschile - spiega la dottoressa Manzini - Quasi certo, invece, è che si tratti di un soggetto portatore di alti ideali, come si evince dai prolungamenti superiori elevati delle "t", idealità che entrano però in conflitto con una certa pragmaticità, evidenziata dalla pressione esercitata con la penna sul foglio e dalle dimensioni delle lettere della zona centrale, di media grandezza».

[…]  E dunque? A spanne, unendo gli indizi sul carattere tenace, il forte senso del sé e la buona oratoria, la prima ipotesi fatta da Pietro Orlandi, secondo il quale la lettera potrebbe essere stata scritta da qualcuno di casa dentro le Sacre mura, appare confermata. 

Un religioso stizzito, se non scandalizzato, dalle calunniose accuse di pedofilia al Papa Santo? Tutto lo lascia pensare, se non fosse per la scivolata su come è stato scritto il cognome di Giovanni Paolo II ("Woytila" invece che "Wojtyla"), ma è anche vero che si tratta di un errore comune, spesso frutto di un automatismo, e come tale meno indicativo di quanto possa sembrare. 

C'è poi l'altro piano di interpretazione della lettera: quello sui contenuti. La missiva potrebbe essere attribuibile - hanno fanno presente ambienti investigativi che si sono rivolti all'autore di questo articolo - a «persona ben informata all’interno della Santa Sede», e ciò sulla base di alcuni precisi «elementi». 

Meritano attenzione -  oltre al tono vagamente paternalistico, ulteriore indizio di età matura dello scrivente - soprattutto questi passaggi: «Hai complicato le cose...» (frase rivolta a Pietro Orlandi, da interpretare in tal senso: peccato, le tue dichiarazioni su Wojtyla penalizzano la ricerca della verità);  «I soliti documenti falsi...» (ove quel "soliti" potrebbe leggersi come un «ne abbiamo già viste tante, di denunce infondate...»); «Il Vaticano ti ha concesso un’inchiesta» (leggi «ti abbiamo concesso»); e infine «Il Vaticano è stato fin troppo paziente» (analogamente da decodificare come un «noi siamo stati fin troppo pazienti»).  […]

"Hai complicato le cose". Emanuela Orlandi, la lettera trovata dalla madre (“Caro Pietro sei bugiardo) e l’ipotesi Opus Dei. Redazione su Il Riformista il 28 Aprile 2023

Chi ha scritto la lettera su Emanuela Orlandi trovata nella cassetta della posta dalla madre Maria Pezzano e indirizzata al fratello Pietro? Se da una parte l’inchiesta vaticana prosegue spedita (e quella della commissione parlamentare d’inchiesta punta a far luce su eventuali azioni compiute da apparati dello stato e dalla magistratura e se vi siano stati omissioni o depistaggi), dall’altra c’è una lettera inviata alla famiglia della giovane (scomparsa 40 anni fa all’età di 15 anni) dove vengono condannate le “vergognose allusioni” di Pietro Orlandi su Papa Giovanni Paolo II (proclamato santo nel 2014).

Una lettera che il Corriere della Sera ha affidato a una grafologa giudiziaria (Monica Manzini) per avere una analisi scientifica della missiva. Un testo che inizia con “Caro Pietro, se un bugiardo e lo sai!” e si chiude con una firma di comodo (“Saluti, Luciano Dei”). Un messaggio scritto, secondo il quotidiano milanese,  da una persona volitiva, “di alti ideali”, con “una buona oratoria”.

“Dalla grafia non è possibile stabilire con ragionevole certezza sesso ed età, anche se propenderei per una persona adulta di sesso maschile” spiega la dottoressa Manzini che aggiunte: “Quasi certo, invece, è che si tratti di un soggetto portatore di alti ideali, come si evince dai prolungamenti superiori elevati delle “t”, idealità che entrano però in conflitto con una certa pragmaticità, evidenziata dalla pressione esercitata con la penna sul foglio e dalle dimensioni delle lettere della zona centrale, di media grandezza”.

Una missiva rivolta da una “persona ben informata all’interno della Santa Sede”, che utilizza un tono vagamente paternalistico: “Hai complicato le cose…” è una frase rivolta a Pietro Orlandi, e tutta da interpretare.

Sarebbero tre le ipotesi accreditate: la prima è relativa a una lettera che proviene da una personalità che ha un ruolo preciso nell’indagine di recente aperta dalla Santa Sede; la seconda riguarda invece l’autore del testo. A scriverla potrebbe essere stato un ecclesiastico sentito come testimone dal procuratore Diddi, con un’ulteriore possibilità: che quel “Dei”, oltre a un’indicazione sul mondo di provenienza, rappresenti un riferimento alquanto esplicito all’Opus Dei, organizzazione più volte chiamata in causa in snodi importanti della vicenda Orlandi nei quasi 40 anni trascorsi dal 22 giugno 1983; la terza è quella che ipotizza un prelato residente.

Estratto da tg24.sky.it il 28 aprile 2023.

"Una cretinata che hanno fatto". Papa Francesco, a bordo dell’aereo papale per il suo viaggio in Ungheria, non ha usato mezzi termini e non ha nascosto il suo disappunto per le accuse che sono state mosse nei giorni scorsi a Papa Giovanni Paolo II, nell’ambito delle dichiarazioni rilasciate da Pietro Orlandi in occasione della riapertura delle indagini per la scomparsa della sorella, Emanuela Orlandi.

“Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case”, aveva detto poco tempo fa Orlandi, aprendo a tutta una serie di polemiche dentro e fuori il Vaticano. 

Orlandi, durante una puntata della trasmissione Dimartedì, in onda su La 7, aveva fatto sentire un audio che aveva anche consegnato al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, dove a parlare sarebbe stato un uomo vicino alla banda della Magliana. 

[…] Pietro Orlandi ribadiva così in sostanza quanto già detto in precedenza: "Penso che una delle possibilità è che Emanuela possa aver magari anche subito un abuso, ma che quell'abuso sia stato organizzato.

È stata portata da qualcuno per creare l'oggetto del ricatto e siccome il Vaticano da quarant'anni fa di tutto per evitare che possa uscire la verità […]”

Caso Orlandi, papa Francesco torna sulle accuse a Wojtyla: «Una cretinata». Il comandante Giani: «Insinuazioni gravi». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023 

Nuovo intervento del pontefice sulle calunnie contro Giovanni Paolo II fatte circolare dal fratello di Emanuela Orlandi. Parla anche il capo della Gendarmeria 

«Una cretinata che hanno fatto...» Stavolta, rispetto al tono più severo che tutti hanno avuto modo di notare all'Angelus, papa Francesco si è limitato a un giudizio flash pronunciato durante il volo per Budapest, con la stampa al seguito, dando la sensazione di voler tagliare la corto. «Una cretinata» ha definito le insinuazioni su Giovanni Paolo II fatte circolare dal fratello di Emanuela Orlandi, rispondendo a una inviata polacca che lo aveva appena ringraziato per la difesa della memoria di papa Wojtyla. Si tratta del secondo intervento sullo stesso argomento in neanche due settimane: domenica 16 aprile, durante la recita dell'Angelus, Bergoglio, riferendosi sempre alla voci e all'audio-registrazione di un malavitoso (priva di qualsiasi riscontro) rilanciate in tv da Pietro Orlandi,  aveva scandito con solennità: «Certo di interpretare i sentimenti dei fedeli di tutto il mondo, rivolgo un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate».

Adesso dunque, liquidando l'accaduto con una sola parola, il papa argentino (pur senza minimizzare) sembra intenzionato ad archiviare la spiacevole faccenda come un incidente del passato. Nei giorni scorsi il fratello della ragazza scomparsa nel 1983, per difendersi da chi lo accusava della pesante allusione pronunciata («Wojtyla usciva con due monsignori la sera, e certo non per benedire le case»), aveva tentato di correggersi sostenendo che la sua non era stata un'accusa ma una constatazione, in quanto la stessa notizia (le uscite per Roma in "abiti civili" del Santo Padre) era già stata data in un suo libro dall'ex segretario personale di Giovanni Paolo II, Stanislao Dziwisz. Peccato che il contesto fosse radicalmente diverso. Lo stesso  cardinale polacco oggi 84enne, ai primi di aprile, all'indomani delle uscite televisive di Pietro che alludevano a condotte pedofile, aveva replicato con severità parlando di «affermazioni criminali» di Orlandi («spero che l'Italia, culla universale del diritto, saprà con il suo sistema giuridico vigilare sul diritto alla buona fama di chi oggi non c'è più») e sollecitato di fatto l'apertura di un'indagine (per diffamazione o altro reato) da parte di Piazzale Clodio.

Ma non basta. Anche Domenico Giani, il comandante della Gendarmeria tirato in ballo per una mai dimostrata "trattativa" con il magistrato Capaldo asseritamente avvenuta nel 2012 e avente ad oggetto (così Pietro ha dichiarato) «la restituzione del corpo di Emanuela», ha espresso tutto il suo rammarico (in un'intervista a Tv2000) per il fatto che si possa solo «dire, ipotizzare o comunque far pensare che un Papa come Giovanni Paolo II» avesse tali abitudini. «Stiamo parlando non solo di un santo ma di un gigante, di uno statista, di un pastore, di un profeta. Per me è stata una sofferenza enorme. Non è pensabile e direi che ho trovato grave anche solo insinuarlo», ha affermato Giani ai microfoni dell'emittente della Cei. Quanto alle presunte uscite la sera, il super-poliziotto operativo nelle Sacre mura ha detto: «Sinceramente mi viene da sorridere. È chiaro che il Vaticano è così piccolo che le uscite sono quelle, non è che ci sono le condotte sotterranee... Quindi mi viene da sorridere pensare che il Papa potesse uscire senza che lo sapessero almeno le persone che dovevano saperlo. Se il Papa esce, chi lo deve sapere lo sa». (fperonaci@rcs.it)

Caso Orlandi, lettera a Pietro trovata da sua madre nella buca delle lettere in Vaticano: «Bugie su Wojtyla, vergognati». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

Il testo, forse scritto da un monsignore, è stato postato su Fb dal fratello di Emanuela, che replica: «Stupidità». La firma: Luciano Dei ("di Dio")

Una lettera scritta a penna, con grafia adulta, forse di un monsignore. «Caro Pietro, sei un bugiardo!» Parole di critica esplicita rivolte al fratello di Emanuela Orlandi, per le voci su Karol Wojtyla da lui rilanciate nell'ultimo mese in alcune interviste, che hanno provocato sconcerto nelle alte sfere ecclesiastiche e anche la dura reazione di papa Francesco (all'Angelus del 16 aprile). La missiva che lo accusa di aver infangato il Papa Santo, curiosamente, è stata resa nota dallo stesso Pietro Orlandi, che l'ha postata nel suo gruppo Fb (oltre 20 mila iscritti). Si tratta di un solo foglio inserito in una busta bianca, recapitato non a lui ma a sua madre (qui il ritratto della signora), che abita tuttora all'interno del Vaticano: «Caro Pietro - dice il testo - sei un bugiardo e lo sai! Quelle vergognose allusioni nei riguardi di Papa Wojtyla non te le ha riferite nessuno, te le sei inventate te… Ma ti sei screditato da solo!» I due capoversi  successivi evidenziano la conoscenza degli ultimi sviluppi sul caso: «Ho sempre supportato la tua famiglia, ma seguire piste suggerite da mitomani e persone notoriamente inaffidabili ha complicato le cose. Il Vaticano è stato anche troppo paziente. Adesso ti ha concesso la nuova inchiesta, ma su quali basi si svolgerà? Con i soliti documenti falsi sulla lista dei cardinali pedofili che di notte vanno a cercare le ragazzine assieme al Papa? Ti dovresti solo vergognare. Dovrai rispondere a Dio delle tue cattiverie. Saluti». Firmato: Luciano Dei. 

Ora, è la firma un primo elemento di interesse. Dando per scontato che si tratti di un nome fasullo (la busta è priva di mittente), la scelta del cognome-genitivo "Dei" ("di Dio" in latino) potrebbe dimostrare che lo scritto è opera di un religioso, e che l'autore abbia inteso farlo sapere. Un monsignore? Un cardinale? Una delle tante eminenze che da sempre, quando la incontrano a spasso sotto casa, tra la farmacia e i giardini vaticani, salutano con rispetto mamma Maria? Lo stesso Pietro pare credere a questa ipotesi: «Oggi nella cassetta delle poste di mia madre - ha scritto il fratello della "ragazza con la fascetta" scomparsa nel 1983 - è stata lasciata a mano questa lettera, in una busta. La stupidità di chi l’ha lasciata e presumo scritta è che voleva far credere che fosse stata spedita da altre città, quindi fuori dal Vaticano, perché si è anche preoccupato di mettere un francobollo... Ma non c’è nessun timbro…»  

Pista interna, quindi: un prelato ha inteso difendere San Giovanni Paolo II e molto semplicemente, abitando pure lui dentro le sacre mura, per la consegna ha scelto il metodo più agevole (qui le foto private della famiglia Orlandi con Wojtyla) «Peccato - aggiunge Pietro - lascia solo il nome Luciano Dei (probabilmente falso) e nessun contatto... Questa è la conseguenza di chi ha voluto giocare a fare il giornalista», precisa un po' criptico, salvo poi concludere spazientito: «Mi si può offendere come vogliono, non mi interessa, ma leggere "Il Vaticano è stato anche troppo paziente” oppure “Dovrai rispondere a Dio delle tue cattiverie”… Beh». (fperonaci@rcs.it)

Usciva con due monsignori e...”. Pietro Orlandi e la frase choc su Wojtyla. Il fratello di Emanuela Orlandi ha raccontato in tv di un audio di cui sarebbe entrato in possesso: le dichiarazioni contenute su Papa Giovanni Paolo II sono scioccanti. Angela Leucci il 12 Aprile 2023 su Il Giornale.

Spunta il nome di Papa Giovanni Paolo II nel caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. In realtà è un nome che c’è sempre stato, anche se si è trattato di una nota marginale alla vicenda: Wojtyla era infatti pontefice nel giugno 1983 quando si persero le tracce della 15enne, e proprio il papa pronunciò un ormai celebre appello-preghiera durante l’Angelus. Emanuela era tra l’altro cittadina vaticana.

Il nome di Wojtyla viene fatto in un messaggio vocale del quale è entrato in possesso il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. A parlare nell’audio, che ieri è stato consegnato al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, sarebbe un uomo vicino alla Banda della Magliana, che avrebbe fatto riferimento a presunte abitudini sessuali del pontefice: l’uomo, di cui non viene fatto il nome, avrebbe aggiunto che sarebbe stato chiesto al boss Enrico De Pedis, alias ‘Renatino’, di eliminare le ragazze che sarebbero state portate in Vaticano.

Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case”, ha commentato Pietro Orlandi, ospite alla trasmissione DiMartedì. Orlandi ha dato seguito in realtà a un concetto già enunciato nella puntata del 4 aprile 2023: “Penso che una delle possibilità è che Emanuela possa aver magari anche subito un abuso, ma che quell’abuso sia stato organizzato. È stata portata da qualcuno per creare l'oggetto del ricatto e siccome il Vaticano da quarant’anni fa di tutto per evitare che possa uscire la verità... Certo, se nel '93 si parlava normalmente della pedofilia dei cardinali come se fosse una cosa normale e accettata, uno può pure pensare che la pedofilia sia anche più su di quei cardinali”.

Stando alle parole di Pietro Orlandi, ne avrebbe accennato anche a un vescovo, il quale avrebbe risposto: “Be’, probabilmente…”. Al che Orlandi avrebbe incalzato il prelato: “Forse non ha capito, se parlo di qualcuno più su dei cardinali mi riferisco a Wojtyla”. Al che il presule avrebbe chiosato: “Probabile”.

Emanuela Orlandi scomparve il 22 giugno 1983 dopo una lezione di canto corale. A gennaio 2023, il Vaticano ha aperto un’inchiesta, che pare sia stata fortemente voluta tra l’altro da Papa Francesco. Il prossimo giugno saranno 40 anni che Emanuela manca alla famiglia, la quale ha sempre cercato spasmodicamente la verità. E che oggi può sperare, oltre che nell’indagine vaticana anche nella costituenda Commissione d’inchiesta parlamentare.

Parla l’autore della registrazione che scuote il Vaticano. “Il nastro che ha riaperto il caso Orlandi contiene altri segreti”, intervista ad Alessandro Ambrosini. Nicola Biondo su il Riformista il 14 Aprile 2023

Ci sono opere letterarie che fondono il “basso e l’alto”, lo sterco con la santità. A questo genere di opere, solitamente mal tollerate dalle ricostruzioni ufficiali, va ascritto con certezza quello che nelle redazioni viene definito “il nastro”, ovvero le rivelazioni raccolte da Alessandro Ambrosini sull’ultimo incredibile movente della sparizione di Emanuela Orlandi e il possibile coinvolgimento di Karol Wojtyla che il Riformista ha pubblicato in esclusiva, grazie al blog Notte criminale, nel dicembre scorso.

Due giorni fa “il nastro” è entrato in Vaticano nelle mani di Pietro Orlandi ed è stato ascoltato dal promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi. Ma la portata delle rivelazioni, tutte da verificare, di Marcello Neroni, un uomo di punta del dispositivo criminale di Renato De Pedis, mente strategica della Banda della Magliana, non si fermano alla pista vaticana e raccontano una storia di confine, quella dei rapporti tra apparati dello Stato e alta criminalità. Ambrosini oggi spiega il backstage di quel “nastro” che può innescare una rivisitazione storica del papato di Wojtyla e che di certo sarà materia di indagine della commissione parlamentare sulla vicenda Orlandi-Gregori.

Quando hai incontrato Neroni immaginavi che ti avrebbe parlato di Wojtyla e della scomparsa di Emanuela Orlandi?

Non era esattamente quello l’argomento principale dell’incontro. Mi aspettavo di parlare di Emanuela Orlandi, sicuramente. È, ed è stato, un link importante sia per la storia d’Italia, sia per la Banda della Magliana stessa. Non mi aspettavo assolutamente di sentire accusare il Papa “del muro di Berlino”, in modo così forte e soprattutto dettagliato nei passaggi antecedenti il rapimento di Emanuela.

L’intervista è del 2009, perché sei andato da lui? E perché solo nel 2022 hai pubblicato alcuni stralci di questa lunga conversazione?

In realtà, con due collaboratori eravamo andati per intervistarlo sulla Banda della Magliana, un’inchiesta che stavo facendo in relazione ai rapporti tra la criminalità romana e il potere economico-politico nella Capitale.

Pietro Orlandi ha fatto ascoltare gli audio che riguardano la sorella Emanuela in Vaticano: sembra impensabile, una trama da serie tv. Non hai pensato che Neroni potesse essere un millantatore?

Certo! L’ho subito pensato. Riascoltando l’audio nella sua interezza (oltre tre ore), capisci che non può essere frutto dell’ego criminale e inizi a cercare riscontri. Poi l’ho fatto sentire a Orlandi che ha impegnato una vita alla ricerca della verità. Non era facile mettere nello stesso articolo l’argomento degli abusi sessuali e la figura di un Papa che “doveva” diventare Santo.

Secondo l’inchiesta del giudice Otello Lupacchini sulla Magliana Neroni ha goduto di protezioni di uomini dello stato. Lo stesso Neroni ne parla nel vostro colloquio, giusto?

Esattamente. I rapporti di Neroni con uomini dello Stato sono stati profondi e di altissimo livello. Nell’audio lui parla di personaggi al centro delle vicende più intricate e oscure degli anni ‘90 e 2000. E non lo fa mai in modo approssimativo, ma con dovizia di particolari.

Neroni ammette di aver parlato di quanto era a conoscenza del rapimento della Orlandi e del movente ad apparati dello stato?

Lo dice chiaramente. “Questa è una verità che non interessa più a nessuno”.

È possibile che Neroni abbia parlato con te per mandare un messaggio e a chi?

Lui sapeva bene di trovarsi davanti a giornalisti ma anche che era stato un uomo delle istituzioni a portarci da lui. Lui non pensava di parlare con il team del mio blog, Notte Criminale, ma che avessimo un ruolo diverso. Che fossimo stati mandati da qualche magistrato o da qualche apparato dei servizi o delle forze dell’ordine. Si capisce perché alle nostre banali domande, lui spaziò su argomenti diversi, con nomi di spessore che al tempo erano sconosciuti ai più. O era troppo pericoloso anche solo nominarli. E non parlo di criminali riconosciuti. Alla fi ne, il messaggio era chiaro: conosco pezzi di storia indicibili, non pestate i miei piedi perché ho le amicizie giuste per creare problemi molto seri. E, ripeto, non parlava solo di malavita.

Il parlamento ha dato il via libera ad una commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa della Orlandi e di Mirella Gregori oltreché dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. Tu sei disposto a fornire la tua intervista integralmente e ad essere audito?

Certo. Non ho nessun problema a essere audito, sia dalla Commissione parlamentare, sia dal Vaticano, e mettere a disposizione delle indagini l’audio integrale e completo. La vera domanda è: riusciranno ad ascoltarlo senza dover aprire altri fascicoli d’inchiesta?

Si spieghi meglio.

Il racconto di Neroni cancella i confini del bene e del male, riscrive i rapporti tra apparati dello Stato e la grande criminalità. Il personaggio è minore ma fondamentale. Lui è la fonte che annuncia un attentato che finisce in un report del Ministero dell’Interno, attentato che aveva come obiettivo il primo grande pentito della Magliana Maurizio Abbatino.

Quando e dove sarebbe dovuto avvenire questo attentato?

Alla scuola di polizia di Campobasso nel corso di un interrogatorio con tre giudici che in quel momento indagavano su tre episodi differenti: erano Otello Lupacchini, Guido Salvini e Leonardo Grassi. L’allarme fu lanciato a cavallo tra le stragi di Capaci e Via D’Amelio.

Mi faccia capire. L’uomo che dice di conoscere il movente del rapimento della Orlandi era una fonte delle forze dell’ordine?

Nell’intervista Neroni parla a lungo e diffusamente di Gianni De Gennaro, per esempio. Su momenti precisi e con dettagli mai casuali. Nicola Biondo

Estratto da ansa.it il 14 aprile 2023.

Prove? Nessuna. Indizi? Men che meno. Testimonianze almeno di seconda o terza mano? Neanche l'ombra. Solo anonime accuse infamanti". Così l'Osservatore Romano, in un editoriale, definisce le "presunte rivelazioni su Papa Wojtyla e il caso Orlandi".

 "Una follia - scrive il quotidiano della Santa Sede -. E non lo diciamo perché Karol Wojtyla è santo o perché è stato papa. Anche se questo massacro mediatico intristisce e sgomenta ferendo il cuore di milioni di credenti e non credenti, la diffamazione va denunciata perché è indegno di un Paese civile trattare in questo modo qualunque persona, viva o morta, che sia chierico o laico, papa, metalmeccanico o giovane disoccupato".

L'articolo dell'Osservatore Romano, a firma del direttore editoriale dei media vaticani Andrea Tornielli, ricorda le "parole che Pietro Orlandi ha accompagnato all'audio attribuito ad un sedicente membro della Banda della Magliana il quale asserisce - anche lui senza prove, indizi, testimonianze, riscontri o circostanze - che Giovanni Paolo II 'pure insieme se le portava in Vaticano quelle', intendendo Emanuela e altre ragazze: per porre fine a questa 'schifezza' il segretario di Stato di allora si sarebbe rivolto alla criminalità organizzata per risolvere il problema".

"Pensate che cosa sarebbe accaduto se qualcuno fosse andato in televisione ad affermare, sulla base di un 'sentito dire' proveniente da una fonte anonima e senza lo straccio di un riscontro o testimonianza anche soltanto di terza mano, che vostro padre o vostro nonno di notte usciva di casa e insieme a qualche 'compagno di merende' andava in giro a molestare ragazze minorenni - sottolinea il giornale vaticano -.

E immaginate che cosa sarebbe successo se il vostro parente, ormai defunto, fosse universalmente conosciuto e da tutti stimato, a motivo di qualche importante ruolo ricoperto. Non avremmo forse letto commenti ed editoriali indignati per il modo inqualificabile con cui è stata lesa la buona fama di questo grande uomo, amato da tanti?".

 […] Secondo l'Osservatore Romano, "è giusto che tutti rispondano degli eventuali reati, se ne hanno commessi, senza impunità alcuna o privilegi. È sacrosanto che si indaghi a 360 gradi per cercare la verità sulla scomparsa di Emanuela. Ma nessuno merita di essere diffamato in questo modo, senza neanche uno straccio di indizio, sulla base dei 'si dice' di qualche sconosciuto personaggio del sottobosco criminale o di qualche squallido anonimo commento propalato in diretta Tv". […]

Dagospia il 14 aprile 2023. DICHIARAZIONE DEL CARDINALE STANISLAO DZIWISZ IN MERITO AD ALCUNE AFFERMAZIONE DEL SIGNOR PIETRO ORLANDI

Negli ultimi giorni alcune avventatissime affermazioni – ma sarebbe più esatto subito dire ignobili insinuazioni – proferite dal signor Pietro Orlandi sul conto del Pontefice San Giovanni Paolo II, in connessione all’amara e penosa vicenda della sorella Emanuela, hanno trovato eco sui social e in taluni media anzitutto italiani.

 È appena il caso di dire che suddette insinuazioni che si vorrebbero all’origine scaturite da inafferrabili ambienti della malavita romana, a cui viene ora assegnata una parvenza di pseudo-presentabilità, sono in realtà accuse farneticanti, false dall’inizio alla fine, irrealistiche, risibili al limite della comicità se non fossero tragiche, anzi esse stesse criminali. Un crimine gigantesco infatti è ciò che è stato fatto a Emanuela e alla sua famiglia, ma criminale è lucrare su di esso con farneticazioni incontrollabili, volte a screditare preventivamente persone e ambienti fino a prova contraria degni della stima universale.

Va da sé che il dolore incomprimibile di una famiglia che da 40 anni non ha notizie su una propria figlia meriti tutto il rispetto, tutta la premura, tutta la vicinanza. Così come non ci si può, in coscienza, non augurare che la verità su questa angosciante vicenda finalmente emerga dal gorgo dei depistaggi, delle mitomanie e degli sciacallaggi.

 Come segretario particolare del Papa Giovanni Paolo II posso testimoniare, senza il timore di smentite, che fin dal primo momento il Santo Padre si è fatto carico della vicenda, ha agito e fatto agire perché essa avesse un felice esito, mai ha incoraggiato azioni di qualsiasi occultamento, sempre ha manifestato affetto, prossimità, aiuto nei modi più diversi alla famiglia di Emanuela.

A questi atteggiamenti io continuo ad attenermi, auspicando correttezza da parte di tutti gli attori e sperando che l’Italia, culla universale del diritto, saprà con il suo sistema giuridico vigilare sul diritto alla buona fama di Chi oggi non c’è più, ma che dall’alto veglia e intercede.

 Dagospia il 14 aprile 2023. DAL PROFILO FACEBOOK DI FABRIZIO PERONACI

Fango su un Papa. Non è questo il modo di cercare la verità. Quando ho letto questa dichiarazione, ampiamente riportata oggi da organi di stampa, ho stentato a credere che Pietro Orlandi potesse averla pronunciata: “Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case…” Come sapete, ho condiviso un lungo percorso con il fratello di Emanuela, con solidarietà e affetto.

Ho scritto il libro da lui co-firmato, “Mia sorella Emanuela“, animato da passione civile e volontà di contribuire all’accertamento di quanto accaduto, per dare senso e vigore alla mia professione, oltre che per arricchirmi dal punto di vista umano. Da un certo momento in poi, però, sono stato costretto a prendere le distanze da Pietro, giacché mi sono accorto che la sua esasperata ricerca di visibilità lo portava ad accreditare qualsiasi pista, circostanza da lui ammessa con un misto di ingenuità e candore, il che è a mio avviso un grande errore e presenta una seria controindicazione: se si dà credito a tutte le piste di fatto, senza volerlo, si contribuisce a confondere e a depistare. 

È solo seguendo con costanza e capacità analitica la traccia più credibile e fondata su riscontri che, mettendo insieme via via i successivi approfondimenti, si possono a mio avviso compiere passi avanti decisivi. E’ questo il metodo da me seguito da anni, sulla base degli elementi che conoscete. Ma nelle ultime ore è successo qualcosa di piu: Pietro Orlandi, nella sua convulsa e autoreferenziale ricerca della verità su sua sorella, ha scelto la linea diretta dell’insulto non provato al massimo rappresentante della chiesa cattolica.

 In una trasmissione televisiva è giunto a gettare fango su Giovanni Paolo II, accusandolo esplicitamente di essere stato pedofilo. No, questo è un limite che non si sarebbe dovuto scavalcare. Cercare un titolo a effetto facendo strame di valori e principi insieme morali e giuridici non lo ritengo accettabile. Il buon senso, più ancora che il garantismo, dovrebbe impedire di parlare a vanvera, gettando discredito senza prove su una figura che, per quanto controversa, ha segnato la storia di fine Novecento ed è amata da milioni di persone.

Caso Emanuela Orlandi a "Quarto Grado", il fratello Pietro e l'audio su Papa Wojtyla: "Mie parole strumentalizzate". Storia di Redazione Tgcom24 il 14 aprile 2023.

In collegamento con  "Quarto Grado" il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro, chiarisce la sua posizione dopo le polemiche per le "parole forti" su Papa Wojtyla: "Ho parlato di questo argomento anche col promotore di giustizia Diddi, le mie parole sono state strumentalizzate per fare titoli di giornali", dice Pietro Orlandi: "Non ho mai accusato Giovanni Paolo II di pedofilia, sono arrivate palle di fango". In merito all' audio di una conversazione intercettata da un affiliato della Banda della Magliana, aggiunge: "Ho ritenuto opportuno riportare l'audio senza i famosi bip al promotore di giustizia, ho chiesto di ascoltarlo solo al fine di poter approfondire meglio". 

Le frasi pronunciate nel corso del programma televisivo "Di Martedì" avevano suscitato la dura reazione dell'arcivescovo di Cracovia Stanislao Dziwisz, storico segretario di Giovanni Paolo II. Secondo il cardinale Dziwisz Pietro Orlandi "ha insinuato che Wojtyla la sera uscisse in incognito dal Vaticano con altri preti e non andasse di certo per benedire delle case".

L'11 aprile scorso, per la prima volta, Pietro Orlandi insieme all'avvocato Laura Sgrò, ha incontrato in Vaticano il promotore di giustizia Alessandro Diddi, che nei mesi scorsi ha riaperto l'inchiesta sulla scomparsa, il 22 giugno del 1983, della quindicenne figlia di un commesso della Prefettura della Casa pontificia. "Dal Vaticano registriamo positivamente la volontà di approfondire tutte le piste a partire dalla nostra memoria depositata, bisogna accantonare polemiche", commenta in collegamento a "Quarto Grado" la legale della famiglia Orlandi.

Caso Orlandi, “Pietro e l'avvocato si rifiutano di fare i nomi”. Dilaga la polemica su Wojtyla. Il Tempo il 15 Aprile 2023

Incontro-lampo dell’avvocato Laura Sgrò, legale scelto da Pietro Orlandi per far luce sul caso della sorella, con il Promotore di Giustizia del Vaticano Alessandro Diddi. «La legale della famiglia Orlandi si è recata in Vaticano dov’era stata convocata in qualità di testimone per riferire in merito alle fonti delle informazioni riguardanti Giovanni Paolo II e più in generale sul caso della ragazza scomparsa. L’avvocato - sottolineano i media vaticani - ha scelto di opporre il segreto professionale e dunque si è rifiutata di riferire da chi lei e Pietro Orlandi abbiano raccolto le voci sulle presunte abitudini di Papa Wojtyla che, secondo quanto raccontato dal fratello di Emanuela durante la trasmissione ‘diMartedì’, ‘la sera se ne usciva in con due suoi amici monsignori polacchi’ e ‘non andava certo a benedire le case’». 

«Parole che Pietro Orlandi ha pronunciato in diretta su La7 la sera dell’11 aprile, dopo essere stato lungamente ascoltato dal Promotore di Giustizia, lasciando così intendere - scrive Vatican news - di voler in qualche modo asseverare il contenuto di un audio nel quale un membro della Banda della Magliana faceva pesanti allusioni sul Pontefice polacco». «Come ha raccontato lo stesso Pietro Orlandi in trasmissione, durante la sua lunga testimonianza, resa l’11 aprile, aveva fatto presente al magistrato inquirente le accuse contenute nell’audio dell’esponente della Banda della Magliana e anche le voci che circolavano in Vaticano sulle presunte abitudini di Giovanni Paolo II. Richiesto di fornire informazioni che consentissero di portare avanti l’indagine riferendo da chi avesse appreso queste informazioni Orlandi non ha indicato nomi. Ci si aspettava dunque che questi li potesse fornire l’avvocato Sgrò, anch’essa convocata sulla base delle sue ripetute richieste al termine dell’audizione di Pietro Orlandi». «Oggi però - osserva Vatican news - il legale, inaspettatamente e sorprendentemente, ha preferito opporre il segreto professionale decidendo così di non collaborare con le indagini dopo che più volte e pubblicamente, negli scorsi mesi, aveva chiesto di poter essere ascoltata». Lo scontro tra Orlandi e il Vaticano ha raggiunto un nuovo apice in tutta la vicenda riguardante Emanuela Orlandi.

Caso Orlandi, sulle accuse a Wojtyla l’avvocata Laura Sgrò convocata in Vaticano si rifiuta di fare nomi. Ester Palma su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

La legale era stata convocata dal promotore di Giustizia vaticano  Alessandro Diddi, come aveva chiesto più volte: ma sabato mattina ha opposto il segreto professionale

Sulle accuse a papa Wojtyla, nell'ambito dell'inchiesta aperta in Vaticano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, il fratello Pietro e l’avvocato Laura Sgrò si rifiutano di indicare le loro fonti al Promotore di Giustizia. E' accaduto nel corso del brevissimo incontro di sabato mattina in Vaticano fra la legale della famiglia Orlandi, convocata in qualità di testimone per riferire sulla provenienza delle informazioni su Giovanni Paolo II e più in generale sul caso della ragazza scomparsa, e il Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, nel corso del quale l'avvocato Sgrò ha scelto di opporre il segreto professionale alla richiesta di spiegare da chi aveva ricevuto le informazioni sulle presunte attività illecite di Giovanni Paolo II. 

«La legale chiedeva da mesi quest'incontro»

Lo riporta Vatican News, citando una dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni: «Il Promotore di giustizia Diddi, insieme al professor Gianluca Perone, Promotore applicato, ha ricevuto l’avvocato Laura Sgrò, come da lei ripetutamente e pubblicamente richiesto, anche per fornire quegli elementi, relativi alla provenienza di alcune informazioni in suo possesso, attesi dopo le dichiarazioni fornite da Pietro Orlandi. L’avvocato Sgro si è avvalsa del segreto professionale». 

Laura Sgrò: «False affermazioni, che sia fatta piena luce»

Dichiarazioni contestate dall’avvocato Sgrò che, in una lettera ai vertici della Comunicazione in Vaticano, sottolinea come tale «affermazione non corrisponda al vero», chiedendo che sia «fatta piena luce» sulla questione: «Il mio assistito , signor Pietro Orlandi, è stato ascoltato per ben otto ore l’11 aprile u.s. dal promotore di Giustizia, prof. Alessandro Diddi, al quale ha presentato una corposa memoria corredata da un elenco di ventotto persone, chiedendo motivatamente che siano presto ascoltate. Il signor Pietro inoltre si è reso pienamente disponibile a fornire ogni altro chiarimento a richiesta dello stesso promotore di Giustizia». L’avvocato Sgrò specifica poi in merito ad una «mia personale audizione come persona informata dei fatti» che «essa è evidentemente incompatibile con la mia posizione di avvocato difensore della famiglia Orlandi». Ribadendo, infine, nel rigettare le notizie circolate, che «il segreto professionale è baluardo della verità stessa e attaccarlo significa impedire ad un avvocato di poter apportare il proprio contributo alla verità».

L'audio dell'esponente della banda della Magliana

Spiega ancora Vatican News: «Il Promotore di Giustizia nei giorni scorsi aveva assicurato di voler andare fino in fondo e di indagare ogni pista possibile per cercare la verità su Emanuela, avendo ricevuto per questo un mandato dal Papa e dal segretario di Stato. Come ha raccontato lo stesso Pietro Orlandi in trasmissione, durante la sua lunga testimonianza resa l’11 aprile, aveva fatto presente al magistrato inquirente le accuse contenute nell’audio dell’esponente della Banda della Magliana e anche sulle voci che a suo dire circolavano in Vaticano sulle presunte abitudini di Giovanni Paolo II. Richiesto di fornire informazioni che consentissero di portare avanti l’indagine riferendo da chi avesse appreso queste informazioni Orlandi non ha indicato nomi. Ci aspettava dunque che questi li potesse fornire l’avvocato Sgrò, anch’essa convocata sulla base delle sue ripetute richieste al termine dell’audizione di Pietro Orlandi. Oggi però il legale, inaspettatamente e sorprendentemente, ha preferito opporre il segreto professionale decidendo così di non collaborare con le indagini dopo che più volte e pubblicamente, negli scorsi mesi, aveva chiesto di poter essere ascoltata. Ci si attendeva che lo facesse l’avvocato, che nei mesi scorsi aveva più volte lamentato di non essere stata ancora convocata: ma ha sorprendentemente scelto di opporre il segreto professionale». 

L'agenzia di stampa vaticana cita anche una recente (di gennaio) intervista di Laura Sgrò a Fanpage.it: «Mi aspetto un incontro tempestivo con Diddi, vorrei consegnargli personalmente le chat e altri documenti: non mi aspetto una sua risposta immediata, ma confido che mi convochi quanto prima: perché se io dico che ho delle prove, tu hai il dovere di ascoltarmi». E conclude Vatican News:  Ora che il contatto c’è stato e a convocazione pure, accompagnata alla piena disponibilità di ascoltare, valutare e indagare, la risposta da parte dell’avvocato è stata il silenzio».

Caso Orlandi, il Papa tuona. Pietro: "Questo casino che sta succedendo...". Il Tempo il 16 aprile 2023

Dopo le recenti polemiche sulla vicenda di Emanuela Orlandi, Papa Francesco difende Karol Wojtyla rivolgendo "un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate". Parole dure, che arrivano in seguito alle dichiarazioni di Pietro Orlandi, il fratello della giovane residente nella Città del Vaticano scomparsa il 22 giugno 1983, che in una trasmissione televisiva ha detto che Wojtyla "la sera usciva con due suoi amici monsignori polacchi, e non andava certo a benedire le case".

"Cosa ho detto su Papa Wojtyla". Pietro Orlandi e le dichiarazioni a Quarto Grado

Orlandi ha avuto 8 ore di colloquio con il Promotore di giustizia del Vaticano, Alessandro Diddi, riguardo un presunto audio di un componente della banda della Magliana che faceva allusioni sul defunto pontefice. Audio finito nelle mani di Diddi e la cui provenienza ha scatenato clamore mediatico dopo la decisione dell'avvocata di Pietro Orlandi di opporre il segreto professionale. Orlandi ha sottolineato di non voler accusare Giovanni Paolo II e a LaPresse ribadisce, dopo le parole di Bergoglio, di non aver detto in alcun modo che Wojtyla "era un pedofilo".

"Diddi mi ha detto che Parolin e il Papa hanno detto di fare indagini senza fare sconti a nessuno. Io ho solo consegnato tutto il materiale che avevo, compreso quell'audio. Sono loro che devono verificare se quell'audio è vero o no. Delle presunte uscite serali del Papa molte persone me ne hanno parlato, ma la persona principale che me lo ha riferito è morta", spiega Orlandi, "Diddi mi ha detto che avrebbe approfondito sul fatto dell'audio e quell'audio è uscito il 9 dicembre, questo casino che sta succedendo è tutto un pretesto". 

“Su Wojtyla illazioni offensive e infondate”. Il caso Orlandi infiamma il Papa come non mai

La tensione tra il Vaticano e la famiglia Orlandi si alza sempre di più. La legale Laura Sgrò, dopo un articolo apparso sui media vaticani che riferiva che lei e Pietro si erano rifiutati di fare i nomi e quindi di collaborare alle indagini, ha smentito categoricamente. "Io sono tenuta al segreto professionale, non ho mai chiesto di essere sentita, né tanto meno potrei, essendo tenuta al segreto delle fonti per svolgere al meglio la mia attività professionale a favore della famiglia Orlandi", ha detto a LaPresse. Atteggiamento che Diddi ha definito "irritante": "Il segreto professionale è un problema di coscienza, non è un obbligo professionale. Dopo che sono settimane che ci insultano perché non li avevamo ricevuti, adesso che siamo al cuore Pietro Orlandi e il suo legale si tirano indietro". Uno stop che potrebbe ritardare la ricerca della verità, attesa da 40 anni.

Le allusioni senza prove in tv e su Facebook: ecco perché il Papa è intervenuto duramente sul caso Orlandi. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023.

Pietro Orlandi ha riferito di aver saputo da una fonte attendibile che la pedofilia negli anni Ottanta, ai tempi del sequestro di sua sorella, era una prassi consolidata. «Ma chi me l'ha rivelato non è più tra noi» 

Pietro Orlandi con Papa Wojtyla: fu lo stesso Giovanni Paolo II a farlo assumere allo Ior 

Prima le accuse in tv al pontefice più amato, San Giovanni Paolo II, un paio di settimane fa. «La pedofilia? Più su, al massimo livello… Me ne ha parlato un monsignore…». Un’allusione pesantissima, non provata, mentre l’avvocata a fianco a lui, sulla poltroncina televisiva, ammiccava al (presunto) prelato pentito: «Qualcuno che non scappa…». Poi, una settimana dopo, la seconda mossa: convocato in Vaticano martedì 11 aprile dal procuratore Alessandro Diddi, Pietro Orlandi resta sotto interrogatorio per 8 ore e all’uscita, dopo aver presentato una memoria con una lista di 28 testimoni, si dice sereno: «Ho fatto i nomi di chi andrebbe sentito, compresi alcuni cardinali, e ho percepito la volontà di andare avanti». Infine, a stretto giro, nuova intervista, ancora a Di Martedì, su La7. E stavolta il richiamo della telecamera produce disastri: «Mi dicono che il Papa usciva la sera con due monsignori, certo non per benedire le case…».

È tutto qui, in un crescendo che ha provocato sconcerto inaudito all’interno delle Sacre mura, il motivo che ha indotto papa Francesco a occuparsi in prima persona, alla recita dell’Angelus, delle accuse piovute addosso al suo predecessore più amato. Parole nette, pronunciate con voce ferma e il volto tirato: «Rivolgo un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate». Una difesa solenne, in mondovisione, da leggere non solo come un segnale di grande irritazione a Palazzo Apostolico per «il fango» fatto circolare da giorni «senza uno straccio di prova», ma anche come un monito: ora basta, altre calunnie non saranno tollerate. Nel giro di un paio di settimane, insomma, il caso Orlandi (qui tutto quel che sappiamo, per certo, sulla vicenda) ha cambiato natura: dalla ricerca della verità sul triste caso di Emanuela, la figlia del messo pontificio scomparsa il 22 giugno 1983 all’uscita della scuola di musica e finita al centro di un intrigo senza precedenti, a una crociata condotta dal fratello Pietro, che a più riprese ha fatto presente di aver saputo «da fonte attendibile» che la pedofilia in Vaticano negli anni Ottanta, al tempo del sequestro di sua sorella, era prassi, «un vizietto considerato non punibile», al punto che avrebbe coinvolto anche «chi sta più su, ma sopra sopra, e più in alto di tutti c’è una sola persona…».

Inevitabile l’esplosione dello scandalo, amplificato dalla consegna da parte di Orlandi a La7 di un nastro, registrato una quindicina d’anni fa, con la voce di un malavitoso romano che si diceva sicuro, «per sentito dire», di non meglio precisati festini organizzati ai livelli più alti, papa polacco compreso. Fango nel ventilatore, null’altro. Ma che una figura nota come il fratello della «ragazza con la fascetta» arrivasse ad accreditare tour sessuali notturni del pontefice «gigante della storia» alla fine è stata considerata dai vertici ecclesiastici come la classica goccia di troppo.

Il primo a intervenire con vigore è stato, venerdì scorso, il cardinale polacco Stanislao Dziwisz, che di Wojtyla fu segretario personale: «Avventatissime affermazioni, ignobili insinuazioni, accuse farneticanti». Subito dopo, l’Osservatore romano: «Una follia, un massacro mediatico. Nessuno merita di essere diffamato in questo modo. Prove? Nessuna. Indizi? Men che meno». E ancora, intervistato da Famiglia cristiana, il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio di papa Francesco: «Preferirei ignorare tutto questo fango che si commenta da sé. San Giovanni Paolo II si difende benissimo per tutto il bene che ha fatto alla Chiesa e al mondo». Le premesse per l’intervento di Bergoglio, quindi, si sono create nelle ultime 48-72 ore, per effetto delle esternazioni senza freni della coppia Orlandi-Sgrò. E a poco sono servite, in presenza delle registrazioni televisive (e delle accuse scritte nella pagina Fb del fratello di Emanuela), rettifiche, puntualizzazioni, retromarce. 

Quali saranno le conseguenze? L’istituzione della commissione parlamentare bicamerale d’inchiesta sul caso Orlandi, per ora votata solo alla Camera, subirà rallentamenti? Di certo, fanno presente da Oltretevere, l’inchiesta vaticana aperta lo scorso gennaio dopo quasi 40 anni, «un segnale di grande trasparenza voluto personalmente da Francesco», andrà avanti sulla base delle testimonianze già raccolte, ma non si può escludere che «la macchina del fango attivata contro il papa Santo» possa provocare «strascichi». Il promotore di giustizia, Alessandro Diddi, viene descritto da chi lo conosce come «molto irritato»: di certo il suo animus è cambiato rispetto alla disponibilità con cui martedì scorso ha fatto  accomodare nel suo ufficio il fratello di Emanuela e la sua loquace avvocata. A esasperare gli animi, d’altra parte, è stata proprio l’ultima mossa di Laura Sgrò, che nella giornata di ieri, sabato 15 aprile, convocata d’urgenza dal magistrato vaticano intenzionato a chiarire chi avesse messo in giro la voce di Wojtyla «in libera uscita» serale, alla richiesta di rivelare la fonte ha opposto il segreto professionale. La notizia è finita in tempo reale, come ovvio, su tutti i siti d’informazione, e Pietro Orlandi è saltato su tuonando: «Ma sono impazziti, cos’è questo gioco sporco? Chi si rifiuta di fare i nomi? Ma se gli abbiamo dato una lunga lista!». Un bluff, per la verità: l’unico nome che interessava a Diddi, quello del «propalatore» di fango su Giovanni Paolo II, né lui né la sua avvocata l’hanno fatto. L'elenco dei 28 testimoni da sentire consegnata a Diddi ha infatti un valore meramente indicativo: si tratta del punto di vista del  fratello di Emanuela su come approfondire le varie piste (internazionale, economica, sessuale), che lui considera sullo stesso livello, spostando ciclicamente l'attenzione dall'una all'altra (qui, la recente ipotesi di un passaggio dell'ostaggio in Sardegna, gestito da agenti Gladio). 

In uno scenario tanto teso e con tanta pressione addosso, così, Pietro Orlandi domenica mattina – poche ore prima della reprimenda di Bergoglio all’Angelus - ha tentato l'ultima carta: di mettere una toppa allo scandalo (senza prove) da lui stesso innescato, rivelando qualcosa in più, vale a dire che in realtà la «talpa» è morta. «Mezzo Vaticano diceva delle passeggiate fuori le mura del Papa – ha scritto su Fb - ma chi l’ha detto direttamente a me non è più tra noi: era una bravissima persona di totale attendibilità». Laico, religioso? Mistero. Il fratello furente (per ora) il nominativo lo tiene per sé e, facendo proprio un vizio diffuso nell’Italia di chi lancia il sasso e ritrae la mano, sceglie di prendersela con i mass media: «Mamma mia, mi sto rendendo conto di quanta stampa sia ancora asservita al Vaticano…» (fperonaci@rcs.it)

Pietro Orlandi e le accuse oscene su Papa Wojtyla: "Chi le ha pronunciate" Libero Quotidiano il 16 aprile 2023

"Illazioni offensive e infondate". Papa Francesco attacca Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela Orlandi scomparsa nel giugno 1983 dalla Città del Vaticano. L'uomo aveva adombrato un possibile coinvolgimento di Papa Giovanni Paolo II nel caso, suggerendo addirittura delle "notti brave" di Wojtyla a Roma. Accuse di condotte immorali che hanno fatto infuriare Bergoglio, a cui risponde lo stesso Orlandi: "E' giusto che Papa Francesco abbia difeso Wojtyla dalle accuse fatte attraverso un audio reso pubblico lo scorso 9 dicembre. Per questo motivo ho deciso di depositare quell'audio al promotore di giustizia Alessandro Diddi, lo scorso 11 aprile affinché convocasse Marcello Neroni, autore di queste accuse", scrive sul suo profilo Facebook. 

Ecco, dunque, il nome di chi ha pronunciato nella registrazione le accuse contro Giovanni Paolo II: Neroni, oggi 82enne, è ritenuto vicino alla banda della Magliana e legato al boss Renatino de Pedis, come pure ad Aldo De Benedittis, conosciuto negli anni Novanta come il 're dei videopoker'. "Certamente non può spettare a me dire se questo personaggio abbia detto il vero oppure no - prosegue il fratello di Emanuela Orlandi -. Diddi ha accolto questa mia richiesta, insieme alle altre, promettendo che avrebbe scavato a fondo ogni questione, compresa questa".

"Io, tanto meno l'avvocato Sgrò - aggiunge -, abbiamo mai accusato Wojtyla di alcunché come qualcuno vorrebbe far credere. L'unico nostro intento è quello di dare giustizia a mia sorella Emanuela e arrivare alla verità qualunque essa sia". Anche l'avvocato Sgrò si dice disponibile a un nuovo colloquio col magistrato. "Io ieri sono stata chiamata in Vaticano per Emanuela, non per Giovanni Paolo II. Nessuno mi chiesto di Giovanni Paolo II. Non è mai stato nominato dal Promotore durante il nostro brevissimo colloquio. Non risulta nel verbale, non è mai stato oggetto di conversazione. Quando sono uscita ho scoperto che sarei stata reticente su fatti che lo riguardano. Ma come si fa a essere reticenti su qualcosa di cui non si è parlato?". "Non ho mai messo in discussione la santità di Giovanni Paolo II, come legale di Pietro Orlandi abbiamo messo a disposizione degli inquirenti quello che sapevamo - conclude -. Nel rispetto della mia posizione di avvocato, sono disponibile a un colloquio. Abbiamo chiesto chiarezza". 

Nel pomeriggio, è intervenuto sul caso anche Monsignor Georg Ganswein, ospite di Verissimo su Canale 5: "Chiesi a Papa Benedetto di fare un promemoria sul caso di Emanuela Orlandi e mi fu consegnato un appunto in cui non c'era nulla di nuovo - ha spiegato -. In seguito il fratello di Emanuela, Pietro, che anche io avevo incontrato, disse in un'intervista che io ero in possesso di un dossier, ma non è alcun dossier, è un appunto, che diedi a Ratzinger. Su questa vicenda non credo possa emergere qualcosa di nuovo. Ora è stata aperta un'inchiesta in Vaticano e speriamo arrivi a buon fine e si trovi una risposta definitiva". 

Si dice showGiletti, Wojtyla, Emanuela Orlandi e gli pseudo scoop del circo mediatico. Cataldo Intrieri su L'Inchiesta il 17 Aprile 2023.

Scandali, o presunti tali, e casi di cronaca che si intrecciano a cominciare dalla vicenda del cardinale Becciu. La ricostruzione di uno dei legali del processo

Forse non è un caso che nella stessa settimana, e ad opera di due trasmissioni sulla stessa emittente, siano esplosi due pseudo-scoop che coinvolgono due personaggi, tra loro molto diversi, ma simbolici e popolari, come Giovanni Paolo II, l’ultimo Papa santo, e Silvio Berlusconi, il fondatore della destra italiana moderna.

Nessuno dei due è in grado di smentire la violenta campagna diffamatoria di cui è vittima, le accuse non hanno riscontro alcuno, i personaggi che le muovono si affidano ai «si dice» e a confidenze non verificabili, sono rilanciate da una televisione in crisi di ascolti e che dà voce a conduttori spregiudicati e populisti, capaci di mischiare fantasia e realtà con sapienza, senza distinguere la qualità degli interlocutori .

Sulla vicenda Giletti-Baiardo-Berlusconi, da cui emana un forte olezzo di bufala stagionata, vedremo, ma intanto sulla diffamatoria campagna contro il “Papa Santo” qualcosa va detta alla luce della ampia intervista a tutta pagina rilasciata al Corriere della Sera dal Promotore di Giustizia Vaticano Alessandro Diddi.

Il capo della procura della Santa Sede, direttamente nominato dal Pontefice, ha parlato subito dopo il violento attacco portato da Pietro Orlandi, alla presenza del suo legale, nel corso della trasmissione condotta da Giovanni Floris che si è pure complimentato con l’ospite (inutile girarci intorno: le bufale da social resterebbero tali se non ci fossero giornalisti alla affannosa caccia di share, disposti a rilanciarle).

Orlandi con accenti anche volgari («certo Wojtyla non usciva la sera a benedire case») ha riferito dicerie e chiacchiere diffamatorie anche di pregiudicati, il cui ruolo nella vicenda è stato prudentemente sminuito dallo stesso promotore.

Questi è invece rimasto assolutamente silente sulle gravi e infamanti accuse mosse a uno dei giganti, non solo religiosi, del Novecento: ha anzi ribadito di voler andare sino in fondo, con il pieno appoggio del Papa e del suo Segretario di stato.

Solo dopo altri due giorni, è intervenuta una voce ufficiale a protestare e respingere le accuse, quella del direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, il giornalista Andrea Tornielli.

Ha invocato nella sua intervista il magistrato la parresia, termine biblico che racchiude il senso del «dire il vero» e dunque la necessità di perseguire la chiarezza e la ricerca della verità. Un intento condivisibile che purtroppo il professor Diddi ha trascurato in un’altra clamorosa vicenda (che tocca il caso Orlandi, come vedremo) che egli stesso ha avuto cura di evocare, di cui chi scrive ha una certa conoscenza e su cui tocca fare una riflessione vista l’autorevole citazione del promotore: il processo al cardinale Giovanni Angelo Becciu e altri imputati, di cui si è compiaciuto di sottolineare essere il primo giudizio contro un principe della Chiesa.

Tuttavia questo processo, incentrato sulla compravendita di un palazzo di lusso a Londra, secondo l’accusa oggetto di una manovra prima fraudolenta e poi estortiva per costringere il Vaticano a pagare un’ingente somma al fine di acquisirne la piena legittima proprietà, ha sollevato molti dubbi e rivelato aspetti sconcertanti verso cui non sempre l’inquirente ha mostrato chiarezza e linearità.

È emersa dalle udienze una realtà di duri contrasti interni al Vaticano tra istituzioni, come lo Ior, la banca vaticana e la Segreteria di Stato, i cui ambienti sono stati addirittura oggetto di intercettazioni ambientali disposte dell’autorità giudiziaria.

Ebbene, la parresia è stata dimenticata dal promotore allorché uno dei testi principali dell’accusa, monsignor Perlasca, già responsabile dell’ufficio amministrativo della Segreteria e autore di dure accuse contro Becciu e altri imputati, ha ammesso, incalzato dai difensori, di essere stato imbeccato da due donne, una sua amica, Genoveffa Ciferri, e un ben noto personaggio delle cronache giudiziarie vaticane, Immacolata Chaouqui, sedicente confidente del Papa e da questi nominata in una commissione, Cosea (Pontificia commissione referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa), da cui furono sottratti e indirizzati alla stampa documenti riservati.

Per questi, fatti la donna è stata condannata nel noto processo “Vatileaks”, verdetto per cui il Papa si è sempre rifiutato di concedere il perdono.

Il promotore ha depositato una decina di messaggi a lui indirizzati dalla Ciferri, ma ha celato alle difese, disponendone la secretazione peer motivi di riservatezza, altre 166 chat da cui sarebbe possibile ricostruire gli eventuali contatti tra gli uffici inquirenti e le due donne durante le indagini, al fine di verificare se vi fu un tentativo di depistaggio.

Nonostante i reiterati appelli delle difese, Diddi si è rifiutato fino a oggi di depositare i messaggi. Sicché ancora si brancola nel buio.

Come accennato, il processo Becciu «incrocia» la vicenda di Manuela Orlandi, sempre a dire del fratello Pietro e del suo avvocato, che hanno «collegato», ancora una volta rigorosamente senza prove, la nomina dell’attuale presidente del Tribunale Vaticano, Giuseppe Pignatone, alla sua decisione ai tempi in cui guidava la Procura di Roma di archiviare l’indagine sulla scomparsa di Emanuela. Ciò lo renderebbe, secondo loro, «incompatibile». Il dottor Pignatone, va da sé, è l’attuale presidente del collegio chiamato a decidere sul caso Becciu cui fa riferimento nella sua ampia intervista il Promotore.

A suo tempo Linkiesta ha raccontato la vicenda, di fronte a cui è facile avvertire un forte senso di vertigine e confusione oltre che di comprensibile preoccupazione per la sorte di cittadini italiani in una tale particolare temperie processuale.

Un ultimo aspetto: mentre infuriava la polemica, il Papa ha promulgato un ennesimo Motu Proprio con cui a distanza di poco tempo ha modificato l’ordinamento giudiziario dello Stato.

La nuova normativa non solo aumenta i poteri del Promotore, già ampiamente accresciuti da appositi rescritti del Papa, emessi ad hoc per il processo in questione, ma affida la giustizia vaticana nel suo complesso al controllo di soggetti direttamente reclutati nella società civile tra esperti di diritto.

Caso unico negli ordinamenti giudiziari internazionali, la magistratura vaticana da oggi può essere formata esclusivamente da avvocati e professori a tempo definito, liberi di fare la spola tra i loro studi di consulenti privati e le istituzioni vaticane.

Col rischio di un pericoloso cortocircuito tra interessi privati e pubblici doveri che non dovrebbe sfuggire a nessuno, per la regolarità stessa dell’amministrazione giudiziaria di uno Stato ancora così centrale per la storia e gli equilibri del mondo.

*L’autore fa parte del collegio difensivo nel processo contro il Cardinale Becciu e altri otto imputati in corso presso il Tribunale penale vaticano: l’articolo riflette solo le sue personali opinioni

Tombe, ossa, indagini: ecco perché il Vaticano non ha segreti sul caso Orlandi. Nonostante le accuse di omertà, la disponibilità vaticana a fare luce sulla scomparsa di Emanuela non è una novità. I fatti che lo dimostrano. Nico Spuntoni il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Per quasi ventisette anni, a partire dallo storico "se sbaglio mi corrigerete" pronunciato in piazza san Pietro dopo l'elezione, la figura di Giovanni Paolo II è divenuta familiare per milioni di persone e di lui si è parlato quasi quotidianamente sui giornali ed in televisione per le omelie, le enciliche o per uno dei suoi tanti viaggi apostolici. Diciotto anni dopo la sua morte, il nome del Papa polacco è tornato a comparire nelle rassegne stampa e nei servizi al telegiornale. Purtroppo, però, non per onorarne la memoria.

L'audio choc

Di Karol Wojtyła si è parlato moltissimo questa settimana dopo che al programma DiMartedì condotto da Giovanni Floris è stato mandato in onda un audio choc del 2009 - già sentito in altre trasmissioni del canale - in cui un ex membro della banda della Magliana accusava de facto il Papa santo di essere stato un predatore sessuale, tirando in ballo l'ex cardinale segretario di Stato, Agostino Casaroli che avrebbe addirittura commissionato - tramite dei cappellani di un carcere - omicidi ad Enrico De Pedis per coprire la "schifezza" attribuita a Wojtyła. Accuse assurde e deliranti che sono state ricondotte al caso di Emanuela Orlandi, l'adolescente figlia di un un commesso della prefettura della Casa Pontificia e scomparsa misteriosamente a Roma nell'estate del 1983.

L'indagine vaticana

L'audio andato in onda su La7 dovrebbe far parte della memoria portata da Pietro Orlandi, fratello della ragazza, al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi che a gennaio ha aperto un fascicolo sulla scomparsa e che ha accettato di ascoltare Orlandi martedì scorso. Sempre martedì, il familiare di Emanuela è andato ospite nella trasmissione di Floris ed ha pronunciato parole che hanno creato molte polemiche: "Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case", ha affermato Pietro.

Parole che hanno indignato molti fedeli e che hanno provocato la reazione del segretario storico di Giovanni Paolo II, il cardinale Stanisław Dziwisz che ha definito "accuse farneticanti e criminali" quelle ascoltate nello studio televisivo e si è augurato che "l’Italia saprà con il suo sistema giuridico vigilare sul diritto alla buona fama di chi non c’è più”.

La reazione

Il comunicato del cardinal Dziwisz , a cui è seguito un editoriale dello stesso tenore scritto dal direttore dei media vaticani Andrea Tornielli, ha suscitato la reazione dell'avvocato di Orlandi che in una nota ha parlato di frase estrapolata ed ha contrattaccato sostenendo che l'ex segretario di Giovanni Paolo II - di cui però non si fa il nome esplicitamente - sarebbe stato "contattato negli anni numerose volte dal signor Orlandi" e che si sarebbe "sempre sottratto a un confronto autentico e sincero". Un giudizio che si contrappone a quello che invece Pietro e chi lo assiste hanno riservato all'iniziativa del promotore Diddi: la convocazione in Vaticano del fratello in un colloquio di otto ore è stata definita una svolta storica, rilevando come in passato l'uomo non sarebbe stato ascoltato così approfonditamente.

La collaborazione

Una linea comunicativa che rafforza la tesi più volte sostenuta di una mancata collaborazione da parte del Vaticano nella ricerca della verità sulla sorte della ragazza scomparsa, in Italia, quaranta anni fa. In questi anni, tuttavia, bisogna riconoscere che da Oltretevere ci si è dimostrati piuttosto disponibili di fronte alle richieste che tiravano in ballo nuove piste seppur vertenti solo su anonime segnalazioni o su suggestioni. Nel 2018, ad esempio, in occasione del ritrovamento di ossa umane nella sede della nunziatura apostolica in Italia, la segnalazione era partita proprio dall'interno ed era stata la parte vaticana a chiamare la polizia scientifica e la squadra mobile della questura di Roma. Segreteria di Stato e Gendarmeria vaticana avevano gestito la vicenda al massimo della trasparenza, sebbene la tesi di un collegamento con il caso Orlandi - inspiegabilmente circolata sulle agenzie subito dopo il ritrovamento - non avesse alcun fondamento. E infatti, dopo gli esami degli esperti, si era potuto accertare che le ossa erano risalenti tra il 90 e il 230 dopo Cristo.

Le tombe

Poi era stata la volta dell'anonima segnalazione che indicava nel cimitero del collegio teutonico in Vaticano il luogo di sepoltura di Emanuela. Anche qui, nonostante l'assenza di prove, l'ufficio del promotore di giustizia vaticano aveva acconsentito all'apertura delle tombe del collegio su richiesta dell'avvocato di Orlandi. L'operazione, condotta alla presenza di un perito di parte, aveva svelato l'assenza di qualsiasi resto umano nelle tombe segnalate, quindi anche l'assenza di resti della ragazza.

Nel 2012, quando sui media si parlava molto della sepoltura di Enrico De Pedis, assassinato nel 1990 in via del Pellegrino, nei locali della basilica di Sant'Apollinare e che una telefonata anonima ricevuta nel 2005 dalla redazione del programma Chi l'ha visto collegava alla scomparsa di Emanuela Orlandi, la Santa Sede tramite l'allora direttore della Sala Stampa padre Federico Lombardi fece sapere di non avere alcun problema per l'apertura e lo spostamento della salma. Cosa che in effetti avvenne dopo nulla osta del vicariato di Roma e dell'autorità giudiziaria rivelando che nella cripta c'era solamente il corpo dell'uomo indicato come esponente di spicco della banda della Magliana e non quello della ragazza scomparsa.

Il caso

Sul caso Orlandi resta aperta in Vaticano l'indagine voluta da Francesco a dieci anni dalla sua elezione e aperta a gennaio dal promotore Alessandro Diddi. Quest'ultimo ha accettato di incontrare Pietro Orlandi che ha salutato come "giornata storica" quella del suo colloquio. Tuttavia è difficile far passare il messaggio di un Vaticano che per la prima volta accetta di collaborare per fare luce sulla vicenda: dal 1983, infatti, la linea ufficiale è sempre stata quella di rivendicare la collaborazione e la trasparenza nei confronti degli inquirenti italiani e della famiglia con cui durante tutti e tre gli ultimi pontificati si è cercato di aiutare le indagini. Accreditare questa tesi da parte vaticana significherebbe smentire quanto è stato fatto e detto in questi quaranta anni per respingere l'accusa di custodire segreti sulla vicenda e getterebbe discredito non solo sugli anni di Giovanni Paolo II, ma su tutti e tre gli ultimi pontificati.

(ANSA il 6 aprile 2023.) Più di 150 preti cattolici, per l'esattezza 156, hanno compiuto atti pedofili nei confronti di oltre 600 bambini nel corso degli ultimi sessanta anni. E' quanto denuncia un rapporto del procuratore generale del Maryland. "Dal 1940 al 2002, oltre 100 preti hanno compiuto orribili e ripetuti abusi contro i bambini delle loro comunità mentre la leadership della diocesi guardava dall'altra parte", si legge nel rapporto riportato dai media americani. L'indagine è iniziata nel 2018 e da allora gli investigatori hanno raccolto "centinaia di migliaia di documenti".

Estratto dell'articolo di Iacopo Scaramuzzi per "la Repubblica" il 26 marzo 2023.

Nella convinzione che dietro ogni abuso sessuale vi sia un abuso di potere, e che ignorare o coprire le segnalazioni di una vittima le infligga una seconda ferita, il Papa ha confermato ed esteso le norme per sanzionare l’insabbiamento delle denunce. Francesco ha infatti reso definitivo un provvedimento che aveva promulgato "ad experimentum" nel 2019 ed ha allargato la responsabilità:

se sinora erano i vescovi e i superiori di un ordine religioso che potevano risultare "negligenti", a valle di un procedimento ecclesiastico, ora vengono considerati responsabili anche i laici a capo delle "associazioni internazionali di fedeli". Per intendersi, da Comunione e liberazione al movimento dei Focolari, dai Foyers de Charité francesi al movimento apostolico tedesco di Schoenstatt agli Scout d’Europa.

[…] La Chiesa è da decenni alle prese con la crisi degli abusi sessuali. A partire, in particolare, dall’esplosione del caso negli Stati Uniti, a inizio degli anni 2000, grazie alle inchieste del Boston Globe , essa ha superato una «mentalità un po’ naif», come spiega il gesuita argentino Damián G. Astigueta, moderatore di un diploma che la Pontificia Università Gregoriana ha avviato in Giurisprudenza penale. […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Panettiere per quotidiano.net Il 6 marzo 2023.

Non solo la cappa opprimente della pedofilia toglie il respiro nella Chiesa. L’abuso di potere a sfondo sessuale non risparmia le vestali della cristianità. Suore e monache violentate dal clero, dall’Africa all’Europa, in alcuni casi costrette ad abortire più volte.

 Per decenni silenzi e coperture si sono presi la scena, ma adesso, complice in parte il movimento #MeToo, si fanno sempre più incalzanti i tentativi, da parte di registi – è francese l’intenso documentario Abusi sessuali sulle suore: l’altro scandalo nella Chiesa –, teologhe e persino religiose di far circolare verità e trasparenza nell’opinione pubblica fino ai vertici ecclesiali.

 Questo pressing ha fatto sì che Oltretevere si sia smesso di tacere sulle violenze ai danni delle consacrate, anche se all’orizzonte manca ancora un sistematico giro di vite per arginare la piaga e assicurare, alla giustizia civile e canonica, i preti responsabili degli stupri. "È vero, ci sono stati sacerdoti e anche dei vescovi che hanno abusato sessualmente delle consacrate", è stata l’ammissione di papa Francesco sul volo di ritorno dagli Emirati Arabi nel 2019, quando parlò di un "problema culturale", richiamando la Chiesa "a fare qualcosa di più".

Poco prima Donne Chiesa Mondo, la rivista femminile dell’Osservatore Romano, allora diretta dalla storica Lucetta Scaraffia, aveva messo nero su bianco sottovalutazioni, pregiudizi e ritorsioni di un dramma a lungo nascosto. E che trova terreno fertile all’interno di una cornice pastorale nella quale sulle religiose troppo spesso grava una condizione di subordinazione che le vuole serve del clero (o poco più). Donne rese da soggetti ad oggetti, anche sessuali, nella peggiore delle ipotesi.

 (…)

Quanto ai responsabili, si tratta di preti nel 14% dei casi. In precedenza un report statunitense – datato 1998 – aveva stimato in un 30% il numero delle suore vittime di un trauma sessuale nel corso della loro esperienza di fede. Anche per mano di presbiteri. Quelli erano gli anni in cui proprio due suore di lingua inglese, Maura O’Donohue e Marie McDonald, trovavano il coraggio di presentare in Santa Sede le prime, dettagliate denunce di decine di stupri sulle consacrate in 23 Paesi, per lo più in Africa.

Racconti agghiaccianti di religiose scelte come prede da preti che le preferivano alle prostitute, perché ritenute più sicure «per la paura di contrarre l’Aids». In Santa Sede su quelle denunce calò il silenzio, lo stesso che sempre più suore oggi hanno la forza di squarciare. Parlando alla luce del sole di quanto hanno subito in nome della loro dignità di donne.

Negli ultimi 15 anni in Italia sono stati condannati per pedofilia 164 sacerdoti. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 3 Febbraio 2023

Quello degli abusi sessuali all’interno della Chiesa Cattolica è un tema su cui in Italia non si è finora mai indagato per davvero e sul quale non si è nemmeno mai tenuto un serio dibattito pubblico e politico. Eppure ci sarebbe molto da parlare, eccome. Basta guardare gli ultimi numeri.

Sono 164 i sacerdoti condannati definitivamente per pedofilia negli ultimi 15 anni. Altri 166 sono attualmente denunciati, indagati, in attesa di giudizio o non più condannabili per prescrizione. Invece sono 88 i casi “segnalati da vittime che per improcedibilità spesso legata alla prescrizione non sono noti alle autorità civili”. Per un totale di 418 preti coinvolti – molti dei quali in Lombardia, al primo posto per presunti abusi sessuali su minorenni commessi da sacerdoti – e 29.260 potenziali vittime.

Lo dice il censimento realizzato dall’Osservatorio Permanente della Rete L’Abuso – che ha raccolto segnalazioni di casi di abusi sessuali negli ultimi 13 anni direttamente dalle vittime – e dall’associazione internazionale Eca Global (Ending ClergyAbuse), secondo cui il numero complessivo di casi potrebbe comunque essere sottostimato.

L’obiettivo non è tanto quello di «fornire dei numeri, ma insieme a questi fornire in assenza di dati governativi un quadro di consapevolezza più ampio, spiegando perché il problema endemico dei sacerdoti pedofili, in Italia sia particolarmente allarmante rispetto agli altri paesi, non solo nell’area dell’Unione Europea», commentano le associazioni. Il documento, inviato alle autorità italiane per spronare l’avvio di un’indagine indipendente, fa in realtà l’eco a quanto chiesto già nel 2019 dalle Nazioni Unite: investigare in maniera imparziale sugli abusi sessuali da parte del clero.

Al momento, infatti, l’Associazione Rete L’Abuso, guidata tra l’altro da chi quegli abusi li ha subiti sulla propria pelle, Francesco Zanardi, è l’unica che in assenza di dati ufficiali cerca di tenere traccia del fenomeno, comunque «da considerarsi in difetto rispetto alla reale portata degli abusi».

Nel corso degli anni è stato chiesto più volte anche al Vaticano di muoversi nella direzione giusta. Nel 2014, ad esempio, è stata creata una Commissione speciale che però ha portato a casa scarsissimi risultati perché contrastata da poteri politici ed ecclesiastici forti.

Il problema, a quanto pare, è intrinseco e per questo difficilmente estirpabile.

Un timido tentativo di fare chiarezza sulla questione è arrivato lo scorso novembre dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI), che ha pubblicato i dati raccolti nel corso dei due anni precedenti presso i centri di ascolto delle diocesi. Si è trattato del primo rapporto su abusi sessuali e pedofilia nella Chiesa italiana, pubblicato dalla stessa – e lungo appena 40 pagine scritte dagli esperti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, non di certo imparziali – e che si è rivelato una totale presa in giro (seppur i dati siano comunque sconcertanti).

Il rapporto infatti considera solo alcuni casi denunciati alla Chiesa stessa – invece la vittima può denunciare anche alla magistratura, per esempio -, avvenuti tra il 2020 e il 2021. Questo è un problema per diversi motivi: spesso la vittima realizza di aver subito abusi dopo anni di terapia (e quindi denuncia anni dopo) e la CEI aveva promesso di analizzare gli ultimi vent’anni (non solo gli ultimi due, tra l’altro trascorsi in lockdown).

In generale, poi, le righe dedicate alla questione degli abusi sono veramente poche, seppur spiazzanti. Al loro interno si legge che nell’arco di tempo considerato si sono rivolte ai Centri di ascolto per segnalare un abuso 86 persone. Numeri enormi, se valutiamo il contesto, anche se parziali e incompleti.

Considerando che i sacerdoti presenti in Italia sono fra i 35 e i 38mila, e che secondo padre Hans Zollner, uno dei maggiori esperti mondiali sugli abusi sessuali nella Chiesa, il 3-5% di questi è un abusatore, ci rendiamo conto che i dati della CEI – per quanto preoccupanti – sono un insulto alle vittime. Il problema è che il nostro Paese è profondamento legato a certe tradizioni, tra cui quella religiosa. Per questo è difficile che se ne parli “male” apertamente, ed è più facile, invece, insabbiare tutto e far finta che il problema non esiste. Ma c’è, ed è enorme. [di Gloria Ferrari]

Vaticano, morto il cardinale George Pell: fu prima condannato per pedofilia, poi prosciolto e riabilitato. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2023.

Aveva 81 anni: è deceduto in seguito a complicazioni per un’operazione all’anca

È morto il cardinale australiano George Pell, prefetto emerito della Segreteria per l’economia. Il cardinale, 81 anni, aveva subìto un processo in seguito ad un’accusa di abusi sessuali e stava scontando una condanna per pedofilia a 6 anni di detenzione quando è stato prosciolto. È deceduto a Roma, in ospedale, a causa di complicazioni in seguito a un’operazione all’anca a cui era stato sottoposto questa mattina presto.

Pell venne accusato di abusi su due chierichetti di 13 anni, all’interno di una sacrestia in Australia. I fatti risalivano a diversi decenni prima. Prima di arrivare in Vaticano, Pell era stato fra l’altro arcivescovo di Sydney e di Melbourne. Travolto dalla accuse quando era ormai approdato alla Santa Sede, lasciò Roma, dove ricopriva l’incarico di prefetto della Segreteria per l’economia, e rientrò a Sydney «per affrontare le accuse che gli sono state mosse». Nel 2018 la condanna da parte della corte distrettuale dello Stato del Victoria, a sei anni di reclusione. L’appello venne respinto, la condanna confermata e per lui si aprirono le porte del carcere. Nell’aprile del 2020, però, la Corte Suprema australiana decise all’unanimità il proscioglimento e il rilascio immediato. Il cardinale si era sempre dichiarato innocente, definendo il reato di cui è stato accusato un crimine orribile e intollerabile. La sentenza di proscioglimento venne salutata con soddisfazione dalla Santa Sede, che - in un comunicato - affermò di aver sempre riposto fiducia nell’autorità giudiziaria australiana. Il 12 ottobre successivo, in un incontro in Vaticano, lo stesso Papa Francesco lo ringraziò per la sua testimonianza.Una volta rientrato a Roma pubblicò un libro di memorie, «Diario di prigionia», e aprì una polemica su un trasferimento di denaro - questa la sua denuncia - dall’Europa all’Australia in concomitanza con le sue vicissitudini giudiziarie.

Il cardinale Pell ha concelebrato il 5 gennaio i funerali di Benedetto XVI ed era arrivato a Roma già durante l’esposizione della salma di Joseph Ratzinger in Basilica vaticana. Nato a Ballarat, nell’Australia meridionale, l’8 giugno 1941, aveva studiato alla Pontificia Università Urbaniana di Roma ed era stato ordinato sacerdote il 16 dicembre 1966. Papa Wojtyla lo aveva nominato vescovo ausiliare di Melbourne nel 1987, mentre nel 2001 era diventato arcivescovo di Sydney e nel 2003 cardinale. Pell partecipò al Conclave del 2005 che vide eleggere Papa Benedetto XVI, e a quello del 2013, in cui è stato eletto Papa Francesco.

(ANSA l’11 gennaio 2023) - "La morte del cardinale Pell ha colto anche me di sorpresa. Era stato con noi cardinali a celebrare i funerali del Papa emerito Benedetto XVI. Di fronte alla morte sempre ci inchiniamo e raccomandiamo l'anima del Confratello alla misericordia del Signore. 

Come è noto alle cronache, tra me e il Card. Pell vi sono stati dei contrasti professionali. Ma ora egli sta nella Verità: sono certo che ha preso conoscenza del reale svolgimento dei fatti. Prego il Signore che lo perdoni per aver alimentato il calunnioso sospetto che fossi stato io a congiurare contro di lui addirittura finanziando i suoi accusatori nel processo per pedofilia in Australia. Sono umanamente dispiaciuto della sua morte, riposi in pace". Lo dice all'ANSA il cardinale Angelo Becciu.

Estratto dell'articolo di Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" l’11 gennaio 2023.

 [...] A lungo sui media si è parlato del suo scontro con Angelo Becciu, sostituto della segreteria di Stato ai tempi in cui Pell era Prefetto della Segreteria per l'Economia e aveva iniziato un'azione moralizzatrice delle finanze vaticane indagando su vari scandali.

 Poi la bufera giudiziaria, il trasferimento in Australia e i 13 mesi di carcere. Quindi la sorte aveva rovesciato i destini, con Becciu sotto accusa per l'affaire dell'immobile di Londra e Pell nelle vesti dell'accusatore.

Tornato dall'Australia, Pell aveva pubblicato il libro di memorie, Diario di prigionia , e aveva aperto una polemica su un trasferimento di denaro dall'Europa all'Australia in concomitanza con le sue vicissitudini giudiziarie.

 A chi gli chiedeva se qualcuno avesse fatto in modo di liberarsi di lui, rispondeva: «Alcuni parlano di una connessione possibile tra i problemi nel mondo delle finanze qui e i miei problemi in Australia, ma non abbiamo prove. Sappiamo che del denaro è andato dal Vaticano all'Australia, due milioni e 230 mila dollari, ma finora nessuno ha spiegato perché».

E aggiungeva: «C'era sempre resistenza in Segreteria di Stato. Ma se il Revisore o noi della Segreteria dell'Economia avessimo potuto intervenire prima, avremmo salvato tanti, tanti denari destinati al palazzo di Londra e anche in altri posti».

 Su Becciu era stato anche più esplicito: «È pubblico che Becciu diceva che il Revisore dei conti non aveva autorità di entrare in Segreteria di Stato. Questo era assolutamente falso». Noi «avevamo l'autorità di entrare, ma ce lo hanno impedito».

 «Noi abbiamo introdotto la metodologia che tutto il mondo utilizza. Abbiamo scoperto un miliardo e 300 mila euro sparsi negli uffici. Abbiamo preparato un budget, cose fondamentali», vantava.

Vaticano, è morto il cardinale Pell a 81 anni: fu coinvolto in accuse poi cadute di pedofilia. Iacopo Scaramuzzi su La Repubblica il 10 Gennaio 2023.

Il porporato australiano era stato chiamato a Roma dal Papa come "ministro delle finanze". I 400 giorni in carcere. Lo scontro con Becciu sui fondi della Segreteria di Stato. La collaborazione e le critiche a Francesco, che gli riconosceva i meriti della riforma

E' morto all'età di 81 anni a Roma il cardinale George Pell, arcivescovo emerito di Melbourne (1996-2001) e Sidney (2001-2014), "ministro delle Finanze" del Vaticano. Temperamento cordiale e diretto, soprannominato "rugbyman", ha trascorso 400 giorni in carcere con l'accusa, poi caduta, di abusi sessuali su minori, ed era tra le voci più chiare del fronte conservatore nella Chiesa cattolica. 

Il porporato, ha riferito Ewtn, non ha superato le complicazioni causate da un intervento chirurgico all'anca.

Nei giorni scorsi aveva partecipato in Vaticano ai funerali del papa emerito Benedetto XVI.

I rapporti con tre Papi

Nominato da Giovanni Paolo II vescovo di Melbourne (1996-2001) e di Sydney (2001-2014), creato cardinale (2003) da Benedetto XVI, che accolse nella Giornata mondiale della gioventù di Sidney del 2008, Pell è stato chiamato da Francesco a Roma, che lo inserì nel consiglio dei cardinali che lo hanno coadiuvato nella riforma della Curia romana e, dal 24 febbraio 2014, lo ha posso alla guida della Segreteria per l'Economia. In questa veste ha promosso una profonda riforma delle finanze vaticane, con sensibilità manageriale, entrando in rotta di collisione con la Segreteria di Stato e, in particolare, con l'allora Sostituto agli affari generali, Giovanni Angelo Becciu, con il quale ha sempre mantenuto un rapporto dialettico. Fu Pell, tra l'altro, a rivelare in pubblico l'esistenza di fondi gestiti autonomanente dalla Segreteria di Stato, poi spostati da Papa Francesco sotto la responsabilità dell'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa).

400 giorni in carcere

Il 29 giugno 2017, però, la polizia australiana confermò l'imminente stato d'accusa per il cardinale Pell per "gravi reati sessuali" su minori, fra i quali quello di uno stupro, che sarebbero stati commessi negli anni settanta, quando Pell era parroco nella sua città natale, Ballarat. La Santa Sede contemporaneamente confermò la notizia del rinvio a giudizio del cardinale Pell e la sua partenza per l'Australia "per affrontare le accuse che gli sono state mosse". L'11 dicembre 2018 Pell fu giudicato colpevole di abusi sessuali su due chierichetti di 13 anni dalla giuria della County Court dello Stato di Victoria e il 13 marzo 2019 condannato a una pena detentiva di 6 anni. Il cardinale, che si è sempre dichiarato innocente, ha quindi annunciato il ricorso in appello, che è stato respinto e la condanna confermata. E per il cardinale si sono aperte le porte del carcere, dove è rimasto oltre 400 giorni. Nel mese di novembre di quell'anno, alla luce dei numerosi vizi formali nelle procedure processuali segnalati dal giudice Mark Weinberg, la Corte Suprema dell'Australia ha ammesso la richiesta di appello presentata da Pell. Il 7 aprile 2020 il cardinale è stato prosciolto all'unanimità dalla stessa Corte. Il porporato australiano ha raccontato la sua esperienza nel libro "Diario di prigionia", pubblicato in Italia da Cantagalli.

Il rapporto ambivalente con il Papa

Da allora Pell è tornato a Roma, dove abitava senza un incarico. Con Papa Francesco ha avuto un rapporto complesso. Tra i grandi elettori del Pontefice argentino nel Conclave del 2013, e membro dei suoi consiglieri più ristretti, non ha però esitato a criticare frontalmente Francesco sulle sue aperture dottrinali. Sull'economia, Pell, una sensibilità capitalista, non seguiva il Papa, e sollevò alcune riserve sull'enciclica Laudato si'. Fu tra i 13 firmatari di una lettera che criticava, ad esempio, l'ipotesi, poi effettivamente approvata, di concedere in alcuni casi la comunione ai divorziati risposati, durante il combattuto doppio sinodo sulla famiglia del 2014-2015. Visse il ritorno in Australia, avallato dal Papa, come un esilio. E negli ultimi anni dava voce alle rimostranze dell'ala conservatrice nei confronti del Pontefice.

In una recentissima intervista, Papa Francesco ha riconosciuto pubblicamente i meriti di Pell a proposito della riforma delle finanze vaticane. "Io ho dato indicazioni soltanto - ha detto Bergoglio a Fabio Marchese Ragona per Canale 5 lo scorso 18 dicembre -. Ma l'organizzare questo che, grazie a Dio, sta andando bene con il Consiglio dell'Economia, con il Segretariato all'Economia. Tutto questo lo ha visto chiaro il cardinale Pell, che è quello che ha incominciato questo". "Poi è dovuto rimanere quasi due anni in Australia per questa calunnia che gli hanno fatto - che poi era innocente, ma gliel'hanno fatta brutta poveretto - e si è allontanato da questa amministrazione, ma è stato Pell a fare lo schema di come si poteva andare avanti. È un grande uomo e gli dobbiamo tante cose", ha concluso il Papa.

Vaticano, è morto il cardinale australiano George Pell. Era stato ministro delle Finanze. Il Domani l’11 gennaio 2023 • 07:55

Nel 2018 Pell è stato condannato per aver molestato due ragazzi del coro nella sacrestia della Cattedrale di San Patrizio mentre era arcivescovo di Melbourne nel 1996. La condanna è stata annullata nel 2020. Papa Francesco lo aveva anche scelto come ministro delle Finanze

Il cardinale George Pell, ex arcivescovo di Melbourne e Sydney, è morto martedì sera all’età di 81 anni dopo aver subito un arresto cardiaco in seguito a un intervento chirurgico all’anca a Roma. Recentemente era apparso in pubblico in occasione dei funerali di Benedetto XVI.

Nel 2014 il porporato australiano era stato chiamato a Roma dal papa come «ministro delle finanze» del Vaticano, dove attuò una profonda riforma. Il suo lavoro è stato riconosciuto in più occasioni da Bergoglio. Pell rappresentava l’ala più conservatrice all’interno della chiesa ed era fortemente contrario al matrimonio tra le persone dello stesso sesso e all’aborto, posizioni che gli hanno causato qualche critica in Australia per via delle sue pressioni sul governo.

«È con profonda tristezza che posso confermare che Sua Eminenza, il Cardinale George Pell, è deceduto a Roma nelle prime ore di questa mattina», ha detto l’arcivescovo di Sydney, Anthony Fisher. «Questa notizia è un grande shock per tutti noi. Vi prego di pregare per il riposo dell'anima del Cardinale Pell, per il conforto e la consolazione della sua famiglia e di tutti coloro che lo hanno amato e lo stanno piangendo in questo momento», ha aggiunto. 

Il primo ministro australiano Anthony Albanese ha invece detto che la salma sarà riportata nel paese. «Per molte persone, in particolare di fede cattolica, questo sarà un giorno difficile», ha detto Albanese. «Esprimo le mie condoglianze a tutti coloro che oggi sono in lutto. Questo sarà uno shock per molti».

IL PROCESSO PER ABUSI SESSUALI

Nel 2018 Pell è stato condannato per aver molestato due ragazzi del coro nella sacrestia della Cattedrale di San Patrizio di età di 13 anni mentre era arcivescovo di Melbourne nel 1996. Dopo 400 giorni di carcere ha vinto il ricorso e le sue condanne sono state annullate con una decisione unanime dalla Corte suprema australiana nel 2020.

Il processo e le accuse sono state raccontate in un libro intitolato Diario di prigionia.

È morto improvvisamente, a seguito di un'operazione, il porporato conservatore che subì un processo da cui venne prosciolto. Nico Spuntoni su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

La notizia si è diffusa a Roma quando era già tarda sera ed è poi arrivata in Australia quando lì era appena iniziata la mattina: il cardinale George Pell è morto. Poco più di una settimana dopo Benedetto XVI, se ne va anche il prefetto emerito della Segreteria per l'Economia nonché uomo simbolo della Chiesa cattolica in Oceania per decenni. Pell, infatti, era stato prima arcivescovo di Melbourne e poi - dal 2001 al 2014 - arcivescovo di Sidney. La morte sarebbe sopraggiunta a seguito di complicazioni per un intervento chirugico all'anca. Il prelato avrebbe compiuto 82 anni in estate, non era più nella lista degli elettori ad un futuro Conclave.

Tra Australia e Roma

Creato cardinale da Giovanni Paolo II nel Concistoro del 21 ottobre 2003, il porporato si considerava un conservatore e per le sue prese di posizione anche nel dibattito pubblico del suo Paese fu spesso oggetto di attacchi da parte degli ambienti più progressisti della politica e della società australiane. Fu Francesco, subito dopo l'elezione, a chiamarlo a Roma per ricoprire l'incarico creato ad hoc di prefetto della Segreteria per l'Economia. La riforma delle finanze vaticane era uno dei punti programmatici emersi nelle congregazioni generali pre-Conclave e Bergoglio volle affidarla a lui. Pell, che il Papa aveva ribattezzato ironicamente "il Ranger", mise in moto - non senza resistenze in Curia - la macchina organizzativa che ha continuato a funzionare anche dopo la sua partenza per l'Australia nel 2017.

Il processo

Accusato di abusi sessuali per fatti che sarebbero avvenuti ai tempi in cui ricopriva l'incarico di arcivescovo di Melbourne, Pell - pur non obbligato - volle comunque tornare in Australia e difendersi nel processo che gli costò una condanna a sei anni di carcere. Una sentenza pronunciata in un clima ostile dell'opinione pubblica e che nell'aprile del 2020, dopo più di 400 giorni di prigione senza nemmeno poter celebrare la messa, fu ribaltata dall'Alta Corte. Il cardinale fu prosciolto da ogni accusa e quella contro di lui si rivelò essere, come l'ha definita Francesco nell'intervista su Canale 5, una "calunnia". Uscito dal carcere, Pell tornò a Roma e venne ricevuto dal Papa che lo ringraziò in udienza privata per "la testimonianza" facendo riferimento al suo periodo trascorso in carcere da innocente per più di un anno.

Tra Benedetto XVI e Francesco

Critico con l'interpretazione di Amoris Laetitia data dai vescovi argentini e maltesi favorevole alla comunione ai divorziati risposati e preoccupato per le richieste avanzate nel Sinodo sull'Amazzonia, Pell era comunque stimato da Francesco che lo ha più volte lodato anche dopo il suo ritorno dall'Australia e lo ha anche indicato come "il genio" da cui è partita l'operazione trasparenza nelle finanze vaticane. Il cardinale stimava molto Benedetto XVI al punto da considerarlo il più bravo teologo tra tutti i Papi, ma non capì mai la decisione di rinunciare al ministero petrino e quella di prendere per sè il titolo di Papa emerito.

Accusato da due chierichetti: prosciolto all'unanimità. È morto George Pell: il cardinale detenuto 444 giorni per stupro prima dell’assoluzione complete. Redazione su Il Riformista l’11 Gennaio 2023.

George Pell aveva scontato 444 giorni di carcere a Melbourne: era stato accusato di violenze sessuali da parte di due chierichetti di 13 anni. Era stato condannato nel 2018, per fatti risalenti al 1996, quando era parroco a Ballarat, a sei anni di carcere. Il porporato era stato completamente prosciolto, all’unanimità, da ogni accusa nell’aprile 2020 e rilasciato dopo oltre un anno di carcerazione. È morto, a 81 anni e la sua vita e vicenda personale sarebbero rimasti per sempre legati a quel processo, a quell’accusa per reati sessuali.

Pell nei giorni scorsi aveva partecipato ai funerali del Papa emerito Benedetto XVI in Vaticano. Il cardinale australiano non avrebbe superato, secondo quanto scrive l’Ansa, le complicazioni causate da un intervento chirurgico all’anca. Era stato arcivescovo di Melbourne e Sidney. Papa Francesco lo aveva voluto nel febbraio 2014 alla guida della nuova Segreteria per l’Economia: a capo delle riforme economiche intraprese dal Pontefice. “Io ho dato indicazioni soltanto. Ma l’organizzare questo che, grazie a Dio, sta andando bene con il Consiglio dell’Economia, con il Segretariato all’Economia. Tutto questo lo ha visto chiaro il cardinale Pell, che è quello che ha incominciato questo”, ne aveva riconosciuto pubblicamente i meriti Bergoglio a Canale 5 lo scorso 18 dicembre.

Poi è dovuto rimanere quasi due anni in Australia per questa calunnia che gli hanno fatto – che poi era innocente, ma gliel’hanno fatta brutta poveretto – e si è allontanato da questa amministrazione, ma è stato Pell a fare lo schema di come si poteva andare avanti. È un grande uomo e gli dobbiamo tante cose”. Pell era nato l’8 giugno 1941 da George Arthur Pell, un anglicano non praticante di origini inglesi e campione di pugilato dei pesi massimi, e una devota cattolica di origine irlandese, Margaret Lillian Burke. La sorella, Margaret, è una violinista della Melbourne Symphony Orchestra.

La polizia australiana rese noto lo stato d’accusa per “gravi reati sessuali su minori” il 29 giugno del 2017, la Santa Sede confermò il rinvio a giudizio e la partenza del cardinale per l’Australia per affrontare le accuse, l’11 dicembre Pell fu giudicato colpevole di abusi sessuali sui due chierichetti di 13 anni dalla giuria della County Court dello Stato di Victoria e il 13 marzo 2019 condannato a una pena detentiva di 6 anni.

Secondo l’accusa l’allora arcivescovo della diocesi aveva molestato due coristi sorpresi a bere del vino della messa nella sagrestia. Pell si era sempre proclamato innocente. Il ricorso in appello era stato respinto e la condanna confermata. Alla luce dei numerosi vizi formali nelle procedure processuali segnalati dal giudice Mark Weinberg, la Corte Suprema dell’Australia avrebbe in seguito ammesso la richiesta di appello presentata da Pell. Il 7 aprile 2020 il cardinale è stato prosciolto all’unanimità dalla stessa Corte e rilasciato dopo più di un anno d’incarcerazione. Il cardinale avrebbe raccontato il suo calvario in un diario pubblicato nella primavera del 2021. Oltre 400 i giorni in carcere alla Melbourne Assesment Prison.

La mia cella è lunga sette-otto metri, larga più di due sul lato della finestra opaca, dove si trova il mio letto; un buon letto, con una solida base, un materasso non troppo sottile, lenzuola e due coperte. Siccome la finestra non può essere aperta, abbiamo l’aria condizionata”, raccontava Pell nel suo libro Diario di Prigionia. Nella cella 11 dell’unità 8 “dove sono stato rinchiuso assieme a un terrorista musulmano (penso sia quello che ha cantato le sue preghiere stasera – giovedì 14 marzo 2019 – ma potrei sbagliarmi) e Gargasaulas, l’assassino di Bourke Street”.

Almeno un paio di prigionieri nelle circa dodici celle spesso urlano disperatamente di notte, ma di solito non per molto. È interessante come ci si abitui a questo rumore, come diventi parte del contesto. Mi trovo in una cella d’isolamento, con il permesso di uscire per un po’ di movimento per il massimo di un’ora e per le visite dei legali, degli agenti, degli amici, dei medici. Le guardie sono differenti nella loro capacità di comprensione, ma sono tutte corrette, molte di loro cordiali, alcune amichevoli e disponibili. Posso ricevere lettere e telefonate nel tempo della ginnastica”.

Al Foglio aveva raccontato di aver “pazientato. Con la fede. Passo dopo passo”. Per la Suprema Corte non era stato dimostrato colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio” e lo stesso organo aveva dichiarato che “esiste la possibilità significativa che sia stata condannata una persona innocente”. Lui aveva sempre sostenuto: “Il mio processo, in ogni caso, non era un referendum sulla chiesa cattolica, né un referendum su come le autorità ecclesiastiche in Australia avevano gestito il crimine della pedofilia nella chiesa. Il punto era se io avessi commesso questi crimini terribili, e non l’ho fatto”. È stato il più alto dirigente della Chiesa cattolica mai condannato per abusi su minori.

Da ansa.it il 28 dicembre 2022.

Abusi sessuali su minori, induzione in concorso alla prostituzione minorile e possesso di materiale pedopornografico. Sono queste le accuse a carico di Don Gianfranco Roncone, ex parroco di Presenzano, provincia di Caserta, ora a processo davanti alla Prima Sezione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. 

La notte del 14 agosto 2020 Roncone venne sorpreso alla guida di una Madza 2 in compagnia di due ragazzi di origine romena di 18 e 16 anni, in una zona semi buia nei pressi del cimitero comunale di Vairano Patenora. I carabinieri, perquisendo i telefoni dei due, scoprirono le prove di una “relazione” tra uno di loro e il parroco.

Secondo gli inquirenti, Roncone era solito consumare rapporti sessuali in B&B partenopei nei pressi della stazione ferroviaria o in sale cinematografiche di cinema porno, con ragazzi originari prevalentemente dell'Est Europa e dell’Africa. Sempre secondo i carabinieri, alcuni giovani erano soliti ricevere regali per le loro “prestazioni”. Un episodio di violenza sarebbe avvenuto anche in canonica, dove l’ex parroco avrebbe palpato il sedere di un ragazzo minorenne.

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 22 dicembre 2022.

Si arriva a parlare di almeno nove donne abusate, tutte o in buona parte religiose. Ma finora il Vaticano tace, anche perché la vicenda arriva a lambire lo stesso Papa Francesco, per via di una scomunica dichiarata e poi ritirata dall’ex Sant’Uffizio nel giro di neanche un mese, e le informazioni filtrano con il contagocce dalla Compagnia di Gesù, che intanto invita «chiunque voglia fare una nuova denuncia o che voglia discutere di denunce» a contattarla.

È destinato a crescere lo scandalo intorno alla parabola di padre Marko Ivan Rupnik , 68 anni, gesuita coltissimo, teologo, uno degli artisti cristiani più celebrati, autore dei mosaici della Cappella Redemptoris Mater, nel Palazzo apostolico vaticano, e di altri in tutto il mondo, da Fatima a San Giovanni Rotondo, assai stimato dallo stesso confratello Francesco. Una vicenda esemplare di un tema rimosso o taciuto per decenni, nella Chiesa, più ancora della pedofilia: gli abusi psicologici, di potere, spirituali e sessuali commessi dai preti sulle religiose. 

L’ex provinciale della Provincia Euromediterranea dei gesuiti, padre Gianfranco Matarazzo, ha parlato di «uno tsunami per la Compagnia e la Chiesa». Tanto più incredibile se si considera che la libertà di coscienza e il rispetto di quella altrui è il cuore stesso della Compagnia, l’esatto contrario delle «manipolazioni» e «ossessioni sessuali» denunciate, tanto che negli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola le guide si limitano ad «accompagnare», spiegava un grande gesuita come il cardinale Carlo Maria Martini: «Sono amici nel senso evangelico: accompagnano, fanno domande, sostengono, ma non si mettono mai tra il singolo e Gesù».

La storia di padre Rupnik, dopo giorni di voci e indiscrezioni pubblicate in Rete, è diventata pubblica il 5 dicembre con una nota, datata 2 dicembre, nella quale la Compagnia di Gesù informava che «nel 2021» il Dicastero per la Dottrina della Fede aveva ricevuto una denuncia di abusi sessuali e psicologici ai danni di suore della Comunità di Loyola a Lubiana, nella sua Slovenia, fondata alla fine degli anni Ottanta da una religiosa della quale Rupnik era «padre spirituale».

Di fatto padre Rupnik era il dominus della comunità, nel frattempo commissariata dalla Santa Sede. I fatti, si diceva, risalivano agli anni Novanta, c’era stata una «indagine previa» dopo la denuncia del 2021, ma l’ex Sant’Uffizio ha chiuso il caso perché i fatti erano «prescritti», anche se per Rupnik sono rimaste alcune «restrizioni», come il divieto di confessare o accompagnare esercizi spirituali, mentre può continuare a celebrare messa.

Ma la vicenda non è finita qui. Nel frattempo è saltato fuori che già nel maggio 2020 la Congregazione per la dottrina della Fede (CDF) aveva emesso un decreto di scomunica per «assoluzione di un complice in un peccato contro il Sesto comandamento» («non commettere atti impuri»), il che significa che Rupnik aveva confessato e assolto una suora di cui aveva abusato, vincolandola al silenzio: uno dei delitti canonici più gravi, punito con la scomunica «latae sentatiae», cioè automatica.

La scomunica è per la Chiesa una «pena medicinale», punta alla guarigione e quindi è previsto possa essere tolta a chi si pente, ma certo nel caso di Rupnik avviene molto rapidamente e viene revocata dall’ex Sant’Uffizio «nello stesso mese». È possibile che il dicastero, guidato da un altro gesuita, il cardinale spagnolo Luis Ladaria, possa aver preso la decisione senza aver consultato il Papa gesuita? 

«Per togliere la scomunica la persona deve riconoscere il fatto e formalmente pentirsi. E Rupnik ha fatto così», ha risposto il padre generale dei Gesuiti, Arturo Sosa, in una conferenza stampa. «In genere i capi dicastero riportano i casi al Papa. Posso immaginare che il prefetto abbia parlato col Santo Padre, ma non posso dire né sì né no».

Nel frattempo non succede nulla e anzi il cardinale vicario di Roma, Angelo De Donatis, affida a padre Rupnik i lavori di restauro e rinnovamento della cappella del Pontificio Seminario Romano, nel 2021, 1700 metri quadrati di pittura e mosaico. Di Rupnik è anche l’immagine ufficiale dell’incontro mondiale delle famiglie che si è svolto in Vaticano dal 22 al 26 giugno del 2022: rappresenta «l’amore sacramentale tra uomo e donna».

Il centro Aletti diretto da padre Rupnik, fondato a Roma nel 1991 e inaugurato da Giovanni Paolo II nel 1993, è in piena attività, teologia, arte, architettura, qui si progettano ed elaborano le opere richieste in tutto il mondo. 

Eppure le indagini sul gesuita sloveno proseguono da tempo. Solo l’altro giorno la Compagnia di Gesù ha reso pubblica una cronologia del caso, in una dichiarazione pubblicata sul sito internazionale da padre Johan Verschueren, delegato del padre generale e superiore maggiore per le Case Internazionali. 

È lui a lanciare l’appello: «La mia principale preoccupazione in tutto questo è per coloro che hanno sofferto e invito chiunque voglia fare una nuova denuncia o che voglia discutere di denunce già fatte a contattarmi. L’e-mail di questo servizio è: teamreferente.dirat@gmail.com e le persone possono scrivere in inglese, francese, italiano, spagnolo, olandese e tedesco».

A questo punto la Compagnia spiega che le inchieste su Rupnik sono due. La prima è il caso della scomunica: nell’ottobre 2018 «le accuse di assoluzione di un complice di padre Rupnik in un peccato contro il sesto comandamento vengono ricevute dal delegato della Curia SJ («Societas Jesu»: la Compagnia di Gesù) per le case internazionali a Roma, e la Società avvia un’indagine preliminare»; nel maggio 2019 «l’indagine ritiene credibili le accuse, viene inviato un dossier alla Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF)»; a giugno 2019 «il superiore maggiore della DIR (le Case e le Opere Interprovinciali della Compagnia di Gesù a Roma), impone delle restrizioni»; a luglio 2019 «la CDF chiede alla Società di istituire un processo amministrativo penale»; a Gennaio 2020 «i giudici (tutti esterni alla Compagnia di Gesù) dicono all’unanimità che c’è stata effettivamente l’assoluzione di un complice»; a maggio 2020 «la CDF emette un decreto di scomunica, la scomunica viene revocata da un decreto della CDF più tardi nello stesso mese».

 Il secondo caso riguarda invece gli abusi commessi sulle suore nella Comunità di Loyola in Slovenia: «Giugno 2021: la Congregazione per la Dottrina della Fede contatta la Curia generale SJ in merito alle accuse riguardanti padre Rupnik e alcuni membri della comunità di Loyola; luglio 2021: il padre generale avvia un’indagine preliminare condotta da una persona esterna alla Società, padre Verschueren impone delle restrizioni; gennaio 2022: l’indagine conclude che c’è un caso da risolvere, i risultati vengono inviati alla CDF con la raccomandazione di un processo penale; ottobre 2022: il Dicastero per la Dottrina della Fede dichiara che le accuse in oggetto riguardano vicende prescritte e non si procede con il processo: continuano le restrizioni al ministero di padre Rupnik». Ma ormai il tappo di silenzi e protezioni del celebre artista è saltato. La Compagnia non esclude ci siano «altri casi».

Il padre generale Arturo Sosta ha detto che Rupnik «ha una restrizione del suo ministero legata al tipo di situazione denunciata che è oltrepassare i limiti di una relazione tra adulti». Ma ciò che sta emergendo è molto di più. In Rete, pubblicata dal blog «Silere non possum», gira una lettera aperta ai vertici della Compagnia di una religiosa che denuncia «il cerchio del silenzio e dell’esclusione al cui interno mi sono trovata per tanti, troppi anni: ventotto» dopo «la mia prima denuncia per plagio e abusi psico-fisico-spirituali».

Una suora che ha presentato denuncia contro Rupnik, intervistata dal quotidiano «Domani», ha detto che «la Chiesa e l’ordine dei gesuiti erano a conoscenza dei fatti sin dal 1994, quando ho portato personalmente la mia richiesta di dispensa dei voti all’arcivescovo di Lubiana, nella quale denunciavo gli abusi da parte di padre Rupnik», e raccontato: «La prima volta mi ha baciato sulla bocca dicendomi che così baciava l’altare dove celebrava l’eucaristia, perché con me poteva vivere il sesso come espressione dell’amore di Dio»; una volta le aveva chiesto «di avere rapporti a tre con un’altra sorella della Comunità, perché la sessualità doveva essere secondo lui libera dal possesso, ad immagine della Trinità dove, diceva, il terzo raccoglieva il rapporto tra i due».

La religiosa spiega il meccanismo del plagio: «Se chi ti guida dice che Dio lo vuole e tu non obbedisci, ti metti contro Dio. È proprio lì che si può insinuare la manipolazione, come è successo con padre Rupnik. Io avevo paura di sbagliare, paura di perdere la sua approvazione, mi sentivo fortemente dipendente dal suo giudizio».

Il vescovo ausiliare di Roma Daniele Libanori - anch’egli gesuita, inviato tempo fa dal Vaticano a compiere un’indagine nella comunità di Lubiana, poi commissariata - ha scritto una lettera ai parroci del settore centro di Roma: «Mi sforzo di fare tacere i sentimenti che provo dinanzi a testimonianze sconvolgenti, provocate da silenzi arroganti, che spiattellano davanti al mondo il putridume di cui sono impastate talune scuole spirituali». Parla della «verità tremenda dei fatti contestati».

 E dice: «Le persone ferite e offese, che hanno visto la loro vita rovinata dal male patito e dal silenzio complice, hanno diritto di essere risarcite anche pubblicamente nella loro dignità, ora che tutto è venuto alla luce. La Chiesa – noi – abbiamo il dovere di un serio esame di coscienza e chi sa di avere delle responsabilità deve riconoscerle e chiedere umilmente perdono al mondo per lo scandalo…Tutti noi vogliamo la verità. Ne abbiamo diritto. Cercarla è un preciso dovere».

Estratto dell'articolo di I.Sca. per “la Repubblica” il 21 febbraio 2023.

Un voluminoso dossier di 150 pagine con i racconti di «violenza psicologica, abuso di coscienza, abuso nell’ambio sessuale e affettivo, abuso spirituale» compiuti nell’arco di trentatré anni, dal 1985 al 2018, nei confronti di numerose donne, suore e non solo, inchioda padre Marko Rupnik, mosaicista gesuita noto in tutto il mondo.

 A raccogliere le nuove denunce, dalla bocca di quindici nuovi testimoni, è stata la stessa Compagnia di Gesù, che, apprende Repubblica, ha contestualmente deciso di rafforzare le sanzioni già vigenti nei confronti del religioso: non potrà più svolgere attività artistica né muoversi da Roma senza il permesso dei superiori. Non è escluso un processo canonico.

[…] Nel 2015 aveva abusato sessualmente di una donna e l’aveva successivamente assolta in confessionale: una cosiddetta “assoluzione del complice”, reato che, per il diritto canonico, porta alla scomunica. La sanzione, accertata dalla congregazione per la Dottrina della fede nel maggio 2020, gli è stata revocata nello stesso mese dal dicastero vaticano, dopo che Rupnik ha riconosciuto il reato e – come ha rivelato il Papa in una recente intervista all’ Associated Press – ha versato un indennizzo alla vittima.

[…] Nel frattempo, nel 2021, sono emersi altri abusi compiuti da Rupnik quando era ancora in Slovenia, negli anni Novanta, in una comunità di suore. La Compagnia di Gesù ha svolto un’indagine e raccomandato alla Dottrina della fede di fare un processo penale, derogando ai termini di prescrizione, ma il dicastero vaticano, guidato da un altro gesuita, il cardinale Luis Ladaria, nello scorso ottobre ha deciso di non procedere.

[…] Il 2 dicembre, Verschueren fa affiggere nelle bacheche la notifica delle restrizioni imposte allo sloveno. Rupnik in quei giorni è all’estero, quando torna a Roma il superiore lo convoca. È la rottura. Il 19 dicembre, Verschueren invita online chiunque voglia fare denuncia a contattare un team istituito presso la Curia generalizia. Da allora si sono fatte avanti 15 persone, due uomini e tredici donne, che hanno fornito nuove testimonianze e denunce sugli abusi compiuti da Rupnik nell’accompagnamento spirituale e nell’attività artistica.

 «Testimonianze credibili », spiega padre Verschueren. Sono arrivate anche due testimonianze a difesa di Rupnik. Il quale, invitato a farlo, «non ha voluto o potuto » dire la sua. Adesso gli verrà data la possibilità di «fornire la sua versione dei fatti». […]

 I gesuiti non inoltreranno il dossier alla Dottrina della fede, perché non ci sono nuovi reati “sacramentali” come l’assoluzione in confessionale. Le eventuali denunce penali dipendono dalle vittime, dal sistema giuridico dei loro Paesi e dai relativi tempi di prescrizione. Ma scattano nuove sanzioni: a Rupnik sono vietate «attività ministeriali, attività pubbliche, viaggi fuori dal Lazio, ma anche l’attività artistica». […]

INCHIESTA SOSTENUTA DAI LETTORI - LA VIOLENZA NELLA CHIESA ITALIANA «Le nostre denunce su Rupnik e il muro di gesuiti e Vaticano». FEDERICA TOURN su Il Domani il 29 dicembre 2022

Ester (nome di fantasia), ex segretaria della madre superiora Ivanka Hosta, racconta le repressioni messe in atto nella Comunità Loyola e il silenzio con cui Marko Rupnik è stato protetto dai gesuiti e dalla Chiesa.

Le autorità ecclesiastiche oggi si dicono addolorate per le vittime e affermano di non essere state al corrente di fatti più volte segnalati negli anni. Un muro di silenzio che Ester ha subito sulla propria pelle.

La nuova testimonianza aggrava la posizione di Rupnik, noto teologo e artista gesuita, vicino a papa Francesco, al centro dello scandalo per abusi su diverse suore in Slovenia e a Roma.

Una nuova testimonianza aggrava la posizione di Marko Rupnik, teologo e artista gesuita vicino a papa Francesco, al centro dello scandalo per abusi sessuali su diverse suore. Dopo “Anna”, che ha rivelato a Domani le violenze che ha subito quando era una religiosa della Comunità Loyola, Ester (nome di fantasia), oggi 60 anni, all’epoca segretaria della madre superiora Ivanka Hosta, racconta le repressioni e il silenzio con cui Rupnik è stato protetto dai gesuiti e dalla chiesa. Cioè dalle stesse autorità ecclesiastiche che oggi si dicono addolorate per le vittime e affermano di non essere state al corrente dei fatti, in realtà più volte segnalati nel corso degli anni.

Quando è entrata nella Comunità Loyola?

Sono stata fra le prime: a Lubiana nel 1984 si era costituito un gruppo di quattro sorelle da cui tre anni dopo ha avuto origine la Comunità. Nel 1988 eravamo già in venti: allora avevo 25 anni e ho preso i voti perpetui insieme ad altre sei sorelle, fra cui la superiora Ivanka Hosta.

Qual era il rapporto fra Marko Rupnik, Ivanka Hosta e le sorelle della comunità?

Rupnik ci diceva che Ivanka aveva il carisma ma non lo sapeva trasmettere: solo lui poteva interpretare questo suo dono e trasmetterlo a noi sorelle. In questo modo costruiva un muro tra Ivanka e le altre suore della comunità, che non riuscivano a confidarsi con lei. Padre Rupnik le ha legate a sé e non ha permesso una relazione sincera tra Ivanka e le altre sorelle. Pian piano è diventato questo lo stile dei rapporti tra di noi.

Com’era la vita nella comunità slovena?

Io ho vissuto con grande gioia i primi cinque anni di vita in comune e pensavo che anche per le altre sorelle fosse lo stesso. Ero del tutto ignara della sofferenza nascosta e degli abusi che subivano alcune di loro. Tutto è cambiato nel 1989 quando, dopo gli studi di teologia, sono stata mandata a Roma a studiare diritto canonico e a lavorare alla Radio Vaticana. Qualcosa si è incrinato dentro di me. Credevo che il problema fosse la stanchezza o l’immersione in un nuovo ambiente, con altre abitudini, ma anni dopo ho capito che l’inizio del mio buio era dovuto a padre Rupnik. 

Quali ricordi ha rielaborato?

Già negli anni vissuti a Mengeš, in Slovenia, mi vietava di vivere l’amicizia profonda che avevo con una delle sorelle, dicendomi che era una dipendenza insana, un segno di egoismo; a Roma poi mi ordinò di tagliare del tutto i ponti con lei. Questa esperienza ha cambiato il modello delle mie relazioni: non c‘era niente di stabile nei rapporti che avevamo, non c’erano più amicizie. Non solo: padre Rupnik ci chiese di scrivere una lettera ai nostri genitori e alla nostra famiglia in cui comunicavamo che per un anno non avremmo più avuto nessun rapporto con loro: niente visite, lettere o telefonate. Io in particolare dovevo scrivere quanto fossi preoccupata per la loro salvezza, elencare i loro difetti all’origine di questa preoccupazione. La lettera mi sembrava troppo dura ma la sorella che doveva “approvarla” aggiunse anche altre cose, ancora più tremende. Ho dovuto spedire la lettera e ancora oggi porto in me il ricordo amaro del loro dolore.

Quando ha saputo degli abusi sessuali di Rupnik?

Nel 1993, quando ci sono state le prime denunce alla madre generale. “Anna” ha parlato di quello che era successo con padre Marko e prima di lei era andata da Ivanka l’altra sorella con cui Rupnik aveva avuto il rapporto a tre, a Roma. Da quel momento molte altre sono venute da me a dirmi che erano state abusate da Rupnik e io dicevo loro di rivolgersi a Ivanka, perché era la superiora. Erano anni che le vedevo piangere, già dal 1985, ma solo in quel momento ho capito il motivo, per me prima inimmaginabile.

Che cosa è successo quando “Anna” ha deciso di denunciare apertamente Rupnik alle autorità ecclesiastiche?

Rupnik è stato allontanato dalla comunità dall’arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar. Ricordo che io stessa ho avuto l’incarico di portare tutti i suoi quadri al Centro Aletti a Roma. Era furioso.

La superiora come spiegò la sua partenza?

Radunò le sorelle e disse che Rupnik era stato mandato via perché voleva impossessarsi del carisma della comunità e farsi passare da fondatore, ma noi del consiglio che le eravamo più vicine conoscevamo il vero motivo. Così come lo sapeva il vescovo Šuštar e padre Lojze Bratina, all’epoca provinciale sloveno dei gesuiti. A padre Bratina avevo raccontato tutto io stessa ma lui mi aveva risposto che non ci credeva.

Da quel momento che cosa è successo?

La comunità ha cominciato a funzionare come una vera e propria setta. Ivanka, credo per paura che la notizia degli abusi di Rupnik uscisse in qualche modo e compromettesse il futuro della comunità, ha taciuto e ha assunto con noi un atteggiamento totalmente repressivo e controllante. Non si dovevano più salutare gli amici di padre Rupnik o coloro che lo frequentavano, non si poteva più liberamente scegliere il confessore e neanche dirgli tutto. Veniva pure verificato che cosa avevamo detto in confessione e le risposte date dal confessore. La guida spirituale poteva essere soltanto una sorella della comunità: o era la superiora stessa o, con il suo permesso, un’altra sorella. Il contenuto della preghiera personale doveva essere condiviso con le altre e Ivanka si attribuiva il diritto di giudicare quando una preghiera era genuina e quando non lo era. La sorella che non pregava bene spesso doveva insistere in cappella finché non pregava come voleva Ivanka, altrimenti veniva segnalata come persona in crisi, il che era sempre considerato una colpa, una chiusura nei confronti di Dio. La libertà personale era quasi completamente azzerata. A causa di questo clima buio e minaccioso la comunità si è dimezzata: nel giro di pochi anni siamo uscite in 19, una addirittura è scappata dalla finestra.

Ci sono state reazioni da parte dei gesuiti o della chiesa in generale?

Nessuna. Non uno che si sia interessato, almeno ufficialmente, della separazione fra Ivanka Hosta e padre Rupnik e della successiva disgregazione della comunità. Nel 1998 sono andata in curia dai gesuiti e ho raccontato tutto di nuovo, stavolta al delegato per le case internazionali a Roma padre Francisco J. Egaña, ma ancora una volta non è successo niente. Dopo, per anni, ho vissuto con una grande ferita senza più avere rapporti con nessuna finché, prima del lockdown, ho incontrato una ex sorella che mi ha detto che la comunità era stata commissariata.

Che cosa ha fatto dopo essere uscita dalla Comunità Loyola?

Lavoravo già in un’università cattolica a Roma. Al momento delle mie dimissioni dalla comunità, Ivanka è andata dal mio superiore per chiedergli di sostituirmi con un’altra sorella: per fortuna si è rifiutato.

È in contatto con le sorelle che attualmente vivono nella comunità?

Con qualcuna. Molte hanno seri problemi fisici e psichici a causa delle violenze psicologiche e spirituali che hanno subìto. Alcune assumono farmaci che le devastano: una l’ho rivista a un funerale e non l’ho nemmeno riconosciuta, tanto era segnata dall’effetto delle medicine. Prima Marko e poi Ivanka sono riusciti a togliere loro quel poco di autostima che avevano.

Per appoggiare la denuncia di “Anna”, lo scorso giugno lei ha scritto una lettera sugli abusi di Rupnik indirizzata ai gesuiti e a diverse personalità della chiesa, dal prefetto del dicastero per la Dottrina della fede Luis Ladaria Ferrer al cardinale vicario del papa per la diocesi di Roma, Angelo De Donatis. Qualcuno le ha risposto?

Nessuno. E dire che molti di loro li conosco personalmente.

La Conferenza espiscopale slovena il 21 dicembre ha detto che prova «dolore e costernazione» per gli abusi, «rimasti ignoti per tanti anni». È così?

All’epoca tanti erano al corrente dei fatti, dal vescovo di Lubiana al provinciale dei gesuiti fino al fondatore del Centro Aletti, il teologo Tomáš Špidlík. Nemmeno oggi i vescovi sloveni possono dire che non sapevano: “Anna” ed io abbiamo spedito via Pec le nostre lettere anche all’attuale arcivescovo di Lubiana, Stanislav Zore, al provinciale sloveno padre Miran Žvanut e a padre Milan Žust, superiore della residenza della Santissima Trinità al Centro Aletti di Roma, che è anche il superiore di padre Rupnik. Non credevano che saremmo andate tanto avanti nella denuncia pubblica e hanno detto mezze verità per cercare di cavarsela.

Sia i vescovi sloveni che il cardinale De Donatis ora condannano gli abusi ma invitano a distinguere fra i peccati di Rupnik e ciò che ha espresso con la sua arte. Che cosa ne pensa?

L’arte è espressione di quel che lui insegna, riflette la sua personalità. Non si può dire che l’arte e il ministero sono due cose separate, Rupnik stesso ha sempre sottolineato che sono due elementi intimamente connessi. Finché la chiesa non capisce che l’essere abusatore di Rupnik è legato al suo essere artista, continuerà a minimizzare la gravità di quel che è successo.

FEDERICA TOURN. Giornalista indipendente di Torino. Si occupa di migrazioni, religioni, diritti umani, femminismi. Ha pubblicato reportage da diversi paesi per testate italiane e straniere; nel 2020 ha vinto la prima edizione del premio internazionale “Piazza Grande Religion Journalism Award”.

Federica Tourn per "Domani" il 20 dicembre 2022.

«La prima volta mi ha baciato sulla bocca dicendomi che così baciava l'altare dove celebrava l'eucaristia, perché con me poteva vivere il sesso come espressione dell'amore di Dio».

Inizia così della violenza sessuale, psicologica e spirituale che Anna (nome di fantasia), oggi 58 anni, ex religiosa italiana della Comunità Loyola, ha subito per nove anni da parte di Marko Rupnik. Il padre gesuita, teologo e artista noto in tutto il mondo, è oggi al centro di uno scandalo per l'accusa di abusi nei confronti di alcune suore, come Domani ha raccontato nei giorni scorsi.

Anna, arrivata a sfiorare il suicidio per le sofferenze causate dal delirio di onnipotenza e dall'ossessione sessuale del gesuita, ha denunciato più volte il suo abusatore nel corso degli anni. Ma la Chiesa ha sempre coperto tutto.

Quando ha conosciuto Marko Rupnik?

Nel 1985, avevo 21 anni e frequentavo la facoltà di Medicina. Pensavo di partire missionaria dopo la laurea e sentivo il bisogno di una crescita nella fede. Ero anche appassionata di arte e una suora che conoscevo mi presentò questo pittore gesuita che aveva un piccolo atelier in piazza del Gesù a Roma. Rupnik aveva dieci anni più di me ed era al primo anno di sacerdozio; con lui mi sentivo a mio agio ed è diventato subito la mia guida spirituale.

Che tipo di persona era?

Già negli anni '80 per i giovani gesuiti sloveni era una star. Aveva un forte carisma personale nello spiegare il Vangelo e una spiccata sensibilità nell'individuare i punti deboli delle persone. Così ha immediatamente capito le mie fragilità, le insicurezze e le paure che avevo.

Come è iniziato il vostro rapporto?

Ho cominciato a frequentare il suo atelier perché ero affascinata dalla pittura e in particolare dai colori di Chagall. Mi sentivo importante per lui: mi piacevano i suoi quadri e molto spesso parlavamo mentre dipingeva. Poi cominciò a sottolineare ogni contatto tra noi, dicendomi che ogni gesto aveva un significato preciso: anche una semplice stretta di mano o una carezza sul braccio diventavano un'occasione per sottolineare la mia femminilità. 

Non potevo certo immaginare che quella fosse già una strategia per arrivare ad avere ben altro tipo di rapporti fisici con me, come non potevo capire che quell'abbraccio dopo ogni confessione era un invito ad andare oltre. Allo stesso modo non potevo immaginare che allora, quando mi spiegava che i corpi disegnati sulle tavole del Kamasutra erano una forma d'arte, era già un assiduo frequentatore di cinema porno.

Non trovava niente di anomalo nel suo modo di fare?

A volte mi sembrava strano, ma me lo spiegavo con il suo essere artista. Voleva che gli facessi da modella e una volta mi ha chiesto di posare per un suo quadro perché doveva disegnare la clavicola di Gesù e non cercava delle ragazze “del mondo”, che esprimevano a suo dire solo sessualità, ma una persona in ricerca come me. 

Non è stato difficile accettare e sbottonare qualche bottone della camicetta. Per me, che ero ingenua e inesperta, significava soltanto aiutare un amico. In quell'occasione mi ha baciata lievemente sulla bocca dicendomi che così baciava l'altare dove celebrava l'eucarestia. 

Ero frastornata: da una parte sarei voluta scappare, dall'altra padre Marko mi incoraggiava dicendomi che potevo vivere quella realtà perché ero speciale ed era un dono che il Signore faceva solo a noi; che solo con me poteva vivere, anche nel fisico, l'appartenenza a Dio senza possesso, nella libertà, a immagine dell'amore trinitario. 

E lei gli ha creduto?

Bisogna capire come funziona il discernimento ignaziano (da sant'Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, ordine a cui appartiene papa Francesco, ndr): sei chiamato a una totale disponibilità e apertura ed è il tuo padre spirituale a guidarti nella comprensione di cosa è bene e cosa è male.

Se chi ti guida dice che Dio lo vuole e tu non obbedisci, ti metti contro Dio. È proprio lì che si può insinuare la manipolazione, come è successo con padre Rupnik. Io avevo paura di sbagliare, paura di perdere la sua approvazione, mi sentivo fortemente dipendente dal suo giudizio. 

Se non facevo come voleva lui, subito diceva che il mio cammino spirituale si arenava e mi presentava come “sbagliata” agli altri ragazzi e ragazze del gruppo che nel frattempo si andava formando intorno a lui. Soltanto padre Marko decideva chi andava bene e valeva la pena di supportare; chi invece era nell'errore veniva umiliato e messo in disparte.

Quando ha deciso di affidarsi totalmente alla guida spirituale di Rupnik?

Nell'estate del 1986, prima che lui partisse per un viaggio, ci siamo visti nel suo atelier. Abbiamo celebrato insieme l'eucarestia e poi lui si aspettava che mi spogliassi e mi lasciassi toccare come sempre. Quella volta però mi sono rifiutata e lui mi ha aggredita con parole molto dure e cattive, dicendo che non valevo niente, che non avrei mai fatto niente di buono; ha aggiunto che per lui ormai contavano solo altre due donne, di cui mi ha fatto il nome, e che voleva chiudere ogni rapporto con me. 

Io ero disperata perché ormai dipendevo totalmente dalla sua approvazione. Non era amore, solo paura di sbagliare. Da quella volta ho deciso di mettere da parte i miei dubbi e di affidarmi totalmente a lui.

Ho creduto che quello che vivevamo insieme avrebbe fatto di me una persona migliore davanti a Dio; invece è stato solo l'inizio dello stravolgimento della mia identità e della perdita di me stessa. 

Si è trattato quindi di un plagio?

È stato un vero e proprio abuso di coscienza. La sua ossessione sessuale non era estemporanea ma profondamente connessa alla sua concezione dell'arte e al suo pensiero teologico. Padre Marko all'inizio si è lentamente e dolcemente infiltrato nel mio mondo psicologico e spirituale facendo leva sulle mie incertezze e fragilità e usando al contempo il mio rapporto con Dio per spingermi a fare esperienze sessuali con lui.

Così, il sentirmi amata come la Sapienza che gioca davanti a Dio, come è scritto nel libro dei Proverbi, si è trasformato nella richiesta di giochi erotici sempre più spinti nel suo atelier al Collegio del Gesù a Roma, mentre dipingeva o dopo la celebrazione dell'eucaristia o dopo la confessione. 

Come è entrata nella Comunità Loyola?

Sono stata fra le prime sorelle della Comunità Loyola di Mengeš, una località a quindici chilometri da Lubiana, e ne ho fatto parte dall'1 ottobre del 1987 al 31 marzo 1994. In un periodo così delicato e fragile come è quello in cui si sceglie quale strada prendere nella vita, padre Marko ha preteso da me una disponibilità e un'obbedienza assolute, caratteristiche che erano anche un tratto distintivo del carisma della Comunità, di cui lui era il garante davanti alla Chiesa su incarico dell'allora arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar.

Padre Marko mi ha chiesto quindi di lasciare medicina e di partire per la Slovenia con la superiora, Ivanka Hosta, e altre sei sorelle. Isolata dalla mia famiglia e dai miei amici, è stato facile per Marko manipolarmi a suo piacimento. 

Che cosa è successo in Comunità?

Il primo gennaio 1988 ho professato nella cappella di Mengeš i primi voti religiosi davanti a monsignor Šuštar, voti che ho poi ripetuto nel 1991 nelle mani dello stesso arcivescovo. Gli abusi di padre Marko sono continuati e avvenivano in auto quando lo accompagnavo durante i suoi viaggi. 

È diventato più aggressivo: mi ricordo una masturbazione molto violenta che non sono riuscita a fermare e durante la quale ho perso la verginità, episodio che ha dato inizio a pressanti richieste di rapporti orali. La dinamica era sempre la stessa: se avevo dubbi o mi rifiutavo, Rupnik mi screditava davanti alla Comunità dicendo che non stavo crescendo spiritualmente.

Non aveva freni, usava ogni mezzo per raggiungere il suo obiettivo, anche confidenze sentite in confessione. Lì è cominciato il mio crollo psichico. 

Le violenze sono avvenute soltanto in Slovenia?

No, anche nella sua stanza del Centro Aletti a Roma. Qui padre Marko mi ha chiesto di avere rapporti a tre con un'altra sorella della Comunità, perché la sessualità doveva essere secondo lui libera dal possesso, ad immagine della Trinità dove, diceva, «il terzo raccoglieva il rapporto tra i due».

In quei contesti mi chiedeva di vivere la mia femminilità in modo aggressivo e dominante e dato che non ci riuscivo mi umiliava profondamente con frasi che non posso ripetere. L'ultimo gradino di questa discesa all'inferno è stato il passare dalle giustificazioni teologiche del sesso ad un rapporto esclusivamente pornografico. 

Nel 1992, mentre frequentavo il quarto anno di filosofia alla Gregoriana, mi ha anche portato due volte a vedere dei film porno a Roma, in via Tuscolana e nei pressi della stazione Termini. Ormai stavo malissimo. 

Rupnik abusava soltanto di lei o anche di altre donne?

In quel periodo padre Marko aveva cominciato apertamente a plagiare altre sorelle della Comunità, con le solite strategie psico-spirituali che già aveva usato con me, con l'obiettivo di fare sesso con quante più donne possibile. 

All'inizio degli anni '90 eravamo 41 sorelle e padre Rupnik, da quel che so, è riuscito ad abusare di quasi venti. A volte a caro prezzo: una di loro, nel tentativo di opporsi, è caduta e si è rotta un braccio. Lui era sfacciato e parlava apertamente delle sue tattiche per ammorbidire quelle che gli resistevano. Ho provato a fermarlo ma era inarrestabile nel suo delirio. L'ho anche minacciato di denuncia ma mi ha risposto: «Chi vuoi che ti creda? È la tua parola contro la mia: se parli, ti faccio passare per matta». 

Lei che cosa ha fatto?

A quel punto volevo soltanto che tutto finisse. Sono scappata dalla Comunità per lasciarmi morire nei boschi: speravo che quel gesto estremo avrebbe ricondotto padre Marko alla ragione.

Per fortuna, invece, è sopravvissuta. Lui come ha reagito?

L'ho affrontato accusandolo di falsità ma la sua unica reazione è stata il silenzio. Volevo anche parlare con la mia superiora Ivanka Hosta di quel che era successo ma in quel momento non ne ho avuto la forza e ho cercato invece di concentrarmi sulla tesi in filosofia, che ho discusso a giugno del 1993.

Nel frattempo, però, un'altra sorella si è rivolta a Hosta per raccontarle del devastante rapporto che padre Rupnik intratteneva sia con lei che con me.

Che cosa è successo a quel punto?

Padre Marko è stato provvisoriamente allontanato dalla Comunità per il periodo estivo. Ho chiesto allora di poter incontrare il consigliere spirituale di padre Rupnik, padre Tomáš Špidlík (poi creato cardinale diacono nel 2003 da papa Wojtyla, ndr), con la speranza di poter finalmente riuscire a dire a qualcuno quello che era successo in tutti quegli anni. 

L'ho raggiunto al santuario vicino a Livorno dove risiedeva durante l'estate e gli ho chiesto di confessarmi. Ho cominciato quindi a parlargli degli abusi e lui mi ha bloccata dicendo che quelle erano cose mie e che non voleva ascoltarmi.

Ero sconvolta, per un sacerdote rifiutare una confessione è un peccato grave. Non solo: mi ha consigliato di scrivere una lettera di dimissioni, lettera che ha poi scritto lui stesso e che conservo ancora, nella quale specificava che non c'erano motivi precisi per la mia richiesta di dispensa dai voti, soltanto una generica tensione che non ero più in grado di reggere.

A quel punto ho capito che era d'accordo con padre Rupnik e che non voleva essere coinvolto nello scandalo insieme al centro Aletti, di cui era ideatore e primo referente.

È stata aiutata da qualcuno in quel frangente?

Nessuno mi ha aiutata: né la superiora Ivanka Hosta, a cui alla fine mi ero rivolta, né le altre sorelle della Comunità. Nemmeno i gesuiti superiori di Rupnik e l'arcivescovo Šuštar. Padre Marko era protetto da tutti e io non ero altro che il capro espiatorio di una situazione imbarazzante, l'anello debole della catena che si poteva sacrificare per un bene superiore. 

Nel settembre del 1993 sono quindi rientrata a Mengeš con Ivanka come consigliera provvisoria, in attesa delle elezioni interne, previste per la Pasqua dell'anno successivo. Il clima di ostilità nei miei confronti era palpabile ma ricordo che una sorella, di cui ancora non sapevo nulla, è venuta in lacrime a confidarmi che padre Marko aveva abusato anche di lei.

Nessuna però osava parlare apertamente e vivevamo in un clima di omertà. Prima di Pasqua fu organizzato un incontro fra padre Marko, Ivanka Hosta e l'arcivescovo per affrontare finalmente la questione: avrei dovuto partecipare anche io ma all'ultimo momento la superiora me lo impedì. Io scrissi una lettera di denuncia che lei avrebbe dovuto consegnare all'arcivescovo ma non so neppure se monsignor Šuštar l'abbia mai ricevuta. Hosta comunque non disse nulla contro Rupnik, l'altra sorella abusata rifiutò di scrivere una testimonianza e tutto finì in un nulla di fatto. Quel che è certo è che proprio in quel periodo le costituzioni della Comunità erano in Vaticano pronte per l'approvazione. 

Rupnik non è stato sanzionato in nessun modo?

È stato allontanato dalla Comunità ed è tornato a Roma e da allora ha continuato tranquillamente la sua carriera. 

E lei?

Ivanka mi aveva destinata a lavorare in cucina a Mengeš per il resto della mia vita, senza nessuna prospettiva di cambiamento. Ho obbedito, anche se in cuor mio pensavo che sarei morta. 

Poco tempo dopo, alla vigilia delle elezioni interne, durante la condivisione comunitaria ho provato ancora a denunciare il malessere profondo che era alla base delle nostre relazioni ma la superiora mi ha estromessa dalle votazioni dicendo che ero pericolosa perché sotto l'influenza del diavolo. Il giorno seguente ho lasciato definitivamente la Comunità. 

Dopo che cosa è accaduto?

Anni dopo Ivanka mi ha scritto chiedendo perdono a me e alla mia famiglia, a cui era stato detto che ero schizofrenica. Dopo le dimissioni ho sofferto a lungo di depressione e anche in seguito non sono riuscita ad avere una relazione affettiva e a costruirmi una famiglia.

L'abuso che ho subito ha sconvolto profondamente la mia psiche e lasciato segni indelebili nello spirito e nel corpo, che mi hanno impedito di fare scelte significative.

Arriviamo ad oggi. Da quando il caso è uscito sui giornali, i gesuiti si sono espressi in modo reticente e contraddittorio. In particolare il delegato della Compagnia di Gesù a Roma padre Johan Verschueren ha detto che Rupnik non è accusato di abusi sessuali ma di “comportamenti trasgressivi” durante la confessione. È possibile che i gesuiti non sapessero delle accuse?

No, non è possibile. La Chiesa e l'ordine dei gesuiti erano a conoscenza dei fatti sin dal 1994, quando ho portato personalmente la mia richiesta di dispensa dei voti all'arcivescovo di Lubiana, nella quale denunciavo gli abusi da parte di padre Rupnik.

L'arcivescovo in quell'occasione mi disse soltanto che la Compagnia di Gesù lo aveva sanzionato severamente, cosa poco credibile visto che in quegli anni nasceva e si consolidava l'operato del Centro Aletti. Non solo: anche un'altra sorella, uscita dalla Comunità Loyola nel 1996, non direttamente coinvolta nella relazione con padre Marko ma informata dei fatti, parlò nel 1998 con padre Francisco J. Egaña, all'epoca delegato per le case internazionali della Compagnia di Gesù a Roma, che la ascoltò ma non fece nulla.

Il preposito, cioè il capo della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal, ha confermato che Rupnik è stato scomunicato, in seguito a una denuncia del 2019, per aver assolto in confessione una donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale. Che effetto le fa questa ammissione?

Mi addolora profondamente, perché conferma la convinzione che ho sempre avuto, e cioè che padre Marko ha continuato ad abusare delle donne che ha incontrato durante tutto questo tempo. Andava fermato trent'anni fa. Sono sconcertata per il fatto che Rupnik ancora non avverta la responsabilità delle conseguenze che le sue azioni hanno avuto sulla mia vita e su quella di tante altre consorelle che potrebbero parlare. 

Nonostante questo, il Dicastero per la Dottrina della fede ha chiuso ad ottobre 2022 un'indagine ecclesiastica su Rupnik perché ha ritenuto che i fatti erano da considerarsi prescritti. Lei è stata ascoltata in questa occasione?

Sì, ho testimoniato il 10 dicembre 2021 e ho raccontato tutto quello che ho subìto nei minimi dettagli. 

Dopo la sua testimonianza al Dicastero, che cosa è successo?

Dato che per mesi non ho più saputo nulla dell'esito dell'indagine ecclesiastica, lo scorso giugno ho scritto una lettera aperta in cui ho ripetuto la mia denuncia contro padre Rupnik, indirizzata al generale dei gesuiti padre Sosa. In copia c'erano, tra gli altri, il cardinale Luis Ladaria, prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis, padre Johan Verschueren, padre Hans Zollner, la direttrice del Centro Aletti Maria Campatelli e altri membri della Compagnia di Gesù e del Centro Aletti. Non ho avuto risposta da nessuno di loro. 

Pensa di chiedere un risarcimento in sede civile per i danni morali e materiali?

Sto valutando con il mio avvocato questa possibilità.

Battesimo, le origini della parola in un latino imbevuto di cristianesimo. Massimo Arcangeli su Libero Quotidiano il 14 novembre 2023

Battesimo è uno dei numerosi vocaboli provenienti da un latino imbevuto di cristianesimo che non ha mancato di influenzare l’italiano delle origini. Alla sua base c’è il termine ecclesiastico baptismum, documentato in Tertulliano – autore di un organico trattato sull’argomento (De baptismo) – e disceso dal greco neotestamentario baptismós.

Nulla da eccepire, per il Dicastero per la dottrina della fede, sulla possibilità per un transessuale o un omosessuale di far da padrino (o da madrina) in un battesimo, e per due persone omoaffettive di poter risultare genitori di un bambino da battezzare. Questa la risposta – controfirmata dal Papa – del prefetto della congregazione, monsignor Víctor Manuel Fernández, a una lettera di un vescovo brasiliano.

Il prelato, José Negri, aveva chiesto di essere illuminato al riguardo. Sembra che il “raddoppio”, quando parliamo di nomi di battesimo, faccia guadagnare ciò che si guadagna coi cognomi: un supplemento di fortuna.

Stando a un’inchiesta condotta anni fa da due psicologi sociali, Wijnand A. P. van Tilburg, dell’università di Southampton, ed Eric R. Igou, dell’ateneo di Limerick, i bambini con un doppio nome sarebbero destinati a un fulgido avvenire: nella percezione delle persone la loro condizione economico-sociale, la loro presa sugli altri e la loro cultura, le loro facoltà psichiche e intellettuali risulterebbero migliori di quanto siano realmente.

Nel sondaggio i due studiosi chiesero a un campione di studenti universitari di esprimere un giudizio su un testo, il cui argomento era la teoria della relatività, indicandone il nome dell’autore in forme ogni volta diverse: David Clark, David F. Clark, David F. P. Clark, David F.

P. R. Clark. L’articolo valutato di qualità più alta fu quello a firma David F. Clark, il giudizio peggiore toccò invece al semplice David Clark. Molto meglio dunque un Guido F. Rossi, un Luca A. Bianchi o un Franco V. Neri di un Guido Rossi, un Marco Bianchi o un Luca Neri. Fa la differenza quella lettera puntata, necessaria e sufficiente – una va bene, due sono troppe – a garantire al portatore del doppio nome un quarto di nobiltà. O di distinzione.

La dottrina della fede, i registri battesimali e la mancata risposta sui bimbi nati da utero in affitto. La mancata risposta del dicastero per la dottrina della fede ad una precisa domanda sui registri battesimali apre scenari inaspettati. Nico Spuntoni il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Padrini e madrine omosessuali? C'erano anche prima

 Il battesimo e l'utero in affitto

 Il dicastero contraddice se stesso

A chi pensava che l'avvicendamento al dicastero per la dottrina della fede non avrebbe comportato alcun cambiamento sono bastati pochi mesi per ricredersi. Il cambio di rotta con l'approdo del cardinal Víctor Manuel Fernández al Palazzo del sant'Uffizio c'è stato ed è sotto agli occhi di tutti. Non solo in termine di stile per la loquacità del nuovo prefetto con i giornalisti, ma anche per il contenuto dei documenti che escono da quello che è stato per secoli il dicastero più importante della Curia. Dopo aver adottato la risposta del Papa ai dubia dei cardinali Walter Brandmüller, Raymond Burke, Juan Sandoval Íñiguez, Robert Sarah e Joseph Zen - con quest'ultimo convinto che li abbia ispirati proprio il nuovo prefetto - ed aver risposto a quelli sulla comunione ai divorziati risposati avanzati dal cardinale Dominik Duka, Fernández ha conquistato l'attenzione di tutto il mondo con la diffusione di un nuovo documento, approvato dal Papa, che dà il via libera al battesimo delle persone transessuali e dei bambini di coppie omosessuali, anche se nati attraverso la pratica dell'utero in affitto e all'accettazione di persone transessuali ed omosessuali conviventi come padrini o madrine. Lo ha fatto nelle risposte fornite ad alcune domande inviate al suo dicastero da monsignor José Negri, vescovo di Santo Amaro, sulla possibile partecipazione ai battesimi e ai matrimoni di persone transessuali e omosessuali.

Padrini e madrine omosessuali? C'erano anche prima

Il documento del dicastero, approvato dal Papa al termine di un'udienza del 31 ottobre, ha delle novità importanti e che hanno suscitato proteste pubbliche e private all'interno della Chiesa. Ma, a dispetto dei titoli, non è una novità che un omosessuale possa fare il padrino o la madrina di battesimo. Anche prima delle risposte di Fernández alle domande di monsignor Negri, infatti, la Chiesa non discriminava gli uomini e le donne con tendenze omosessuali. Il codice di diritto canonico, a proposito dei padrini, stabilisce tra i requisiti per colui che è ammesso all'incarico che "sia cattolico, abbia già ricevuto la confermazione e il santissimo sacramento dell'Eucaristia, e conduca una vita conforme alla fede". Dunque, da sempre può fare il padrino o la madrina una qualsiasi persona omosessuale che conduca una vita retta, rimanendo continente. Chi convive non può essere padrino o madrina a prescindere dalla tendenza omosessuale perché questa viene giudicata una condizione non coerente con la missione che è chiamato ad assumere. Il gesuita Francesco Bersini in uno scritto di fine anni Settanta sull'ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti e anche al ruolo di padrini, spiegava d'altra parte che "i sacramenti sono stati istituiti da Cristo ed affidati alla Chiesa, perché essa li custodisse e li amministrasse, ma non secondo la propria volontà" e che quel 'no', che nulla ha a che vedere con l'accoglienza pastorale, lo motiva con la "fedeltà a Cristo e non a un vuoto legalismo". Il Catechismo si pronuncia chiaramente sulle persone con tendenza omosessuale, insegnando che "devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza" e condannando "ogni marchio di ingiusta discriminazione".

Il battesimo e l'utero in affitto

Le domande di monsignor Negri presentano una realtà che esiste nella società odierna ma non sempre ottengono risposte univoche. Ad esempio, il vescovo brasiliano chiede come "le persone omoaffettive possono figurare come genitori di un bambino, che deve essere battezzato, e che fu adottato o ottenuto con altri metodi come l’utero in affitto". Dal dicastero di Fernández non arriva una risposta ma si ribadisce soltanto che "perché il bambino venga battezzato ci deve essere la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica". Quello che però Negri voleva sapere era chiaro: gli omosessuali che formano una coppia con un bambino adottato o ottenuto tramite la pratica dell'utero in affitto possono essere inseriti entrambi come genitori nel registro battesimale? Se il dicastero per la dottrina della fede preferisce lasciare in sospeso la domanda, limitandosi ad affermare - come è sempre stato anche nei casi di figli di coppie non sposate - quanto già previsto dal diritto canonico e cioè che è lecito battezzare il bambino se c'è la "fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica" , c'è chi ha già elaborato delle linee guida. E' il caso delle Orientações pastorais e canônicas della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile in cui si afferma - come spiegato dal canonista don Marcio Fernando França in un lavoro scientifico dedicato proprio a questo tema - che "non sarà lecito adottare la terminologia utilizzata dal diritto civile quando contraria al Diritto divino". La risposta che i vescovi brasiliani è quindi 'no', non si possono trascrivere entrambe le persone dello stesso sesso come genitori nei registri battesimali. Ma la Conferenza nei suoi orientamenti propone delle soluzioni: si propone, infatti, di utilizzare il termine di "adottanti" e di aggiungere, laddove compaiono nel registro civile, i nomi dei genitori biologici. Quindi la Conferenza - di cui lo stesso Negri fa parte - invita ad utilizzare "differenze terminologiche tra i registri civili ed ecclesiastici" sulla base di quanto sostenuto dal canonista don José San José Prisco per il quale "in nessun caso il nome di due padri o di due madri dello stesso sesso deve essere scritto nel libro dei battesimi".

Il dicastero contraddice se stesso

Una delle risposte a monsignor Negri, invece, contraddice quanto affermato in un documento uscito dallo stesso dicastero solamente solamente otto anni fa. Infatti, Fernández risponde che “a determinate condizioni, si può ammettere al compito di padrino o madrina un transessuale adulto che si fosse anche sottoposto a trattamento ormonale e a intervento chirurgico di riattribuzione di sesso”. L’allora congregazione per la dottrina della fede, rispondendo alla stessa domanda avanzata dal vescovo di Cádiz e Ceuta monsignor Rafael Zornoza Boy, aveva sentenziato “l’impossibilità che sia ammessa” quest’opzione motivandola col fatto che “lo stesso comportamento transessuale rivela pubblicamente un atteggiamento contrario all’esigenza morale di risolvere il proprio problema di identità sessuale secondo la verità del proprio sesso” e dunque ritenendo “evidente che questa persona non ha il requisito di condurre una vita secondo la fede e l'incarico di padrino e non può quindi essere ammessa all'incarico di madrina o padrino”. Questa interpretazione viene confermata anche in un lavoro scientifico del 2016 del canonista argentino don Javier E. González Grenón sul tema coerenza tra fede e vita per essere padrini di battesimi o cresime. Nell'articolo, entusiasta per Amoris laetitia, il canonista cita proprio la risposta a monsignor Boy ed osserva che "è chiaro che chi ha una sessualità disordinata, non essendo conforme con la fede e la morale che ciò implica, non dovrebbe essere padrino". Nelle conclusioni che fanno appello al discernimento del pastore proprio sulla base di Amoris laetitia, Grenón riconosce però che "ci sono condizioni che escludono automaticamente un credente dalla possibilità

di fare il padrino o la madrina" e vi include anche i transessuali.

Nel giro di otto anni, nell’arco dello stesso pontificato, il dicastero chiamato a custodire l’ortodossia cattolica ha fornito due risposte diverse alla stessa domanda. Una circostanza che inevitabilmente potrebbe provocare confusione.

La confessione e il suo disagio. Il mistero su come si resta cristiani. ELISA FUKSAS su Il Domani il 5 dicembre 2023

Un prete mi ha detto che “peccato” viene dal greco hamartia e significa mancare il bersaglio nel tiro con l’arco. Questo sacramento è un modo per riaccendere una combustione, far ripartire un dialogo, più sommesso

Se qualcuno mi avesse detto che a un certo punto sarei stata invitata alla Penitenzieria apostolica (che fino a ieri non avevo idea di cosa fosse), non ci avrei creduto. Come però non avrei creduto praticamente a niente di quello che è la mia vita, compreso il fatto di innamorarmi, battezzarmi a 37 anni, incontrare persone orrende e straordinarie, diventare grande, a un certo punto magari morire, eccetera. E così a maggio ricevo la proposta di partecipare al seminario “Celebrare il sacramento della confessione oggi” organizzato proprio dalla misteriosa Penitenzieria apostolica. Superate sorpresa e lusinga, ecco la sindrome dell’impostore (o impostora?). Perché proprio io? Davanti a teologi, che posso dire di non già detto? Pentendomi, appunto, ho accettato.

Eccomi oggi in pieno scirocco che salgo le scale del palazzo della Cancelleria, sede del tribunale della misericordia. Penso che dovrei tornare a casa, mentre guardo il cortile magnifico – ci sono anche la Sacra Rota e la Segnatura apostolica – perché ho accettato? Incrocio qualche suora, un paio di preti giovani, poi vedo gli altri che parleranno, come me: religiosi, una ragazza con i capelli inzeppati sotto il velo, un signore laico con la faccia da prete, e io? Piena di vanità, il serpente e la fede tatuati sulle dita, i capelli lucidi, il rossetto. I jeans attillati. Che c’entro? Nella sala affrescata, immensa, le virtù cardinali mi fissano dall’alto. Mi siedo, inizio a parlare.

LA PRIMA VOLTA

«La prima volta che mi sono confessata è andata malissimo. È successo parecchio tempo dopo il mio battesimo in una gigantesca basilica romana; pensavo che confondermi tra turisti e pellegrini fosse il modo migliore per avvicinarmi all’incontro con il perdono. Avevo aspettato tanto perché mi pareva inaccettabile pareggiare i conti con questa e ogni dimensione semplicemente raccontando i miei “peccati” a uno sconosciuto. E poi non volevo cancellare i miei errori e non so perdonare; esistono la cattiva memoria e l’oblio. Non mi serviva altro.

Dopo il mio iniziale imbarazzo: buongiorno? C’è qualcuno? E il tentativo scocciato del prete di spiegarmi la formula giusta, gli ho raccontato la mia vita dal battesimo in avanti. E poi lui: va a messa il giovedì e non la domenica, fa sesso fuori dal matrimonio, ma secondo lei Dio è contento? E allora abbiamo iniziato a litigare. A dire la verità ho iniziato io. È a causa di persone come lei che le chiese sono vuote.

Poi gli ho fatto notare che se riduciamo il Mistero a una questione morale, allora viene meno il senso di tutto. Sono scappata via pensando che potevo credere in Dio senza confessarmi: non mi sarei mai più messa in una situazione così umiliante. Eppure sapevo che quella scena l’avevo voluta io. Avevo ridotto un sacramento a un individuo, in più odioso. Invece dovevo parlare direttamente con quello che rappresentava, di cui era un simbolo, e usare la liturgia per assicurarmi il dialogo, altrimenti muto, con il Mistero.

Con un Dio che così si mostra a noi tutti vivente. Per fortuna noi umani siamo incomprensibili e per una serie di reazioni e incontri e ripensamenti, ho cambiato idea, basilica e soprattutto confessore. E così ho scoperto il potere di questa relazione, che Jung definiva “l’anticamera della psicanalisi”.

Ma, a ripensarci oggi, la vera difficoltà di quella prima volta e poi di sempre era il racconto. Quale storia raccontare al prete, o scrivere, o trasformare in film? Come faccio a scegliere i fatti giusti (che in questo caso sono quelli sbagliati)? E quali fatti-azioni-intenzioni oggi possiamo chiamare peccati? Peccare è ancora trasgredire i dieci comandamenti o anche altro, che ha a che fare con l’uomo contemporaneo, i suoi problemi, i pericoli che incontra, la salvezza che sfiora, desidera e ripudia.

LA FRECCIA

Un prete mi ha detto che “peccato” viene dal greco hamartia, e significa “mancare il bersaglio” con il tiro con l’arco. Niente a che fare con il latino peccatum che evoca un errore di altra natura, pieno di colpa. Oggi, però, quello che mi pare il mio vero peccato è la poca fede nel senso che dovrebbe appartenere cose e persone, le nostre azioni, relazioni, sentimenti, quindi anche le nostre opere, e non dovrebbe, nella mia idealizzazione infantile e insopportabile, avere a che fare con il nostro successo – il dispiegarci nel mondo secondo i criteri del mondo – ma solo con il nostro talento di esseri umani.

Dal mio battesimo in poi è successo di tutto, pandemia, guerre, malattie mie e di persone vicine. In questa antologia di sciagure, a un certo punto c’è stata una bella notizia: dovevo girare il film tratto dal mio romanzo Ama e fai quello che vuoi, la storia (anche) della mia conversione.

Ma il film non trovava la sua forma. Mi pareva sbagliato ripetere cose già dette; pura vanità. Finché, dopo infiniti tentativi, io e la sceneggiatrice eravamo riuscite ad aggiornare il libro. La vita era andata avanti, per fortuna: quindi non più come si diventa cristiani, ma come si resta cristiani nel tempo e sé stessi (anche all’interno di un’istituzione discutibile come la chiesa). Il film era il racconto della prima confessione della protagonista, e iniziava con questa battuta (da niente): “Non sono più sicura di credere in Dio, è un peccato, no?”

Nel tempo sono diventata amica di un giovane prete che è diventato il mio confessore. Spesso al bar ha imposto le mani sopra la mia testa per lasciarmi raccontare “i miei peccati”. La volta in cui mi sentivo “meno cattiva”, con meno miserie, mi sono sentita anche meno “fedele”, meno innamorata. Come se la relazione (anche con Dio) fosse diventata tiepida. Allora quale era il vero peccato? Quelli che avevo raccontato o questa sensazione, quest’abitudine a una “cosa” cui avevo promesso di non abituarmi mai?

Mi aveva assolto senza penitenze (sempre riflessioni, mai preghiere). Io però sapevo che la mia vera penitenza era stata ascoltarmi parlare di quest’amore sbiadito, quest’ardore annoiato. La confessione è un modo per riaccendere una combustione, far ripartire un dialogo, più sommesso o più chiassoso, tra le cose e il resto, tra questo mondo e tutto l’invisibile da cui è circondato.

IL MISTERO

E allora ecco che la Riconciliazione, in cui si inverte il rapporto causa-effetto e si rimette in piedi una cosa crollata, permette di tornare al momento prima della rottura della relazione, qualunque sia, compresa quella tra noi e il Mistero di Dio. In qualche modo si riavvolge il nastro, ma non è ipocrisia. L’errore non si annulla, ma smette solo di essere un ostacolo e si trasforma in storia.

D’altronde l’irreversibilità è tipicamente umana. Il tempo ha una freccia, la forza di gravità ha una freccia, i nostri anni, le nostre giornate, la nostra faccia che invecchia eccetera. C’è però una strana cosa che è la reversibilità che concede la grazia del Mistero. Ed è questa per me la vera Riconciliazione, il rinnovamento di un patto: continuare a fare un discorso anche quando non hai voglia di ascoltare, non interrompere la costruzione del mondo.

Non sono più sicura di credere in Dio, è un peccato, no? Ecco, sono certa che qualcuno risponderà con le parole che mi ha detto un cardinale: puoi non essere più sicura di credere in Dio, ma Dio però non smette di credere in te. Certo, a volte questa fiducia, sguardo benevolo su noi e tutto, sembra impossibile.

Proprio come impossibile sembra l’eternità, punto di fuga di ogni rappresentazione del mondo, fuori dall’immagine ma necessario alla costruzione di quella stessa immagine. E di quel mondo che poi è il nostro. E la cosa che mi sconvolge ogni volta, è che tutto questo, che è un universo di libertà e dolore, di inadeguatezza e compimento, d’amore, passa sempre per la parola. Nostra e non solo. Grazie».

Che c’entro in questo seminario? Non lo so. C’entro qualcosa? Forse, no, sì? Dopo di me hanno parlato signori austeri ed entusiasti, pieni di dolore, con storie enormi e tristissime. Mi sono sentita fuori posto e nel posto giusto, ho desiderato scappare, chiedere scusa, impormi e pure sparire. Ma alla fine il reggente della Penitenzieria mi dirà grazie. E io: mi rendo conto dell’anomalia che sono. E lui: Grazie proprio per quella. Tutto brilla in questa stanza. Non lo vede?

ELISA FUKSAS.  Regista e scrittrice. Dopo i primi cortometraggi, tra cui Please leave a message con cui si aggiudica nel 2007 il Nastro d'Argento, gira il documentario L'Italia del nostro scontento insieme a Francesca Muci e Lucrezia Le Moli. Tra gli altri documentari: Black Mirror. A journey with Mat Collishaw e ALBE, A Life Beyond Earth. Il suo primo film è Nina del 2012. Nel 2019 ha diretto “The App” per Netflix. Ha pubblicato La figlia di (Rizzoli Editore), Michele, Anna e la termodinamica (Elliot) e nel 2020 Ama e fai quello che vuoi (Marsilio).

Nella Bibbia non c’è traccia di queste rinunce.  Da prete sono per i matrimoni dei sacerdoti: amare non è peccato e le vocazioni aumenterebbero. Chi ama dice Sant’Agostino “non pecca”. Il farsi prete non sarebbe il rifugio di molti “disturbati sessuali” ma aiuterebbe la qualità e la santità della vita sacerdotale. Don Luigi Merola su Il Riformista il 26 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sul matrimonio dei preti, le donne diacono e la benedizione coppie gay. Favorevole don Luigi Merola, parroco anticamorra di Napoli, secondo cui “non ci sarebbero tutti questi scandali e poi nella Bibbia non c’è traccia di queste rinunce”. Contraria suor Anna Monia Alfieri. “La Chiesa si è sempre riconosciuta nei dettami attuali, espressioni del Signore” sottolinea. 

Qui il commento di don Luigi Merola 

Mi sono sempre chiesto già in Seminario minorile e poi successivamente a quello maggiore, nel lontano 1986, da seminarista, perché un giovane deve amare solo Dio e non amare pure una famiglia? Perché il prete cattolico, unico al mondo nella religione monoteista, non si deve sposare? Perché non deve sentire la gioia di essere chiamato papà? Dove troviamo scritta questa rinuncia? In quale libro sacro?

Nella Bibbia, parola di Dio, come da piccoli ci hanno insegnato, non c’è traccia di questo argomento o meglio di questa rinuncia; mentre nella vita quotidiana sia in campo pedagogico sia in quello psicologico ci dicono che l’uomo, maschio e femmina, Dio li creò perché si amassero e stessero assieme. Infatti, la Bibbia, fin dal suo primo libro, Genesi, dice che “Dio li creò maschio e femmina e li creò perché stessero assieme”; e lo stesso Gesù, nel vangelo guarisce la “suocera di Pietro” e ancora leggiamo che “molte donne seguivano gli apostoli”.

Dagli studi di analisi all’interno della Chiesa Cattolica, realizzati in questi anni sulla spinta anche dai vari Papi, da Giovanni XXIII al nostro caro Francesco, si legge che “nei nostri seminari abbiamo avuto molti seminaristi, diventati poi preti, e che con il passar degli anni si sono dichiarati omossessuali. C’è una percentuale altissima di ecclesiastici, che hanno anche il potere decisionale, di far parte di quello che papa Francesco definisce “lobby gay”.

Premetto che non ho nulla contro i gay, ma non possono e non devono trovare nel sacerdozio il “rifugio” per poi nascondersi e coprire quello che è la loro scelta di vita sessuale. Aprire il matrimonio ai preti aiuterebbe non solo le vocazioni che sono ormai al minimo storico, ma aumenterebbe la qualità della vita pastorale come succede in America e nel nord Europa, e porterebbe una diminuzione degli scandali.

Il farsi prete non sarebbe il rifugio di molti “disturbati sessuali” che vedono il sesso come peccato e come la porta dell’inferno, ma aiuterebbe la qualità e la santità della vita sacerdotale. La Chiesa Cattolica è l’unica al mondo ad avere ogni giorno scandali che hanno al centro il disordine sessuale dei suoi preti. La donna aiuterebbe il suo uomo ad essere sempre più immagine e somiglianza di Dio. L’amore è il secondo nome di Dio leggiamo nel Vangelo di Giovanni. Dio è Amore, è comunione, non è solitudine. Il prete, alla domenica, finita la messa davanti a 500 persone, si ritira in canonica, tutto solo e lui solo!

A questo si aggiunge poi l’alto numero dei preti anziani in pensione senza nessuna cura. Mancano le case del clero in tutte le 104 diocesi di Italia. Ne abbiamo pochissime. La famiglia del prete, moglie e i suoi figli aiuterebbero negli anni in cui le forze vengono meno, ad essere ancora “utili” alla Chiesa, invece di essere abbandonati. Sono anche favorevole al diaconato delle donne. Nella storia della Chiesa sempre la donna ha avuto un ruolo importante. Le diaconesse sono sempre esistite e solo nel corso dei secoli, con gli ultimi Concili, la donna ha perso il suo ruolo. Fa bene Papa Francesco nel Sinodo che si terrà dal 4 al 29 ottobre, “Per una Chiesa sinodale” a dare una maggiore importanza alla donna nella Chiesa.

Infine, se sono d’accordo con la benedizione di due persone che si amano dello stesso sesso? Sì, chi ama dice Sant’Agostino “non pecca”. E parlo di benedizione e non di sacramento, perché il sacramento richiede preparazione e maturità. La Chiesa deve cambiare, si deve convertire, altrimenti rischia, e lo vediamo ogni domenica, di essere isolata e di non parlare più al mondo. Chiese aperte fino a sera tardi, non come “negozi”, non come musei a pagamento; chiese spalancate con le sue attività ludiche-ricreative come era l’azione cattolica, a favore dei disagiati, degli ultimi, dei minori e dei giovani che nelle nostre città diventano manovalanza della camorra, della mafia, del malaffare, e quasi sempre al centro del degrado e della povertà culturale.

La Chiesa deve ritornare a splendere, non solo della luce di Cristo, ma della sua credibilità. Altrimenti fra cent’anni finirà negli scandali e non avrà più il tempo di annunciare Cristo e il suo messaggio salvifico. La Chiesa fra pochi anni chiuderà non solo le parrocchie, ma anche le diocesi perché mancheranno donne e uomini di qualità e staremo dietro alle tante storie perverse che i giornali racconteranno ogni giorno affinché qualcuno sani l’insanabile che quasi sempre ha come tema gli ecclesiastici che si macchiano di gravi crimini.

Don Luigi Merola

 Contraria agli eccessi del Pride. No al matrimonio dei preti: in caso di incendio salverebbero figlio o altro ragazzo? Il celibato richiama amore più grande. Suor Anna Monia Alfieri su Il Riformista il 26 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sul matrimonio dei preti, le donne diacono e la benedizione coppie gay. Favorevole don Luigi Merola, parroco anticamorra di Napoli, secondo cui “non ci sarebbero tutti questi scandali e poi nella Bibbia non c’è traccia di queste rinunce“. Contraria suor Anna Monia Alfieri. “La Chiesa si è sempre riconosciuta nei dettami attuali, espressioni del Signore” sottolinea. 

Qui il commento di Anna Monia Alfieri

Preti sposati, diaconato femminile, benedizioni delle coppie omosessuali sono temi delicati che, sempre più spesso, diventano oggetto di sterili polemiche e di contrapposizioni ideologiche. Temi “caldi” che accendono spesso dibattiti che volutamente non guardano alla verità e non rispettano le persone coinvolte. Il celibato ecclesiastico è una prassi della Chiesa cattolica Latina, nella della Chiesa Cattolica Orientale. A quale principio si ispira questa prassi? All’amore indiviso di Cristo.

Il sacerdote, è bene ricordarlo, nell’esercizio del proprio ministero è alter Christus e, come Cristo ha amato i suoi discepoli sino alla fine, così, con lo stesso cuore, il sacerdote è chiamato ad amare il gregge che è affidato alle sue cure pastorali. Esempio che forse potrà sembrare banale: se scoppiasse un incendio in un oratorio, il sacerdote sposato con figli chi salverebbe? Il proprio figlio o un altro ragazzo? Il celibato è, dunque, profezia, nella misura in cui esso richiama un amore più grande; ancora il celibato è libertà, è indipendenza da ogni legame terreno, è segno di dominio di sé che è presupposto e garanzia della vera libertà. Il tema del diaconato femminile è un altro tema che spesso è affrontato in un’ottica divisiva.

Gesù Cristo ha scelto i suoi apostoli, non ha certo impedito che le donne lo seguissero. Sin dall’inizio uomini e donne hanno avuto ruoli e compiti diversi all’interno della Chiesa. Questa diversità di ruoli esprime la diversità che caratterizza l’essere uomo e l’essere donna. Sul tema ritengo che quanto scritto nel documento a proposito di alcuni dubbi circa il carattere definitivo della dottrina di Ordinatio sacerdotalis, emanato dalla Congregazione per la dottrina della fede e firmato dal card. Ladaria risolva in modo chiaro e definitivo la questione: “Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini. La Chiesa si è riconosciuta sempre vincolata a questa decisione del Signore, la quale esclude che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne. Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis, del 22 maggio 1994, ha insegnato, «al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa» e «in virtù del [suo] ministero di confermare i fratelli» (cf. Lc 22, 32), «che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4). La Congregazione per la Dottrina della Fede, in risposta ad un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che si tratta di una verità appartenente al deposito della fede (…). In primo luogo, per quel che riguarda il sacerdozio ministeriale, la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla «sostanza del sacramento» dell’Ordine (cf. DH 1728). La Chiesa non ha capacità di cambiare questa sostanza, perché è precisamente a partire dai sacramenti, istituiti da Cristo, che essa è generata come Chiesa”.

Da ultimo, la benedizione alle nozze gay. Anche su questo fronte occorre fare chiarezza. Certamente sono contraria a qualsiasi forma di discriminazione nei confronti delle persone omosessuali, così come ritengo che l’omosessualità non sia né una malattia né una deviazione. Con pari certezza, però, chiarisco che non condivido tutte quelle forme irrispettose ed eclatanti di manifestazione per rivendicare diritti: mi riferisco agli eccessi che si vedono in occasione dei diversi gay pride. Ciò che può offendere la sensibilità di molti non può essere da me condiviso. Ciò premesso, sono favorevole al riconoscimento delle unioni civili per le persone omosessuali ma queste unioni civili, così come quelle tra eterosessuali, non possono essere minimamente equiparate al matrimonio cristiano che è un sacramento con il quale i due coniugi, ministri loro stessi del sacramento, si impegnano a collaborare con l’opera creatrice del Padre. Tutto qui. Si tratta di avere il coraggio della chiarezza, una chiarezza che non si presta alla polemica.

Ritengo che siano necessari grande rispetto e approfondita conoscenza per non cadere in slogan, in contrapposizioni perniciose e, soprattutto, poco rispettose delle persone. La polemica ferisce, esaspera i toni, crea divisione: la conoscenza, l’ascolto reciproco, la chiarezza, invece, contribuiscono al dialogo, atteggiamento che la nostra società, tutta concentrata su se stessa e sulla propria rivendicazione a scapito dell’altro, fatica a mettere in atto. E gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.

Suor Anna Monia Alfieri

Estratto dell'articolo di Gian Guido Vecchi per corriere.it il 26 aprile 2023.  

«Il battesimo è lo stesso per uomini e donne, a quanto ne so. E la sinodalità, il camminare insieme nella Chiesa, si fonda sul battesimo». Il cardinale lussemburghese Jean-Claude Hollerich, 64 anni, gesuita come Francesco, scelto dal Papa come membro del suo Consiglio e relatore generale del Sinodo, sorride ironico come se fosse la cosa più semplice del mondo.

Ma ci sono voluti decenni, da quando Paolo VI istituì nel 1965 il Sinodo dei vescovi, la rivoluzione era nell’aria e ora è ufficiale: nel prossimo Sinodo che si riunirà in Vaticano a ottobre anche le donne avranno diritto di voto, e saranno «la metà» dei «70 membri non vescovi» che parteciperanno all’assemblea a rappresentare gli «altri fedeli del popolo di Dio» tra sacerdoti, suore, diaconi, laiche e laici, non più «uditori» ma votanti a pieno titolo. La modifica è stata approvata da Francesco il 17 aprile. 

Sarà lo stesso Papa a scegliere i nomi, in un elenco di 140 persone individuate dalle conferenze episcopali del mondo. La prima breccia nella diga, in realtà, si era aperta all’inizio del 2021, quando Francesco aveva nominato una religiosa, suor Nathalie Becquart, come sottosegretario del Sinodo: a quel punto si era saputo che sarebbe stata la prima donna a votare in un Sinodo, poiché il sottosegretario in quanto tale ne ha diritto.

Ma ora non si tratta più di un’eccezione dettata dal ruolo, ma di una riforma strutturale. Le donne, religiose o laiche, potevano finora essere «uditrici» o collaboratrici a vario titolo, e intervenire durante l’assemblea, ma al momento del voto non avevano voce in capitolo. Ed erano stati gli stessi fedeli a farlo notare.

Il prossimo Sinodo sulla sinodalità, nel quale la Chiesa è invitata a riflettere su se stessa, si svolgerà in due tappe finali a ottobre di quest’anno e nell’ottobre del 2024, ma è stato preceduto e fondato da una fase di consultazione della «base» in tutte le diocesi del mondo. Ne è stato tratto un documento di lavoro che fa sintesi delle varie osservazioni, e nel quale tra l’altro si legge: «Da tutti i continenti arriva un appello affinché le donne cattoliche siano valorizzate innanzi tutto come battezzate e membri del Popolo di Dio con pari dignità». […]

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 13 aprile 2023.

"È proprio della donna essere generosa: sì, qualche nevrotica c'è, ma questo un pò dappertutto. La donna è dare vita, chiamare altri, camminare insieme". Lo ha detto Papa Francesco, in un passaggio a braccio, ricevendo in udienza le partecipanti alla 70esima Assemblea generale dell'Unione superiore maggiori d'Italia (Usmi).

 "Le donne sono coraggiose", "sono brave" a "creare cammini nuovi", ha continuato il Pontefice ricordando che furono proprio le donne "le prime testimoni della risurrezione del Signore", a dare l'annuncio ai discepoli. [...]

 Estratto dell’articolo di Fabrizio Cannone per “la Verità” l’8 aprile 2023.

Dal 2009 esiste un’imperdibile Giornata internazionale della visibilità transgender che ricorre il 31 marzo di ogni anno. […] Le cose che contano, spesso, ci vengono dagli Stati Uniti, dove il nostro futuro è già presente e dove la giornata è ben più nota e partecipata che da noi. E, tra le ultime fans dell’imperdibile evento, […] alcuni gruppi di suore cattoliche, con un argomentato manifesto[…]. 

 In particolare le Sisters of Providence, che hanno pubblicato sul proprio sito il documento, assicurano che le comunità che lo hanno sottoscritto rappresenterebbero «più di 6.000 religiose cattoliche», operanti in almeno 18 Stati della Confederazione. Il titolo del testo è In solidarity. […] Sono solidali con il Trans day of visibility del 31 marzo.

 «Come religiose cattoliche», dichiarano le pie sisters, «affermiamo con tutto il cuore che gli individui transgender, non binari e con dubbi di genere sono amati e prediletti da Dio». […] Le religiose progressiste avrebbero detto lo stesso, e con uguale enfasi, per i membri del Kkk o i suprematisti del Texas?

 […] Il problema in America non sarebbe quindi, come dicono i numeri, il calo demografico o la tenuta della famiglia e neppure le continue minacce alle religioni, viste in modo sempre più ostile dal laicismo dei democratici e dai gruppi atei e satanisti. Per le suore, malgrado la tirannnia woke, «negli Stati Uniti, le persone transgender stanno subendo danni e cancellazioni». E in che modo, di grazia? Attraverso l’approvazione di legislazioni «anti Lgbtq in diversi Stati», attraverso un’imprecisata «discriminazione e violenza quotidiana» e anche a causa, udite udite, della «retorica dannosa da parte di alcune istituzioni cristiane e dei loro leader, compresa la Chiesa cattolica».

La Chiesa cattolica avrebbe una «retorica anti trans»? […] Questa ipotetica retorica, la Chiesa, né l’aveva in passato, perché il problema, per fortuna dei nostri avi, non si poneva, né l’ha certamente ora con papa Francesco, il quale, più di una volta, ha ricevuto con affetto dei/delle trans portati a San Pietro dal parroco di Torvajanica, don Andrea Conocchia. 

[…] Tra le misure proposte dalle consacrate c’è quella di valutare «la capacità della propria comunità religiosa di accogliere pienamente le persone trans», senza escludere «gli atteggiamenti, i comportamenti, le politiche interne e i servizi igienici neutri». Abbiamo contato almeno 15 comunità cattoliche tra i firmatari del manifesto (domenicane, francescane, giuseppine, suore della carità, missionarie...). Ma in Vaticano non dicono niente di questa posizione proveniente da Oltreoceano? […]

Vaticano arcobaleno. Una fronda di ultraconservatori frena le aperture di Papa Francesco al mondo Lgbt+. Luciano Tirinnanzi su L’Inkiesta l’8 aprile 2023.

Un’indagine giornalistica sul velo di omertà e ipocrisia sul tema dell’omosessualità nella Chiesa. La breccia nella dottrina di Bergoglio, le cui riforme sono osteggiate da chi vorrebbero vederlo rinunciare al Soglio di Pietro, specie dopo la scomparsa di Ratzinger

Perché proprio oggi un libro su Papa Francesco e i gay? O meglio sull’atteggiamento della Chiesa cattolica oggi nei confronti delle persone Lgbt+? E il tentativo, non semplice, di fare il punto sullo «stato dell’arte» in un’epoca in cui i costumi sessuali sono in apparente subbuglio, non meno della Chiesa stessa. Con la morte di Benedetto XVI, infatti, si ha ragione di credere che qualcosa sia cambiato, ancora una volta, all’interno della Chiesa cattolica.

Un equilibrio che l’età dei «due papi» aveva paradossalmente garantito, con un teologo in sonno e un attivista in opera, che garantivano alle anime conservatrice e progressista di convivere sotto al Cupola di San Pietro, tenendo a freno le forze centrifughe del mondo cattolico. Oggi, però, il rischio è un altro.

Quello che, almeno secondo un accorto osservatore di cose vaticane come Luigi Nuzzi, vede l’esistenza di un piano segreto dentro e fuori le mura vaticane, che «coltiva un unico obiettivo: stressare il pontificato per arrivare alla rinuncia di Francesco, contando su un progressivo indebolimento del santo padre e su scelte dottrinali che creano sacche di malcontento da enfatizzare e raccogliere». Rinuncia che lo stesso Bergoglio non ha mai peraltro escluso.

Ma su quali scelte dottrinali contano di fare più leva le forze avverse a Francesco oggi, se non quelle legate ai costumi e alla sessualità? Proprio per tali ragioni, questo testo cerca di comprendere cosa c’è di nuovo e cosa invece rimane legato alla tradizione e al passato nella dottrina e nei comportamenti della Chiesa (il magistero e la pastorale, in termini «tecnici») rispetto a questo mondo così articolato, complesso, ricco di sfaccettature, dialogante e contestatore insieme, sofferente per le discriminazioni e orgoglioso della propria identità.

La diversità ci interroga e giustamente ci provoca, soprattutto se è una diversità emarginata, offesa, non compresa, non accettata. Un fatto è certo pur nelle sue contraddizioni, ambiguità e prudenze: la Chiesa di Francesco non si volta più dall’altra parte di fronte all’omosessualità, la transessualità, la bisessualità. È questo ciò che vuole testimoniare li presente libro, che è anzitutto un’inchiesta giornalistica e non un volume di morale o che pretende di «fare la morale».

Ma non basta raccontare gesti e avvenimenti. Occorre anche cercare di offrire delle chiavi di lettura. Operazione ancora più difficile oggi, quando le parole, i gesti, le decisioni o le mancate decisioni di Francesco su questo tema si prestano a letture e interpretazioni contrastanti.

È lo stesso Papa che un giorno accoglie in Vaticano un transessuale e un altro vieta la benedizione alle coppie gay? Lo stesso che proclama una Chiesa dalle porte aperte ma si pronuncia duramente contro la teoria del gender? Un modo per orientarsi è anzitutto mettere a fuoco il fatto che atti, dichiarazioni, decisioni del Papa si muovono su piani diversi a seconda della circostanza, del contesto, degli interlocutori. Questo è un primo elemento.

Il secondo elemento è più di prospettiva, e guarda lontano: Bergoglio modifica lo stile dell’approccio della Chiesa riguardo al mondo Lgbt+. La Chiesa «ospedale da campo», come la chiama spesso il pontefice, accoglie tutti, non vuole lasciare fuori nessuno. «Non è una dogana», ripete ancora Francesco. Però dopo aver accolto tutti e riconosciuto l’identità e la dignità di ciascuno, la Chiesa del Papa argentino proclama la sua verità e rimane fedele ai suoi principi.

Questo può bastare alle persone Lgbt+? Certamente no. Lascia con l’amaro in bocca chi, soprattutto nel mondo laico e progressista, si aspettava riforme radicali di Francesco sul fronte del magistero e della teologia morale (aborto, contraccezione, eutanasia) che invece non sono mai arrivate? Forse.

Quello di Bergoglio allora è solo un «progressismo di facciata»? No, perché nella Chiesa le categorie progressista e conservatore non hanno molto senso, e anzi sviano da una corretta comprensione dei fenomeni (il «conservatore» Ratzinger, ad esempio, ha compiuto il gesto più rivoluzionario della Chiesa in epoca moderna: la rinuncia al soglio pontificio!).

Probabilmente, Papa Francesco ha aperto una strada dalla quale non si potrà più tornare indietro: basta solo considerare che oggi si parla di questo argomento, mentre fino a pochi anni fa il tema Lgbt+ non era neppure preso in considerazione nell’agenda della Chiesa, tranne che da qualche prete di frontiera. Non era mai accaduto prima che un pontefice accogliesse un transessuale a casa propria, e Bergoglio lo ha fatto.

Molto adesso dipenderà da chi, in futuro dopo il pontefice argentino, ne raccoglierà il testimone. Sul fronte pastorale, Francesco ha aperto degli spiragli e fatto circolare aria nuova per omosessuali, bisessuali, transessuali e così via. La Chiesa non è un monolite, tante sono le sensibilità e le attitudini presenti. Tuttavia, la sensazione prevalente è che oggi ci sia meno spazio nella realtà ecclesiale per l’omofobia e la transfobia di un tempo.

Ma c’è ancora tanto cammino da fare. Soprattutto sul fronte dottrinale e magisteriale. Lo richiede non una motivazione ideologica, piuttosto la sofferenza di tante persone Lgbt+ che sono discriminate e non comprese o non accettate. Anche loro sono i «poveri» che Papa Francesco vuol mettere in prima fila, ispirandosi al santo di Assisi di cui ha scelto il nome. Non è difficile immaginare che anche San Francesco nel XIII secolo avrebbe aperto la porta delle sue comunità alle persone Lgbt+ discriminate.

Un aspetto su tutti sembra, però, frenare il cammino della Chiesa verso un’apertura su temi così delicati: quella fronda di ultra conservatori che non si rassegnano a vedere Bergoglio rinunciare al suo magistero. Ma a cui Francesco sembra intenzionato a rispondere colpo su colpo. Come dimostra la riapertura del caso Orlandi in Vaticano: un esempio di come la Chiesa di Roma possa dare a se stessa la possibilità, finalmente, di chiudere alcuni capitoli che ne hanno offerto un’immagine negativa. E aprirsi a una nuova fase, benedetta dal Papa argentino.

Da “Lasciate che i gay (non) vengano a me”, di Luciano Tirinnanzi, Paesi edizioni, 160 pagine, 15 euro

"Punite quei vescovi". Scontro nella Chiesa sulle coppie gay. Ancora polemiche dopo il voto all'assemblea del Cammino Sinodale. Dopo le critiche di Parolin, due porporati chiedono sanzioni. Nico Spuntoni il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

Le acque all'interno della Chiesa cattolica continuano ad essere agitate dopo che al Cammino Sinodale tedesco è passato a stragrande maggioranza un testo finalizzato a dare il via libera alle benedizioni delle coppie formate da persone dello stesso sesso. Tra i delegati che hanno votato a favore c'erano ben 38 vescovi, mentre soltanto 9 presuli hanno votato contro ed 11 si sono astenuti.

La posizione della Santa Sede

La delibera, avente come titolo "Celebrazioni di benedizione per le coppie che si amano", è in aperta contraddizione con il contenuto del responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicato nel marzo del 2021 con l'assenso di Francesco. A più di una settimana dal guanto di sfida lanciato dalla maggior parte dell'episcopato tedesco, non c'è ancora stata alcuna reazione da Santa Marta. Se il Papa non ha commentato il voto dell'assemblea del Cammino Sinodale, parole di biasimo sono arrivate invece dal suo numero due, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Il porporato veneto, in occasione della presentazione dell'ultimo libro di padre Antonio Spadaro L'atlante di Francesco - Vaticano e politica internazionale, ha detto che "il Cammino sinodale ha preso decisioni che non corrispondono esattamente a quella che è attualmente la dottrina della Chiesa".

La condanna dei cardinali

Ben più netta la condanna di due cardinali che hanno rivestito incarichi di responsabilità in Curia in passato e che attualmente si trovano da anni a riposo. Si tratta del cardinale statunitense Raymond Leo Burke e di quello tedesco Gerhard Ludwig Müller. Entrambi hanno parlato ai microfoni di Raymond Arroyo sull'emittente EWTN, invocando sanzioni canoniche per i vescovi che hanno votato il documento favorevole alle benedizioni delle coppie gay.

"Ci deve essere un processo e devono essere condannati e devono essere rimossi dal loro incarico se non si convertono e non accettano la dottrina cattolica", ha tuonato il prefetto emerito del Dicastero per la Dottrina della Fede.

Dello stesso parere il prefetto emerito del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica che ha accusato i 38 vescovi tedeschi di allontanamento da Cristo e dal suo insegnamento nella Chiesa, aggiungendo che "questi sono peccati contro Cristo stesso e, ovviamente della natura più grave. E il Codice di Diritto Canonico prevede le sanzioni adeguate". Dunque, sia Müller che Burke hanno chiesto implicitamente al Dicastero per la Dottrina della Fede di muoversi per far sì che ci siano conseguenze all'atto di disobbedienza contro Roma esplicitato dalla maggioranza dell'episcopato tedesco nel voto della scorsa settimana.

L'ex Sant'Uffizio "germanizzato"?

Un appello, quello dei due cardinali, che dovrebbe raccogliere il cardinale prefetto Luis Francisco Ladaria Ferrer che però ha il mandato in scadenza a luglio, dopo aver tagliato il traguardo dei 78 anni ad aprile. Della sua successione si parla da mesi all'interno delle sacre mura e la voce più insistente è quella che vorrebbe al suo posto proprio un tedesco, monsignor Heiner Wilmer. Il vescovo di Hildesheim si è rivelato fino ad oggi un grande sostenitore del Cammino Sinodale e della sua agenda ultra-progressista che anche recentemente la Santa Sede ha provato a fermare con la richiesta del cardinale Marc Armand Ouellet di una moratoria. Richiesta respinta dai vertici della Conferenza episcopale tedesca in visita ad limina in Vaticano.

Le voci sulla possibile nomina di monsignor Wilmer nell'incarico che un tempo fu del suo connazionale Joseph Ratzinger ha creato subbuglio a Roma, e più di un cardinale, per quanto ne sappiamo, ha espresso più di una perplessità al Papa sul nome del dehoniano. Vedremo se Francesco li ascolterà o confermerà questi rumors che potrebbero rafforzare la posizione dell'episcopato tedesco finora ribelle alle direttive della Santa Sede.

Manuela Tulli per l’ANSA il 25 Gennaio 2023.

L'omosessualità "non è un crimine" ma "una condizione umana" e a quelli che dicono sia "un peccato" il Papa replica che lo è anche la "mancanza di carità" e comunque "bisogna distinguere tra il peccato e il crimine". Francesco lo dice in un'intervista a tutto campo con l'Associated Press nella quale parla anche delle critiche che gli sono arrivate da alcuni cardinali e vescovi dopo la morte di Benedetto: "Non è una dittatura", "non c'è un imperatore a cui non possono dirgli niente" ma almeno "le dicano in faccia".

 Il Papa rivela poi di essersi leggermente fratturato il ginocchio con una caduta ma che non c'è stato bisogno dell'intervento e che è anche tornata la diverticolosi. Ma complessivamente "sono in buona salute", assicura. Papa Francesco critica dunque le leggi che criminalizzano l'omosessualità come "ingiuste", affermando che Dio ama tutti i suoi figli così come sono e ha invitato i vescovi cattolici ad accogliere le persone Lgbtq nella Chiesa.

"Questi vescovi devono fare un processo di conversione", ha detto, aggiungendo che dovrebbero usare "la tenerezza, per favore, come Dio ha per ciascuno di noi". "Essere omosessuali non è un crimine. Non è un crimine. 'Sì, ma è un peccato' - ha detto il Papa come per anticipare una replica di altri a quanto lui stava dicendo - Prima distinguiamo tra un peccato e un crimine", ha invitato il Papa. Poi ha aggiunto: "È peccato anche mancare di carità gli uni con gli altri, non è vero?. L'omosessualità non è un crimine - ha ribadito - ma una condizione umana".

Quanto alle critiche al pontificato, arrivate per esempio da Gaenswein, Mueller, Pell, tutte persone che erano molto vicine a Ratzinger, "non le riferirei a Benedetto" ma "all'usura di un governo di dieci anni". "L'unica cosa che chiedo è che me le dicano in faccia, perché è così che cresciamo tutti, giusto?". Francesco ha elogiato Benedetto come un "gentiluomo" e ha detto della sua morte: "Ho perso un papà", "per me era una sicurezza", "ho perso un buon compagno". Bergoglio assicura di essere "in buona salute" per la sua età.

 "Potrei morire domani, ma è sotto controllo. Sono in buona salute", ha aggiunto il Pontefice con il suo solito senso dell'umorismo, ribadendo che non pensa alle dimissioni, neanche ora che è morto Benedetto ("Non mi è venuto in mente di fare testamento"). Il Papa parla infine del caso di Marko Rupnik, il gesuita e artista accusato di abusi da diverse religiose, e assicura di non avere avuto un ruolo nella gestione dello stesso. "Per me è stata una sorpresa, davvero. Una persona, un artista di questo livello, per me è stata una grande sorpresa e una ferita". Francesco ha affermato di volere maggiore trasparenza nel modo in cui vengono gestiti i casi. "È quello che voglio", ha detto. "E con la trasparenza arriva una cosa molto bella, che è la vergogna. La vergogna è una grazia".

 Il Papa ha spiegato di essere intervenuto solo proceduralmente per mantenere la seconda serie di accuse delle nove donne con lo stesso tribunale che aveva ascoltato la prima perché altrimenti "i percorsi procedurali si dividono e tutto si confonde". Quanto al fatto che il Vaticano non abbia rinunciato in questo caso alla prescrizione, il Pontefice concorda che è giusto rinunciare "sempre" ai termini di prescrizione per i casi che coinvolgono minori e "adulti vulnerabili", per mantenere invece le tradizionali garanzie legali con i casi che coinvolgono altri. "La prescrizione" e "la presunzione di innocenza" sono garanzie e "io sono un garante" ma "non per questo ci laviamo le mani dal problema".

Estratto dell’articolo di Domenico Agasso per “la Stampa” il 26 gennaio 2023.

Il Papa lo scandisce, forte e chiaro: l'omosessualità «non è un crimine». E […] invita i vescovi che discriminano le comunità Lgbtq a cambiare atteggiamento, a smettere di emarginarle e ad «accogliere i gay» […] Il Pontefice parla anche degli attacchi che gli sono arrivati da alcuni cardinali e vescovi dopo la morte di Benedetto XVI: le critiche aiutano a crescere, «non sono un imperatore; ma vorrei che me le facessero in faccia».

Il Vescovo di Roma afferma che essere gay […] è «condizione umana», e sottolinea i diritti delle comunità Lgbtq: «Siamo tutti figli di Dio e Dio ci vuole così come siamo e con la forza che ognuno di noi combatte per la propria dignità». […] Ma c'è anche un monito papale per un diverso approccio dei presuli che emarginano i gay: Francesco richiama il Catechismo della Chiesa cattolica, in cui si legge «che le persone con tendenze omosessuali devono essere accolte, non emarginate, accompagnate se viene dato loro un posto». Secondo il Pontefice «questi vescovi devono fare un processo di conversione», e dovrebbero usare «la tenerezza, come Dio ha per ciascuno di noi».

Quanto alle offensive al pontificato – arrivate da vari alti prelati vicini a Ratzinger – «non le riferirei a Benedetto» ma «all'usura di un governo di dieci anni». Bergoglio è consapevole che all'inizio la sua elezione è stata accolta con «sorpresa» per un Vescovo di Roma sudamericano, poi è arrivato il disagio «quando hanno iniziato a vedere i miei difetti». Sulle critiche dice che sarebbe sempre meglio non riceverle, «per la pace della mente: sono come un'orticaria, un po'fastidiose, ma le preferisco, perché significa che c'è libertà di parola». L'unica «cosa che chiedo è che me le dicano in faccia, perché è così che cresciamo tutti». È peggio «se si tratta di un'azione subdola».

Con qualche suo oppositore ha dibattuto personalmente: «Alcuni di loro sono venuti qui e sì, ne ho discusso. Normalmente, come si parla tra persone mature. Non ho litigato con nessuno, ma ho espresso la mia opinione e loro l'hanno espressa». In caso contrario, «si crea una dittatura della distanza, in cui l'imperatore è lì e nessuno può dirgli nulla. No, lasciateli dire perché la compagnia aiuta a far andare bene le cose».

Francesco […] scherza, ribadendo che non pensa alla rinuncia: «Non mi è nemmeno venuto in mente di scrivere un testamento». Conferma che, se si dimettesse, sarebbe il «vescovo emerito di Roma» e andrebbe «a vivere nella Casa del Clero a Roma». E ritiene che il predecessore fosse ancora legato a una concezione del papato, e così «in questo non era del tutto libero, perché forse avrebbe voluto tornare nella sua Germania e continuare a studiare teologia da lì». […] il caso Marko Rupnik, il gesuita e artista accusato di abusi da nove religiose. Il Papa assicura di non avere avuto un ruolo nella gestione della vicenda: «Per me è stata una sorpresa. E una ferita».

«Sí, pero es pecado». Per Papa Francesco l’omossessualità non è un crimine, ma un peccato. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 26 gennaio 2023.

In una lunga intervista all’Associated Press, Bergoglio prende posizione contro i 67 Paesi che ancora oggi puniscono per legge i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso. Ma i suoi predecessori consideravano un peccato i soli rapporti tra persone dello stesso sesso, non già «la condizione omosessuale»

In tema di omosessualità Papa Francesco torna a sparigliare le carte. Secondo i critici a creare confusione. Certo è che le specifiche dichiarazioni, tratte dalla lunga intervista ad Associated Press, stanno da ieri accendendo gli animi e facendo discutere. A molti non è infatti sfuggita la contiguità temporale con le recenti anticipazioni del libro postumo di Benedetto XVI Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale (in uscita il 31 gennaio per i tipi Mondadori a cura di Georg Gänswein ed Elio Guerriero) sui «club omosessuali» formatisi nei seminari dopo il Vaticano II e gli strali del cardinale Gerhard Ludwig Müller contro cardinali e vescovi eretici che, sulla scorta dello stesso Bergoglio, sono favorevoli a una legalizzazione delle unioni civili. 

Partendo dalla premessa che «l’essere omosessuali non è un reato», Papa Francesco ha definito «ingiuste» quelle leggi che criminalizzano l’omosessualità e richiamato la Chiesa cattolica a lavorare per porvi fine (Tienen que hacerlo, tienen que hacerlo). Un notevole passo di cambio, dunque, rispetto alla linea finora tenuta dalla Santa Sede, che, in qualità di Stato osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si è sempre opposta ai vari progetti Onu di depenalizzazione universale dei rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso, sia pur per evitare – come ebbe a dire nel 2008 l’allora direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi – «meccanismi di controllo in forza dei quali ogni norma che non ponga esattamente sullo stesso piano ogni orientamento sessuale, può venire considerata contraria al rispetto dei diritti dell’uomo» e la conseguente «messa alla gogna» degli Stati contrari.

Bisogna ricordare che in 67 Paesi i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso sono puniti per legge con pene carcerarie fino all’ergastolo. Numero che, in realtà, va portato a 69 considerando che in Egitto e Iraq sono criminalizzati de facto. In cinque Paesi vige inoltre la pena di morte: mentre in tre di essi (Arabia Saudita, Iran, Yemen) essa è applicata sull’intero territorio statale, negli altri due (Somalia e Nigeria) solo in alcune specifiche province. In altri sei, infine, cioè Afghanistan, Brunei, Emirati Arabi, Mauritania, Pakistan, Qatar ne è contemplata la possibilità anche se da tempo non è irrogata a chi si macchiasse di “sodomia”. 

Enormità tale da indurre nel 2018 la Casa Bianca ad accogliere la proposta di Richard Grenell, già ambasciatore in Germania e poi direttore ad interim della National Intelligence, e lanciare una campagna per la depenalizzazione mondiale, illustrata dallo stesso Donald Trump, il 24 settembre 2019, all’Assemblea generale dell’Onu. Anche se poi il tutto si sarebbe risolto con un nulla di fatto, diventando uno strumento di propaganda utilizzata per lo più dal tycoon per attaccare i governi nemici.

Non si può poi non rilevare come quasi la metà dei Paesi in cui vigono tali norme siano a maggioranza cristiana e, come nei casi più tristemente celebri di Ghana e Uganda, cattolica. Ecco perché il Papa, pur riconducendo l’appoggio dei vescovi di alcune parti del mondo a specifici contesti culturali, ha parlato di necessario cambiamento (proceso de conversión) di quei presuli, perché riconoscano la dignità di tutte le persone, comprese le omosessuali, e usino loro la stessa tenerezza «che Dio ha con ciascuno di noi». Chissà cosa ne avrebbe pensato il ghanese Richard Kuuia Baawobr, creato cardinale il 27 agosto scorso proprio da Francesco e deceduto il 27 novembre, lui paladino delle crociate anti-Lgbt+ in un Paese, in cui i rapporti tra persone dello stesso sesso sono puniti fino a tre anni di carcere e in cui è all’esame una proposta di legge ancora più draconiana di quella russa contro la cosiddetta propaganda omosessuale. 

Il defunto porporato s’era reso soprattutto celebre il 7 aprile 2020, quando aveva pubblicamente ringraziato il neoeletto presidente del Parlamento, Alban Sumana Kingsford Bagbin, per l’inflessibilità contro la promozione dei diritti Lgbt+ e l’aveva esortato a non cedere ad alcuna pressione esterna. Per non parlare poi dell’aperto sostegno alla conferenza regionale del World Congress of Families, tenutosi nella capitale ghanese dal 31 ottobre al 1° novembre 2019, e la precedente opposizione proprio alla depenalizzazione dei rapporti consensuali tra persone dello stesso in sesso Africa, come richiesto nel 2012 dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon.

Non è mancato infine uno scivolone nell’intervista, quando Bergoglio, esplicitando un’eventuale obiezione al suo ragionamento e non rigettandola del tutto, ha parlato di omosessualità come «peccato» (Sí, pero es pecado) per poi specificare: «Bene, prima distinguiamo il peccato dal crimine. Però è anche peccato la mancanza di carità verso il prossimo» (Bueno, primero distingamos pecado por delito. Pero también es pecado la falta de caridad con el prójimo). 

Orbene, lo si potrà forse ascrivere alla mancanza di precisione in cui si può incorrere nel parlare a braccio, ma i suoi immediati predecessori hanno considerato peccato i soli rapporti tra persone dello stesso sesso, non già «la condizione omosessuale». La lettera dell’allora Congregazione per la Dottrina della Fede Homosexualitatis problema (1° ottobre 1986) e Catechismo della Chiesa cattolica docent!

Positive e utili le parole di Bergoglio non criminalizzare l’omosessualità. Redazione su L’Identità il 26 Gennaio 2023

di FRANCO GRILLINI, Presidente onorario Gaynet-Arcigay

Sono molto positive e utili alle dichiarazioni di Bergoglio contro la criminalizzazione internazionale dell’omosessualità e quando critica alcuni vescovi che sostengono le leggi che criminalizzano la collettività lgbt in molti paesi del mondo dove, in alcuni casi, è prevista persino la pena di morte. A suo tempo ci fu un tentativo guidato dalla Francia di Sarkozy di far approvare all’Onu una mozione che proponeva la decriminalizzazione internazionale dell’omosessualità. Questo tentativo è stato sospeso e occorre riprendere la strada per la sua approvazione. Con questa nota faccio un appello al presidente del Consiglio Meloni e al ministro degli esteri Tajani perché l’Italia sia in prima fila, dopo le parole del Papa, per la campagna internazionale di decriminalizzazione dell’omosessualità. Tra l’altro è bene ricordare che Meloni sfidò Draghi proprio su questo terreno proponendogli provocatoriamente di interrompere le relazioni diplomatiche con i paesi che prevedono la pena di morte per gli omosessuali. Sarebbe interessante che l’Italia addirittura diventasse capofila dei paesi che chiedono all’Onu di approvare la mozione per la decriminalizzazione dell’omosessualità ed è bene ricordare che l’omosessualità è considerata reato in 70 paesi, mentre in sette paesi è prevista la pena di morte, regolarmente eseguita in Afghanistan in Iran in Arabia Saudita e in alcuni paesi centrafricani dominati dall’islamismo radicale.

The friendly pope. Andrea Canali su L’Identità il 26 Gennaio 2023

Sicuramente si possono considerare importanti le prime dichiarazioni dopo la morte di Benedetto XVI, sotto forma di intervista, che Papa Francesco ha voluto rilasciare ad una agenzia americana. Entrando nel merito, il Santo Padre per smentire – o comunque contenere le voci che volevano vederlo affaticato e non in perfetta forma fisica-, ha puntualizzato tale circostanza dichiarando di essere in buona salute anche rispetto alla sua età. Tale affermazione può essere ritenuta importante in quanto va a rassicurare i fedeli di tutto il mondo, rispetto alle sue reali condizioni di salute e, finanche, rispetto ad alcuni acciacchi fisici che recentemente il pontefice ha patito. Nello specifico, ricordiamo che era stato infatti operato nell’estate del 2021 ai diverticoli, i quali sembrerebbe gli avrebbero potuto dare ancora noia. In merito invece all’altra problematica salutare -inerente la piccola frattura ossea al ginocchio che lo ha costretto anche ad usare una sedia a rotelle -, conseguenza di una caduta che lo ha visto dolorante anche nelle varie cerimonie pubbliche, lo stesso Pontefice ha confermato che grazie ad una accurata ed attenta terapia sembrerebbe guarita anche tale annosa problematica. Quindi, con il sorriso e con il suo carisma, il Papa argentino ha anche ironizzato sul fatto che potrebbe anche “morire domani ma che è tutto sotto controllo”, rassicurando non solo quindi sulle sue condizioni fisiche ma anche sul fatto di non aver preso in considerazione il fatto di redigere norme inerenti le eventuali dimissioni (da parte sua), e di sentirsi ancora a pieno titolo e chi sa per quanto altro tempo, il Vescovo di Roma. Insomma, un Pontefice rinnovato nel fisico e nel pensiero, come se potessimo immaginare oggi l’apertura della seconda fase del suo pontificato. Infatti, il Papa amato dal popolo – che vede una chiesa in uscita, povera per i poveri e che accoglie tutti – ha ribadito che laddove ci siano delle “critiche” allora vi è “libertà di parola”. A tal proposito -nell’ intervista rilasciata all’ Associated Press -, Francesco ha aggiunto anche altre importanti tematiche, tra le quali la delicata questione dell’omosessualità, affermando: “L’omosessualità non è un crimine, certe scelte sono ingiuste”. Quindi, rivolgendosi ai vescovi, ha detto che forse dovrebbero attivare un processo di cambiamento e di giudizio per riconoscere la dignità di tutti. E li indirizza dicendo loro: “Questi vescovi devono fare un processo di conversione e usare la tenerezza, per favore, come Dio ha per ciascuno di noi”.

Inoltre ha invitato sempre i vescovi cattolici, avendo appunto questo nuovo sguardo, ad accogliere le persone Lgbtq nella Chiesa. Ricordando che “Eesere omosessuali non è un crimine e un peccato”.

Ribadisce quindi che Dio è Padre e benevolo con ognuno di noi, in quanto l’uomo e’ fatto ad immagine e somiglianza di Dio e che, per quanto imperfetti, veniamo comunque amati. Tale messaggio va a confermare e ed a rafforzare anche la visione che ha questo pontificato (che alcuni definiscono progressista) rispetto a tali tematiche. Basti ricordare la risposta che diede proprio direttamente Bergoglio ai giornalisti in aereo al ritorno dal viaggio da Rio de Janeiro, dove vi fu un confronto di circa un’ora, nel quale si affrontarono varie questioni compresa quella della lobby gay.

E il Sommo Pontefice già allora disse : “Si scrive tanto della lobby gay. Io ancora non ho trovato nessuno che mi dia la carta d’identità, in Vaticano. Dicono che ce ne siano. Ma si deve distinguere il fatto che una persona è gay dal fatto di fare una lobby. Se è lobby, tutte non sono buone. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. E ancora continuò nella risposta: “Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby: di questa tendenza o d’affari, lobby dei politici, lobby dei massoni, tante lobby… questo è il problema più grave. E la ringrazio tanto per aver fatto questa domanda”. Quindi in conclusione l’argomento rispetto alla Chiesa Cattolica è sicuramente delicato, ma le aperture di Papa Francesco, in tal senso, sono molto importanti.

Il poeta gay Alfredo Ormando 25 anni fa si dava fuoco in Vaticano: «Questa Chiesa demonizza l’omosessualità». Il gesto estremo fu una denuncia contro l’omofobia delle gerarchie ecclesiastiche e lo portò alla morte per ustioni alcuni giorni dopo. Da quella data ogni 13 gennaio la comunità Lgbt celebra la giornata mondiale del dialogo fra religioni e omosessualità. Simone Alliva su L’Espresso il 13 Gennaio 2023.

Alfredo Ormando, poeta gay e credente, 25 anni fa trasformò il suo corpo in torcia umana sotto il colonnato di San Pietro per poter ottenere ascolto. Un’accusa precisa rivolta oltre Tevere attraverso il rogo del suo corpo. Eppure, anche così, in un primo tempo rischiò di non essere ascoltato. Era il 13 gennaio 1998, soltanto otto anni prima l'Organizzazione Mondiale della Sanità aveva tolto l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali.

Oggi le lettere e le cronache di quei giorni restituiscono con precisione un gesto che ha segnato la coscienza del nostro Paese. Ormando era nato a San Cataldo, un paesino in provincia di Caltanissetta e cresciuto in un ambiente da lui stesso definito “bigotto” e “provinciale”.

L’omofobia era una compagna costante per la sua vita. Poeta e scrittore, due anni di seminario alle spalle. A 39 anni dalla Sicilia arriva a Roma in treno. Alle sette e mezza di mattina entra in piazza S. Pietro, portando con sé una tanica di benzina.

Arrivato al colonnato, si toglie il soprabito, si cosparge di liquido e si dà fuoco. Avvolto dalle fiamme, corre verso il centro della piazza. Un agente di polizia lo soccorre, cerca di spegnere le fiamme con la propria giacca e ricorda che, prima di perdere conoscenza, Alfredo Ormando ripete: «Non sono neanche stato capace di morire». Al centro della piazza più famosa del mondo resta una striscia nera, sangue impastato a carbone e benzina.

Trasportato all’ospedale Sant’Eugenio ha ustioni sul 90 per cento del corpo: morirà dopo dieci giorni di agonia senza mai riprendere coscienza. Il gesto era una chiara denuncia contro l’omofobia delle gerarchie vaticane. Ormando si fece “parola” attraverso il rogo del suo corpo. Ma subito dopo il gesto il portavoce del Vaticano, Ciro Benedettini, negò che esistesse una qualunque connessione tra l’omosessualità dell’uomo e il luogo scelto: «Nella lettera trovata addosso a Ormando, non si afferma in nessun modo che il suo gesto sia determinato dalla sua presunta omosessualità o da protesta contro la Chiesa».

In realtà, Alfredo Ormando aveva con sé due lettere in cui spiegava le sue ragioni; le aveva lasciate nel soprabito che si era tolto. Confiscate. Ma ne aveva mandato copia anche all’Ansa di Palermo, prima di prendere il treno per Roma.

«Chiedo scusa per essere venuto al mondo, per aver appestato l’aria che voi respirate con il mio venefico respiro, per aver osato di pensare e di agire da uomo, per non aver accettato una diversità che non sentivo, per aver considerato l’omosessualità una sessualità naturale, per essermi sentito uguale agli eterosessuali e secondo a nessuno, per aver ambito a diventare uno scrittore, per aver sognato, per aver riso».

Un’altra era indirizzata al fratello: «Non hai idea di come ci si sente quando si è trattati in questo modo; non si riesce mai ad abituarsi ad accettarlo, perché è la nostra dignità che viene brutalmente vilipesa». Un'altra lettera, prova incontrovertibile del suo gesto, emergerà più tardi, riporta la data del 25 dicembre 1997, dedicata a un amico di Reggio Emilia: «Penseranno che sia un pazzo perché ho deciso Piazza San Pietro per darmi fuoco, mentre potevo farlo anche a Palermo. Spero che capiranno il messaggio che voglio dare: è una forma di protesta contro la Chiesa, che demonizza l’omosessualità, demonizzando nel contempo la natura, perché l’omosessualità è sua figlia».

Sul gesto la congiura del silenzio trova il suggello nell'ordine impartito dalla Santa Sede: ignorare Alfredo Ormando evitando di dare, il 23 gennaio, la notizia della sua morte. Qualche anno dopo era stata la teologa Gabriella Lettini a far notare che L’Osservatore Romano, nel giorno in cui avrebbe dovuto riportare la notizia della morte di Alfredo, raccontava nei dettagli la prima udienza, mai concessa da un papa, a un enorme pitone con cui si era presentata una delegazione di artisti circensi.

Una storia, quella di Alfredo Ormando, eretica, messa al bando, esclusa. Erba cattiva nel giardino buono, perciò da estirpare. Troppo tardi. La storia di Alfredo continua a interrogare la coscienza di ciascuno. Ogni 13 gennaio, la comunità Lgbt celebra la Giornata mondiale del dialogo fra religioni e omosessualità. “Dialoghiamo”: è l’invito rivolto dalla comunità arcobaleno credente alla Chiesa. Ancora oggi a distanza di 25 anni, una richiesta attuale.

Spesso i credenti lgbt si sentono divisi tra il loro credo e la loro identità. Il rifiuto è una strada che porta, nonostante la fede, all’allontanamento dalla Chiesa che tra luci e ombre, tra un Papa che dice di accogliere ma parla di teoria gender e la CEI che denuncia la pericolosità di una legge contro l'omotransfobia, ancora oggi non è riuscita a fare ad accogliere pienamente i propri fedeli.

Da Leone XIII a Sturzo: così la Chiesa si fece partito. Dalla breccia dell’enciclica si apre il varco per l’impegno in politica che culmina pochi anni dopo nel Partito popolare. Franco Vittoria su L'Unità il 24 Giugno 2023 

Lo stralcio che proponiamo qui di seguito è parte del libro “I cattolici e la questione politica” (editoriale Scientifica) di Franco Vittoria, docente di Istituzioni politiche all’università Federico II di Napoli. L’obiettivo del libro è di far emergere il cammino del cattolicesimo politico attraverso il continuo dilemma tra Chiesa e libertà. Il libro affronta l’opera della ricostruzione “ideologica” del cattolicesimo, dove emerge la figura dell’intellettuale francese Jacques Maritain. Con il pensatore francese termina l’assioma “cattolicesimo uguale a conservazione” e si inizia a ragionare elaborando una nuova idea di “cristianità politica”.

Il progetto di una “nuova cristianità” incrocia senza dubbio l’enciclica leoniana “rerum novarum”, nella quale prende forma una nuova rappresentanza per i militanti cattolici. Il libro di Franco Vittoria affronta il cammino storico-istituzionale dei cattolici attraverso la dimensione religiosa, fino a interrogarsi in quali forme le idee cristiane in questo tempo nuovo si faranno carne. A seguire un ampio stralcio del secondo capitolo, intitolato Le radici del cattolicesimo politico, le encicliche sociali.

Con l’enciclica Rerum novarum prende forma per i cattolici impegnati in politica una nuova forma di rappresentanza per i militanti della “nuova cristianità”. Fondamentale è il pontificato di Leone XIII, il suo interesse per gli studi sociali sono un viatico per “riorganizzare” una nuova missione dei cattolici che guardano con una nuova dimensione alla vicenda operaia. Già con l’enciclica Inscrutabili Dei consilio del 21 aprile 1878, solo pochi mesi dopo la sua elezione al soglio pontificio affermava nel disprezzo e nel rifiuto di quella santa ed augustissima autorità della Chiesa, che a nome di Dio presiede al genere umano e di ogni legittimo potere è vindice e tutela. Così come nella successiva enciclica Quod apostolici muneris del 28 dicembre 1878, Leone XIII si “oppone” alle teorie del socialismo e del nichilismo poggiando sulla sapienza cattolica.

La Chiesa, affermò Leone XIII, riconosce che nel possesso dei beni c’è disuguaglianza tra gli uomini e aggiunge che il papa non può dimenticare la causa dei poveri. Il pontificato di Leone XIII guarda con grande interesse a come elevare la causa dei poveri a nuova missione della Chiesa, costruendo case ed ospedali per avere la massima cura di questa nuova cristianità. È un tempo nuovo quello che disegna il pontificato di Leone XIII. «Le critiche dei padri gesuiti – osserva De Rosa ne L’opera dei congressi – e le encicliche leoniane sulla questione operaia, astrattamente considerate, appaiono inadeguate a risolvere i problemi della miseria e dell’emancipazione operaia sollevati dall’individualismo moderno e dallo svolgimento di un’economia privatistica fondata sulla legge del profitto. In effetti quelle critiche non rappresentarono in sé un manifesto, un programma economico; non pretesero di essere un formulario di scienza economico-sociale. La loro forza stava nella premessa, cioè nella condanna della pregiudiziale privatistica e borghese come criterio assoluto del fenomeno economico, stava nella denuncia del divorzio che la “rivoluzione libera- le” aveva operato tra città e campagna, tra economia e legge morale, tra società civile e religiosa, stava nel rifiuto del lavoro come merce, come condanna della vita dell’uomo alla schiavitù della macchina e dei processi accumulativi dell’economia borghese. Il socialismo e il nichilismo non erano “mali in sé”, ma “mali” nati dalla borghesia, che aveva sottratto alla Chiesa le grandi masse operaie, masse che però ora i governi non riuscivano più a controllare e a contenere. Il papa invece dava rimedio a questo “male”, il ritorno tutto intero, integrale della società, nei suoi servizi e nei suoi specifici attributi moderni, sotto la tutela della Chiesa».

Insomma, la Rerum novarum significò un grande balzo in avanti e soprattutto incarnò un nuovo modo di essere dei cattolici nei confronti della questione operaia, incarnando anche una presa di coscienza per il miglioramento della questione degli operai. Una vera e propria rivoluzione culturale per i tempi che fa dire a Luigi Sturzo che si sentiva figlio della libertà cristiana: «Destò […] gran meraviglia – dice Sturzo nel discorso del 1903 a Caltagirone su Leone XIII e la civiltà moderna – quando questo vecchio di circa 82 anni, nel 1891 pubblicò l’enciclica Rerum novarum sulla condizione degli operai, e parve allora, nell’agitarsi delle teorie che presiedono allo sviluppo di questa nuova corrente sociale, parve quasi socialistica, e persino i governi ancora liberali, anche ecclesiastici, di questa nuova forza unita al popolo; e dalle lontane Americhe si volevano scon-fessati i cavalieri del lavoro e dell’Austria vicina i cristiani sociali di Lueger, e dalle nazioni latine i democratici cristiani».

La Rerum novarum incise in modo significativo in tutti movimenti democratici cristiani europei e rafforzò l’azione dei preti e dei militanti cattolici che si sentivano legittimati a difendere le ragioni degli operai e non quelli dei padroni. L’Enciclica più importante di Leone XIII non fu una ricerca improvvisata della questione sociale «[…] ma il sigillo della suprema autorità a una dottrina lentamente ma sicuramente svi- luppatasi per merito dello studio e dell’attività di dotti e ardimentosi membri della gerarchia e del laicato cattolico», annota mons. Giovanni Antoniazzi ne L’Enciclica «Rerum novarum». Testo autentico e redazioni preparatorie dai documenti originali. La Rerum novarum maturò nei vari dibattiti che i cattolici non solo italiani, ma francesi piuttosto che tedeschi organizzarono in giro per l’Europa, e questo significò un nuovo sentire da parte della Chiesa. Troppe erano le agitazioni sociali e la povertà che coglieva milioni di persone, non poteva la Chiesa rimanere spettatore di una umanità che apriva problemi intensi alla religione.

«Rispetto anzi a questi fenomeni, allo stato della questione sociale, l’enciclica – annota De Rosa ne L’Opera dei congressi – arrivò con ritardo: ben quarantatré anni dopo il Manifesto di Marx, e quando lo sviluppo delle dottrine e delle organizzazioni socialistiche, specialmente in Francia e in Germania, era ormai avanzatissimo». Il cammino intellettuale della Rerum novarum fu affidata a grandi personalità con formazione filosofica come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara, uno dei temi più controversi e più tormentati nell’elaborazione dell’enciclica fu relativo alla misura del salario e al salario familiare come si evince dalle modifiche. Il primo schema era molto più avanzato della stesura definitiva, che risente delle indecisioni, dei dubbi e delle discussioni che allora dividevano su tale questione i cattolici.

Nel confronto fra il primo e secondo schema si ricava che mentre per lo Zigliara, il Papa è Vicario di Cristo, via, verità e vita, il Liberatore aveva indicato l’abolizione delle corporazioni, che non è invece esplicitamente indicata dallo Zigliara; mentre il Liberatore distingue soltanto due classi, i ricchi e i poveri, lo Zigliara ne aggiunge una terza, quella di coloro che, come emerge ancora nell’Opera dei congressi di De Rosa, «stanno in uno stadio intermedio, e vivono una vita più o meno agiata, più o meno laboriosa». L’elaborazione intellettuale della Rerum novarum affronta anche la possibilità dell’operaio di accumulare risparmio per consentirgli di poter acquistare proprietà e così che le distanze sociali tra i ricchi e i poveri si possano accorciare per costruire, attraverso le società di mutuo soccorso una nuova società.

La grande intuizione di Leone XIII consente ai cattolici militanti di procedere verso la nuova costruzione dell’impegno politico dei cristiani. Così la nascita nel primo dopoguerra del primo partito d’ispirazione cattolica, come il partito popolare, rappresentò una assoluta novità anche per molti cattolici, una novità, come scrive De Rosa, per quelle correnti clerico-moderate sempre attente per paura del socialismo ad accogliere con favore l’appoggio clericale. Sturzo non aveva l’ambizione di costruire il popolarismo come «ideologia politica di tutti i cattolici in quanto tali […] il Partito popolare sentì indubbiamente più vicina a sé l’esperienza generosa della prima democrazia cristiana, senza però disdegnare gli apporti dei moderati più sensibili ai temi del costituzionalismo moderno». Il popolarismo riuscì dove si fermò «il sociologismo attivistico dei murriani» il senso dello stato e la libertà politica.

«Il Partito popolare – scrive De Rosa ne Il Partito popolare italiano – sorse e in parte agì come partito che conservava ancora l’eredità del pensiero politico cattolico dell’ultima parte dell’Ottocento, come partito cioè di opposizione al principio e alla prassi del liberalismo statalistico, anche nella sua tendenza giolittiana, e come partito concorrenziale del socialismo; nacque come espressione di un’Italia rurale e contadina, sospettosa e arcigna verso quelle forme di politica operaistica, che colludevano con le ragioni specifiche del protezionismo industriale; nacque ancora come reazione alla cultura e alle forme politiche dell’anticlericalismo militante, antipapale e antiecclesiastico. Esso però si trovò ad operare negli anni difficili del primo dopoguerra, quando il vecchio mondo giolittiano, riformistico-borghese, con la sua fiducia ottimistica che il socialismo sarebbe rimasto né più né meno che un fenomeno economico di dilatazione e distribuzione sociale delle risorse del mondo capitalistico, fu messo in crisi dalla comparsa di un altro socialismo, che traeva la sua forza non già dalle ideologie dell’umanitarismo positivistico, ma dal trasferimento del machiavellismo sul piano mondiale della lotta di classe. La rivoluzione del 1917 stava per mutare i termini e la dimensione dei problemi di sicurezza di tutti gli Stati europei, stava per sconvolgere i criteri fonda-mentalmente interni e nazionali della lotta politica; per la prima volta metteva a nudo le radici assai deboli della nostra democrazia liberale eccitando le forze sopite e sparse dell’individualismo anarchico borghese. Croce aveva dato per morto da parecchi anni il marxismo, ma questi si presentava ora rinvigorito e armato dell’acuminata dialettica leninista. Il popolarismo di Sturzo fu come il classico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro: concepito come strumento per l’affermazione evolutiva delle istanze democratiche cristiane, in una prospettiva di partito politico di centro, dovette scendere in trincea, dissanguandosi, attraverso crisi e fughe di ogni specie, in una lotta disperata di resistenza fra un socialismo che non aveva più le vesti del generoso e romantico concorrente umanitario dei principi del secolo, e il rapido rifluire delle forze di tradizione moderata e conservatrice laica nel grande e livido fronte della concentrazione controrivoluzionaria, guidata da Mussolini».

Prima del discorso di Caltagirone, Sturzo aveva invitato alla riflessione anche gli amici di Murri, proponendo l’idea di una forza capace di spezzare l’egemonia della vecchia classe dirigente liberale, rafforzando un modello di partito che credesse nelle libertà e nei corpi intermedi e che potesse agire per spezzare l’egemonia giolittiana. Murri apprezzò molto il discorso di Caltagirone, ma non accolse l’invito di Sturzo alla prudenza, anche perché la Chiesa aveva colpito l’Opera dei Congressi quando sembrava che il movimento dei cattolici stesse per modernizzare il proprio pensiero. La nascita del popolarismo è legato indiscutibilmente alla figura del prete di Caltagirone e tutto l’impegno e la genialità di Sturzo fu quello di poter dare gambe alle idee dell’esperienza democratica cristiana e soprattutto dell’età leoniana.

L’intuizione di Sturzo fu quella di saper includere nel nuovo programma del popolarismo anche le altre esperienze dei cattolici «che avevano accettato il terreno della lotta politica su terreno costituzionale: dai democratici cristiani murriani che avevano alimentato le agitazioni contadine nella Romagna e in Toscana – annota ancora De Rosa – ai sindacalisti cristiani da Grandi a Miglioli, dai cattolici ex albertariani come Filippo Meda ai conservatori nazionali come Carlo Santucci. La fondazione del Partito popolare trovò un terreno fertile con la riforma voluta da Benedetto XV che assegnò compiti di diretta responsabilità ai militanti cattolici nella vita pubblica, e questo rappresentò un fatto di notevole importanza per la costruzione di una nuova militanza cattolica.

La nascita del Partito Popolare è indubbiamente un fatto di notevole importanza tanto che lo storico Federico Chabod scrisse che «[…] l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specialmente in rapporto al secolo precedente: il ritorno ufficiale, massiccio, dei cattolici nella vita politica italiana». Ma la stampa del tempo non colse l’importanza di questa nuova formazione politica e così anche Gramsci spiegò che l’operazione di Sturzo serviva come strumento provvisorio di un’organizzazione destinata a lavorare a favore del movimento socialista «non era proprio un’allegra prospettiva, però, era un passo in avanti rispetto alle banalità del vecchio socialismo anticlericale e al livore di quel moderatismo, che, meno che mai, era disposto a prendere per buona la comparsa di un Partito Popolare, che entrava nella cittadella dello Stato liberale, minacciando di mandare all’aria usi e costumi della prassi paternalistico-clientelare».

Franco Vittoria 24 Giugno 2023

Le apparizioni e il miracolo del sole. Le apparizioni di Maria e il miracolo del sole: il mistero della madonna di Fatima. Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2023 

Secondo le credenze sulla Madonna di Fatima tutto inizia un pomeriggio del 13 maggio 1917 a Cova da Iria, un villaggio nel Portogallo centrale, dove tre bambini – Lucia dos Santos di 10 anni e i suoi cugini Francisco e Jacinta Marto, fratelli di 9 e 7 anni – stanno giocando mentre accudiscono un piccolo gregge, in un terreno di proprietà del padre di Lucia.

La prima apparizione della Madonna

Verso mezzogiorno, dopo aver recitato come d’abitudine il Rosario, i bambini dichiarano di aver visto due fenomeni luminosi, come due lampi, e poi una misteriosa Signora splendente con un Rosario in mano. È la prima di sei apparizioni che i tre piccoli pastori avranno fino ad ottobre: sempre il giorno 13, tranne nel mese di agosto, quando dal 13 al 15 vengono “sequestrati” dal sindaco che cerca di smascherare quella che crede essere un’impostura (la Madonna apparirà poi ai tre veggenti il giorno 19).

Il miracolo del sole: 13 ottobre 1917

Migliaia di pellegrini iniziano ad arrivare a Fatima non appena si diffonde la voce degli eventi soprannaturali. Il 13 ottobre una folla di persone, fra loro anche numerosi giornalisti, assiste al “miracolo del sole”, il grande segno che era stato preannunciato dalla Vergine: dopo una pioggia battente che rende fradicio il terreno, il cielo si apre e il disco solare viene visto cambiare colore, dimensione e posizione per circa dieci minuti. Un sole che è possibile fissare direttamente con lo sguardo. Dopo l’accaduto, abiti e terreno si mostreranno improvvisamente asciutti.

Il messaggio principale delle apparizioni è legato ai tre segreti, o meglio a una rivelazione in tre parti che la Madonna fece ai pastorelli nell’apparizione del 13 luglio. Lucia, divenuta suora, scrisse le prime due parti nelle sue memorie, la terza, scritta il 3 gennaio 1944, la diede in una busta sigillata al vescovo di Leiria, busta che fu poi consegnata nel 1957 all’archivio segreto del Sant’Uffizio e il cui contenuto è stato divulgato nel 2000.

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “La Repubblica – Edizione Roma” lunedì 4 dicembre 2023.

“Siamo pochi, ma l’importante è la Madonna che ci segue”. Si sono presentati a Trevignano in meno di cento, sfidando il vento e il gelo. Ma soprattutto le tante inchieste intorno alla veggente Gisella Cardia, che nonostante le polemiche continua a godere dell’affetto dei suoi adepti. Un nucleo di fedelissimi che si riduce di mese in mese, ma che è ancora pronto a immolarsi per la sensitiva, capace di moltiplicare la pizza e gli gnocchi e di predire il futuro grazie al rapporto diretto con Gesù e la Madonna.

La pandemia, la guerra in Ucraina e poi quella in Israele. Ma anche i cambiamenti climatici. Sono tanti gli eventi storici che la Nostradamus di Trevignano si fregia di aver annunciato con largo anticipo. La maggior parte dei quali non si sono mai verificati. “Ora vedrete ciò che non avrei mai voluto che i vostri occhi vedessero: terremoti molto forti e ogni sorta di calamità come tempeste, tempeste, maremoti e guerre, perché non avete ascoltato le mie parole”, affermava nel 2021 la sensitiva, annunciando catastrofi di ogni tipo praticamente ovunque:

Giappone, Cile, Messico, Colombia, Canada, Stati Uniti, Inghilterra, Cina Anche a Roma. “Ci sarà un forte terremoto e l’altare della Patria sarà il primo ad essere distrutto”. [...] 

Non è un caso, forse, per la veggente, che va dritta per la sua strada, nell’attesa che si concluda l’indagine della Diocesi di Civita Castellana sui suoi presunti miracoli. “Quello che dice la Madonna di Trevignano si avvera dopo 3-6 mesi. Anche il Covid, lo aveva annunciato due mesi prima, dicendo ‘presto dalla Cina arriverà un virus”. Il presunto messaggio profetico risale al 28 settembre 2019:

“Pregate per la Cina perché da lì arriveranno le nuove malattie, tutto già pronto per influenzare l'aria da batteri sconosciuti”. Il messaggio di fatto è divenuto il manifesto degli adepti che, di fronte ai milioni di morti in tutto il mondo, gridano al miracolo per la profezia avverata. E accusano invece chi come l’ex fedele Luigi Avella si è sentito truffato dalla veggente dopo aver donato 123mila euro alla sua Onlus. 

La strada dei messaggi mariani di Cardia è lunga e tortuosa e passa attraverso espressioni generiche che vengono adattate in funzione degli avvenimenti. Come quando nel 2022 la Madonna, attraverso Gisella, invita a pregare per un generico politico in pericolo. «Pregate per un leader politico che subirà un attentato». […]

La Madonna di Trevignano piange davanti alle telecamere: l’esclusiva di Pomeriggio 5. Redazione su Il Riformista il 18 Maggio 2023 

Barbara d’Urso ha ospitato nel suo salotto televisivo pomeridiano la sedicente veggente di Trevignano Romano, la controversa Gisella Cardia. Gli inviati dello show Mediaset condotto da Barbara D’Urso, “Pomeriggio Cinque”, hanno dedicato una lunga intervista alla veggente, andata in onda martedì 16 maggio.

Al termine dell’intervista sarebbe successo l’incredibile, ripreso dalle telecamere Mediaset: “Sul volto della statua della Madonnina sono comparse lacrime“, fanno sapere i responsabili dello show..

Le telecamere della trasmissione, dunque, avrebbero ripreso l’evento ed è la stessa produzione dello show a diffondere un frame delle immagini, che vi mostriamo qui di seguito.

“Gisella cosa sta succedendo? – ha chiesto l’inviata di Pomeriggio Cinque – ho appena finito l’intervista durata tre ore, siamo testimoni di quello che sta accadendo, prima era asciutta (la statuina ndr) e adesso sta trasudando“. Un evento confermato dalla veggente Gisella Cardia, che lo avrebbe indicato come “un segno” di cui tener conto, in quanto la statua non lacrimava da tempo.

Estratto dell’articolo di Chiara Rai per “il Messaggero” il 18 maggio 2023.

La statuetta della Madonna che la sedicente veggente di Trevignano custodisce nel salotto di casa avrebbe "pianto" martedì, subito dopo una intervista televisiva con la conduttrice Barbara D'Urso. 

Il caso ha voluto che il "miracolo" della lacrimazione, anticipato con un frame sui canali social degli adepti e poi trasmesso ieri a "Pomeriggio Cinque", avvenisse di fronte alle telecamere tv. 

La foto divenuta virale, è ben zoomata sulle lacrime: una sostanza trasparente, quasi gelatinosa e grumosa. Un fenomeno in linea con il personaggio di Maria Giuseppa Scarpulla, alias Gisella Cardia, la "santona" che ogni tre del mese dice di parlare con la Madonna. […] 

Prima era sangue che analizzato dal Ris sarebbe risultato essere della veggente ma non ci sono conferme ufficiali al riguardo. 

In tv: «Gisella cosa sta succedendo? - chiede l'inviata di Pomeriggio Cinque - ho appena finito l'intervista durata tre ore, siamo testimoni di quello che sta accadendo, prima era asciutta (la statuina ndr) e adesso sta trasudando. Vediamo al lato del naso, qui non c'era niente prima».

La signora risponde: «Evidentemente è un segno per voi - dice Gisella Cardia - non so, è un po' che non lacrimava».

Estratto dell’articolo di Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 10 maggio 2023.

Era ora. La Pontificia Academia Mariana Internationalis, istituzione scientifica della Santa Sede che promuove la scienza "Mariologica" a livello internazionale negli ambiti culturali, ecumenici e interreligiosi, ha annunciato la creazione di un osservatorio per le apparizioni e i fenomeni mistici legati alla Vergine Maria nel mondo. 

Dalla prima apparizione storicamente accertata, quella a Gregorio di Nissa (nato nel 335 e morto nel 392) ad oggi, la Chiesa ha riconosciuto soltanto 15 apparizioni della Vergine. Dal 2000, in Italia, se ne contano circa 120. 

A queste vanno aggiunte una miriade di "associazioni religiose" che intrecciano cristi, anticristi, fine del mondo, culle per Gesù Bambino, "città sante" nuove e seminuove, demoni, ostie (e gnocchi) che si materializzano, che sanguinano, che volano, che si moltiplicano, bilocazioni, scomuniche al Papa, e altri deliri. 

Senza dimenticare che il nostro sembra essere il Paese degli stigmatizzati: siamo a quota 60, sparsi nel Centro Sud della Penisola, tutti presunti "figli spirituali" di Padre Pio. E qui bisogna annotare che il Santo del Gargano funziona, suo malgrado, come alibi: è stato perseguitato dalla Chiesa, ma aveva ragione. Ergo: se la Chiesa perseguita il santone o la santona, ha torto. […]

Estratto dell’articolo di Alessia Rabbai per fanpage.it l'8 maggio 2023.

Maria Giuseppa Scarpulla, alias Gisella Cardia, nella mattinata di oggi, lunedì 8 maggio, ha un'udienza al Tribunale di Civitavecchia, per bancarotta fraudolenta. Uno dei suoi avvocati difensori, Giuseppe Marazzita, fa sapere che infatti "Gisella non sarà fisicamente presente" verrà dunque rappresentata dal suo legale e che l'udienza riguarda appunto "il fallimento dell'azienda di ceramiche". Oggi verranno ascoltati alcuni testimoni informati sui fatti.

Maria Giuseppa Scarpulla per il reato di bancarotta fraudolenta ha ricevuto una condanna in primo grado a due anni di reclusione con pena sospesa dal Tribunale di Patti, in provincia di Messina. Un processo ad oggi è ancora in corso, che è partito dalla Sicilia ed è arrivato a Civitavecchia. 

L'amministratore unico e liquidatore e l'amministratore di fatto di un'azienda che opera nel settore edile avrebbero stipulato con l'impresa della quale Scarpulla era amministratrice unico e il dipendente e procuratore speciale, un contratto d’affitto d’azienda per un totale di 108 mila euro all'anno.

Un canone ritenuto incongruo e che avrebbe condotto la società al fallimento. In merito alla vicenda processuale che la vede coinvolta Scarpulla ha sempre ricordato a chi le chiedeva spiegazioni, che una persona è innocente fino al terzo grado di giudizio. 

La vicenda della bancarotta fraudolenta in cui è coinvolta la veggente di Trevignano Romano e che risale al 21 febbraio 2013 è finita sotto i riflettori dopo che un ex seguace, Roberto Rossiello, ha scoperto che il suo vero nome non era Gisella Cardia come sosteneva di chiamarsi, ma Maria Giuseppa Scarpulla. […]

Estratto da open.online l'8 maggio 2023.

Luigi Avella è il fedele della Madonna di Trevignano che ha donato 123 mila euro a Gisella Cardia. Qualche tempo fa aveva raccontato di aver fatto tutto «di mia spontanea volontà, credevo nelle apparizioni e nei messaggi della Madonna». L’ex dipendente del ministero delle Finanze diceva: «Mi sono avvicinato a loro in un momento difficile». Oggi però ha cambiato idea. E ha deciso di chiedere indietro i soldi alla veggente. 

«Era solo una truffa», dice ora. Avella, esperto di teologia, ha già presentato una denuncia nei confronti della santona e del marito Gianni Cardia. Adesso, spiega l’edizione romana del Corriere della Sera, rivuole indietro anche i soldi che le ha versato. Volontariamente, come ha ammesso, dopo che la moglie medico avendo avuto un incidente temeva di restare paralizzata. Avella metterà in piedi una causa civile per il risarcimento dei danni. Si è affidato all’avvocato Alfonso Luigi Marra. […]

Da iene.mediaset.it l'8 maggio 2023.  

Martedì 9 maggio, andranno in onda a “Le Iene”, in prima serata, su Italia 1, le immagini esclusive di tutto il “dietro le quinte” del 3 maggio, giorno in cui, puntuale, come ogni 3 del mese, Maria Giuseppina Scarpulla, alias Gisella Cardia, avrebbe avuto l’ennesima apparizione della Vergine Maria sulla collina di Trevignano Romano, adibita da tempo a luogo sacro e di preghiera, ieri blindata per l’evento.

Gaston Zama - che nella scorsa puntata del programma aveva firmato una lunga intervista in cui la veggente, per la prima volta, raccontava la sua verità – ha vissuto fianco a fianco con la presunta veggente il momento dell’apparizione della Madonna. Nella giornata di ieri organi di stampa hanno riportato la notizia che Gisella si fosse presentata all’incontro scortata da bodyguard e accompagnata da un video maker. La troupe della trasmissione di Italia 1 è stata, infatti, l’unica a poter stare vicino alla donna per documentare quanto accadesse.

Le telecamere hanno così potuto riprendere, dalle prime ore del mattino fino a sera, la preparazione all’evento miracoloso. Il servizio mostrerà tutto quello che è successo: alle 15 in punto Gisella cade in estasi, ha l’apparizione, scrive su un taccuino il nuovo messaggio che le ha mandato la Madonna, poi lo legge, si prega, si canta. Ci sono anche le proteste di alcuni abitanti di Trevignano che, non credendo alle apparizioni continuano ad affermare che “il posto non ha bisogno di questo tipo di pubblicità”, le preghiere dei fedeli giunti nel posto solo per nutrire il loro credo, e infine, lo svenimento, forse causato dalla troppa emozione, di una donna ai piedi della veggente.

Nell’intervista de Le Iene (andata in onda martedì 2 maggio, ndr.) Gisella aveva risposto, difendendosi dalle critiche a tutte le domande riferite ai temi che, in questi mesi, hanno creato più scalpore: dai pezzettini di cotone imbevuti in un olio che, a detta di alcuni, sembrava un comune olio d’oliva, alle analisi sulla statuetta della Madre di Gesù acquistata a Medjugorje, dalla moltiplicazione degli gnocchi durante un pranzo alle stigmate sul suo corpo. Oggi, aggiunge: “Ora ho paura per la mia incolumità”.

Cologno Monzese, 4 maggio 2023

 Una smentita divina, direttamente dalla Vergine, smonterebbe le tesi di Gisella Cardia. Trevignano, fact checking tra veggenti: spunta una seconda santona che smentisce Gisella. Da redazione  su Il Riformista il 5 Maggio 2023 

Arriva una smentita per la veggente di Trevignano, che asserisce di parlare con la Madonna. Una smentita divina, direttamente dalla Vergine, per tramite di una seconda veggente.

Le polemiche, è il caso di dirlo, sulla presunta apparizione della Madonna alla “veggente” Gisella Cardia, non solo non si spengono ma… raddoppiano. Infatti, nel giorno in cui la Madonna, come asserisce Gisella Cardia, le sarebbe apparsa, era presente anche un’altra donna che pure sostiene di aver un rapporto particolare con la Vergine. La donna, per ora, è rimasta anonima.

La seconda “veggente” ha rilasciato un’intervista all’inviato di “Mattino Cinque News”, Paolo Capresi, durante la quale ha ribadito di avere forti perplessità sugli avvenimenti che hanno reso famosi, in questi mesi, il piccolo borgo situato a pochi passi dal lago di Bracciano.

La seconda “veggente” di Trevignano ha, infatti, riportato ciò che che la Vergine le avrebbe riferito a proposito della situazione di Gisella. “La Madonna – sostiene la presunta veggente – mi ha insegnato umiltà, obbedienza e rispetto per la gente”. “Non voglio vantarmi  – ha proseguito – del mio dono, non voglio dire che io sia vera e Gisella falsa, ma la Madonna mi ha insegnato che non dà messaggi apocalittici e anche se dovesse prevedere qualcosa di negativo, troverebbe sempre il modo di tranquillizzare le persone”.

Probabilmente  – suggerisce la seconda veggente, riferendosi a Gisella Cardia – in passato ha avuto delle apparizioni, ma la Madonna mi ha detto che da lì sarebbe arrivato il male”.

Insomma, secondo la “collega” di Gisella, da fatti mistici non dovrebbe scaturire un vero e proprio business, come quello che oramai ruota attorno a Trevignano: “La Chiesa dovrebbe esprimersi il prima possibile questa storia, ci sono troppi soldi dietro Gisella. Ma lei non è sola, ci sono anche altre persone che l’hanno manipolata”, ha affermato.

La seconda veggente durante l’intervista ha lanciato un appello proprio alla “collega” Gisella: “Prima di tutto le dico di chiedere perdono alla Madonna per quello che ha fatto. Sarei disponibile anche ad avere un incontro con lei”. “Gisella, potrei tenderti una mano ed aiutarti, perché tu la Madonna non la vedi e ti chiedo di smetterla di prendere in giro le persone”, ha concluso.

Fenomeni paranormali. Tutte le Madonne sbugiardate dal Vaticano in Italia: lacrime, visioni e addirittura il diavolo che picchia le veggenti. Giulio Pinco Caracciolo  su Il Riformista il 5 Maggio 2023 

Le madonne che piangono sono ufficialmente tornate. Ormai da settimane l’attenzione dei media è concentrata sulla vicenda della Madonna di Trevignano. Ogni 3 del mese, precisa come un orologio svizzero, la vergine farebbe capolino su una collina nel piccolo borgo laziale sul Lago di Bracciano, per sussurrare all’orecchio di Gisella Cardia.

Niente profezie o sciagure ma fortunatamente parole rassicuranti e un tantino generiche: “Figli miei sono madre di misericordia. Non abbiate paura. Sono sempre accanto a voi, pregate sotto la croce del mio Gesù affinché possa aprire i vostri cuori.” Fino a qui tutto bene se non fosse per il Vaticano che da qualche giorno ha deciso di creare una task force per sbugiardare la veggente.

Ma questo della madonna di Trevignano che piange e parla sottovoce non è certo il primo caso. E allora rinfreschiamoci un po’ la memoria con i casi più eclatanti degli ultimi anni legati ad apparizioni e lacrime di sangue.

Lacrime della Madonna dell’Addolorata a Pisticci (2021)

In provincia di Matera, il 3 di aprile, un’effige della Madonna dell’Addolorata, custodita nella chiesa di San Giuseppe lavoratore, comincia a versare lacrime. Volto rigato dal pianto e foto che subito circolano in rete. I fedeli accorrono in poche ore e si radunano davanti alla statua. La curia invita alla cautela e manda il Vicario episcopale che non rileva segni evidenti di lacrimazione né presenza di liquidi, né di umidità, né incrostazioni sul volto della statua.

La Madonna appare in cielo sopra il Vaticano (2020)

In piena pandemia e proprio sopra S.Pietro accade qualcosa. Mentre Papa Francesco pronuncia l’omelia una nuvola, un po’ più brillante delle altre, piano piano si trasforma assumendo le fattezze di una figura femminile. A testimonianza anche un brevissimo filmato – facilmente reperibile in rete – del quale non si conosce la provenienza. I giornali lo ripubblicano ed ecco che diventa un caso.

Il dipinto nella chiesa di San Nicola (2008 e 2010)

Il pianto questa volta interessa un dipinto della Madonna con in braccio il bambino affisso nella chiesa ortodossa di San Nicola. Questa volta è il bambino a versare lacrime. “È successo di nuovo” – racconta l’arcivescovo Avondios – “Erano le 4 e mezza del pomeriggio, stavamo pulendo la chiesa prima dei vespri. Stesso improvviso profumo di rose, come l’altra volta. E ancora, le lacrime. Le hanno viste decine e decine di fedeli. Un miracolo? Noi non usiamo questo termine. Ma è accaduto. E l’icona è un dipinto inchiodato al muro e sigillato. Non è un trucco”.

La Vergine di Civitavecchia (1995)

Sicuramente uno dei casi più famosi. Il 2 febbraio a Civitavecchia, nel giardino della famiglia Gregori, accade qualcosa di insolito. La statuina della Madonna, custodita in una piccola nicchia nel loro giardino, sta lacrimando sangue. La prima che si accorge del fenomeno è la piccola Jessica di 6 anni che corre a chiamare il padre. Da qui in poi scoppia un caso che si risolve definitivamente solo nel 2000 dopo due commissioni d’inchiesta diocesane che non trovano segni evidenti di soprannaturalità non constat de supernaturalitate. 

La Statua dei signori Ilot (1994)

Il 22 maggio ad Assemini in provincia di Cagliari, dopo un paio di settimane dalla lacrimazione di una statuetta, la Procura di Cagliari decide di indagare. Intanto centinaia di fedeli iniziano il pellegrinaggio. In questo caso viene subito chiesto ai coniugi Ilot di sottoporsi al test del Dna. Rifiutano. Passano 7 anni di trattative e il risultato non lascia dubbi: il sangue sulla statua è quello della signora Ilot.

Lacrime dalla Madonna di Lazise (1994)

Lacrima sangue la Madonna di Lazise, paesino vicino Verona. Il fenomeno avviene alle 15,30. La statuetta proveniente da Fatima è di proprietà di un medico veggente Bruno Burato.  I fedeli accorrono e iniziano a recitare il Santo Rosario. Le lacrime rosse sgorgano dagli occhi della statua, scendendo sulle gote, sulla punta del naso e sul mento. Dalle analisi si evince che il sangue è di un soggetto maschile di gruppo AB, proprio come quello di Burato.

Le esperienze mistiche a Manduria (1992)

Durante una processione a Crosia (Cosenza), la sedicente veggente Debora Moscongiuri vede una luce che la invita a seguirla nel cammino spirituale. Al suo rientro a casa il 29 settembre del 1992 inizia il fenomeno della lacrimazione delle immagini della Madonna e di Gesù. Il mese successivo le appare in casa la Madonna annunciata da tre globi luminosi, che le promette un posto accanto a suo Figlio e la invita ad offrire le sue sofferenze per la salvezza dei peccatori. Da quel momento le apparizioni diventano frequenti e si manifestano più volte al giorno. Le appaiono Gesù, san Francesco, padre Pio e addirittura il diavolo che la picchia furiosamente.

I segreti della Madonna a Messina (1992)

Il 21 maggio 1992 la Vergine appare a Pina Scutellà, una casalinga con un’istruzione elementare. La sedicente veggente riceve in locuzione interiore un messaggio di Gesù: “Dovete pregare molto per purificare l’anima. Molte disgrazie ci saranno, molti moriranno. Un giorno verrò sulla terra e tutti mi vedranno e quel giorno sarà la fine. Il giorno del Signore verrà come un ladro, in quel giorno i cieli spariranno con grande fragore”. Pina in totale riceve 60 messaggi da Maria, dal 1992 al 1998 e quattro messaggi da Gesù in persona.

Il dipinto di San Ciriaco (1796)

Siamo ad Ancona, all’interno del duomo di San Ciriaco. Il 25 giugno le armate francesi di Napoleone sono alle porte della città. La confisca di tutti i beni della Chiesa è una concreta possibilità. È in quel giorno che Francesca Marotti, una donna, una fedele, afferma di aver visto un movimento delle palpebre degli occhi della Madonna raffigurata nel dipinto di San Ciriaco. Non versa lacrime ma inaugura l’inizio delle fenomeni inspiegabili legati alle icone sacre.

Altri casi degni di nota in rapida serie: lacrime a San Chirico Raparo, Potenza, versate dalla statua della Madonna nell’orfanotrofio provinciale Bentivenga, gestito dalle suore. Rivoli di sangue a Santa Maria La Palma, frazione di Alghero, da una Madonna custodita nella casa della casalinga Maria Vittoria Derudas. E ancora a Bernalda, Matera, sangue fuoriuscito dall’effigie di padre Pio, appesa nella cameretta da una ragazzina che l’aveva disegnata a matita.

Insomma lacrime in tutta Italia da Nord a Sud da dipinti, statue, icone e persino dal cielo. Un fenomeno che divide e che purtroppo crea false aspettative per miracolose guarigioni che puntualmente tardano ad arrivare.

Giulio Pinco Caracciolo

Estratto dell’articolo di Iacopo Scaramuzzi per “la Repubblica” il 4 maggio 2023.

Errori dottrinali, problemi di moralità, ma anche malattie mentali, truffe e circonvenzione d’incapace: tanti sono i problemi che possono nascondersi dietro una presunta apparizione, e in tale aumento, che la Chiesa ha creato un “Osservatorio internazionale sulle apparizioni e i fenomeni mistici legati a Maria”, una sorta di task force per contrastare le bufale che fioccano attorno alla figura della Madonna. 

È emanazione di quella Pontificia academia mariana internationalis che già anni fa, con la benedizione di papa Francesco, si preoccupò di “liberare Maria dalle mafie”, sottrarre cioè la devozione mariana alla malavita organizzata. L’organismo è stato presentato mentre la sedicente veggente di Trevignano tornava ad apparire in pubblico per ricevere nuove presunte rivelazioni. 

[…]

A Trevignano è al lavoro una commissione creata dal vescovo Marco Salvi che interrogherà la presunta veggente e chi l’ha assistita e seguita, ma assumerà anche le analisi svolte dalla scientifica sulle presunte lacrime della madonnina. La diocesi agisce con prudenza per non stroncare, insieme alle storture, anche l’incolpevole devozione popolare. Un tempo che, però, rischia di creare incertezza. 

[…] 

Bufale, insomma. Che il nuovo organismo, composto da teologi, mariologi, giuristi e medici, vuole evitare. Per amor di verità e perché un vescovo può essere a corto di personale formato. Nella consapevolezza che solo in Italia le apparizioni mariane presunte sono «migliaia», ma quelle che risultano fondate, alla fine, sono «pochissime».

 Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 4 maggio 2023.

Per capire il senso di questa storia occorre partire dalla fine. Dalla lunga coda dei fedeli che – verso le 16, a conclusione della preghiera e della presunta apparizione della Madonna – si dispongono in fila per abbracciare Gisella Cardia su questa collina a ridosso del lago di Bracciano sferzata da un vento gelido e incessante. 

Qualcuno le chiede di intercedere per ottenere la grazia e guarire dal cancro. Qualcun altro la invita a resistere nonostante le critiche. E c'è anche una signora in là con gli anni che sviene per l'emozione. Il caravanserraglio di pellegrini, quasi trecento, che armati di rosario e crocefisso per quasi tre ore hanno pregato, pianto, cantato e levato le braccia al cielo, si riduce in un serpentone silenzioso in attesa che la santona elargisca una parola di conforto.

Quanto al miracolo, all'apparizione della Madonna, non s'è visto ovviamente nulla. «Perché non è così che funziona – spiega un solerte seguace – la Madonna ci parla attraverso Gisella. È lei il tramite, è lei che vede la Madonna e poi ci racconta che cosa ha sentito». 

In effetti, come da copione di un film che a Trevignano si recita ogni 3 del mese, intorno alle 15, Maria Giuseppa Scarpulla (condannata per bancarotta fraudolenta) alias Gisella Cardia, 53 anni, abbandona le braccia lungo i fianchi come cadesse in trance e poi su un quaderno scrive appunti che leggerà poco dopo. […] 

La sedicente veggente riferisce poi un messaggio della Madonna che la riguarda personalmente: «La guerra è vicina e noi stiamo pensando a una donna che fa pregare, il demonio si è davvero scatenato ma la fede è più forte». […]

Il pubblico applaude e a fine happening la difende a spada tratta. «Bisogna aprire il proprio cuore e fidarsi di Gisella – dice un cinquantenne che arriva da Roma –. Nel 2019 aveva addirittura previsto il Covid, la Madonna le aveva detto che sarebbe arrivata un'epidemia dalla Cina e poi ha aggiunto che i vaccini non servivano. Io infatti non mi sono vaccinato». 

Ma come dimenticare la vicenda di Luigi Avella che ha donato all'onlus Associazione per la Madonna di Trevignano 123 mila euro e ora si sente raggirato pur non volendo presentare denuncia? Per non parlare dell'obbligo di sbaraccare il gazebo, la recinzione e la teca con la statua della Madonna perché abusivi. […]

Estratto dell’articolo di Alessia Rabbai per fanpage.it il 4 maggio 2023.

[…] La Questura si aspettava un migliaio di persone, se ne sono presentate circa quattrocento, tutte tranne poche eccezioni, provenienti da fuori. Gisella Cardia è uscita di casa pochi minuti prima delle ore 14 è salita in auto e ha raggiunto il terreno scortata da bodyguard sfoggiando capelli come appena uscita dal parrucchiere, pronta a salire sul suo palcoscenico. "Sembra Lady Gaga – commenta qualcuno – a questa messa in scena non ci credo. Trevignano non ha bisogno di questi siparietti". 

Dietro alla veggente pronta all'"incontro con la Madonna" seguaci in preghiera con corone in mano, avvolte da un vento sferzante. Il Padre Nostro recitato con la vecchia formula "non ci indurre in tentazione" e non nella nuova versione "non abbandonarci alla tentazione". Tra una decina e l'altra del rosario l'invocazione a Maria come "Regina della Collina di Trevignano", un titolo decisamente "abusivo". […]

 Estratto dell’articolo da open.online il 3 maggio 2023.

Dalla collina di via Campo delle Rose Gisella Cardia si è allontanata intorno alle 16, scortata dalle guardie del corpo e dai fedeli in pettorina. La sedicente veggente di Trevignano Romano aveva dato appuntamento come ogni 3 del mese ai credenti per pregare insieme, in attesa dell’apparizione della Madonna. 

Ma prima delle preghiere e dei messaggi religiosi, Maria Giuseppina Scarpulla si è occupata di cose ben più terrene, rivolgendosi a chi in questi mesi ha messo in dubbio il suo operato. «Io intendo continuare a stare qui e non arretro neanche di un millimetro perché sto nella casa di Dio. Siamo in pochi ma siamo i coraggiosi. La mia fede mi fa star bene. Perché io ho la Madonna dalla mia parte. 

In questi giorni mi avete dipinta come un mostro, che sono Satana in persona, che sono una che scappa e che sono blasfema ed eretica. Mi avete detto di tutto», ha tuonato contro giornalisti e scettici, «il demonio esiste, ma non sono io il male. Se dio è con me chi può essere contro di me?». […] 

A un certo punto, come racconta Il Messaggero, la “veggente” sarebbe creduta in trance prima di iniziare a trascrivere il messaggio che la Madonna avrebbe voluto comunicare attraverso di lei. «La Madonna dice: figli miei sono madre di misericordia. Non abbiate paura. Sono sempre accanto a voi», ha riferito ai fedeli, «pregate sotto la croce del mio Gesù affinchè possa aprire i vostri cuori. 

L’umanità sta andando verso l’autodistruzione. Pregate molto, la purificazione sarà dura ma necessaria. Amen». Cardia ha poi aggiunto, tornando a parlare di sé: «La guerra è vicina e noi stiamo pensando a una donna che fa pregare, il demonio si è davvero scatenato ma la fede è più forte». 

Sin dalle prime ore del mattino, già un centinaio di seguaci si sono diretti verso le sponde del lago di Bracciano, il luogo dove la donna sostiene avvengano le presunte apparizioni della Madonna. […] Ovvero nel terreno sterrato della Onlus del marito Gianni Cardia. […]

Estratto dell’articolo Sil.Co. per tusciaweb.eu il 3 maggio 2023.

In attesa di vedere oggi se anche questo 3 del mese sarà rispettata l’apparizione della Madonna a “scadenza”, ieri sera la sedicente veggente Gisella Cardia, dopo presenza lampo da Bruno Vespa, è stata col marito a Le Iene, intervistata da Gaston Zama. 

Apri le porte di casa perché ti manderò tante persone per essere convertite”, sarebbe stato sei anni e mezzo fa il primo messaggio della Madonna, indicandole anche il terreno da comprare per l’adunanza di fedeli. 

Quando ho le visioni è come se andassi in un’altra dimensione”, ha ribadito la 53enne d’origine siciliana che raduna le folle sul lago di Bracciano. Sulle questioni spinose, come l’essere stata incinta dello Spirito Santo risponde “assolutamente no”, mentre riguardo a gnocchi e coniglio dice che è “una storia vera detta in modo sbagliato”, spiegando “io non moltiplico niente, ma è successo, la confermo” e che “erano presenti due sacerdoti”, come ha sottolineato il marito.

Ma vi rendete conto che qui hanno fatto un comitato No Madonna?”. Parla di “fango” e di un “disegno dietro”, di “qualcuno che vuole distruggere Trevignano e la Madonna”, di “gente venuta a casa che voleva picchiarmi”, “messaggi minatori”, “anima a pezzi, ma fede più forte”. Dice: “Ho anche pensato di dire alla Madonna, ‘vai da un’altra parte'”. 

Replica alle accuse del regista Luigi Avella che a Viterbo ha girato un film su Santa Rosa e le avrebbe donato 123mila euro, usati per comprare un climatizzatore, salvo essersene pentito: “Lui ha detto io voglio dare questi soldi all’associazione Madonna di Trevignano, sono stati spesi per risistemare il santuario”. […]

Estratto dell’articolo di Chiara Rai per “Il Messaggero” il 3 maggio 2023.

È tutto pronto come da programma o, meglio, come da sette anni a questa parte. Solo che stavolta si aspetta un'affluenza di persone ancora più numerosa. Ci sarà la sedicente veggente, ci sarà la teca con la statuetta della Madonna acquistata a Medjugorje che avrebbe pianto lacrime di sangue. Ci sarà uno spiegamento di almeno 50 elementi delle forze dell'ordine. 

I carabinieri saranno in divisa, ma diversi poliziotti in borghese controlleranno la situazione da vicino per evitare disordini. La cerimonia si ripete. Oggi è il 3 maggio e saranno forse più di un migliaio i fedeli che dalla tarda mattinata raggiungeranno il terreno con vista lago di Bracciano, a Trevignano, per pregare insieme a Maria Giuseppa Scarpulla, alias Gisella Cardia che intorno alle 15 dovrebbe ricevere un messaggio direttamente dalla Madonna da divulgare ai suoi seguaci […]

Paradossale che inserendo la strada su Google maps sia indicato addirittura "santuario Gisella", luogo di culto. Ormai è una realtà di speranza per molti e una mis en scène dai contorni trash per altrettanti altri. Dalle 13 sarà possibile entrare all'interno del campo. Dalle 14,30 si inizia a recitare il Rosario. Non c'è bisogno di prenotarsi e l'ingresso è gratuito ma sul sito della onlus le indicazioni sono precise: bisogna vestirsi in maniera decorosa, spegnere i cellulari, fare silenzio.

E cosa che non c'è scritta, evitare di non portare con sé macchine fotografiche, penne e taccuini perché i giornalisti non sono proprio i benvenuti. Proprio oggi si riunirà l'Osservatorio per le apparizioni e i fenomeni mistici legati alla figura della Vergine Maria, che sarà quindi chiamato a valutare i fatti di Trevignano. La tensione nella cittadina è alta.

Nessuna auto potrà arrivare in via Campo delle Rose, dove tra l'altro vige un'ordinanza di interdizione alla circolazione di vetture. Si può percorrere la strada soltanto a piedi. […]

Estratto dell’articolo di Chiara Rai per “il Messaggero” l'1 maggio 2023.

Mercoledì 3 maggio ci sarà un grande spiegamento di forze dell'ordine, in divisa e in borghese, per controllare il raduno di fedeli che si ritroveranno a Trevignano, insieme alla sedicente veggente Maria Giuseppa Scarpulla, alias Gisella Cardia per venerare la Madonnina. 

Il "miracolo" avverrà nel campo di via Monticello, un terreno sul lago dove, dal marzo del 2016, una statuetta acquistata a Medjugorje piangerebbe lacrime di sangue. La sindaca Claudia Maciucchi è stata ricevuta giovedì mattina in Prefettura, il primo incontro di persona rispetto al consueto rapporto epistolare che si tiene ogni mese ormai da circa sette anni. 

[…] Il questore invierà 24 ore prima dell'evento disposizioni precise sullo spiegamento di polizia che sarà presente a Trevignano per garantire la sicurezza». E se l'ultima volta erano presenti circa 500 persone alla specie di santuario a Trevignano, stavolta se ne attendono più del doppio. Queste almeno sono le previsioni di chi monitora i visitatori. E La sindaca è in costante contatto con i carabinieri di Bracciano, con la procura di Civitavecchia e con il vescovo perché ci sono questioni in sospeso che avranno seguito nei prossimi giorni. 

Come il possibile smantellamento degli arredi abusivi intimato con ordinanza dal Comune, le indagini per presunto reato di truffa o raggiro a carico della pseudo veggente, le verifiche della Chiesa. Intanto sono attesi molti fedeli che non hanno mai abbandonato la sedicente veggente che a breve sarà ascoltata dalla commissione istituita dal vescovo di Civita Castellana Marco Salvi che, secondo indiscrezioni, non sta perdendo tempo nell'applicazione della procedura prevista nell'investigazione del fenomeno sulle presunte apparizioni mariane e "miracoli casarecci" come la moltiplicazione degli gnocchi che sarebbe avvenuta per sfamare i commensali della signora Cardia.

Anche i carabinieri stanno proseguendo con le indagini e ascoltando ex seguaci della sedicente veggente, ma gli episodi sarebbero inquadrabili come reati di lieve entità. È per questo motivo che più di tutti è attesa l'indagine del vescovo, condotta con una equipe di specialisti tra cui un esorcista, che potrebbe delegittimare questi eventi. […]

Da iene.mediaset.it l'1 maggio 2023.

In una lunga intervista a Gaston Zama Maria Giuseppina Scarpulla, meglio conosciuta come Gisella Cardia, la sedicente veggente dietro l’ormai celebre Madonna di Trevignano, racconta per la prima volta la sua verità. Questa testimonianza è al centro del servizio de Le Iene, in onda domani sera, martedì 2 maggio, in prima serata, su Italia 1. 

La donna - al centro delle cronache e delle polemiche per aver detto di aver visto lacrimare sangue dal volto della statuetta riportata da Medjugorje e di ricevere dalla Madonna messaggi per i fedeli - affiancata dal marito, ripercorre tutta la vicenda, rispondendo alle domande che, in questi mesi, hanno creato più scalpore: 

1 – Si è letto che lei aveva questa azienda di ceramiche e che, ad un certo punto, ci sono stati dei problemi. Cos’è successo?

2 – Qualcuno ha interpretato questo “cambio di nome” come qualcosa per sfuggire a un passato. Ci spieghi.

3 – Quando si è accorta che la statuetta ha cominciato a trasudare olio?

4 – Ha detto di aver ricevuto messaggi distensivi da Dio, preoccupanti dalla Madonna. Ci dica. 

5 – Qualcuno ha raccontato che alla base della statuetta che teneva in camera da letto c’erano dei pezzettini di cotone imbevuti in un olio che sembrava un comune olio d’oliva. È così?

6 – Nel 2016 i Ris effettuano delle analisi sulla statuetta, i risultati non sono mai stati divulgati ma in questi giorni è uscita la notizia fosse sangue di maiale. Voi avete richiesto i risultati? Cosa vi è stato risposto? 

7 – Ha creato parecchio scalpore anche il fatto che lei fosse incinta da parte dello Spirito Santo.

8 – Si è parlato anche dei tre giorni di catastrofe che avrebbe annunciato suo marito invitando le persone a barricarsi dentro casa e di lei che avrebbe sfamato quindici persone grazie alla moltiplicazione degli gnocchi.

9 – Durante il periodo di quaresima accadrebbe anche un altro miracolo: le stigmate.

10 – Si parla della somma di 123.000 euro con cui avreste acquistato climatizzatori, sostituito un box doccia, comprato un forno. Come sono stati spesi quei soldi?

11 – Quando e con quali soldi è stato acquisito il campo delle apparizioni è di vostra proprietà? Come lo avete scelto?

 Estratto dell’articolo di Alessia Rabbai per fanpage.it il 23 aprile 2023.

"Mi hanno chiesto dai 50 ai 100 euro per un incontro privato con Gisella Cardia dicendomi che, se volevo vederla per parlarci, c'era da attendere, i tempi sarebbero stati lunghi, ma che mi avrebbe fatto saltare la fila". Itala, una ex seguace della veggente, tra le migliaia di persone che si riunivano in preghiera con lei, intervistata da Pomeriggio 5 con Barbara D'Urso, ha raccontato quanto le sarebbe stato detto in occasione della recita del rosario nel terreno di via Campo delle Rose a Trevignano Romano.

Ogni 3 del mese centinaia di persone provenienti da Roma, ma anche da fuori Italia raggiungono il paese sulle sponde del Lago di Bracciano, per pregare con la veggente, che sostiene di vedere la Vergine Maria. 

Itala ha raccontato di essere andata nel terreno dove recitano il rosario per la prima e unica volta a gennaio scorso, in compagnia di alcune amiche e del nipote e che nel campo c'era un banchetto attrezzato per la vendita di tutto: dalle bottigliette d'acqua da bere ai rosari, dai crocifissi all'acqua santa, tutto con i rispettivi prezzi indicati. 

"Mi sono avvicinata per prendere una bottiglietta d'acqua per il mio nipotino – ha spiegato – pensavo che fosse gratis, invece mi hanno risposto che costava 2 euro. Sono rimasta stupita e non l'ho comprata". Itala ha aggiunto: "Nel campo durante la recita dei rosari ho sentito vendere le cartoline con l'immagine della Madonna di Trevignano su cartoncino al modico prezzo di 12 euro".  […]

 Estratto dell'articolo di Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 21 aprile 2023.

Il Vaticano ha istituito una task force per misurare la veridicità dei fenomeni paranormali, tipo Madonne che piangono sangue, visioni celesti, bilocazioni, stimmate.  «Questi avvenimenti straordinari esistono e accadono davvero, ma va detto che sono rarissimi». 

A raccontare al Messaggero quali criteri vengono usati per verificarne la solidità è suor Daniela Del Gaudio, l'unica donna inserita nel nuovo Osservatorio Internazionale sulle Apparizioni (OIA), un organismo appena nato su impulso della Pontificia Accademia Mariana. Docente di teologia dogmatica, autrice di decine di volumi sulla mariologia, Del Gaudio prova a fare luce su un terreno scivoloso, delicato e spesso al centro di polemiche (e di vistose bufale).

Perché è nata questa task force sul paranormale?

«Per aiutare i vescovi di tutto il mondo quando si trovano ad affrontare notizie di eventi simili sul loro territorio diocesano. Noi siamo a disposizione per fornire le informazioni che di volta in volta necessitano. E' un supporto ulteriore che si va ad aggiungere alle procedure in vigore per il discernimento delle apparizioni della Congregazione della Fede». 

Che strumenti avete per individuare le bufale e le truffe?

«La verifica principale si fa ascoltando i testimoni de visu. I sedicenti veggenti vengono analizzati in base alla loro moralità, al loro equilibrio psichico, alla rettitudine nella vita quotidiana. Se qualcuno è stato in passato accusato di reati come bancarotta, frodi o altro va da sé che non costituisce un elemento favorevole. E poi si scandaglia la personalità. Il presunto veggente non deve essere malato di protagonismo, non deve avere la brama di lucrare sulla sua attività. E poi noi guardiamo anche la docilità che mostra nei confronti della autorità ecclesiastica. Infine se ci sono dei messaggi questi non devono contenere elementi negativi, contrastanti con il magistero e la teologia». 

[…] 

Vi arrivano tante segnalazioni di Madonne che si manifestano?

«Tantissime, poi però andando a scavare succede che non sempre le cose stanno così come sembrano...» 

I vescovi sono i primi ad intervenire?

«Esatto. Le regole in vigore prevedono un primo iter a livello locale: i fenomeni vanno inquadrati come rivelazioni private e non appartengono alla rivelazione pubblica, quindi non costituiscono materia di fede. Il più grande mariologo che la Chiesa abbia mai avuto, padre Laurentin aveva sintetizzato bene la questione dicendo che anche se un fedele, per esempio, non crede a Fatima, non si fa peccato e, quindi, non è necessario andarsi a confessare». 

Quante sono le apparizioni finora approvate?

«Pochissime. Il soprannaturale esiste ma non è di certo quello che si vede nei film. Anche i miracoli esistono. Gesù del resto ne ha fatti tanti: si tratta di segni per aiutare chi ha fede ad avere una prova che Dio può intervenire interrompendo anche la legge della natura. La santità in ogni caso è sempre semplice, i veri mistici sono umili». 

Esistono casi di bilocazioni?

«Ovviamente. Tra i casi più eclatanti mi piace ricordare quello relativo a Padre Pio. Ci sono prove di quello che accadde ad un sacerdote di Rovigo andato a San Giovanni Rotondo. Padre Pio gli chiese di restare alcuni giorni ma lui gli rispose che non se la sentiva perchè avrebbe messo in pensiero la sorella che abitava a Rovigo visto che non la aveva avvertita prima. In quel preciso istante a settecento chilometri di distanza la donna si trovò davanti, a casa sua, l'immagine di Padre Pio che la informava che suo fratello sarebbe rimasto in Puglia per 48 ore in più e di non preoccuparsi.

Il sacerdote seppe di questo fatto quando tornò in Veneto. La sorella (una donna sana ed equilibrata) era ancora sottosopra per l'evento inspiegabile. Sulle bilocazioni a me personalmente colpiscono sempre anche i fatti di Kibeho, in Ruanda avvenuti nel 1721. Una veggente andava in catalessi e faceva viaggi mistici e al risveglio descriveva cose particolarissime, avvenute in altre parti del mondo, o che dovevano ancora avvenire. Tutto serio e documentato. Semplicemente strabiliante. Ovviamente inspiegabile dal punto di vista scientifico» 

Per lei la storia della Madonna di Trevignano che piange sangue è una bufala?

«Non voglio parlare di questo perché esiste una indagine in corso». 

Ci sono presunti veggenti che affermano di vedere la Madonna a ore e date prestabilite in anticipo, come se fosse una specie di palinsesto tv. Le pare credibile?

«Ovviamente questo non è mai un segno positivo».

Quante sono le apparizioni certificate nella storia?

«Una ventina soltanto. E tutte con caratteristiche di totale serietà. La Chiesa avanza con prudenza e con i piedi di piombo». […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 21 aprile 2023.

Fenomeno della moltiplicazione delle denunce: le querele nei confronti della veggente, Gisella Cardia, lievitano con il passare dei giorni. La terza, presentata per ultima dall’investigatore privato Maurizio Cacciotti ai carabinieri della stazione di Colleferro, lascia intendere che il marito, Gianni Cardia, segua le orme della signora nell’attività di procacciamento del denaro per la missione. 

Anzi, con imprevista fortuna, l’uomo avrebbe raccolto 30mila euro da una persona indotta «a farlo attraverso promesse di fatti non avvenuti sempre attinenti alla detta attività miracolistica». Soldi poi svaniti nel nulla di progetti sfuggenti e avventurosi. […] 

Ora che la Procura di Civitavecchia ha avviato formalmente un’inchiesta si esplora l’eventualità che Cardia (ma il vero nome è Maria Giuseppa Scarpulla) e marito possano aver raggirato i devoti della Madonnina fra promesse miracolistiche ed epifanie lungo la braccianese. 

Il determinato Cacciotti incalza gli investigatori suggerendo loro di valutare «iniziative volte ad impedire l’eventuale inquinamento delle prove». Mentre lei Cardia /Scarpulla si difende scegliendo con cura le parole: «Abbiamo solo la fede. Se volete fare qualcosa per noi dite una preghiera». Sottotesto: ma quale patrimonio? 

Restano gli ostacoli investigativi: scartata l’ipotesi del reato di abuso della credulità popolare (strada depenalizzata e dunque non percorribile) i pm potrebbero voler approfondire l’ipotesi di una truffa ma le denunce di Cacciotti non li soccorrono perché sono di seconda mano per così dire, limitandosi a riferire il nome di presunte vittime di Cardia/Scarpulla. […]

"Vivo con il lavoro di mio marito". Madonna di Trevignano, la veggente si difende: “Mi sento una martire, mai chiesto un euro”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Aprile 2023

Gisella Cardia aveva raccontato delle apparizioni della Madonna, di moltiplicazioni di gnocchi e pizza, delle stimmate durante la Quaresima, dei messaggi che la Madonna le lasciava in quelle occasioni puntuali e sempre più partecipate. E oggi, la veggente di Trevignano Romano, piccolo comune nel Lazio, dice di sentirsi una martire per il caso scoppiato intorno al culto che è cresciuto sempre di più negli ultimi anni sulla collina affacciata sul lago di Bracciano dove ogni 3 del mese alle 15:00 la folla si radunava per le presunte apparizioni.

Io vivo con il lavoro di mio marito – ha dichiarato la donna al telefono alla trasmissione televisiva Pomeriggio Cinque – non abbiamo case, non abbiamo ristoranti, non abbiamo nulla. Noi abbiamo solo la fede. In questo momento mi sento una martire. Non ci siamo arricchiti perché non abbiamo mai chiesto un euro”. Con il marito la donna – all’anagrafe Maria Giuseppa Scarpulla – si era trasferita dalla Sicilia, quando una statua in ceramica della Madonna che aveva comprato in un viaggio a Medjugorje avrebbe cominciato a lacrimare sangue. Le apparizioni sono andate avanti dal 2016, i due hanno fondato una Onlus. Il caso è esploso dopo gli esposti di un investigatore privato. La Procura di Civitavecchia sta indagando sul caso. Un’indagine è stata aperta anche dalla diocesi di Civita Castellana.

Se volete fare qualcosa per noi, fate una preghiera”, ha detto che diceva così Cardia. Ha negato in ogni modo di aver chiesto dei soldi. Un uomo ha raccontato a La Repubblica di Roma di aver donato 123mila euro alla onlus. Di spontanea volontà, ha ammesso, nessuno glieli aveva chiesti: credeva nelle apparizioni e nei messaggi della Madonna. “Ho dato in tutto 123mila euro tutto con bonifici per fare degli acquisti: le panche, la recinzione, una macchina e tante altre cose. Di questi, 30 mila euro li ho dati al marito per sostenere le spese della logistica. Quando ho scoperto che qualcosa non andava mi sono allontanato”, aveva raccontato Lugi Avella, 70 anni, ex funzionario del ministero dell’Economia al quotidiano romano.

Lo stesso aveva detto di essersi allontanato dalla coppia quando è stato nominato direttore dei lavori per la recinzione del terreno delle apparizioni in via di Campo delle Rose, sulla collina, dopo che si sarebbe accorto che l’autorizzazione non era a suo dire in regola. Proprio ieri il comune di Trevignano ha ordinato la demolizione del cosiddetto santuario della Madonna. Una delle versioni riportate dagli esposti è inoltre che il sangue che lacrimava dalla statua sia sangue di maiale. “Se avessi messo il sangue di maiale o mio, sarei stata così stupida da portarla al vescovo per farla analizzare, dandola deliberatamente senza che nessuno me lo avesse chiesto?”. La procura sul caso valuta la truffa e l’abuso di credulità popolare.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Romina Marceca per “la Repubblica – edizione Roma” il 19 aprile 2023.

Il temporale di primavera sul paese non cancella la rabbia e il disagio, il desiderio di rimanere lontani dalle polemiche e «dalle mezze risatine perché siamo cascati dentro a una truffa». 

Trevignano è in rivolta contro la sua santona Gisella Cardia, nome in arte, al secolo Giuseppa Maria Scarpulla. «È una menzognera» , «È venuta qui a rovinarci», «Spero di non incontrarla più» , «Vada via». Sono le voci dei trevignanesi più adirati. «Le speranze non si vendono, penso a tutte quelle persone che si sono lasciate trascinare da lei e hanno voluto credere a quei messaggi mariani», dice una vicina della Cardia accarezzando il suo bassotto.

Le serrande nella casa della presunta veggente e del marito Gianni sono chiuse ma tutti sanno che lei è lì. Ha trascorso la Pasqua lontano da Trevignano sperando che il clamore dopo l’indagine per truffa nei confronti dei fedeli si placasse. «Non voglio parlare con nessuno», è l’unica frase consegnata all’avvocato Giuseppe Marazzita. 

[…] «Il vescovo mi riceva, ho 150 testimoni che hanno ricevuto la grazia», intanto promette lei. Il marito risponde al telefono scocciato mentre fuori dalle palazzine popolari è un viavai di giornalisti: «Non diciamo niente» […] 

Il signor Rossi fa capolino dalla sua villa di fronte alla casa di Gisella Cardia, in via Carlo Alberto Dalla Chiesa: «So solo che sono andato su tutte le furie quando ci è stato detto che col parapendio non si poteva più atterrare nel terreno dove la santona ha messo la statua. Ci ha rotto i c...».

Da casa della veggente alla piazza principale sono meno di due chilometri e 350 metri di altitudine. Di fronte all’osteria “La Cantinella” c’è Rufino, il titolare. Di fronte il lago di Bracciano. «Ma ci avesse mai portato un cliente in più. La gente arrivava qui, passava per salire in via Campo delle Rose dalla Madonna e di certo non si fermavano qui da noi. I pellegrini hanno il pranzo a sacco. La moltiplicazione degli gnocchi? Ma se è vero l’assumo subito». 

Poco distante c’è la casa del fanciullo, don Piero Rongoni prepara la messa delle 18: «Le ho vietato il rosario in chiesa il martedì perché non intravedevo un percorso di fede autentico. Ha detto in giro che l’ho cacciata ma non è così». […]

La destinazione del luogo è quella di paesaggio naturale agrario. Madonna di Trevignano, demolizione immediata del luogo di culto: “Tutto abusivo”. Redazione su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

Addio al luogo di culto della Madonna di Trevignano. Dovranno essere rimosse la teca, le panche, le palizzate e ogni altro manufatto sul luogo delle presunte apparizioni. Demolizione immediata, ha ordinato il Comune alle porte di Roma, con un’ordinanza del 18 aprile 2023. È l’ultimo capitolo della saga ormai arcinota della Madonna che apparirebbe su una collina e lascerebbe messaggi alla sedicente veggente Gisella Cardia. Secondo l’amministrazione tutti i materiali e le opere, site sulla collina di via Campo le Rose, oggetto dell’atto sono abusivi. Vanno rimossi, entro 90 giorni, a spese dei responsabili.

L’ordinanza detta “all’associazione onlus ‘La Madonna di Trevignano Romano Ets’, nella persona di Cardia Gianni, in qualità di legale rappresentante, di provvedere alla demolizione di tutte le opere e al ripristino dello stato dei luoghi entro il termine massimo di 90 giorni dal presente documento, con spese a carico dei responsabili“. Per l’atto dovranno essere smantellati: “Il manufatto in legno con tetto ricoperto in guaina ardesiata; la teca in vetro con al suo interno la statua della Madonna; l’altra costruzione in legno contenente una statua votiva; la strada brecciata; le panche in legno e metallo, infisse nel terreno tramite staffe metalliche; le palizzate in legno per dividere il terreno e le corde con cartellonistica indicante aree di parcheggio veicoli e transito a piedi”.

Agli uffici competenti non risultano “memorie, documenti, o informazioni utili nei termini previsti, con ulteriori 15 giorni prima dell’emissione dell’ordinanza”. Il terreno in realtà risulta dell’associazione “La Madonna di Trevignano Romano Ets” ma il luogo di culto, scrivono i vigili urbani, è stato realizzato “in una zona agricola di rispetto, vincolata perché ricadente nel parco regionale di Bracciano e Martignano, la cui destinazione finale è quella di ‘paesaggio naturale agrario’“. E quindi “in assenza di titolo autorizzativo e dei vari nulla osta e pareri obbligatori e vincolanti, e di istanze di permesso a sanatoria” si procederà con lo smantellamento.

Scarpulla ha 53 anni, siciliana, ex imprenditrice. A Patti, in provincia di Messina, aveva una piccola azienda che produceva ceramica. Per bancarotta fraudolenta era stata condannata a due anni, pena sospesa. Si era trasferita con il marito Gianni Cardia nel Lazio e aveva fatto un viaggio a Medjogorje. Lì avrebbe preso la statua di una Madonna che avrebbe preso a sanguinare dagli occhi. Ogni 3 del mese, da cinque anni, su una collina di Trevignano Romano, folle di fedeli arrivavano per assistere al presunto miracolo e per accogliere i messaggi della Madonna.

La coppia ha fondato la Onlus “La Madonna di Trevignano Romano”. Dopo che la Diocesi di Civita Castellana ha annunciato un’indagine – per “approfondire l’eventuale fenomenologia dei fatti” e “comprendere se gli eventi hanno carattere soprannaturale” – e dopo che un investigatore privato ha presentato ai carabinieri un esposto sostenendo che le lacrime della Statua sarebbero di sangue di maiale, il caso è letteralmente esploso. La donna, tramite il suo avvocato, ha fatto sapere di non essere sparita come alcuni giornali avevano scritto e di non aver truffato nessuno.

Ho dato in tutto 123mila euro tutto con bonifici per fare degli acquisti: le panche, la recinzione, una macchina e tante altre cose. Di questi, 30 mila euro li ho dati al marito per sostenere le spese della logistica. Quando ho scoperto che qualcosa non andava mi sono allontanato”, ha raccontato Lugi Avella, 70 anni, ex funzionario del ministero dell’Economia a Repubblica. È uno dei fedeli che ormai i giornali definiscono “pentiti”. Ha riconosciuto comunque di non essere stato in alcun modo costretto alla donazione.

Estratto dell’articolo da repubblica.it il 14 aprile 2023

La Commissione istituita dalla diocesi di Civita Castellana sulle presunte apparizioni della Madonna di Trevignano potrebbe affermare che "non c'è nulla di soprannaturale" nei fenomeni analizzati. È quanto trapela in merito ai lavori degli esperti chiamati ad indagare sul caso dal vescovo Marco Salvi. E anche se la diocesi ha parlato di un documento da diffondere "nei prossimi giorni", non è escluso che sia invece necessario più tempo, considerata la complessità del caso. […] 

Come è invece accaduto per Trevignano. Sulla soluzione rapida del caso padre Roggio frena: "Per i risultati ci vogliono i tempi corretti, almeno qualche mese per una indagine seria". Quanto al ruolo della Chiesa locale, il mariologo sottolinea che "sin dall'inizio ha vigilato su quanto accadeva". "La Commissione darà un parere al vescovo, sarà poi lui a pronunciarsi. ma se si vuole fare un lavoro serio, e non chiacchere da bar, ci vuole tempo", conclude.

Estratto dell’articolo di Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 14 aprile 2023.

Il 3 maggio davanti al lago ci sarà come sempre il raduno dei fedeli con la recita del rosario per la Madonna. La donna che afferma di ricevere messaggi celesti, Gisella Cardia, ora si aspetta che la bufera si cheti. Non si è mai allontanata dal Lazio e si aspetta di essere difesa dal Vaticano.

 Come si sente?

«Non è piacevole essere dipinti come dei truffatori, specie quando si ha la coscienza a posto. Mi sento sotto attacco da forze oscure, poteri non identificati. Ho l'anima affranta, il cuore spezzato e se non avessi la forza della preghiera non riuscirei andare avanti».

 Che spiegazione si è data di quel sangue su quella statuetta visto che poi non ha più pianto?

«Quando la Madonna piange non è mai un buon segnale per l'umanità che dovrebbe rivedere la sua condotta e tornare a Dio».

In passato è stato fatto un esame dal RIS e da questa indagine è emerso che il sangue sulla Madonnina avesse il suo stesso patrimonio genetico. Come se lo spiega?

«Noi non abbiamo nulla che certifichi ciò». […]

 I fedeli le hanno mai affidato denaro?

«Si, fedeli, amici e tanti sconosciuti che hanno preferito restare nell'anonimato e fare donazioni per lo più servite ad allestire il luogo in cui ci raduniamo a pregare, tipo panche, recinzioni e per fare tanta beneficenza. Sul resto non ci ho guadagnato soldi. Non è la mia missione e il mio interesse. Fortunatamente mio marito ha sempre lavorato e con il suo stipendio viviamo bene». […]

Estratto da repubblica.it il 13 aprile 2023.

 […] Giuseppe Marazzita, avvocato di Gisella Cardia, ha paragonato quanto accade a Trevignano con Lourdes. Bruno Vespa non ha gradito e ha ribattuto: "La Chiesa si è sbattuta la testa sul miracolo di Lourdes per quasi un secolo. Non confondiamo delle cose che sono ai limiti della credulità popolare con cose che sono molto più serie".

Estratto dell’articolo di Valerio Renzi per fanpage.it il 13 aprile 2023.

La dottoressa che ha "convalidato" le stimmate della santona di Trevignano si chiama Rosanna Chifari, è una neurologa, ed è nota per essere stata consulente della Lega dal 2009 in commissione Sanità e per essere vicina all'universo No Vax e No Green Pass. […]

 Così la dottoressa Chifari, in diretta su Pomeriggio Cinque con Barbara D'Urso, raccontava quello che asseriva di aver visto: "A cominciare dal mercoledì delle Ceneri, iniziano ad aprirsi le feriti di forma circolare sulle mani e sui piedi, sono sanguinanti e profumano intensamente di fiori e soprattutto le mani non mostrano delle difficoltà funzionali". E con la Madonna di Trevignano sono serviti anche i miracoli e le "prove" di santità.

E ancora raccontava cosa avrebbe visto nel periodo di Pasqua sostenendo di essere stata testimone oculare del "miracolo": "Le mani dovrebbero essere bloccate con le dita rosse e gonfie. Invece le sue mani si muovono normalmente. La stessa cosa avveniva a Padre Pio. Ci sono state anche delle manifestazioni ematiche sotto pelle con la forma della corona di spine. L’ho vista io perché il giorno del venerdì santo ero con lei." […]

 La neurologa compare nel comitato medico scientifico del gruppo "IppocrateOrg", che raccoglie molti sanitari "non allineati" alla medicina ufficiale. Nei mesi più difficili della pandemia a sostenuto l'utilizzo dell'ivermectina e dell'idrossoclorochina, farmaci sconsigliati da tutte le agenzie ma bandiera di chi ha sostenuto le "cure domiciliari". […]

Estratto dell’articolo di Alessia Marani, Ugo Baldi per “il Messaggero” il 13 aprile 2023.

Le statuine vendute o meglio "donate" per cifre fino a tre zeri e il videoracconto del miracolo della moltiplicazione degli gnocchi. Il business della veggente di Trevignano ha viaggiato a gonfie vele per sette anni.

 Nonostante i carabinieri del Ris avessero già certificato che quelle lacrime di sangue che sgorgavano dall'effige della Vergine fossero umane e verosimilmente con lo stesso Dna proprio di Gisella Cardia, al secolo Maria Giuseppa Scarpulla, nessuno ha fermato la donna. E i pellegrinaggi sono proseguiti.

[…] Era l'estate di quell'anno e a Trevignano arrivò l'allora vescovo di Civita Castellana, competente per territorio, Romano Rossi. Ufficialmente per dire il rosario insieme ai fedeli ma chi era lì ricorda che all'improvviso spuntò la donna che gli consegnò tra le mani la statuetta chiedendone la benedizione.

 Lui sembrò preso alla sprovvista. Dalla Curia vescovile arrivò il benestare "solo" per dire rosari. Né un riconoscimento ufficiale, ma neanche una smentita. Dopo quattro anni la Procura archiviò. Ora la palla è di nuovo ai pm. Sui loro tavoli è al vaglio la doppia denuncia (una ai carabinieri, l'altra alla Finanza) presentata da un investigatore privato che punta il dito su quella che ipotizza essere una truffa fondata sulla credulità popolare e su un conto corrente aperto in una banca di Monterosi intestato all'Associazione La Madonna di Trevignano Ets, fondata dal marito della Cardia. Non solo. […]

Diverse le testimonianze che i commissari stanno approfondendo. Come quella riportata sul canale YouTube di Alberto Caccialanza, uno studioso dei messaggi mariani, a cui la santona disse dell'incredibile miracolo della moltiplicazione degli gnocchi: «C'erano i bambini, volevano mangiare. Ma a casa mia c'era solo un piattino con i pochi avanzi di cibo. Invece con quegli gnocchi finimmo per sfamare 15 persone».

 Un'altra volta sarebbe successo anche con la pizza. Da indiscrezioni, ci sarebbero stati fedeli che hanno raccontato in paese di avere donato 3mila euro per una replica della statuina. A produrre molte delle statuine era le Cereria Ternana. «Ora abbiamo fermato la produzione - dicono - ma le vendevamo a 60 euro». […]

Estratto dell’articolo di Camilla Mozzetti per “Il Messaggero” il 12 aprile 2023.

Era il 2016 e la Madonnina di Trevignano Romano piangeva già sangue ma era sangue umano, altro che miracolo. Sette anni: da tanto dura la storia di Gisella Cardia, la "veggente" con la sua statuina e i "miracoli" (presunti) tra le mura di un appartamento sulle sponde del lago di Bracciano.

 Tutto già ampiamente raccontato: oggi c'è chi giura sulla veridicità della storia, chi racconta addirittura di aver infilato le dita dentro alle stigmate della donna. C'è chi invece parla di truffe e raggiri costruiti ad hoc sulle disgrazie della povera gente. Ma quella della Cardia, al secolo Maria Giuseppa Scardulla, è una storia vecchia e pure archiviata dalla stessa Procura - quella di Civitavecchia - che oggi è tornata a valutare l'apertura di un'inchiesta.

Bisogna riavvolgere il nastro e tornare a sette anni fa quando le verifiche condotte dal Ris dei carabinieri sul sangue di quella statuita acquistata a Medjugorje diedero un responso chiaro: il plasma era umano e con un altissimo grado di probabilità apparteneva alla "veggente" stessa.

 La Cardia ieri sera intervenendo alla trasmissione tv "Cinque minuti" di Bruno Vespa ha detto: «Il sangue è stato analizzato dal Ris in presenza del mio vescovo, noi abbiamo lasciato il nostro Dna, quello mio e di mio marito per evitare problemi, e non abbiamo più avuto gli esiti». Ma gli esiti ci sono stati e quel sangue non era frutto di nessun evento soprannaturale.

 Perché la storia torna attuale dopo sette anni? Perché adesso c'è almeno una denuncia, presentata formalmente, mentre all'epoca l'inchiesta, aperta d'ufficio, fu poi archiviata. Delle analisi condotte nel 2016 l'ex vescovo della diocesi, monsignor Romano Rossi (dimessosi dall'incarico nel novembre 2022) era pienamente a conoscenza. Si poteva ipotizzare già il reato di truffa? Probabilmente sì, ma l'inchiesta fu archiviata quattro anni più tardi: nel 2020. […]

 Naturalmente laddove venisse aperta una nuova inchiesta, le verifiche sul plasma condotte sette anni fa andrebbero ripetute. Intanto il nuovo vescovo Marco Salvi ha istituto una commissione incaricata di svolgere un'indagine per approfondire l'eventuale fenomenologia dei fatti che si verificano a Trevignano Romano. Della commissione fanno parte quattro esperti: un teologo, un mariologo, uno psicologo e un canonista. […]

Veggente di Trevignano: «Ecco come ho moltiplicato gli gnocchi al tavolo coi sacerdoti». Erica Dellapasqua su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

Il racconto di Gisella Cardia dopo quello sulla Madonna che lacrima sangue: «Versavo nei piatti ma la pentola restava piena»

Gisella Cardia, la veggente di Trevignano sparita nel nulla dopo il clamore sulla sua Madonna che piange sangue (in base alle analisi di maiale, pare) e le accuse dei suoi ex fedeli, raccontava, tra gli altri suoi miracoli, anche dell'ormai famosa moltiplicazione degli gnocchi.

«Sacerdoti al tavolo»

La «santona», accusata dai suoi ex fedeli, specie da chi le ha versato soldi, di truffa e raggiro, ha narrato la vicenda degli gnocchi a un suo seguace nel salotto di casa. Il video è stato poi pubblicato sul canale YouTube di Alberto Caccialanza. «E' stata una delle cose più eclatanti per noi - ha raccontato Gisella -: eravamo alla collina benedetta dove la Madonna appare ogni 3 del mese, c'era tanta gente, tanti bambini, era estate e faceva molto caldo, e un amico ci ha detto "perché non venite a casa mia, ci andiamo a mangiare un gelato". Però erano le 19,30 e questi bambini continuavano a dire "mamma ho fame, mamma ho fame", e allora abbiamo detto facciamo una piccola cena ma non avevamo niente, eravamo 15 persone tra cui sacerdoti...».

Moltiplicazione degli gnocchi

«Io avevo davvero un piccolissimo avanzo di pranzo, pochissimi gnocchi e un po' di coniglio, la mia amica mi ha detto "ma cosa ci fai con un piattino piccolo di gnocchi e un po' di coniglio" e ho detto "qualcosa ci inventeremo". Quindi li portiamo e, credimi, erano davvero due pezzetti, e nel frattempo che li abbiamo riscaldati, tutti abbiamo apparecchiato e, io non so come sia stato possibile, ma mentre riempivamo i piatti tutti hanno mangiato gli gnocchi e hanno mangiato il coniglio, 15 persone». Quindi, chiede il seguage-intevistatore, mentre versavi nel piatto il cibo non diminuiva? «No, questa è una cosa incredibile». La Cardia narra anche di un episodio analogo, questa volta però con la pizza.

La procura

In attesa di capire come si muoverà la procura, attorno alla vicenda cresce lo scetticismo. Restano, però, pure i fedeli che - sui social - continuano a difendere la veggente e che sperano di ritrovarla, il prossimo 3 del mese, sulla collina.

Parla la veggente sparita da Trevignano: «Non sono scappata, sono semplicemente affranta. Non ho truffato nessuno». Ilaria Sacchettoni e Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

Gisella Cardia si sfoga con il suo avvocato. Il vescovo di Civita Castellana: «Faremo chiarezza». In arrivo una causa civile: «I fedeli chiedano i danni»

La collina di Trevignano dove si radunano i fedeli

«Non sono scappata, sono semplicemente affranta. Non ho truffato nessuno». Ma il prossimo 3 di maggio andrà come ogni mese sulla collina dove le apparirebbe la Madonna? «Sì, voglio tornare a pregare in quel posto che per me significa così tanto. Naturalmente se le condizioni lo permetteranno. Visto tutto quello che sta succedendo». Gisella Cardia, l’autoproclamata veggente di Trevignano, si sfoga con il suo avvocato, Giuseppe Marazzita. A lui ha raccontato di essersi allontanata da Trevignano per una breve vacanza pasquale in Italia. Ma anche per sfuggire al pressing di tv e giornalisti che negli ultimi giorni è decisamente salito di tono.

Lo stesso Marazzita — figlio di Nino, avvocato di casi importanti, da Pasolini al mostro di Firenze, e anche giudice di Forum in tv — si stupisce di tanto clamore: «Uno può essere credente oppure no. Ma mi sembra che in questo caso siamo arrivati all’aggressione mediatica. Con tutte le cose importanti che ci sono in questo periodo, dalla guerra in giù».

A creare clamore, però, sono anche le persone intorno alla «veggente». Il giorno di Pasquetta è andata in tv, su Canale 5, la neurologa Rosanna Chifari che, volendo crederle, ha certificato come autentiche le stimmate della stessa veggente. Le ha accostate a quelle di Padre Pio, ha detto che «profumano di fiori». Arrivando a dire che «nella vita dei santi, durante la passione di Cristo, si arriva all’arresto cardiaco. Con la signora Gisella non l’ho riscontrato ma non lo escluderei». La dottoressa Chifari è la stessa che nel periodo del Covid aveva sostenuto la teoria delle cure alternative, diventando un punto di riferimento per No Vax e No Green Pass.

Nei prossimi giorni dovrebbe arrivare una prima relazione della commissione nominata dalla diocesi di Civita Castellana per accertare «l’eventuale fenomenologia dei fatti» e «comprendere se gli eventi hanno carattere soprannaturale». L’ha comunicato il vescovo Marco Salvi, specificando che la commissione «sta lavorando proficuamente per fare chiarezza». Nel 2016 il suo predecessore chiese di vedere la statua. Sarebbero state fatte anche analisi sulle lacrime di sangue che ne sarebbero uscite. Ma se ne sono perse le tracce.

Ieri è stato il giorno delle valutazioni e degli esposti. Dopo la querela penale, presentata ai carabinieri della compagnia di Bracciano dal controverso investigatore privato Andrea Cacciotti, è il turno della denuncia civile, in via di elaborazione da parte dell’avvocato Alfonso Luigi Marra, esperto civilista, che propone una nuova chiave di lettura della vicenda: «Non nutro particolare fiducia nelle inchieste penali — sospira — dimostrare eventuali abusi potrebbe essere complicato. Ma sono convinto che la diocesi possa essere citata per risarcimenti: le persone che hanno perso il loro denaro, a mio avviso, sono vittima di una campagna nella quale hanno giocato un ruolo religiosi e potenti. I veri responsabili del fenomeno “madonnina che lacrima sangue” sono loro. Presenterò una citazione nei loro confronti». 

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” l’11 aprile 2023.

Altro che miracolo: le lacrime della statua della Madonna di Trevignano Romano, sul lago di Bracciano, potrebbero essere sangue di maiale. Lo denuncia ai carabinieri un investigatore privato che sta cercando di contattare tutti coloro sarebbero stati truffati da Gisella Cardia, la santona custode della Madonna che lacrima. La sedicente veggente in realtà si chiama Maria Giuseppa Scarpulla, ha 53 anni e un passato da imprenditrice con problemi per un'istanza fallimentare. Negli ultimi cinque anni la donna avrebbe carpito la buonafede di molti fedeli che ogni terzo giorno del mese accorrono per assistere al miracolo.

 Sul caso, la diocesi di Civitacastellana ha istituito una commissione per fare «un'indagine finalizzata ad approfondire l'eventuale fenomenologia dei fatti […] Intanto c'è chi ha deciso di uscire allo scoperto per raccontare il raggiro subìto […] Luigi Avella, 70 anni, ex funzionario del Ministero dell'Economia, laureato in giurisprudenza e teologia, ha deciso di raccontare la sua «terribile esperienza con una donna diabolica».

Perché la definisce così?

«C'è qualcosa di diabolico nel suo ostinarsi a raccontare di essere in grado di far lacrimare sangue alla statua della Madonna e nel sostenere di essere in grado di moltiplicare pizze e gnocchi».

 La santona le ha mai chiesto denaro?

«Mai. Ma ho sborsato la bellezza di 123 mila euro, di cui 30 mila al marito di Gisella e gli altri alla Onlus Madonnina di Trevignano. Devo dire la verità: né Gisella né il marito mi hanno mai espressamente chiesto soldi. Ma sapevo che ne avevano bisogno».

Per quale motivo?

«Dovevano comprare materiale per le attività che fanno da contorno alla gestione del miracolo delle lacrime, come 30 panche, la recinzione del terreno, un'auto, un garage.

Ho pagato tutte queste cose: lo posso provare perché ho fatto bonifici bancari».

 A che periodo risalgono le sue donazioni?

«Tra febbraio e giugno 2020».

 Perché lo ha fatto?

«Uscivo da un momento molto difficile dalla mia vita: mia moglie a causa di un brutto incidente stradale ha avuto problemi alla schiena e ha rischiato di rimanere paralizzata.

Così, quando dopo un anno ho visto che ha ripreso a camminare bene ho voluto ringraziare la Madonna attraverso il sostegno alla Onlus».

 Quando ha conosciuto Gisella e suo marito?

«Nel 2018 e mi fidavo completamente di loro. Si era creato un rapporto di profonda amicizia: viaggiavamo e mangiavamo spesso insieme. Pensi che quando hanno festeggiato i 10 anni di matrimonio, Gisella mi ha chiesto di accompagnarla all'altare, nella cerimonia religiosa. […] non vorrei passare per un allocco: il miracolo delle lacrime era accreditato dall'ex vescovo […]».

Quando ha incominciato a dubitare?

«Quando mi hanno nominato direttore dei lavori per la recinzione del terreno delle apparizioni in via di Campo delle Rose: essendo laureato in legge ho subito capito che l'autorizzazione non era in regola e si stava per commettere un abuso. […]».

 Ma allora perché non vuole sporgere denuncia?

«È chiaro che ho versato i 123 mila euro in buonafede, ma finché il vescovo non dirà che il miracolo della Madonna che piange sangue è un falso, non denuncerò. E in ogni caso non denuncerò Gisella, ma solo la Onlus». […]

Ha mai assistito alla lacrimazione di sangue?

«Un paio di volte, anche se oggi non sono più sicuro, credo fosse solo suggestione».

 […] Spera di riavere indietro il suo denaro?

«Sì, se si prova che è tutta una messinscena, altrimenti non chiederò nulla». 

È pentito di aver donato 123 mila euro?

«Nessuno mi ha forzato a farlo. Sono pentito di aver riposto fiducia in una donna che ha approfittato della mia amicizia. Mi sento tradito come persona, prima ancora che come uomo di fede quale sono. […]».

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “la Repubblica – Edizione Roma” il 9 aprile 2023.

«Io ho dato 123mila euro per la Madonna di Trevignano, 30mila al marito della veggente e il resto alla Onlus. L’ho fatto di mia spontanea volontà, credevo nelle apparizioni e nei messaggi della Madonna. Se si scoprirà che è tutto falso, li chiederò indietro». Luigi Avella è stato per due anni uno dei seguaci della veggente Gisella Cardia. Della sensitiva e di suo marito Gianni Cardia si fidava ciecamente tanto da avergli donato parte del suo patrimonio. Ma ora si sente tradito.

«Mi sono avvicinato a loro in un momento difficile» , racconta il signor Avella. «Mia moglie aveva subito un brutto incidente stradale. Io poco dopo avevo avuto tre trombosi e due emboli polmonari. Siamo diventati di famiglia in casa Cardia. Mangiavamo con loro, viaggiavamo, pregavamo. Per questo mi sono sentito in dovere di finanziare l’opera che lei stava facendo. Non mi hanno chiesto nulla. Ho dato in tutto 123mila euro […] Quando ho scoperto che qualcosa non andava mi sono allontanato» […]

 Luigi, che per una vita ha lavorato al ministero delle Finanze, non avrebbe mai assistito alla moltiplicazione delle pizze e degli gnocchi, uno dei tanti miracoli che la santona di Trevignano si è attribuita nel corso degli anni.

«È successo un paio di volte che Gisella ha fatto lacrimare la madonnina davanti a me. Ma ora non so più se sia vero. Eravamo da lei e lei si è avvicinata alla statuina e ha detto: è uscita una lacrima. Io ho studiato Giurisprudenza e Teologia — aggiunge Avella — e da regista ho fatto diversi documentari su questi fenomeni. Ho anche scritto un libro in cui, da Marianista, ho analizzato tutte le rivelazioni di Trevignano e posso dire che i messaggi non erano della Madonna, ma addirittura spesso erano in contrasto con il Vangelo. Lo so che sembra difficile da comprendere per chi non crede, ma ci sono degli elementi per considerarli diaboliche».

Anche Luigi Avella è stato coinvolto nell’esposto presentato dall’associazione Security National ai carabinieri di Trevignano qualche giorno fa. Ma per ora ha preferito non aderire. «[…] Se il vescovo dirà che le apparizioni erano false, a quel punto, visto che Gisella sapeva che erano tutte menzogne, mi rivolgerò a un giudice per riavere le cose che ho comprato […] Non mi sento vittima di una truffa, ma qualcosa di peggio. Sono stati feriti i miei sentimenti più profondi, in una fase difficile della mia vita». […]

Estratto da ilmessagero.it il 7 aprile 2023.

Trevignano, un investigatore privato ha consegnato un atto che contiene accuse contro Gisella Cardia, al secolo Maria Giuseppa Scarpulla, la sedicente veggente custode della statua di una madonna che lacrima.

 L'esposto è stato consegnato ai carabinieri. L'atto sarà poi trasmesso alla Procura di Civitavecchia che deciderà se aprire un fascicolo. Lo stesso investigatore privato, secondo quanto riferito da organi di stampa, asserisce che dopo alcune analisi sarebbe stato appurato che le lacrime sarebbero compatibili con sangue di maiale.

 Sul caso della madonna di Trevignano la diocesi di Civitacastellana ha istituito una commissione per effettuare «un'indagine previa, finalizzata ad approfondire l'eventuale fenomenologia dei fatti, che si verificano da qualche tempo a Trevignano Romano».

Ogni 3 del mese nella cittadina laziale si radunano diverse persone per presunte apparizioni della Madonna. I presunti veggenti hanno anche aperto un sito e costituito un'associazione. La signora si sarebbe riscoperta veggente dopo un trascorso lavorativo che è finito nel mirino degli inquirenti. […]

Estratto dell’articolo di Lorenzo Salvia per corriere.it il 4 aprile 2023.

«Alla fine i miscredenti si dovranno pentire». Perché, signor Costantino? «Perché chi non crede è perduto. Lo sa che a me, preghiera dopo preghiera, mi è apparso San Gabriele, quello che sta a Isola del Gran Sasso? Anche a lei farebbe bene pregare. Prega, sì?».

 Costantino Moscatelli […] è arrivato da Colfiorito […] è un pensionato in gran forma […] Dietro di lui sta uscendo Maria Teresa Sarzi, una busta di plastica in testa proprio per ripararsi dal vento che oggi tira davvero forte qui sulla collina di Trevignano romano, sopra il lago di Bracciano […] Lei viene da Sabbioneta, Mantova: «Sono qui perché la Madonna mi ha parlato. Era il Ferragosto del 1993, avevo avuto un brutto incidente stradale che mi aveva lasciato dolori fortissimi all’anca». E cosa è successo? «Lei mi ha detto metti una mano sull’anca e il dolore ti passerà. È stato proprio così». Ed è la prima volta che viene qui? «Qui a Trevignano sì, ma da allora sono devota alla Vergine Maria. E quando ci sono miracoli come questi vado sempre».

La collina

«Oggi saremo almeno in 3 mila», dice uno degli addetti alla sicurezza […] Ad occhio sembrano al massimo 400. Ma va bene così. Da sette anni, ogni tre del mese, la statua di legno della Madonna piange sangue. Lo farà pure oggi, non questa sulla collina, che è solo una copia. Quella originale, custodita da Gisella Cardia. Ex imprenditrice di Patti, in Sicilia, dopo una bancarotta si è trasferita a Trevignano.

 Ed è stata lei a portare qui la statua da Medjugorje. Su questo prato a un’ora di macchina da Roma […] tutti però hanno potuto ascoltare il messaggio della Madonna ai fedeli. Parole raccolte, come sempre dopo un’estasi, proprio da Gisella. «Figli miei — dice il messaggio, anche questo puntuale ogni 3 del mese — come soldati armati di luce, andate e camminate nel mondo (...) il tempo della resurrezione è vicino. Nel nome del Padre del figlio e dello spirito santo». Insieme all’amen parte un applauso.

 […] A voler cercare qualcosa che unisce queste persone che pregano in ginocchio con il rosario in mano, forse il filo rosso è […] pregare. […] Preghiera non grazie. Forse anche perché le grazie hanno il grosso guaio di arrivare oppure no. O perché la Diocesi di Civita Castellana ha messo su una commissione per capire «l’eventuale fenomenologia dei fatti» e «comprendere se gli eventi hanno carattere soprannaturale».

 […] In pellegrinaggio da Venezia

Gabriella e Luciano sono pensionati. […] «Ne ho sentito parlare in tv — fa lei — e mi ha incuriosito. Non ho visto cose miracolose ma durante il rosario ho pianto, ho sentito come qualcosa». Lui sorride, comprensivo: «Ha insistito tanto che alla fine ce l’ho dovuta porta’». Donatella viene addirittura da Venezia: «In tanti mi hanno detto “ma che cosa ci vai a fare?”. Ma io sto attraversando un momento difficile e ho deciso di partire lo stesso, solo per pregare. Quando stai veramente male solo tu sai di cosa hai bisogno davvero». […]

La guerra con i residenti

Ma non tutti sono venuti qui perché credono o per capire. In paese la onlus della Madonna di Trevignano è mal sopportata. La collina con la croce blu e la teca con la statua ricade nel Parco di Bracciano e Martignano. […] tutto è vincolato […]

 La «veggente»

Quando Gisella Cardia, la «veggente», lascia la spianata si arriva quasi alle mani con un gruppo di residenti. Lei cambia macchina, si nasconde tra i sedili, i ragazzi della onlus fanno un cordone mano nella mano per evitare che i giornalisti si avvicinino. […]

Estratto dell’articolo di Lorenzo Salvia per corriere.it il 10 aprile 2023.

Fino a qualche anno fa Gisella Cardia, la donna di 53 anni che a Trevignano dice di vedere la Madonna, viveva nella sua Sicilia. A Patti, in provincia di Messina, aveva una piccola azienda che produceva ceramica.

 Ma le cose non andavano bene e la storia è finita con una condanna a due anni per bancarotta. Pena sospesa perché non aveva precedenti, ma l’ombra è comunque rimasta.

È dopo quella condanna che Gisella - diminutivo del suo vero nome, Maria Giuseppa – decide di trasferirsi nel Lazio, a Trevignano Romano. Siamo nel 2016 e negli stessi mesi va in pellegrinaggio a Medjugorje, insieme al marito Gianni Cardia. […]

 Proprio a Medjugorje che Gisella compra la statua della Madonna che una volta riportata a casa, secondo quello che lei racconta, avrebbe cominciato a lacrimare sangue. Forse, oltre alla statua, da lì riporta anche qualche idea per la sua nuova vita, non più imprenditrice ma sedicente veggente. […]

Un fenomeno dalla precisione invidiabile: ogni tre del mese alle 3 del pomeriggio. E cominciano anche i messaggi che sempre le Madonna le manderebbe in contemporanea alle apparizioni. […]

Madonna di Trevignano che piange sangue e fa profezie: perché tante persone credono nel prodigio. Giuseppe Scuotri su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2023

Da cinque anni folle di fedeli si radunano in preghiera sul lago di Bracciano. Ora, la diocesi di Civita Castellana ha annunciato un’inchiesta. «C’è chi si meraviglia per la grande partecipazione, ma le cause possono essere diverse», spiega Lorenzo Montali, psicologo sociale della Milano Bicocca

La statua della Madonna di Trevignano (Via Facebook)

L’appuntamento è per il 3 di ogni mese. Viaggiano per centinaia di chilometri, alcuni arrivano da altre nazioni. Da cinque anni folle di fedeli si radunano su una collina di Trevignano Romano, paesino affacciato sul lago di Bracciano, sperando di assistere in prima persona a un miracolo.

Gisella, la cinquantatreenne siciliana da cui tutto è partito, sostiene di vedere la Madonna e raccogliere con regolarità, una volta al mese, i suoi messaggi per l’umanità. Racconta di aver visto con i propri occhi una statua della Vergine piangere lacrime di sangue e di vivere sul proprio corpo, durante la Quaresima, la passione di Cristo . C’è chi, tra i devoti, testimonia la veridicità di questo e altri prodigi, come il sole che «pulsa» in modo anomalo durante le presunte apparizioni. Alcuni fanno donazioni spontanee alla onlus che Gisella e il marito hanno fondato.

Lo scorso 7 marzo la Diocesi di Civita Castellana ha annunciato un’indagine per «approfondire l’eventuale fenomenologia dei fatti» e «comprendere se gli eventi hanno carattere soprannaturale». Come in altre circostanze analoghe, la posizione della Chiesa è di prudenza, ma l’adesione popolare non sembra risentirne.

«La partecipazione di tante persone può meravigliare, perché non siamo più tanto abituati, come società, a convivere con questo tipo di manifestazioni, ma non c’è nulla di davvero nuovo» afferma Lorenzo Montali, professore di psicologia sociale presso l’Università di Milano Bicocca e vicepresidente del Cicap, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze.

«Sono diversi i fattori che possono spingere le persone a credere in veggenti e prodigi. Alcuni hanno motivazioni potenti. In primo luogo c’è chi ha un problema, qualcosa da chiedere: tanti dei fedeli che vediamo in questi contesti hanno, ad esempio, un grave lutto alle spalle o un familiare gravemente malato. Per loro, la scoperta di realtà come Trevignano rappresenta una speranza o un conforto. Una seconda ragione può essere la ricerca di un’approvazione sociale, di un gruppo di persone con interessi analoghi ai propri in cui riconoscersi. Poi c’è il desiderio di una conferma spirituale, di qualcosa che dia sostegno alle convinzioni religiose. Infine, può esserci anche la spinta a voler essere testimoni in prima persona di un evento straordinario. Chiaramente, ognuno poi ha la sua storia, con sfumature soggettive».

Le tante presenze a Trevignano, però, non vanno interpretate come uno strappo rispetto alla dottrina ufficiale: «Bisogna partire dal presupposto che le cosiddette “profezie private”, ovvero i fenomeni in cui la divinità si manifesta e lascia messaggi a persone non consacrate, sono un tipo di rivelazione accettato dalla Chiesa Cattolica. Fanno parte di ciò che l’autorità religiosa considera possibile. Partendo da questo presupposto, dare una spiegazione alla folta partecipazione alle sedute di preghiera appare più agevole: c’è chi non vuole perdere l’occasione di entrare in contatto diretto con il divino, anche se non ha ancora la sicurezza che sia vero. La remota possibilità che sia reale è spesso più che sufficiente. Si può pensare: “Magari la chiesa ci arriverà dopo”».

Ma allora si potrebbe ribaltare la domanda e chiedersi perché la maggioranza dei cattolici non creda a queste cose. «Una risposta - secondo il professore Montali - è che la fede religiosa è uno spettro: anche all’interno di uno stesso sistema di valori e dogmi, ognuno tende istintivamente a declinarla in modo personale. E ci sono studi che lo dimostrano. Alcuni accettano solo una parte dei dettami proposti o, addirittura, contestano apertamente alcune cose, ma credono nel complesso che il messaggio sia adeguato. Questa tendenza all’individualismo religioso è particolarmente accentuata nei Paesi occidentali. Viviamo nella società più secolarizzata della storia, in cui la religione sta perdendo pian piano la sua funzione di collante sociale, e sempre meno persone vi si rivolgono per avere una lettura unificante del mondo».

A prescindere, quindi, da cosa dirà la Chiesa dopo l’inchiesta della diocesi, i fedeli della Madonna di Trevignano potrebbero comunque non scoraggiarsi, come di fatto è avvenuto in altri casi (oggi più famosi). «Le apparizioni di Medjugorje non sono state riconosciute ufficialmente dal Vaticano - dice Montali - , ma oggi attirano milioni di presenze.

Ma analizziamo anche Fatima, un caso di apparizione riconosciuto dalla Santa Sede: «Primo Novecento, Portogallo. Tre pastorelli affermano di vedere e parlare con la Madonna che appare una volta al mese. La voce si sparge e negli anni accorrono in quel luogo decine di migliaia di persone, intraprendendo un viaggio lungo e senza certezze, per partecipare a un incontro con la divinità. In un’occasione, decine di migliaia di persone hanno giurato di aver visto il sole ballare e cambiare colore (il famoso “Miracolo del sole” del 1917). Un’ulteriore analogia la troviamo nei messaggi lasciati dalla Madonna: a Trevignano e Medjugorje così come a Fatima, si tratta di testi molto generici, non empiricamente verificabili in modo univoco, quindi ognuno può leggervi qualcosa. Se si sta sui fatti, un osservatore esterno coglie tante somiglianze, sia nelle manifestazioni prodigiose sia nel comportamento dei fedeli. Insomma - conclude Montali -, anche se stupisce sempre più persone, quel che sta accadendo a Trevignano è una storia che continua a ripetersi nel tempo».

Estratto dell’articolo di Maria Novella De Luca per repubblica.it il 4 marzo 2023.

La Madonna è stata puntuale, anche questo mese, il giorno tre, così come avviene, ormai, da quasi cinque anni. Per voce della signora Gisella Cardia, 53 anni, ex imprenditrice oggi diventata veggente, la Madonna di Trevignano, il cui volto sarebbe bagnato di lacrime di sangue, ha mandato ieri le sue parole alle centinaia di fedeli riuniti sul bellissimo altopiano con vista lago di Bracciano, diventato un nuovo santuario di fatto nella campagna romana.

Seicento, forse settecento persone, tra le quali una delegazione polacca, sotto un cielo tra sole e pioggia, si sono riunite per recitare il rosario in attesa di ascoltare il messaggio mensile di Maria. E Gisella Cardia, la cui vita, racconta, è stata «sconvolta dopo un viaggio a Medugorje nel 2016», perché la madonnina riportata da quel pellegrinaggio avrebbe poi per tre volte pianto con lacrime di sangue nel suo salotto, non ha deluso i fedeli nemmeno ieri, tre marzo. Infatti la Vergine Maria di Trevignano sembra mettersi in contatto con Gisella soltanto il terzo giorno di ogni mese, che sia freddo, caldo, primavera, estate. Mai però in un giorno diverso.

 Mentre la folla pregava e un complesso cantava inni con melodie da piano bar, Gisella trascriveva su un quadernetto a fiori le parole che la Vergine, così lei afferma, le stava dettando. Proprio lì, in quel momento.

Parole apocalittiche, come sempre, nonostante il clima bucolico di questo prato con una croce blu, poco fuori il borgo di Trevignano Romano, terreno acquistato da Gisella Cardia e suo marito Gianni, «grazie alla generosa donazione di un uomo che aveva ricevuto una grazia dalla Madonna di Trevignano». […]

 «Il traffico è diventato soffocante» dicono però Maurizio e Alfredo al bar enoteca sulla piazza di Trevignano. «Nelle giornate di sole arrivano decine di pullman, anche duemila persone, la strada è stretta e piena di buche, le macchine invadono tutto il parco, se continua così i turisti scapperanno da Trevignano. E i pellegrini da noi non spendono niente». Voci di paese, di chi teme il risvolto caotico della fede fai-da-te, il misticismo fanatico che la stessa Chiesa osteggia.

Al Campo di Rose, invece, ci credono invece tutti mentre la Vergine Maria, per voce di Gisella, microfono in mano e diretta su Youtube, intima ai pellegrini di «tornare alla fede», di «non farsi tentare da Satana», «ci sarà un’altra grande guerra, ma la nostra arma è la preghiera». […] E se lo scetticismo di papa Francesco sulla fabbrica dei miracoli è ormai noto, la folla del Campo di Rose sembra preferire a Bergoglio il ricordo di papa Wojtyla, la cui foto è deposta ai piedi della copia della statua della Madonna di Trevignano che domina il grande prato. […]

Anticipazione stampa da OGGI il 15 marzo 2023.

Un processo per abusi edilizi, gli scontri con i guardiaparco e le altre ombre del santuario della Madonna di Trevignano. Sul settimanale OGGI, in edicola da domani, un’inchiesta su Gisella Cardia, la mistica che sostiene di avere frequenti apparizione della Madonna, e sull’associazione a lei legata, rivela che è già stato avviato un procedimento penale contro i responsabili del santuario.

L’accusa è quella di aver costruito delle opere abusive sul terreno acquistato dall’associazione Madonna del Roseto nel 2018 per 50 mila euro. Il lotto fa parte dell’area protetta del lago di Martignano e Bracciano. Inoltre i guardiaparco che lo scorso 3 febbraio hanno rilevato sull’area con un controllo la presenza di centinaia di auto di fedeli, sono stati denunciati da uno dei soci fondatori dell’associazione per interruzione di funzioni religiose.

Una denuncia a cui è seguita una diffida formale a non reiterare i controlli. Il direttore del parco, Daniele Badaloni, ha commentato: «Noi facciamo solo il nostro lavoro, ma è evidente che lì c’è un’attività illecita e illegittima che abbiamo segnalato alla magistratura». E alla domanda «Avete ricevuto qualche pressione politica per il Santuario della Madonna di Trevignano?» la risposta: «Preferisco non commentare».

Estratto dell’articolo di Chiara Rai per “il Messaggero” il 7 marzo 2023.

Condannata in primo grado dal tribunale siciliano di Patti a due anni per bancarotta fraudolenta, pena sospesa. Pochi giorni fa è arrivata una doccia fredda per Maria Giuseppa Scarpulla alias Gisella Cardia, 53 anni, l'imprenditrice di origini siciliane che si è scoperta veggente e che dice di parlare ogni mese da ormai cinque anni con la Madonna a Trevignano. Sono migliaia i seguaci che la seguono e il fenomeno è in crescita.

In realtà Cardia è il cognome di suo marito Gianni e Gisella, si presume sia un diminutivo di Maria Giuseppa. La signora si sarebbe riscoperta veggente dopo un trascorso lavorativo che è finito nel mirino degli inquirenti. La vicenda giudiziaria che ha visto coinvolta l'ex imprenditrice Maria Gisella Cardia è riferita a fatti risalenti al 21 febbraio 2013;

secondo i capi di imputazione, Giacalone, amministratore unico e liquidatore, Caleca amministratore di fatto dell'azienda "Ceramiche del Tirreno srl" già "Caleca Italia", avrebbero stipulato con l'impresa "Majolica Italiana", di cui la Scarpulla era amministratore unico e Bencini dipendente e procuratore speciale, un contratto d'affitto d'azienda per un canone annuo di 108 mila euro, canone ritenuto incongruo, vicenda che, come si evince ancora dai capi di imputazione, avrebbe determinato con operazioni dolose il fallimento delle società.

Attorno a lei, "Gisella", ha creato un vero e proprio fenomeno, con seguaci e fedeli che arrivano in massa su un promontorio che affaccia sul lago di Bracciano, fuori dal centro storico, dove ormai è sorto una sorta di santuario che causa non pochi disagi ai residenti, molto dei quali ormai si lamentano per l'immagine e risonanza mediatica che sta avendo un borgo così bello alle porte di Roma Nord nonché per il traffico e circolazione che ogni del tre del mese va in tilt. […]

Intanto si muove anche la chiesa. Sarà istituita una commissione diocesana per una "indagine previa" sulle lacrime della Madonna di Trevignano. Lo fa sapere monsignor Marco Salvi, il vescovo di Civita Castellana di cui fa parte Trevignano, insediatosi da circa un mese […]

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 17 dicembre 2022. Prossimo "scandalo" in Vaticano? Potrebbe trattarsi del caso Cedric Tornay, la guardia svizzera che il 4 maggio 1998 uccise Alois Estermann e sua moglie Gladys Meza Romero e poi si tolse la vita. Estermann, da vice-comandante vicario, aveva ricevuto il decreto di nomina al vertice della guardia personale del Papa proprio quel mattino.

 Lui e sua moglie venivano considerati devoti seguaci della spiritualità di San José Maria Escrivà e oltre ai compiti istituzionali, Estermann curava come "postulatore" le cause di beatificazione e canonizzazione di alcuni servi di Dio e Beati svizzeri. 

Un uomo mite, insomma. Tuttavia, ci fu chi sul caso gettò fango alludendo ad una questione affettiva-sessuale e poi, e a lungo, gli diede della spia al soldo della Stasi (il servizio segreto della Germania comunista) implicato nell'attentato a Giovanni Paolo II e nel rapimento di Emanuela Orlandi. 

In un quadro così fosco, Cedric Tornay sarebbe stata la terza vittima, coinvolto suo malgrado nell'assassinio dei due coniugi, che però sarebbe avvenuto per mano di uno o più killer non identificati. Tutte ipotesi smentite dai testimoni e dagli archivi della Stasi una volta che, dopo la caduta del muro, la Germania li ha resi pubblici.

Si disse che il gesto fu compiuto da un Tornay esacerbato perché non aveva ottenuto la decorazione "benemerenti", indispensabile per il suo futuro professionale e che di solito le guardie svizzere ricevono dopo due anni di servizio. 

Dopo 24 anni, una serie di manchevolezze nelle indagini sembra siano state riscontrate da un'avvocata che, a nome della madre di Tornay, ha avuto accesso agli atti e ne ha tratto una "contro inchiesta" in vendita nelle librerie: è deontologico? Con i tempi che corrono, e con le vicende giudiziarie a cui stiamo assistendo in Vaticano, chi pensa male compie un'opera di bene.

Lorenzo Zacchetti per affaritaliani.it il 13 Gennaio 2023.

Il Vaticano nel 2019 si era limitato ad aprire un fascicolo sulla riapertura delle tombe del cimitero Teutonico (dove si sperava di trovare i resti di Emanuela), ma su input di Bergoglio ora il promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi e la Gendarmeria hanno deciso di fare luce su quanto accaduto in quel funesto 22 giugno 1983 e nei quattro decenni successivi, con un'impressionante serie di bugie, depistaggi, omertà e false piste che hanno tirato in ballo ipotesi orrende come la pedofilia e la tortura, nonché le manovre ricattatorie della criminalità organizzata e l'intervento dei servizi segreti, non solo italiani, e di ambienti legati al terrorismo.

 Perché la Chiesa si muove solamente oggi? Perché immediatamente dopo la morte di Ratzinger e la pubblicazione del libro di Padre Georg, nel quale si nega l'esistenza di un dossier su Emanuela in Vaticano? Quante sono le chance di penetrare quel muro di gomma che ammanta l'intera vicenda?

Affaritaliani.it ne parla con Laura Sgrò, avvocata che ben conosce le vicende di San Pietro e dintorni. Lo scorso anno ha pubblicato il libro “Sangue in Vaticano. Le inquietanti verità sulla strage nella Guardia Svizzera” (Rizzoli, 304 pagine, 18 euro), dal 2017 segue la famiglia Orlandi, e durante il caso Vaticanleaks ha difeso la comunicatrice Francesca Immacolata Chaouqui, detta “la papessa”.

 Avvocato Sgrò, cominciamo da un aspetto che non è solo formale, ma anche sostanziale: fino al 12 gennaio non le è arrivata alcuna comunicazione ufficiale da parte del Vaticano sull'apertura dell'inchiesta. Ci sono novità sul punto?

No. So per certo che è stata aperta perchè ciò è stato comunicato alla stampa e anche mercoledì sera la redazione di “Chi l'ha visto?” ne ha avuto conferma dalla sala stampa del Vaticano. A noi però non è arrivata alcuna comunicazione diretta ed è obiettivamente curioso venirlo sapere da voi giornalisti, no?

 Senza dubbio: si allunga la lista delle stranezze di questa vicenda. Come si spiega quest'ultima svolta?

Nel 2019 io non avevo chiesto solamente la riapertura delle tombe del cimitero Teutonico, ma anche l'avvio di un'indagine. Questa richiesta si è persa senza che nessuno ci desse riscontro. Noi ovviamente abbiamo continuato a presentare istanze e richieste ogni volta che si presentava qualche novità. Ad esempio: si ricorda la telefonata della quale parlò Monsignor Viganò, avvenuta la sera stessa del rapimento?

Sì, certo. Era delle famose telefonate da parte del cosiddetto “americano”.

Bene, io chiesi di sentire Viganò e le persone che quella sera stavano con lui in segreteria di Stato, ad esempio il Cardinale Sandri. Zero assoluto anche su questo. Si sono limitati ad aprire e chiudere le tombe e per il resto silenzio: un muro di gomma rispetto a tutto il resto.

 Questo loro atteggiamento mi ha talmente irritato che nel dicembre 2021 ho scritto a Papa Francesco, informandolo del fatto che avevamo elementi nuovi e che ne volevamo parlare con lui. Sua Santità mi ha detto di rivolgermi al promotore di giustizia, ma ancora una volta la risposta è stata il silenzio. Oggi apprendiamo che aprono una loro indagine sulla base delle nostre istanze, spiegando che è un atto dovuto. Certo, ma lo era già nel 2018 e nel 2019!

Beh, nel frattempo è morto Ratzinger...

Non solo, sono successe anche altre cose. Padre Georg si è messo a capo della fronda dei conservatori, in Italia è stato depositato un disegno di legge per una commissione di inchiesta parlamentare sul caso-Orlandi e c'è stata la serie di Netflix “Vatican Girl” che ha indignato l'opinione pubblica di tutto il mondo.

 Lei non ha idea di quanti messaggi di solidarietà e incoraggiamento riceviamo ogni giorno io, Pietro Orlandi e Andrea Purgatori: siamo ormai a centinaia di migliaia. A questo proposito mi faccia dire che il ruolo della stampa in questo è molto prezioso e quindi ringrazio pubblicamente anche lei e affaritaliani.it.

Credo sia il nostro dovere, ma torniamo alla tempistica dell'indagine: non trova curioso che Papa Francesco prenda questa decisione subito dopo la morte di Ratzinger e le anticipazioni sul libro di Padre Georg, nel quale si parla anche di Emanuela? Oltretutto Georg è subito stato convocato a rapporto dal Santo Padre: che legame vede tra questi eventi in rapida successione?

 Mi auguro che si tratti di un cambiamento di rotta, ma che sia vero. Per dimostrarlo servono indagini non solo serie, ma anche immediate. È dalla mia prima denuncia del 2018 che ho indicato i nomi di persone da ascoltare rispetto a taluni fatti. Oggi ho riguardato quella lista: lo sa che ne sono morte quasi la metà? 

In più, ci sono quelli che la Procura di Roma ha iniziato a cercare fin dal 1983 e per i quali il Vaticano si è nascosto dietro le proprie normative: lo Stato italiano durante la prima inchiesta ha fatto ben tre richieste di rogatoria, tutte rispedite al mittente!

C'è una montagna di persone che i magistrati italiani volevano sentire e che sono morte! Questa è la prova del fatto che finora non c'è stata una vera volontà di fare luce sulla vicenda e sfido chiunque a sostenere il contrario. Se le cose sono cambiate davvero, bisogna agire in fretta: parliamo di persone anziane e non c'è tempo da perdere.

 Tra le persone ancora viventi che lei vorrebbe interrogare, da chi comincerebbe?

Dal Cardinale Re, che ha celebrato il funerale di Ratzinger. È il decano del collegio cardinalizio e allora era il sostituto alla segreteria di Stato, una figura molto vicina al Santo Padre. La Procura ha provato a interrogarlo per anni, ma non c'è mai stato verso.

Lei intende sentire anche il Cardinale Bertone, in merito a quali fatti specifici?

Bertone era il segretario di Stato quando è sorto il problema dell'apertura della tomba dove era sepolto De Pedis. Possibile che non sapesse niente? Davanti al casino che si è creato per spostarne la salma, possiamo davvero pensare che non ci sia stato un summit nel quale decidere come muoversi?!

 Non si può prendere in giro l'opinione pubblica: tutto il mondo guardava attonito al fatto che un esponente della Banda della Magliana fosse stato tumulato dentro una basilica e vogliamo far credere che in Vaticano non sia mai discusso di questa vicenda?!

Si è detto che sulla tomba di De Pedis si sia svolta una trattativa: lo Stato se ne sarebbe fatto carico, in cambio di informazioni sulla sorte di Emanuela da parte del Vaticano. È andata davvero così?

Beh, basta leggere il libro di Georg (Nient'altro che la verità - La mia vita al fianco di Benedetto XVI, Piemme, 336 pagine, 20 euro). Ammette che in più occasioni degli emissari del Vaticano andarono in Procura a parlare della tomba di De Pedis con il Dott. Capaldo, il quale a sua volta parla di una “semi-trattativa”. Ma io su questo le voglio raccontare una cosa per me davvero cogente, che mi ha fatto arrabbiare in maniera incredibile.

 La ascolto con piacere.

Quando è venuta fuori questa vicenda della trattativa, sono andata dal Comandante Giani: era uno dei fatti nuovi per i quali chiedevo la riapertura delle indagini. Presento istanze affinché sia sentito Capaldo e dopo due anni scopro che la persona che era andata da Capaldo... era proprio Giani! E ci sono anche delle conferme! Ma di cosa stiamo parlando?! E' una presa in giro! Giani sarebbe dovuto andare a Capaldo a chiedergli chi era andato a parlargli, quando era stato lui...

Torniamo al libro di Padre Georg: vi si legge che non è mai esistito un dossier del Vaticano su Emanuela Orlandi, ma lei ci crede?

Questo Georg lo nega adesso, ma a me aveva detto che c'era! Quando era ancora Prefetto facente funzioni, lo andai a trovare alla Casa Pontificia e alla mia domanda specifica rispose: “Eccome, se c'è un fascicolo riservato! Insista e se lo faccia consegnare dalla segreteria di Stato, io non ho più potere”.

 Immagino che sia su questo argomento che volete interrogarlo?

Certo. Anche se lui minimizza, nel suo stesso libro parla di una fase di indagine sul caso e a me Giani disse che si trattava di un vero e proprio lavoro di intelligence. Almeno si mettessero d'accordo, sulle stupidaggini che dicono!

 Su questo il Vaticano ha potere: sono tutti uomini suoi, che li sentisse! Si deve chiedere al capo della Gendarmeria perché ha fatto cose che non doveva fare, nell'esercizio delle sue funzioni. Nel Vaticano, le sentenze vengono emesse “nel nome di Sua Santità”: ma è questa la giustizia del Papa?! Secondo me si è andati oltre la decenza.

Lei, ormai, è diventata una delle massime esperte delle vicende vaticane...

Ed è per questo che le dico che si sono superati certi limiti. Nessuno ha la pretesa che la giustizia sia infallibile, ma qui siamo oltre ogni confine plausibile. Molto oltre. Mi auguro sinceramente che Papa Francesco voglia fare pulizia, sapendo che la verità costa. Che pagasse il prezzo della verità, qualunque essa sia.

 Il manifesto col quale annunciate il sit-in di sabato 14 gennaio, per i 55 anni di Emanuela, è molto duro anche nei confronti di Bergoglio, accomunato a Wojtyla e Ratzinger per il silenzio definito “complice”. Quindi, sperate che Francesco vi smentisca?

Me lo auguro davvero. Non vedo l'ora che il Papa ci dica che siamo degli idioti e che abbiamo sbagliato tutto. Che mi smentisca e io mi precipiterò a chiedergli scusa, se ho sbagliato a pensare male di lui.

Tra i fatti nuovi, c'è l'ormai famosa chat del 2014 tra due persone “molto vicine a Bergoglio” che pare lasciare ben poco spazio all'interpretazione, posto che sia autentica...

Eh, sì. Ma anche questo è un elemento che fa pensare. Nel momento in cui salta fuori una conversazione che riguarda anche il Santo Padre, se io fossi stato il promotore di giustizia del Vaticano sarei corso a fare un'indagine, a tutela del capo del mio Stato.

 In Vaticano, il potere esecutivo, quello giudiziario e quello legislativo appartengono tutti al Papa, che li esercita mediante delega. Non è una cosa di poco conto: il magistrato è un delegato del Papa, quindi in un caso del genere il suo primo pensiero avrebbe dovuto essere quello di andare a fugare ogni dubbio.

Tuttavia, proprio perché è un delegato, immagino che faccia quello che il Papa gli dice...

Tutte le ipotesi sono valide, però oggettivamente in questa vicenda c'è tutta una serie di cose davvero troppo strane. Io ho una concezione un po' diversa della giustizia: per me è una cosa seria, perché coinvolge la vita delle persone, che hanno tutte diritto alla dignità.

 Tra le cose strane c'è anche il fatto che si sia rifatto vivo Ali Agca, il quale sostiene di sapere tutto della vicenda. Dice che Emanuela non è mai stata stuprata e che si vuole screditare il Vaticano con false accuse di pedofilia. Inoltre, racconta che la ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Wojtyla e affidata alle suore. Lei che cosa pensa di queste dichiarazioni?

Beh, anche prendendole per buone, non mi pare proprio che esentino il Vaticano dalle sue responsabilità. Un Papa mandante di un rapimento non è una vicenda meno grave.

Ali Agca ha anche parlato del presunto legame tra il caso di Emanuela e quello di Mirella Gregori, un'altra ragazzina sparita a Roma nello stesso periodo, come peraltro altre coetanee nel corso dell'anno. Lei su questo che idea si è fatta?

Io penso che i due casi non abbiano alcuna attinenza tra loro. Mirella Gregori merita un'indagine a sé stante. Secondo me non ha giocato a suo favore il fatto di essere collegata a Emanuela, rimanendo così in una sorta di cono d'ombra. Le assicuro che nel fascicolo di Emanuela ci sono ben poche pagine “autonome” che riguardano anche Mirella.

Lo stesso vale per Simonetta Cesaroni, visto che si è parlato anche di una riapertura complessiva dei tre casi?

Questo è proprio un altro caso. Se per un certo periodo Mirella è stata effettivamente legata a Emanuela, Simonetta non ha proprio nulla a che fare con loro. Si è trattato di un omicidio cupo, sul quale la verità è tuttora preclusa sia alla famiglia, sia a tutti coloro che hanno lavorato alle indagini. Il vero punto di contatto tra questi tre casi è che rappresentano altrettanti fallimenti della giustizia italiana. Direi che ne sono l'emblema. Sarà brutto dirlo, ma è così.

Vorrei ricordare anche un'altra ragazza, della quale si parla anche in “Vatican Girl”. Mi riferisco all'amica di Emanuela che le avrebbe confessato di essere stata molestata da una persona “vicina a Wojtyla”: questa è una pista sulla quale ci sono dei riscontri?

Questa pista, di fatto, non è mai stata indagata. Mai, mai. Bisognerebbe farlo. Se ne parla solo sui giornali, ma la magistratura non l'ha mai approfondita. E se ne parla solamente ora, perché nel 1983 era veramente impossibile che si affrontasse di un'ipotesi di pedofilia nel Vaticano. Non si parlava nemmeno di pedofilia in generale, figuriamoci nel Vaticano!

A questo proposito, in Germania prosegue l'indagine su Ratzinger, accusato di non avere fatto abbastanza contro i preti pedofili, e dopo la sua morte si stanno cercando eventuali eredi che ne dovrebbero rispondere. Secondo lei c'è un legame tra la scomparsa del Papa emerito e il riemergere di queste ipotesi di indagine su Emanuela?

Credo che ci siano diverse concause. Secondo me in questo momento persistere con la “politica del silenzio” avrebbe avuto un risvolto ancora più negativo. Tra il trincerarsi dietro il mutismo e provare a fare qualcosa, è giusto seguire la seconda strada. Per il momento il Vaticano ha soltanto manifestato una volontà di chiarezza. Mi auguro che diventi fattuale.

Ho la sensazione che il Vaticano sia tutt'altro che un blocco monolitico. Il fatto che qualcuno vi abbia passato gli screenshot della chat del 2014, ad esempio, fa pensare che tanti conoscano la verità e che si combattano tra loro. Per questo, se non sarà il Papa a farci capire cosa è successo ad Emanuela, il rischio è che lo faccia qualcun altro, con conseguenze ancora più pesanti. E' questo a cui allude parlando di "prezzo della verità", oppure sbaglio?

È proprio così. Le parti in causa si usano, si mandano messaggi, tirano la corda... Io temo che in questo periodo storico la Chiesa rischi di implodere, a meno che non si reindirizzi verso la sua vera natura. Sarebbe un grave danno per i fedeli, che ci credono veramente e considerano la Chiesa come un punto di riferimento. Il momento è delicatissimo, quindi mi auguro che l'intenzione di Francesco sia davvero sincera. In fondo è il Pontefice: se vuole, farà.

Mi perdoni la domanda indiscreta: lei è credente?

Sì.

 E lo rimane pur essendo passata attraverso le brutte esperienze che ci ha spiegato in modo così efficace?

Da qualche tempo, il mio rapporto con Dio è abbastanza conflittuale. Ho visto troppe cose che avrei preferito non vedere. Soprattutto, non avrei voluto vederle nel Vaticano.

 In questo caso si è parlato del coinvolgimento di alcuni poteri davvero temibili: la Chiesa, lo IOR, la 'ndrangheta, la banda della Magliana, il terrorismo internazionale, i servizi segreti italiani e di altri Paesi, come Cia, Kgb e Stasi... Non ha mai avuto paura?

Mah, io sono stata minacciata più volte. Sì, ci sono stati dei momenti nei quali ho avuto paura. Tuttavia, dopo una lunga e attenta riflessione e dopo un confronto aperto sia con mio padre (che ora non c'è più) che con mio marito, mi sono persuasa della necessità di andare avanti.

Una strada del genere non può essere percorsa a metà. Non sarebbe giusto nei confronti delle persone che ti chiedono aiuto. Pietro Orlandi è un caterpillar, una persona straordinaria. Dopo aver detto di sì a lui, in quanto rappresentante della sua solidissima famiglia, bisogna mettere in conto la necessità di camminargli accanto. Io l'ho scelto e quindi cammino.

 Anche nei confronti di Pietro Orlandi ci sono stati tentativi di intimidazione?

Non penso. Certamente però ci sono stati dei gesti di stizza da parte del Vaticano. Ad esempio, quando Pietro ancora lavorava allo IOR, un prelato lo convocò per parlare del sit-in che aveva organizzato. Gli tirò addosso un giornale, urlandogli: “E basta con 'sta storia di tua sorella!”.

 Un'ultima domanda: ma secondo lei che cosa è successo a Emanuela? Qual è la pista più probabile?

Ho una mia idea che preferisco tenere per me, finché non ho le prove. Ciò non toglie, e questo è il grande problema, che ci sono pezzettini di verità in tutte le piste. Un riesame serio di tutta la vicenda prevede importanti tempi, energie, esperienza, risorse e mezzi.

Mi chiedo se la procura Vaticana possa fare tutto questo. Io credo che - se davvero volesse fare luce su ogni cono d’ombra - dovrebbe avvalersi del Concordato e chiedere leale collaborazione e cooperazione alla procura di Roma. Ecco, questo sì che porterebbe se non alla verità, a pezzi certi di questo terribile mosaico.

"La scena contaminata e il fascicolo: quel ‘Sangue in Vaticano’ tra le contraddizioni". L'avvocato Laura Sgrò parla del suo libro "Sangue in Vaticano", che racconta della morte della guardia svizzera Cedric Tornay, del comandante Alois Estermann e della moglie di questi. Angela Leucci il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

È il 4 maggio 1998, in Vaticano sembra tutto tranquillo. Molte guardie svizzere si preparano a ricevere le benemerenze, arriveranno nuovi membri della Guardia solo due giorni più tardi. Cedric Tornay no, non avrà la sua benemerenza, ma sarà congedato. Ha preparato un nuovo guardaroba: tornerà in Svizzera, a Ginevra, dove lo attende un lavoro in banca per il quale sembra essere molto eccitato.

Negli ultimi mesi sembrano state ascritte a lui diverse insubordinazioni, eventi che l’hanno messo in contrasto con il comandante appena promosso Alois Estermann, un militare dai modi rigorosi, celebre anche tra i profani per essere apparso negli scatti in cui Papa Giovanni Paolo II è stato ferito da Ali Agca.

Intorno alle 21 Tornay, Estermann e la moglie di questi, la diplomatica Gladys Meza Romero, vengono trovati morti, uccisi da un’arma da fuoco. Nessuno ha sentito nulla che possa far presagire la tragedia, chi parla di un tonfo, chi di qualcosa che possa essere parso un colpo di pistola. Poco prima di apparire sulla scena del delitto, Tornay aveva lasciato a un commilitone una lettera alla madre, nel caso gli fosse accaduto qualcosa. Alois Estermann era invece al telefono con un conoscente.

La Sala stampa vaticana è abbastanza veloce nel rendere nota la presunta dinamica, poi confermata da autopsia e indagine interna: secondo il Vaticano, Tornay avrebbe ucciso Estermann e la moglie, per poi spararsi in bocca. Ma ci sono diversi dettagli che non tornano: per esempio l’arma utilizzata, una pistola da guerra che non provoca certo un rumore sordo come un tonfo. O che in casa del rigoroso Estermann potesse entrare una guardia mentre la moglie era in tuta.

C’è chi tira fuori ipotesi eccessivamente fantasiose tra l’altro, come un triangolo amoroso, una relazione omosessuale tra il comandante e Tornay, o addirittura che Estermann fosse un informatore della Stasi. Tutte ipotesi da scartare, poiché prive di fondamento, ma a riportare all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda è Laura Sgrò, avvocato in Italia e presso la Corte d’Appello dello Stato della Città del Vaticano, oltre che presso l’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica. Il suo nome è celebre, tra l’altro, poiché legale della famiglia di Emanuela Orlandi. Sgrò ha scritto di recente “Sangue in Vaticano, libro che racconta la vicenda luttuosa che vede al centro Tornay ed Estermann, mettendo in risalto anche tutte le contraddizioni del caso.

Avvocato Sgrò, perché un libro su questo argomento a quasi 25 anni di distanza?

Esattamente perché sono passati quasi 25 anni. Questa vicenda presenta ancora tutta una serie di tratti oscuri, nonostante il tempo trascorso, nonostante ci sia stata un’indagine e nonostante l’indagine abbia avuto da subito un colpevole, Cedric Tornay. Ho scritto questo libro poiché sono riuscita finalmente, dopo una lunga battaglia, a visionare il fascicolo istruttorio, che non era mai stato visionato da nessuno, neanche dalla famiglia di Tornay, e io ne ho tratto alcune conclusioni”.

Per lei, quali sono i maggiori particolari che non tornano, cui viene dedicato tra l’altro un intero capitolo, rispetto alla versione ufficiale?

La prima cosa che a me ha destato grandissimo sospetto e pensiero nasce da quello che mi ha raccontato Muguette Baudat. La madre di Cedric mi ha spiegato come lei apprese della morte del figlio. Mi disse, io lo racconto anche nel libro, che alle 10.30 circa di sera qualcuno si recò a casa sua, il parroco della sua città, per dirle che era successo qualcosa di grave. Lei non era in casa, c’era la figlia Sarah, che la raggiunse telefonicamente e Muguette tornò a casa. Quando io sfoglio il fascicolo, leggo che alle 10.30 di sera i medici legali entrarono nell’appartamento di Estermann”.

Un’incongruenza temporale.

Quindi mi chiedo come sia possibile che alla madre viene consegnata la ricostruzione che verrà fatta qualche ora dopo dalla Sala stampa vaticana, quando ancora i medici legali dovevano ancora entrare in casa. Nessuno aveva neppure visionato la pistola - che avrebbe commesso il duplice omicidio e poi sarebbe stata utilizzata da Cedric per suicidarsi - perché era sotto il petto di Cedric. Chi, entrando di fronte a una scena del genere, può dire quello che è successo? Viene detto prima che i medici legali entrino in casa degli Estermann e questo è sconvolgente”.

C’è dell’altro?

La scena è stata totalmente contaminata. Da quel quadro, di quella scena del crimine, non si può trarre nessuna conseguenza che dia quella certezza morale di cui parla Navarro-Valls appena qualche ora dopo i fatti stessi. Si contano più di 20 persone che entrano in quell'appartamento, e neanche censite tutte, perché il verbale, come indico nel libro insieme a diversi altri elementi, a un certo punto dice: ‘e altre persone’. Nessuno ha calzari, nessuno ha guanti, non esiste un video di quel posto, le foto sono state scattate senza seguire alcuna forma di protocollo, non esistono rilievi per quanto riguarda il sangue. Quel sangue, messo lì, a essere molto fantasiosi, avrebbe potuto appartenere a chiunque, non alle tre persone uccise. Francamente, davanti a un quadro del genere, io avrei difficoltà ad attribuire la colpa a chiunque, non solo a Cedric”.

Affrontare le ricerche sul caso è stato molto difficile, peggio di una corsa a ostacoli, ma lei è andata avanti. Cosa l’ha motivata?

Muguette Baudat. Io la descrivo forte come una roccia e dolce come la cioccolata. Però la sua forza è marmorea. Lei vuole sapere cosa è successo a suo figlio, non ha mai detto che suo figlio non è colpevole, ha sempre detto: ‘Datemi le prove che mio figlio è colpevole’. Che è una cosa ben diversa. La sua forza e la sua determinazione mi hanno fatta andare avanti. Lei meritava delle risposte e io le avevo promesso che avrei fatto il possibile per aiutarla a trovare la verità, o, se non la verità, qualche frammento di verità”.

Si è fatta un’idea su cosa possa essere accaduto?

Secondo me ci sono tre omicidi, questo è il mio punto di vista. Per il resto, ho una mia idea, ma la devo tenere per me finché non ho le prove che confermino la mia teoria”.

Come mai la scelta di dedicare ampie pagine all’incontro con Muguette Baudat e alla sua figura?

È una donna straordinaria, è lei che mi dà coraggio. E vale la pena tutta l’attività fatta, il tempo speso e che spenderò, per lei vale la pena farlo”.

Nel libro viene nominata anche un’altra madre, Maria Pezzano Orlandi, madre di Emanuela. Maria e Muguette sono simbolicamente vicine?

Assolutamente sì. Sono due donne che cercano verità e giustizia su un loro strettissimo famigliare, sui loro figli. Sono due madri coraggiose, sono due madri incolpevoli, che si sono ritrovate in mezzo a giochi, storie e strutture più grandi di loro e non sono state accolte adeguatamente”.

In che senso?

Per Muguette non c’è stata nessuna forma di accoglienza, nessun pontefice l’ha ricevuta. In quest’ultimo frangente, Papa Francesco, dopo avergli inviato il mio libro con un mio biglietto personale, mi ha scritto riservando belle parole per Muguette Baudat, ma è stata l’unica espressione di un pontificato nei suoi confronti. Neppure Giovanni Paolo II, quando venne per il funerale di suo figlio, la ricevette”.

E Maria?

Per quanto riguarda Maria Pezzano Orlandi, Giovanni Paolo II, nell'imminenza della sparizione di Emanuela ha mostrato vicinanza, Papa Ratzinger non ha espresso una parola, non ha mai pronunciato il nome di Emanuela, nonostante gli fosse stato richiesto espressamente dagli Orlandi un ricordo di Emanuela per il venticinquesimo anniversario dalla sua scomparsa. Nel pontificato di Francesco sono successe delle cose note a tutti, ma noi auspichiamo una completa collaborazione, che di fatto non riusciamo ad avere. Ho scritto al Promotore di Giustizia perché mi ricevesse quasi un anno fa, aspetto ancora che mi risponda”.

Ha molta stima di Muguette e Maria.

Muguette e Maria sono due donne che hanno subito violenze inaudite, la sparizione di un congiunto in queste circostanze per me è una forma di violenza gravissima, ma loro sono donne coraggiosissime. Sopravvivere a eventi del genere credo che sia un’opera immensa”.

"La 'Vatican girl'? Mia sorella Emanuela. Quelle attenzioni da un prelato..."

La vicenda di quello che è un omicidio-suicidio secondo le versioni ufficiali è legata ad altri misteri vaticani?

Plausibile. E lo è per un solo motivo, che va anche contro a delle informazioni che io ho visto nel fascicolo”.

Ovvero?

"Secondo la ricostruzione della procura vaticana, Estermann era un uomo che non aveva contezza di alcuna documentazione riservata. Senza nessuna indagine interna alla Guardia Svizzera e senza neppure interrogare nessun congiunto o amico del comandante, la magistratura vaticana asseriva una cosa del genere. Lo reputo pressoché impossibile, perché sarebbe stato contro il compito naturale della Guardia Svizzera pontificia, che ha la tutela del Santo Padre e del Palazzo Apostolico”.

Quindi?

E allora mi chiedo: come fa il capo della Guardia Svizzera a non conoscere - in quel pontificato peraltro, in cui Giovanni Paolo II era sotto la lente d’ingrandimento di Paesi amici e nemici - incartamenti riservati? Com’è possibile che la persona più vicina al Pontefice, correlata alla sua sicurezza, non avesse conoscenza di file riservati? Impossibile. Non avrebbe potuto difenderlo. Il Santo Padre non sarebbe stato al sicuro. E non mi stupirei se tra questi file riservati cui Estermann, a mio avviso, ebbe accesso, ci fosse anche quello su Emanuela Orlandi. Potrebbe quindi esserci un filo tra queste vicende, volontariamente tenuto celato".

Da tg24.sky.it il 24 gennaio 2023.

Durante il Corso internazionale di formazione per i responsabili diocesani della durata delle omelie durante le messe. 

"Per favore, le omelie sono un disastro", è stato il commento netto del pontefice, che in merito alla durata delle prediche dei sacerdoti ha tracciato delle linee guida precise. "Devono durare 8-10 minuti, non di più. E sempre un pensiero, un affetto, un'immagine, che la gente si porti a casa qualcosa. L'omelia non è una conferenza, è un sacramentale: la si prepara in preghiera, con spirito apostolico".

Al contempo, però, le omelie non devono calare dal punto di vista della qualità delle riflessioni che propongono ai fedeli. “Andare nelle parrocchie e non dire nulla di fronte a liturgie un po’ sciatte, trascurate, mal preparate, significa non aiutare le comunità, non accompagnarle. Invece con delicatezza, con spirito di fraternità, è bene aiutare i pastori a riflettere sulla liturgia, a prepararla con i fedeli”, ha commentato il pontefice. 

L'attenzione dei sacerdoti, nelle indicazioni del Papa, dev'essere sempre quella di mettersi al servizio dei fedeli. I sacerdoti devono infatti “vivere in pienezza l’azione liturgica. In questo il maestro delle celebrazioni deve usare una grande saggezza pastorale: se sta in mezzo al popolo capirà subito e saprà bene come accompagnare i confratelli, come suggerire alle comunità ciò che è adatto e realizzabile, quali sono i passi necessari per riscoprire la bellezza della liturgia e del celebrare insieme”.

Il pontefice si è infine espresso con severità contro il rumore che talvolta si sente nelle sagrestie prima e dopo le celebrazioni liturgiche. "Il silenzio apre e prepara al mistero, permette l’assimilazione, lascia risuonare l’eco della Parola ascoltata. È bella la fraternità, è bello salutarsi, ma è l’incontro con Gesù che dà senso al nostro incontrarci, al nostro ritrovarci. Dobbiamo riscoprire e valorizzare il silenzio”, sono state le sue parole in proposito. 

Morte, giudizio, inferno e paradiso, le quattro (ultime) cose dimenticate. GIOVANNI MARIA VIAN, storico, su Il Domani il 26 novembre 2023

Nella dottrina cattolica c’erano una volta i «novissimi». Il primo a sottolinearne la centralità e la dimenticanza fu Paolo VI negli anni turbolenti del post-concilio. Chi ne parlava era Joseph Ratzinger, fin dal suo primo corso di lezioni nel 1957 a Friburgo. Vent’anni dopo, nel 1977, pubblicò Escatologia. Morte e vita eterna, considerato dal futuro papa la sua opera «più elaborata e accurata».

Nella dottrina cattolica c’erano una volta i «novissimi». Il termine, derivato dal latino medievale, è un aggettivo che significa ultimo, e indica le quattro «ultime cose»: morte, giudizio, inferno, paradiso. Realtà ormai abbandonate dalla predicazione o tutt’al più accennate di sfuggita, come talvolta avviene in novembre, mese dedicato tradizionalmente alla memoria dei defunti. Dunque a riflettere sulla propria vita, mentre si conclude l’anno liturgico e si apre il tempo dell’Avvento, che evoca anche l’attesa del ritorno finale di Cristo.

Ad affrontare il tema dei novissimi, sottolineandone la centralità e la dimenticanza, fu Paolo VI in una delle udienze generali durante gli anni turbolenti del post-concilio. Per questi incontri il papa preparava personalmente i discorsi, di cui si conservano i manoscritti, e l’8 settembre 1971 il pontefice trattò dell’escatologia: «parola strana» che significa «scienza delle cose ultime» e che non solo ricorre in tanti documenti del Vaticano II, ma che – affermò Montini – «domina tutta la concezione della vita cristiana, della storia, del tempo, dei destini umani oltre la morte»; eppure «dei novissimi pochi parlano e poco».

Chi ne parlava, e da molto tempo, era Joseph Ratzinger, che al concilio si era affermato come brillante consigliere teologico del cardinale Joseph Frings, arcivescovo di Colonia e autorevole esponente dell’ala riformatrice. «Se appartenere alla chiesa ha un senso, esso consiste semplicemente nel fatto che questa appartenenza ci dà la vita eterna e, quindi, la vita giusta e vera. Tutto il resto è secondario» avrebbe poi sintetizzato Ratzinger, ormai cardinale alla guida dell’antico Sant’Uffizio, al giornalista Peter Seewald.

IL METODO RATZINGER

Del tema il trentenne teologo bavarese si era occupato fin dal suo primo corso di lezioni, nel 1957 a Friburgo. Finché vent’anni dopo, nel 1977, pubblicò Escatologia. Morte e vita eterna, che suscitò soprattutto in Germania un acceso dibattito. Di continuo ristampato e tradotto in sette lingue (in Italia da Cittadella Editrice), il libro è stato considerato da Ratzinger la sua opera «più elaborata e accurata». Alla sesta edizione l’autore ha aggiunto due appendici e per l’ultima del 2007 – papa da due anni – ha scritto una nuova prefazione.

Mentre all’inizio del 1977 andava in stampa il libro sull’escatologia, Ratzinger venne nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da papa Montini, che tre mesi più tardi lo creò cardinale. Era la svolta decisiva nella vita del futuro Benedetto XVI: si chiudeva infatti la sua vita universitaria e iniziava il tempo dell’episcopato nella metropoli bavarese. Seguirono nel 1982 il trasferimento a Roma come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e nel 2005 il pontificato, fino alla rinuncia nel 2013.

L’Escatologia resta il frutto più maturo della ricerca di Ratzinger, che era ben consapevole di andare controcorrente. «Avevo tentato – spiega infatti il teologo cinquantenne nella premessa alla prima edizione – di costruire un’escatologia “de-platonizzata”», ma dalla lettura delle fonti durata un ventennio si è imposta «la logica interna alla tradizione ecclesiale». Con un risultato che «si colloca adesso in una direzione opposta ai miei primi tentativi di allora, una direzione che contraddice l’opinione dominante in tutti i suoi aspetti», imboccata però non per «spirito di contraddizione ma costretto dalla cosa stessa».

In queste parole c’è tutto il metodo di Ratzinger, radicato nelle fonti ma altrettanto attento al dibattito contemporaneo – teologico, filosofico e scientifico – e anche a tradizioni religiose orientali. Su un tema molto controverso perché in ambito cattolico, dopo aver condotto per secoli «un’esistenza tranquilla», la dottrina sulle cose ultime si è trasformata in un «focolaio di disordini», secondo la definizione del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar. Così, sotto l’influsso soprattutto del pensiero marxista, la speranza è divenuta politica, mentre al contrario per Ratzinger non deve essere ridotta «a nessun tipo di teologia politica».

Ma più radicalmente si è letta la Bibbia «prescindendo dalla tradizione»: si è così sostenuto da una parte che nelle Scritture ebraiche e cristiane non si trova l’immortalità dell’anima, ritenuta un concetto platonico, e dall’altra si è ipotizzata una risurrezione nel momento stesso della morte. La discussione e la contestazione puntuali di queste ipotesi da parte di Ratzinger – per il quale «l’anima non è nient’altro che la capacità da parte dell’uomo di stare in relazione con la verità, con l’amore eterno» – hanno suscitato un ampio e vivace dibattito, con la conseguenza di avvicinare posizioni che sembravano inconciliabili.

Illuminante è il metodo di analisi condotto da Ratzinger sui testi biblici. La sua interpretazione tiene infatti conto di alcuni tra i maggiori biblisti e dei teologi contemporanei: Karl Barth, Rudolf Bultmann, Oscar Cullmann, Charles H. Dodd, ma anche di «singole pepite d’oro» nelle «varie teologie della liberazione e della rivoluzione». Il teologo prende però in esame l’«intera storia dell’esegesi», proprio come il sapere filosofico non deve prescindere da Platone, Aristotele e Tommaso d’Aquino, «autentici protagonisti di un continuo approfondimento delle cose. Nessuno di essi è la personificazione della filosofia o il filosofo» scrive Ratzinger, ma dalla intera storia della filosofia «si rivela la verità e nasce contemporaneamente la possibilità di nuove conoscenze».

INTERPRETAZIONI E DIBATTITI

Con questo metodo impegnativo Ratzinger ridimensiona l’imminenza della fine del mondo che secondo molte interpretazioni moderne sarebbe stata centrale nella predicazione di Gesù. Il suo annuncio del «regno di Dio» è infatti «improntato a un senso di continua attualità e non è legato né a luoghi né a tempi» perché si realizza in Gesù, che è lui stesso il regno (autobasilèia), secondo una «bella espressione» di Origene, uno dei maggiori pensatori cristiani dell’antichità.

Di fronte alla morte, il primo dei novissimi, la società contemporanea è contradditoria: se da una parte la considera un tabù – nascondendola o cercando di controllarla tecnicamente con l’eutanasia – dall’altra la esibisce come spettacolo. In questo modo la morte viene «privata del suo carattere di apertura metafisica e la sua banalizzazione dovrebbe arginare la domanda inquietante che da essa scaturisce» scrive Ratzinger, che ricorda come Schleiermacher abbia parlato «della nascita e della morte come di “spiragli” attraverso i quali lo sguardo dell’uomo intravede l’infinito».

Secondo le Scritture ebraiche «la comunione con Dio significa vita oltre la morte» e questa comunione è «vera realtà, più reale pure della morte», secondo «un’idea che non deriva né da modelli greci né da modelli persiani». In continuità si colloca la tradizione cristiana. Ma il Nuovo Testamento introduce «la novità determinante» della testimonianza e della resurrezione di Gesù, che peraltro in contrasto con la classe sacerdotale sadducea condivide sulla resurrezione dei morti la dottrina dei farisei quando – nel vangelo secondo Marco (12,27) – afferma «non è Dio dei morti ma dei viventi». Punti cruciali, molto dibattuti e interpretati fino alla negazione, riguardano la «sopravvivenza dell’uomo tra la morte e la resurrezione» finale, cioè la resurrezione dei morti (o della carne). In proposito Ratzinger esamina, oltre i dati biblici, tradizioni apocrife ebraiche, concezioni religiose orientali, discussioni teologiche antiche e moderne, e dimostra che sono realtà, compreso lo «stato intermedio» di purificazione denominato nel medioevo «purgatorio». Ma avverte che «il messaggio della fede non ha lo scopo di alimentare una pura curiosità» nell’aldilà, bensì di orientare la vita nell’aldiquà in attesa del giudizio di Dio.

Così il dogma dell’inferno «conserva il suo contenuto reale», accompagnato nei secoli da un concetto della misericordia che, da Origene in poi, gli oppone una speranza: ipotesi fondata misteriosamente sulla discesa di Cristo che, crocifisso e morto, «si reca nell’inferno e lo svuota mediante la propria sofferenza». Così il paradiso, che è anch’esso «determinato dalla cristologia», perché «l’uomo è in cielo quando e nella misura in cui è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio». Allora – conclude Ratzinger – anche «l’intero creato sarà un “cantico”, un gesto con cui l’essere si libera nel tutto e insieme un entrare del tutto nel proprio, un gaudio in cui tutte le domande avranno risposta ed esaudimento».

GIOVANNI MARIA VIAN, storico. Storico e giornalista, ordinario di filologia patristica all’università di Roma La Sapienza, redattore e autore dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, è direttore emerito dell'Osservatore Romano, che ha guidato dal 2007 al 2018. Tra i suoi libri più recenti: Pablo VI, un cristiano del siglo XX (2020), Andare per la Roma dei papi (2020), I libri di Dio (2020, tradotto in francese), Il cristianesimo antico. Bibliografia degli scritti di Manlio Simonetti (2023)

Rubata la croce pettorale di Benedetto XVI: "Oggetto sacro, non escludiamo ritorsione". Storia di Federico Garau Il Giornale il 20 giugno 2023.

La croce pettorale di proprietà del defunto papa emerito Benedetto XVI è stata sottratta da alcuni ladri introdottisi all'interno della chiesa di St.Oswald, nel Land tedesco della Baviera.

L'oggetto era stato trasmesso dallo stesso Joseph Ratzinger in eredità, tramite il proprio testamento, alla parrocchia di Traunstein, dove il futuro pontefice aveva trascorso la sua adolescenza. Stando a quanto riferito dalle autorità locali, la croce pettorale, una delle insegne episcopali, era custodita all'interno di una teca incassata nel muro della chiesa di St.Oswald. La stanza del portale nord della chiesa in cui si trovava l'oggetto era il battistero, trasformato nel 2020 in una sala commemorativa per Benedetto XVI nell'ambito dei lavori di ristrutturazione dell'edificio.

Il colpo

I ladri, tuttora ignoti, sarebbero entrati in azione tra le ore 11:45 e le ore 17:00 dello scorso lunedì 19 giugno, come specificato quest'oggi dall'Ufficio della polizia criminale bavarese (Lka). Dopo aver forzato la teca di vetro, i malviventi si sono impossessati della croce appartenuta a Benedetto XVI, una reliquia di importanza incommensurabile, non solo per l'edificio religioso di Traunstein. "Per la Chiesa cattolica, il valore di questo oggetto sacro non può essere quantificato", ha dichiarato la polizia bavarese in un comunicato.

Non si tratta, comunque, dell'unico elemento sottratto dagli autori del furto: questi, infatti, avrebbero forzato anche l'apertura del registratore di cassa in cui era contenuto il denaro derivante dalla vendita di riviste. La speranza da parte degli inquirenti è che qualcuno dei numerosi visitatori presenti in quelle ore all'interno della chiesa possa avere riscontrato elementi in grado di agevolare le indagini

Il sospetto di una ritorsione

Stando a quanto riferito da Br.de, al momento non è possibile escludere che si sia comunque trattato di un atto di ritorsione nei confronti dell'ex pontefice e non di un "semplice" furto. Potrebbe esserci, infatti, un collegamento col processo al defunto papa, aspetto che neppure la polizia bavarese può scartare a priori. Proprio in questi giorni, infatti, è in corso presso il tribunale distrettuale di Traunstein un procedimento contro Benedetto XVI per il risarcimento delle sofferenze e dei danni a una vittima di abusi. La polizia sta verificando se ci sia una connessione tra il furto e il processo per abusi. "Stiamo indagando in tutte le direzioni", ha detto, interpellato da BR24, il portavoce della Lka. Al momento, però, non ci sono specifiche indicazioni in merito.

Spuntano 5 cugini: cosa può accadere al testamento di Ratzinger. Tutte le lettere private del Papa emerito sono state distrutte: restano solo degli appunti, trasferiti alla fondazione di Ratisbona. Federico Garau il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

Pur essendo trascorsi quasi tre mesi dalla morte del Papa emerito Joseph Ratzinger, ancora non si è chiuso il capitolo relativo alle sue volontà testamentarie, sulle quali sta lavorando alacremente don Georg Gaenswein.

Nonostante il grande impegno, tuttavia, vi sono ancora degli aspetti da risolvere. Nel periodo in cui si sono svolti i viaggi verso Ratisbona, Markt am Inn e Pentling, dove hanno sede delle fondazioni tra cui verranno suddivise le collezioni di libri e di spartiti di Benedetto XVI, sono infatti stati identificati dei parenti lontani del Papa emerito, che per quei legami rientreranno nell'asse ereditario.

Un elemento, questo, che potrà togliere alcune castagne dal fuoco, dato che don Georg Gaenswein non aveva avuto alcuna indicazione specifica per la gestione del denaro depositato nel conto personale di Ratzinger: la mancanza di eredi diretti aveva creato qualche grattacapo, risolto in parte con l'identificazione dei lontani congiunti scoperti di recente dal Vaticano.

L'eredità di Benedetto XVI

Stando a quanto riferito da Il Messaggero, la cifra che verrà distribuita tra questi parenti non è nota. L'unica certezza è che non saranno inclusi i proventi derivanti dal copyright delle opere teologiche redatte da Benedetto XVI le quali, tradotte in tutte le lingue, sono state vendute un po' ovunque nel mondo.

"Ad un certo punto mi sono accorto che c'erano ancora dei parenti, e per me è stato interessante", racconta don Georg Gaenswein."Inizialmente pensavo fossero in vita solo due cugini e invece ci sono in tutto cinque parenti. Visto che Benedetto XVI non ha indicato esplicitamente un erede fa testo sia la legge del Vaticano che quella italiana che indica il dovere di individuare i legittimi eredi", precisa ancora. Una volta identificati, questi parenti andranno contattati. "Devo scrivere a questi cugini: per legge dovranno essere interpellati e decidere se vogliono accettare o meno l’eredità", spiega.

Come anticipato, si tratta esclusivamente di denaro, e non dei proventi derivanti dai diritti di autore dell'attività di teologo e scrittore del Papa emerito, come ricorda lo stesso don Georg. Per tutti gli altri oggetti personali, invece, Ratzinger aveva già pensato a tutto: penne, quadri, orologi e arredi liturgici andranno suddivisi tra amici e collaboratori di Benedetto XVI, tra segretari, domestici, autisti, parroci e studenti. Una casula ricamata, ad esempio, che il Papa era solito utilizzare durante le celebrazioni più importanti, è stata donata alla parrocchia di Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone, di cui l'allora cardinale Ratzinger era titolare.

"Distruggere le carte private". L'ultima richiesta di Ratzinger a padre Georg

Le disposizioni

Come indicato chiaramente nel testamento, tutte le lettere private sono state distrutte. Rimangono solo degli appunti, già trasferiti alla fondazione di Ratisbona. "Tra le incombenze da sbrigare c'era anche la questione delle lettere private", racconta ancora don Georg. "Gli appunti invece no, quelli li aveva ordinati lui stesso e messi da parte. Penso sia stato un peccato distruggere quei carteggi, alcuni anche importanti. Prima che morisse gliene parlai ma lui mi rispose con fermezza ripetendomi che non vi erano scappatoie. Fu irremovibile e, di conseguenza, così ho fatto", assicura.

All'interno del monastero Mater Ecclesiae in cui ha vissuto, non vi sono più oggetti o scritti appartenuti a Benedetto XVI: il materiale ha già fatto ritorno in Baviera. "Non ho più niente in mano", dice infatti don Georg. "L'ultimo libro inedito è quello che si intitola Cosa è il Cristianesimo. Se nella sede della fondazione di Ratisbona troveranno qualcosa si vedrà, ma non penso ci sia più nulla".

Per quanto concerne il futuro dell'ex segretario particolare di Papa Ratzinger, invece, ancora niente di certo. "Papa Francesco non mi ha dato ancora alcun incarico, deve riflettere e poi mi dirà. Io sono a disposizione della Chiesa e sono leale e fedele", conclude don Georg.

Gli eredi potrebbero non farsi avanti. Ratzinger, per l’eredità spuntano cinque cugini: ma il testamento del Papa emerito porta anche guai giudiziari. Redazione su Il Riformista il 20 Marzo 2023

Cinque eredi a sorpresa. È il ‘conto’ di cugini e cugine ancora in vita di Joseph Ratzinger, il Papa emerito scomparso il 31 dicembre dello scorso anno. A riferire il numero di possibili eredi dell’ex pontefice tedesco è stato l’arcivescovo Georg Gänswein, fidato assistente di Benedetto XVI e diventato dopo la morte del Papa emerito la voce del cattolicesimo più conservatore e ostile a Papa Francesco.

Gänswein, spiega oggi il Corriere della Sera, lo ha rivelato domenica durante una Messa celebrata a Roma in ricordo di Ratzinger, durante la quale lo stesso arcivescovo si è mostrato sorpreso di aver appreso tale novità: “Pensavo fossero due, è stata una sorpresa anche per me”.

Eppure esiste il concreto rischio che nessuno di questi cugini decida di farsi avanti per reclamare la sua parte di eredità lasciata dal testamento del Papa emerito. Eredità che consiste “in ciò che può essere ancora presente nel conto”, anche se cifre esatte non sono circolate: il lascito di Ratzinger non comprende in ogni caso effetti personali e soprattutto i diritti d’autore sui libri scritti durante il pontificato, bestseller mondiali, che resteranno invece in mano al Vaticano. La “Fondazione vaticana Joseph Ratzinger”, nata nel 2010 con il sostegno patrimoniale dei diritti d’autore, ha infatti sede e appartiene alla Città del Vaticano.

Quanto alle lettere private, già al momento della scomparsa del Papa emerito l’arcivescovo Gänswein riferì di averle bruciate su indicazione dello stesso Ratzinger. “Un peccato? Sì, anche io glielo dissi ma lui mi ha dato questa indicazione: nessuna scappatoia“, ha detto Gänswein. Dunque scritti inediti del pontefice emerito non ne sono rimasti: “Io non ho più niente in mano, l’ultimo testo è “Che cosa è il cristianesimo“, ha spiegato ancora l’ex segretario.

Ma cosa potrebbe spingere gli eredi a non dare seguito alle volontà di Ratzinger presenti nel testamento, di cui padre Gänswein è esecutore? Secondo Gian Guido Vecchi, ‘vaticanista’ del Corriere della Sera, lo scoglio sarebbe il rischio di finire coinvolti nelle cause di risarcimento danni intentate in Germania contro l’ex Papa Benedetto XVI.

La questione riguarda l’accusa, sempre smentita dal diretto interessato, di non essere intervenuto contro un prete pedofilo, “padre H”, quand’era arcivescovo di Monaco nel periodo tra il 1977 e il 1982.

Fumata bianca. Parla l'altro segretario di Benedetto XVI: "Ecco le sue prime parole a Francesco". Monsignor Alfred Xuereb racconta la telefonata tra Joseph Ratzinger e il neoeletto Jorge Mario Bergoglio. "Promise obbedienza" conferma il segretario. E ricorda i suoi anni accanto al Papa tedesco. Nico Spuntoni il 19 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Siamo abituati alla figura di monsignor Georg Gänswein, storico segretario personale di Joseph Ratzinger sin dai tempi del suo incarico da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Di lui si è parlato molto all'indomani della morte di Benedetto XVI anche per via del libro, Nient'altro che la verità (Edizioni Piemme), scritto a quattro mani con il giornalista Saverio Gaeta e che ha provocato furibonde polemiche per le sue confessioni sul difficile rapporto con Francesco. Al fianco del Papa tedesco, però, dal settembre del 2007 fino al febbraio del 2013 c'è stato anche monsignor Alfred Xuereb, suo secondo segretario e oggi nunzio apostolico in Corea del Sud.

L'altro segretario

A stretto giro dalla morte di Benedetto XVI, oltre al libro di Gänswein è uscito anche il libro di Xuereb, un diario dei suoi anni accanto al Papa tedesco. Nel suo I miei giorni con Benedetto XVI (Edizioni San Paolo) si ritrova un ritratto di un Ratzinger inedito, raccontato nella quotidianità dei pranzi, delle messe, delle passeggiate e con fotografie inedite di momenti privati. Alcuni particolari raccontati restituiscono un'immagine inedita al grande pubblico dell'ultimo Pontefice europeo: il suo umorismo, ad esempio, o l'amore per i gatti e per gli orsacchiotti.

Quest'ultima passione, peraltro, s'intreccia con l'evento probabilmente più importante della storia della Chiesa degli ultimi secoli: la rinuncia dal ministero petrino. Nei giorni finali del pontificato, in preparazione del trasloco per il monastero Mater Ecclesiae, Xuereb ricorda nel libro che Benedetto XVI aveva subito pensato a far spostare nella nuova residenza i due orsetti di stoffa che risalivano alla sua infanzia e che gli erano stati regalati dalla madre.

ll 2 marzo del 2013, mentre la famiglia pontificia si trovava a Castel Gandolfo in attesa di sapere l'esito del conclave, il prelato maltese annota un dettaglio che lo ha colpito dell'atteggiamento di Benedetto XVI mentre i media ed i fedeli sono ancora sotto shock per gli eventi. "Se avessi avuto bisogno di una conferma della tranquillità d’animo del Santo Padre - scrive Xuereb - questa mi è stata data stamane, quando mi ha mostrato dove ha sistemato i suoi due orsetti storici.

L'annuncio choc delle dimissioni

La testimonianza del nunzio maltese è importante anche per ciò che riguarda l'annuncio delle dimissioni. Benedetto XVI, infatti, scelse di comunicarglielo qualche giorno prima dello storico concistoro dell'11 febbraio 2013. Precisamente martedì 5 febbraio: Ratzinger lo convocò nel suo ufficio e, senza troppi fronzoli, lo avvisò immediatamente della sua decisione. Così lo ricorda Xuereb nel libro: "Andrò a vivere – mi spiega con calma – nell’ex monastero di clausura che c’è nei Giardini Vaticani e che attualmente è in ristrutturazione. Ma Lei, monsignore, rimarrà con il nuovo Papa". In effetti, il prelato maltese divenne in seguito segretario di Francesco svolgendo quel ruolo di transizione che prima di lui aveva svolto monsignor Mechyslav Mokshytskyi. Dunque, il nuovo Papa argentino accettò quell'ultima decisione del suo predecessore e mantenne Xuereb al suo fianco fino al 2018, quando lo nominò nunzio apostolico in Corea e Mongolia e lo elevò al rango di arcivescovo.

È interessante la testimonianza dell'ex segretario particolare sulla sua reazione alla notizia delle dimissioni. Scrive nel diario: "A mano a mano che prendo coscienza della decisione di Benedetto, mi viene da piangere. Mentre il Papa mi parlava, per un istante ho pensato di dirgli di ripensarci, ma poi mi sono trattenuto, anche perché ho visto il Santo Padre sereno ed ero sicuro che aveva a lungo vagliato la decisione nella sua preghiera. Inoltre, non ho voluto rinfocolare il turbamento che sicuramente ha vissuto negli ultimi tempi".

Quella di Xuereb è l'ennesima conferma della serenità e al tempo stesso della determinazione con cui Benedetto XVI annunciò ai suoi collaboratori più stretti lo storico passo indietro. L'importanza del diario sta soprattutto nelle piccole cose relative alle grandi cose: ad esempio, significativo il racconto del pranzo successivo alla notizia della rinuncia nel quale - ricorda Xuereb - il Papa cercò di stemperare il clima con battute su un cardinale di una certa età arrivato col fiatone ad un incontro con lui. Si legge nel libro: "Il Santo Padre ha commentato con sentimenti di simpatia: «Due sono le ragioni, è grasso ed è anziano!». E sapendo che al Santo Padre non è mai piaciuto praticare sport, mi sono consentito una battuta: «Mi permetto di aggiungere un’altra motivazione: forse aveva il fiatone perché non ha praticato nessuno sport!». Al che il Papa ha subito replicato: «Se avesse fatto sport, sarebbe già morto!»".

L'umorismo di Ratzinger in quelle ore che precedevano il concistoro dell'11 febbraio 2013 contrastava con l'inquietudine di Xuereb e degli altri membri della famiglia pontificia. Una situazione che si replicò nel pranzo successivo a quell'annuncio pubblico durante il quale, ancora commosso, il segretario maltese provò ad intavolare una conversazione su quanto accaduto: "Butto là un’osservazione: «Padre Santo, ma Lei è apparso molto tranquillo mentre pronunciava il suo atto di rinuncia…». «Sì», risponde deciso Benedetto. Non una parola di più. Capisco che non è il caso di aggiungere altre osservazioni".

Il conclave ed il telefono

Nei giorni successivi, la segreteria del Papa venne tempestata di richieste per udienze private e si trovò a dover sbrigare le numerose lettere d'affetto che arrivavano da tutto il mondo. Nel diario si ritrovano i racconti di scene fondamentali viste in prima persona come l'addio al Palazzo Apostolico ed il viaggio sull'elicottero da San Pietro a Castel Gandolfo. Xuereb rimase al fianco di Benedetto XVI in quello storico volo.

Il 5 marzo 2013, quando i cardinali cominciarono le congregazioni generali in vista dell'ingresso in Cappella Sistina, il prelato maltese fu protagonista di un episodio intenso nel clima tranquillo e al tempo stesso surreale di Castel Gandolfo. Si legge nel diario: "Questa mattina il Santo Padre ha consegnato il suo anello del Pescatore che nei tempi passati, in caso di morte del Papa, veniva distrutto. Ora invece viene solo graffiato: è il segno che il Papa che l’aveva indossato non è più Pontefice regnante. Ieri, quando l’ha portato in ufficio per consegnarlo, gli ho chiesto se potessi baciarlo per l’ultima volta, ed ha acconsentito. Ho notato che la mia richiesta gli ha fatto piacere".

Sul conclave, Xuereb racconta che Benedetto XVI lo ha vissuto "con molta aspettativa" e che era "desideroso di sapere chi gli sarebbe succeduto". La famiglia pontificia aspettò la fumata bianca in preghiera ed apprese il nome del nuovo eletto dalla televisione, come tutti. Concentrati sul piccolo schermo, non si accorsero del telefono che squillava poco prima dell'apparizione dalla loggia del nuovo Papa. A chiamare era proprio Francesco che - racconta Xuereb - voleva salutare il suo predecessore prima di presentarsi alla folla, ma senza successo.

Una telefonata solo rinviata. Francesco, infatti, al termine del suo primo saluto in piazza San Pietro, chiamò di nuovo a Castel Gandolfo e fu proprio Xuereb a passare il telefono portatile all'orecchio del Papa emerito. La testimonianza del segretario maltese è storica perché monsignor Gänswein, riferendo di questa telefonata, aveva spiegato di non averne sentito i contenuti. Xuereb, invece, ascoltò quanto si dissero Francesco ed il suo predecessore e lo riporta nel suo diario. "La ringrazio Santo Padre – e già sentire Benedetto dire questo suscitava ammirazione – la ringrazio che abbia subito pensato a me e prometto fin d’ora la mia obbedienza e la mia preghiera». Sentirgli dire questo mi ha molto edificato".

Dunque, Ratzinger volle immediatamente ribadire a quel successore che ora aveva un nome quanto aveva detto il 28 febbraio ai cardinali convocati in Sala Clementina per il congedo: la sua promessa di incondizionata reverenza e obbedienza.

Un rapporto filiale

La testimonianza di monsignor Xuereb sulla clamorosa rinuncia di dieci anni fa è preziosa perché rende bene l'idea della serenità e, al tempo stesso, della convinzione con cui Benedetto XVI prese la sua decisione, nonché di come accettò senza esitazione e senza alcuna intromissione l'esito del conclave.

In un recente intervento pubblico che l'ex segretario particolare di Ratzinger ha cortesemente inviato a chi scrive, viene messo in evidenza come quei momenti furono "vissuti con ammirevole pace interiore, frutto della Sua intima unione di fede con Dio". La rinuncia al ministero petrino, ha detto monsignor Xuereb, "non è stata, come si sentiva dire, una mancanza di coraggio; è stato invece un atto d’amore per la Chiesa" di cui lui stesso ha "sperimentato in prima persona l’audacia".

Il diario del prelato maltese ha un valore storico per le testimonianze dirette relative ai giorni precedenti e successivi all'11 febbraio 2013 ma sarà sicuramente apprezzato da chi vuole conoscere il volto inedito di Benedetto XVI raccontato nella sua quotidianità, dall'amore per gli animali alla fedeltà agli amici, dall'attaccamento nei confronti del fratello e dei ricordi familiari alla sensibilità che dimostrava verso i collaboratori.

Tutto riportato dalla voce di un sacerdote - ora arcivescovo - che non nasconde la sua ammirazione e la gioia per il rapporto filiale che in sei anni si era venuto a creare con il Papa tedesco. È emblematico quanto scrive Xuereb nel suo diario il 28 ottobre 2010, con Benedetto XVI ancora in vita: "Il Papa ha un rapporto speciale con i santi. Per lui non sono lontani, ma fanno parte della vita quotidiana. A volte penso che lui viva già in paradiso!"

Estratto dell’articolo di Francesco Capozza per “Libero quotidiano” l’11 dicembre 2023.

L’11 febbraio è una data scolpita nella storia della Chiesa. […] Benedetto XVI annunciava al mondo la decisione di rinunciare al Sommo Pontificato. In questo giorno del 2013 Papa Ratzinger aveva convocato un Concistoro che doveva essere di routine: nel programma della cerimonia c’era l’approvazione finale dei decreti di canonizzazione di alcuni nuovi Santi, tra cui i Martiri di Otranto, la ridente città salentina praticamente spazzata via dai turchi nel 1480.

I circa 50 cardinali che presero parte a quella sessione puramente burocratica erano quasi in procinto di alzarsi per andar via quando il maestro delle cerimonie pontificie passò a Benedetto XVI un foglio, il cui contenuto rivoluzionerà la Chiesa. Quel giorno non poteva certamente mancare il più stretto collaboratore di Ratzinger nella guida della articolata macchina vaticana: il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. […]

 Nel recente libro “Nient’altro che la verità” mons. Georg Gänswein […] asserisce che Papa Benedetto avrebbe accennato a Vostra Eminenza la sua intenzione di rinunciare al Pontificato già ad aprile 2012, subito dopo il rientro dal viaggio apostolico in Messico e a Cuba. Ci può raccontare quel che accadde?

«Effettivamente […] dopo il faticoso viaggio in America Latina del 2012 (Messico e Cuba), affiorò l’ipotesi di dimissioni già il 30 aprile 2012 e il progetto di viaggi, soprattutto la partecipazione alla “Giornata Mondiale della Gioventù” di Rio de Janeiro, si allontanava sempre più dall’orizzonte papale».

Sempre mons. Gänswein, nel volume citato, racconta che successivamente, nell’agosto del 2012, il Santo Padre tornò con Lei sull’argomento a Castel Gandolfo, quando ormai la Sua decisione era presa. Come si svilupparono successivamente gli eventi?

«Quella che pensavo una nuvola passeggera di primavera […] mi accorsi che era una decisione convinta e irrevocabile. Con rispetto ma con forza, gli presentai una serie di ragionamenti […] prospettando anche con realismo la possibilità di governare a distanza, con i mezzi tecnologici moderni. “La presenza è un’altra cosa” mi replicò il Papa, e “ormai, dopo l’esperienza di S. Giovanni Paolo II, i fedeli vogliono vedere il Papa”. Man mano che passava il tempo, il Santo Padre non solo non recedeva, ma si confermava nella decisione […]».

[…] «[…] mi preoccupai di sviluppare due iniziative: la prima, di scegliere e predisporre il futuro alloggio del “Papa emerito”; la seconda, di dilazionare, per quanto possibile, la pubblicazione della sua decisione […] Tra le varie “location” possibili fu preferito l’alloggio in Vaticano anziché a Castelgandolfo, per la comodità dell’assistenza medica e quindi una più immediata cura della salute del Papa. […] il Conclave fu convocato […] Come è noto si distinse l’intervento del Cardinale Jorge Bergoglio che spostò l’orientamento degli elettori oltre l’eurocentrismo, verso l’America Latina, il tradizionale Continente cattolico. E il “Nuovo Mondo” diede alla Chiesa il nuovo Pontefice […]».

Estratto dell’articolo di Gian Guido Vecchi per corriere.it il 27 gennaio 2023.

L’11 febbraio 2013, nella «Declaratio» con la quale annunciò la rinuncia al pontificato, Benedetto XVI spiegò di essere «pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Non entrò nei dettagli ma ora, attraverso una sua lettera scritta al biografo Peter Seewald nove settimane prima della morte, il 22 ottobre 2022, si viene a sapere che «il motivo centrale» fu un’insonnia («Schlaflosigkeit») che lo tormentava da anni, «l’insonnia mi ha accompagnato ininterrottamente dalla Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia», e cioè dall’agosto 2005, il primo viaggio del pontificato.  […]

 Durante il suo viaggio in Messico e a Cuba, nel marzo 2012, Benedetto XVI ebbe un incidente, la mattina dopo la prima notte notò che il suo fazzoletto era «completamente intriso di sangue», ha scritto nella lettera: «Devo aver urtato qualcosa in bagno ed essere caduto». Un medico era riuscito a intervenire in mondo che la ferita non fosse visibile, nessuno si era accorto di nulla.

Dopo l’incidente, il nuovo medico personale aveva chiesto di ridurre il consumo di sonniferi e insistito affinché Benedetto, nei futuri viaggi all’estero, apparisse in pubblico solo la mattina. Ratzinger scrive come gli sia stato chiaro che quelle restrizioni mediche «potevano essere applicate solo per un breve periodo». Nel luglio del 2013 era programmato un altro viaggio internazionale di lunga durata, la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro, e Benedetto sapeva che non sarebbe stato più in grado di «affrontarlo»: di qui la decisione di dimettersi in tempo perché il nuovo Papa potesse andare a Rio. […]

La lettera di Ratzinger: "Io insonne da anni. È il motivo principale delle mie dimissioni". L'insonnia sofferta da Papa Benedetto XVI è stata il "motivo centrale" delle sue dimissioni nel 2013. Diana Alfieri il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

L'insonnia sofferta da Papa Benedetto XVI è stata il «motivo centrale» delle sue dimissioni nel 2013: lo ha rivelato lui stesso in una lettera inviata poche settimane prima della sua morte al suo biografo e diffusa ieri da un settimanale tedesco.

Il Papa emerito ha inviato una lettera il 28 ottobre, poche settimane prima della sua morte, al suo biografo, il tedesco Peter Seewald. In questo documento, rivelato dal settimanale Focus, Joseph Ratzinger, scomparso all'età di 95 anni lo scorso 31 dicembre, spiega che il «motivo centrale» delle sue dimissioni nel febbraio 2013 è stata «l'insonnia che (lo) aveva accompagnato ininterrottamente dalle Giornate mondiali della Gioventù a Colonia» nell'agosto 2005, pochi mesi dopo la sua elezione a successore di Giovanni Paolo II.

Il suo medico personale gli aveva poi prescritto «potenti rimedi» che gli avevano inizialmente permesso di assicurare il suo incarico.

Ma questi sonniferi avrebbero col tempo, secondo la lettera del Papa emerito, raggiunto i loro «limiti» e sarebbero stati «sempre meno in grado di garantirne» la disponibilità. Questa assunzione di sonniferi sarebbe stata anche la causa di un incidente durante il viaggio in Messico e a Cuba nel marzo 2012. La mattina dopo la prima notte, avrebbe scoperto che il suo fazzoletto era «totalmente inzuppato di sangue», sempre secondo la lettera citata da Focus.

«Devo aver sbattuto contro qualcosa in bagno e sono caduto», scrive il Papa emerito. Un medico è stato in grado di assicurarsi che le ferite non fossero visibili e si dice che un nuovo medico personale abbia insistito dopo questo incidente per prescrivere una «riduzione dei sonniferi» e abbia consigliato al Papa di presentarsi solo la mattina nei suoi viaggi all'estero.

Il Papa emerito afferma nella sua lettera di essere ben consapevole che queste restrizioni mediche «potrebbero essere sostenibili solo per un breve periodo» e questa constatazione lo ha portato a dimettersi nel febbraio 2013, pochi mesi prima della Gmg di Rio che riteneva di non essere in grado di «superare». Si è quindi dimesso abbastanza presto affinché il suo successore, papa Francesco, onorasse questa visita in Brasile.

Anticipazione da “Oggi” il 25 Gennaio 2023.

Il cardinale Angelo Scola, ex arcivescovo di Milano e grande regista dell’elezione al soglio pontificio di Joseph Ratzinger, racconta il Papa emerito su OGGI, in edicola domani, e dice la sua su quel conclave e sulle definizioni date del Pontefice dopo la sua morte. A partire da “pastore tedesco”: «È un’invenzione della stampa tedesca. Ratzinger ha sempre avuto molte opposizioni in Germania, perché la sua teologia era molto innovativa e però ancorata alla tradizione. Ma chi lo ha conosciuto sa che era tutt’altro che rigido».

Reazionario?

«Assolutamente no… era attentissimo alla società che cambia».

 E a questo proposito, Scola dice che Ratzinger «ha lasciato le chiavi fondamentali per affrontare questa fase del cristianesimo: la fase in cui la secolarizzazione è finita, ma la scristianizzazione no… Oggi la molla è la ricerca del piacere... Si è persa la centralità di Cristo, la possibilità dell’incontro personale con lui. Ratzinger ha detto con grande chiarezza che l’Europa sta perdendo la fede cristiana».

Della sua elezione Scola rivendica di essere stato uno dei grandi elettori e spiega: «Su quel Conclave si leggono ancora oggi numeri, sulle votazioni, completamente sbagliati. Ratzinger si impose immediatamente come l’unico candidato possibile».

 Fu contento di essere stato eletto?

«No. Disse che quando cominciò a capire che gli stava cadendo “una ghigliottina sul collo” fu preso dallo spavento. E dopo l’elezione chiese a tutti noi cardinali di fermarci un’altra notte in Conclave per poter stare ancora tutti insieme per una messa».

 E sulle sue clamorose dimissioni dice: «Si trattò di una serie di cause complesse, anche Vatileaks e la pedofilia, riassunte nella sua frase “non ho più le forze”. Prevalse, in quel momento, la sua umiltà».

Benedetto XVI e i “1000 anni”: risolto l'enigma finale sulle dimissioni di Ratzinger. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 25 gennaio 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

In questo periodo di nebbia e confusione, molti aspettavano una chiarificazione postuma di papa Benedetto XVI. Non sappiamo se e quando arriverà, ma non ce n’è alcun bisogno: lui ci ha già lasciato tutto quello che occorre per uscire dall’incubo in cui si trova la Chiesa.

"Cristo la verità non l'ha detta tutta, ha dato le chiavi di interpretazione", ha ricordato recentemente uno storico cattolico, e l’ultima chiave per capire definitivamente cosa ha fatto il Suo Vicario l’abbiamo finalmente trovata qualche giorno fa in “Ultime conversazioni”, libro intervista di Peter Seewald-Benedetto XVI del 2016, testo “autorizzato e approvato dal papa emerito”, (come si legge nella Presentazione, a pag. 17).

Ciò che illustriamo di seguito è che papa Ratzinger non ha abdicato, ma, per difendersi dalle pressioni, divenute intollerabili, della Mafia di San Gallo che voleva toglierlo di mezzo, ha dato specialissime “dimissioni”, simili (ma speculari) a quelle dichiarate ESATTAMENTE MILLE ANNI PRIMA, nel 1013, da un papa medievale, Benedetto VIII. Queste dimissioni sono state messe a punto da papa Ratzinger per farsi porre canonicamente in “sede totalmente impedita” (can. 335) status giuridico che ha reso il conclave del 2013 illegittimo e quindi Francesco antipapa e scismato dalla Chiesa cattolica. Se si capisce questo, e lo si riesce a divulgare al mondo, i problemi sono risolti. Sperare che Bergoglio si tolga di mezzo è una pia illusione, (ha appena dichiarato che non si dimetterà), ma la questione da assimilare è che non è mai stato papa e non ha niente da cui dimettersi. Deve essere solo travolto da una verità “gridata dai tetti”, in tutto il mondo.

Dimostrazione

Premessa: nei duemila anni di storia della Chiesa, hanno abdicato dieci papi. L’ultimo abdicatario è Gregorio XII nel 1415.

Ed ecco cosa c’è scritto nel libro “Ultime conversazioni”.

A pag. 31, Seewald chiede a Benedetto XVI: “C’è stato un aspro conflitto interiore per giungere a questa decisione delle dimissioni?”

Benedetto XVI: “Non è così semplice, naturalmente. Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio ciò ha costituito un’eccezione.

A pag. 231, si ripete il concetto per la seconda volta: “Benedetto XVI E’ il 265° papa nella storia della Chiesa cattolica. Eletto il 19 aprile del 2005, l’11 febbraio del 2013 ha annunciato le sue dimissioni, divenute effettive il 28 febbraio seguente”.

(Intanto: come si può scrivere che “È” il 265° papa ancora nel 2016, tre anni dopo le dimissioni?

Dovevano scrivere “è stato”, in modo conforme alla narrativa bergogliana, n.d.r.).

Ma prosegue il testo: “È il primo papa dopo mille anni, e l’unico nel pieno possesso dei propri poteri, a compiere questo passo”.

Prima acquisizione: Benedetto XVI non ha mai abdicato

Se negli ultimi mille anni, storicamente, hanno abdicato quattro papi, di cui l’ultimo nel 1415, e nel libro si dice che Benedetto “è il primo papa DOPO mille anni” a essersi dimesso, i conti non tornano. Infatti, se Benedetto XVI avesse ritenuto di essere abdicatario, avrebbe detto “negli ultimi 598 anni nessun papa si è dimesso” calcolando l’ultimo abdicatario prima di lui, Gregorio XII, che rinunciò al papato nel 1415. Giusto?

 Questo vuol dire indiscutibilmente che la parola “dimissioni”, per papa Ratzinger non equivale ad “abdicazione”, cioè a una rinuncia ad “essere” papa. Ergo,

PAPA BENEDETTO XVI NON HA MAI RITENUTO DI ESSERE ABDICATARIO

Nella sua Declaratio è quindi da escludersi in modo assoluto qualsiasi uso disinvolto o distratto di munus e ministerium, o anche solo una qual minima intenzione di rinunciare al papato che, peraltro, NON POTREBBE MAI ESSERE DIFFERITA di 17 giorni, in quanto sia l’abdicazione, che l’elezione del papa, sono atti puri e, per diritto divino, prima che canonico, devono avere validità simultanea, dal momento in cui si dichiarano. Queste frasi in “Ultime conversazioni”, fanno definitivamente piazza pulita di ogni contestazione.

Del resto, tutto torna: come sappiamo, l’oggetto della futura rinuncia di Benedetto – solo annunciata, (“dichiaro di rinunciare”) e mai confermata in modo giuridico - era il ministerium, l’esercizio pratico del potere, “FARE” il papa, e non l’ESSERE papa. Benedetto solamente “dichiara che ci sarà” un suo ritiro, un passo indietro, (Rücktritt) dal ministerium. Egli NON produce direttamente questo ritiro con la Declaratio: semplicemente lo annuncia.

QUI per la traduzione corretta del documento. 

Questa dichiarazione PROFETICA si realizzerà puntualmente, ma non per causa sua: i cardinali traviseranno la Declaratio, scambiandola per un’abdicazione, e convocheranno un CONCLAVE ILLEGITTIMO, perché a papa né morto, né abdicatario. Questo manderà Benedetto XVI in "sede totalmente impedita”, situazione canonica in cui il papa resta papa, ma, essendo prigioniero, gli viene de facto (e non de iure) impedito di governare, cioè viene forzatamente privato del ministerium, mentre trattiene il munus. (La sede impedita è l’unico caso in cui il ministerium viene separato dal munus). Ecco perché, come scrive Seewald, le dimissioni “diventano effettive il 28 febbraio seguente”. L’esproprio del ministerium, quindi, si è realizzato di fatto, non per volontà diretta di Benedetto XVI, ma causato dall’inizio della sede totalmente impedita.

La Declaratio di Benedetto XVI è semplicemente PREVISIONALE, non è una rinuncia volontaria. Come dire: “Rinuncerò a usare la mia casa per le vacanze perché, pensando che io l’abbia abbandonata, i malviventi me la occuperanno”. E’ una rinuncia subìta e accettata con mitezza sacrificale, come Cristo imprigionato e messo in croce. 

Per questo, papa Benedetto, anche se chiamava Bergoglio “papa Francesco”, come il patriarca di una qualsiasi altra chiesa scismatica, ha ripetuto per nove anni “il papa È uno solo”, senza mai spiegare quale: era lui stesso. Così come spiegava che “la risposta per chi non crede si trova nel Libro di Geremia”, dove il profeta dice: “Io sono impedito”. Per tale motivo dichiarava in “Ein Leben”, libro intervista di Peter Seewald, (Garzanti 2020): “la situazione di Celestino V non può IN ALCUN MODO essere invocata come mio precedente”: lui non era abdicatario come Celestino. Non a caso, Benedetto ha mantenuto veste bianca, nome pontificale e benedizione apostolica, viveva in Vaticano, esattamente come un papa in sede impedita, e si è definito “emerito”, colui “che merita, che ha diritto” di essere papa, per distinguersi dall’antipapa. Come conferma ultima, basti pensare al rogito inserito nella sua bara nel quale non c’è alcun cenno ad abdicazione/rinuncia al papato. E via di seguito con le decine e decine di altre dichiarazioni più o meno patenti che abbiamo analizzato da due anni e mezzo a questa parte, raccogliendole nel libro inchiesta bestseller “Codice Ratzinger”(Byoblu 2022).

 Seconda acquisizione: la perfetta analogia con le “dimissioni” di Benedetto VIII nel 1013

E qui il discorso diviene ancora più interessante. In “Ultime conversazioni”, come avete letto, si fa riferimento a un papa di mille anni prima che ha dato dimissioni simili a quelle di Benedetto XVI, ma non proprio uguali, con una differenza che rende Ratzinger unico nella storia: “È il primo papa dopo mille anni, e l’UNICO nel pieno possesso dei propri poteri, a compiere questo passo”.

Già nel 2021 avevamo capito che l’alter ego di Benedetto XVI del primo millennio doveva essere il papa Benedetto VIII, Teofilatto dei conti di Tuscolo.

Tuttavia, sciogliendo un equivoco che si è tramandato nelle fonti storiografiche, grazie alla collaborazione del professore di storia e  religione Luca Brunoni, possiamo comprendere in cosa le dimissioni di Benedetto XVI sono simili - ma non uguali - a quelle di Benedetto VIII, giustificando in modo “matematico” le affermazioni contenute in “Ultime conversazioni”.

Già dall’inizio del V secolo, sino alla promulgazione del Privilegium Othonis, i papi venivano dapprima eletti dai romani (clero, notabili, popolo), ma poi erano i vari imperatori a confermarli concedendo la “consacrazione”, l’autorizzazione finale per esercitare il potere pratico. Parliamo, quindi, in sostanza, di una concessione imperiale del ministerium, la possibilità canonica di “fare il papa”. (Il Privilegium Othonis decadrà nel 1059 e, da allora in poi, saranno i cardinali a eleggere il papa e a conferirgli canonicamente i poteri).

Nel 1012, Teofilatto, della potente famiglia di Tuscolo, fu eletto papa col nome di Benedetto VIII, ma subito entrò in contrasto con un contendente, Gregorio VI, sponsorizzato dai Crescenzi.

Ora, mentre Benedetto VIII aveva conquistato il Laterano e si era preso “abusivamente” il ministerium, facendosi consacrare autonomamente e cominciando a governare senza la dovuta conferma “imperiale”, in tutta risposta Gregorio VI si recava in Germania da Enrico II, l’allora Re di Germania e d’Italia e futuro Imperatore, per rivendicare i propri diritti e chiedere il riconoscimento canonico.

Al che, Benedetto VIII, nel 1013, ESATTAMENTE MILLE ANNI PRIMA DELLA DICHIARAZIONE DI DIMISSIONI DI BENEDETTO XVI, rendendosi conto di non avere le carte in regola, di essersi preso “abusivamente” il ministerium, scrive a Enrico II per annunciare il proprio ritiro, o passo indietro, (Rücktritt in tedesco, parola usata per le dimissioni di Ratzinger) e dichiara di non avere il consenso di Enrico a governare, quindi la mancanza del ministerium canonico: rinuncia così al proprio ministerium autonomamente conseguito, rimettendolo nelle mani del Sovrano. Enrico II, convinto anche da alcune concessioni ecclesiastiche promessegli, scelse Benedetto VIII, che divenne un grande papa. Gregorio VI rimase a bocca asciutta e fu dichiarato antipapa, sparendo dalla storia.

Questa è la chiave che accomuna Benedetto VIII e XVI: una DICHIARAZIONE DI RINUNCIA AL MINISTERIUM.

Ma cosa rende Benedetto XVI “l’unico papa nel pieno possesso dei propri poteri, a compiere questo passo”?

La differenza è questa: Benedetto VIII dichiara all’imperatore una rinuncia al ministerium illegittimamente già acquisito, mentre Benedetto XVI dichiara ai cardinali una futura rinuncia al ministerium di cui è legittimamente possessore. Passato vs. futuro, illegittimità vs. legittimità.

Così, Benedetto XVI è stato davvero il primo papa della storia a dare queste particolarissime dimissioni dal ministerium mentre era “nel pieno possesso dei propri poteri”.

 Il riferimento PERFETTO agli ultimi mille anni e a Benedetto VIII è la chiave per capire non solo come Ratzinger non abbia mai abdicato, ma come la sede totalmente impedita sia stata indotta da lui stesso: solo in questo modo poteva annullare i suoi nemici, permettendogli un lasso di tempo per manifestare i loro scopi anticristici. A tal proposito vedasi il teologo romano Ticonio, amatissimo da Ratzinger, sulla “Grande Discessio” QUI   .

Un geniale piano di difesa contro la Mafia di San Gallo che lo pressava ad abdicare. Infatti, Bergoglio oggi non è il legittimo papa, è scismato, tutto quanto da lui fatto è nullo e dovrà essere cancellato dalla storia.

Del resto, si potrebbe immaginare un papa meno impedito di Benedetto XVI, che viveva in Vaticano, in un monastero di clausura, privo di ogni potere pratico, con veste bianca, nome pontificale, benedizione apostolica, mentre un antipapa governava al suo posto?

Come vedrete nello schema riportato in fondo, le esperienze “dimissionarie” di Benedetto VIII nel I millennio e di Benedetto XVI nel II millennio sono simili, ma speculari, rovesciate. “Il segreto è nello specchio”, per dirla con una nota apparizione mariana.

Questi due personaggi del passato, Benedetto VIII ed Enrico II, che rivivono e ritornano nel messaggio-chiave di papa Ratzinger, farebbero pensare a quel “Grande Prelato” e “Grande Monarca” preconizzati da mistici e beati, anche per una serie di notevoli coincidenze. L’”arrivo” dal passato di questi due personaggi, sebbene medievali, infatti, risolve in modo inequivocabile la Magna Quaestio fra i due papi.

Oltre il genio umano

Potreste anche fermarvi qui, ma se volete approfondire, c’è anche la straordinaria concomitanza temporale tra la HORA XX (“hora vigesima” dice Benedetto, la ventesima ora, fin qui erroneamente tradotta con le “20.00”) citata nella Declaratio in cui la sede romana resta vuota, e le 13:30 del 1 marzo quando la sede diventa totalmente impedita per via della diffusione del bollettino sulla convocazione del conclave illegittimo QUI  . Da allora non sarebbe stato più il “pontefice sommo”, (come disse invertendo il titolo papale) cioè il pontefice al sommo grado, ma lo sarebbe stato in secondo piano, in disparte, impedito. In effetti, secondo l'orario pontificio pre napoleonico, il "Nuovo Giorno" ha inizio dopo l'Ave Maria delle 17:30 con la parte notturna, per questo Benedetto saluta tutti alle 17.45 dicendo, “buonanotte": iniziava quello che per Lui era "Un giorno speciale che non era come quelli precedenti"...

Difficile?

 Del resto, non si può pretendere che sia facile-facile un sistema per difendere la Chiesa dall’aggressione di poteri forti internazionali uniti a una lobby di cardinali golpisti e, al contempo, dire sempre la verità. Vi invitiamo a leggere e rileggere varie volte questo documento, gli articoli linkati e ad approfondire il resto su “Codice Ratzinger” (Byoblu ed., 2022).

Mentre per i credenti sarà chiarissimo e patente l’intervento dello Spirito Santo, i laici non potranno non constatare di trovarsi in presenza di qualcosa di assolutamente mai visto, di una genialità di origine sovrumana, qualsiasi essa sia, che sembra aver intessuto da millenni, attraverso la storia, questo momento. Come se una Logica nascosta che da sempre permea la vita degli uomini avesse creato un perfetto incastro fra migliaia di elementi documentali, testimoniali, canonici, storici, teologici, profetici, perfino storico-artistici.

A questo punto è solo una questione di coraggio e di buona volontà. Tutto è stato chiarito, o almeno ce n’è in assoluta sovrabbondanza per risolvere la situazione e salvare la Chiesa. Bisogna solo decidere se divulgare urbi et orbi la vera natura delle dimissioni di Benedetto XVI, e travolgere Bergoglio con la verità, oppure se far passare tutto in cavalleria, magari con la fola tradizional-sedevacantista del “Ratzinger modernista e pasticcione, autore del monstrum giuridico del papato emerito” e segnare così la fine della Chiesa canonica visibile. 

Il conclave per eleggere il successore di Benedetto XVI doveva essere già convocato entro il 20 gennaio. La grande battaglia sarà quella per un prossimo conclave puro, valido, composto unicamente da cardinali di nomina pre-2013. Altrimenti, con un conclave comprendente i cardinali invalidi di nomina antipapale, verrà eletto un altro antipapa, privo del munus e dell’assistenza dello Spirito Santo. E l’incubo ricomincerà da capo.

Ratzinger? "Di chi aveva paura": la rivelazione che spiega quasi tutto. Renato Farina su Libero Quotidiano il 24 gennaio 2023

La lettura di “Che cos’è il Cristianesimo” senza punto di domanda - è l’esperienza di un incontro con un Papa (la firma è Benedetto XVI, non Joseph Ratzinger) ricchissimo di musica interiore. Attingerla è pura grazia per chi crede e ritrova le ragioni della sua speranza, e occasione imperdibile per chi vuol scoprire che cosa sia davvero quello che ha respinto in giovinezza come una favola, e magari lasciarsi infine afferrare da quel Dio. Detto questo, c’è un fatto niente affatto secondario: che costituisce l’aspetto doloroso del libro, e ne marca l’identità.

Scrive nella prefazione datata 1 maggio 2022 e firmata Benedetto XVI, evitando di aggiungere la dicitura “emerito”: (nessun mistero recondito: destinata a essere letta dopo la sua dipartita: emerito di fatto...): «Questo volume, che raccoglie gli scritti da me composti nel monastero Mater Ecclesiae, deve essere pubblicato dopo la mia morte. La curatela l’ho affidata al dottor Elio Guerriero, che ha scritto una mia biografia in lingua italiana ed è da me conosciuto per la sua competenza teologica.

Per questo gli affido volentieri questa mia ultima opera. Monastero Mater Ecclesiae 1° maggio 2022, festa di San Giuseppe».

ATTO DI UMILTÀ

I libri postumi di solito nascono radunando testi incompiuti trovati sulla scrivania, oppure pescando nei cassetti lavori rinnegati da un autore troppo importante perché si perda anche un solo frammento del suo eventuale genio. La verità è che nella maggioranza dei casi si tratta di operazioni editoriali più o meno meritorie, il cui significato si esaurisce spesso nel fatturato che ne ricavano gli eredi.

Non è questo il caso. La scelta di Benedetto è stata insieme un atto di umiltà, il non dar ombra all’unico Papa regnante, e la testimonianza della tragedia che ha vissuto e sta vivendo la Chiesa cattolica. Chi non si adegua al «collasso spirituale» che ne sta squarciando la stessa «essenza» (tra virgolette perché sono espressioni di Benedetto) è una preda da trofeo. Papa Ratzinger è stato abbandonato alla muta ululante dalla sua Chiesa, che non ha potuto o voluto difenderlo lasciandolo totalmente solo. Si badi: non sono i poteri mondani la vera minaccia al cuore del «Santo popolo di Dio» (Francesco), Benedetto denuncia le scorrerie di vescovi e cardinali, che usando come sicari teologi-grandi-firme, gli hanno dato la caccia quando era pontefice, fino a prosciugarne le forze, e poi non gli hanno risparmiato assalti di tipo «assassino» neppure dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Domanda inespressa ma latente: perché Francesco li ha lasciati fare, non ha adottato sanzioni canoniche o perlomeno moniti pubblici? Benedetto non li ha mai pretesi, anzi ha ringraziato pubblicamente per la vicinanza e la solidarietà private riservategli dal successore, ed oggi di certo, se il Principale di lassù lo autorizzasse, non esiterebbe a chiedere in sogno al Vicario di Cristo di non esagerare.Ma perché Ratzinger ha dovuto, letteralmente dovuto, rinunciare a spargere la sua musica interiore sul palcoscenico del mondo che ne ha bisogno più del pane? Non è stato certo papa Bergoglio a vietarglielo. 

Ma viene da osservare: gli assalti al gregge e in specie al suo vecchio pastore inerme perché sono stati accettati come espressione della libertà sinodale delle Chiese locali, invece che essere puniti? Non esiste solo il diritto del peccatore al perdono, spiega un dolentissimo Benedetto, ma anche quello del fedele perché sia tutelato il bene della fede. «Gesù ... protegge il bene della fede con una perentoria minaccia di pena per coloro che le recano offesa». Invece questo oggi non accade. C’è una crisi strutturale della barca di Pietro. All’origine del dissesto morale, c’è una abiura a Dio vivo e presente. Lo scafo è stato certo reso immondo dalla pedofilia del clero: non è però solo questione di immoralità dei singoli, ma di un vento ideologico dissolutore della fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, visibile nella corruzione della liturgia, nel disfacimento dei seminari dove il possesso di un libro scritto da Benedetto - lo denuncia lui stesso - è motivo talvolta per negare l’ordinazione sacerdotale ai reprobi considerati eretici ratzingeriani.

DOLORE E IRONIA

Scrive nella lettera al curatore Guerriero, dettandogli perentoriamente l’ordine di non pubblicare nulla ante mortem Benedicti: «Da parte mia, in vita, non voglio più pubblicare nulla. La furia dei circoli a me contrari in Germania è talmente forte che l’apparizione di ogni mia parola subito provoca da parte loro un vociare assassino. Voglio risparmiare questo a me stesso e alla cristianità». Si avverte dolore e ironia. Prevale infine la «letizia» nella certezza: Dio non abbandona né lui né la Chiesa né Pietro. Chiama in soccorso san Giuseppe. Il più grande intellettuale di questi decenni affida, a questo falegname, di cui non si conosce neppure una frase detta o scritta, letteralmente tutto. Le frasi di addio del libro postumo sono pura primavera: «Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti della fede. Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è tramontata. Grazie, Santo Padre!». Viva Francesco. Ma viva anche Benedetto.

Estratto dell’articolo di Adriana Logroscino per il “Corriere della Sera” il 22 gennaio 2023.

«In vita, non voglio più pubblicare nulla. La furia dei circoli a me contrari in Germania è talmente forte che l’apparizione di ogni mia parola subito provoca da parte loro un vociare assassino. Voglio risparmiare questo a me stesso e alla cristianità».

 È in queste parole, che il Papa emerito Benedetto XVI il Primo maggio scorso affidava a Elio Guerriero — uno dei curatori del suo libro postumo — il senso della sua scelta. Il testo, dal titolo Che cos’è il cristianesimo , quasi un testamento spirituale, è uscito a tre settimane dalla sua morte, edito da Mondadori. E, per i diversi temi che tocca, ha fatto subito molto rumore.

 Affidato a due fedelissimi — Guerriero, teologo, e il segretario particolare e prefetto della segreteria pontificia Georg Gänswein — il volume tiene insieme testi editi e inediti dei nove anni trascorsi tra le dimissioni da pontefice e la morte di Joseph Ratzinger.

Pagine nelle quali Benedetto XVI, presentando il lavoro, accenna anche a sentimenti personali, come il suo essere «troppo esausto» al momento delle dimissioni, per fare programmi. «Quando annunciai le mie dimissioni dal ministero del successore di Pietro — scrive — non avevo piano alcuno per ciò che avrei fatto nella nuova situazione.

Ero troppo esausto per poter pianificare altri lavori. […]».

O quando parla dei suoi oppositori: «Vi furono singoli vescovi, e non solo negli Stati Uniti, che rifiutarono la tradizione cattolica nel suo complesso mirando nelle loro diocesi a sviluppare una specie di nuova, moderna cattolicità. In non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano celati come letteratura dannosa e venivano letti solo di nascosto».

 Cos’è il cristianesimo affronta anche il tema dell’omosessualità nei seminari. «[…]. In diversi seminari si formarono “club” omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima».

Quindi elenca dei casi: quello tedesco in cui i «candidati al sacerdozio e i candidati all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano insieme […] Un clima che non poteva aiutare la formazione sacerdotale». O il caso di quel vescovo «che aveva permesso di mostrare ai seminaristi dei film pornografici, con l’intento di renderli capaci di resistere contro un comportamento contrario alla fede».

 […] Il libro di Benedetto esce in un periodo in cui la Chiesa appare profondamente lacerata. Non casuale è sembrato l’invito di papa Francesco, reiterato durante l’udienza di ieri, a non cedere al «chiacchiericcio, alla calunnia» che possono «ferire o uccidere un fratello o una sorella».

Estratto dell’articolo di Francesco Capozza per “Libero quotidiano” il 22 gennaio 2023.

 «Questo volume […] deve essere pubblicato dopo la mia morte. La curatela l’ho affidata al dottor Elio Guerriero, che ha scritto una mia biografia in lingua italiana ed è da me conosciuto per la sua competenza teologica. Per questo gli affido volentieri questa mia ultima opera». Termina così la breve nota introduttiva al libro postumo di Benedetto XVI Che cos’è il Cristianesimo il cui sottotitolo è da brivido, Quasi un testamento spirituale, pubblicato da Mondadori e già destinato a fare scalpore, inserendosi come un macigno nel turbinio di pubblicazioni che nelle ultime due settimane hanno terremotato il Vaticano di Papa Francesco.

[…] E pensare che in prima battuta Ratzinger sembrerebbe limitare questo lavoro ad una raccolta di scritti teologici soprattutto inediti, la medesima introduzione infatti esordisce con quella che potrebbe sembrare una premessa rassicurante: «Quando annunciai le mie dimissioni, non avevo piano alcuno per ciò che avrei fatto nella nuova situazione […]».

 […] Gli scritti di Benedetto XVI contenuti in questa raccolta postuma entrano a spada tratta su temi scabrosi per la Chiesa troppo spesso (goffamente) celati. Il defunto Pontefice parla per esempio dell'omosessualità e del fatto che ci siano dei veri e propri “club” gay nei seminari. Riferendosi all’incontro che Papa Francesco aveva convocato con i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo sul tema degli abusi, Ratzinger evidenzia in un appunto che a lui «sta a cuore soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre quella dei seminari. Riguardo al problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della forma vigente di questa preparazione».

[…] Ratzinger non cela neppure il proprio rammarico perché «in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano celati come letteratura dannosa e venivano per così dire letti solo di nascosto», e questo la dice lunga sul clima tutt’altro che sereno con il suo successore e la nuova stagione bergogliana.

Per anni il mainstream ci ha voluto far credere che il Papa argentino consultasse «il nonno saggio» (definizione coniata da Francesco e per nulla apprezzata da Benedetto). Ci hanno anche voluto inculcare l’idea che Ratzinger fosse considerato sempre e comunque un faro che illumina la cattolicità con il suo magistero e le sue opere, ma ora le parole messe nero su bianco dallo stesso Benedetto XVI smontano definitivamente questo castello di menzogne costruito negli ultimi dieci anni e ci consegnano una bieca verità che, se vogliamo, è anche decisamente triste. Il fatto che Ratzinger dica, e soprattutto scriva, apertamente che le sue opere teologiche erano spesso sconsigliate e, anzi, in taluni casi censurate, fa pensare ad una novella Santa Inquisizione che nessuno poteva immaginare.

Ratzinger, il libro postumo: «Ogni mia parola scatena un vociare assassino». Redazione Cultura su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Da venerdì 20 gennaio in libreria Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale raccolta di scritti postumi di Benedetto curata da Elio Guerriero e monsignor Georg Gänswein

Lo aveva chiesto ai curatori lo stesso Papa emerito, Joseph Ratzinger: il volume sarebbe dovuto uscire soltanto «dopo la mia morte». Così è stato. Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, al quale hanno lavorato Elio Guerriero e monsignor Georg Gänswein, è stato mandato in libreria da Mondadori ieri 20 gennaio (il «Corriere» ne ha anticipato un brano martedì 17). E ora si comprende la cautela di Benedetto XVI nei confronti delle proprie pagine postume: «Da parte mia, in vita, non voglio più pubblicare nulla. La furia dei circoli a me contrari in Germania — aveva esplicitato Ratzinger in una lettera a Elio Guerriero — è talmente forte che l’apparizione di ogni mia parola subito provoca da parte loro un vociare assassino. Voglio risparmiare questo a me stesso e alla cristianità».

Lo si legge in Che cos’è il cristianesimo, e non è il solo passaggio duro che il predecessore di Francesco riserva ai propri lettori. Severo, ad esempio, il giudizio riservato a certi ambienti del cattolicesimo progressista, in particolare nordamericano. «Vi furono singoli vescovi, e non solo negli Stati Uniti, che rifiutarono la tradizione cattolica nel suo complesso mirando nelle loro diocesi a sviluppare una specie di nuova, moderna cattolicità. Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano celati come letteratura dannosa e venivano per così dire letti solo di nascosto», riporta il volume.

In un altro passaggio del libro, sottolineato dall’agenzia «Ansa», Benedetto XVI parla dell’omosessualità e del fatto che in diversi seminari esistano quelli che definisce dei «club» di gay. Parlando dell’incontro che Papa Francesco aveva convocato con i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo sul tema degli abusi sessuali commessi in ambito ecclesiale, Ratzinger aggiunge che «nell’ambito dell’incontro dei presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo con Papa Francesco, sta a cuore soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre quella dei seminari». Nello specifico, «riguardo al problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della forma vigente di questa preparazione». È qui che Benedetto XVI spiega che «in diversi seminari si formarono “club” omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari».

Il bavarese Ratzinger racconta poi che «in un seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano insieme. Durante i pasti comuni, i seminaristi stavano insieme ai referenti pastorali coniugati in parte accompagnati da moglie e figli e in qualche caso dalle loro fidanzate. Il clima nel seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale». Poi riferisce addirittura che «un vescovo, che in precedenza era stato rettore, aveva permesso di mostrare ai seminaristi dei film pornografici, presumibilmente con l’intento di renderli in tal modo capaci di resistere contro un comportamento contrario alla fede».

A proposito delle sue clamorose dimissioni nel febbraio di 10 anni fa Benedetto XVI spiega che in quel momento era ormai allo stremo delle forze. Si legge nel libro: «Quando l’11 febbraio 2013 annunciai le mie dimissioni dal ministero del successore di Pietro, non avevo piano alcuno per ciò che avrei fatto nella nuova situazione. Ero troppo esausto per poter pianificare altri lavori. Inoltre, la pubblicazione dell’Infanzia di Gesù sembrava una conclusione logica dei miei scritti teologici». ma l’attività di riflessione e di elaborazione teologica in realtà non si concluse. «Dopo l’elezione di Papa Francesco ho ripreso lentamente il mio lavoro teologico. Così, nel corso degli anni, hanno preso forma una serie di piccoli e medi contributi». Quelli, appunto, raccolti nel volume ora in libreria.

Ratzinger senza censure su cos'è il Cristianesimo. I testi inediti del Papa emerito contro l'ideologia gender, lo Stato-dittatore, il multiculturalismo. Camillo Langone il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ecco una bella domanda: che cos'è il Cristianesimo? Vista l'aria che tira c'era proprio bisogno di spiegarlo, e pazienza se a farlo è un Papa defunto, sebbene da poco, e pazienza se nel titolo del libro (Benedetto XVI, Che cos'è il Cristianesimo, a cura di Elio Guerriero e Georg Gänswein; Mondadori) il punto interrogativo non c'è. Ma è come se ci fosse, e l'autore una risposta prova a darla.

È una raccolta di riflessioni successive alla rinuncia del 2013, insomma sono pensieri emeriti, e nonostante la presenza di Padre Georg come co-curatore non bisogna temere pettegolezzi, semmai il contrario ovvero una profondità teologica e biblica non troppo facilmente avvicinabile. Io per esempio di fronte a certe pagine fitte di personaggi veterotestamentari, per giunta minori quali Gezabele, Acab, Ieu, Mattatia, Nabot, Amos, Amasia, ho barcollato... È il libro di un teologo, non di un catechista, è un libro asistematico, raccolta di «piccoli e medi contributi» (lezioni, lettere, articoli, prefazioni, precisazioni...) sia editi che inediti, ed è un libro postumo che tale doveva essere anche nelle intenzioni del Papa emerito. Lo dice nella premessa l'altro curatore, il teologo Elio Guerriero, e lo afferma Joseph Ratzinger in persona nella prefazione, solennemente: «Questo volume, che raccoglie gli scritti da me composti nel monastero Mater Ecclesiae, deve essere pubblicato dopo la mia morte».

Perché tanta attenzione, se non circospezione? Il libro, lo dico subito, di attacchi a Bergoglio non ne contiene, anzi, le svariate citazioni sono tutte in positivo e al termine del quinto capitolo si trovano parole inequivocabili: «Vorrei ringraziare papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non e tramontata. Grazie, Santo Padre!». E però, un però se lo si cerca lo si trova sempre, queste frasi entusiaste sono state vergate (in tedesco, stiamo leggendo una traduzione) qualche mese prima della Traditionis Custodes, la Lettera apostolica con la quale il Papa regnante ha smantellato, coi modi bruschi che gli conosciamo, il motu proprio ratzingeriano che liberalizzava la Santa Messa in latino. Ma forse sono fisime, dettagli irrilevanti, visto che il libro è stato rivisto fino alla fine. E allora, tornando alla domanda, perché tanta cautela? La risposta la fornisce il diretto interessato: «La furia dei circoli a me contrari in Germania è talmente forte che l'apparizione di ogni mia parola subito provoca da parte loro un vociare assassino. Voglio risparmiare questo a me stesso e alla cristianita». In parole povere: Papa Benedetto si è autocensurato. Perché impaurito dai sedicenti cattolici tedeschi, in realtà cattoprotestanti, dai vocianti e numerosi prelati più devoti a Sodoma che a Cristo, capaci di minacciare lo scisma (si vedano certe bellicose dichiarazioni del cardinale Marx) qualora Roma, ossia la Chiesa universale, si ostini a non benedire unioni omosessuali, matrimonio dei preti, sacerdozio femminile. Cose che per Ratzinger erano inconcepibili e che in verità lo sono, sebbene con toni diversi, anche per Bergoglio. Veniamo così a sapere che l'ostilità dei compatrioti era insostenibile ed è facile ipotizzare che abbia influito anche sulla rinuncia al pontificato.

In effetti agli scissionisti tedeschi Che cos'è il cristianesimo non può assolutamente piacere. Ci sono interi capitoli che potrebbero suonare perfino anticonciliari e sono «Musica e liturgia» e «Teologia della liturgia». Come sempre ha fatto, sia da cardinale sia da Papa, Ratzinger attribuisce le degenerazioni liturgiche non al Concilio Vaticano II bensì al post-concilio (la famigerata «ricezione del Concilio»). Purtroppo il distinguo non è molto convincente siccome è impossibile immaginarsi un post concilio senza il Concilio, e senza la Sacrosantum Concilium, la costituzione per l'appunto conciliare promulgata da Paolo VI, i parroci non avrebbero fatto entrare in chiesa chitarre e tamburelli, come disgraziatamente avvenne verso la fine degli anni Sessanta. Sull'argomento Benedetto XVI se ne esce con affermazioni di strepitoso eurocentrismo: «In nessun altro ambito culturs e c'è una musica di grandezza pari a quella nata nell'ambito della fede cristiana: da Palestrina a Bach, a Handel, sino a Mozart, Beethoven e Bruckner. La musica occidentale è qualcosa di unico, che non ha eguali nelle altre culture». Altro che multiculturalismo! La cultura musicale europea è superiore! Per gli occidentali che odiano sé stessi ogni riga di pagina 42 sarà un litro di benzina sul fuoco dell'indignazione... Piuttosto incendiario è anche il capitolo «Monoteismo e tolleranza» in cui il Papa emerito prendendo le mosse dal Primo libro dei Maccabei fa un ragionamento, ebbene sì, antistatalista: «Il moderno Stato del mondo occidentale si considera come un grande potere di tolleranza che rompe con le tradizioni stolte e prerazionali di tutte le religioni. Con la sua radicale manipolazione dell'uomo e lo stravolgimento dei sessi attraverso l'ideologia gender, si contrappone in modo particolare al cristianesimo. Questa pretesa dittatoriale esige l'abbandono dell'antropologia cristiana e dello stile di vita che ne consegue». Avete letto bene: lo Stato dittatore! E non è finita qui: «L'intolleranza di questa apparente modernita nei confronti della fede cristiana ancora non si è trasformata in aperta persecuzione e tuttavia si presenta in modo sempre più autoritario, mirando a raggiungere, con una legislazione corrispondente, l'estinzione di cio che e essenzialmente cristiano». Sono parole forti, non adatte a un Papa Bergoglio sempre pronto a sorridere ai potenti del mondo, specie se di sinistra. E sono parole inequivocabili: Cesare è di nuovo contro Cristo, come nei primi secoli del cristianesimo.

A proposito di Cristo e per concludere: che cos'è allora il Cristianesimo? Per Joseph Ratzinger è Gesù, nient'altro che Gesù, «l'unico Dio che entra nella storia delle religioni e depone gli dei». Quegli dei che oggi stanno tornando, insieme all'ambientalismo (un panteismo appena mimetizzato), e che di nuovo reclamano, come millenni fa, sacrifici per placare la crudele Madre Terra.

LA PASSIONE DI BENEDETTO. Andrea Canali su L’Identità il 29 Dicembre 2022

Il Papa emerito Joseph Ratzinger fu eletto il 19 aprile 2005, ed affacciatosi dalla loggia delle Benedizioni disse: “I signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”. Esordì così quell’uomo tedesco nato il 16 aprile 1927 a Marktl am Inn, in Germania. Da quanto è noto proviene da una importante famiglia di agricoltori della Bassa Baviera, la quale però non era particolarmente ricca. Infatti, il padre professionalmente era un commissario di gendarmeria, il quale si preoccupò della sua istruzione fin da piccolo, e a volte anche direttamente. Basti pensare, che il futuro Benedetto XVI ha avuto un infanzia segnata indiscutibilmente dalle vicende storiche, in quanto visse e subì direttamente gli orrori della seconda guerra mondiale. Infatti, quando l’esercito tedesco si trovò in difficoltà, venne richiamato nei servizi antiaerei, anche se solo come ausiliare. Si narra che molto probabilmente proprio le vicende cruente e disumane della guerra iniziano a far maturare in lui, il giovane Joseph, una profonda vocazione sacerdotale, proprio in risposta alle atrocità della guerra. In seguito a tale cruenta esperienza si iscrive all’università di Monaco per intraprendere gli studi di Filosofia senza dimenticare mai la teologia, che approfondisce in parallelo ed anche successivamente. Infatti, continua i suoi studi con profitto presso la scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga, dove fortifica la sua spiritualità concretizzatasi e dimostrata nella tesi di teologia “Popolo e casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant’Agostino”. La sue doti di notevole conoscenza e preparazione lo portano ad approfondire anche gli studi canonici, e quindi, il 29 giugno 1951, verrà ordinato sacerdote. Il suo servizio pastorale intenso fin da subito, non è limitato al solo officiare la santa messa o alla sola predicazione, come è normale che sia, ma mette a disposizione della Chiesa di Cristo la sua notevole sapienza, dedicandosi con dedizione all’insegnamento che durerà molti anni, prima a Bonn e poi a Tubinga. Aspetto non trascurabile è che divenne professore attraverso la dissertazione del suo testo “La teologia della storia di San Bonaventura”. In termini di percorso proveremo ora sinteticamente, ma con intensità, a ripercorre le sue principale tappe. Fin a partire dal 1962, Ratzinger era divenuto molto conosciuto ed apprezzato a livello internazionale, intervenendo come consulente teologico al Concilio Vaticano II. Nel 1969 diventa professore ordinario di Dogmatica e storia dei dogmi all’Università di Ratisbona, dove è anche vice presidente. Siamo quindi ora nei primi anni ’70, dove la chiesa percepisce quasi un clima ostile o comunque non favorevole da parte dei vari movimenti civili e sociali di quell’epoca, che si stavano sviluppando e contrapponendo.

Infatti ricordiamo che in quegli anni vengono sciolti i corpi pontifici, vengono promulgate leggi importanti come lo Statuto dei Lavoratori o la legge sul divorzio. Ebbene, in quel clima quasi di anticlericalismo militante, il tenace futuro Papa non temette certo tali situazioni, orientate quasi alla ribellione sociale, e neanche l’avanzare degli intellettuali del momento, ma anzi fortificò il suo pensiero, anche spirituale, in sintonia con le istituzioni ecclesiastiche. Successivamente, Papa Paolo VI, il 24 marzo 1977, lo nomina arcivescovo di Munchen e di Freising ed il 28 maggio successivo riceve la consacrazione episcopale, primo sacerdote diocesano ad assumere, a distanza di ottant’anni, il comando e la gestione della grande Diocesi Bavarese. Da cardinale, come non sottolineare che è stato uno degli esponenti più significativi della Curia romana. Nominato nel 1981 Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, presidente della Pontificia commissione biblica e della Pontificia commissione teologica internazionale dal papa “Magno” San Giovanni Paolo II, di cui celebrerà, alla sua morte, i commoventi funerali, con un ventoso Spirito Santo come accompagnatore.

Dal 1998 è stato anche vice decano del Collegio cardinalizio. Non bisogna dimenticare inoltre che il 5 aprile 1993 entra a far parte dell’Ordine dei cardinali vescovi. Il Sommo Pontefice tedesco è stato tra le altre cose anche presidente della Commissione per la preparazione del catechismo della Chiesa Cattolica nel periodo 1986-1992, dando in modo significativo la sua impronta. Sicuramente stimato e amato dai componenti del cattolicesimo più intransigente e tradizionalista, quando era cardinale e teologo, è stato spesso criticato invece dal mondo laico per certe sue posizioni, ritenute esageratamente dogmatiche ed ortodosse. Uno degli atti posti in essere da questo Papa furono sicuramente le proprie dimissioni, annunciate l’11 febbraio 2013, le quali ebbero effetto alle ore 20 del 28 febbraio seguente. In termini storici Ratzinger si può considerare il primo pontefice a rinunciare al soglio pontificio dopo Gregorio XII, rinuncia avvenuta 598 anni prima, ossia nel 1415. In termini assoluti, nella storia della Chiesa, Benedetto XVI è l’ottavo papa a compiere tale rinuncia dopo Clemente I (incerto), Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V – ricordato dal sommo poeta Dante “colui che per gran viltate fece il gran rifiuto” -, e Gregorio XII.

Celestino, il papa della rinuncia "legato" a Ratzinger. Pietro da Morrone fu papa per pochi mesi prima di rinunciare al soglio di Pietro. Un eremita diventato pontefice e poi proclamato santo che Benedetto XVI, secoli dopo, ha omaggiato ponendo il proprio pallio sulla teca contenente le sue spoglie. Lorenzo Vita il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

"Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto". Secondo la maggior parte dei commentatori, quando Dante Alighieri scrisse la sua Commedia non ebbe alcun dubbio: Celestino V, al secolo Pietro da Morrone, andava spedito all'Inferno, nel girone degli ignavi. Una condanna frutto di una decisione: quella di avere rinunciato alla carica di papa aprendo le porte al suo successore, Bonifacio VIII.

Nel tempo, i fatti, la critica e gli studi hanno ridimensionato questa visione negativa di Celestino, al punto che qualcuno mette anche in dubbio che il Sommo Poeta parlasse del monaco. In parte perché Pietro da Morrone fu canonizzato quando Dante era ancora in vita, in parte perché pochi anni dopo Francesco Petrarca descrisse Celestino come una figura nient'affatto vigliacca, che scelse anzi la rinuncia per dedicarsi alla contemplazione dimostrando forza di volontà.

Certo, tutti gli indizi fanno credere che Dante in quei versi si stesse rivolgendo proprio al pontefice. Eppure, il fatto che già all'epoca si guardasse con empatia alla scelta di Celestino fa riflettere sulla forza dirompente di quella scelta e su come poi la storia, secoli dopo, avrebbe riportato alla luce il tema della rinuncia, trasformandola non più un gesto "medievale" dimenticato nei secoli ma un clamoroso precedente, reso tale da Benedetto XVI.

Pietro, da eremita a papa

Ma chi era Celestino? Le cronache parlano di Pietro Angelerio - questo il suo nome - come di un uomo votato all'ascetismo che viveva tra Abruzzo e Molise, passando da monasteri a grotte nel segno della preghiera. Passò solo un breve periodo a Roma, il tempo di prendere gli ordini sacerdotali. Poi tornò tra le sue montagne, dove la durezza della natura unita alla contemplazione facevano sentire al futuro papa la presenza del divino. Il suo distacco dal mondo non significò comunque un disinteresse verso le sorti della Chiesa. Mentre il frate cercava di isolarsi fino a raggiungere luoghi inaccessibili, allo stesso tempo volle fondare un ordine di eremiti e intraprese viaggi in cui incontrò grandi personalità e monarchi, scrivendo anche ai cardinali che dovevano scegliere il nuovo papa. La sua fama di asceta, di eremita già santo, si era espansa fino a raggiungere diverse corti d'Europa, al punto che i cardinali e il re Carlo d'Angiò, dopo anni di trattative, vollero lui come successore di Niccolò IV.

Fu così che nell'estate del 1294, alcuni messi partiti da Perugia si inerpicarono sul monte Morrone per dare al monaco la notizia della sua elezione. Possiamo solo immaginare cosa fu per frate Pietro - solitario, anziano, vestito alla buona e circondato al massimo da qualche pellegrino - vedere arrivare da un sentiero isolato degli emissari dei cardinali che gli annunciavano la sua nomina a capo della cristianità. Uno choc descritto anche da chi si presentò al suo cospetto, al punto che si dice che lo stesso frate, attonito, guardò il Crocifisso e rimase senza parole e commosso, prima di accettare l'incarico.

Il breve pontificato di Celestino

La sua elezione, giunta dopo un periodo lunghissimo di sede vacante, fu una scelta particolare anche se non del tutto rivoluzionaria: si trattava di un monaco e non di un cardinale, di un eremita con fama di predicatore e dalla grande forza spirituale. Fu una sorta di uscita d'emergenza rispetto a uno stallo pericolosissimo per la Chiesa e per il mondo politico, ma che aveva anche degli strani connotati di misticismo.

Tuttavia, sin dalle prime mosse, Celestino apparve fin troppo inadeguato al suo ruolo: un asceta spedito sul trono di Pietro non abituato alla politica e senza esperienza per reggere alle pressioni di una guerra tra Chiesa e sovrani e ai conflitti all'interno della stessa Curia. Il suo pontificato non fu solo contraddistinto dalla brevità ma anche dalla sottomissione al potere angioino e alla pressione del futuro successore, dei porporati e del suo stesso ordine. Celestino si impegnò a favore della riconciliazione, al punto da promuovere subito la ben nota Perdonanza, ma si rivelò presto incapace di imporre la propria autorità ma soprattutto di resistere alla volontà del re di Napoli, tanto che spostò la Curia vicino alla corte del sovrano, a Napoli, e divenne suo malgrado lo strumento del re per nominare cardinali francesi o filo-francesi oppure del suo stesso ordine.

La rinuncia e la prigionia

Dopo pochi mesi, insofferente, pressato e forse anche deluso, il papa-monaco, non senza spinta del futuro Bonifacio VIII, prese la decisione di rinunciare al ministero petrino. Carlo d'Angiò fece di tutto per fargli cambiare idea, sperando che il senso del dovere dell'asceta prendesse il sopravvento sulla sua personalità e augurandosi di avere ancora un papa vicino alla sua linea. Ma il pontefice aveva fatto la sua scelta. Il 13 dicembre 1294, riuniti i cardinali in concistoro, prese la pergamena e lesse il suo atto: "Spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della Plebe, al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato".

Celestino si sentiva di nuovo libero, esortò i cardinali a trovarsi un altro papa e, abbandonati i paramenti sacri, gli ori e le porpore del concistoro, fu di nuovo frate Pietro dal Morrone, agognando quei monti dove poteva sentirsi di nuovo vicino a Dio. L'ormai ex papa provò a sparire per sempre. Si nascose tra le montagne abruzzesi e l'Adriatico, provò a imbarcarsi per l'Oriente, sperando di finire i suoi giorni nell'anonimato di un monastero al di là del mare. Ma invece di raggiungere la beata solitudine di un eremo, ad attenderlo c'era la solitudine meno beata del castello di Fumone, dove gli uomini di Bonifacio lo controllavano giorno e notte.

Il papa, eletto poche settimane dopo la rinuncia, non poteva lasciarlo andare. Troppi i pericoli di uno scisma, troppi i rischi di un pontefice rinunciatario con la fama di santo e troppi i cardinali non fedeli al nuovo vescovo di Roma e legati al re di Napoli. Gli uomini di Bonifacio lo cercarono e lo portarono in una torre, dove trovò la morte alcuni mesi dopo in una cella, sì, ma non di quel desiderato convento.

Papa Caetani iniziò subito il processo di canonizzazione. Invece di compiere quella "damnatio memoriae" che molti potevano attendersi, in realtà il papa non rinnegò mai l'importanza e la stima verso il predecessore, ma anzi si mostrò attento a non intaccarne il ricordo, tanto appunto da avviare l'iter per farlo santo. Processo che si concluse il 5 maggio del 1313, quando Celestino fu proclamato santo da Clemente V, succeduto a Bonifacio e ormai trasferito in Francia. E forse anche in questo veloce processo si vide lo "zampino" d'Oltralpe.

Il pallio di Benedetto XVI

Molti secoli dopo, nel 2009, Benedetto XVI si recò in visita nell'Abruzzo devastato dal terremoto e pose il proprio pallio sulla teca contente le spoglie di Celestino. Il gesto, dopo la rinuncia pronunciata nel febbraio del 2013, assunse immediatamente un significato quasi di messaggio "in codice": in caso di impossibilità a guidare la "barca di Pietro", Joseph Ratzinger avrebbe scelto la via della rinuncia. Come Celestino, nato Pietro Angelerio, che 700 anni prima di quel 2013 veniva proclamato santo.

Tra i due uomini e le due rinunce vi sono differenze. Celestino sembrò volersi liberare apertamente di un ruolo che da vecchio eremita sapeva di non avere dovuto accettare. Ratzinger, invece, non manifestò la rinuncia come modo per riappropriarsi della propria vita, ma dichiarò di farsi da parte per rinvigorire la Chiesa. "Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo" spiegava nella sua "declaratio", perché, come aveva scritto poco prima "le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino". Uomini differenti, pontefici del proprio tempo, uniti però da una scelta che, nella loro personale visione, si è trasformata nella espressione della propria vocazione: la capacità di decidere, a un certo punto, che il "munus" non era più nelle proprie corde. E che il dovere doveva esprimersi nella contemplazione, per sé stessi e per la Chiesa.

(ANSA il 29 Dicembre 2022) - "Il pontefice emerito Benedetto XVI, a quanto si dice, non vuole essere portato in ospedale, nonostante sia gravemente malato". È quello che scrive la Bild. La sua residenza nell'ex monastero Mater Ecclesiae ha a disposizione l'attrezzatura medica necessaria. Lì viene sorvegliato in modo permanente dai medici.

"E' sereno, estremamente sereno". Così viene descritto, da fonti vicine al Mater ecclesiae, il Papa Emerito Benedetto XVI. Ratzinger si trova nella stanza da letto al primo piano dell'ex monastero, indossa un camice, e al momento della messa concelebra con una stola che gli viene appoggiata sulle spalle. Ad assisterlo ci sono sempre le quattro memores domini, monsignor Georg Ganswein, e l'infermiere vaticano, fra Eligio. Assistenza viene fornita anche dal medico personale, Patrizio Polisca. (ANSA) 

Da leggo.it il 29 Dicembre 2022.

Papa Benedetto XVI in isolamento nel Monastero Mater Ecclesiae. Attorno al Papa Emerito, le cui condizioni di salute sono precipitate come annunciato da Papa Francesco, solo quattro 'memores domini', le consacrate laiche della fraternità di Comunione e Liberazione, e il fidato Georg Gaenswein. 

In questi ultimi giorni di peggioramento delle condizioni di salute, al monastero si è visto giorno e notte uno dei frati del servizio sanitario vaticano che in realtà assiste Benedetto XVI da molti anni. Discreto, silenzioso, sempre con la sua valigetta da pronto soccorso in mano, il frate è una delle personalità più a stretto contatto con l'entourage di Ratzinger in queste ore. Ora con lui in queste ore c'è anche il fidato Gaenswein, rientrato in fretta da un breve periodo di congedo che aveva preso per salutare la famiglia per le festività natalizie.

Le ultime foto di Ratzinger

L'ultima visita Benedetto XVI l'aveva ricevuta il primo dicembre scorso da parte dei due vincitori del Premio Ratzinger, il riconoscimento che ogni anno la fondazione a lui intitolata conferisce a studiosi di teologia. Di quel giorno restano alcune foto sulla pagina Facebook della Fondazione, istantanee che lo immortalano debole, smagrito, affaticato, più che seduto quasi abbandonato alla poltrona del monastero Mater ecclesiae. Accanto a lui da un lato il fido segretario Georg Gaenswein, dall'altro il presidente della Fondazione, l'ex direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, e poi i vincitori il biblista francese p. Michel Fédou, e il giurista ebreo prof. Joseph Weiler. Sul tavolo le candele rosse dell'Avvento.

A Natale la messa in casa

Le condizioni di salute di Joseph Ratzinger, primo Papa dimissionario dell'era moderna, si sarebbero aggravate già a Natale quando aveva accusato i primi problemi respiratori. Per lui, alla Vigilia, una semplice messa officiata in casa, ad assisterlo le memores domini, mons. Gaenswein e i medici del servizio sanitario vaticano, tra cui un frate a lui particolarmente vicino.

La situazione sembrava alquanto grave ma stabile tanto che Gaenswein si era momentaneamente allontanato per un viaggio di quattro giorni allo scopo di salutare i familiari per le festività natalizie. Ma martedì, un ulteriore peggioramento, il rientro frettoloso di Gaenswein ed ieri la visita dello stesso Francesco che certamente lo avrà incontrato ormai allettato: tutto fa pensare a un quadro sanitario peggiorato anche se sull'effettivo stato di salute del Pontefice Emerito non trapela nulla, il Vaticano si limita solo a comunicare un «aggravamento» delle condizioni di salute dovuto all'età. Si raccolgono tra i vescovi di Curia, i funzionari, le persone del suo entourage comunque commenti nel segno dell'apprensione ma anche dell'attesa.

Benedetto XVI afono

Di recente, è stato lo scrittore e matematico Giorgio Odifreddi a rivelare che Ratzinger è da diverso tempo ormai afono, non potendo più articolare suoni per una grave compromissione delle corde vocali. Non si sa se abbia mai contratto il Covid ma certamente è stato vaccinato. Ora, a 95 anni, per il 264/esimo successore di Pietro, si comprendono senz'altro meglio quelle parole pronunciate anni fa da Gaenswein che destarono un primo grande allarme mondiale: «È come una candela, che si consuma lentamente».

Le ipotesi per i funerali

Con l'aggravarsi delle condizioni di salute del Papa emerito, si aprono scenari inediti in caso di esequie per Benedetto XVI. Potrebbe essere lo stesso Bergoglio a presiedere i funerali solenni del suo predecessore. Il liturgista don Claudio Magnoli, consultore della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, interpellato dall'Adnkronos nelle ore in cui la Chiesa è riunita in preghiera per il Papa emerito, spiega: «Dal punto di vista liturgico, credo che quando avverranno le esequie verrà utilizzato sostanzialmente il rituale che si prevede per le esequie dei Papi dal momento che con Ratzinger parliamo di un Pontefice. 

La differenza sostanziale» rispetto a quando muore un Papa «è che probabilmente potrebbe presiederle il Papa regnante, dunque Bergoglio, mentre invece quando c'è la morte di un Papa è il decano dei cardinali a presiedere». Il liturgista, tuttavia, non esclude nemmeno che possa rimanere il decano a presiedere solenni esequie se Papa Francesco non se la sentisse a causa dei noti problemi al ginocchio. Altro aspetto inedito rispetto ai rituali di eventuali esequie è legato alla vestizione del Papa emerito. 

«Siccome Joseph Ratzinger anche in questi quasi dieci anni da papa emerito non ha rinunciato alla veste bianca - osserva il liturgista - potrebbe decidere di tenere i paramenti pontifici. Si può ipotizzare anche che Ratzinger abbia dettato anche queste volontà in un testamento. O che deciderà forse il cerimoniale del Vaticano». Il Papa emerito ha invece già indicato nel 2020 il luogo dove vuole essere sepolto. Lui ha scelto la tomba che fu di Giovanni Paolo II, nella cripta di San Pietro. Tomba che è libera perché l'urna e i resti di Wojtyla sono stati trasferiti in una cappella vicino alla Pietà di Michelangelo dopo la sua canonizzazione.

Massimo Franco per il “Corriere della Sera” il 29 Dicembre 2022.

Sembra una notizia che filtra da un altro mondo, sideralmente remoto da quello reale. E in qualche modo lo è. Forse perché quel Monastero nascosto nei giardini vaticani, dove Benedetto XVI si è ritirato da quasi dieci anni, è ad appena tre minuti di auto da Porta Sant' Anna, quella da cui si entra in Vaticano per andare alla farmacia, allo Ior, all'Archivio segreto; ma arrivarci significa compiere un viaggio mentale che fa perdere la nozione dello spazio e del tempo, tra viali deserti, altari, fontane, cactus enormi e improbabili, che spuntano tra le garitte di gendarmi vaticani in allerta davanti a qualunque viso sconosciuto. 

Le condizioni del papa emerito Benedetto si sono aggravate, Francesco ha chiesto di pregare per lui, e lo è anche andato a trovare: sono queste le notizie convulse di ieri.

Ma Joseph Ratzinger è ancora, disperatamente, vivo.

Anche se con i suoi quasi 96 anni potrebbe spegnersi da un momento all'altro. Anche se pensava di morire sei mesi dopo la rinuncia del febbraio del 2013, e il fatto di essere sopravvissuto così a lungo ha alimentato il mistero sulle vere ragioni delle sue «dimissioni» epocali. Nonostante la lealtà e il rispetto reciproco tra predecessore e successore, la sua longevità ha nutrito per quasi un decennio la leggenda destabilizzante dei «due Papi»: benché Benedetto abbia fatto di tutto per ridimensionarla e smentirla. D'altronde, Ratzinger è stato «emerito» più a lungo che «regnante»: eletto nel 2005, ha lasciato nel 2013. Otto anni contro quasi dieci. Ad ogni occasione ha cercato di ribadire che «il Papa è uno solo». 

Ma i tradizionalisti che pure lo hanno sempre considerato una propria icona non si sono rassegnati.

Si è dato corpo al fantasma, se non alla realtà di «due Chiese». Benedetto è stato strumentalizzato di volta in volta da anti bergogliani e bergogliani, per motivi opposti. E non è stato mai chiaro fino in fondo quanto il pontificato emerito abbia influenzato e condizionato quello del papa argentino; e quanto il Monastero Mater Ecclesiae, la «Madre della Chiesa», abbia segnato alcune mosse di Bergoglio e della sua corte di Casa Santa Marta, l'hotel dentro le mura vaticane dove vive dal giorno dell'elezione. Una tesi sostiene che finché le riforme di Francesco sono andate avanti spedite, la sintonia con Benedetto è stata totale. Ma quando si è capito che arrancavano, che apparivano troppo visionarie, è cresciuta la tentazione di vedere nella filiera dei nostalgici di Ratzinger i frenatori, e nel Monastero una sorta di contropotere allo stato latente.

Negli ultimi anni si è assistito a uno scontro neanche troppo larvato tra le frange più estreme dei «tifosi» dell'uno e dell'altro. Contro, va sottolineato, la volontà di Francesco e Benedetto. È un conflitto che negli ultimi mesi si è in qualche maniera quietato, o almeno diplomatizzato. Forse perché la voce del papa emerito si è affievolita fino a spegnersi: da alcuni mesi non riesce più a articolare le parole. O magari perché il rischio di una rottura troppo vistosa nella Chiesa cattolica ha suggerito una tregua di fatto tra fazioni. Ma difficilmente la dicotomia verrà archiviata o si spegnerà quando Benedetto morirà. 

Anzi, per paradosso potrebbe ravvivarsi, sommandosi alle voci di dimissioni dello stesso Francesco, che emergono a intermittenza per bocca dello stesso papa argentino.

Da mesi, ormai, la domanda che si insinua nelle file vaticane non è se ma quando e come Francesco potrebbe rinunciare, una volta scomparso il papa emerito: perché due papi dimissionari sarebbero troppo, e una delle ragioni che finora hanno impedito una nuova scelta traumatica risiede proprio nel fatto che c'è ancora «l'uomo del Monastero». In questi anni è stata una figura ingombrante non solo per le sue rare prese di posizione ma per i suoi silenzi. 

In fondo, il solo fatto di esistere rappresentava una sorta di assenza-presenza che il mondo ecclesiastico ha sentito molto più dell'opinione pubblica. «Il Monastero» è diventato un modo per definire uno stile di papato complementare o perfino, nell'uso strumentale che ne hanno fatto gli avversari, alternativo a quello bergogliano: con Benedetto dedito a una vita monastica, assistito e protetto dalla sua «famiglia pontificia» composta dall'arcivescovo e prefetto Georg Gaenswein e dalle quattro «memores», le donne consacrate di Comunione e liberazione che hanno vissuto con loro in quell'edificio.

Non è chiaro se l'allarme che ieri mattina si è propagato dal suo eremo giù nei palazzi vaticani, e poi in tutta Italia, rimbalzando nel mondo, sia solo l'eco ricorrente di altri annunci funesti, smentiti dall'attaccamento alla vita di Joseph Ratzinger. Oppure se sia il presagio che l'esistenza di questo pontefice e fine teologo è davvero agli sgoccioli; che il suo «pellegrinaggio verso Casa», come scrisse in una lettera al Corriere nel febbraio del 2018, sta veramente arrivando al punto di non ritorno. Le voci che arrivano dal Vaticano sono contrastanti, ma le parole pronunciate ieri in udienza da Jorge Mario Bergoglio hanno conferito drammaticità alle voci sullo stato di salute di Benedetto. D'altronde, il silenzio intorno e dentro il Monastero è diventato pesante da mesi, ormai. 

Si sapeva da tempo che Benedetto non riusciva più a parlare, a dispetto di una stupefacente lucidità. Le visite si erano diradate, come i suoi articoli di teologia. Si è creata una barriera invisibile di riserbo e di laconicità, aggiuntasi a quella che già circondava la costruzione di mattoni chiari protetta da un cancello di ferro elettrico schermato, e affiancata da un piccolo orto. Foto col contagocce, seduto in poltrona nel salotto al primo piano: l'ultima il 1° dicembre scorso. Frammenti di notizie arrivate da visitatori obbligati alla riservatezza.

E una coltre di mistero così fitta che non si capiva dove finisse la volontà di isolare il papa emerito nel suo mondo rarefatto, e cominciasse la sua volontà di autoisolarsi. Di certo, senza di lui il Monastero diventerà altro. Eppure, si è impresso nella memoria collettiva come il luogo-simbolo di una delle stagioni più sconcertanti e insieme intriganti di una Chiesa in bilico: messa alla prova non dai suoi nemici ma dai suoi papi.

Papa Ratzinger è in gravi condizioni, l'agonia di Papa Benedetto XVI. Matteo Vincenzoni su Il Tempo il 29 dicembre 2022

Momenti di apprensione per Joseph Ratzinger, 265° Papa della Chiesa cattolica. A far preoccupare sulle sue condizioni di salute sono state le parole pronunciate ieri mattina da Bergoglio, il quale, al termine dell’udienza generale in aula Paolo VI, ha chiesto ai fedeli «una preghiera speciale» per Benedetto XVI che «è molto ammalato», chiedendo «al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine».

Ratzinger, che ha 95 anni, da quasi dieci si trova nel suo appartamento tra le mura del monastero Mater Ecclesiae, all’interno della Città del Vaticano, dove si è ritirato dal 2013 per dedicarsi alla preghiera e ai suoi scritti teologici. Ed è qui che Papa Francesco lo ha raggiunto, subito dopo l’udienza, per sincerarsi delle sue condizioni. In merito all’attuale stato di salute del Papa emerito, su cui si è sempre mantenuto un rispettoso riserbo, il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ha confermato come «nelle ultime ore si è verificato un aggravamento dovuto all’età avanzata». La situazione al momento «resta sotto controllo, seguita costantemente dai medici», ma le parole di Papa Bergoglio hanno comunque fatto temere il peggio, gettando la comunità cristiana in un profondo stato di apprensione.

Messaggi di vicinanza a Papa Ratzinger e inviti al raccoglimento e alla preghiera sono giunti da ogni capo del mondo. «In questi tempi difficili e gravi, uniamoci in fervida preghiera per il nostro caro Papa emerito», ha detto il cardinale Robert Sarah, prefetto emerito della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. «Uniamoci a Papa Francesco nella preghiera per Benedetto, e chiediamo al Signore di sostenerlo e consolarlo in questo momento», ha detto invece il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e Presidente della Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles. Si è unito all’appello alla preghiera di Papa Francesco anche il vescovo di Limburgo, Georg Batzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca. «I miei pensieri vanno al Papa emerito. Invito i credenti in Germania a pregare per Benedetto XVI». 

Salito al soglio pontificio il 19 aprile 2005 con il nome di Benedetto XVI, Joseph Ratzinger è rimasto in carica fino al compimento del suo 86esimo compleanno, quando decise di rinunciare e ritirarsi: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio - dichiarò l’11 febbraio 2013 - sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Benedetto XVI lasciò ufficialmente il 28 febbraio, tra le lacrime di molti fedeli che quel pomeriggio si riunirono in preghiera in piazza San Pietro.

Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha voluto esprimere la sua vicinanza ricordando proprio alcune toccanti parole di Papa Benedetto XVI: «Per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio. Quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele».

Benedetto XVI isolato nel monastero con padre Georg e quattro «memores». Da mesi non parla più. Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.

I misteri e i veleni sul dualismo con Bergoglio: nonostante la lealtà e il rispetto reciproco tra predecessore e successore, la sua longevità ha nutrito per quasi un decennio la leggenda destabilizzante dei «due Papi»

Sembra una notizia che filtra da un altro mondo, sideralmente remoto da quello reale. E in qualche modo lo è. Forse perché quel Monastero nascosto nei giardini vaticani, dove Benedetto XVI si è ritirato da quasi dieci anni, è ad appena tre minuti di auto da Porta Sant’Anna, quella da cui si entra in Vaticano per andare alla farmacia, allo Ior, all’Archivio segreto; ma arrivarci significa compiere un viaggio mentale che fa perdere la nozione dello spazio e del tempo, tra viali deserti, altari, fontane, cactus enormi e improbabili, che spuntano tra le garitte di gendarmi vaticani in allerta davanti a qualunque viso sconosciuto. Le condizioni del papa emerito Benedetto si sono aggravate, Francesco ha chiesto di pregare per lui, e lo è anche andato a trovare: sono queste le notizie convulse di ieri.

Ma Joseph Ratzinger è ancora, disperatamente, vivo. Anche se con i suoi quasi 96 anni potrebbe spegnersi da un momento all’altro. Anche se pensava di morire sei mesi dopo la rinuncia del febbraio del 2013, e il fatto di essere sopravvissuto così a lungo ha alimentato il mistero sulle vere ragioni delle sue «dimissioni» epocali. Nonostante la lealtà e il rispetto reciproco tra predecessore e successore, la sua longevità ha nutrito per quasi un decennio la leggenda destabilizzante dei «due Papi»: benché Benedetto abbia fatto di tutto per ridimensionarla e smentirla. D’altronde, Ratzinger è stato «emerito» più a lungo che «regnante»: eletto nel 2005, ha lasciato nel 2013. Otto anni contro quasi dieci. Ad ogni occasione ha cercato di ribadire che «il Papa è uno solo». Ma i tradizionalisti che pure lo hanno sempre considerato una propria icona non si sono rassegnati.

Si è dato corpo al fantasma, se non alla realtà di «due Chiese». Benedetto è stato strumentalizzato di volta in volta da anti bergogliani e bergogliani, per motivi opposti. E non è stato mai chiaro fino in fondo quanto il pontificato emerito abbia influenzato e condizionato quello del papa argentino; e quanto il Monastero Mater Ecclesiae, la «Madre della Chiesa», abbia segnato alcune mosse di Bergoglio e della sua corte di Casa Santa Marta, l’hotel dentro le mura vaticane dove vive dal giorno dell’elezione. Una tesi sostiene che finché le riforme di Francesco sono andate avanti spedite, la sintonia con Benedetto è stata totale. Ma quando si è capito che arrancavano, che apparivano troppo visionarie, è cresciuta la tentazione di vedere nella filiera dei nostalgici di Ratzinger i frenatori, e nel Monastero una sorta di contropotere allo stato latente.

Negli ultimi anni si è assistito a uno scontro neanche troppo larvato tra le frange più estreme dei «tifosi» dell’uno e dell’altro. Contro, va sottolineato, la volontà di Francesco e Benedetto. È un conflitto che negli ultimi mesi si è in qualche maniera quietato, o almeno diplomatizzato. Forse perché la voce del papa emerito si è affievolita fino a spegnersi: da alcuni mesi non riesce più a articolare le parole. O magari perché il rischio di una rottura troppo vistosa nella Chiesa cattolica ha suggerito una tregua di fatto tra fazioni. Ma difficilmente la dicotomia verrà archiviata o si spegnerà quando Benedetto morirà. Anzi, per paradosso potrebbe ravvivarsi, sommandosi alle voci di dimissioni dello stesso Francesco, che emergono a intermittenza per bocca dello stesso papa argentino.

Da mesi, ormai, la domanda che si insinua nelle file vaticane non è se ma quando e come Francesco potrebbe rinunciare, una volta scomparso il papa emerito: perché due papi dimissionari sarebbero troppo, e una delle ragioni che finora hanno impedito una nuova scelta traumatica risiede proprio nel fatto che c’è ancora «l’uomo del Monastero». In questi anni è stata una figura ingombrante non solo per le sue rare prese di posizione ma per i suoi silenzi. In fondo, il solo fatto di esistere rappresentava una sorta di assenza-presenza che il mondo ecclesiastico ha sentito molto più dell’opinione pubblica. «Il Monastero» è diventato un modo per definire uno stile di papato complementare o perfino, nell’uso strumentale che ne hanno fatto gli avversari, alternativo a quello bergogliano: con Benedetto dedito a una vita monastica, assistito e protetto dalla sua «famiglia pontificia» composta dall’arcivescovo e prefetto Georg Gaenswein e dalle quattro «memores», le donne consacrate di Comunione e liberazione che hanno vissuto con loro in quell’edificio.

Non è chiaro se l’allarme che ieri mattina si è propagato dal suo eremo giù nei palazzi vaticani, e poi in tutta Italia, rimbalzando nel mondo, sia solo l’eco ricorrente di altri annunci funesti, smentiti dall’attaccamento alla vita di Joseph Ratzinger. Oppure se sia il presagio che l’esistenza di questo pontefice e fine teologo è davvero agli sgoccioli; che il suo «pellegrinaggio verso Casa», come scrisse in una lettera al Corriere nel febbraio del 2018, sta veramente arrivando al punto di non ritorno. Le voci che arrivano dal Vaticano sono contrastanti, ma le parole pronunciate ieri in udienza da Jorge Mario Bergoglio hanno conferito drammaticità alle voci sullo stato di salute di Benedetto. D’altronde, il silenzio intorno e dentro il Monastero è diventato pesante da mesi, ormai.

Si sapeva da tempo che Benedetto non riusciva più a parlare, a dispetto di una stupefacente lucidità. Le visite si erano diradate, come i suoi articoli di teologia. Si è creata una barriera invisibile di riserbo e di laconicità, aggiuntasi a quella che già circondava la costruzione di mattoni chiari protetta da un cancello di ferro elettrico schermato, e affiancata da un piccolo orto. Foto col contagocce, seduto in poltrona nel salotto al primo piano: l’ultima il 1° dicembre scorso. Frammenti di notizie arrivate da visitatori obbligati alla riservatezza. E una coltre di mistero così fitta che non si capiva dove finisse la volontà di isolare il papa emerito nel suo mondo rarefatto, e cominciasse la sua volontà di autoisolarsi. Di certo, senza di lui il Monastero diventerà altro. Eppure, si è impresso nella memoria collettiva come il luogo-simbolo di una delle stagioni più sconcertanti e insieme intriganti di una Chiesa in bilico: messa alla prova non dai suoi nemici ma dai suoi papi. 

Benedetto XVI è «molto malato»: Papa Francesco chiede di pregare per lui. Gian Guido Vecchi e Marco Bruna su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.

Al termine dell’udienza generale, il Papa si è rivolto ai fedeli: «Vorrei chiedere a tutti voi una preghiera speciale per Ratzinger, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa». Il portavoce vaticano, Matteo Bruni: «Nelle ultime ore si è verificato un aggravamento dovuto all’avanzare dell’età»

Papa Francesco ha parlato a braccio, alzando lo sguardo dai fogli, come fa di solito quando dice le cose più importanti, mentre in aula Nervi salutava i fedeli alla fine dell’udienza generale: «Una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa», ha detto. «Ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine».

Joseph Ratzinger ha compiuto 95 anni il 16 aprile e da tempo, com’è del resto normale alla sua età, vive in condizioni di salute assai fragili. Prima di Natale, Francesco ne ha parlato come di «un santo, un uomo di alta vita spirituale», e ha spiegato: «Lo visito spesso e vengo edificato dal suo sguardo trasparente. Vive in contemplazione… Ha un buon senso dell’umorismo, è lucido, molto vivo, parla piano ma segue la conversazione. Ammiro la sua lucidità. È un grande uomo».

Da nove anni Benedetto XVI vive nel monastero vaticano «Mater Ecclesiae», dove si è ritirato pochi mesi dopo la rinuncia al pontificato del 2013 e dove ha celebrato anche il Natale: per lui è stata officiata una messa in casa, nella cappellina. Il suo segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein, ha parlato in questi anni di un uomo sempre lucido che «prega, legge, sente musica, riceve visite» ma nel fisico «è come una candela che, lentamente e serenamente, si spegne, come avviene a molti di noi». All’inizio di dicembre ha ricevuto nel monastero i due studiosi vincitori del premio Ratzinger di quest’anno per gli studi teologici: le immagini lo mostrano seduto in poltrona, magro e fragile ma con lo sguardo attento.

La nota del portavoce vaticano: «Aggravamento dovuto all’età»

Il portavoce vaticano, Matteo Bruni, ha spiegato: «In merito alle condizioni di salute del Papa emerito, per il quale Papa Francesco ha chiesto preghiere al termine dell’udienza generale di questa mattina, posso confermare che nelle ultime ore si è verificato un aggravamento dovuto all’avanzare dell’età. La situazione al momento resta sotto controllo, seguita costantemente dai medici». Al termine dell’udienza generale «Papa Francesco si è recato al monastero Mater Ecclesiae per visitare Benedetto XVI», ha aggiunto. «Ci uniamo a lui nella preghiera per il Papa emerito».

L’arcivescovo di Monaco: «Ci stringiamo in preghiera per Benedetto»

Anche l’arcivescovo di Monaco, Reinhard Marx, invita i fedeli a stringersi in preghiera per Benedetto XVI, accogliendo l’appello di Papa Francesco. «Se il santo Padre Francesco dice che dobbiamo unirci in preghiera, lo faremo oggi in modo speciale con le giovani cristiane e i giovani cristiani», ha affermato il cardinale a Bad Toelz, aprendo le giornate diocesane degli «Sternsinger», in Baviera.

Il cardinale Zuppi: «Assicuriamo il ricordo nella preghiera»

«In questo momento di sofferenza e di prova, ci stringiamo attorno al Papa emerito», ha detto il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei: «Assicuriamo il ricordo nella preghiera nelle nostre Chiese, nella consapevolezza, come lui stesso ebbe a ricordarci, che per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele». Il suo restare «in modo nuovo presso il Signore Crocifisso», continuando ad «accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione» costituisce un messaggio forte per la comunità ecclesiale e per l’intera società”.Il messaggio di padre Fortunato: «Uniamoci in preghiera per il Papa emerito»

«Vogliamo unirci a Papa Francesco nella preghiera per il Papa Emerito Benedetto con tutta la brava gente che crede nella forza della preghiera e della testimonianza. Nei momenti difficili la speranza si ancora al Cor ad Cor loquitur e come affermava Caramagna: “Quando una fiamma è minacciata dal soffio della notte, noi la proteggiamo con le nostre mani. Esse hanno allora la forma della preghiera” e san Francesco ci ricorda: “Guardate l’umiltà di Dio, e aprite davanti a Lui i vostri cuori”. Così padre Enzo Fortunato, scrittore e tra i volti più noti dei francescani.

La biografia e la spiegazione della rinuncia al Pontificato

«Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora cominciato…»: Bendetto aveva consegnato queste parole al suo biografo Peter Seewald, raccolte poi in un volume uscito due anni fa per Garzanti, dove smentiva, tra le altre cose, di essersi dimesso per il caso Vatileaks. Delle 1.209 pagine della biografia, recensite da Massimo Franco sul Corriere, oltre duecento erano dedicate proprio alla preparazione e alla spiegazione della sua rinuncia.

Nel monastero di clausura «Mater Ecclesiae» il Papa emerito aveva concesso un’intervista a Massimo Franco, nel 2021. «Incontrare Benedetto è raro, soprattutto negli ultimi tempi. E ancora più inusuale è il fatto che accetti di affrontare uno degli argomenti più traumatici per la vita della Chiesa cattolica negli ultimi secoli. La sua precisazione sull’unicità del Papato è scontata per lui ma non per alcuni settori del cattolicesimo conservatore più irriducibile nell’ostilità a Francesco. Per questo, ribadisce che “il Papa è uno solo” battendo debolmente il palmo della mano sul bracciolo: come se volesse dare alle parole la forza di un’affermazione definitiva».

L’annuncio delle dimissioni

Benedetto, eletto papa dal conclave il 19 aprile 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II, lasciò il Pontificato con queste parole, pronunciate in latino durante il Concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto, l’11 febbraio 2013. «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino».

Il processo in Baviera

Qualche settimane fa Benedetto XVI aveva annunciato di volersi «difendere» da una denuncia sporta al tribunale provinciale di Traunstein, in Baviera, che si riferisce al rapporto del gennaio scorso redatto dallo studio legale «Westpfahl Spilker Wastl» su 497 casi di abusi compiuti nella Chiesa di Monaco nel dopoguerra e accusava Ratzinger di «comportamenti erronei» per non aver agito in «quattro casi» quando guidava la diocesi bavarese, dal 1977 al 1982.

La lettera con cui Benedetto XVI risponde alle accuse sulla pedofilia nella Chiesa tedesca

«Care sorelle e cari fratelli,

A seguito della presentazione del rapporto sugli abusi nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga il 20 gennaio 2022, mi preme rivolgere a tutti voi una parola personale. Infatti, anche se ho potuto essere arcivescovo di Monaco e Frisinga per poco meno di cinque anni, nell’intimo continua comunque a persistere la profonda appartenenza all’arcidiocesi di Monaco come mia patria.

Vorrei innanzitutto esprimere una parola di cordiale ringraziamento. In questi giorni di esame di coscienza e di riflessione ho potuto sperimentare così tanto incoraggiamento, così tanta amicizia e così tanti segni di fiducia quanto non avrei immaginato».

Con questa lettera (qui l’integrale) il Papa emerito ha affrontato il rapporto sugli abusi nell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga. Il testo, pubblicato l’8 febbraio 2022, porta la data del 6 febbraio.

Peggiorano le condizioni di salute di Papa Benedetto XVI, papa Francesco chiede di pregare per lui. Il Domani il 28 dicembre 2022 Bergoglio invita a pensare a lui «chiedendo al Signore che lo consoli, che lo sostenga in questa testimonianza di amore alla chiesa, fino alla fine». Il direttore della sala stampa vaticana specifica: «Si è verificato un aggravamento dovuto all'avanzare dell'età. La situazione al momento resta sotto controllo, seguita costantemente dai medici». Anche la Cei chiede di pregare per Ratzinger

Le condizioni del papa emerito Benedetto XVI non sono buone. Papa Francesco al termine dell’ultima udienza generale dell’anno ha chiesto di pregare per lui: «Vorrei chiedere a tutti voi una preghiera speciale per il papa emerito Benedetto che nel silenzio sta sostenendo la chiesa. Ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli, che lo sostenga in questa testimonianza di amore alla chiesa, fino alla fine».

Il direttore della sala stampa vaticana, Matteo Bruni, subito dopo ha diramato una nota per specificare che le condizioni di papa Ratzinger sono legate all’età: «Posso confermare che nelle ultime ore si è verificato un aggravamento dovuto all’avanzare dell’età. La situazione al momento resta sotto controllo, seguita costantemente dai medici». Al termine dell’udienza generale, ha aggiunto Bruni, «papa Francesco si è recato al monastero Mater Ecclesiae per visitare Benedetto XVI. Ci uniamo a lui nella preghiera per il papa emerito».

Anche la Conferenza espicopale italiana si è accodata all’appello di Bergoglio. «Accogliamo l’invito di papa Francesco che, al termine dell’udienza generale, ha chiesto preghiere per Benedetto XVI, le cui condizioni di salute si sono aggravate a causa dell’avanzare dell’età. In questo momento di sofferenza e di prova, ci stringiamo attorno al papa emerito», ha detto il cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. «Assicuriamo il ricordo nella preghiera nelle nostre chiese, nella consapevolezza, come lui stesso ebbe a ricordarci, che “per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele”. Il suo restare “in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”, continuando ad “accompagnare il cammino della chiesa con la preghiera e la riflessione” costituisce un messaggio forte per la comunità ecclesiale e per l’intera società».

Il tema della morte di questi tempi è ricorrente in Vaticano. Dieci giorni fa papa Francesco aveva rivelato in una intervista al quotidiano spagnolo Abc di aver firmato una lettera di dimissioni nel caso di una malattia che  minasse in modo permanente le sue capacità decisionali e di governo. E di averlo fatto non di recente, ma nei primi mesi del pontificato, quando nel 2013 - fino al 15 ottobre di quell'anno - era ancora segretario di Stato il cardinale Tarcisio Bertone.

Nella stessa occasione aveva definito il suo predecessore, che oggi ha 95 anni, un santo: «lo visito spesso e vengo edificato dal suo sguardo trasparente. Vive in contemplazione. Ha un buon senso dell'umorismo, è lucido, molto vivo, parla piano ma segue la conversazione. Ammiro la sua lucidità. È un grande uomo».

CONTRO IL CONSUMISMO

Il tema ha preso l’attenzione mettendo in secondo piano il resto del suo intervento. Prima si è riferito alle festività natalizie, scagliandosi contro il consumismo: «Stiamo attenti a non scivolare nella caricatura mondana del Natale, ridotta a una festa consumistica e sdolcinata», ha detto nell’Aula Paolo VI. «No, l’amore di Dio non è mieloso, ce lo dimostra la mangiatoia di Gesù - prosegue il pontefice - Non è un buonismo ipocrita che nasconde la ricerca dei piaceri e delle comodità».

Francesco ricorda che «i nostri vecchi che avevano conosciuto la guerra e anche la fame lo sapevano bene: il Natale è gioia e festa, certamente, ma nella semplicità e nell'austerità». Infine, Bergoglio cita l'insegnamento «che ci viene da Geù Bambino attraverso la sapienza di san Francesco di Sales: non desiderare nulla e non rifiutare nulla, accettare tutto quello che Dio ci manda. Ma attenzione! Sempre e solo per amore, perché Dio ci ama e vuole sempre e solo il nostro bene», ha detto ancora il papa. Che ha fatto anche un riferimento alle guerre presenti: «Oggi nella Festa dei Santi Innocenti pensiamo ai più piccoli - esorta Bergoglio - a tutti i bambini che soffrono lo sfruttamento, la fame e la guerra. Che il signore ci aiuti a proteggerli e sostenerli».

Cosa accadrà in caso di morte del papa emerito Ratzinger, dal funerale alla sepoltura. La morte del papa emerito porterà a una situazione senza precedenti, il Vaticano pensa a delle procedure ex novo. Federico Garau il 28 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La notizia delle precarie condizioni di salute del papa emerito Joseph Ratzinger ha sconvolto il mondo.

Riferendosi a lui, papa Bergoglio ha chiesto ai fedeli di pregare, definendo il suo predecessore come "molto malato". A quanto pare il quadro clinico di Benedetto XVI si è aggravato da Natale, e nel pensare al peggio, in molti si domandano quali saranno le procedure che seguirà il Vaticano al momento della sua morte.

Si tratta, inutile dirlo, di una situazione inedita, mai avvenuta. La chiesa ha un papa e un papa emerito, che si è dimesso lasciando il suo posto a un altro: dovrà perciò essere studiato un protocollo ad hoc.

"Problemi respiratori". Ratzinger grave già a Natale

Funerali solenni

Saranno concessi anche a Benedetto XVI, in qualità di passato papa, quei funerali solenni che verrebbero celebrati in caso di morte del Pontefice? Al momento non è possibile dare una risposta certa. Non ci sono precedenti.

Secondo la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, a seguito della morte di un papa in carica spetta ai cardinali stabilire giorno, ora e modo in cui la salma del Pontefice verrà trasportata nella Basilica Vaticana, così da essere esposta ai fedeli per l'ultimo saluto. Sempre i cardinali dovranno predisporre, come riporta Repubblica, "tutto il necessario per le esequie del defunto Pontefice, che dovranno essere celebrate per nove giorni consecutivi, e fissino l'inizio di esse in modo che la tumulazione abbia luogo, salvo ragioni speciali, fra il quarto e il sesto giorno dopo la morte".

Lo stesso varrà anche per Ratzinger? Ancora non è possibile saperlo. Dopo le dimissioni, Joseph Ratzinger non è tornato a essere un cardinale, ma non è neppure il papa regnante. Forse non ci saranno i cosiddetti novendiali, ma è logico aspettarsi dei funerali comunque solenni per una figura che ha ricoperto un incarico come quello di papa ed è ad oggi ancora molto amata dai fedeli.

Quasi certamente sarà papa Francesco a officiare la cerimonia. "Dal punto di vista liturgico, credo che quando avverranno le esequie verrà utilizzato sostanzialmente il rituale che si prevede per le esequie dei papi dal momento che con Ratzinger parliamo di un Pontefice. La differenza sostanziale è che probabilmente potrebbe presiederle il papa regnante, dunque Bergoglio, mentre invece quando c'è la morte di un papa è il decano dei cardinali a presiedere", ha spiegato ad AdnKronos il liturgista don Claudio Magnoli.

La sepoltura

Difficile rispondere anche agli interrogativi sul possibile luogo di sepoltura del papa emerito. Al momento della rinuncia, Joseph Ratzinger aveva espresso chiaramente il desiderio di tornare nella sua Baviera, in Germania.

È in Vaticano, tuttavia, che vengono sepolti i Pontefici. Scegliere due luoghi diversi per le tombe di Ratzinger e Bergoglio potrebbe portare a inopportuni dualismi.

Tempo fa Peter Seewald, giornalista tedesco e biografo ufficiale di Ratzinger, dichiarò che Benedetto XVI aveva già dato disposizioni per la sua sepoltura, ossia la tomba appartenuta a Giovanni Paolo II prima della canonizzazione, nelle grotte vaticane.

Il monastero, le suore, Giovanni Paolo II: il luogo scelto da Ratzinger per "l'ultimo tratto di strada". Francesco si è recato nel monastero che Benedetto XVI scelse per ritirarsi in omaggio alle volontà di Wojtyla. Nico Spuntoni il 28 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Poche centinaia di metri separano il monastero Mater Ecclesiae, il luogo del ritiro scelto da Benedetto XVI, da Casa Santa Marta, la residenza che Francesco ha preferito all'appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico. Pochi centinaia di metri che il Papa argentino, ancora sofferente per la gonartrosi che non lo abbandona, ha voluto percorrere per rendere omaggio al suo predecessore "molto ammalato" e per pregare per lui, fino alla fine.

Nel monastero immerso nei Giardini Vaticani e voluto da Giovanni Paolo II nel 1994 per ospitare una comunità di religiose contemplative anche tra le mura del più piccolo Stato del mondo, Bergoglio dovrebbe muoversi su una sedia a rotelle. La stessa utilizzata per lasciare l'Aula Paolo VI e raccogliersi in preghiera davanti a Gesù Bambino, nel presepe, al termine dell'udienza generale in cui ha annunciato al mondo l'aggravarsi delle condizioni di salute di Ratzinger.

La famiglia pontificia

Anche Benedetto XVI, ormai più che 95enne, si è spostato fino ad oggi in sedia a rotelle nei suoi appuntamenti quotidiani: la messa nella cappella al piano terra, le poche udienze concesse nel salone al primo piano con le pareti ornate da icone bizantine, il rosario davanti la grotta della Madonna di Lourdes nei Giardini Vaticani. A seguire ogni suo passo nella vita quotidiana è la famiglia pontificia che lo accompagnava anche negli anni al Palazzo Apostolico: ci sono il segretario particolare Georg Gänswein e quattro donne - Carmela, Loredana, Cristina e Rossella - dell'associazione laicale Memores Domini legata a Comunione e Liberazione. Nel 2010 questa famiglia ha perso un pezzo importante, Manuela Camagni, scomparsa prematuramente dopo essere stata investita da un'automobile in via Nomentana.

Ratzinger, che aveva celebrato personalmente le esequie, era rimasto profondamente colpito dalla morte improvvisa della Memor Domini ed aveva affidato la sua sofferenza in un messaggio in cui aveva confessato di provare un "grande dolore, che solo la fede può consolare". Oltre alle quattro Memores, l'accesso al monastero è consentito anche a Birgit Wansing, laica consacrata, che svolge le funzioni di segretaria di Ratzinger già dai tempi dell'incarico di prefetto alla Congregazione per la dottrina della fede.

Natale di sofferenza

E' con loro che il Papa emerito ha trascorso anche i giorni di questo Natale particolare, il secondo senza l'amato fratello Georg che era solito fargli frequentemente visita in Vaticano nonostante l'età più avanzata, la cecità e il mancato uso delle gambe. Un Natale particolare perchè, come ha riferito l'Ansa, è già nei giorni precedente che Benedetto XVI ha cominciato a stare male: "problemi respiratori", si è appreso. Ma le complicanze della salute non hanno impedito comunque la celebrazione della messa per la solennità nel monastero.

Il Monastero

Giovanni Paolo II, come detto, aveva voluto inaugurarvi un monastero di clausura anche dentro il Vaticano. Lo aveva inaugurato il 13 maggio 1994 per poter contare sulla preghiera delle suore a supporto del suo ministero. Le ultime a risiedervi erano state delle suore visitandine, l'ordine fondato da san Francesco di Sales di cui proprio oggi ricorrono i 400 anni dalla morte. E proprio oggi è uscita una Lettera Apostolica a lui dedicata, la Totum amoris est, che Francesco ha annunciato proprio nel corso dell'udienza generale in cui ha dato notizia dell'aggravamento del Papa emerito.

Scegliendo di ritirarsi nel monastero Mater Ecclesiae, Ratzinger ha voluto rimanere fedele alle intenzioni del suo amato predecessore nel rivendicare una presenza contemplativa all'interno del Vaticano a supporto del Papa regnante. Così ha fatto Benedetto XVI dal 2013 ad oggi, a pochi metri di distanza dal suo successore, sostenendolo con la preghiera come ha riconosciuto oggi lo stesso Francesco dicendo di lui che "nel silenzio sta sostenendo la Chiesa".

Jorge e Joseph, connubio di stime e devozione. Li hanno dipinti avversari e nemici. Hanno sempre smentito con la fiducia reciproca. Fabio Marchese Ragona il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Hanno provato a metterli uno contro l'altro, strumentalizzando soprattutto il Papa emerito in chiave anti Francesco, sperando forse in una seconda storica rinuncia. Ci hanno provato in tutti i modi, tra dosi di veleno sui giornali e complotti ben più organizzati: tentativi che hanno avuto spesso grande risonanza mediatica, ma che alla fine sono falliti, soprattutto per merito di Joseph Ratzinger, il Papa emerito che ha denunciato pubblicamente l'azione malevola di qualche sostenitore tradizionalista, deluso dalla sua scelta rivoluzionaria di rinunciare al pontificato. La storica coabitazione di due papi in Vaticano, iniziata quasi dieci anni fa, era il marzo del 2013, ha portato certamente più grazia e più preghiere per il mondo cattolico, ma anche non poche polemiche, soprattutto tra chi in questi anni ha continuato a ripetere: «Chi è il vero Papa?». Una domanda che ha trovato spazio soprattutto tra alcune frange estreme della Chiesa che non hanno mai accettato il rapporto tra Francesco e Benedetto, un rapporto schietto e sincero, fatto di amicizia e di sostegno reciproco. Qualcuno ha provato addirittura a sussurrare all'orecchio di Bergoglio, lo ha raccontato lui stesso ai giornalisti, parole che potessero innescare un dubbio: «Ma come puoi vivere in Vaticano con un altro Papa? Non ti ingombra? Non ti fa la rivoluzione contro?». La risposta del Pontefice è stata lampante: «No, è come avere il nonno a casa, ma il nonno saggio. Quando in una famiglia il nonno è a casa, è venerato, è amato, è ascoltato. Lui è un uomo di prudenza! Non si immischia. Io gli ho detto tante volte: Santità, lei riceva, faccia la sua vita, venga con noi!».

Parole che chiariscono il rapporto che in dieci anni questi due uomini così diversi, il professore teologo e il prete di strada, hanno costruito, con stima e devozione reciproca. L'immagine dei due papi insieme, sorridenti, è qualcosa che rimane impressa nella storia: da un lato Francesco, il Papa regnante, dall'altro Benedetto, che si è fatto da parte per lasciar spazio a forze giovani che potessero guidare con sicurezza la barca di Pietro verso nuove sfide. Che il loro sarebbe stato un rapporto di fiducia e di grande affetto si era capito già qualche giorno dopo l'elezione di Papa Francesco, nel 2013, quando Bergoglio volò a Castel Gandolfo per far visita al suo predecessore. Nella cappella della ex residenza estiva dei papi, Ratzinger aveva insistito per far sedere Bergoglio sulla sedia riservata al Papa. Francesco aveva preferito invece inginocchiarsi accanto a lui, senza troppe cerimonie, senza distanze. Un gesto di umiltà che rimase nel cuore di Ratzinger. Quello stesso giorno era avvenuto un importantissimo passaggio di consegne: Benedetto XVI aveva consegnato al suo successore una grande scatola bianca, contenente i tomi del dossier Vatileaks, gli scandali d'Oltretevere, redatto dai tre cardinali «detective» incaricati da Ratzinger, all'epoca regnante, di consegnare una fotografia esatta della Curia romana, tra lobby, corruzione e furti di documenti. «Le ho portato in regalo la Madonna dell'umiltà, lei è tanto umile...», disse in quell'occasione Francesco al suo predecessore. E lo ha ripetuto spesso anche in presenza dei nuovi cardinali appena «creati»: è diventata, infatti, una consuetudine la visita di cortesia a Ratzinger, a bordo di un pulmino al termine di ogni concistoro, al Monastero Mater Ecclesiae, nel cuore dei Giardini Vaticani, dove Benedetto vive insieme ai suoi collaboratori più stretti. Una visita per rendergli omaggio e chiedere anche la sua benedizione. Francesco è andato spesso a trovarlo, anche durante le feste; e non sono mancate nemmeno le telefonate e i consigli del «nonno saggio».

Un binomio, Bergoglio-Ratzinger che ha incuriosito, che ha stimolato la fantasia di molti, tra autori e registi, che hanno immaginato addirittura i due papi, in veste di tifosi, intenti a seguire insieme una importante partita di calcio tra Germania e Argentina, quasi a voler sottolineare ancora una volta la rivalità tra i due: il tradizionalista contro il riformatore, il vecchio contro il nuovo. Ma le cose alla fine, nella realtà, sono andate diversamente: Bergoglio e Ratzinger, pur nelle differenze, hanno sempre fatto squadra, per il bene della Chiesa e soprattutto di tutti i fedeli. Volando alto, lontani dalle polemiche e scegliendo spesso il silenzio, l'arma più forte che ha protetto entrambi dai veleni di corte.

"Ratzinger è molto malato". La Chiesa prega per il Papa. L'annuncio di Bergoglio in udienza generale, poi la visita. Le condizioni di Benedetto XVI gravi da Natale. Serena Sartini il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

In preghiera per il Papa emerito. Ore di ansia per Joseph Ratzinger, le cui condizioni di salute sono peggiorate negli ultimi giorni. L'annuncio, a sorpresa, è arrivato dal Papa in carica, al termine dell'udienza generale. «Voglio chiedere una preghiera speciale per il Papa Emerito Benedetto, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa e ricordarlo. È molto ammalato, chiediamo al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine», ha detto Bergoglio, chiedendo preghiere per il suo predecessore, 96 anni il prossimo 16 aprile. Una notizia che ha messo in apprensione il mondo intero. Tanto che a fine mattinata è arrivata una nota della sala stampa della Santa Sede. «Nelle ultime ore si è verificato un aggravamento dovuto all'avanzare dell'età. La situazione al momento resta sotto controllo ha precisato il direttore della sala stampa Matteo Bruni - seguita costantemente dai medici». Proprio per questo, il Pontefice argentino si è voluto recare al monastero Mater Ecclesiae in Vaticano per visitare Benedetto XVI.

In realtà, le condizioni di Joseph Ratzinger che dal 2 maggio 2013 vive dentro le Mura vaticane, insieme al suo fedelissimo segretario personale, monsignor Georg Gaenswein, rientrato in fretta da un breve periodo di congedo che aveva preso per salutare la famiglia per le festività natalizie, e alle suore laiche, le memores domini di Comunione e Liberazione si sono aggravate già nei giorni precedenti al Natale, quando ha iniziato ad accusare in particolare «problemi respiratori». Benedetto XVI ha trascorso la solennità del Natale sempre all'ex monastero Mater Ecclesiae dove per lui è stata officiata una messa in casa nella cappellina. Poi anche qualche problema al cuore. «È una persona di 96 anni riferiscono al Giornale fonti vicine a Ratzinger la sua salute è fragile. Ricordiamo quanto detto da mons. Gaenswein: È come una candela che si consuma lentamente». Per aiutarlo a superare i problemi respiratori, Benedetto XVI sarebbe attaccato a un respiratore.

La notizia dell'aggravamento di Ratzinger rimbalza in Rete. Su Twitter l'hashtag Benedetto XVI schizza in trend topic. I cardinali più social chiedono preghiere. «In questi momenti difficili e gravi, uniamoci in fervida preghiera per il nostro caro Papa emerito», scrive il cardinale guineano Robert Sarah, prefetto emerito della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, personalità particolarmente vicina a Joseph Ratzinger. «Uniamoci a Papa Francesco nella preghiera per il Papa emerito Benedetto, e chiediamo al Signore di sostenerlo e consolarlo in questo momento», è il cinguettio del cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles. «Il Papa emerito Benedetto è stato molto legato al nostro Paese e alla nostra chiesa fin dall'infanzia», scrive invece il cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schoenborn, che fin dai suoi anni di studi aveva conosciuto Ratzinger e fu poi suo stretto collaboratore come segretario della commissione per la redazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. «Chiedo ai credenti in Germania di pregare per Benedetto XVI», sottolinea il capo della conferenza episcopale tedesca, Georg Baetzing, vescovo di Limburg.

L'invito alla chiesa italiana arriva dal suo presidente, il cardinale Matteo Zuppi: «In questo momento di sofferenza e di prova - afferma - ci stringiamo attorno al Papa emerito. Assicuriamo il ricordo nella preghiera nelle nostre Chiese, nella consapevolezza, come lui stesso ebbe a ricordarci, che per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio».

L'ultima visita Benedetto XVI l'aveva ricevuta il primo dicembre scorso da parte dei due vincitori del Premio Ratzinger, il riconoscimento che ogni anno la fondazione a lui intitolata conferisce a studiosi di teologia. Di quel giorno restano alcune foto sulla pagina Facebook della Fondazione, istantanee che lo immortalano debole, smagrito, affaticato, più che seduto quasi abbandonato alla poltrona del monastero Mater ecclesiae. «Oramai ha esaurito le energie», concludono dall'appartamento.

"Problemi respiratori". Ratzinger grave già a Natale. Il Papa emerito si è aggravato prima di Natale. Ma la salute fragile ha caratterizzato tutta la sua vita. Nico Spuntoni il 28 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dopo la richiesta di preghiere di Francesco per il Papa emerito "molto ammalato", la conferma del direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni che ha parlato di un "aggravamento dovuto all'avanzare dell'età", è arrivata l'indiscrezione dell'Ansa secondo cui Ratzinger accuserebbe "problemi respiratori" emersi già nei giorni precedenti al Natale.

La salute del Papa emerito

L'ultima malattia nota di cui ha sofferto l'ultranovantenne tedesco è un herpes-zoster che si è manifestato prima della sua partenza per la Germania nell'estate del 2020. Quella trasferta si rese necessaria per dare l'ultimo saluto al fratello Georg che si trovava già in gravi condizioni e che sarebbe morto poco dopo a Ratisbona, privando il Papa emerito dell'ultimo familiare rimasto in vita dopo la morte improvvisa della sorella Maria. Quest'ultima, invece, dopo una vita dedicata ai due fratelli, morì nel 1991 mentre si recava a visitare la tomba dei genitori in occasione di Ognissanti. La stroncò un ictus.

Anche Ratzinger fu colpito da un ictus nel settembre del 1991. Era atteso nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma per l'ordinazione episcopale del futuro cardinale Angelo Scola, l'uomo che fu vicino a succedergli sul soglio pontificio nel 2013. Il 20 settembre Ratzinger fu ricoverato all'ospedale Gemelli di Roma per l'ictus che lo ha reso cieco dall'occhio sinistro.

La rinuncia

Nel momento in cui Benedetto XVI annunciò la sua volontà di rinunciare al ministero di vescovo di Roma nel corso di un Concistoro ordinario pubblico, molti pensarono che l'allora Pontefice regnante si dimettesse in quanto impossibilitato ad andare avanti da una malattia. Nella storica Declaratio, Ratzinger scrisse di aver maturato la "certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino". Da quel passo indietro sono passati quasi dieci anni nel quale la debolezza del Papa emerito è andata aumentando e si è rivelata al mondo proprio in occasione del viaggio in Germania per salutare un'ultima volta il fratello Georg.

La longevità

Nonostante la fragilità di salute che ha accomunato entrambi, i due fratelli Ratzinger hanno abbondantemente superato la soglia dei novant'anni: monsignor Georg, infatti, è morto a Ratisbona all'età di 86 anni. Era già quasi del tutto cieco e costretto a muoversi in sedia a rotelle ma non rinunciava a visitare spesso il fratello minore a Roma, pur essendosi sempre rifiutato di trasferirsi in Vaticano definitivamente: infatti è morto nella sua residenza a Ratisbona.

Joseph, pur non vedendo più dall'occhio sinistro, aveva continuato a muoversi autonomamente anche dopo la rinuncia al pontificato. Invecchiando, si è reso necessario l'utilizzo di un deambulatore del quale si serviva anche per le sue consuete passeggiate nei Giardini Vaticani con tappa finale davanti alla grotta della Madonna di Lourdes. Infine, anche lui è stato costretto a servirsi di una sedia a rotelle.

Io laico e liberale vi spiego il fascino di Benedetto XVI. Joseph Ratzinger è “molto malato”: in Vaticano apprensione per la sua salute.  Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 29 Dicembre 2022

Uno dei motivi del fascino e della forza attrattiva che Joseph Ratzinger ha esercitato è consistito, probabilmente, nella capacità che egli ha avuto di unire una radicale critica della modernità con un’attenzione tutta moderna per i problemi e le sfide del presente.

Il teologo tedesco, diventato papa con un cursus honorem tutto interno alla Chiesa, non si è mai rinchiuso in una torre d’avorio lontana dal mondo, non lo ha mai rifiutato pur mai adeguandosi ad esso. Egli ha partecipato sempre attivamente alle battaglie del suo tempo, il che non poco contrastava, fra l’altro, col carattere schivo, dimesso, persino timido, della sua personalità. La sua è risultata essere pertanto una “voce nel deserto”, quel “deserto spirituale” che, secondo la sua definizione, è il nostro tempo. In esso, per usare un’altra sua nota espressione, vige una “dittatura del relativismo”, una perdita di senso generale che porta ad equiparare il sacro e il profano, i più nobili valori della tradizione (che depotenziati e non vissuti non possono considerarsi più tali) con gli interessi e i capricci del momento.

Era un vecchio e ordinato mondo di valori e gerarchie, di tradizioni e costumi, di ragione non meno che di fede, quello che Ratzinger aveva in mente, che la Chiesa e l’umanesimo cristiano hanno rappresentato e che il Papa emerito sentiva persi nel nostro tempo. Ratzinger avvertiva un che di destinale in tutto questo, dopo tutto. Nessuna idea di restaurazione reazionaria di un ordine perduto era in lui, ma l’idea piuttosto di prendere atto della realtà e rinserrare le fila fra quei pochi che in quel “mondo di ieri” cristiano continuavano a credere. Una Chiesa di minoranza e di testimonianza, di piccole cellule di resistenza, come quella dei gruppi monastici che aveva messo su nell’alto Medioevo San Benedetto in giro per l’Europa. Perché è indubbio che Ratzinger è stato un papa europeo per antonomasia, ed Europa e cristianesimo, civiltà occidentale/cristiana e civiltà tout court sono stati per lui un tutt’uno.

La partita per Ratzinger, che aveva avuto un ruolo importante nel pontificato di Giovanni Paolo II, si giocò nella prima decade del nuovo secolo, quando più volte intervenne, inutilmente purtroppo, per far capire alle élite e ai politici europei che inserire il riferimento alle radici cristiane nel preambolo di Costituzione europea non era una questione secondaria: che su quelle radici, e su quella identità, si erano costruite le nostre libertà. E che quelle libertà ora più che mai, per la forza di nemici esterni e interni, altamente erano in pericolo e fortemente andavano tutelate e rinsaldate. In questo preciso punto si colloca il motivo per cui Ratzinger ha toccato corde che stanno a cuore anche a noi liberali. Corrado Ocone, 29 dicembre 2022

Ratzinger, la soffiata del vaticanista: "Un brutto segnale". Libero Quotidiano il 28 dicembre 2022

Papa Francesco ha invitato a pregare per il Papa emerito, Joseph Ratzinger, spiegando al mondo che le sue condizioni si sono aggravate. Una circostanza poi confermata dal capo della Sala stampa in Vaticano, che ha attribuito il peggioramento di Benedetto XVI all'avanzare della sua età. Una notizia ovviamente di portata globale e che sta catalizzando tutte le attenzioni. E di Ratzinger, così, se ne parla anche a Tagadà, il programma del pomeriggio su La7, condotto da Alessandro Orsingher.

Ospite in collegamento, direttamente da piazza San Pietro, ecco il vaticanista Fabio Zavattaro, che sottolinea come la visita di Francesco a Ratzinger, dopo aver parlato delle condizioni del suo predecessore, sia un segnale tutt'altro che positivo. "L'invito a pregare per il Papa era già arrivato altre volte. Il fatto che lo vada a visitare non è un buon segnale - spiega Zavattaro -. Aver sottolineato l'aggravarsi della situazione ci fa pensare che la situazione sia veramente grave. Qualche tempo fa, non molto, mi veniva detto da una persona in Vaticano che Papa Benedetto è come una candela che si sta spegnendo lentamente, ricordiamo che ha 95 anni".

Dunque, interpellato da Orsingher sul rapporto tra i due Papi, il vaticanista ricorda: "Durante il primo viaggio di Francesco in Brasile, poco dopo la sua elezione, a una domanda sul rapporto con Ratzinger, disse che è come avere un nonno in casa a cui rivolgersi e chiedere consigli. E questo chiedere consigli è proseguito nel tempo. Credo che le voci su una contrapposizione su due papi siano più che altro costruite ad arte su chi vuole spingere da una parte o dall'altra il pontificato o meglio le opinioni dei due papi", conclude Zavattaro.

Papa Benedetto XVI, il pontificato in 30 foto. Stefan Wermuth su Panorama il 28 Dicembre 2022

Una selezione delle foto più belle, per raccontare i quasi 8 anni del papato di Joseph Ratzinger

Pregate per Papa Benedetto XVI, che sta molto male...». Questa la richiesta di Papa Francesco nell'udienza di oggi ai fedeli. La situazione medica del Papa Emerito sarebbe infatti molto complicata e sarebbe peggiorata negli ultimi giorni. Ricordiamo che Benedetto XVI, dopo 8 anni di pontificato, aveva annunciato a sorpresa le proprie dimissioni per motivi di salute. Una scelta che fece molto discutere.

A partire dalla sua prima apparizione sulla Loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro, il 19 aprile 2005, quando dopo un Conclave durato poco più di 24 ore, il Cardinale Joseph Ratzinger venne eletto 265° Papa della Chiesa cattolica, con 30 immagini ripercorriamo il pontificato di Benedetto XVI, che, come ha lui stesso annunciato ieri, si concluderà il prossimo 28 febbraio 2013.

Si aggravano le condizioni di Benedetto XVI Benedetto XVI. Mariella Baroli su Panorama il 28 Dicembre 2022

«Pregate per lui, è molto malato» ha detto Papa Francesco all'udienza del mercoledì. La condizioni di salute del Papa Emerito sarebbero peggiorate nelle ultime ore

Si sono aggravate le condizioni di Joseph Ratzinger, 95 anni, il «Papa Emerito»; secondo nella storia a rinunciare al soglio pontificio (dopo Gregorio XII nel 1415).

Già nei giorni precedenti al Natale, Benedetto XVI avrebbe iniziato ad accusare «problemi respiratori» e solo un’ora fa è arrivata la conferma da parte del direttore della Sala stampa Matteo Bruni: «In merito alle condizioni di salute del Papa emerito, per il quale Papa Francesco ha chiesto preghiere al termine dell'udienza generale di questa mattina, posso confermare che nelle ultime ore si è verificato un aggravamento dovuto all'avanzare dell'età. La situazione al momento resta sotto controllo, seguita costantemente dai medici. Al termine dell'udienza generale Papa Francesco si è recato al monastero Mater Ecclesiae per visitare Benedetto XVI. Ci uniamo a lui nella preghiera per il Papa emerito». Proprio questa mattina, infatti, Papa Francesco avrebbe chiesto «una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto» specificando che l’uomo «è molto ammalato» e chiedendo «al Signore che lo consoli, che lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, fino alla fine». La notizia in merito alle condizioni di salute di Joseph Ratzinger arriva a dieci giorni dall’intervista di Papa Francesco al quotidiano spagnolo Abc, in cui il pontefice dichiarava di aver già firmato le sue dimissioni. «In caso di impedimento per motivi medici o che so, ecco le mie dimissioni. Ce le avete già» avrebbe detto Francesco al cardinal Bertone, allora segretario di Stato. Nell’intervista, il Papa rispondeva così alla domanda su cosa sarebbe successo se un Pontefice fosse diventato improvvisamente invalido per problemi di salute o per un incidente. Una prassi che sembrano aver seguito anche Paolo VI e Pio XII. Le dimissioni di Benedetto XVI nel 2013 fecero molto scalpore. La scelta dell’uomo, annunciata nella mattina del 10 febbraio durante la canonizzazione dei Martiri d’Otranto scosse il mondo intero. Nel suo discorso - pronunciato in latino - il Papa disse ai presenti di aver preso «una decisione di grane importanza per la vita della Chiesa», citando il suo deterioramento delle forze dovuto alla vecchia e alle esigenze fisiche e mentali di papato.

Dichiarò inoltre che avrebbe continuato a servire la Chiesa «attraverso una vita dedicata alla preghiera».

Sofferenza e speranza. Il Natale di Ratzinger. Nico Spuntoni il 25 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Benedetto XVI preoccupato per quanto avviene nel mondo e nella Chiesa. Ma è convinto che la nascita di Gesù è segno di vittoria del bene

Quello di oggi è il decimo Natale da emerito per Benedetto XVI. Quest'anno, a differenza di quanto avvenuto spesso ma non sempre, non ha ricevuto la visita del suo successore Francesco nel Monastero Mater Ecclesiae dove vive con il segretario particolare, monsignor Georg Gaenswein e con le Memores Domini che lo assistono nella vita quotidiana.

La testimonianza del biografo

Ma come sta Benedetto XVI? Nei mesi scorsi ha ricevuto la visita del suo biografo, il giornalista Peter Seewald che ha raccontato quest'incontro nel corso di un congresso tenuto all'Università Ceu San Pablo di Madrid. Il co-autore di libri-intervista come Ultime conversazioni e Luce del mondo è tornato a parlare delle impressioni dall'ultimo faccia a faccia con Ratzinger nel corso di un'intervista radiofonica concessa a Radio Horeb per presentare il suo progetto editoriale dal titolo Edition Credo col il quale vuole promuovere la conoscenza dei testi più importanti della letteratura cattolica, tra cui quelli di Benedetto XVI.

Interrogato dal giornalista Günther Lindinger, Seewald ha ripetuto di aver avuto l'impressione che Benedetto XVI "sta soffrendo molto per la situazione della Chiesa" e anche per ciò che accade nel mondo. La sua longevità, inoltre, verrebbe interpretata dal diretto interessato come un modo con cui Dio vuole "dare una testimonianza per il mondo". Quel servizio alla Chiesa che, al momento della rinuncia, aveva annunciato di non voler abbandonare non è ancora finito ed è per questo che - secondo la lettura ratzingeriana riferita da Seewald - il Signore ha voluto conservarlo sulla terra: per continuare quella vita di preghiera e di contemplazione scelta con la decisione di "salire sul monte".

Il biografo tedesco ha anche spiegato che Ratzinger non si aspettava di vivere così a lungo e quando fu eletto nel 2005 aveva previsto che il suo pontificato sarebbe durato poco. In effetti, il suo pontificato si è concluso dopo quasi otto anni, una durata inferiore a quello del predecessore Giovanni Paolo II e del successore Francesco. Tuttavia, Benedetto XVI, rinunciando, non ha scelto di abbandonare la Chiesa. Ed in preghiera e meditazione vivrà anche questo decimo Natale da Papa emerito.

Ratzinger e il Natale

In Germania il presepe si fa per tradizione nella giornata della Vigilia. Così avveniva anche in casa Ratzinger, nel comune di Tittmoning dove la famiglia si trasferì nel 1929. Il Papa emerito, molto legato ai ricordi dell'infanzia, conserva ancora una parte del presepe dell'epoca: si tratta di un cesto di sassi che lui e suo fratello Georg raccolsero sulle sponde del fiume Salzach e che da allora utilizzarono per riprodurre il paesaggio montano da sfondo.

Sotto l'albero, che la madre Maria ornava con le stelle e i cuori ritagliati da vasetti di marmellata, il piccolo Joseph era solito scartare i regali: la sua preferenza andava per gli orsi di stoffa. L'orso, d'altra parte, ha sempre accompagnato la vita del Papa emerito e non a caso compare nello stemma papale così come compariva in quello arcivescovile a Monaco e Frisinga.

Così don Georg Ratzinger, fratello maggiore di Joseph scomparso due anni fa, ha raccontato nella sua autobiografia il Natale tipo vissuto nella loro casa di famiglia: "Papà leggeva il Vangelo che raccontava della natività secondo Luca e intonavamo alcuni canti di Natale: Astro del ciel, O du fröhliche e naturalmente anche Venite o bambini. Una volta, nel 1936, quando ero già al liceo, scrissi io stesso una piccola composizione. La eseguimmo in tre, mia sorella all'armonium, mio fratello al pianoforte e io con il violino. La mamma si commosse fino alle lacrime e anche papà rimase colpito da quell'esibizione, sebbene in modo più sobrio".

La speranza del Natale

Ratzinger ha confessato a Seewald la sua preoccupazione per quanto sta avvenendo nel mondo. Nonostante i 95 anni, il Papa emerito è perfettamente consapevole di quanto sta accadendo in Ucraina e ad inizio del conflitto ha voluto far pervenire a al capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, monsignor Sviatoslav Shevchuk una lettera di vicinanza. Incontrandolo in Vaticano, Ratzinger ha fatto sapere all'arcivescovo ucraino che prega per la fine della sofferenza del suo popolo e per arrivare alla pace. In questo primo Natale di guerra in Europa - che per Benedetto XVI non è un continente "nettamente afferrabile in termini geografici", ma è invece "un concetto culturale e storico" - suona particolarmente attuale una meditazione che l'allora don Ratzinger scrisse tra il 1959 ed il 1960 proprio su questa festività e che è stata pubblicata nell'Opera omnia edita dalla Lev.

Nemmeno vent'anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, così si esprimeva l'allora giovane teologo tedesco parlando degli uomini contemporanei: "Non temiamo più che il sole possa essere sopraffatto dalle tenebre e non tornare; ma abbiamo paura del buio che proviene dagli uomini; scoprendo solo così quella vera oscurità che, in questo secolo di disumanità, abbiamo sperimentato più spaventosamente di quanto le generazioni che ci hanno preceduto avrebbero mai potuto immaginare. Abbiamo paura che il bene nel mondo divenga impotente, che non abbia più senso scegliere la verità, la purezza, la giustizia, l’amore, perché ormai nel mondo vale la legge di chi meglio sa farsi strada a gomitate, visto che il corso della storia sembra dare ragione a chi è senza scrupoli e brutale, non ai santi".

Una conclusione a cui siamo portati ad arrivare, secondo Ratzinger, perché vediamo di fronte ai nostri occhi "dominare il denaro, la bomba atomica, il cinismo di coloro per i quali non esiste più nulla di sacro" finendo per convincerci che "la storia del mondo distingua solo fra gli sciocchi e i forti".

Osservava ancora Ratzinger: "Domina la sensazione che le forze oscure aumentino, che il bene sia impotente: ci assale più o meno quella stessa sensazione che, un tempo, prendeva gli uomini quando, in autunno e in inverno, il sole sembrava combattere la sua battaglia decisiva: 'La vincerà? Il bene conserverà il suo senso e la sua forza nel mondo?'".

Una sensazione diffusa anche oggi, specialmente alla luce degli ultimi anni segnati dalla pandemia e dallo scoppio della guerra in Ucraina. Ma il futuro Benedetto XVI indicava proprio nel Natale, con la nascita di Gesù, il segno e la garanzia che "nella storia del mondo, l’ultima parola spetta a Dio" e proprio la Santa Notte "nell’andamento altalenante di questa nostra storia, ci dà la certezza che anche qui la luce non morirà, ma ha già in pugno la vittoria finale".

E' morto Ratzinger, primo Papa emerito. (ANSA il 31 Dicembre 2022) - "Con dolore informo che il Papa Emerito, Benedetto XVI, è deceduto oggi alle ore 9:34, nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano". Lo dichiara il direttore della Sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni. "Non appena possibile seguiranno ulteriori informazioni", aggiunge. 

Benedetto XVI, salma esposta in Basilica dal 2 gennaio.

(ANSA il 31 Dicembre 2022) -  Dalla mattina di lunedì 2 gennaio 2023, il corpo del Papa Emerito Benedetto XVI sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano per il saluto dei fedeli. Lo riferisce la Sala stampa vaticana.

Benedetto XVI, le reazioni alla morte di Papa Ratzinger in diretta | «Il suo desiderio erano funerali nella semplicità». Marco Bruna su Il Corriere della Sera il 31 Dicembre 2022.

Benedetto XVI, Papa emerito da quasi dieci anni, è morto oggi a Roma. Ratzinger aveva 95 anni. La salma sarà esposta lunedì 2 gennaio nella Basilica di San Pietro

• È morto Benedetto XVI, il papa emerito aveva 95 anni.

Il Vaticano fa sapere che dalla mattina di lunedì 2 gennaio il corpo del Papa Emerito sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano per il saluto dei fedeli. Le condizioni di salute di Ratzinger si erano aggravate nei giorni scorsi.

Ore 11:47 - È morto Benedetto XVI

(Gian Guido Vecchi) Benedetto XVI è deceduto oggi alle ore 9:34, nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano. Il Papa emerito aveva 95 anni. Dopo l’improvviso «aggravamento dovuto all’avanzare dell’età» nella notte tra martedì e mercoledì, Papa Francesco aveva chiesto ai fedeli «una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa», fino a dire: «Ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine». Dalla mattina di lunedì 2 gennaio 2023, il corpo di Joseph Ratzinger sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano per il saluto dei fedeli.

Ore 10:53 - La salma di Benedetto XVI sarà esposta in Basilica di San Pietro dal 2 gennaio

Il Vaticano fa sapere che dalla mattina di lunedì 2 gennaio, il corpo del Papa Emerito sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano per il saluto dei fedeli. Le condizioni di salute di Ratzinger si erano aggravate nei giorni scorsi. L'annuncio dell'aggravamento delle condizioni di salute dell'anziano papa emerito, 95 anni, era stato dato dallo stesso Papa Francesco all'udienza generale di mercoledì scorso durante la quale aveva invitato a pregare per lui.

Ore 11:06 - Il cordoglio di Antonio Spadaro: «Riposa nella pace del Signore che hai tanto amato»

«Grazie, BenedettoXVI. Riposa nella pace del Signore che hai tanto amato». È il cordoglio di padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, dopo la notizia della morte del Papa emerito.

Ore 11:09 - La Russa a Papa Francesco: «Scomparsa riempie tutti di grande tristezza»

«Santità, la scomparsa del Papa Emerito Benedetto VXI riempie tutti di grande tristezza: guida spirituale di notevole carisma ed esempio di fede profonda, pastore fermo e al tempo stesso mite, fine studioso e autore di numerosi saggi, ha rappresentato un punto di riferimento ben oltre la durata del Suo Pontificato. Mancheranno l’esempio personale e religioso, lo spirito di servizio, la profonda umiltà. Anche a nome dei colleghi senatori desidero esprimere sentimenti di sincero e profondo cordoglio». Così il Presidente del Senato Ignazio La Russa, in un telegramma inviato a Papa Francesco per il tramite del Segretario di Stato della Santa Sede, Cardinale Pietro Parolin.

Ore 11:09 - Tajani: «Grande Papa e teologo, difese radici cristiane Europa»

«Sono profondamente addolorato per la scomparsa di Benedetto XVI. Grande Papa, grande teologo. Ne ho apprezzato gli insegnamenti e il modo di spiegare la Fede. Porterò sempre nel cuore le sue parole a difesa delle radici cristiane dell'Europa.». Così ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani.

Ore 11:10 - Gasparri (FI): «Ratzinger è stato guida certa e illuminata»

«Benedetto XVI ha rappresentato la guida certa e illuminata per la cristianità e il mondo. Ha difeso i valori non negoziabili. Ha rappresentato valori e coerenza. E lascia un insegnamento eterno». Così il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (FI).

Ore 11:12 - Lorenzo Fontana: «Unito a preghiera comunità cattolica»

«Esprimo profondo cordoglio per la scomparsa di Benedetto XVI. Un grande uomo, teologo e Papa. Mi unisco, in questo triste momento, alla preghiera di tutta la comunità cattolica». Così il presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana.

Ore 11:13 - Casini: «Innovatore che lascia impronta indelebile nella vita della Chiesa»

«La Provvidenza ci ha consentito di conoscere un grande uomo come Benedetto XVI a cui solo la storia saprà rendere pienamente l'onore che merita. Come ha giustamente evidenziato Papa Francesco, la sua è stata una testimonianza santa di amore alla Chiesa e all'umanità. A dispetto di troppi commenti superficiali, Joseph Ratzinger è stato anche un innovatore senza precedenti che lascerà un'impronta indelebile nella vita della Chiesa». Lo dice Pier Ferdinando Casini in una nota.

Ore 11:13 - Roccella: «Ha scommesso su risveglio Occidente»

«La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica». Con queste parole, scolpite in un'enciclica che a sua volta resterà scolpita nella storia (la «Caritas in Veritate»), Benedetto XVI ha affrescato la cifra del nostro tempo. È stato fra i primi, e purtroppo fra i pochi, a vedere nella manipolazione dell'umano il pericolo più insidioso per gli stessi diritti sociali. E al crocevia della storia ha scommesso sul risveglio di un Occidente minacciato dall'esterno e più ancora dall'interno, da una deriva nichilista. Una scommessa destinata ad esser vinta, nonostante tutto? È l'impegno che dovremmo assumere oggi, nel salutare con amore e tristezza la fine del viaggio terreno di un grande pensatore della nostra epoca difficile. Un uomo di fede, cuore e ragione che ha saputo affascinare anche i non credenti esortandoli a vivere «come se Dio ci fosse», cosicché «nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno». Lo afferma la ministra della Famiglia, delle Natalità e delle Pari Opportunità Eugenia Roccella in un post su Facebook sulla morte del Papa Emerito Benedetto XVI.

11:15 - Bernini: «Lascia un'immensa eredità di saggezza e fede»

«Benedetto XVI ha compiuto oggi l'ultima tappa del suo lungo e difficile pellegrinaggio in questa terra. Un cammino costellato da riflessioni profonde che rappresentano una immensa eredità di saggezza e fede. Il suo pensiero continuerà ad illuminare la via di tutti coloro che hanno trovato in Papa Benedetto XVI un faro. Con grande commozione e sincero rimpianto perdiamo una delle più autorevoli guide spirituali e intellettuali della storia della Chiesa contemporanea». Lo dichiara il ministro dell'Università e della ricerca Anna Maria Bernini.

Ore 11:29 - Scholz, il mondo perde «una figura eccezionale»

Il mondo perde «una figura eccezionale» della Chiesa cattolica: lo ha detto il cancelliere tedesco Olaf Scholz commentando la scomparsa di Benedetto XVI.

Ore 11:30 - Giorgia Meloni: «Un grande della storia che la storia non dimenticherà»

«Benedetto XVI è stato un gigante della fede e della ragione. Un uomo innamorato del Signore che ha messo la sua vita al servizio della Chiesa universale e ha parlato, e continuerà a parlare, al cuore e alla mente degli uomini con la profondità spirituale, culturale e intellettuale del suo Magistero. Un cristiano, un pastore, un teologo: un grande della storia che la storia non dimenticherà. Ho espresso al Santo Padre Francesco la partecipazione del Governo e mia personale al dolore suo e dell’intera comunità ecclesiale». Questo è il messaggio con cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ricorda Benedetto XVI nel giorno della sua morte.

Ore 11:54 - Ruini: «Benedetto è stato il Papa del rapporto tra fede e ragione»

(Virginia Piccolillo) Il cardinale Ruini ricorda in questa intervista Benedetto XVI: «Grande teologo e biblista. Sulla pedofilia ha subito attacchi assurdi. Non sapevo delle sue dimissioni, all’annuncio rimasi attonito e addolorato»

Joseph Aloisius Ratzinger non c’è più. Cardinale Camillo Ruini, che papa è stato Benedetto XVI?

«Il papa del rapporto tra fede e ragione, che ha compreso fino in fondo come questo sia il problema decisivo del Cristianesimo nel nostro tempo. Personalmente ha vissuto tutto ciò da autentico uomo di Dio».

Cosa intende?

«Quello che più colpiva di lui era quanto fosse penetrante il suo pensiero teologico e quanto, con la sua gentilezza estrema, riuscisse a non metterti mai in difficoltà».

Quando vi siete conosciuti?

«Nel ‘71. Io insegnavo nel seminario di Reggio Emilia e lui era professore di teologia a Regensburg. Lo invitai e lui venne per una lezione e una messa. Poi lo accompagnai a Canossa, che gli interessò moltissimo».

Ore 12:08 - Padre Georg e il rapporto con Benedetto XVI: è stato l’uomo più vicino al Papa emerito

(Massimo Franco) L’ultima apparizione pubblica ufficiale risale a poco meno di un anno fa. Era gennaio, e dalla Germania erano arrivate ondate di fango contro Benedetto. Lo accusavano di avere sottovalutato dei casi di pedofilia quando era arcivescovo di Monaco di Baviera. Dopo giorni di veleni e di tensioni toccò a lui, l’arcivescovo Georg Gaenswein, presentarsi nel ruolo di portavoce e scudo del Papa emerito. In piedi nel salottino al primo piano del Monastero dove viveva Benedetto, con un’espressione tirata ha letto davanti alle telecamere il testo col quale il Papa emerito respingeva le accuse e insieme ammetteva le responsabilità storiche della chiesa sugli abusi.

Ore 12:09 - Enrico Letta: «Tutti dobbiamo essergli riconoscenti»

«Con la scomparsa di Papa Benedetto XVI, Roma, l’Italia e il mondo intero perdono un protagonista assoluto. Un grande uomo di fede e di pensiero. Un innovatore. La sua scelta delle dimissioni cambierà per sempre la storia della Chiesa Cattolica. Tutti dobbiamo essergli riconoscenti». Così su Twitter il segretario Pd, Enrico Letta, ricorda il Papa emerito.

Ore 12:11 - Beppe Sala: «Mai schiavo del potere e dei suoi riti»

«Nel giorno della sua dipartita da questa terra, rendo omaggio al Papa teologo che ha ravvicinato la fede ai percorsi della nostra ragione e all'uomo che ha dimostrato di non essere mai schiavo del potere e dei suoi riti». Così il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha ricordato il pontefice emerito, Benedetto XVI nel giorno della sua morte, sulle sue pagine social.

Ore 12:14 - I funerali il 5 gennaio in Piazza San Pietro

I funerali del Papa emerito Benedetto XVI saranno celebrati giovedì 5 gennaio, alle 9.30, in Piazza San Pietro e saranno presieduto da papa Francesco. Lo ha riferito il direttore della Sala stampa vaticana, Matteo Bruni.

Ore 12:24 - Zaia: «Pontefice dal tratto molto umano»

«Conservo un bellissimo ricordo di Papa Benedetto XVI. In particolare quando, nel 2011, ho avuto modo di incontrarlo in occasione della sua visita pastorale a Venezia. Al di là dell'alta e indiscussa levatura teologica e del ruolo di capo della Chiesa cattolica, ho avuto modo di conoscerne e apprezzarne il tratto umano. È un Papa che resterà sempre nei nostri pensieri. Un Pontefice che ha avuto un impegno importante, raccogliendo l'eredità e l'affetto della gente di Papa Giovanni Paolo II, che è stato un'icona, in un pontificato durato oltre 26 anni. Joseph Ratzinger ha proseguito l'impegno di Papa Wojtyla, consapevole della grande figura del suo predecessore. Eredità che, poi, ha lasciato nelle mani di Papa Francesco, con un gesto non semplice, di grande coraggio e responsabilità». Così il Presidente della Regione Luca Zaia commenta la scomparsa del Papa emerito Benedetto XVI.

Ore 12:26 - Lupi: «Ha insegnato che la laicità politica è cercare giustizia»

«Ci vorranno anni per riprendere il magistero di Benedetto e capire fino in fondo la grandezza di questo Papa. L`ultimo grande teologo del Concilio Vaticano II che ci ha insegnato l`urgenza del rapporto tra fede e ragione e tra progresso e tradizione. Nella sua prima enciclica, parlando della carità, ci ha ricordato che il cristianesimo non è una serie di dottrine e di norme morali, ma l`avvenimento di un incontro con Dio fatto uomo e presente nella chiesa. A noi politici ha spiegato la vera laicità della politica che consiste nel perseguire la giustizia. In questo compito la religione non è un ostacolo, ma una risorsa preziosa per la ricchezza di umanità e di cultura che ha generato nella storia. Teniamo viva la memoria di questo grande uomo di pensiero, di fede e amante della libertà, come la sua vita ci ha testimoniato». Lo ha detto il capo politico di Noi Moderati Maurizio Lupi.

Ore 12:27 - Il cordoglio dei Vescovi europei: «Messo in luce il necessario ritorno a Cristo e al Vangelo»

Il Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa si unisce alle preghiere di tutto il mondo in suffragio dell'anima del Papa Emerito Benedetto XVI, deceduto oggi all'età di 95 anni. Il Presidente del Ccee, Mons. Gintaras Grušas, ricorda in particolare il «magistero europeo che Benedetto XVI ha sviluppato nel corso del suo pontificato, sottolineando l'importanza delle radici cristiane dell'Europa e mettendo in luce un necessario ritorno a Cristo e all'evangelizzazione per la costruzione di una civiltà dell'amore».

Ore 12:31 - Von der Leyen: «Benedetto aveva dato un segnale forte con le dimissioni»

Il Papa emerito Benedetto XVI aveva dato «un segnale forte» con le sue dimissioni. Lo ha scritto su Twitter la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. «La scomparsa di Papa Benedetto mi rattrista. La mia solidarietà va a tutti i cattolici. Con le sue dimissioni aveva dato un segnale forte. Si e' visto prima come un servitore di Dio e della sua Chiesa. Una volta che la sua forza fisica è diminuita, ha continuato a servire attraverso il potere delle sue preghiere», ha scritto von der Leyen.

Ore 12:33 - Calenda: «L'ultimo grande pensatore della Chiesa»

«Ultimo grande pensatore della Chiesa. Per me, ateo e liberale, Caritas in veritate è un testo moderno e profondo. La `libertà responsabile´, la tecnica non fine a se stessa ma subordinata all'etica come ricerca di giustizia e trascendenza. Da rileggere. Riposi in pace». Lo scrive su Twitter il leader di Azione Carlo Calenda.

Ore 12:36 - Bonaccini: «Parole importanti anche per non credenti»

«"Fate sì che l'amore unificante sia la vostra misura; l'amore durevole sia la vostra sfida; l'amore che si dona la vostra missione". Si è spento Benedetto XVI, Papa emerito. Da lui sono sempre arrivati importanti inviti alla riflessione e al pensiero, anche per chi non credeva». Così il presidente dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, ricorda Ratzinger. «Queste sue parole sono, oggi più che mai, profondamente necessarie. Le pronunciò in occasione della XIII giornata mondiale della gioventù, per ricordare ai ragazzi l'importanza di non abbandonarsi all'odio», continua.

Ore 12:39 - Bruni, portavoce della Santa Sede: «Il suo desiderio erano funerali nella semplicità»

«Assecondando il desiderio del Papa emerito, i suoi funerali si svolgeranno nel segno della semplicità. Saranno solenni ma sobri». Lo ha detto ai giornalisti il direttore della Sala stampa vaticana, Matteo Bruni. «La richiesta esplicita da parte del Papa emerito è che tutto fosse all'insegna della semplicità, per quanto riguarda i funerali, i riti, i gesti di questo tempo di dolore», ha aggiunto il portavoce della Santa Sede.

Ore 12:42 - Majorino: «Con le dimissioni compì un gesto rivoluzionario»

«Con Benedetto XVI scompare un Papa che ha compiuto il gesto più rivoluzionario e impensabile di sempre: le dimissioni da Pontefice». Così il candidato alla presidenza della Regione Lombardia per il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle, Pierfrancesco Majorino, ha ricordato il Papa emerito in una nota. «Un gesto compiuto per amore della Chiesa da lui guidata. È stato un uomo di cultura e di pensiero e in questo momento ricordo la sua visita a Milano e il suo primo incontro con i milanesi in Piazza Duomo. Mi unisco al dolore della comunità cattolica».

Ore 12:43 - Mattarella: «Un lutto per l'Italia»

«La morte del Papa emerito Benedetto XVI è un lutto per l'Italia. La sua dolcezza e la sua sapienza hanno beneficato la nostra comunità e l'intera comunità internazionale. Con dedizione ha continuato a servire la causa della sua Chiesa nella veste inedita di Papa emerito con umiltà e serenità. La sua figura rimane indimenticabile per il popolo italiano. Intellettuale e teologo ha interpretato con finezza le ragioni del dialogo, della pace, della dignità della persona, come interessi supremi delle religioni. Con gratitudine guardiamo alla sua testimonianza e al suo esempio». Lo dice il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Ore 12:47 - Unione Buddhista: «Attento al dialogo tra le religioni»

Unione Buddhista Italiana si unisce al dolore della Chiesa Cattolica italiana e universale per la dipartita di Papa Benedetto XVI. «Lo ricordiamo - scrivono - come uomo di profondo pensiero e ricerca teologica, attento al dialogo interreligioso. La sua statura di fine studioso si accompagnava alla sua mansuetudine. La sua rinuncia al trono pontificio fu un gesto che colpi l'intero mondo e la comunità dei credenti in qualsiasi fede».

Ore 12:48 - Crosetto: «È stato pontefice giusto e mite»

«Esprimo il mio più profondo dolore per la scomparsa del papa emerito Benedetto XVI. Illuminato e raffinato teologo, uomo di grande e vasta cultura, pontefice giusto e mite, ha scritto pagine fondamentali per la storia della Chiesa». Così il Ministro della Difesa, Guido Crosetto, in una nota. «La Sua testimonianza, il Suo pensiero, i Suoi insegnamenti continueranno a essere riferimento per tutti noi, nel segno della Verità e della Pace. A Lui la mia personale preghiera», ha concluso Crosetto.

Ore 12:51 - Patriarca Kirill: «Difensore dei valori tradizionali»

Il patriarca di Mosca, Kirill, ha reso omaggio al defunto Papa Emerito, Benedetto XVI, ricordando come sia stato un difensore «dei valori tradizionali».

Ore 12:52 - Boschi (Iv): «Esempio di dialogo e spiritualità»

«"Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente". Profondo dolore per la morte di Benedetto XVI, Papa Emerito, grande teologo e uomo di fede, esempio autentico di dialogo e spiritualità. Riposi in pace». Così su Twitter Maria Elena Boschi, deputata di Italia Viva.

Ore 12:53 - Salvini: «Grazie per pontificato illuminato e la speranza»

«Carissimo Papa Benedetto XVI, Ti ringraziamo per il tuo Pontificato Illuminato, per la Speranza che hai donato, per la Forza delle tue parole, per il Coraggio con cui hai difeso vita e radici. Preghiamo per Te, nella certezza che accompagnerai il nostro cammino». Lo scrive sui social il ministro delle Infrastrutture e vicepremier Matteo Salvini.

Ore 12:46 - Monsignor Paglia: «Tra teologi più autorevoli del Novecento»

«Ricordiamo il suo servizio "nella vigna del Signore", lo ricordiamo come una delle personalità teologiche più autorevoli del Novecento, costantemente impegnato a rendere la fede comprensibile e affidabile per l'uomo moderno». Così il presidente della Pontificia Accademia per la Vita «partecipa al dolore della Chiesa» per la morte del Papa Emerito Benedetto XVI. A nome di tutta l'accademia pontificia mons. Paglia ed il cancelliere mons. Renzo Pegoraro, hanno, quindi, aggiunto, «il Signore, Padrone della vita, che lui ha chiamato "amico e fratello, giudice buono", lo accoglie ora nella Sua casa».

Ore 13:00 - M5s: «Ha segnato la storia del cattolicesimo contemporaneo»

«A nome dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle esprimiamo profondo cordoglio per la morte di Joseph Ratzinger, Papa Emerito Benedetto XVI. La sua figura di teologo e di pontefice ha segnato la storia del cattolicesimo contemporaneo lasciando una testimonianza capace di andare oltre i confini della comunità della Chiesa». Così i capigruppo del Movimento 5 Stelle al Senato e alla Camera Barbara Floridia e Francesco Silvestri.

Ore 13:09 - Sanchez: «Benedetto un grande teologo al servizio degli altri»

Il Papa emerito Benedetto XVI è stato un brande teologo al servizio «degli altri, della giustizia e della pace». Così il presidente del governo spagnolo, Pedro Sanchez, ha commentato la scomparsa di Joseph Ratzinger. «Le mie più sentite condoglianze alla Chiesa Cattolica per la morte di Sua Santità Benedetto XVI. Un grande teologo dedito al servizio degli altri, della giustizia e della pace», ha scritto Sanchez su Twitter.

Ore 13:11 - Renzi: «Uomo di infinita intelligenza, buon viaggio»

«Un uomo di infinita intelligenza. Oggi dà del tu al Mistero. Buon viaggio Papa Benedetto». Lo scrive il leader di Iv Matteo Renzi, nella sua e-news.

Ore 13:13 - Cesa: «Profonda commozione, grande custode valori cristiani»

«Esprimo profonda commozione e cordoglio per la scomparsa del Papa Emerito Benedetto XVI. È stato un grande custode dei valori cristiani ed un punto di riferimento per tutti noi». Così il segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa.

 Ore 13:14 - Il premier francese Borne: «Benedetto uomo di pensiero e grande teologo»

Il Papa emerito Benedetto XVI era un uomo di pensiero e un grande teologo cristiano. Lo ha dichiarato la premier francese Eisabeth Borne: «È morto il Papa emerito Benedetto XVI. Saluto il suo impegno per tutta la vita. Era un uomo di pensiero e un grande teologo cristiano. I miei pensieri a tutti i cattolici in Francia e nel mondo», ha scritto Borne su Twitter.

Ore 13:15 - Putin: «Sviluppò legami fra la Chiesa Ortodossa e quella Cattolica»

Il presidente russo, Vladimir Putin, ha espresso le condoglianze a Papa Francesco per la morte di Benedetto XVI, osservando che nel corso del suo pontificato «si sono sviluppate le relazioni tra la Chiesa ortodossa russa e la Chiesa cattolica romana». Lo riporta Ria Novosti.

Ore 13:16 - Sarkozy: «Immenso teologo, ha sopportato con abnegazione crisi Chiesa»

«Il mio pensiero va subito ai cattolici del nostro Paese che hanno amato e soprattutto infinitamente rispettato questo Papa, l’ultimo ad aver riservato un viaggio apostolico in Francia e la cui azione pastorale sarà stata segnata dal desiderio di unione e riconciliazione tra i cristiani al di là di dibattiti teologici, lotte ideologiche e scismi. Questo immenso teologo, il cui pensiero e i cui scritti irrigheranno a lungo la vita della Chiesa, avrà sopportato anche con infinita abnegazione le crisi che scossero la Chiesa cattolica al tempo del suo pontificato ma le cui radici erano purtroppo molto più antiche». Ad affermarlo in una nota è l’ex presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy ricordando il Papa emerito Benedetto XVI.

Ore 13:19 - Rose e preghiere in piazza San Pietro

Due rose e un biglietto per ringraziarlo. Un rosa bianca, una rosa rossa e un biglietto per ringraziare Benedetto XVI. A poggiare l’omaggio nei pressi dell’obelisco in piazza San Pietro, è Cristiana, 52enne romana. Si raccoglie in preghiera per alcuni minuti e poi sollecitata risponde con ritrosia. «Sono sicura - spiega - Benedetto XVI diventerà santo, io amo tutti papi. Sono qui per dirgli grazie. Ho portato una rosa rossa perché simboleggia l’amore con cui Benedetto XVI ha guidato la Chiesa. La rosa bianca invece simboleggia l’amore di Maria che rappresenta l’umiltà di Benedetto XVI». Cristiana spiega che il suo amore per tutti i Papi: «Perché per noi cristiani sono sacri e rappresentano il vicario di Cristo in terra e il pastore che guida il suo gregge verso la luce dello Spirito Santo e di Dio».

Ore 14:03 - Dopo Joseph Ratzinger non vedremo più due Papi in Vaticano

(Aldo Cazzullo) «Dove vai? La Sistina è per di qua». L’espressione era dolce, ma il piglio deciso. Il decano del sacro collegio stava conducendo i cardinali nella Cappella dove avrebbero scelto il successore di Wojtyla. Uno di loro aveva sbagliato strada, e lui lo indirizzò sulla retta via, con garbo ma con fermezza. Da «pastore tedesco», come il Manifesto avrebbe titolato il giorno dopo la sua elezione, tra le meno contrastate della storia. Era l’aprile del 2005. Joseph Ratzinger aveva già 78 anni (li compì il 16, fu eletto il 19) ma era ancora un uomo intellettualmente forte, sicuro di sé.

Celebrò in latino la messa «pro eligendo Romano Pontifice», a memoria, senza mai guardare i libri sacri. Inforcò gli occhiali cerchiati d’oro solo per leggere la celebre omelia contro il relativismo. Qualcuno ne trasse la conclusione: «Ratzinger non vuole». L'articolo completo qui.

Ore 14:05 - Napolitano: «Grande figura della Chiesa e della cultura»

(Alessandro Vinci) Anche il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto rendere omaggio alla memoria di Benedetto XIV, morto sabato 31 dicembre a 95 anni nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano. L'ex capo dello Stato, da tempo astenutosi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche, lo ha fatto tramite una lettera di condoglianze indirizzata a Papa Francesco: «Appresa la notizia della scomparsa di Sua Santità Benedetto XVI – ha scritto al Pontefice –, desidero farLe pervenire le più sentite espressioni del mio profondo cordoglio e della mia partecipazione al dolore Suo e della Chiesa. Memorie e vincoli di stima e di rispettosa amicizia mi legavano a Sua Santità Benedetto XVI, sviluppatisi in particolare negli anni trascorsi come Presidente della Repubblica Italiana».

Ore 14:21 - Cardinal Marx: «Grande Papa, da lui franchezza e fede»

«Benedetto XVI è stato un grande Papa, che ha esercitato il suo incarico pastorale con franchezza e grande fede». Lo dice l’arcivescovo di Monaco e Frisinga, Reinhard Marx. «Come teologo ha plasmato la Chiesa a lungo e in modo duraturo», ha aggiunto sottolineando che Ratzinger sia «sempre rimasto umile e abbia sempre messo in primo piano il ruolo e non la sua persona». «Siamo profondamente grati per il suo impegno decennale, per la sua eccellente teologia e l’impressionante testimonianza di vita e di fede. La sua eredità continuerà ad avere effetti».

Ore 14:28 - Metsola: «Triste per la scomparsa del Papa emerito»

La presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, si è detta «triste nell’apprendere della scomparsa di Sua Santità Papa Emerito Benedetto XVI». «Non aver paura né del mondo, né del futuro, né della tua debolezza», ha scritto Metsola su Twitter citando una frase del Papa emerito. «L’Europa lo piange. Possa riposare in pace», ha concluso Metsola.

Ore 14:33 - Berlusconi: «Ricordo indelebile per noi credenti»

«La scomparsa di Sua Santità Benedetto XVI addolora i cristiani di tutto il mondo. La sua testimonianza di profonda spiritualità, di raffinata cultura, di serenità nella sofferenza, ha un valore universale. Per noi credenti rimarrà indelebile il ricordo di un pontificato di grande autorevolezza ed autentica carità». Così Silvio Berlusconi sui social. «Per me personalmente - riprende il leader FI - quello di un dialogo stretto e fecondo, in particolare negli anni dei miei governi, basato sul rispetto della distinzione fra Chiesa e Stato, ma anche sulla condivisione di valori fondamentali, come la tutela della vita, della pace, della giustizia, la costruzione di un’Europa consapevole delle sue forti radici cristiane». «In questo triste giorno ci uniamo in preghiera a Papa Francesco e a tutta la Chiesa Cattolica», conclude.

Ore 14:52 - Il capo dei vescovi tedeschi: «Grato a grande uomo Chiesa»

«Oggi è un giorno di lutto e di congedo. Ma per me interiormente è ancora di più un giorno di gratitudine e rispetto per un grande uomo della Chiesa». Lo dice il capo della Conferenza episcopale tedesca, Georg Baetzing, commemorando il pontefice emerito. «Benedetto era un teologo brillante. Come quasi nessun altro ha cercato a fondo di rendere chiara la fede alla gente», ha aggiunto, sottolineando l’influenza esercitata anche sui giovani studiosi di teologia.

Ore 14:54 - Il cardinal Zuppi, amava l’unità della Chiesa

«Il Papa emerito Benedetto aveva sempre detto che la vita non è un cerchio che si chiude, ma una linea che tende alla sua pienezza. Ringraziamo il Signore per il dono del suo pensiero, della chiarezza della sua fede, della semplicità con cui ha sempre vissuto e con cui ha comunicato le profondità del mistero di Dio». Così il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ricorda Joseph Ratzinger, sottolineando «l’onestà personale, l’attenzione e il rispetto per l’altro, l’amore per l’unità della Chiesa e perché quel Concilio, a cui tanto ha contribuito, venisse applicato».

Ore 14:56 - Le teorie sulle dimissioni di Benedetto XVI: tutto quello che sappiamo della scelta

(Gian Guido Vecchi) Lunedì 11 febbraio 2013, ore 11,41. «Fratres carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem…». I cardinali riuniti nella Sala Clementina impallidiscono. Erano lì con il Papa per la canonizzazione degli 813 martiri di Otranto uccisi dagli ottomani il 14 agosto 1480 e di altre due beate. Poi Benedetto XVI ha dispiegato due fogli e cominciato a leggere a fior di labbra, poco più di un sussurro nel silenzio assoluto.

Ore 15:11 - Musulmani italiani ricordano la levatura teologica di Ratzinger

I musulmani della Coreis (Comunità Religiosa Islamica) Italiana esprimono la loro «vicinanza e preghiera a tutti i fratelli e sorelle della Chiesa Cattolica per la scomparsa del Papa Emerito Benedetto XVI. Ricordiamo la sua levatura teologica che negli anni del suo pontificato ha dato l’occasione per un dibattito intellettuale tra cristiani e mondo islamico». «Ricordiamo inoltre la preghiera di Benedetto XVI nella Moschea Blu di Istanbul nel 2006». «Preghiamo che il suo anelito di Verità possa finalmente incontrare il suo Signore nella grande Pace», concludono i musulmani italiani.

Ore 15:40 - Piazza San Pietro chiusa, si attende il Te Deum

Piazza San Pietro è vuota come da programma per la celebrazione del Te Deum previsto per questo pomeriggio alle 17. Poco prima la polizia aveva fatto uscire dalla piazza fedeli e turisti. Il messaggio sui quattro megaschermi è cambiato, ora compare la scritta: «Per partecipare alle celebrazioni sono necessari i biglietti d’accesso rilasciati gratuitamente».

Ore 16:14 - Re Carlo ricorda «con dolore» Benedetto XVI «grande pacificatore»

(Enrica Roddolo) «Ho ricevuto la notizia della morte del vostro predecessore Benedetto XVI, con immenso dolore», scrive Carlo III a Papa Francesco. Ricordando con nostalgia i suoi incontri durante la visita in Vaticano nel 2009. E poi «la visita del Papa emerito Benedetto XVI nel 2010 nel Regno Unito così importanti nel rafforzare le relazioni tra la Santa Sede e il Regno Unito».

E ovviamente a Carlo che si è sempre definito un pacificatore non sfugge il ruolo di Papa Benedetto per «promuovere pace e prosperità fra le genti e per rafforzare i rapporti tra la Chiesa Anglicana e la Chiesa Cattolica». Per chiudere unendosi alla moglie per mandare i migliori auguri di buon pontificato a papa Francesco.

Ore 16:29 - L’edizione straordinaria dell’Osservatore Romano per l’addio a Benedetto XVI

Un numero monografico tutto dedicato a Benedetto XVI: è l’edizione straordinaria dell’Osservatore Romano. In prima pagina una grande fotografia del Papa emerito e i ricordi di Andrea Monda, direttore del quotidiano, ed Andrea Tornielli, direttore editoriale dei media vaticani. «Gentilezza, gioia e umiltà» il titolo dell’editoriale che apre lo speciale di 16 pagine dedicate tutte a Joseph Ratzinger.

Ore 16:56 - Bombardieri (Uil): «Il mondo perde un uomo del dialogo, attento ai problemi del lavoro»

«La Uil esprime profondo cordoglio per la morte del Papa emerito, Benedetto XVI. Lo ricordiamo, tra l’altro, per la sua attenzione ai problemi del lavoro, della precarietà e del sociale, espressi con grande profondità d’analisi nella sua lettera Enciclica Caritas in veritate. Il mondo intero perde un uomo del dialogo e un grande teologo che ha segnato la storia della Chiesa e del nostro tempo”. Così in una nota il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri.

Ore 17:07 - Il messaggio di cordoglio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

La notizia della morte di Benedetto XVI ha commosso «profondamente» la comunità dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Lo ha fatto sapere il Rettore Franco Anelli, che ha diffuso in una nota il messaggio di cordoglio dell’Università. «Fine studioso e membro a pieno titolo dell’accademia, nella sua accezione più alta, il teologo Joseph Ratzinger ha pronunciato parole illuminanti a proposito della missione alla quale è chiamata un’Università Cattolica», si legge nella nota, che poi cita l’esortazione che Benedetto XVI aveva rivolto nel discorso tenuto presso il campus romano dell’Ateneo in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2005-2006: «Con rinnovata passione per la verità e per l’uomo gettate le reti al largo, nell’alto mare del sapere, confidando nella parola di Cristo, anche quando succede di sperimentare la fatica e la delusione del non avere “pescato” nulla. Nel vasto mare della cultura Cristo ha sempre bisogno di “pescatori di uomini”, cioè di persone di coscienza e ben preparate che mettano le loro competenze professionali al servizio del Regno di Dio». «Benedetto XVI è stato una guida sicura per il cammino dell’Ateneo», prosegue il messaggio del rettore Anelli, che elogia la «visione armonica della conoscenza e dell’esistenza» del Papa Emerito: «Un’eredità preziosa, che tutta l’Università Cattolica del Sacro Cuore si impegna a onorare come segno di devozione e di gratitudine nei confronti del Papa Emerito».

Ore 17:21 - Il Te Deum di Papa Francesco: «Gratitudine a Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo»

(Gian Guido Vecchi) I Vespri di fine anno nella solennità di Maria, la riflessione intorno al fatto che «Dio non è nato “in” una donna ma “da” una donna», perché «non l’ha usata ma ha chiesto il suo “sì”, il suo consenso», la via divina del rispetto e della gentilezza. «E parlando della gentilezza, in questo momento, il pensiero va spontaneamente al carissimo Papa emerito Benedetto XVI, che questa mattina ci ha lasciato». Francesco celebra nella Basilica di San Pietro e sono le prime parole che il Papa dedica al predecessore. «Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile, così gentile», dice. «E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata».

In questi nove anni avevano avuto modo di conoscersi ancora più a fondo, ancora pochi giorni fa Francesco aveva parlato di Benedetto come di un «santo», ora alza lo sguardo e sillaba: «Solo Dio conosce il valore e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della Chiesa». Mercoledì mattina era stato Francesco a rivelare al mondo l’aggravarsi delle condizioni di Ratzinger, «vorrei chiedere a voi tutti una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa», aveva detto: «Ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine».

E ora, per la prima volta nella storia, i funerali di un pontefice saranno celebrati dal successore. Le spoglie del Papa emerito, fa sapere la Santa Sede, «riposeranno presso il Monastero Mater Ecclesiae fino alla prima mattina di lunedì 2 gennaio: non sono previste visite ufficiali o preghiere pubbliche». Dalle 9 di lunedì la salma verrà esposta per la visita dei fedeli nella Basilica di San Pietro, dalle 9 alle 19, martedì e mercoledì dalle 7 alle 19. I funerali verranno celebrati in piazza San Pietro giovedì 5 gennaio alle ore 9.30, per la partecipazione non sono previsti biglietti. Le delegazioni ufficiali presenti saranno quelle della Germania e dell’Italia.

Ore 18:26 - Biden ricorda Benedetto XVI

Il presidente americano Joe Biden ha ricordato Benedetto XVI, «rinomato teologo», sottolineando di aver avuto «il privilegio» di conoscerlo in occasione della sua visita in Vaticano nel 2011. «Io e Jill ci uniamo ai cattolici di tutto il mondo, e a tanti altri, nel lutto per la scomparsa del Papa emerito Benedetto XVI. Ho avuto il privilegio di trascorrere del tempo con Papa Benedetto in Vaticano nel 2011 e ricorderò sempre la sua generosità e la sua ospitalità, così come la nostra importante conversazione», ha dichiarato Biden nella nota diffusa dalla Casa Bianca.

 Ore 18:55 - In Costa Rica quattro giorni di lutto nazionale per la morte del Papa Emerito

Il governo costaricano ha decretato quattro giorni di lutto nazionale per la morte del Papa emerito Benedetto XVI. La Casa Presidenziale ha indicato in un comunicato stampa che questo periodo obbedisce a un lutto di cortesia, per colui che era la massima autorità della religione dello Stato costaricano. «Pertanto, si ordina di esporre la bandiera a mezz’asta a partire dal 31 dicembre, in conformità con l’articolo 75 della Costituzione».

BIOGRAFIA DI BENEDETTO XVI

Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Benedetto XVI (Joseph Aloisius Ratzinger), nato a Marktl (Baviera, Germania) il 16 aprile 1927. Papa (regnante dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013; da allora, emerito). «Per me la bontà implica anche la capacità di dire “no”, perché una bontà che “lascia correre” in tutto non fa bene all’altro». 

«Liebfrauenbote, il messaggero delle donne amorevoli, si chiamava il giornale cattolico di Altötting. Era il 7 marzo del 1920 quando Joseph Ratzinger senior (1877-1959), ex ufficiale del 16mo reggimento bavarese dell’esercito imperiale, all’epoca gendarme, vi pubblicò il primo inserto. “Dipendente pubblico di basso rango, celibe, cattolico, 43 anni, cerca scopo matrimonio brava ragazza cattolica, che sappia cucinare, cucire, gestire famiglia. Auspicabile buona situazione patrimoniale”. Inserzione numero 734. Non ebbe risposte.

Quattro mesi dopo, l’11 luglio, Joseph, nel frattempo promosso di grado, pubblicò un secondo annuncio con lo stesso numero. Si descrisse come “dipendente pubblico di medio rango”. Vantò il “passato senza macchie”, precisò che la buona situazione patrimoniale della futura sposa era “auspicio, non condizione”. Rispose una giovane cuoca, Maria Peintner (1884-1963). I due s’incontrarono, si piacquero. Ratzinger senior inoltrò la necessaria richiesta di permesso di nozze, e il 9 novembre 1920, a Pleiskirchen presso Altötting, Joseph e Maria si sposarono» (Andrea Tarquini).

«C’è all’origine della sua storia una cattolicissima famiglia bavarese. Una madre molto affettiva, un fratello che si farà prete e diventerà direttore dei celeberrimi Piccoli cantori di Ratisbona, una sorella a lui molto cara. Il padre è gendarme. Ma non ci si immagini un personaggio autoritario che impone il marchio al figlio. Commissario di gendarmeria di provincia, è certamente severo, ma gli ripugna il regime nazista, guarda con ammirazione alla Francia e preferisce lo spirito della piccola patria bavarese alla freddezza prussiana e alla satanica fame di potere hitleriana» (Marco Politi).

«Anche il piccolo e gracile Joseph, nato la notte del Sabato Santo del 1927, imparò presto a detestare i nazisti e i loro riti pagani. Anche perché, nel seminario in cui entrò ad appena 12 anni, in ossequio alle moderne liturgie del Reich gli alunni erano costretti a due ore di attività sportive ogni giorno. “Per me, fisicamente inferiore a tutti i miei compagni, era una vera tortura”, ricorderà il temuto “cardinale di acciaio”» (Lucio Brunelli). 

Ha raccontato il fratello Georg (classe 1924), intervistato da Marco Ansaldo: «Era un ottimo studente. Una volta nostra madre mi disse che era tra i primi tre del liceo, e solo perché in ginnastica e disegno non aveva voti eccellenti. Ma nelle materie scientifiche era sempre il migliore. Gli piacevano gli orsi di pezza. Nel 1928 a Marktl am Inn, il nostro paese, si era innamorato di un peluche che stava in vetrina. Poi lo aveva avuto in regalo a Natale. Era davvero affezionato a quei pupazzi. L’orso di san Corbiniano usato nel suo stemma è diventato il simbolo del suo cammino».

«Trascorsa l’adolescenza a Traunstein, negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale fu arruolato a 15 anni nei servizi ausiliari antiaerei, mentre era iscritto d’ufficio alla Gioventù hitleriana, seguendo la sorte di tutti i giovani studenti tedeschi. Durante il regime hitleriano fu testimone dell’arresto di un suo cugino down da parte dei nazisti: il ragazzo fu internato in un campo di concentramento e non fece mai più ritorno in famiglia» (Orazio La Rocca). 

«La guerra lo coglie poco più che adolescente, e lo obbliga comunque a vestire, sia pure per poco, l’uniforme; lo mandano a fare il servente in una batteria contraerea, e poi lo mettono a lavorare ai telefoni di un centralino. Una breve parentesi, e poi riprende a studiare: filosofia e teologia nell’Università di Monaco, e alla scuola superiore di Frisinga» (Marco Tosatti).

•  «Quando fu ordinato sacerdote, il 29 giugno 1951, nel momento in cui il cardinale Faulhaber gli imponeva le mani, un’allodola si levò in volo dall’altare maggiore della cattedrale di Frisinga e intonò quello che a don Joseph apparve un piccolo canto gioioso. “Per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta”. Ha fatto il viceparroco, a Monaco di Baviera, per un anno. Ma non era quella del curatore d’anime la strada giusta. 

Gli piaceva molto di più studiare, indagare le grandi verità cattoliche, messe a dura prova dal razionalismo. Intraprende la carriera accademica, e presto si afferma come uno dei più promettenti e preparati teologi del rinnovamento conciliare. Si immerge nella lettura dei Padri della Chiesa: sant’Agostino, sant’Ireneo, snobbando (ed era quasi eresia a quel tempo) la neoscolastica tomista. Si batte per restituire alla Rivelazione il suo carattere storico di azione divina, di contro alla sua cristallizzazione nella sola Parola. Dinamite teologica, roba da far sobbalzare sulle loro polverose cattedre i professoroni delle università pontificie romane» (Brunelli).

«Libero docente di Teologia all’età di trentadue anni, insegna Dogmatica e Teologia a Frisinga, passando poi a Bonn, Münster e Tubinga. Lezioni e libri sarebbero stati il suo destino se nel 1962 l’arcivescovo di Colonia cardinale Frings non l’avesse portato con sé a Roma come consulente per il concilio Vaticano II. È la stagione "rivoluzionaria" di Ratzinger. Hans Küng è suo maestro, Karl Rahner suo compagno di impegno. I due appartengono alla prima linea della teologia critica e fanno parte di quel drappello internazionale di teologi che forniscono all’episcopato tedesco, francese, belga e olandese (che in Italia trova un’eco negli arcivescovi Montini e Lercaro) le munizioni intellettuali e dottrinali per rovesciare l’impostazione conservatrice dei documenti conciliari preparatori, redatti dalla Curia vaticana, e spingere il concilio nel mare aperto delle riforme.

Sono gli anni in cui rimprovererà alla gerarchia ecclesiastica di agire con "le redini tirate e con troppe leggi". Qualche anno dopo, Ratzinger frenerà. Spaventato dal riformismo radicale dei teologi innovatori, e anche sotto lo shock dell’estremismo studentesco cristiano del ’68, che nelle università tedesche attacca violentemente la religione come puntello delle ingiustizie capitaliste. Il prete professore non dimenticherà mai l’effetto sconvolgente prodotto dalla vista di un volantino, che proclama "Maledetto Gesù". Risale a quegli anni la diffidenza radicata verso ogni forma di marxismo. 

Gli anni Settanta lo vedono molto critico nei confronti di ciò che chiama "lo spirito negativo del concilio", i cambiamenti che non condivide, gli esiti di "declino" che gli pare di intravedere nella vita della Chiesa. Ratzinger critica la decisione di abolire la messa tridentina e la riforma liturgica che mette l’altare al centro dell’assemblea con il sacerdote rivolto ai fedeli. Nel vecchio modello, spiega, tutti guardavano verso Cristo, il sole che sorge. Adesso, protesta, la mensa eucaristica è incentrata sul prete e la gente.

In questo clima di contrapposizione al movimento postconciliare, Ratzinger fonda insieme al famoso teologo De Lubac e con l’appoggio di don Giussani, leader di Comunione e liberazione, la rivista Communio, contraltare alla rivista dei riformatori Concilium. Piace a Paolo VI questo teologo, protagonista del concilio e avversario delle sue derive più radicali. Così papa Montini, a sorpresa, lo promuove alla cattedra vescovile di Monaco di Baviera e gli impone la berretta cardinalizia. È il 1977.

Un anno dopo, Ratzinger sarà tra i grandi elettori, che fanno pontefice l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla. Alla vigilia del conclave il cardinale teologo mette in guardia in una lunga intervista dal pericolo che il marxismo nella sua versione eurocomunista possa in qualche modo influenzare le scelte della Chiesa. Tre anni dopo, Giovanni Paolo II lo chiama in Vaticano all’incarico più importante – dopo quello di Papa – nella Curia romana: capo dell’ex Sant’Uffizio, ovvero (secondo la nuova terminologia) prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

Tra Wojtyla e Ratzinger si crea un legame fortissimo, un rapporto di stima e di affetto profondo al punto che negli ultimi anni Giovanni Paolo II respingerà sistematicamente le richieste di Ratzinger di ritirarsi in pensione. Per Giovanni Paolo II il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede è il baluardo della dottrina di cui può fidarsi senza esitazione. Wojtyla viaggia e inventa gesti profetici, e intanto in Vaticano il porporato tedesco gli sgombra il campo di tutti i teologi critici, da Schillebeeckxs a Boff a Curran, a tanti altri allontanati dalle cattedre delle università cattoliche o privati del diritto di pubblicare libri e tenere conferenze. 

Nel corso degli anni il cardinale combatte sistematicamente la teologia della liberazione, accusandola di subordinazione al marxismo, sferra un duro attacco ai regimi dell’Est definendoli "vergogna del nostro tempo", pronuncia tutti i veti che Giovanni Paolo II ritiene necessari per mantenere l’ordine nella Chiesa cattolica. “No” al sacerdozio delle donne, “no” ai preti sposati, “no” ad un ruolo eccessivo dei laici nella gestione delle comunità cristiane, “no” alle coppie omosessuali.

Per papa Wojtyla, che usa un linguaggio meno aggressivo, il cardinale è un partner perfetto nella grande partita contro il socialismo reale e, in America latina, contro i movimenti cristiani rivoluzionari o semplicemente di sinistra. Sul piano interno Ratzinger realizza per il pontefice polacco l’obiettivo di restaurare una severa linea dottrinale attraverso la redazione di un Catechismo universale, destinato a servire per imprimatur papale come base di qualsiasi catechismo nazionale. Qualunque cosa facciano gli episcopati del mondo in campo dottrinale, catechetico o liturgico, interviene a controllare il prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede» (Politi). 

«Supremo custode del dogma, […] esercita un potere che non ha precedenti nella storia. Prima di lui i capi del Sant’Uffizio rispondevano a quesiti su singoli casi dottrinali, inquisivano i teologi fuori linea. Ratzinger fa questo e molto di più. Emette documenti dottrinali che spettano di regola al papa. Scrive encicliche, cioè lettere circolari ai vescovi di tutto il mondo, altra tipica prerogativa papale. […]

Il pronunciamento dogmatico più clamoroso a firma di Ratzinger è stata la dichiarazione Dominus Iesus del 6 agosto 2000, sulla fede in Cristo come unica, insostituibile via di salvezza per ciascun uomo. Scatenò una tempesta di critiche anche da parte di cardinali e arcivescovi di gran nome, da Carlo Maria Martini a Edward Cassidy, da Karl Lehmann a Walter Kasper, convinti che il Papa sarebbe poi intervenuto a smussare e mediare. Avvenne il contrario. Giovanni Paolo II coprì integralmente Ratzinger con la sua autorità. Disse che la Dominus Iesus era stata da lui “voluta e approvata in forma speciale”. Da allora il potere di Ratzinger è stato in costante crescendo. Quando nel 2002 compì 75 anni, invece che congedarlo il Papa lo riconfermò senza limiti di tempo» (Sandro Magister).

Alla morte di Giovanni Paolo II (2 aprile 2005), fu Ratzinger, in qualità di decano del Sacro collegio cardinalizio, a celebrarne le esequie, e pochi giorni dopo, il 19 aprile 2005, fu Ratzinger a essere eletto suo successore, assumendo il nome pontificale di Benedetto XVI. 

«Eletto dopo un conclave-lampo durato meno di un giorno, il settantottenne Joseph Ratzinger aveva fin dall’inizio messo in chiaro che il suo stile sarebbe stato – a motivo dell’età e della sua formazione – diverso da quello del predecessore. Il nuovo Papa non aveva voluto presentare “programmi di governo”, perché “il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia”.

Inizialmente impacciato e schivo, Ratzinger si era presto calato nei panni del Papa itinerante. […] Come nel viaggio in Polonia del maggio 2006, concluso con la visita ad Auschwitz: “Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – disse –, ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: ‘Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?’”.

Il 2006 è anche l’anno del primo incidente internazionale. Ratzinger ama parlare del rapporto tra fede e ragione, e durante il viaggio in Baviera veste nuovamente i panni del professore. Tiene una lezione nella sua vecchia università, a Ratisbona, e un’antica citazione su Maometto, che il Pontefice non aveva fatto propria, viene rilanciata in tutto il mondo e accende la protesta del mondo islamico. Da allora Benedetto XVI moltiplicherà i segni di attenzione verso i musulmani, e ribadirà l’amicizia e il rispetto verso l’islam. Anche se da cardinale era spesso stato bollato come “Panzerkardinal”, come l’anima conservatrice di Wojtyla, Ratzinger da papa parla in continuazione della “gioia dell’essere cristiani”, e dedica la sua prima enciclica all’amore di Dio, Deus caritas est.

• “All’inizio dell’essere cristiano – scrive – non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione definitiva”. Il Papa teologo prima di diventare successore di Giovanni Paolo II sognava di potersi ritirare, lasciare il lavoro nella curia romana per scrivere un libro su Gesù di Nazareth.

E così, nonostante il nuovo incarico, Ratzinger dedica ogni momento libero, specie le vacanze, alla scrittura del libro, un’opera unica in tre tomi, usciti nel 2007, 2011 e 2012. A questi tre si aggiunge anche il libro-intervista con Peter Seewald, Luce del mondo, il testo migliore per conoscere davvero chi sia Joseph Ratzinger. Benedetto XVI affronta viaggi difficili, si confronta con la secolarizzazione galoppante delle società scristianizzate e il dissenso interno alla Chiesa. Celebra il suo compleanno alla Casa Bianca, insieme a George Bush, e qualche giorno dopo, il 20 aprile 2008, prega a Ground Zero abbracciando i parenti delle vittime degli attentati dell’11 settembre. Un’altra grave crisi è quella che arriva nel gennaio 2009.

Il Papa decide di revocare la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Tra questi c’è anche Richard Williamson, che in un’intervista tv di qualche mese prima aveva negato l’esistenza delle camere a gas. Esplodono le polemiche nel mondo ebraico, il Papa si sente solo e di fronte all’evidente débâcle della macchina curiale dei collaboratori prende carta e penna e scrive ai vescovi di tutto il mondo assumendosi ogni responsabilità. Un tempo succedeva che i collaboratori della curia facessero da scudo al Papa. Con Ratzinger accade esattamente l’inverso. Un anno dopo riesplode lo scandalo pedofilia, vengono pubblicati documenti su vecchi casi insabbiati, dagli Usa alla Germania. 

C’è persino chi vorrebbe portare il Pontefice in tribunale a rispondere dei reati commessi dai sacerdoti. Benedetto XVI affronta la crisi di petto, senza sconti, modificando le regole e chiedendo alla Curia e ai vescovi del mondo di cambiare mentalità. Come esempio personale, in ogni viaggio incontra delle vittime dei preti pedofili. E durante il volo verso il Portogallo del maggio 2010 arriva a dire che la persecuzione più grave per la Chiesa non arriva dai suoi nemici esterni, ma dal peccato dentro la Chiesa.

Alcune sue iniziative di apertura e riappacificazione per l’unità della Chiesa non vengono capite e non ottengono risposte positive, come quella di liberalizzare la messa antica preconciliare e di avviare un dialogo con i lefebvriani. L’ultimo anno è segnato dalla fuga dei documenti riservati, i “vatileaks”, che fanno emergere tensioni interne ai palazzi vaticani e denunce di episodi di corruzione. Benedetto XVI si mostra sereno, difende a spada tratta i collaboratori, in primis il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, oggetto di attacchi sempre più frequenti. Fa celebrare il processo contro il suo maggiordomo Paolo Gabriele, reo confesso di aver copiato e diffuso le carte. Ma prima di Natale lo va a trovare in carcere e gli concede la grazia.

 Nonostante avesse cominciato a celebrare l’Anno della Fede per il cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, e avesse confermato la sua presenza alla […] Gmg di Rio de Janeiro, il Papa che ha come sua priorità l’annuncio evangelico nella sua essenzialità lascia perché è stanco» (Andrea Tornielli). 

L’11 febbraio 2013, infatti, nel corso di un concistoro Benedetto XVI annunciò (in latino): «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice».

Nello smarrimento generale, dopo aver scelto per sé il titolo di «Papa emerito», nel pomeriggio del 28 febbraio 2013 Benedetto XVI lasciò in elicottero il Palazzo Apostolico raggiungendo la residenza pontificia di Castel Gandolfo, per poi trasferirsi definitivamente, il 2 maggio successivo, presso il monastero Mater Ecclesiae, ubicato all’interno dei Giardini Vaticani. 

«Dalla salita sul monte annunciata nell’inverno del 2013, Benedetto XVI non è rimasto nascosto al mondo. Ha continuato a ricevere visite, a scrivere – soprattutto interventi per libri di apprezzati collaboratori – e, suo malgrado, a far discutere» (Matteo Matzuzzi). 

Tuttora estremamente lucido pur nel naturale scemare delle forze fisiche, papa Ratzinger interviene saltuariamente con alcuni preziosi contributi, spesso strumentalizzati a fini polemici tanto dai suoi indefessi detrattori quanto da alcuni estimatori talvolta troppo zelanti: particolare clamore ha destato da ultimo, nell’aprile 2019, un suo articolo in cui, coerentemente a quanto sempre sostenuto, ha individuato la causa più profonda dei numerosi episodi di pedofilia verificatisi in ambito ecclesiastico nella degenerazione morale innescata dalla «Rivoluzione del 1968», e riverberatasi anche tra le file del clero

«Da romano pontefice ha lanciato una vera e propria sfida a quella che egli stesso ha chiamato “dittatura del relativismo”: quel clima culturale che vuole negare alla ragione umana la possibilità di conoscere verità universali. Per Benedetto XVI si tratta dell’ultima grande dittatura, dopo la disfatta del nazismo e il crollo del comunismo. […] Al secolarismo aggressivo, il quale ribatteva sostenendo che la pretesa veritativa fosse fonte di fondamentalismi illiberali, Ratzinger ha opposto una fede in rapporto costante con la ragione, dove l’una cura l’altra dalle rispettive patologie del razionalismo e dell’integralismo. […]

Non è un caso che proprio attorno a Ratzinger abbiano fatto quadrato molti non credenti, accogliendo la sfida ratzingeriana a “vivere come se Dio esistesse” e a lottare contro l’apostasia dell’Occidente da sé stesso. Scriverà a Marcello Pera nel 2004: “C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere”» (Benedetto Delle Site)

Grande passione per la musica classica, in particolare per Mozart, che ama suonare al pianoforte, e per la musica sacra, il cui impiego in ambito liturgico ha spesso sollecitato • Grande amore per i gatti, ai quali si rivolge talvolta in dialetto bavarese e per i quali ha fatto allestire un piccolo rifugio all’interno dei Giardini Vaticani 

«Adoro Ratzinger, non solo perché è un uomo colto e intelligente, ma perché è un uomo con le palle. L’unico, ad esempio, che in Vaticano prese chiara posizione contro i preti pedofili degli Stati Uniti. E l’unico, si sa, che difende l’Occidente. Infatti di lui mi piace tutto. Anche la sua faccia e la sua buffa voce da nonna benevola ma pronta a tirare schiaffi» (Oriana Fallaci)

«Da uno studio di Stefano Violi, stimato docente di diritto canonico presso le facoltà di Teologia di Bologna e di Lugano, […] si scopre […] che Benedetto XVI non ha inteso rinunciare al munus Petrinus, all’ufficio, al compito, cioè, che il Cristo stesso attribuì al capo degli apostoli e che è stato tramandato ai suoi successori. Il Papa ha inteso rinunciare solo al ministerium, cioè all’esercizio, all’amministrazione concreta di quell’ufficio. […] Ecco, dunque, il perché della scelta, inattesa e inedita, di farsi chiamare “Papa emerito”. Un vescovo resta vescovo quando l’età o la malattia gli impongono di lasciare il governo della sua diocesi e si ritira a pregare per essa. Tanto più il vescovo di Roma, al quale il munus, l’ufficio, il compito di Pietro è stato conferito una volta per tutte, per l’eternità intera, dallo Spirito Santo, servendosi dei cardinali in conclave solo come strumenti. 

Ecco anche il perché della decisione di non abbandonare l’abito bianco, pur privato dei segni del governo attivo. Ecco il perché della volontà di stare accanto alle reliquie del Capo degli apostoli, venerate nella grande basilica. Per dirla con il professor Violi: “Benedetto XVI si è spogliato di tutte le potestà di governo e di comando inerenti il suo ufficio, senza però abbandonare il servizio alla Chiesa: questo continua, mediante l’esercizio della dimensione spirituale del munus pontificale affidatogli. A questo, non ha inteso rinunciare. Ha rinunciato non al compito, che non è revocabile, bensì alla sua esecuzione concreta”. […]

Per la prima volta, dunque, la Chiesa avrebbe davvero due Papi, il regnante e l’emerito? Pare proprio che questa sia stata la volontà di Joseph Ratzinger stesso, con quella rinuncia al solo servizio attivo che è stato “un atto solenne del suo magistero”, per dirla con il canonista. Se davvero è cosi, tanto meglio per la Chiesa: è un dono che ci sia, uno accanto all’altro anche fisicamente, chi dirige e insegna e chi prega e soffre, per tutti, ma anzitutto per sorreggere il confratello nell’ufficio pontificale quotidiano» (Vittorio Messori)

«Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro» (Benedetto XVI durante la sua ultima udienza generale, in piazza San Pietro, il 27 febbraio 2013).

Papa Benedetto XVI. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Papa Benedetto XVI, in latino: Benedictus PP. XVI, in tedesco: Benedikt XVI; nato Joseph Aloisius Ratzinger (Marktl, 16 aprile 1927 – Città del Vaticano, 31 dicembre 2022), è stato il 265º papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma, 7º sovrano dello Stato della Città del Vaticano, primate d'Italia, oltre agli altri titoli propri del romano pontefice, dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013. Settimo pontefice tedesco nella storia della Chiesa cattolica, Benedetto XVI ha tuttavia rinunciato al titolo di patriarca d'Occidente impiegato dai suoi predecessori.

Affermato professore di teologia, partecipò al Concilio Vaticano II e successivamente prese parte attiva alle riviste Concilium e Communio, della quale fu tra i fondatori. Nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e creato cardinale da papa Paolo VI nel 1977, durante il pontificato di Giovanni Paolo II fu tra i suoi più stretti collaboratori, essendo stato chiamato a reggere la Congregazione per la dottrina della fede dal 1981 al 2005. Decano del collegio cardinalizio dal 2002, con il conclave del 2005 succedette a papa Giovanni Paolo II.

Nel concistoro ordinario dell'11 febbraio 2013 annunciò la rinuncia «al ministero di vescovo di Roma, successore di san Pietro», con decorrenza della sede vacante il 28 dello stesso mese. È stato l'ottavo pontefice a rinunciare al ministero petrino, se si considerano unicamente i casi dei papi di cui si hanno fonti storiche certe o molto attendibili: Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V e Gregorio XII. Al soglio pontificio gli è succeduto papa Francesco, eletto il 13 marzo 2013.

Dopo le dimissioni, il suo titolo è diventato sommo pontefice emerito o papa emerito, mentre il suo trattamento è rimasto quello di Sua Santità.

Joseph Aloisius Ratzinger nacque il 16 aprile 1927, sabato santo, nella casa dei genitori a Marktl, in Baviera, presso il numero 11 di Schulstrasse, e fu battezzato lo stesso giorno. Era il terzo figlio, il minore, di Maria Rieger (1884-1963) e Joseph Ratzinger senior (1877-1959); prima di lui, nacquero Maria (1921-1991) e Georg (1924-2020).

Il padre era commissario di gendarmeria e proveniva da una modesta famiglia di agricoltori della diocesi di Passavia, nella Bassa Baviera. Servì sia la Landespolizei sia la Ordnungspolizei prima di ritirarsi nel 1937 nella città di Traunstein. Fu descritto come un antinazista che, in resistenza alle camicie brune di Hitler, fece trasferire la sua famiglia diverse volte. La madre era figlia di artigiani di Rimsting, paese sito sulle rive del lago Chiem, in Baviera. Prima di sposarsi, aveva lavorato come cuoca in diversi alberghi. Come la bisnonna, anche la nonna materna, Maria Tauber-Peintner, era nata a Rasa il 29 giugno 1855, paesino altoatesino appartenente al comune di Naz-Sciaves nei pressi di Bressanone, che allora si trovava nell'Impero austriaco, mentre dal 1919 è in territorio italiano.

Il fratello Georg disse del padre: "Era un acerrimo nemico del nazismo perché credeva che fosse in conflitto con la nostra fede". La famiglia Ratzinger conobbe inoltre da vicino l'orrore del programma di eutanasia dei portatori di handicap del regime nazista. Fu lo stesso cardinale Ratzinger a raccontarlo in una conferenza del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari in Vaticano, il 28 novembre 1996, e John Allen, biografo di Ratzinger, scrisse di quella vicenda: «Ratzinger aveva un cugino affetto dalla sindrome di Down, che nel 1941 aveva 14 anni. Questo cugino era solo pochi mesi più giovane di Ratzinger e fu portato via dalle autorità naziste per una "terapia". Non molto tempo dopo la famiglia ricevette la notizia che era morto, presumibilmente fu ritenuto uno degli "indesiderabili" di quel periodo e fu eliminato». La loro sorella Maria non si sposò mai e fece la promessa ai genitori di prendersi cura dei suoi fratelli. Morì nel 1991, realizzando quella promessa. Il loro prozio Georg Ratzinger fu invece un presbitero e membro del Reichstag, cioè del parlamento tedesco.

Nel 1939, all'età di dodici anni, si iscrisse al seminario minore di Traunstein, in cui rimase fino al 1942, anno in cui il seminario fu chiuso per uso militare e gli studenti furono mandati a casa. Tornò allora al Gymnasium di Traunstein. Dopo i quattordici anni, nel 1941, Ratzinger fu iscritto nella Gioventù hitleriana, come previsto dalla legge Gesetz über die Hitlerjugend (Legge sulla gioventù hitleriana), emendata il 6 marzo 1939 e in vigore dal 25 marzo 1939 fino al 1945, che obbligava tutti i giovani di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni ad arruolarvisi. Dopo la chiusura del seminario continuò le sue presenze obbligatorie alla Gioventù hitleriana contro la sua volontà, per non ricevere sanzioni pecuniarie sulle tasse scolastiche del Gymnasium. Le sanzioni pecuniarie furono evitate grazie a un professore di matematica comprensivo, che gli permise di non partecipare alle riunioni. Nel libro Sale della terra, Ratzinger disse: "Grazie a Dio a scuola c'era un insegnante di matematica molto comprensivo. Era personalmente nazista, ma una persona onesta. Un giorno mi disse: «Vacci almeno una volta, così saremo a posto». Quando però si accorse che io non volevo, mi disse: «Ti capisco, sistemerò io la faccenda»".

Il servizio militare

All'età di sedici anni, nel 1943, il giovane Joseph venne assegnato al programma Luftwaffenhelfer (personale di supporto alla Luftwaffe), insieme a molti suoi compagni di classe. Dapprima fu inviato con la sua unità a Ludwigsfelde, a nord di Monaco, e fu assegnato a un reparto di artiglieria contraerea esterno alla Wehrmacht, che difendeva gli stabilimenti della BMW. Fu assegnato per un anno a un reparto di intercettazioni radiofoniche.

Il 10 settembre 1944 la sua unità fu sciolta e poté fare ritorno in famiglia, ma già tornando a casa Ratzinger ricevette l'avviso di un nuovo progetto, nel Reichsarbeitsdienst. Fu quindi trasferito al confine ungherese dell'Austria, annessa alla Germania nell'Anschluss, nel 1938, e incaricato di costruire le difese anticarro in preparazione dell'attesa offensiva dell'Armata Rossa.

Il 20 novembre 1944 la sua unità fu nuovamente sciolta e Ratzinger fece nuovamente ritorno a casa. Dopo tre settimane fu arruolato nell'esercito tedesco a Monaco e assegnato alla caserma di fanteria nel centro di Traunstein, la stessa città nelle cui vicinanze la sua famiglia viveva. Dopo l'addestramento di base nella fanteria fu inviato insieme alla sua unità a compiere marce in alcune città tedesche per sollevare il morale della popolazione. Non fu mai inviato al fronte e durante tutto questo periodo non ebbe mai necessità di sparare un colpo; non si trovò mai a partecipare a scontri armati. Come egli stesso ricordò, nell'aprile del 1945, durante una di queste marce, disertò. Le diserzioni erano molto diffuse durante le ultime settimane di guerra, sebbene i disertori fossero soggetti a fucilazione se catturati. Ratzinger riuscì a evitare la fucilazione, prevista per i disertori, grazie a un sergente che lo fece fuggire.

Con la disfatta tedesca e l'arrivo degli americani nella cittadina, Ratzinger fu identificato come soldato e fu recluso per alcune settimane in un campo degli Alleati vicino a Ulma, come prigioniero di guerra. Venne rilasciato il 19 giugno 1945. La famiglia Ratzinger si riunì a Traunstein quando anche il fratello Georg, prigioniero in Italia, fece ritorno.

Studi filosofici e teologici; il presbiterato

Nel 1946 Joseph si iscrisse all'Istituto superiore di filosofia e teologia di Frisinga, ove studiò filosofia e teologia cattolica, ma, ben presto, nel 1947, si trasferì nel seminario Herzogliches Georgianum di Monaco di Baviera, un seminario interdiocesano dove confluivano tutti i candidati al sacerdozio della Baviera, e continuò gli studi di filosofia e teologia presso l'Università Ludwig Maximilian di Monaco, ivi adiacente, fino al 1950. Egli descrisse gli anni di Frisinga come un periodo culturalmente molto ricco e stimolante. La formazione che ricevette risentì soprattutto del neoplatonismo agostiniano e del pensiero di Pascal, correnti filosofiche molto presenti nell'ambiente culturale tedesco.

Il 29 ottobre 1950 fu ordinato diacono da Johannes Baptist Neuhäusler, vescovo titolare di Calidone e ausiliare di Monaco e Frisinga. Il 29 giugno 1951, all'età di ventiquattro anni, assieme a suo fratello maggiore Georg fu ordinato presbitero dal cardinale Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco e Frisinga.

L'11 luglio 1953 discusse la tesi di dottorato in teologia su sant'Agostino, dal titolo Popolo e casa di Dio nella dottrina agostiniana della Chiesa, riportando la valutazione massima summa cum laude. Nel 1955 presentò la dissertazione su san Bonaventura dal titolo La teologia della storia di san Bonaventura, sotto la guida del docente di teologia fondamentale Gottlieb Söhngen, per l'abilitazione all'insegnamento universitario. Venne accusato dal correlatore Michael Schmaus di un «pericoloso modernismo» per il fatto che le idee teologiche espresse avrebbero potuto portare alla soggettivizzazione del concetto di rivelazione. La tesi fu opportunamente modificata, pur conservando comunque la struttura di pensiero e l'anno successivo Ratzinger superò l'esame di abilitazione. I suoi contrasti con il correlatore, sorti soprattutto perché ne aveva criticato le posizioni considerandole ormai superate, favorirono un avvicinamento a Karl Rahner, noto teologo accademico della Nouvelle Théologie e sostenitore della riforma della Chiesa, che lo stesso Schmaus aveva invitato a Königstein, assieme a tutti i dogmatici di lingua tedesca, per la Pasqua del 1956 al fine di costituire l'associazione tedesca dei teologi dogmatici e fondamentali.

La carriera accademica e il Concilio Vaticano II

Nel maggio 1957 ottenne la cattedra di teologia fondamentale presso l'Università di Monaco. Nel dicembre 1957 ottenne la cattedra di teologia dogmatica e fondamentale presso l'Istituto superiore di teologia e filosofia di Frisinga. Divenne professore all'Università di Bonn nel 1959 e la sua lezione inaugurale fu su Il Dio della fede e il Dio della filosofia. Nel 1963 si trasferì all'Università di Münster.

Per il giovane professore fu un'esperienza fondamentale la partecipazione, dal 1962, al Concilio Vaticano II, dove acquisì notorietà internazionale. Inizialmente partecipò come consulente teologico dell'arcivescovo di Colonia cardinale Josef Frings e poi come perito del Concilio, su interessamento dello stesso Frings, fin dalla fine della prima sessione. Risulta interessante sottolineare che Ratzinger, grazie al cardinale Frings che lo teneva aggiornato, poté consultare regolarmente gli schemi preparatori (schemata) che sarebbero stati presentati ai Padri dopo la convocazione dell'assemblea conciliare. Fu un periodo in cui arricchì molto le proprie conoscenze teologiche, avendo infatti avuto modo di incontrare molti teologi come Henri-Marie de Lubac, Jean Daniélou, Yves Congar, Gérard Philips, oltre a cardinali e vescovi di tutto il mondo. Durante il tempo del Concilio, per la collaborazione con teologi come Hans Küng e Edward Schillebeeckx, Ratzinger fu visto come un riformatore.

Nel 1966 fu nominato alla cattedra di teologia dogmatica presso l'Università di Tubinga, dove fu collega di Hans Küng. Nel suo libro del 1968, Introduzione al cristianesimo, scrisse che il papa ha il dovere di sentire differenti voci all'interno della Chiesa prima di prendere una decisione e minimizzò la centralità del papato. Durante questo tempo prese le distanze dall'atmosfera di Tubinga e dalle tendenze marxiste del movimento studentesco degli anni sessanta, che divenne rapidamente radicale negli anni 1967 e 1968, concludendosi in una serie di disturbi e disordini nei mesi di aprile e maggio 1968. Ratzinger riconobbe sempre più una connessione tra questi sviluppi e quelli associati, come anche il diminuito rispetto tra i suoi studenti per l'autorità, con l'allontanamento dagli insegnamenti cattolici tradizionali. Nonostante la sua inclinazione riformista, le sue idee finirono per contrastare con le idee liberali, ottenendo una diffusione nei circoli teologici. Alcune voci, tra cui quelle di Hans Küng, ritennero queste idee proiettate verso il conservatorismo, mentre lo stesso Ratzinger in un'intervista del 1993 affermò: "Non vedo interruzione, negli anni, delle mie vedute di teologo". Ratzinger continuò a difendere il lavoro del Concilio Vaticano II e in particolare Nostra aetate, il documento sul rispetto delle altre religioni, sull'ecumenismo e sulla dichiarazione del diritto alla libertà di religione. In seguito, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, espresse più chiaramente la posizione della Chiesa cattolica sulle altre religioni nel documento Dominus Iesus, dell'anno 2000, che riguarda l'impegno dei cattolici romani nel dialogo ecumenico. Durante i suoi anni all'Università di Tubinga, pubblicò articoli sulla rivista teologica riformista Concilium, anche se scelse temi meno riformisti di altri partecipanti alla rivista, come appunto Hans Küng ed Edward Schillebeeckx.

Nel 1969 tornò in Baviera, chiamato all'Università di Ratisbona. Nel 1972 fondò la rivista teologica Communio insieme con Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac, Walter Kasper e altri. Communio, ora pubblicata in diciassette lingue, tra cui tedesco, inglese e spagnolo, divenne un giornale di spicco del pensiero teologico cattolico nell'orizzonte contemporaneo. Fino alla sua elezione a papa rimase uno dei più prolifici collaboratori della rivista. Nel 1976 suggerì che la Confessione augustana potesse essere eventualmente riconosciuta come una dichiarazione di fede cattolica.

Fu vicepresidente dell'Università di Ratisbona dal 1976 al 1977.

Fu relatore della tesi di dottorato di Barthélemy Adoukonou (futuro vescovo beninese, nominato poi da Ratzinger stesso segretario del Pontificio consiglio della cultura nel 2009) sulla presunta ermeneutica cristiana del vudù. La discussione della tesi venne anticipata al marzo 1977 per via della nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga.

Arcivescovo di Monaco e Frisinga

Il 24 marzo 1977 venne nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da papa Paolo VI e il 28 maggio dello stesso anno ricevette la consacrazione episcopale per mano di Josef Stangl, vescovo di Würzburg, assistito dal vescovo di Ratisbona Rudolf Graber e dal vescovo ausiliare di Monaco e Frisinga Ernst Tewes.

Come motto episcopale scelse l'espressione Cooperatores veritatis, collaboratori della verità, tratta dalla Terza lettera di Giovanni, al versetto 8. Lo stesso monsignor Ratzinger ne dette spiegazione:

«Per un verso, mi sembrava che fosse questo il rapporto esistente tra il mio precedente compito di professore e la nuova missione. Anche se in modi diversi, quel che era e continuava a restare in gioco era seguire la verità, stare al suo servizio. E, d'altra parte, ho scelto questo motto perché nel mondo di oggi il tema della verità viene quasi totalmente sottaciuto; appare infatti come qualcosa di troppo grande per l'uomo, nonostante che tutto si sgretoli se manca la verità.»

Il 15 febbraio 1982, poco meno di un lustro dopo la nomina episcopale, si dimise da arcivescovo di Monaco e Frisinga in virtù delle nuove disposizioni papali che lo chiamarono a stabilirsi in Vaticano.

Cardinale di Santa Romana Chiesa

Pochi mesi dopo la nomina ad arcivescovo, il 27 giugno 1977 lo stesso papa Paolo VI lo creò cardinale, assegnandogli il titolo presbiterale di Santa Maria Consolatrice al Tiburtino. In quella stessa occasione papa Montini lo definì un «insigne maestro di teologia». Prese possesso del titolo il 15 ottobre 1977.

L'anno successivo prese parte al conclave dell'agosto 1978 e dell'ottobre 1978 che elessero al soglio pontificio rispettivamente Albino Luciani e Karol Wojtyła. Il 25 novembre 1981 papa Giovanni Paolo II lo nominò prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, presidente della Pontificia commissione biblica e della Commissione teologica internazionale. Dal 1986 al 1992 fu inoltre chiamato a presiedere la Commissione per la preparazione del Catechismo per la Chiesa universale. Il 15 aprile 1993 fu elevato alla dignità di cardinale vescovo e gli fu affidata la sede suburbicaria di Velletri-Segni, che mantenne fino alla sua elezione a papa. Prese possesso della sede il 16 maggio 1993. Dal 2003 fu presidente della Commissione cardinalizia per la preparazione del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica.

Gli incarichi di prefetto e presidente delle commissioni pontificie terminarono il 2 aprile 2005 con la morte di papa Giovanni Paolo II. Partecipò anche al suo terzo conclave che iniziò il 18 aprile 2005 e in qualità di decano del Sacro Collegio dei cardinali presiedette la messa Pro Eligendo Romano Pontifice e lo stesso conclave che lo elesse papa.

Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

Il 25 novembre 1981 papa Giovanni Paolo II lo nominò prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l'organo della Santa Sede che si occupa di vigilare sulla correttezza della dottrina cattolica, carica che manterrà fino all'elevazione al soglio pontificio.

Nel 1985, rompendo la lunga tradizione di discrezione che caratterizzava l'ex Sant'Uffizio, accettò di essere intervistato dal giornalista italiano Vittorio Messori, già autore di due saggi su Gesù. Dall'incontro dell'agosto 1984 in un'ala chiusa del seminario di Bressanone, nacque il libro Rapporto sulla fede che, oltre a riscuotere successo in termini di vendite, provocò adesioni ma anche critiche all'interno e all'esterno della Chiesa cattolica.

Nel 1986, nel ruolo di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, firmò il documento intitolato Cura pastorale delle persone omosessuali, in cui si definisce l'omosessualità come "inclinazione oggettivamente disordinata".

In qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, fu autore dell'epistola De delictis gravioribus datata 18 maggio 2001 e rivolta a tutti i vescovi e ad altri membri della gerarchia della Chiesa cattolica. Successivamente, è stato citato come imputato dalla Corte distrettuale della contea di Harris in Texas, perché è accusato di "ostruzione della giustizia" a seguito dell'invio dell'epistola. Secondo l'accusa, il documento della Congregazione potrebbe aver favorito la copertura di prelati coinvolti nei casi di molestie sessuali negli Stati Uniti (molti dei quali su minorenni).

Il 20 settembre 2005 però il Dipartimento di Stato statunitense ha accolto la richiesta di concedere al Papa l'immunità diplomatica, in quanto capo in carica di uno Stato sovrano, esentandolo di fatto dal processo.

Decano del collegio cardinalizio

Il 27 novembre 2002 venne eletto decano del collegio cardinalizio e il 30 novembre seguente ottenne, in aggiunta alla sede suburbicaria di Velletri-Segni, la sede di Ostia quale privilegio del decano del Sacro collegio. Nonostante avesse avanzato più volte le richieste di congedo, mantenne il suo incarico in curia e divenne uno dei più stretti collaboratori del pontefice, soprattutto con l'aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Il 25 marzo 2005, Venerdì santo, guidò le meditazioni della tradizionale Via Crucis al Colosseo. In tale occasione pronunciò forti parole riguardanti la Chiesa, denunciando una cristianità che «stancatasi della fede ha abbandonato il Signore»:

«Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa!»

Il 1º aprile 2005 tenne a Subiaco una conferenza dal titolo «L'Europa nella crisi delle culture», nella quale tracciò uno scenario della Chiesa in Europa e criticò fortemente «la forma attuale della cultura illuminista» che costituisce «la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell'intera umanità».

Venerdì 8 aprile 2005, come decano del Sacro Collegio, presiedette la messa esequiale del romano pontefice defunto Giovanni Paolo II. Come vuole la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, presiedette inoltre la Missa pro eligendo Romano Pontifice il mattino del 18 aprile 2005, che fu il rito d'apertura dei lavori del conclave per l'elezione del successore di papa Giovanni Paolo II. Durante l'omelia pronunciò un discorso che sarebbe divenuto celebre come suo "programma di pontificato". In essa denunciò il pericolo di una «dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie», opponendo a essa «un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo», «misura del vero umanesimo», «criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità»; disse quindi che: «questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo» anche se «avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo».

Elezione a Romano Pontefice

Ratzinger fu eletto papa durante il secondo giorno del conclave del 2005, al quarto scrutinio, nel pomeriggio del 19 aprile 2005. Scelse come nome pontificale "Benedetto XVI". Alle 17:56 fu dato l'annuncio dell'elezione con la tradizionale fumata bianca del comignolo della Cappella Sistina (ci fu in effetti un'iniziale incertezza sul colore del fumo, ma i dubbi furono sciolti alle 18:07, dal suono delle campane della basilica di San Pietro in Vaticano). Dopo circa mezz'ora, il cardinale protodiacono Jorge Medina Estévez si affacciò dal balcone della loggia centrale della basilica per annunciare l'avvenuta elezione

Nel suo primo discorso da papa, seguito dalla benedizione Urbi et Orbi, riservò un ricordo al suo amico e predecessore Giovanni Paolo II:

«Cari fratelli e sorelle, dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere. Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua Santissima Madre, starà dalla nostra parte. Grazie.»

(Il primo messaggio pubblico di papa Benedetto XVI)

Secondo la ricostruzione più puntuale del conclave, raccolta dal vaticanista Lucio Brunelli, il cardinale più votato dopo Ratzinger sarebbe stato l'arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio (futuro papa Francesco, suo successore), mentre gli altri candidati (come Carlo Maria Martini, Camillo Ruini e Angelo Sodano) avrebbero ricevuto poche preferenze.

Il pontificato

La scelta del nome pontificale e il trattamento d'onore

Il 27 aprile Benedetto XVI spiegò, in occasione della sua prima udienza generale in piazza San Pietro, le ragioni della scelta del suo nome pontificale:

«Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi idealmente al venerato pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. Fu coraggioso e autentico profeta di pace e si adoperò con strenuo coraggio dapprima per evitare il dramma della guerra e poi per limitarne le conseguenze nefaste. Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell'armonia tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e costruire giorno dopo giorno con l'apporto di tutti.» 

«Il nome Benedetto evoca, inoltre, la straordinaria figura del grande "Patriarca del monachesimo occidentale", san Benedetto da Norcia, compatrono d'Europa insieme ai santi Cirillo e Metodio e le sante donne Brigida di Svezia, Caterina da Siena ed Edith Stein. La progressiva espansione dell'ordine benedettino da lui fondato ha esercitato un influsso enorme nella diffusione del cristianesimo in tutto il continente. San Benedetto è perciò molto venerato anche in Germania e, in particolare, nella Baviera, la mia terra d'origine; costituisce un fondamentale punto di riferimento per l'unità dell'Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà.»

Prima del 1º marzo 2006, nella lista dei titoli di Benedetto XVI era incluso anche quello di "Patriarca d'Occidente", tradizionalmente indicato prima di quello di "Primate d'Italia". Il titolo di "Patriarca d'Occidente" venne introdotto per la prima volta nel 1870 col Concilio Vaticano I ed è proseguito nelle pubblicazioni dell'Annuario Pontificio dal quale appunto è stato rimosso nell'edizione del 2006. Papa Benedetto ha deciso di rinunciare a tale titolo per facilitare il dialogo con le chiese ortodosse, pure ampiamente diffuse nel mondo occidentale.

Lo stemma papale

Di rosso, cappato di oro, alla conchiglia dello stesso; la cappa destra, alla testa di moro al naturale, coronata e collarinata di rosso; la cappa sinistra, all'orso al naturale, lampassato e caricato di un fardello di rosso, cinghiato di nero.

È tradizione, da almeno otto secoli, per vescovi, cardinali e per il pontefice adottare uno stemma araldico, dal Rinascimento con questo stemma sono decorati i monumenti e le opere fatte edificare dal papa, oltre che i documenti da lui scritti.

Benedetto XVI ha deciso di mantenere nel suo stemma i simboli che aveva usato da vescovo prima e da cardinale poi introducendo alcune novità rispetto ai suoi predecessori: lo scudo infatti ha la forma a calice e si presenta incappato, ovvero diviso in tre campi da due linee ricurve che partono dal centro del bordo superiore e raggiungono la metà dei fianchi:

Il campo centrale presenta una conchiglia, simbolo dei pellegrini, ma che ricorda anche la leggenda secondo cui Agostino d'Ippona, incontrando su una spiaggia un bambino che con una conchiglia voleva svuotare il mare dalla sua acqua, comprese l'impossibilità per la mente umana di capire il mistero di Dio. La conchiglia inoltre compare anche nello stemma del monastero di Schotten, a Ratisbona, a cui Benedetto XVI è particolarmente legato.

Il campo destro presenta un orso che trasporta un fardello, simbolo dell'arcidiocesi di Frisinga, richiama la leggenda di san Corbiniano, primo vescovo di Frisinga. La tradizione vuole che il santo, mentre si recava a Roma, venisse assalito da un orso che uccise il suo cavallo. Corbiniano allora rimproverò l'orso e lo costrinse a portare il suo bagaglio fino a Roma, dove lo liberò. Inoltre papa Benedetto XVI ricorda le parole di sant'Agostino nel commento al salmo 72: «Sono divenuto per te come una bestia da soma, e così io sono in tutto e per sempre vicino a te», e l'orso diventa per lui il simbolo dello stesso pontefice.

Il campo sinistro presenta la testa di un moro, anch'esso simbolo dell'arcidiocesi di Frisinga, che per Benedetto XVI è simbolo dell'universalità della Chiesa.

Dietro lo scudo, com'è consuetudine, si trovano le due chiavi "decussate", cioè incrociate, una d'oro e l'altra d'argento, simbolo di san Pietro. Per significare la dignità pontificale è stata introdotta in basso l'immagine del pallio, segno della collegialità e dell'unità tra il papa e la Chiesa e indossato anche dai metropoliti; si tratta del primo pontefice che inserisce il pallio nel suo simbolo.

Mitra e tiara

Un segno di forte discontinuità con la tradizione araldica papale è dato dall'introduzione per la prima volta di una mitra, sopra lo scudo, in sostituzione della tiara papale, sempre presente negli stemmi dei precedenti pontefici, sin dall'elezione di papa Clemente V (1305), pur se non più indossata a partire dal pontificato di papa Paolo VI. La mitra è color argento e riporta tre fasce dorate in orizzontale (a conservare i tre poteri della tiara: Ordine, Giurisdizione e Magistero) collegate in verticale e al centro per indicare l'unità dei poteri nella stessa persona. Lo stemma fu disegnato per mano di monsignor Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, esperto in araldica, su indicazione dell'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del sommo pontefice.

Secondo alcuni commentatori, tra i quali lo storico Giorgio Rumi, Benedetto XVI avrebbe scelto volutamente la mitra «a segnare una maggiore vicinanza ai Vescovi» per ricordare che il papa è unus inter pares, oltre che per eliminare gli "orpelli e i segni rinascimentali", per propugnare un pontificato in "stile francescano", mentre secondo altri la sostituzione della tiara con la mitra, ritenuta più indicativa di spiritualità, sarebbe stata l'ultima innovazione dei cerimonieri pontifici legati alla riforma liturgica postconciliare introdotta dall'arcivescovo Annibale Bugnini; secondo questa interpretazione sarebbe «uno stemma che Benedetto XVI ha dovuto subire senza poter reagire». Riguardo alla rimozione della tiara dal simbolo papale così Ratzinger si è espresso: «La tiara era già stata eliminata da Paolo VI. Era comunque rimasta nello stemma papale, e adesso è sparita anche da lì».

La tiara donata a Benedetto XVI e mai utilizzata; le sue infule riportano lo stemma papale con la mitra

Il 10 ottobre 2010 in occasione dell'Angelus, dal davanzale della finestra delle benedizioni del Palazzo Apostolico, è stato esposto uno stratum di velluto, donato da un fedele marchigiano, con lo stemma non conforme a quello scelto dal pontefice: sulla sommità è posta la tiara, secondo l'antico uso, e la parte esterna dello scudo è ispirata allo stemma di papa Urbano VIII che si può vedere sui pilastri del Baldacchino del Bernini nella basilica Vaticana. L'azienda Ars Regia, che lo ha prodotto, ha affermato di aver realizzato sin dall'Avvento 2007 alcuni paramenti con lo stemma sormontato dalla tiara. La tiara continua a essere presente nello storico ornamento floreale, che raffigura lo stemma del papa regnante, sito in un'aiuola dei Giardini Vaticani e sono state mantenute le tiare, a seguito del recente restauro, nello stemma papale anche sugli apici del tronetto di Leone XIII, per una questione di fedeltà e aderenza allo stile del mobile.

La tiara continua a essere presente nei simboli ufficiali dell'emblema della Santa Sede e nella bandiera dello Stato della Città del Vaticano.

Il 25 maggio 2011 a papa Benedetto XVI è stata donata una tiara personale dall'uomo d'affari tedesco e devoto cattolico Dieter Philippi, creata da un laboratorio bulgaro specializzato in paramenti liturgici ortodossi. Tale gesto è stato compiuto come auspicio per l'unità dei cristiani e come dono da parte dei cattolici tedeschi, in analogia con il dono di una tiara a Giovanni Paolo II nel 1981 come omaggio dei cattolici ungheresi. Benedetto XVI, però, come il predecessore, non ha mai fatto uso di questa tiara in cerimonie.

Il motto

Nello stemma di Benedetto XVI non compare nessun motto, come del resto non compariva neppure negli stemmi dei suoi immediati predecessori. Quando è stato eletto vescovo, ha scelto come motto due parole dalla Terza lettera di Giovanni, «Cooperatores Veritatis». Se Giovanni Paolo II richiamò esplicitamente il motto scelto da vescovo (Totus tuus) una volta divenuto papa (compare ad esempio nel mosaico del Palazzo apostolico raffigurante la Mater Ecclesiae, ben visibile da piazza San Pietro), Benedetto XVI, da papa, non ha mai citato esplicitamente il motto Cooperatores veritatis.

La messa per l'inizio del Ministero petrino

Domenica 24 aprile 2005 si tenne in piazza San Pietro la messa ("Santa Messa di imposizione del pallio e consegna dell'anello del pescatore per l'inizio del Ministero petrino del vescovo di Roma", tradizionalmente detta "Messa di incoronazione" fino a papa Paolo VI) per l'inizio del ministero petrino di Benedetto XVI, il quale pronunciò un'omelia, interrotta 35 volte dagli applausi dei fedeli in piazza San Pietro, all'insegna dell'ecumenismo, della continuità nei confronti del suo predecessore e dell'apertura verso i fedeli.

«Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano»

Al termine della cerimonia il Papa attraversò con la papamobile piazza San Pietro, gremita di oltre 400 000 persone, e ricevette le delegazioni internazionali nella basilica.

La presa di possesso della Cattedra romana

Il 7 maggio 2005 nella basilica di San Giovanni in Laterano si tenne la messa d'insediamento sulla cattedra romana del vescovo di Roma. Durante l'omelia il Papa riprese il concetto di "debole servitore di Dio": «Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole - come sono fragili e deboli le sue proprie forze - costantemente bisognoso di purificazione e di conversione».

Le riforme di Curia

Nel marzo 2006 papa Benedetto XVI iniziò a ridimensionare la Curia romana con la fusione di quattro Consigli pontifici esistenti: il Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti fu riunito inizialmente al Pontificio consiglio della giustizia e della pace sotto la presidenza del cardinale Renato Raffaele Martino fino al 2009. Allo stesso modo il cardinale Paul Poupard presiedette il Pontificio consiglio della cultura e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, anche se entrambi i consigli mantennero separati uffici.

Dal maggio 2007 il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso passò al cardinale Jean-Louis Tauran, quindi nuovamente separato e presieduto da un altro presidente. Nel giugno 2010 creò il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione e assegnò la presidenza all'arcivescovo Rino Fisichella.

Modifica delle norme in materia di conclave

Con motu proprio datato 11 giugno 2007, intitolato De aliquibus mutationibus in normis de electione romani pontificis Benedetto XVI ha emendato la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis del 1996 di Giovanni Paolo II, ristabilendo il quorum della maggioranza di due terzi, indipendentemente dal numero di scrutini, per l'elezione dei pontefici. Con un ulteriore motu proprio del 22 febbraio 2013, intitolato Normas nonnullas, ha introdotto nuove modifiche alla Universi Dominici Gregis, relative alla facoltà del Collegio cardinalizio di anticipare o posticipare l'inizio del conclave subordinatamente alla presenza di tutti i cardinali elettori, all'inalienabilità dell'elettorato attivo e passivo per i cardinali elettori, alla tutela del segreto sotto pena di scomunica latae sententiae, al rafforzamento delle misure di sicurezza, all'abolizione dell'elezione del pontefice per acclamazione e per compromesso, prevedendo unicamente l'elezione per scrutinio.

L'attenzione ai temi del Concilio Vaticano II

I documenti del Concilio Vaticano II sono stati più volte ripresi da papa Ratzinger nei suoi discorsi e documenti. A quarant'anni dalla sua conclusione egli prega affinché il Concilio Vaticano II possa continuare a guidare la Chiesa «per contribuire ad instaurare nel mondo quella fraternità universale che risponde alla volontà di Dio sull'uomo». L'attualità di quei documenti, secondo il Pontefice, è oggi addirittura aumentata; in ogni caso, il Papa ha, più volte, esplicitamente ripudiato quell'interpretazione che vorrebbe intendere il Vaticano II come un procedimento di rottura, rispetto alla tradizione della Chiesa.

L'ermeneutica della continuità

Il 22 dicembre 2005, in un discorso ai membri della Curia romana, ha espresso una chiara posizione su questo argomento, sostenendo la cosiddetta ermeneutica della continuità. Egli, seguendo con più vigore la linea tracciata dai suoi predecessori, ha testualmente affermato l'erroneità dell'opinione secondo la quale il Concilio Vaticano II avrebbe dato vita ad una sorta di "rivoluzione" all'interno della Chiesa che autorizzerebbe a mutare, rispetto al passato, il costante insegnamento del magistero in materia di dottrina o di fede. Di conseguenza, l'unica interpretazione lecita dei documenti del Concilio Vaticano II, deve comunque procedere in assoluto accordo, rispetto al contenuto e allo spirito delle precedenti proposizioni che hanno dato vita al depositum Fidei proprio alla tradizione cattolica:

«Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue "il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio", annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga»

Il 10 marzo 2010 ha ribadito questa convinzione, affermando che:

«Dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un'altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un'altra, totalmente "altra". Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, papa Paolo VI e papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall'altra, nello stesso tempo, hanno difeso l'unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia»

La ripresa di aspetti della tradizione

In uno dei primi atti del suo pontificato nell'esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis (2007), discutendo dell'utilizzo della lingua latina, in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano II, ne viene raccomandato l'uso, per manifestare l'universalità e unitarietà della Chiesa, durante le "grandi celebrazioni" che avvengono nel corso degli incontri internazionali, a eccezione delle letture, dell'omelia e della preghiera dei fedeli, utilizzo da estendere per le preghiere più note della tradizione, ed eventualmente l'esecuzione di canti gregoriani nelle liturgie; viene altresì raccomandato che la preparazione dei sacerdoti nei seminari includa la comprensione e capacità di celebrare la messa in latino.

Il 7 luglio 2007 è stato promulgato il motu proprio Summorum Pontificum, che dà la possibilità a qualunque sacerdote cattolico di celebrare, senza condizioni, la messa senza il popolo, secondo il "Messale Romano" promulgato da Pio V nella forma rivista da papa Giovanni XXIII nel 1962, anteriore perciò alla riforma liturgica del rito romano del 1970, celebrazioni alle quali quei fedeli che lo richiedono sono ammessi, secondo il provvedimento stesso; le celebrazioni con il popolo possono essere autorizzate dal parroco senza dovere ricorrere al vescovo diocesano o alla Santa Sede; l'eventuale decisione di una comunità religiosa di celebrare con questo messale in modo abituale dovrà essere presa dai superiori maggiori nel rispetto delle regole. Precedentemente questa possibilità celebrativa era riservata ai soli sacerdoti che avessero ottenuto il permesso dal proprio ordinario, secondo quanto stabilito dal motu proprio Ecclesia Dei promulgato da Giovanni Paolo II nel 1988 (che auspicava una larga generosità dei vescovi nel concedere il permesso), ed è riservata ancora più strettamente al vescovo diocesano dal motu proprio Traditionis custodes del 16 luglio 2021. Il provvedimento Summorum Pontificum è stato corredato da una lettera di accompagnamento, nella quale il Papa ha auspicato che questa nuova disciplina possa rappresentare un passo verso "una riconciliazione interna nel seno della Chiesa". Egli afferma che il Messale di Paolo VI è l'espressione ordinaria della lex orandi (legge della preghiera) della Chiesa cattolica di rito latino e quello edito da papa Giovanni XXIII è espressione straordinaria della medesima lex orandi da tenere in debito onore per il "suo uso venerabile e antico", entrambi sono usi dell'unico Rito romano. Benedetto XVI, dopo l'elezione papale, ha comunque celebrato sempre secondo il messale di Paolo VI. Il successivo documento Traditionis custodes afferma invece che i libri liturgici promulgati dai papi Paolo VI e Giovanni Paolo II in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II sono "l'unica espressione della lex orandi del Rito romano".

Nel corso del suo pontificato papa Benedetto XVI ha ripreso l'utilizzo di alcuni abiti pontifici di origine rinascimentale e in disuso da qualche decennio: la mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino bianco, che fu usata fino al pontificato di Paolo VI e il cui uso è ripreso sin dai primi mesi di pontificato di Benedetto XVI; a partire dalla Pasqua 2008 il Papa ha riutilizzato la mozzetta di damasco bianco bordata di ermellino, che era stata utilizzata per l'ultima volta da Paolo VI il 26 marzo 1967 quando firmò l'enciclica Populorum Progressio e che Benedetto XVI ha indossato durante il periodo pasquale (da Pasqua fino a Pentecoste, ampliandone il tempo di utilizzo prima limitato alla sola settimana in albis, e introducendo una mozzetta bianca damascata senza ermellino, per i giorni più caldi del tempo pasquale). A partire dal 2006, durante le udienze generali tenute all'aperto, nei mesi estivi, ha utilizzato il "saturno", un copricapo rosso a tesa larga, adatto soprattutto a proteggersi dal caldo, spesso indossato da Giovanni XXIII e da Paolo VI e, nei primi anni di pontificato, anche da Giovanni Paolo II. Nel corso di due udienze generali il 21 e 28 dicembre 2005 ha indossato il camauro, un copricapo di velluto rosso bordato di pelliccia d'ermellino bianco utilizzato dai papi fino al Settecento, e quindi ripreso da papa Leone XIII e successivamente da Giovanni XXIII; riguardo al possibile significato di recupero di forme antiche e consolidate, che si poteva desumere dal recupero di questo accessorio, il pontefice fornì questa precisazione: «L'ho indossato una sola volta. Avevo semplicemente molto freddo e la testa è per me un punto molto sensibile. E mi sono detto: "Visto che c'è, mettiamo questo camauro". Ma è stato veramente solo il tentativo di difendermi dal freddo. Da allora non l'ho più indossato. Perché non nascessero inutili interpretazioni».

Papa Benedetto XVI ha ripreso anche l'uso delle tradizionali scarpe pontificie rosse, cadute in disuso durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Al contrario delle iniziali speculazioni della stampa che aveva riportato come tali scarpe fossero state realizzate dalla casa stilistica Prada, il Vaticano ha smentito, precisando che quelle calzature erano state realizzate dal calzolaio personale del pontefice.

Il recupero della tradizione liturgica

Benedetto XVI indossa la mitra e il manto papale durante la celebrazione dei primi Vespri della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo in occasione della cerimonia d'apertura dell'Anno paolino il 29 giugno 2008Papa Benedetto XVI con il pallio papale in uso fino al IX secolo e dal 2005 al 2008 e la ferula di papa Paolo VI, insieme a Piero Marini

A partire dal novembre 2007 la carica di Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie (colui che prepara e assiste le liturgie papali) è passata da monsignor Piero Marini (in carica dal 1987) a monsignor Guido Marini, che si è dichiarato fautore di una liturgia «sobria e solenne» e in linea con la tradizione.

All'atto pratico, ciò ha significato il recupero di alcune delle vesti liturgiche e delle suppellettili sacre che erano cadute in disuso nei decenni precedenti: l'abbigliamento liturgico pontificio è infatti tornato a includere camici in pizzo, mitrie gemmate e piviali tradizionali.

Sotto il mandato di Piero Marini il papa aveva ripreso a utilizzare un particolare tipo di pallio lungo e incrociato sulla spalla sinistra (il cui uso era precedentemente attestato fino al IX secolo): l'ingombro e la foggia di tale accessorio l'avevano tuttavia reso difficile da indossare e passibile di intralciare i movimenti, pertanto dal 29 giugno 2008 il papa ha iniziato a indossare un nuovo pallio ispirato ai modelli rinascimentali e progettato dal sediario Luca Mancinotti; esso è di forma circolare chiusa, con i due estremi pendenti sul petto e sulla schiena. Le croci che lo adornano restano rosse, ma la foggia è più larga e lunga rispetto a quelli utilizzati dai pontefici precedenti o dagli altri metropoliti, a rimarcare la giurisdizione primaziale del vescovo di Roma. Durante la sua visita all'Aquila dopo il grave terremoto del 6 aprile 2009, Benedetto XVI ha infine offerto il pallio del 2005 a papa Celestino V, lasciandolo sulle sue spoglie custodite presso la basilica di Santa Maria di Collemaggio. Questo gesto è stato poi interpretato come presagio delle dimissioni che avrebbe rassegnato quattro anni dopo.

In occasione del pontificale per la canonizzazione di sette nuovi santi, il 21 ottobre 2012 il papa ha utilizzato il fanone papale, che era stato da ultimo indossato da papa Giovanni Paolo II nel 1984, con l'intenzione di riservarlo alle più importanti solennità dell'anno liturgico. L'uso del fanone è stato poi, infatti, ripreso il 24 dicembre per la messa della notte di Natale e il 6 gennaio per la solennità dell'Epifania.

Con Guido Marini sono inoltre rientrati nell'uso gli storici troni pontifici, su tutti il trono dello Spirito Santo, realizzato durante il pontificato di papa Leone XIII (il cui utilizzo è stato alternato con quello del tronetto risalente al medesimo pontefice, già abitualmente in uso); esso è stato posizionato al centro dell'altare «in particolari circostanze, per semplicemente mettere in risalto la presidenza liturgica del Papa, successore di Pietro e vicario di Cristo». Il 6 gennaio 2009, in occasione della solennità dell'Epifania, Benedetto XVI ha inoltre ripristinato il tronetto di papa Pio IX, mai più impiegato da quando (trent'anni prima) papa Giovanni Paolo II l'aveva accantonato e musealizzato.

Contestualmente Benedetto XVI ha cambiato anche il pastorale, ripristinando il modello usato da papa Pio IX (ferula), dorato a forma di croce latina al posto di quello argentato di Lello Scorzelli con la figura del crocifisso introdotto da papa Paolo VI. Il 28 novembre 2009 Benedetto XVI ha cambiato nuovamente ferula, adottandone una ricevuta in dono dal Circolo San Pietro, simile nelle fattezze a quella di Pio IX; Marini ha spiegato che siffatta ferula, anch'essa a forma di croce latina, «può essere considerata a tutti gli effetti il [vero] pastorale di Benedetto XVI».

Sull'altare di San Pietro la croce è stata ricollocata al centro dell'altare affiancata dai sette candelabri (ad «indicare la centralità del crocifisso nella celebrazione eucaristica e l'orientamento esatto che tutta l'assemblea è chiamata ad avere durante la liturgia eucaristica: non ci si guarda, ma si guarda a Colui che è nato, morto e risorto per noi, il Salvatore»).

Il 13 gennaio 2008 Benedetto XVI ha celebrato la messa all'altare antico della Cappella Sistina rivolto ad orientem, ossia con il viso rivolto verso l'altare. Questa scelta è stata giustificata dalla volontà di recuperare «la bellezza e l'armonia» della Cappella Sistina affrescata da Michelangelo, senza ricorrere all'altare su pedana mobile tante volte usato da Giovanni Paolo II.

A partire dal 22 maggio 2008, festa del Corpus Domini, il pontefice ha comunicato i fedeli seguendo la tradizione: essi, inginocchiati davanti a lui, hanno ricevuto la particola consacrata non sul palmo delle mani, ma direttamente in bocca. Questa modalità evidenzia maggiormente il significato dell'Eucaristia come rinnovato sacrificio di Gesù rispetto a quella ordinariamente in uso, ed evita eventuali dispersioni, manomissioni e dissacrazioni del corpo di Cristo.

In un'intervista a L'Osservatore Romano del 26 giugno 2008, Guido Marini ha illustrato dettagliatamente molti degli aspetti delle celebrazioni liturgiche di Benedetto XVI, che sono apparsi come un ritorno alla tradizione, dichiarando che «le vesti liturgiche adottate, come anche alcuni particolari del rito, intendono sottolineare la continuità della celebrazione liturgica attuale con quella che ha caratterizzato nel passato la vita della Chiesa. L'ermeneutica della continuità è sempre il criterio esatto per leggere il cammino della Chiesa nel tempo. Ciò vale anche per la liturgia. Come un Papa cita nei suoi documenti i Pontefici che lo hanno preceduto, in modo da indicare la continuità del magistero della Chiesa, così nell'ambito liturgico un Papa usa anche vesti liturgiche e suppellettili sacre dei Pontefici che lo hanno preceduto per indicare la stessa continuità anche nella lex orandi». Tuttavia ha voluto far notare che Benedetto XVI non ha utilizzato sempre abiti liturgici antichi e ne indossa spesso di moderni concludendo che «l'importante non è tanto l'antichità o la modernità, quanto la bellezza e la dignità, componenti importanti di ogni celebrazione liturgica».

Dimissioni dallo stato clericale: il vescovo Fernando Lugo

Nel luglio 2008 Benedetto XVI è stato l'artefice della prima dimissione dallo stato clericale di un vescovo nella storia della Chiesa: si tratta di Fernando Lugo, eletto tre mesi prima presidente del Paraguay alla guida di un partito di sinistra. La richiesta di riduzione allo stato laicale, inizialmente respinta, era stata posta dallo stesso Lugo all'indomani della sua avvenuta elezione. Il ripensamento del Pontefice è stato accolto come "un gesto d'amore" da parte dell'interessato, che così ha commentato: "Che amore deve avere Benedetto XVI per il Paraguay se per il bene del nostro paese ha deciso di esonerarmi da tutte le responsabilità clericali!".

La lotta alla pedofilia nel clero

Ratzinger è stato il primo pontefice a chiedere esplicitamente scusa alle vittime di abusi da parte di ecclesiastici e ad incontrarle più volte, presentando la Chiesa in atteggiamento penitenziale. Già a meno di un mese dall'elezione al soglio pontificio nel 2005, Ratzinger ha mostrato grande decisione contro il fenomeno degli abusi, ad esempio allontanando dalla Chiesa diversi religiosi responsabili di abusi sessuali su minori, stabilendo inoltre norme e linee guida più stringenti contro questi casi, fino ad arrivare a decisioni senza precedenti, compresa la soppressione della presenza dei monaci nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme.

Il "caso Maciel"

Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, si occupò del caso «a partire dal 1998» quando la Congregazione «ricevette accuse, già in parte rese pubbliche, contro il Rev.do Marcial Maciel Degollado, fondatore della Congregazione dei Legionari di Cristo, per delitti riservati all'esclusiva competenza del Dicastero». Maciel era accusato di pedofilia, di altri abusi sessuali su seminaristi e di abuso del sacramento della confessione per aver assolto alcune delle sue vittime. Maciel commise tali delitti in modo plurimo e continuativo tra gli anni quaranta e gli anni sessanta. Il 19 maggio 2006 la Sala stampa della Santa Sede rese pubblica la decisione della Congregazione per la Dottrina della Fede «– tenendo conto sia dell'età avanzata del Rev.do Maciel che della sua salute cagionevole – di rinunciare ad un processo canonico e di invitare il Padre ad una vita riservata di preghiera e di penitenza, rinunciando ad ogni ministero pubblico». Ratzinger, ormai papa Benedetto XVI, approvò queste decisioni. La colpevolezza di Padre Maciel fu riconosciuta dai Legionari di Cristo e dichiarata esplicitamente dalla Santa Sede nel 2010.

Nel febbraio del 2009 e ancora nel marzo del 2010 in concomitanza con alcune notizie di stampa, i Legionari di Cristo informarono che Maciel aveva «avuto una figlia nel contesto di una relazione prolungata e stabile con una donna» e che erano «apparse altre due persone, tra loro fratelli, che affermano di essere suoi figli, frutto di una relazione con un'altra donna». Un mese dopo la Segreteria di Stato della Santa Sede decise di inviare una visita apostolica ai Legionari di Cristo, che si concluse nel 2010 appurando che «la condotta di P. Marcial Maciel Degollado ha causato serie conseguenze nella vita e nella struttura della Legione, tali da richiedere un cammino di profonda revisione» del carisma, dell'esercizio dell'autorità e delle Costituzioni.

A seguito della visita apostolica Benedetto XVI nominò delegato pontificio per la Congregazione dei Legionari di Cristo il cardinale Velasio De Paolis. Una successiva visita apostolica al Regnum Christi si concluse nel giugno del 2011 con la decisione del delegato pontificio di procedere alla revisione degli statuti e dei regolamenti del Regnum Christi e di separare il governo della congregazione dal governo del Regnum Christi.

Il "caso Irlanda"

Nel 2006 il pontefice trattò il problema degli abusi sui minori in un discorso ai vescovi d'Irlanda. Gli scandali di pedofilia nella Chiesa irlandese scoppiarono a partire dal 2009 con la pubblicazione dei rapporti Ryan e Murphy, che denunciavano numerosi casi di abusi sessuali su minori compiuti da sacerdoti e religiosi dagli anni trenta fino agli anni 2000 e il tentativo di insabbiamento da parte della Chiesa locale; a fronte di ciò, il portavoce della sala stampa vaticana Federico Lombardi spiegò l'11 dicembre 2009 che il papa condivideva «la rabbia, il senso di tradimento e la vergogna provate da così tanti fedeli cattolici irlandesi» e che avrebbe seguito con «massima attenzione» la questione. Nel corso dei mesi successivi il papa incontrò i responsabili e i vescovi della Chiesa irlandese e presentarono le dimissioni alcuni vescovi con responsabilità pastorali nelle diocesi interessate; si parlò anche della possibilità di dimissioni per il primate d'Irlanda, Sean Brady.

Il 20 marzo 2010 Benedetto XVI ha pubblicato una lettera pastorale rivolta ai fedeli cattolici d'Irlanda. In essa il Papa ha spiegato di «condividere lo sgomento e il senso di tradimento [...] sperimentato al venire a conoscenza di questi atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati», chiedendo ad essa «in primo luogo di riconoscere davanti al Signore e davanti agli altri, i gravi peccati commessi contro ragazzi indifesi» e accusando la «preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali, che hanno portato come risultato alla mancata applicazione delle pene canoniche in vigore e alla mancata tutela della dignità di ogni persona». Rivolgendosi poi ai sacerdoti e ai religiosi colpevoli di tali abusi, ha scritto: «Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente dell'Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli. Quelli di voi che siete sacerdoti avete violato la santità del sacramento dell'Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e nelle nostre azioni. Insieme al danno immenso causato alle vittime, un grande danno è stato perpetrato alla Chiesa e alla pubblica percezione del sacerdozio e della vita religiosa.».

Ricorso alla Corte penale internazionale

Nel settembre del 2011 il gruppo di associazioni delle vittime dei preti pedofili Snap (Survivors network of those abused by priests) e il Centro per i diritti costituzionali (Center for Constitutional Rights) depositarono presso la Corte penale internazionale dell'Aia un ricorso in cui accusavano Benedetto XVI, il segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, il suo predecessore cardinale Angelo Sodano e il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale William Joseph Levada, di crimini contro l'umanità per la presunta copertura dei reati commessi da sacerdoti contro i minori.

Nel febbraio del 2012 l'accusa venne ritirata dallo stesso avvocato querelante Jeff Anderson. Secondo il legale della Santa Sede Jeffrey S. Lena la notifica provocò «l'archiviazione immediata della causa, senza che sia necessaria una sentenza in merito emanata dalla corte». Il motivo di tale scelta fu, ancora secondo Lena: «Hanno ritirato tutto perché sapevano che avrebbero perso se avessero continuato a perseguire il caso. Non volevano una pronuncia negativa da parte del giudice» che avrebbe fatto giurisprudenza.

Nel giugno del 2013, i mezzi di comunicazione informarono che la Corte penale internazionale aveva respinto la richiesta del Centro per i diritti costituzionali, affermando la propria mancanza di giurisdizione sui fatti.

Viaggi apostolici

Oltre a numerose visite apostoliche in Italia, Benedetto XVI ha compiuto viaggi apostolici in 21 paesi di tutti i continenti: è stato tre volte in Germania (una volta a motivo della XX Giornata mondiale della gioventù di Colonia), poi in Polonia, terra di papa Giovanni Paolo II, in Spagna (tre viaggi, uno per la XXVI Giornata mondiale della gioventù), in Turchia, in Austria, in Francia, in Repubblica Ceca, a Malta, in Portogallo, a Cipro, nel Regno Unito, in Croazia e a San Marino. Sette i viaggi apostolici intercontinentali: in Brasile, negli Stati Uniti d'America, in Messico, a Cuba, in Australia, in Africa (Camerun, Angola e Benin), nel Libano e in Terra santa (Giordania e Israele).

Beatificazioni e canonizzazioni del pontificato

Lo stesso argomento in dettaglio: Beatificazioni del pontificato di Benedetto XVI e Canonizzazioni celebrate da Benedetto XVI.

Concistori ordinari pubblici, per la creazione di nuovi cardinali

Lo stesso argomento in dettaglio: Concistori di papa Benedetto XVI.

Benedetto XVI ha presieduto cinque concistori: il primo il 24 marzo 2006, il secondo il 24 novembre 2007, il terzo il 20 novembre 2010, il quarto il 18 febbraio 2012, il quinto il 24 novembre 2012.

Nel primo ha nominato 15 cardinali (di cui 12 elettori), nel secondo 23 (di cui 18 elettori), nel terzo 24 (di cui 20 elettori), nel quarto 22 (di cui 18 elettori), nel quinto 6.

Nel primo concistoro del 2006 sono stati elevati alla porpora prevalentemente arcivescovi impegnati nel governo pastorale di una diocesi nel mondo. Nel secondo concistoro del 2007 si è invece avuta anche una forte componente di "cardinali di Curia", ossia impegnati nelle diverse funzioni della Santa Sede.

Nel suo terzo concistoro del 2010 è da segnalare la presenza massiccia di porporati "di Curia" (10 su 20). Con il quarto concistoro ha creato cardinali in buon numero italiani e appartenenti alla Curia, mentre nessuno dei cardinali creati nel quinto concistoro era europeo.

Documenti e opere del pontificato

Papa Benedetto XVI ha scritto molti saggi e durante il suo pontificato ha promulgato tre lettere encicliche:

Deus caritas est (Dio è amore), 2006. La prima enciclica tratta dell'essere umano che, creato ad immagine di Dio che è amore, è in grado di fare esperienza dell'amore: dare se stesso a Dio e agli altri (agàpe), ricevendo e vivendo l'amore di Dio nella contemplazione. Questa vita di amore è visibile nell'esempio della vita dei santi come madre Teresa di Calcutta e la Vergine Maria, ed è la direzione che i cristiani abbracciano quando credono che Dio li ama in Gesù Cristo. L'enciclica contiene quasi 16 000 parole in 42 paragrafi. Il primo tempo è stato scritto da Benedetto XVI in tedesco, nella sua lingua madre, nell'estate del 2005, mentre la seconda metà si dice ricavata da dagli scritti incompleti lasciati dal suo predecessore, papa Giovanni Paolo II. L'enciclica è stata firmata dal papa il giorno di Natale del 2005, tuttavia fu promulgata in latino soltanto un mese dopo; è stata tradotta in italiano, inglese, francese, tedesco, polacco, portoghese e spagnolo. Inoltre è la prima enciclica a essere pubblicata da quando la Santa Sede ha richiesto il diritto d'autore sugli scritti ufficiali del pontefice.

Spe salvi (Salvati nella speranza), 2007. La seconda enciclica tratta la virtù della speranza ed è stata pubblicata il 30 novembre 2007. Partendo dalle definizioni presentate nei testi paolini, petrini, e da alcuni padri della Chiesa, Benedetto XVI mette a confronto la speranza cristiana, che consente di sperimentare già nel presente quel che ancora attende dal futuro, con le forme moderne di speranza, basate sulle conquiste tecnologiche o sulla politica, che alla fiducia in Dio hanno sostituito la fede nel progresso. Ma le speranze terrene, oltre ad essere proiettate in un ipotetico quanto incerto futuro, anche una volta realizzate divengono già superate, non riuscendo per loro natura a dare quella gioia che può venire solo da una prospettiva infinita, quale è offerta appunto da Dio tramite Cristo.

Caritas in veritate (L'amore nella verità), 2009. La terza enciclica è stata firmata il 29 giugno 2009, festa dei santi Pietro e Paolo, e pubblicata il 7 luglio 2009. In essa il papa ha voluto proseguire gli insegnamenti della Chiesa in seno alla giustizia sociale. Ha rilevato che da molto tempo si è aggiunta anche l'economia "all'elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato", e ha invitato i cristiani a riscoprire l'etica delle relazioni commerciali ed economiche. Nel contesto dell'enciclica, Benedetto XVI ha duramente criticato gli eccessi dell'accumulazione capitalista e richiamato alla necessità di uno sviluppo integrale degli individui come lavoratori e dell'economia come strumento di contribuzione al bene comune. Nel quadro della lettura ratzingeriana dei cambiamenti socio-economici, che si inserisce in decenni di sviluppi e ragionamenti della dottrina sociale cattolica, l'economia contemporanea rischia di privare l'uomo della sua centralità nel creato, nell'azione sociale e nello sviluppo integrale delle comunità. Compito dell'uomo è proteggere tale centralità e l'impostazione valoriale, di matrice cattolica, che la nobilita, nonché garantire la prevalenza delle logiche di comunità sulla ricerca fine a sé stessa del profitto.

Durante il suo pontificato iniziò anche la scrittura di una nuova enciclica dedicata alla fede, a completare la trilogia dedicata alle tre virtù teologali. La lettera enciclica, dal titolo Lumen fidei, è stata consegnata da Benedetto XVI al suo successore Francesco, che ne ha esteso e firmato il lavoro.

Esortazioni apostoliche

Lo stesso argomento in dettaglio: Sacramentum caritatis, Verbum Domini, Africae Munus ed Ecclesia in Medio Oriente.

Inoltre, ha pubblicato quattro esortazioni apostoliche:

Sacramentum caritatis, 2006, sull'Eucaristia, in seguito al sinodo dei vescovi del 2005.

Verbum Domini, 2010, sulla Parola, in seguito al sinodo dei vescovi del 2008.

Africae munus, 2011, come risultato del sinodo dei vescovi per l'Africa del 2009.

Ecclesia in Medio Oriente, 2012, documento frutto del sinodo speciale dei vescovi svoltosi nella Città del Vaticano nel mese di ottobre 2010.

Trilogia sulla figura di Gesù di Nazaret

Ha pubblicato tre libri personali sulla figura storica di Gesù:

Gesù di Nazaret nel 2007,

Gesù di Nazaret. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione nel 2011,

L'infanzia di Gesù nel 2012.

L'autore stesso, che non si dedica più alla scrittura di libri per mancanza di forze, considera tale trilogia definitivamente conclusiva di tutta la sua opera teologica.

Controversie

Nell'agosto 2006 Franca Rame si domandava, a proposito dell'appartenenza del premio Nobel Günter Grass alle SS, alludendo all'arruolamento obbligatorio di Ratzinger nella Gioventù Hitleriana: «Allora cosa dovrebbe fare Benedetto XVI? Restituire il pontificato?». Lo storico del nazismo tedesco Joachim Fest rispose sulle pagine di Repubblica: «Il giovane Joseph Ratzinger fu arruolato a forza dai nazisti, e solo come ausiliario nella contraerea. Il giovane Günter Grass invece si presentò volontario. E tra la contraerea e le SS c'era una bella differenza davanti alla Coscienza del mondo. Ma vogliamo scherzare? Una cosa era aiutare, obbligati, i cannonieri antiaerei contro i bombardieri alleati, altro era vestire da volontari l'uniforme di chi massacrava partigiani sovietici, ebrei polacchi o donne e bambini francesi a Oradour-sur-Glane. Chi, come Franca Rame, chiede di criticare il Papa non meno di Grass, non sa o non vuole né pensare né ricordare la Storia».

La lezione di Ratisbona del 2006

Lo stesso argomento in dettaglio: Lectio magistralis di papa Benedetto XVI su "Fede, ragione e università".

Sempre fedele all'insegnamento dei documenti conciliari, il Papa ha ricordato la dichiarazione Nostra Aetate, che ha precisato «l'atteggiamento della Comunità ecclesiale nei confronti delle religioni non cristiane», riaffermando il rapporto speciale che i cristiani hanno con gli ebrei, la stima verso i musulmani e i membri delle altre religioni, confermando «lo spirito di fraternità universale che bandisce qualsiasi discriminazione o persecuzione religiosa». Tuttavia, in apparente contraddizione con le precedenti dichiarazioni, la citazione di una frase dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo a proposito della guerra santa "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava", fatta da Benedetto XVI nell'ambito di una lectio magistralis presso l'Università di Ratisbona durante il suo viaggio in Baviera, ha provocato nel mondo islamico violente reazioni.

Successivamente, Benedetto XVI, durante un Angelus trasmesso anche da Al Jazeera, ha detto di essere «vivamente rammaricato per le reazioni», specificando di non condividere il pensiero espresso nel testo citato a Ratisbona e invitando l'Islam al dialogo: «Sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso all'Università di Ratisbona, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani». Senza alcun precedente nella storia della Chiesa, nel 2007 e nel 2008 sono avvenuti più scambi culturali e teologici ad altissimo livello tra cattolici e musulmani, culminati con un incontro fra una nutrita delegazione di intellettuali e teologi islamici e lo stesso Benedetto XVI, in Vaticano.

La lezione all'Università La Sapienza

Lo stesso argomento in dettaglio: Controversia sull'invito di papa Benedetto XVI alla Sapienza.

Il 15 gennaio 2008 il Papa, su richiesta del rettore dell'Università di Roma "La Sapienza", fu invitato a intervenire all'inaugurazione dell'anno accademico. Tale scelta fu criticata da 67 docenti della stessa università, il che portò la Santa Sede a declinare l'invito e suscitò diverse polemiche nel mondo politico, giornalistico e scientifico.

I negazionisti della Shoah

Lo stesso argomento in dettaglio: Controversia sulla remissione della scomunica al vescovo Richard Williamson.

Il rapporto con la comunità ebraica visse un periodo di crisi all'indomani della remissione della scomunica a quattro vescovi lefebvriani, concessa il 21 gennaio 2009. Nello stesso giorno la televisione svedese SVT rese infatti pubblica un'intervista nella quale mons. Richard Williamson (uno dei quattro vescovi) aveva pubblicamente professato una posizione negazionista sulla Shoah, in ragione della quale il Gran Rabbinato d'Israele rimandò alcuni incontri con il Vaticano.

Sollecitato da più parti, lo stesso Pontefice, nell'udienza generale del 28 gennaio 2009, ha espresso parole chiare volte a contestare ogni forma di negazionismo della Shoah e a esprimere piena solidarietà agli ebrei, che hanno mostrato la precisa ed esplicita volontà della Chiesa nel voler continuare il dialogo: «In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz, uno dei lager nei quali si è consumato l'eccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso. Mentre rinnovo con affetto l'espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l'umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell'uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l'oblio, contro la negazione o il riduzionismo. [...] La Shoah insegni sia alle vecchie sia alle nuove generazioni, che solo il faticoso cammino dell'ascolto e del dialogo, dell'amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all'auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell'uomo!». Nella stessa occasione il Pontefice ha esplicitato chiaramente che la remissione della scomunica ai quattro vescovi scismatici è stata compiuta come «atto di paterna misericordia» e che egli auspicava che a questo gesto facesse seguito «il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell'autorità del Papa e del Concilio Vaticano II». Critiche al Papa sul caso Williamson sono state espresse da Angela Merkel, successivamente rientrate in una "comune affermazione" di condanna e ricordo della Shoah, a seguito di un colloquio telefonico fra il Papa e la stessa cancelliera tedesca.

Il 4 febbraio 2009 la Segreteria di Stato della Santa Sede diffuse infine una nota in cui si affermava: «Le posizioni di Mons. Williamson sulla Shoah sono assolutamente inaccettabili e fermamente rifiutate dal Santo Padre, come Egli stesso ha rimarcato il 28 gennaio scorso quando, riferendosi a quell'efferato genocidio, ha ribadito la Sua piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, e ha affermato che la memoria di quel terribile genocidio deve indurre "l'umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell'uomo", aggiungendo che la Shoah resta "per tutti monito contro l'oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti"».

«Il Vescovo Williamson, per una ammissione a funzioni episcopali nella Chiesa - aggiunge la nota - dovrà anche prendere in modo assolutamente inequivocabile e pubblico le distanze dalle sue posizioni riguardanti la Shoah, non conosciute dal Santo Padre nel momento della remissione della scomunica».

La lotta all'AIDS

Nuove critiche sono state indirizzare a Ratzinger durante il suo viaggio in Camerun e Angola del marzo 2009. Alla domanda se durante il viaggio avrebbe affrontato il problema della lotta contro l'AIDS, Benedetto XVI ha dichiarato che la distribuzione dei preservativi non sarebbe una soluzione contro l'AIDS, ma anzi costituirebbe un aggravio del problema. La dichiarazione del Papa è stata stigmatizzata da più governi e da molti fra uomini politici, scienziati, organizzazioni umanitarie e personale coinvolto nella lotta all'AIDS, con ripercussioni anche sul piano diplomatico: in aprile il Belgio ha inoltrato una protesta formale presso la Santa Sede, chiedendone la ritrattazione; il legislativo spagnolo ha stabilito di votare in dicembre una risoluzione con il medesimo testo. Nella comunità scientifica si è registrata la dura presa di posizione del periodico medico Lancet, che in un editoriale del 28 marzo ha accusato il Papa di aver «distorto la verità scientifica» con affermazioni «oltraggiose ed estremamente inaccurate».

Magistero e altri interventi

Papa Benedetto XVI ha assunto un ruolo di primo piano nell'insegnamento e nella spiegazione della fede cattolica, e ancora nella ricerca di soluzioni ai problemi di discernimento della fede. Un ruolo che ha assunto attivamente anche in virtù della sua fama di teologo e del suo precedente incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

La critica al relativismo

Nell'omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice l'allora cardinale Ratzinger pronunciò le seguenti parole:

«Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.»

(Joseph Ratzinger, Omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice)

Inserendosi in un solco tracciato dal predecessore papa Benedetto XVI ha spesso definito il relativismo l'odierno problema centrale della fede; il 6 giugno 2005, in un discorso alla Diocesi di Roma presso la basilica di San Giovanni in Laterano, ha osservato:

«Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all'opera educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l'apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione, perché separa l'uno dall'altro, riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio "io".»

(Papa Benedetto XVI, Messaggio per la celebrazione della XLV Giornata Mondiale della Pace)

La dittatura del relativismo secondo Benedetto XVI è la sfida principale della Chiesa e dell'umanità: alla radice di questo problema ci sarebbe l'autolimitazione della ragione kantiana, in contraddizione con l'acclamazione della scienza moderna, la cui eccellenza si fonda sul potere della ragione di conoscere la verità. Questa auto-amputazione della ragione porterebbe a patologie della religione come il terrorismo e a patologie della scienza come i disastri ecologici. Benedetto XVI ha anche analizzato le rivoluzioni fallimentari e le ideologie violente del XX secolo, valutandole come la conversione di un punto di vista parziale in guida assoluta: «L'assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo».

Lo stesso 6 giugno 2005 Benedetto XVI ha aggiunto delle considerazioni sui temi del matrimonio, del sesso e dell'aborto:

«Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il "matrimonio di prova", fino allo pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell'uomo. Una tale pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell'uomo. Proprio da qui diventa del tutto chiaro quanto sia contrario all'amore umano, alla vocazione profonda dell'uomo e della donna, chiudere sistematicamente la propria unione al dono della vita, e ancora più sopprimere o manomettere la vita che nasce.»

Fede e ragione

Il 26 settembre 2005 in un colloquio concesso a Hans Küng, il Papa teologo ha «apprezzato» lo «sforzo» di Küng di «contribuire ad un rinnovato riconoscimento degli essenziali valori morali dell'umanità attraverso il dialogo delle religioni e nell'incontro con la ragione secolare», ha sottolineato che «l'impegno per una rinnovata consapevolezza dei valori che sostengono la vita umana è un obiettivo importante del suo Pontificato» e ha anche affermato di condividere il tentativo di Küng di «ravvivare il dialogo tra fede e scienze naturali e di far valere, nei confronti del pensiero scientifico, la ragionevolezza e la necessità della Gottesfrage».

Nella lectio magistralis intitolata Fede, ragione e università, tenuta presso l'Università di Ratisbona durante il suo viaggio in Baviera nel settembre 2006, il Papa ha sviluppato un intervento sul tema dei rapporti tra fede e ragione, già oggetto di uno studio di papa Giovanni Paolo II (enciclica Fides et Ratio, 1998).

Benedetto XVI, pronunciandosi nettamente contro ogni forma di imposizione violenta di un credo religioso, ha espresso la sua «convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio» e che nell'elemento del Logos (espressione greca per "parola", cioè verbo di Dio, ma anche "ragione") si trovi «la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia».

Anche in occasione del viaggio apostolico nel Regno Unito del settembre del 2010 è stato illustrato il rapporto tra fede e ragione come «un processo che funziona nel doppio senso»: «distorsioni della religione», come il settarismo e il fondamentalismo, «emergono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo purificatore e strutturante della ragione all'interno della religione»; d'altra parte «senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana».

L'11 ottobre 2011 il Pontefice ha indetto un Anno della fede, che si è svolto dall'11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013, per «riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata, e riflettere sullo stesso atto con cui si crede».

La morale sessuale

Il 23 luglio 1992 la Congregazione per la Dottrina della fede guidata dall'allora cardinale Ratzinger, pubblicò un documento dal titolo Alcune considerazioni concernenti la Risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali.

Il 29 novembre 2005 il Vaticano approvò definitivamente il documento con cui la Chiesa cattolica vieta l'accesso ai seminari a tutte le persone che «praticano l'omosessualità», hanno «tendenze omosessuali profondamente radicate» o che sostengono «la cosiddetta cultura gay» («Qualora, invece, si trattasse di tendenze omosessuali che fossero solo l'espressione di un problema transitorio, come, ad esempio, quello di un'adolescenza non ancora compiuta, esse devono comunque essere state chiaramente superate almeno tre anni prima dell'Ordinazione diaconale»).

Importante è ricordare che il giovane che desidera essere prete nella Chiesa cattolica, di rito latino, sceglie uno stato di vita celibatario. Qualunque siano i suoi orientamenti sessuali è chiamato alla castità e alla continenza. Nel rito orientale, invece, occorre decidere, prima di ordinarsi, se sposarsi o meno; chi si ordina senza sposarsi è chiamato a rimanere celibe in futuro.

Nel n. 2358 del Catechismo della Chiesa cattolica, testo questo firmato da Giovanni Paolo II ma preparato da una commissione guidata dall'allora cardinal Ratzinger, si legge: «Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione». Nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, Benedetto XVI ribadì il no agli atti che vanno contro la morale sessuale cattolica: stupro, prostituzione, pornografia, fornicazione, adulterio, atti omosessuali, masturbazione e contraccezione, nonché qualsiasi pratica sessuale che «si proponga come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione». Tali atti vengono definiti come i «principali peccati contro la castità». Benedetto XVI invitò tutti gli individui ad accettare la propria identità sessuale, ricordando però che «Dio ha creato l'uomo maschio e femmina». Vengono considerate contro la morale cattolica anche inseminazione e fecondazione artificiale «perché dissociano la procreazione dall'atto con cui gli sposi si donano mutuamente, instaurando così un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana».

Il 1º dicembre 2005, in occasione della XVIII Giornata Mondiale per la Lotta all'AIDS, Benedetto XVI sostenne che la strategia da seguire nella lotta all'AIDS dev'essere basata «su continenza, promozione della fedeltà nel matrimonio, importanza della vita familiare, educazione, assistenza ai poveri», non menzionando l'uso del preservativo, condannato, come detto, dalla Chiesa cattolica. Il 18 marzo 2009 condanna esplicitamente l'uso del preservativo contro l'AIDS, asserendo che il preservativo «non serve a risolvere il problema», suscitando forti reazioni contrarie nei rappresentanti dei principali paesi della UE.

L'11 maggio 2006, rivolgendosi ai partecipanti a un congresso internazionale dell'Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, riaffermò che la «differenza sessuale» di un uomo e una donna «ha come fine un'unione aperta alla trasmissione della vita» e invitò «ad evitare la confusione tra il matrimonio e altre unioni basate su un amore debole. Solo l'amore tra uomo e donna è capace di costruire una società casa di tutti gli uomini».

I messaggi per la pace

Nel luglio 2005 intervenne sugli attentati di Londra: «Preghiamo per le vittime degli attentati di Londra, ma anche per gli attentatori, Dio ama la vita».

25 dicembre 2005: nel messaggio urbi et orbi per il Natale, ha chiamato l'umanità del terzo millennio a un risveglio spirituale, senza il quale «l'uomo dell'era tecnologica rischierebbe di restare vittima dei successi della sua stessa intelligenza».

1º gennaio 2006: durante la messa per il nuovo anno, ha invitato l'ONU a una rinnovata coscienza delle proprie responsabilità per promuovere la giustizia, la solidarietà e la pace nel mondo.

16 aprile 2006: nel messaggio urbi et orbi del giorno di Pasqua ha parlato della situazione politica internazionale auspicando che per le crisi legate al nucleare, e dunque in particolare per l'Iran, si giunga a una composizione onorevole per tutti, mediante negoziati seri e leali, e si rafforzi nei responsabili delle Nazioni e delle Organizzazioni internazionali la volontà di realizzare una pacifica convivenza tra etnie, culture e religioni, che allontani la minaccia del terrorismo. Il pontefice ha poi parlato della situazione in Iraq, chiedendo la pace, e del conflitto in Terra santa, ribadendo il diritto di Israele a esistere e auspicando la creazione di uno stato palestinese. Nel discorso è anche presente un invito alla concordia per l'Italia, in riferimento allo scontro post-elettorale del 2006.

17 giugno 2007: parlando da Assisi, in occasione dell'800º anniversario della conversione di San Francesco, rivolge un appello affinché abbiano fine tutte le guerre nel mondo. L'appello viene reiterato il 25 dicembre 2007 al messaggio urbi et orbi per il Natale.

Nel messaggio per la Giornata della pace del 2012, scrive che «La pace non è un sogno, non è un'utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all'edificazione di un mondo nuovo». Ribadendo poi i principi della difesa della vita e della famiglia fondata sul matrimonio, ha affermato: «Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l'umanità. L'azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un'offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.»

Benedetto XVI nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau

Il 28 maggio 2006 si è recato, nel corso di una visita in Polonia, nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Nel corso della preghiera in ricordo delle vittime del nazismo, ha detto:

«Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.»

Relazioni politiche internazionali

La globalizzazione e le migrazioni

Durante la messa dell'Epifania del gennaio 2008 papa Benedetto XVI asserì che «non si può dire infatti che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt'altro» e aggiunse «i conflitti per la supremazia economica e l'accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale».

Per quanto concerne il tema globale delle emigrazioni massicce dai Paesi in via di sviluppo, Ratzinger ha affermato più volte la necessità di garantire alle persone non solo il diritto a emigrare ma anche quello, ritenuto primario, a non emigrare. Il "diritto a non emigrare" è, in concreto, il diritto per i potenziali migranti e i loro Paesi di provenienza a un rispetto onnicomprensivo, capace di prevenire il loro stato di indigenza prima ancora che di limitarne le conseguenze, l'invito a una reale cooperazione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo per ridurre le disuguaglianze globali. Tale concezione fu espressa in maniera dettagliata da Ratzinger pochi mesi prima delle sue dimissioni dal soglio pontificio, in occasione del messaggio sulla Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2013 inviato il 12 ottobre 2012, egli scrisse che "nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato Giovanni Paolo II che diritto primario dell'uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all'emigrazione".

Corea

Il 13 novembre 2006, Benedetto XVI ha dichiarato di augurarsi che la disputa sulle armi di distruzione di massa della Corea del Nord potesse risolversi tramite negoziati: "La Santa Sede incoraggia negoziati bilaterali o multilaterali, convinta che la soluzione debba essere trovata pacificamente nel rispetto degli accordi presi dalle parti per ottenere la denuclearizzazione della penisola coreana".

Turchia

In un'intervista del 2004 al giornale francese Le Figaro, Ratzinger aveva detto che la Turchia, che è demograficamente musulmana, ma governata laicamente in virtù della sua costituzione, avrebbe dovuto cercare un proprio futuro più tra le nazioni del mondo musulmano che nell'Unione Europea, area quest'ultima che Ratzinger definì come intrisa delle sue radici cristiane. Egli ha notato come la Turchia sia da sempre "in perenne contrasto con l'Europa e che collegarla con l'Europa sarebbe un grande errore".

Successivamente visitando il paese egli disse che la cosa migliore da fare era "reiterare la solidarietà tra culture". Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, disse di aver parlato col pontefice dell'ingresso della Turchia in Europa, ma di averne dedotto che il Vaticano volesse rimanere al di fuori dei discorsi politici europei. Ad ogni modo, la dichiarazione congiunta di papa Benedetto XVI e del patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli ha precisato come una delle condizioni necessarie per l'ammissione della Turchia in Europa sarebbe stata la dichiarazione di libertà religiosa nello stato: "In ogni passo verso l'unificazione, le minoranze siano protette, con le loro tradizioni culturali e i tratti distintivi della loro religione." La dichiarazione sottolineava ancora una volta il desiderio di papa Benedetto XVI di ribadire le radici cristiane dell'Europa.

Vietnam

Papa Benedetto XVI ed il primo ministro vietnamita Nguyễn Tấn Dũng si sono incontrati in Vaticano il 25 gennaio 2007 per un "nuovo e importante passo per stabilire dei legami diplomatici" tra i due Paesi. Il papa ha incontrato il presidente vietnamita Nguyễn Minh Triết l'11 dicembre 2009. Gli uffici della Santa Sede hanno definito l'incontro "un passo significativo nel progresso delle relazioni bilaterali col Vietnam."

Relazioni con le comunità religiose

L'impegno ecumenico coi cristiani

Il dialogo con la Chiesa ortodossa

Uno degli snodi fondamentali del pontificato di Benedetto XVI è il dialogo ecumenico con il Patriarcato di Costantinopoli e la Chiesa ortodossa tutta.

Questa attenzione da parte di Benedetto XVI è sottolineata da uno dei suoi primi atti ufficiali da pontefice, il primo motu proprio "L'antica e venerabile basilica" del 31 maggio 2005, in cui rinnova esplicitamente il mandato ai monaci benedettini della basilica di San Paolo fuori le mura di promuovere e curare speciali eventi di carattere ecumenico, proprio nella basilica eretta sul luogo di sepoltura dell'apostolo Paolo.

Durante il viaggio apostolico in Turchia nel 2006, il Papa ha assistito alla Divina Liturgia ortodossa celebrata da Bartolomeo I, insieme hanno visitato il santuario di Efeso e scritto una dichiarazione congiunta. Nel 2007 si sono incontrati a Ravenna i rappresentanti delle due Chiese per intavolare un dialogo al fine di attenuare le divergenze teologiche.

Il 29 giugno 2008, nella basilica Vaticana, durante la celebrazione dei santi Pietro e Paolo, Benedetto XVI ha ceduto la parola a Bartolomeo I durante l'omelia, quindi i due hanno recitato insieme il Credo in lingua greca. Quest'ultimo è un segno importantissimo per l'appianamento della disputa sul filioque. Al termine della celebrazione hanno impartito entrambi la propria benedizione solenne.

Il 5 ottobre 2008, su invito di Benedetto XVI, anche Bartolomeo I partecipa all'apertura dei lavori del Sinodo dei vescovi cattolici (tematizzato sulla Parola di Dio) nella Basilica di san Paolo fuori le mura. Il 18 ottobre successivo, Bartolomeo I interviene nel vivo dei lavori del Sinodo, con un discorso pronunciato nella Cappella Sistina, nel quale ha parlato apertamente di una prospettiva unitaria fra cattolici e ortodossi: è il primo patriarca ortodosso a partecipare attivamente ai lavori di un Sinodo cattolico e il primo a pronunciare un discorso nel luogo nel quale vengono eletti i successori di Pietro.

Il 27 giugno 2009, in un discorso alla delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli presente a Roma in occasione della conclusione dell'Anno paolino, ha detto che:

«Lo sapete già, ma ho piacere anche oggi di confermare che la Chiesa cattolica intende contribuire in tutti i modi che le saranno possibili al ristabilimento della piena comunione, in risposta alla volontà di Cristo per i suoi discepoli e conservando nella memoria l'insegnamento di Paolo, il quale ci ricorda che siamo stati chiamati "a una sola speranza". [...] Desidero che i partecipanti al dialogo cattolico-ortodosso sappiano che le mie preghiere li accompagnano e che questo dialogo ha il totale sostegno della Chiesa cattolica. Di tutto cuore, auspico che le incomprensioni e le tensioni incontrate fra i delegati ortodossi durante le ultime sessioni plenarie di questa commissione siano superate nell'amore fraterno, di modo che questo dialogo sia più ampiamente rappresentativo dell'ortodossia.»

(Discorso alla delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, 27 giugno 2009)

Il 17 agosto 2012 a Varsavia venne firmato un "Messaggio congiunto" di riconciliazione fra la Chiesa cattolica polacca e la Chiesa ortodossa russa: il testo, sottoscritto dal Presidente della conferenza episcopale polacca Józef Michalik e dal Patriarca russo Cirillo I, impegnava le due Chiese perché «venga iniziato un cammino di dialogo sincero nella speranza che esso sani le ferite del passato, faciliti il superamento dei nostri mutui pregiudizi e incomprensioni e ci rafforzi nella nostra ricerca di riconciliazione». Da Roma, Benedetto XVI ha definito la dichiarazione «un evento importante, che suscita speranza per il futuro».

Il dialogo con gli anglicani

Il rapporto ecumenico fra Chiesa cattolica e Comunione anglicana è intenso durante il pontificato di Benedetto XVI, in special modo sotto due aspetti: gli incontri fra il Papa e l'arcivescovo Rowan Williams; l'accoglienza nella Chiesa cattolica di fedeli e clero anglicani.

Nel 2009 Benedetto XVI ha aperto agli anglicani tradizionalisti, che non hanno accettato alcune decisioni della Conferenza di Lambeth, tra le quali la facoltà di concedere gli ordini sacri a persone dichiaratamente omosessuali o alle donne. Il 20 ottobre 2009 il cardinale William Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha presentato in conferenza stampa l'imminente uscita di una costituzione apostolica che permettesse l'entrata in comunione di questi anglicani con la Chiesa cattolica. Contemporaneamente, l'annuncio era dato anche nell'arcivescovado di Westminster dall'arcivescovo cattolico Vincent Nichols e dal primate della Comunione anglicana Rowan Williams.

La costituzione apostolica Anglicanorum coetibus è stata pubblicata il 9 novembre 2009 e porta la firma del 4 novembre 2009. In essa si inserisce la struttura ecclesiastica dell'Ordinariato personale e si ammettono all'ordine sacro tutti i sacerdoti e vescovi anglicani che vogliano rientrare in comunione con la Chiesa cattolica. Ai sacerdoti già sposati è stata concessa una deroga al canone 277 CJC, che richiede il celibato per poter essere ordinati presbiteri (la nuova ordinazione è necessaria perché la Chiesa cattolica ritiene invalide le ordinazioni successive allo scisma anglicano). I vescovi anglicani sposati sono stati anch'essi ordinati presbiteri, rinunciando all'episcopato e restando semplici presbiteri (la Chiesa cattolica non consente infatti l'ordinazione episcopale di uomini sposati).

Il 21 novembre 2009 il Papa ha anche incontrato il primate anglicano Rowan Williams il quale, durante un incontro alla Pontificia Università Gregoriana il 19 novembre, aveva spiegato che «il bicchiere ecumenico è autenticamente mezzo pieno».

Il 17 settembre 2010 Benedetto XVI, in visita in Inghilterra, ha incontrato nuovamente l'arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, divenendo il primo pontefice a visitare il Lambeth Palace e a rivolgersi ai vescovi anglicani riuniti nella Conferenza di Lambeth.

Il 15 gennaio 2011 è stato eretto l'Ordinariato personale di Nostra Signora di Walsingham per i fedeli di Inghilterra e Galles provenienti dall'anglicanesimo. Il 1º gennaio 2012 il Papa ha eretto anche l'Ordinariato personale della Cattedra di San Pietro, per i fedeli negli Stati Uniti d'America.

Il 10 marzo 2012 Rowan Williams è tornato a Roma e congiuntamente con il Papa ha celebrato i vespri nella chiesa di San Gregorio al Celio. In quest'occasione, Williams definisce «certa, pur se ancora imperfetta» la vicinanza fra le due confessioni: «Certa, a motivo della comune visione ecclesiale alla quale entrambe le nostre comunità sono impegnate, essendo il carattere della Chiesa sia uno sia particolare: una visione di ripristino della piena comunione sacramentale, di una vita eucaristica che sia pienamente visibile, e perciò di una testimonianza che sia pienamente credibile, così che un mondo confuso e tormentato possa entrare nella luce accogliente e trasformante di Cristo. E tuttavia imperfetta, a motivo del limite della nostra visione, e del deficit nella profondità della nostra speranza e pazienza».

Il 15 giugno 2012 il Papa ha eretto anche l'Ordinariato personale di Nostra Signora della Croce del Sud, per i fedeli dell'Australia provenienti dall'anglicanesimo.

Il dialogo con i cattolici tradizionalisti

Il 21 gennaio 2009 ha rimesso la scomunica latae sententiae ai Vescovi della Fraternità sacerdotale San Pio X, mediante un decreto della Congregazione per i vescovi, accogliendo una lettera di monsignor Bernard Fellay del 15 dicembre 2008 in cui il presule dichiarava a nome della Fraternità: «siamo sempre fermamente determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre forze al servizio della Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, che è la Chiesa cattolica romana. Noi accettiamo i suoi insegnamenti con animo filiale. Noi crediamo fermamente al Primato di Pietro e alle sue prerogative, e per questo ci fa tanto soffrire l'attuale situazione». La remissione della scomunica è una tappa importante del cammino auspicato da Benedetto XVI che dovrebbe portare «al più presto alla completa riconciliazione e alla piena comunione». La Segreteria di Stato ha chiarito, in una nota del 4 febbraio 2009, che il Decreto «è stato un atto con cui il Santo Padre veniva benignamente incontro a reiterate richieste da parte del superiore generale della Fraternità San Pio X. Sua Santità ha voluto togliere un impedimento che pregiudicava l'apertura di una porta al dialogo. Egli ora si attende che uguale disponibilità venga espressa dai quattro vescovi in totale adesione alla dottrina e alla disciplina della Chiesa». È stato ribadito che, contrariamente a quanto molti mezzi d'informazione avevano fatto capire, la remissione della scomunica non significa che lo scisma dei lefebvriani dal cattolicesimo sia stato ricomposto e che, quindi, la Fraternità San Pio X resta esterna alla Chiesa. E inoltre che «per un futuro riconoscimento della Fraternità San Pio X è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II e del Magistero dei papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI. La Chiesa Cattolica attende con viva speranza questi atti da parte dei Vescovi riammessi alla piena comunione cattolica per fare festa insieme come il Vangelo suggerisce».

Il 2 luglio 2009, nell'emanare il motu proprio Ecclesiae unitatem, il Papa ritorna sulla questione della remissione delle scomuniche, confermando le motivazioni già esposte, e chiarisce esplicitamente che «le questioni dottrinali [con la Fraternità S. Pio X] rimangono e, finché non saranno chiarite, la Fraternità non ha uno statuto canonico nella Chiesa e i suoi ministri non possono esercitare in modo legittimo alcun ministero».

La lettera ai cattolici della Cina

Il 30 giugno 2007 è stata diffusa la lettera di Benedetto XVI ai fedeli della Chiesa cattolica in Cina, che porta la data del 27 maggio 2007, solennità di Pentecoste. La lettera tratta questioni eminentemente religiose: non è un documento politico né un atto di accusa contro le autorità governative, nonostante le difficoltà della Chiesa in Cina. Il Papa ricorda in particolare il "disegno originario", che Cristo ha avuto della sua Chiesa e che ha affidato agli apostoli e ai loro successori, i vescovi.

Nella lettera, il Papa si dice pienamente disponibile a un sereno e costruttivo dialogo con le autorità civili al fine di trovare una soluzione ai vari problemi riguardanti la comunità cattolica e di arrivare alla desiderata normalizzazione dei rapporti fra la Santa Sede e il Governo della Repubblica Popolare Cinese, nella certezza che i cattolici, con la libera professione della loro fede e con una generosa testimonianza di vita, contribuiscono, come buoni cittadini, anche al bene del popolo cinese.

Il dialogo con le altre religioni

L'invito a rispettare tutte le religioni

In seguito alla pubblicazione su un quotidiano conservatore danese di alcune caricature di Maometto, il Papa affermò: «Dio punirà chi sparge sangue in suo nome» e condannò le reazioni violente che si ebbero alla pubblicazione delle «vignette blasfeme» ed espresse solidarietà al mondo musulmano ribadendo l'invito al rispetto di tutte le religioni.

Durante la visita in Germania del settembre 2006, Benedetto XVI lanciò un monito all'"Occidente laico" che, escludendo Dio, spaventerebbe le altre culture dell'Asia e dell'Africa: «La vera minaccia per la loro identità non viene vista nella fede cristiana, ma nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l'utilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca». Sull'"Islam fondamentalista" disse: «La guerra santa è contraria alla natura di Dio».

Basandosi sui documenti conciliari, il Papa ha ricordato la dichiarazione Nostra aetate, che ha precisato «l'atteggiamento della Comunità ecclesiale nei confronti delle religioni non cristiane», riaffermando il rapporto speciale che i cristiani hanno con gli ebrei, la stima verso i musulmani e i membri delle altre religioni, confermando «lo spirito di fraternità universale che bandisce qualsiasi discriminazione o persecuzione religiosa».

Il dialogo con i musulmani

Le relazioni di papa Benedetto con l'islam sono state a volte pacifiche, a volte tese. Il 12 settembre 2006 il pontefice in visita all'Università di Ratisbona, in Germania, ha tenuto una lectio proprio su temi che riguardavano anche l'islam. Egli, che qui era stato professore prima di divenire pontefice, tenne una lettura dal titolo "Fede, Ragione e Università - memorie e riflessioni". Questa lettura ricevette una grande attenzione sia da parte delle autorità religiose che da parte di quelle politiche. Molti politici e capi religiosi islamici fecero presente la loro protesta contro quella che venne etichettata come un insulto, seppur mascherato, all'islam, anche se l'obbiettivo della riflessione del pontefice era quello di accusare la violenza religiosa ed i suoi effetti sulla religione, indipendentemente dall'islam. I musulmani rimasero offesi in particolare da un passaggio del discorso del pontefice: "Ora mostratemi ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverete solo cose cattive e inumane, come il comandamento di diffondere anche con la spada la fede da lui proclamata."

Il passaggio originariamente era presente nel Dialogue Held with a Certain Persian, the Worthy Mouterizes, in Anakara of Galatia scritto nel 1391 come espressione delle visioni dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo, uno degli ultimi reggenti cristiani di Costantinopoli prima della caduta della capitale nelle mani dell'impero ottomano musulmano e della conversione forzosa dei cristiani, della guerra santa. Secondo il testo tedesco, il commento originale del papa fu che l'imperatore volesse "indirizzare il suo interlocutore in un sorprendente dialogo faccia a faccia" (wendet er sich in erstaunlich schroffer, uns überraschend schroffer Form). Papa Benedetto si è successivamente scusato per ogni possibile offesa che le sue parole potessero aver causato nel mondo islamico e si appuntò nel suo diario una visita in Turchia, paese prevalentemente musulmano, con l'obbiettivo di pregare nella Moschea Blu. Il 5 marzo 2008, Benedetto XVI diede l'annuncio di voler incontrare nell'autunno di quello stesso anno degli studiosi dell'islam e dei capi politici islamici in un seminario cattolico-islamico a Roma. Il meeting, denominato "Primo Meeting del forum cattolico-musulmano", si tenne dal 4 al 6 novembre 2008. Il 9 maggio 2009, Benedetto XVI visitò la moschea di re Hussein ad Amman, in Giordania, dove venne accolto dal principe Ghazi bin Muhammad.

Numerose altre volte il papa ha incontrato esponenti del mondo islamico, come a Colonia, durante il viaggio in Terra santa e a Istanbul, dove ha compiuto l'inedita e per certi versi storica visita alla Moschea Blu.

Ebraismo

Quando Benedetto XVI ascese al papato le sue elezioni vennero bene accolte dalla Anti-Defamation League che si occupa di tutelare la veridicità della storia ebraica e dell'olocausto, la quale aveva fatto notare come il cardinale Ratzinger avesse sempre mostrato "la sua grande sensibilità nei confronti della storia ebraica e dell'Olocausto". L'elezione del nuovo pontefice ricevette una risposta ancora più forte dal rabbino capo del Regno Unito, Jonathan Sacks, il quale si augurò che Benedetto volesse "continuare sui passi di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II nel voler implementare le relazioni col popolo ebraico e lo stato d'Israele." Il ministro degli esteri israeliano disse a tal proposito: "questo papa, considerando la sua esperienza storica, sarà particolarmente attento alla lotta all'antisemitismo."

Alcuni critici hanno comunque accusato il papato di Benedetto XVI di insensibilità nei confronti del giudaismo. Le due critiche principali si sono concentrate sul crescente uso della messa tridentina e sulla liberazione dalla scomunica di quattro vescovi della Società di San Pio X (SSPX). Durante il venerdì Santo, infatti, la messa tridentina prevede anche una preghiera per chiedere a Dio che tolga il velo così che questi [ebrei] possano uscire dalla loro oscurità. Questa particolare preghiera è divenuta oggetto di contenzioso tra gli ebrei e i cattolici e molti sono stati i gruppi a vedere quindi il ripristino del rito tridentino come problematico. Tra le scomuniche rimesse, inoltre, vi era anche quella del vescovo Richard Williamson, noto revisionista e negazionista dell'Olocausto. Lo scioglimento dalla scomunica di questo vescovo ha portato delle critiche al papa proprio in virtù del suo rapporto con l'ebraismo.

La visita in Terra santa

In occasione di un'udienza alle organizzazioni ebree statunitensi in Vaticano, il Pontefice annunciò che nella primavera del 2009 si sarebbe recato in Terra santa: Israele, Palestina e Giordania. Nella stessa occasione, il Papa ha chiesto perdono al popolo ebraico con le stesse parole che usò papa Giovanni Paolo II nel 2000: «Faccio mia la sua preghiera. "Signore dei nostri padri, che scegliesti Abramo e i suoi discendenti per portare il tuo Nome alle Nazioni: siamo profondamente addolorati per il comportamento di coloro che nel corso della storia hanno causato sofferenza ai tuoi figli e, nel chiedere perdono, vogliamo impegnare noi stessi per una autentica fratellanza con il Popolo dell'Alleanza"». Inoltre, il Papa ha definito «inaccettabile e intollerabile» la posizione di chi, tra gli uomini di Chiesa, nega o minimizza la Shoah (riferimento, questo, esplicito alla posizione del vescovo scismatico Williamson). Il presidente dello Yad Vashem, il museo israeliano sulla Shoah, ha espresso apprezzamento e fiducia per le «frasi inequivocabili» del Pontefice. Questo scambio sembra aver chiuso l'accesa polemica sulle posizioni del vescovo negazionista e scismatico lefebvriano Richard Williamson.

Il buddhismo tibetano

Il Dalai Lama si è congratulato con papa Benedetto XVI sin dalla sua elezione, e gli ha fatto visita in Vaticano nell'ottobre del 2006. Nel 2007, la Cina venne accusata di utilizzare la propria influenza politica per fermare l'incontro tra il papa ed il Dalai Lama.

Credenze indigene americane

In visita in Brasile nel maggio del 2007, "il papa ha provocato delle controversie dicendo che le popolazioni native avessero manifestato una "silenziosa appartenenza" alla fede cristiana portata in Sud America dai colonizzatori." Il papa continuò affermando che "la proclamazione di Gesù e del suo Vangelo non ha ad ogni modo provocato l'alienazione delle culture precolombiane, né si è giunti all'imposizione di una cultura straniera." L'allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, chiese delle scuse per tali affermazioni, e un'organizzazione indigena dell'Ecuador mise per iscritto una risposta nella quale si ribadiva che "i rappresentanti della chiesa cattolica di quei tempi, seppur con onorevoli eccezioni, furono complici, ingannatori e beneficiari di uno dei più atroci genocidi di tutta l'umanità." Successivamente il papa, parlando in italiano, ha precisato durante un'udienza settimanale in piazza san Pietro che "non è possibile dimenticare la sofferenza e le ingiustizie inflitte dai colonizzatori alle popolazioni indigene, i cui fondamentali diritti umani vennero violati."

Induismo

Mentre era in visita negli Stati Uniti il 17 aprile 2008, Benedetto XVI si incontrò con il rappresentante della Associazione internazionale per la coscienza di Krishna, Radhika Ramana Dasa; noto studioso dell'Induismo e discepolo di Hanumatpreshaka Swami. Per conto della comunità induista americana, Radhika Ramana Dasa donò a papa Benedetto un simbolo "Om".

Rinuncia al ministero petrino

L'11 febbraio 2013 Benedetto XVI ha annunciato la sua rinuncia al ministero petrino, a partire dal 28 febbraio, lasciando così spazio alla convocazione di un conclave per l'elezione del suo successore, come previsto dalla costituzione apostolica Universi Dominici Gregis. La notizia è stata comunicata dal papa in latino durante il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto e di altri tre beati, seguendo le regole previste dal Canone 332 del Codice di Diritto Canonico, che al comma 2 richiede «che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata»; l'ultima rinuncia di un pontefice al proprio ruolo era avvenuta ben 598 anni prima, nel 1415, ad opera di Papa Gregorio XII.

(LA)

«Fratres carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum.

Bene conscius sum hoc munus secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo exsequi debere, sed non minus patiendo et orando. Attamen in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam. Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso renuntiare ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse.»

(IT)

«Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino.

Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.»

(Papa Benedetto XVI, Concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto, 11 febbraio 2013.)

Benedetto XVI ha cessato dunque il suo pontificato dalle ore 20:00 del 28 febbraio 2013. In quel momento è iniziato il periodo di sede vacante nel quale è stato organizzato il conclave (a cui Benedetto XVI non ha preso parte) che si è concluso la sera del 13 marzo 2013 con l'elezione al soglio pontificio di papa Francesco.

Benedetto XVI ha espresso la volontà di risiedere nella Città del Vaticano, nel monastero Mater Ecclesiae. Attendendo la fine di alcuni lavori di ristrutturazione all'interno del monastero, prevista per il mese di maggio 2013, ha soggiornato nelle ville pontificie di Castel Gandolfo. Qui è giunto alle 17:30 del 28 febbraio 2013; circa mezz'ora prima ha lasciato il Vaticano in elicottero, partendo dal suo eliporto: l'intero abbandono degli appartamenti pontifici è stato ripreso da 19 telecamere del Centro Televisivo Vaticano e trasmesso in diretta televisiva. A Castel Gandolfo il papa ha salutato per l'ultima volta la folla con un breve intervento in cui ha parlato a braccio.

Allo scoccare delle ore 20:00, gli atti che hanno formalmente segnato l'avvio della sede vacante sono stati la chiusura del portone di accesso al Palazzo Pontificio, il passaggio di consegne tra la Guardia svizzera pontificia e la Gendarmeria Vaticana, che ha assunto i compiti di protezione dell'ormai pontefice emerito, l'ammaino della bandiera al Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo (la bandiera issata indica infatti la presenza del papa nell'edificio), la sigillatura dell'appartamento papale del Palazzo Apostolico e la dismissione degli abiti pontifici da parte di Benedetto XVI. L'annullamento dell'anello piscatorio è avvenuto il 5 marzo tramite rigatura.

Benedetto XVI ha assunto il titolo ufficiale di "sommo pontefice emerito" o "papa emerito", venendo comunque chiamato con l'appellativo "Sua Santità"; continua a indossare l'abito talare bianco semplice, senza tuttavia la pellegrina bianca e la fascia, mentre all'anulare destro è tornato a portare l'anello vescovile.

L'intenzione di rinunciare al ministero petrino non è stata una decisione improvvisa, ma maturata gradualmente e accuratamente e già nota agli stretti collaboratori del pontefice da molto tempo; tuttavia, solo alla fine si è palesata la reale intenzione di compiere tale atto, e non dunque una mera ipotesi.

Papa emerito

Incontro tra papa Francesco e Benedetto XVI in occasione dell'inaugurazione della statua di San Michele arcangelo nei Giardini Vaticani, 5 luglio 2013.

Il 23 marzo 2013 papa Francesco si è recato a Castel Gandolfo presso il Palazzo Pontificio per fare visita al papa emerito Benedetto XVI. Dopo essersi abbracciati, i due papi hanno pregato insieme, inginocchiati uno accanto all'altro. Storicamente si è trattato del primo incontro fra due pontefici.

Il 2 maggio 2013, dopo due mesi trascorsi a Castel Gandolfo, ha fatto il suo ritorno in Vaticano, andando a vivere nel monastero Mater Ecclesiae così come precedentemente previsto, al termine dei lavori di ristrutturazione.

Il 5 luglio 2013 Benedetto XVI è apparso in pubblico per la prima volta da papa emerito insieme a papa Francesco all'inaugurazione di un nuovo monumento a san Michele Arcangelo nei Giardini Vaticani.

Il 22 febbraio 2014 ha partecipato al primo concistoro per la creazione di nuovi cardinali di papa Francesco, assistendo al rito seduto tra i cardinali e salutando il pontefice regnante al termine della processione d'ingresso. Si è trattato della prima volta in cui si è verificata la compresenza di due papi viventi all'interno della basilica di San Pietro.

Il 27 aprile 2014 ha concelebrato con papa Francesco la messa per la canonizzazione dei suoi predecessori Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.

Il 28 settembre 2014 Benedetto XVI ha presenziato con Francesco alla festa dei nonni e alle iniziative connesse sul sagrato della basilica di San Pietro.

Il papa emerito nella basilica vaticana al termine del concistoro per la creazione di nuovi cardinali del 22 febbraio 2014

Il 19 ottobre 2014 ha concelebrato nuovamente con papa Francesco la messa in piazza San Pietro in occasione della beatificazione di papa Paolo VI e della contestuale conclusione del sinodo straordinario dei vescovi.

Il 14 febbraio 2015 il papa emerito ha nuovamente partecipato nella basilica di San Pietro al secondo concistoro per la creazione di nuovi cardinali di papa Francesco.

Il 30 giugno 2015 papa Francesco si è recato al monastero Mater Ecclesiae per salutare il predecessore prima di un periodo di riposo che questi avrebbe trascorso per un paio di settimane presso la residenza estiva di Castel Gandolfo, trattenendosi per un colloquio di circa mezz'ora. Durante il soggiorno a Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha ricevuto, il 4 luglio 2015, il dottorato honoris causa dalla Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia e dell'Accademia di Musica di Cracovia dal cardinale Stanisław Dziwisz, arcivescovo della città polacca.

Il 30 novembre 2015, durante la consueta conferenza stampa nel percorso aereo di ritorno dal viaggio apostolico in Africa, papa Francesco, in merito ai recenti scandali - denominati Vatileaks 2 - che hanno scosso il Vaticano, ha dichiarato che continuerà "con i cardinali, con le commissioni quell'opera di pulizia iniziata da Ratzinger", eletto proprio contro la corruzione. "Tredici giorni prima che morisse Wojtyła - ha continuato Bergoglio - Ratzinger ha parlato della sporcizia nella Chiesa" alla Via Crucis al Colosseo e, successivamente, nell'omelia della messa pro eligendo Pontifice. "Noi lo abbiamo eletto per questa sua libertà di dire le cose", ha aggiunto papa Francesco.

L'8 dicembre 2015, giorno di apertura del Giubileo straordinario della misericordia, Benedetto XVI ha assistito all'apertura della Porta santa, varcandola subito dopo papa Francesco.

Il 28 giugno 2016, in occasione del 65º anniversario di ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI, si è svolta una cerimonia nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico alla presenza di papa Francesco e di altri membri della Curia romana. La cerimonia è stata animata dalla Cappella musicale pontificia sistina ed è stata introdotta da un discorso di papa Francesco, seguito poi dagli interventi del cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e del cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio. Al termine il papa emerito ha preso la parola pronunciando a braccio un discorso di ringraziamento.

Il 28 giugno 2017 Benedetto XVI ha ricevuto i cardinali da poco creati nella sua cappella privata e ha "parlato con tutti nella loro lingua nativa", rimarcando come essi provenissero "dai quattro continenti, dall'intera Chiesa". Egli ha precisato inoltre che "il Signore vinca alla fine" e ringraziandoli per il loro ministero nella Chiesa, dando loro inoltre la sua benedizione particolare.

Nel luglio del 2017 Benedetto XVI ha fatto pervenire un messaggio tramite il suo segretario particolare, l'arcivescovo Georg Gänswein, in occasione del funerale del cardinale Joachim Meisner, improvvisamente scomparso mentre si trovava in Germania. Nel suo messaggio, il papa emerito si riferiva a Meisner come a un "pastore appassionato" che aveva trovato "difficile abbandonare il suo posto". L'ex pontefice disse inoltre di aver parlato al telefono con Meisner proprio il giorno precedente alla morte di quest'ultimo e che il cardinale tedesco appariva rilassato per il periodo di vacanza che lo attendeva dopo aver presenziato alla beatificazione di Teofilius Matulionis a Vilnius.

In un saggio all'interno di un libro del cardinale Robert Sarah del 2020, Benedetto XVI ha espresso la propria idea circa il mantenimento del celibato del clero in seno alla Chiesa cattolica, proprio alla luce del recente dibattito sulla questione. Ciò fece parlare non solo del ruolo di Benedetto e dei suoi scritti all'interno del volume, ma anche sulle posizioni conservatrici di una parte della Chiesa cattolica che si erano recentemente scontrate con quanto emerso dal sinodo sull'Amazzonia voluto da papa Francesco. Benedetto XVI chiese al suo segretario privato, l'arcivescovo Georg Gänswein, di rimuovere il suo nome, che appariva in copertina assieme a quello dell'autore.

Dal 18 al 22 giugno 2020 Benedetto XVI è stato a Ratisbona, in Germania, per essere accanto al fratello Georg Ratzinger, gravemente malato e deceduto poi il 1º luglio. Si è trattato del primo viaggio internazionale per Benedetto XVI dopo la rinuncia al ministero petrino.

Il 4 settembre 2020 ha superato il primato di longevità per un pontefice, detenuto da Leone XIII, diventando il papa più anziano della storia.

Il 29 giugno 2021 ha festeggiato il 70º anniversario di sacerdozio e per l'occasione è stata organizzata una mostra, dal titolo Cooperatores veritatis, dove vengono esposti alcuni suoi oggetti personali.

Nei giorni precedenti al Natale 2022, il papa emerito ha iniziato ad accusare problemi respiratori che, nei giorni successivi, si sono aggravati. Benedetto XVI ha ricevuto l'estrema unzione nel pomeriggio di mercoledì 28 dicembre 2022 ed è deceduto il 31 dicembre 2022 nel monastero Mater Ecclesiae, nella Città del Vaticano, all'età di 95 anni.

Interessi personali

L'amore per la musica classica

Benedetto XVI è noto per essere profondamente interessato e attratto dalla musica classica, oltre ad essere un noto pianista. Il suo compositore preferito è Wolfgang Amadeus Mozart, della cui musica ha detto: "La sua musica non è solo intrattenimento; contiene tutta la tragedia dell'esistenza umana." Benedetto XVI ha inoltre dichiarato che la musica di Mozart lo ha appassionato sin da giovane e ha "penetrato profondamente la sua anima". Le opere che Benedetto predilige di Mozart sono il concerto per clarinetto e il quintetto per clarinetto. Egli stesso ha registrato un album di musica classica contemporanea dal titolo Alma Mater nel quale canta e recita preghiere alla Vergine Maria. L'album è stato pubblicato il 30 novembre 2009.

Egli inoltre è un grande appassionato di gatti. Ancora cardinale era noto ai suoi vicini di casa per prendersi cura dei gatti randagi che trovava. Un libro dal titolo inglese Joseph and Chico: A Cat Recounts the Life of Pope Benedict XVI ("Joseph e Chico: un gatto racconta la vita di papa Benedetto XVI") venne pubblicato nel 2007 proprio per raccontare la vita di papa Benedetto vista dal suo gatto, Chico. Durante il suo viaggio apostolico in Australia per la Giornata Mondiale della Gioventù del 2008 i media hanno riportato come il papa si fosse portato appresso anche un gatto grigio chiamato Bella per tenergli compagnia durante la sua permanenza.

L'uso dei social media

Nel dicembre del 2012 il Vaticano ha annunciato che anche il pontefice aveva iniziato a scrivere sui servizi di rete sociale e precisamente su Twitter con l'account @Pontifex. Il suo primo tweet è stato fatto il 12 dicembre col testo: «Cari amici, sono contento di stare in contatto con voi tramite Twitter. Grazie alla vostra generosa risposta. Vi benedico tutti con tutto il mio cuore.» Il 28 febbraio 2013, giorno della sua rinuncia al pontificato, i tweets di Benedetto XVI sono stati archiviati e l'account @Pontifex riportava la scritta "Sede Vacante". Papa Francesco, una volta insediato, ha deciso di recuperare l'account @Pontifex.

Manuela Tulli per l’ANSA il 31 Dicembre 2022.

Dai politici allo Ior, dalla sua elezione a Papa alla rinuncia, passando per i giorni dell'infanzia e arrivando anche a Papa Bergoglio. Può considerarsi un vero e proprio testamento spirituale il libro-intervista di Benedetto XVI con Peter Seewald "Ultime conversazioni" del 2016, al quale seguirono altre 'confessioni' con l'amico giornalista contenute nella corposa biografia pubblicata nel 2020. 

Tra gli argomenti affrontati, il Papa emerito, con molta umanità, aveva parlato anche della sua morte. Paura? gli aveva chiesto il giornalista tedesco. "Per certi versi sì", aveva confidato Ratzinger informando di avere comunque già steso il suo testamento "definitivo". E aveva aggiunto che avrebbe voluto che sulla lapide fosse scritto il solo nome.

Ma Benedetto XVI rivelò anche le sfaccettature più nascoste dei suoi giorni da Papa: per esempio la sua insofferenza per le visite dei politici, o la questione Ior che era "un punto di domanda". Disse anche che non si aspettava l'elezione di Bergoglio. In quelle pagine si ritrova anche il suo lungo, e non sempre facile, rapporto con Papa Wojtyla, ma anche dettagli più intimi come il fatto che amasse dormire, o che fosse da anni cieco da un occhio. Ratzinger dunque si è aperto al suo biografo con grande sincerità e naturalezza, ridendo durante la conversazione, diverse volte. 

Come quando raccontò della zia che fece 'marameo' ai nazisti che passavano su un treno. Ma anche piangendo, quando ricordò le campane che lo salutarono nel momento in cui, dopo la rinuncia, lasciò in elicottero il Vaticano per ritirarsi a Castel Gandolfo. Nel trarre un bilancio del suo pontificato aveva detto: "Il governo pratico non è il mio forte e questa è certo una debolezza. Ma non riesco a vedermi come un fallito".

Però confermò quanto già tutti sapevano, ovvero la fatica, lui, che pensava che sarebbe stato per tutta la vita solo un professore, di essere a capo della Chiesa cattolica. Ci sono state "belle esperienze", aveva avuto anche la consapevolezza di "essere sostenuto". "Ma è stato naturalmente sempre anche un fardello", ammise Ratzinger. Una grande libertà espresse infine in quelle parole su Papa Francesco. 

"Nessuno - disse il Papa emerito - si aspettava lui. Io lo conoscevo, naturalmente, ma non ho pensato a lui". Sempre su Papa Francesco disse di apprezzare il suo modo di stare con la gente ma "mi chiedo quanto potrà andare avanti" a "stringere ogni mercoledì duecento mani o più", diceva il Papa emerito così riservato, così diverso nel rapporto con le folle rispetto al Papa argentino.

(di Manuela Tulli) (ANSA il 31 Dicembre 2022) Un Papa seduto al pianoforte con accanto uno dei suoi gatti. Era anche questo Benedetto XVI, un Pontefice che sapeva cogliere la bellezza della vita anche nell'arte, nella natura e nell'affetto per gli animali. La musica classica è stata la sua passione dai tempi dell'infanzia, trasmessa dai genitori e dal fratello maggiore che infatti è stato un musicista. Mozart era in cima alle note da lui preferite ma amava anche Bach e Beethoven.

Restano al proposito le toccanti parole che pronunciò il 16 aprile 2007 nella Sala Nervi in occasione del concerto per il suo 80/o compleanno eseguito dall'Orchestra radiofonica di Stoccarda. ''Nel guardare indietro alla mia vita, ringrazio Iddio per avermi posto accanto la musica quasi come una compagna di viaggio, che sempre mi ha offerto conforto e gioia''. E poi il Mozart che ascoltava in ginocchio nella Messa di Natale. ''Mozart - spiegava lui stesso - esprime con la universalità della musica ciò che le parole non possono manifestare, cioè Gesù che si incarna e si fa uomo''.

Il fratello Georg, morto nel 2020, visse di musica e per trent'anni, dal 1964 al 1994, fu il direttore del Regensburger Domspatzen, il coro delle voci bianche del duomo di Ratisbona. "Nella nostra casa - raccontava mons. Georg Ratzinger - tutti amavano la musica. Ho sempre pensato che la musica sia una delle cose più belle che Dio abbia creato. Anche mio fratello ha sempre amato la musica: forse l'ho contagiato io". Il maestro Riccardo Chailly diceva di vedere in lui ''prima di tutto il musicista, il Papa musicista.

Questa è una cosa straordinaria e molto diversa dal passato - spiegava -. Quindi non solo colui che ama la musica, ma che è particolarmente dedito, lui stesso, ad eseguire musica classica''. Ma nel segreto della vita del Papa studioso e teologo c'era anche la natura, gli animali, a partire dai suoi amati gatti. 

Resta tra tutti un aneddoto raccontato, al momento dell'elezione di Benedetto XVI, dal cardinale Tarcisio Bertone: ''Ogni volta che incontrava un gatto lo salutava e gli parlava, anche a lungo. E il gatto, affascinato, lo seguiva. Una volta si è portato dietro fino al Vaticano una decina di gatti. Sono dovute intervenire le guardie svizzere: 'guardi eminenza, che i gatti stanno dando l'assalto alla Santa Sede...'", raccontava divertito colui che poi sarebbe divenuto il suo Segretario di Stato. 

Ma nel cuore di Benedetto c'è sempre stata anche la sua Baviera, con il folclore, la birra, le persone che gli volevano bene e hanno sempre continuato a recarsi a Roma per fargli visita e lasciargli respirare un po' di aria di casa. 

Quando compì 90 anni, ed era già Papa emerito, giunse una delegazione ufficiale dalla natia Baviera, e davanti al convento 'Mater Ecclesiae', nei Giardini Vaticani, si tenne una festa bavarese con tanto di grandi boccali di birra, i tipici bretzel e la musica eseguita da una compagnia di Schuetzen con i loro costumi folkloristici. A conclusione del festoso incontro, prima di impartire la benedizione a tutti i presenti, Benedetto XVI aveva ringraziato per averlo fatto tornare alla sua "bellissima terra".

La birra, dunque, tra le cose che gli piacevano e che non disdegnava di bere; come anche era goloso dei dolci tipici della sua terra, come lo strudel. Il legame con la bevanda ispirò, in occasione della sua visita a Berlino nel 2011, una nuova birra: la 'birra del Papa'. Questa 'Pils' ecologica sarebbe ''maturata durante i canti gregoriani, che le hanno dato un'anima'', raccontava il suo eccentrico ideatore Helmut Kurtschat.

Fausto Gasparroni per l’ANSA il 31 Dicembre 2022.

Benedetto XVI è stato il primo Papa ad avviare una campagna di "tolleranza zero" per sradicare il fenomeno della pedofilia nel clero e per punire i colpevoli, compresi i vescovi 'omertosi'. Fu lui - a cui, all'epoca ancora cardinale, si deve la clamorosa denuncia della "sporcizia nella Chiesa" nella Via Crucis del 2005 - a portare a sentenza l'annoso processo sul 'caso Maciel', il fondatore dei Legionari di Cristo. 

E fu lui a volere massima trasparenza su ogni caso, contro la prassi degli insabbiamenti delle denunce di abusi e dei semplici spostamenti dei pedofili da una diocesi all'altra. L'emergere di sempre nuove vicende risalenti ai decenni passati (una lambì la stessa figura del Pontefice, per il cambio d'incarico a un prete pedofilo quand'era arcivescovo a Monaco) fece però divampare ancora di più lo scandalo a livello globale. 

Il Papa indirizzò anche una lettera "ai cattolici d'Irlanda", Paese tra i più colpiti. Ma nell'estate del 2011 l'uscita delle relazioni governative sugli abusi nelle diocesi d'Irlanda innescò perfino una crisi diplomatica con Dublino. La forte spinta anti-pedofili da parte di Benedetto XVI, insomma, sembrò diventare un'arma a doppio taglio, che s'infiammò ancora di più negli anni successivi con le uscite delle varie indagini indipendenti o governative in diversi Paesi europei, in singole diocesi, come pure negli Stati Uniti.

Lo scandalo, all'inizio del 2010, investì anche la Chiesa tedesca e in marzo arrivò a sfiorare lo stesso Benedetto XVI, già arcivescovo di Monaco di Baviera dal 1977 al 1982: proprio in quel ruolo, l'allora cardinale Joseph Ratzinger accettò nel 1980 di accogliere nella sua diocesi, da quella di Essen, al solo scopo di farlo curare, un sacerdote sospettato di molestie sessuali su minori. 

Secondo la ricostruzione fatta dalla diocesi di Monaco, l'allora vicario generale della capitale bavarese, mons. Gerhard Gruber, decise però di affidare al religioso, definito retrospettivamente come "padre H.", un ruolo pastorale in una parrocchia. Ciò senza avvertire il suo superiore, ovvero lo stesso Ratzinger.

Il sacerdote si rese poi responsabile di nuovi crimini di pedofilia tanto che nel 1986 il tribunale dell'Alta Baviera lo condannò a 18 mesi di carcere e a una multa di 4 mila marchi tedeschi. Immediatamente, sia il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, sia l'arcivescovado di Monaco sostennero l'assoluta estraneità di Benedetto XVI a quanto accaduto. Lo stesso ex vicario generale, mons. Gruber, si assunse ogni colpa, con una dichiarazione pubblicata sul sito diocesano. 

Ma il caso tornò a galla nel gennaio 2022, quasi nove anni le dimissioni di Benedetto XVI - intanto nel 2019 suscitò non poche polemiche un suo testo sulla pedofilia nella Chiesa, da lui collegata al "collasso morale" della rivoluzione sessuale del '68 - con l'uscita del rapporto indipendente sugli abusi sessuali nell'arcidiocesi bavarese, che ha accusato Ratzinger di "comportamenti erronei" nella gestione di singoli casi.

Tra l'altro, in quei giorni l'autodifesa del Papa emerito conobbe uno spiacevole inciampo quando dovette correggere una sua dichiarazione essenziale rilasciata in relazione al dossier. Contrariamente al suo precedente resoconto, infatti, Ratzinger partecipò alla riunione dell'Ordinariato il 15 gennaio 1980, durante la quale si parlò del prete giunto da Essen che aveva abusato di alcuni ragazzi ed era venuto a Monaco per una terapia. Tuttavia, dichiarò il segretario particolare mons. 

Georg Gaenswein, nell'incontro in questione "non fu presa alcuna decisione circa un incarico pastorale del sacerdote interessato". Piuttosto, la richiesta fu approvata solo per "consentire una sistemazione per l'uomo durante il trattamento terapeutico a Monaco di Baviera". La questione che restava in piedi, però, era che Benedetto sapeva del prete accusato di pedofilia, anziché il contrario.

In seguito, al prete fu affidata la cura delle anime e continuò nei suoi comportamenti. E l'accusa che veniva rivolta all'allora arcivescovo Ratzinger era di non aver preso alcun provvedimenti affinché ciò non accadesse. Un'accusa che è costata all'ormai 95/enne Ratzinger anche una denuncia sporta in sede civile al Tribunale provinciale di Traunstein, nella Baviera tedesca, da un uomo che ha riferito di aver subito gli abusi proprio dal recidivo H. nella località di Garching an der Alz. 

 Il Papa emerito, agli inizi di novembre 2022, ha anche accettato di difendersi nella causa insieme agli altri tre denunciati: oltre al prete già condannato penalmente, anche il cardinale Friedrich Wetter, successore di Ratzinger sulla cattedra di Monaco, e l'arcidiocesi stessa. Se non si fosse dichiarato disposto alla difesa, il Pontefice emerito, nella quiete dell'ex monastero Mater Ecclesiae, avrebbe rischiato una condanna in contumacia.

Manuela Tulli per l’ANSA il 31 Dicembre 2022. 

Era un giorno festivo per il Vaticano, quell'11 febbraio del 2013. Si ricorda come ogni anno, a parte la Madonna di Lourdes, l'anniversario dei Patti Lateranensi, e l'orario degli uffici è ridotto. Nella sala stampa della Santa Sede non c'è il 'pienone' non solo per questo motivo ma anche perché l'unico appuntamento della giornata è un Concistoro di routine per fissare la data in cui verranno proclamati santi i martiri di Otranto.

Ma quell'appuntamento ha una coda inaspettata che cambia il corso della storia della Chiesa, ma forse anche della storia in generale. Papa Ratzinger parla ai cardinali in latino per dire loro che non sono stati convocati solo per quelle canonizzazioni: "Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum" ("Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino").

Pronuncia dunque due parole chiave, "ingravescente aetate", che richiamano il provvedimento di Paolo VI del 1970 che poneva un limite di età per i vescovi. E ora Benedetto XVI sente che quel limite chiama anche lui. Ad informare il mondo di questa decisione, senza precedenti da otto secoli, è un flash dell'ANSA delle 11.46. 

Nel box, questo in gergo il nome della postazione delle agenzie nella sala stampa vaticana, c'è in quel momento Giovanna Chirri che capta la gravità di quelle due parole in latino ed annuncia la notizia al mondo. Era una decisione meditata da tempo, come si scoprirà in seguito, e Papa Benedetto indica nel 28 febbraio la fine della data del suo pontificato e chiede che venga indetto un conclave.

Il Papa ha il volto stanco ma anche molto sereno quando afferma che vuole annunciare "una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa''. La prima reazione è quella di uno dei cardinali presenti al Concistoro, il decano Angelo Sodano''Un fulmine a ciel sereno''. 

Un commento tempestivo arriva dall'allora premier italiano Mario Monti che alle 12.11 (secondo l'ora della notizia ANSA) dirà' di essere "molto scosso da questa notizia inattesa''. Sarà lo stesso commento ripetuto poi nella giornata centinaia di volte perché nessuno, neanche all'interno della stessa Chiesa, poteva attendersi una notizia simile. Nel giro di pochi minuti anche Piazza San Pietro comincia a riempirsi di fedeli increduli. 

L'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano commenta: ''Un grande coraggio e da parte mia grandissimo rispetto''. L'allora portavoce di Ratzinger, padre Federico Lombardi, tiene una conferenza stampa ed esordisce: ''Il Papa ci ha preso un po' di sorpresa''. Il resto è storia con tutte le emittenti del mondo, dalla Rai alla Bbc, dalla Cnn ad Al-Jazeera, che cambiano i palinsesti e diventano una lunga all-news per cercare di capire che cosa c'è dietro questa decisione e che cosa succederà. I siti di tutti i giornali del mondo rilanciano per la giornata la notizia "appresa dall'ANSA".

Arrivano i commenti dei capi di Stato, tra i quali anche quello del presidente Usa Barack Obama, degli altri leader religiosi, di intellettuali e gente comune. Non manca in quelle ore qualche nota di alleggerimento dal mondo dello spettacolo. A Sanremo c'è la conferenza stampa del Festival che comincerà il giorno dopo. Luciana Litizzetto commenta: ''Non so se avete sentito, si è dimesso il Papa e io propongo Fabio Fazio come camerlengo''.

(di Manuela Tulli) (ANSA il 31 Dicembre 2022) E' stato soprattutto un fine teologo Joseph Ratzinger, che il 19 aprile del 2005 fu eletto Papa e scelse il nome di Benedetto XVI. Arrivava da una famiglia comune, con il papà poliziotto e la mamma cuoca, la quale ben presto però lasciò il lavoro per dedicarsi alla famiglia. Ratzinger era nato a Marktl am Inn, nel cuore della cattolicissima Baviera, il 16 aprile del 1927. Raffinato teologo, grande studioso, uomo timido, sembrava non essere destinato ad un ruolo di guida di tale portata.

Ma invece fin dai tempi della Congregazione per la Dottrina della Fede era divenuto uno dei cardinali punto di riferimento per tutta la Chiesa nel mondo. Chiunque lo ha conosciuto da vicino riferisce di una grande capacità di ascolto che ha mantenuto anche negli anni susseguenti alla rinuncia, con il Monastero Mater Ecclesiae divenuto un un punto di riferimento per tutti coloro che erano alla ricerca di un consiglio, di una parola, una benedizione. 

Maestro nel predicare in modo accessibile anche sui temi più complessi, in quasi otto anni di pontificato ha incontrato milioni di persone, ha compiuto decine di viaggi internazionali e in Italia, ha scritto diverse encicliche mettendo al centro l'amore e la speranza. Ha rilanciato e rinnovato la dottrina sociale della Chiesa, rendendola più aderente ai tempi difficili del mondo, tra globalizzazione e crescere delle povertà, relativismo e imperversare dell'effimero.

Resteranno nella storia della Chiesa le sue numerose pubblicazioni, a partire da "Gesù di Nazareth" in più volumi. Un ritratto per mostrare che la fede non è un elenco di proibizioni ma soprattutto un rapporto di amicizia con Dio. Benedetto XVI, nel corso del suo pontificato, ha posto i temi della povertà e dell'Africa, dei giovani, dell'ecumenismo e dell'annuncio della fede al mondo ormai secolarizzato. Per primo poi ha sollevato i tappeti mostrando la polvere che era stata accumulata sotto: è lui che ha voluto intraprendere la lotta contro la pedofilia nella Chiesa.

Era ancora cardinale (ma di lì a pochi giorni sarebbe succeduto a Giovanni Paolo II sul soglio di Pietro) quando nel 2005, nelle meditazioni della Via Crucis al Colosseo, diceva senza tanti giri di parole: "Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!". Tornando alle sue origini, dopo i primi anni a Marktl, trascorse l'adolescenza a Traunstein; negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale era stato arruolato nei servizi ausiliari antiaerei, mentre era iscritto d'ufficio alla Gioventù hitleriana.

Una nota che gli costò tante accuse e critiche, pur essendo una condizione 'normale' per la Germania di quei difficili anni. Diventato sacerdote il 29 giugno 1951, prese poi il dottorato in teologia con una tesi su sant'Agostino e fu abilitato alla docenza con un'opera su san Bonaventura. Ha insegnato in diverse università della Germania: a Frisinga, Bonn, Muenster, Tubinga e Ratisbona. E' stato anche tra gli esperti che lavoravano accanto ai vescovi nel Concilio Vaticano II.

Nel '77 Paolo VI lo ha nominato arcivescovo di Monaco e il 27 giugno lo ha creato cardinale. Ha partecipato ai conclavi che nel '78 hanno eletto Papa Luciani e Papa Wojtyla. Nel 1981 Giovanni Paolo II lo ha nominato Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. E' stato presidente della commissione per la preparazione del Catechismo della Chiesa cattolica, vice decano e poi decano dei cardinali. E' stato eletto Papa il 19 aprile del 2005, al quarto scrutinio. Infine l'11 febbraio del 2013 la decisione a sorpresa di lasciare il Pontificato. Prima di lui occorre risalire a Gregorio XII il 4 luglio 1415, e prima ancora a Celestino V il 13 dicembre 1294, per trovare Papi che avevano fatto una scelta così dirompente.

Morto Papa Benedetto XVI, Joseph Ratzinger. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Dicembre 2022.

Vatican News ha reso noto che il corpo di Benedetto XVI sarà esposto nella basilica di San Pietro nella mattinata di lunedì 2 gennaio. Papa Ratzinger avrà dunque l’omaggio che spetta ai papi regnanti, l’orario preciso non è stato ancora reso noto ma è probabile che sin dalla primissima mattina le migliaia di fedeli previsti potranno accedere alla basilica. I funerali saranno celebrati nella mattina di giovedì 5 gennaio in San Pietro e presieduti da Papa Francesco.

Benedetto XVI è deceduto oggi alle ore 9:34, nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano. Lo ha annunciato il direttore della Sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni. Il Papa emerito aveva 95 anni. Dopo l’improvviso “aggravamento dovuto all’avanzare dell’età” nella notte tra martedì e mercoledì, Papa Francesco aveva chiesto ai fedeli “una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa”, fino a dire: “Ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine“. Dalla mattina di lunedì 2 gennaio 2023, il corpo di Joseph Ratzinger sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano per il saluto dei fedeli.

Nato a Marktl am Inn, in Baviera, il 16 aprile 1927, Ratzinger entrò in seminario a 12 anni, nel 1939. Fu ordinato sacerdote insieme al fratello maggiore Georg il 29 giugno 1951, a 24 anni. Fu arruolato nell’esercito durante la seconda guerra mondiale ma non fu mandato al fronte. Con la cattedra di teologia fondamentale ottenuta nel 1957 a Monaco di Baviera, iniziò a 30 anni una brillante carriera accademica che lo ha visto insegnare nelle università di Bonn (1959-1963), Muenster (1963-1966) e Tubinga (1966-1969) e, dopo il turbolento Sessantotto, Ratisbona (1969-1977), nella sua Baviera. Partecipò da “perito teologico” del cardinale Josef Frings, arcivescovo di Colonia, (1962-1965).

Paolo VI lo nominò arcivescovo di Monaco di Baviera e lo creò cardinale nel 1977, Giovanni Paolo II lo volle accanto a sé a Roma, nel 1981, come prefetto della congregazione per la Dottrina della fede. Fu eletto Papa il 16 aprile 2005, 264esimo successore di Pietro, e assunse il nome di Benedetto XVI. Quasi otto anni dopo, l’11 febbraio 2013, annunciò la rinuncia al pontificato. La sede vacante iniziò il successivo 28 febbraio e il 13 marzo il Conclave elesse Francesco. Dopo alcuni mesi nella residenza di Castel Gandolfo, dove si era recato al momento della rinuncia e dove, il 23 marzo, ricevette il successore, il Papa “emerito” tornò in Vaticano, dove da allora ha vissuto nel monastero Mater Ecclesiae. Unico allontanamento, il viaggio di pochi giorni in Baviera nel giugno del 2020 per accomiatarsi dall’anziano fratello Georg, deceduto all’età di 96 anni il successivo primo luglio.

È un santo“, ha di recente affermato il successore Papa Francesco. Vatican News il sito della Santa Sede ricorda che in molte occasioni Jorge Mario Bergoglio ha parlato del legame con il suo predecessore, “che nell’Angelus del 29 giugno 2021, settantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale di Ratzinger, ha chiamato “padre” e “fratello”“. Sin dall’inizio del suo pontificato, Papa Francesco ha avviato la “tradizione” di incontrare il Pontefice emerito, a partire dalla prima storica visita del Papa neo eletto giunto in elicottero nella residenza di Castel Gandolfo, dove Benedetto ha alloggiato alcune settimane prima di trasferirsi in Vaticano. In vista delle Festività natalizie o pasquali o in occasione dei Concistori con i nuovi cardinali, “Francesco non ha mai voluto far mancare il gesto di vicinanza e cortesia di recarsi nel monastero vaticano per gli auguri e un saluto“.

Vatican News ha reso noto che il corpo di Benedetto XVI sarà esposto nella basilica di San Pietro nella mattinata di lunedì 2 gennaio. Papa Ratzinger avrà dunque l’omaggio che spetta ai papi regnanti, l’orario preciso non è stato ancora reso noto ma è probabile che sin dalla primissima mattina le migliaia di fedeli previsti potranno accedere alla basilica. I funerali saranno celebrati nella mattina di giovedì 5 gennaio in San Pietro e presieduti da Papa Francesco.

Papa Francesco: “Commossi e grati a Ratzinger“

Parlando della gentilezza, in questo momento, il pensiero va spontaneamente al carissimo Papa emerito Benedetto XVI, che questa mattina ci ha lasciato. Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile, così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata. Solo Dio conosce il valore e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della Chiesa”. Così Papa Francesco nel Te Deum.

Mattarella: “Lutto per l’Italia”

Desidero unirmi ai sentimenti di profonda commozione degli italiani tutti nel porgere a Vostra Santità le espressioni del sincero cordoglio della Repubblica italiana per la morte di Benedetto XVI, Papa Emerito – scrive Mattarella nel messaggio a Sua Santità Papa Francesco – Teologo insigne, brillante accademico e uomo di finissima cultura, Joseph Ratzinger ha profondamente segnato per oltre mezzo secolo la vita della Chiesa, dedicandosi con passione, coerenza e dedizione alla riflessione su aspetti fondamentali del Cristianesimo e al suo rapporto con la modernità. Nella coinvolgente esperienza del Concilio Vaticano secondo, nell’insegnamento presso le più prestigiose università della natia Germania e nell’attività pastorale ha delineato un percorso intellettuale e di fede che, fin dagli anni della lunga e intensa collaborazione con San Giovanni Paolo II, ha posto senza riserve al servizio della Chiesa universale, proseguendo poi con serenità nella inedita veste di Papa Emerito“.

La Sua scomparsa segna per l’Italia la perdita di un pastore che nel corso di una lunga vita Le ha testimoniato ripetutamente un profondo affetto, unito al sincero attaccamento per quell’immenso patrimonio di cultura intimamente legato alle radici e alle tradizioni cristiane del nostro Paese. In quest’ora, che è di preghiera per i credenti e di raccoglimento per tutti, l’Italia intera si stringe a Vostra Santità con sentita partecipazione e le rinnova, Padre Santo, le affettuose espressioni della più sincera vicinanza” conclude il presidente Mattarella.

Meloni: “Gigante della fede e della ragione“

Benedetto XVI è stato un gigante della fede e della ragione. Un uomo innamorato del Signore che ha messo la sua vita al servizio della Chiesa universale e ha parlato, e continuerà a parlare, al cuore e alla mente degli uomini con la profondità spirituale, culturale e intellettuale del suo Magistero. Un cristiano, un pastore, un teologo: un grande della storia che la storia non dimenticherà”. Così il premier Giorgia Meloni. “Ho espresso al Santo Padre Francesco la partecipazione del Governo e mia personale al dolore suo e dell’intera comunità ecclesiale” ha aggiunto il presidente del Consiglio.

Scholz: “Mondo perde figura eccezionale“

Come Papa “tedesco”, Benedetto XVI è stato un leader ecclesiastico speciale per molti, non solo in questo Paese. Il mondo perde una figura formativa della Chiesa cattolica, una personalità combattiva e un intelligente teologo. Il mio pensiero va a Papa Francesco” ha scritto su Twitter il cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Redazione CdG 1947

È morto Benedetto XVI, il papa emerito aveva 95 anni. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 31 Dicembre 2022.

Benedetto XVI, nato Joseph Aloisius Ratzinger, è morto oggi. È stato il 265esimo papa della Chiesa cattolica

Benedetto XVI è deceduto oggi alle ore 9:34, nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano. Il Papa emerito aveva 95 anni. Dopo l’improvviso «aggravamento dovuto all’avanzare dell’età» nella notte tra martedì e mercoledì, Papa Francesco aveva chiesto ai fedeli «una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa», fino a dire: «Ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine». Dalla mattina di lunedì 2 gennaio 2023, il corpo di Joseph Ratzinger sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano per il saluto dei fedeli.guardali

Le reazioni alla morta di Benedetto XVI

«Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!». Duomo di Torino, 2 maggio 2010. Solo un Papa della statura spirituale e culturale di Benedetto XVI poteva restare per cinque minuti in ginocchio davanti alla Sindone, «icona del Sabato Santo», muovendo appena le labbra in una preghiera silenziosa, e poi citare le parole di Nietzsche ne La gaia scienza. Ora che Joseph Ratzinger ha raggiunto lo scopo e il compimento di tutta la sua vita - le parole del Salmo 27 poste come esergo al suo Gesù di Nazaret: «Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» -, bisogna risalire al principio, Marktl am Inn, il paesino dell’Alta Baviera dov’era nato il 16 aprile 1927. Il padre era un gendarme figlio di contadini, la madre andava a servizio. Era un Sabato Santo. E l’essere venuto al mondo in quel giorno ha significato per Ratzinger «una vocazione, un programma di vita». Il grande teologo divenuto pontefice si è misurato con l’ «l’abisso di silenzio» di quella «terra di nessuno» tra la crocifissione del venerdì e la risurrezione della domenica, il tempo del «nascondimento di Dio», il dramma del nostro tempo, «il mondo è andato in pezzi».

C’è chi nasce postumo, scriveva Nietzsche. «Inattuale» è stato anche Ratzinger, «se un Papa ricevesse solo applausi, dovrebbe chiedersi se non sia facendo qualcosa di sbagliato», e non ha avuto paura di andare controcorrente: fino alla «rinuncia» al pontificato, la più inaudita delle riforme. Le ultime «dimissioni» di un Papa risalivano al 4 luglio 1415, Gregorio XII, e grazie a Dante tutti sanno del «gran rifiuto» di Celestino V, il 13 dicembre 1294. Ma il gesto di Benedetto XVI non aveva precedenti reali in duemila anni perché compiuto «in piena libertà», senza influenze esterne. Con buona pace dei complottisti che vaneggiano di cospirazioni, lo ha ripetuto anche nelle Ultime conversazioni con Peter Seewald: «Sono tutte assurdità. Nessuno ha cercato di ricattarmi. Non lo avrei nemmeno permesso». Wojtyla stava ormai morendo e il 25 marzo 2005, meno di un mese prima l’elezione del 19 aprile, il cardinale Ratzinger aveva denunciato «la sporcizia nella Chiesa» nei testi scritti per la Via Crucis al Colosseo. Nella messa di inizio del suo pontificato, il 24 aprile, sillabò in piazza San Pietro ai fedeli stupiti: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». Benedetto XVI non è fuggito, al contrario. Il commento a caldo di padre Lombardi, l’11 febbraio 2013, resta il più lucido: «È un grande atto di governo della Chiesa». Quel giorno, alle 11.41, davanti ai cardinali attoniti, nella Sala del Concistoro risuonano le parole inaudite, «declaro me ministerio renuntiare», la rinuncia al ministero petrino a partire dalle 20 del 28 febbraio. Benedetto XVI spiega che «per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo» che «negli ultimi mesi» gli è venuto a mancare. Nulla è lasciato al caso, il Papa legge la Declaratio alla vigilia delle Ceneri, l’inizio del periodo penitenziale. Durante l’udienza di Quaresima posa la cenere sul capo dei cardinali in fila e parla delle tentazioni diaboliche che si riassumono nella pretesa di «strumentalizzare Dio», «mettersi al Suo posto» o «usarlo per i propri interessi», delle «divisioni ecclesiali» che «deturpano» il volto della Chiesa.

Ci pensava da tempo. Il 28 aprile 2009, nell’Aquila devastata dal terremoto, era previsto solo un omaggio ma Benedetto XVI seminò il panico varcando la porta santa della basilica pericolante di Collemaggio per deporre il suo pallio sulla teca di Celestino V. Dopo il viaggio al Cuba, dal quale tornò sfinito alla fine del marzo 2012, aveva già deciso. Nel frattempo era scoppiato lo scandalo Vatileaks, la vicenda del maggiordomo «corvo» Paolo Gabriele che gli rubava documenti riservati dallo studio, e Ratzinger aveva aspettato che tutto fosse finito, la conclusione del processo. Nel 2015 il padre gesuita Silvano Fausti, grande biblista, amico e confessore del cardinale Carlo Maria Martini, racconterà prima di morire che l’allora arcivescovo di Milano, nel Conclave del 2005, fece confluire i suoi voti su Ratzinger, arginando una manovra che mirava a far cadere i due principali candidati a beneficio di «un curiale, molto strisciante, che non ci è riuscito». Si trattava di fare pulizia: «Martini aveva detto a Ratzinger: accetta tu, che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto. Se riesci a riformare la Curia bene, se no te ne vai». La rinuncia, dopo quasi otto anni di pontificato, azzera la Curia e prepara il terreno al successore.

Ma intanto Benedetto XVI di cose ne ha fatte, eccome. A cominciare dal coraggio con il quale ha affrontato lo scandalo della pedofilia nel clero, lui che da cardinale e prefetto dell’ex Sant’Uffizio aveva cercato di processare un criminale pedofilo come padre Macial Maciel Decollado, potente fondatore dei Legionari di Cristo, ma fu bloccato da una parte della Curia nel crepuscolo del pontificato di Wojtyla. Eletto Papa, è andato fino in fondo su Maciel e sul resto. È stato il primo pontefice a chiedere «perdono» pubblicamente e in modo esplicito per la pedofilia nel clero, in piazza San Pietro, l’11 giugno 2010, davanti a quindicimila sacerdoti di tutto il mondo. Il 19 marzo 2010 aveva scritto una lettera storica ai cattolici irlandesi, con parola durissime contro i preti pedofili: «Dovrete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti». Ha incontrato più volte le vittime di abusi. E soprattutto, il 21 maggio 2010, ha firmato le nuove norme che segnano il punto di non ritorno della Chiesa nella lotta agli abusi, l’inizio della trasparenza e della «tolleranza zero»: definiscono il reato di pedopornografia, la possibilità di procedere per «via extragiudiziale» nei casi più clamorosi, il potere del Papa di spretare direttamente i colpevoli quando le prove sono schiaccianti. Benedetto XVI ha allungato la prescrizione da 10 a 20 anni, a partire dal diciottesimo compleanno della vittima, il che ha permesso di punire anche i casi più remoti, spesso già prescritti dalle leggi secolari: negli anni successivi vengono spretati centinaia di sacerdoti.

Ne è derivato uno dei paradossi più amari del pontificato di Ratzinger: per aver voluto scoperchiare lo scandalo, proprio lui è stato travolto dalle polemiche. Da ultimo, le accuse che a gennaio 2022 gli sono state rivolte nel rapporto sugli abusi sui minori a Monaco, «comportamenti erronei» per non aver agito in «quattro casi» quando guidava, dal 1977 all’inizio del 1982, la diocesi bavarese. Benedetto XVI si era detto «profondamente colpito» che una «svista» dei collaboratori nella memoria difensiva «sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi come bugiardo», a nome della Chiesa aveva ripetuto «la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono» ma rimandato al mittente ogni addebito: e accusato gli esperti che hanno curato il rapporto di «Stimmungsmache», propaganda, e «pura speculazione» contro di lui.

Di attacchi ne ha dovuti subire tanti, peraltro, scontando a volte gli errori dei collaboratori. Come quando decise di revocare la scomunica ai quattro vescovi lefebvfriani per tentare di ricomporre lo scisma e nessuno lo avvertì che uno di essi era un negazionista della Shoah. Il 10 marzo 2009, cosa mai accaduta, scrisse ai vescovi di tutto il mondo per chiarire le ragioni della sua decisione e denunciare l’«ostilità pronta all’ attacco» e perfino l’«odio» con cui era stato trattato da alcuni cattolici, fino a citare San Paolo ai Galati: «Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri». In quell’occasione ringraziò invece «gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo il malinteso». Anche questo è un capitolo destinato a restare nella Storia: il 19 agosto 2005, quattro mesi dopo la sua elezione, il Papa tedesco visita la sua prima sinagoga a Colonia, una di quelle devastate dai nazisti nella Kristallnacht, la «notte dei cristalli» fra il 9 e il 10 novembre 1938; e quando un anno più tardi va ad Auschwitz, il 28 maggio 2006, si presenta «come figlio del popolo tedesco» e mormora: «Non potevo non venire qui». Benedetto XVI ha ripetuto più volte che «qualsiasi negazione o minimizzazione della Shoah, questo crimine terribile, è inaccettabile e intollerabile». Bisognava vederlo, allo Yad Vashem di Gerusalemme, mentre parlava dell’ «orrenda tragedia della Shoah» stringeva le mani e ascoltava uno ad uno i racconti dei sopravvissuti di Birkenau, «possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate!»; bisognava ascoltare le sue parole sul significato di Yad («memoriale») e Shem («nome»), sulle vittime che «hanno perso la vita ma non perderanno mai i loro nomi, incisi in modo indelebile nella memoria di Dio».

Nel suo pontificato c’è anche la «riforma gentile» della Curia, passo dopo passo, la ricerca di maggiore trasparenza allo Ior. Benedetto XVI, del resto, è un Papa di raro spessore intellettuale che ha dato il meglio di sé attraverso la parola, più che negli atti di governo, «il governo pratico non è il mio forte». Le tre encicliche, le omelie, i documenti. La lettera del 27 maggio 2007 «a tutta la Chiesa che è in Cina», nella quale auspicava «un accordo con il governo» sui vescovi, è la premessa della strategia di Francesco verso Pechino. La lectio di Ratisbona, il 12 settembre 2006, viene funestata dalla citazione accademica dell’imperatore bizantino Michele II Paleologo che parlava della violenza nell’Islam e scatena reazioni durissime nel mondo musulmano, ma resta tuttora una delle più riflessioni più alte e attuali su fede e ragione, religione e fanatismo. Al centro c’è sempre la questione di Dio. Nel discorso memorabile al Collège des Bernardins di Parigi, il 12 settembre 2008, Benedetto XVI aveva spiegato come il monachesimo di San Benedetto avesse salvato il patrimonio del pensiero antico e formato la cultura europea grazie a quei monaci che avevano come obiettivo «quaerere Deum», cercare Dio. In uno dei suoi libri più celebri, l’Introduzione al cristianesimo (Einführung in das Christentum, 1967), riportava la variante d’un apologo di Søren Kierkegaard in Enten Eller I: il circo che s’incendia, il clown mandato a chiamare aiuto al villaggio vicino, la gente che «ride fino alle lacrime» davanti alle sue grida, villaggio e circo distrutti dal fuoco. Quando infine si ritira, spiega che «il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione, ma questo non significa abbandonare la Chiesa».

All’Angelus del 24 febbraio segue l’ultimo discorso del pontificato, «non abbandono la Croce ma resto, per così dire, nel recinto di Pietro», forse il più alto e commovente del vecchio Papa che in piazza San Pietro, il 27 febbraio 2013, dice addio i fedeli: «Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale». Il 23 marzo 2013 fanno il giro del mondo le immagini dei due Papi che si abbracciano e pregano insieme a Castel Gandolfo, una cosa mai vista né immaginata in duemila anni. Il proposito di restare «nascosto al mondo», nel monastero Mater Ecclesiae , trova le sue eccezioni negli inviti di Bergoglio: come quando, l’8 dicembre 2015, il Papa emerito attende che Francesco apra la Porta santa del Giubileo e poi attraversa la soglia di San Pietro dopo di lui. I due si incontrano più volte, in questi anni, si scrivono e si sentono al telefono. Con buona pace di chi insiste nel contrapporli, Benedetto XVI fa sapere di non essersi «mai pentito» della sua scelta e continua a dare alla Chiesa la stessa lezione di quando, salutando i cardinali nell’ultimo giorni di pontificato, aveva detto: «Tra voi c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza». Quando Francesco va a trovarlo per festeggiarne i 65 anni di sacerdozio, il 28 giugno 2016, Ratzinger prende la parola a sorpresa e dice al successore: «Più che nei Giardini Vaticani, con la loro bellezza, la sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto».

L’essenziale è vivere «preparandosi a superare l’ultimo esame di fronte a Dio». Nella lettera del 6 febbraio 2022 in risposta al rapporto sugli abusi di Monaco, aveva scritto: «In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte». Si preparava a questo da tutta la vita, Joseph Ratzinger: «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato: Paraclito». BENEDETTO XVI (1927-2022)

Estratto dell’articolo di Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2023.

Marcello Pera, oggi a Palazzo Madama per Fratelli d'Italia, è stato molto legato a Benedetto XVI. […] 

«Senza radici»: e invece l'idea del vostro libro scritto a quattro mani […] La tesi di fondo di quel libro era che l'Europa si vergognasse delle sue radici cristiane. È ancora così secondo lei?

«Rispetto a quel periodo la situazione non è migliorata, anzi è peggiorata. L'Europa sta professando e imponendo una cultura che è fortemente anticristiana con i suoi intellettuali, con i suoi mezzi di comunicazione, con i suoi politici. La crisi è più profonda di allora».

[…] «Ratzinger è stato impressionante. […] Tutti si sono sentiti in dovere di interloquire con lui, e tanto lui ha influito che alcuni si sono sentiti in difficoltà nel replicargli. Ricordo un imbarazzatissimo Sarkozy, presidente laico della laica Francia, dire a Roma che la Francia era cristiana. In ogni caso Benedetto aveva sì risvegliato una coscienza europea, ma era anche consapevole che il processo potesse svilupparsi soltanto con un appello, uso le sue parole, alle minoranze creative. Nel senso che l'Europa si sarebbe salvata solo se alcuni gruppi, sparsi qua e là, all'inizio in catacombe e cenacoli, avessero ripreso la fede cristiana come fondamento».

D'accordo, ma quindi è riuscito oppure no a risvegliare la bella narcotizzata?

«Lui ha fatto moltissimo, è stato l'ultimo vero difensore della civiltà europea. […]».

Benedetto XVI ultimo difensore della civiltà europea, diceva. Secondo lei, quindi, Papa Francesco non ha fatto lo stesso?

«C'è una vera differenza tra i due Pontefici che non si può nascondere, come invece si sta facendo in questi giorni. Benedetto considerava l'Europa come patria di elezione del cristianesimo. Francesco viene da un altro mondo, non credo che abbia per l'Europa gli stessi interessi, la stessa attenzione se non per motivi contingenti, come la guerra di adesso». 

[…] Sbagliò a dimettersi?

«Le ripeto le parole che gli dissi all'epoca, di persona. Santità io accetto ma non ho compreso e non sono sicuro. Lui rispose con il silenzio che ha accompagnato quel gesto. Il mio timore era ed è legato soprattutto alle possibili conseguenze di quel gesto. E cioè che dopo di lui potrebbe dare le dimissioni un altro Pontefice con il risultato di trasformare il capo della Chiesa dal successore di Pietro al semplice vertice di una gerarchia». […]

Morto Joseph Ratzinger, papa emerito Benedetto XVI: il conservatore che ha rivoluzionato la Chiesa. Iacopo Scaramuzzi La Repubblica il 31 dicembre 2022.

La morte alle 9.34 del 31 dicembre. Benedetto XVI è stato un papa enigmatico, una figura a tratti tragica, un uomo che ha albergato in sé le tensioni e le contraddizioni del cattolicesimo contemporaneo

Erede di Giovanni Paolo II, ha certificato la crisi di quel modello di Chiesa. Teologo conservatore, ha spianato la strada all'elezione di un successore riformista. Custode della tradizione, con la sua rinuncia ha rivoluzionato per sempre il papato. Benedetto XVI, morto oggi all'età di 95 anni, è stato un papa enigmatico, una figura a tratti tragica, un uomo che ha albergato in sé le tensioni e le contraddizioni del cattolicesimo contemporaneo.

Francesco: "Grati a Benedetto XVI per la sua testimonianza di questi anni". Iacopo Scaramuzzi La Repubblica il 31 dicembre 2022.

Il Papa ricorda il predecessore al "Te Deum" di ringraziamento di fine anno in San Pietro. Da lunedì la salma di Ratzinger sarà esposta per la devozione dei fedeli, giovedì Bergoglio presiederà i funerali

Papa Francesco ha messo in evidenza la "gentilezza" di Benedetto XVI, il suo precedessore morto oggi all'età di 95 anni, e, in occasione del "Te Deum" nella basilica di San Pietro, il tradizionale inno di ringraziamento di fine anno, ha espresso gratitudine "per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata".

Jorge Mario Bergoglio ha incentrato la sua omelia sul concetto di gentilezza, "stile di vita che favorisce la fraternità e l'amicizia sociale". "E parlando della gentilezza", ha detto, "in questo momento, il pensiero va spontaneamente al carissimo Papa emerito Benedetto XVI, che questa mattina ci ha lasciato. Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile, così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata". "Solo Dio - ha sottolineato il Papa - conosce il valore e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della Chiesa".

I funerali in piazza San Pietro giovedì

È la prima volta che papa Francesco parla del suo predecessore dopo la sua morte. Alla fine dell'udienza generale di mercoledì scorso, aveva, a sorpresa, chiesto ai fedeli presenti nell'aula Paolo VI preghiere per il Papa emerito, "molto ammalato", pregando il "Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine". Dopo l'appuntamento con i fedeli, Francesco si era recato nel monastero Mater Ecclesiae, dove Joseph Ratzinger viveva dopo la sua storica rinuncia del 2013. Nel tardo pomeriggio, a quanto riferito oggi dalla sala stampa della Santa Sede, al Papa emerito era stata impartita l'unzione degli infermi. Questa mattina alle 9.34 Benedetto XVI è deceduto.

Domani, primo gennaio, Papa Francesco presiederà sempre nella basilica vaticana la tradizionale messa per la solennità di Maria santissima madre di Dio, ricorrenza in cui la Chiesa celebra anche la giornata mondiale della pace, e a mezzogiorno guiderà la recita dell'Angelus.

A partire dalla mattina di lunedì 2 gennaio, la salma di Benedetto XVI sarà esposta in San Pietro per la devozione dei fedeli: dalle 9 alle 19 lunedì, dalle 7 alle 19 martedì e mercoledì. Giovedì alle 9.30 Francesco presiederà in piazza San Pietro i funerali "solenni ma sobri" del suo predecessore.

Benedetto XVI, il testamento spirituale: "Dialogare con la scienza senza lasciarsi confondere". Iacopo Scaramuzzi La Repubblica il 31 dicembre 2022.

"E' nel dialogo con la scienza che la fede ha imparato a riconoscere i suoi limiti, ma ho visto crollare tesi dimostratesi solo ipotesi come la teologia liberale, quella esistenzialista e il marxismo"

E' necessario "rimanere saldi nella fede" e non lasciarsi "confondere": lo scrive Benedetto XVI nel suo testamento spirituale, pubblicato dalla sala stampa vaticana nel giorno della sua scomparsa, riproponendo la sua convinzione circa la "ragionevolezza della fede", riconoscendo, da un lato, che "è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni" ma affermando altresì si aver visto "crollare tesi", nella ricerca teologica, "che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista".

"Momenti di confusione e tratti bui"

Ecco il testo integrale del testamento spirituale, datato 29 agosto 2006. "Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare. Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono, che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di confusione; rialzandomi sempre ogni volta che incominciavo a scivolare e donandomi sempre di nuovo la luce del suo volto. Retrospettivamente vedo e capisco che anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene".

"Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita in un tempo difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia madre rappresentano un’eredità per la quale non potrò mai ringraziare abbastanza. Mia sorella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e con affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi giudizi, la sua vigorosa risolutezza e la serenità del cuore, mi ha sempre spianato il cammino; senza questo suo continuo precedermi e accompagnarmi non avrei potuto trovare la via giusta".

Il legame con la Baviera, l'Italia seconda patria

"Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne, che Egli mi ha sempre posto a fianco; per i collaboratori in tutte le tappe del mio cammino; per i maestri e gli allievi che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua bontà. E voglio ringraziare il Signore per la mia bella patria nelle Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede. E finalmente ringrazio Dio per tutto il bello che ho potuto sperimentare in tutte le tappe del mio cammino, specialmente però a Roma e in Italia che è diventata la mia seconda patria".

La critica a teologia liberale, esistenzialista, marxismo

"A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto, chiedo di cuore perdono. Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico ora a tutti quelli che nella Chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza — le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro — siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità".

"Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita — e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo. Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il Signore, nonostante tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterne. A tutti quelli che mi sono affidati", conclude il Papa emerito, "giorno per giorno va di cuore la mia preghiera".

Usa, Ratzinger e la tragedia della pedofilia nella Chiesa: luci e ombre agli occhi degli americani. Paolo Mastrolilli La Repubblica l’1 gennaio 2023.

Ha parlato per primo degli abusi commessi dai preti cattolici ma da prefetto della Congregazione della dottrina della fede ha esortato alla prudenza nella gestione dei casi. Troppi ruoli per un giudizio definitivo

È stato il primo papa ad incontrare le vittime degli abusi sessuali commessi dai preti cattolici, ma anche quello che poi ha attribuito alla liberalizzazione dei costumi nella nostra società il flagello della pedofilia nella Chiesa. Joseph Ratzinger ha vissuto questa tragedia in troppe posizioni chiave, professore universitario negli anni della contestazione, arcivescovo di Monaco che aveva acconsentito al trasferimento di sacerdoti colpevoli di abusi, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che esortava alla prudenza quando gestiva i casi dei preti da ridurre allo stato laicale, e infine successore di Pietro quando lo scandalo era ormai diventato globale, per poter ricevere un giudizio unico e definitivo sul suo ruolo. Ha certamente fatto più di Giovanni Paolo II, almeno agli occhi degli americani, ma se ciò sia stato sufficiente è un altro discorso.

Quando Benedetto XVI assume la sua carica, il grosso della crisi è già avvenuto. Le prime accuse di abusi emergono in Texas all'inizio degli anni Novanta, quando il cardinale Ratzinger è già alla guida dell'organismo che deve garantire la tutela della fede, e sembrano ormai preistoria. La Chiesa si difende dicendo che sono pochi casi, non diversi in termini percentuali dalla diffusione della pedofilia tra i laici. Spera forse che la questione si risolva, restando limitata a poche vicende locali. Vede gli studi legali che fanno pubblicità, incoraggiando chiunque abbia subito molestie a farsi avanti, per sostanziare cause di gruppo con cui chiedere risarcimenti milionari. Teme che i suoi nemici teologici e politici, sempre in agguato, ne approfittino per prevalere in una resa dei conti epocale. Non vuole neanche porsi il problema di chiedersi se ha sbagliato qualcosa, ad esempio abbassando la guardia nella selezione dei candidati al sacerdozio, quando la crisi delle vocazioni ha iniziato a svuotare i seminari.

Ma il problema è grave e profondo. E Ratzinger lo conosce bene da tempo, perché già nel 1985 ha scritto una lettera al vescovo di Oakland John Cummins, sul caso del sacerdote Stephen Kiesle, che dopo essere stato condannato nel 1978 per aver molestato un bambino ha chiesto di abbandonare l'abito talare. "Considera il bene della Chiesa Universale", dice il futuro papa al collega, nel testo ottenuto e pubblicato dall'Associated Press. "È necessario per questa Congregazione - prosegue il prefetto - sottomettere incidenti di questa sorta a considerazioni molto prudenti, che necessitano un periodo di tempo più lungo". Lo scandalo è agli inizi e Ratzinger suggerisce di gestire il caso con "cura paterna". Ma Kiesle poi lascerà il sacerdozio, e nel 2004 verrà condannato a sei anni di prigione per aver molestato una bambina nel 1995.

Nel 2002 intanto scoppia il caso che in sostanza diventerà la sceneggiatura del film "Spotlight". Il Boston Globe diretto da Martin Baron conduce un'inchiesta che porta a scoprire quasi 250 casi criminali di abusi commessi da preti. I più noti sono quelli di John Geoghan, John Hanlon, Paul Shanley, tutti protetti dall'arcivescovo della città Bernard Law, che invece di denunciarli alla giustizia o cacciarli, li trasferisce di parrocchia in parrocchia, nella speranza che cambiando aria cambino anche abitudini. Il cardinale Law è il leader della corrente più conservatrice nella Chiesa americana, insieme a O'Connor di New York, e magari anche per questo viene protetto dal Vaticano. Fino a quando lo scandalo lo travolge, costringendolo alle dimissioni.

Non sarebbe giusto, però, pensare che questa crisi sia vissuta dall'intera gerarchia cattolica con superficialità. Proprio Geoghan viene ricoverato due volte, nel 1989 e 1995, al St. Luke Institute, la struttura fondata nel 1981 per assistere e curare i sacerdoti con problemi come la pedofilia. Sono stato a St. Luke e il reverendo Stephen Rossetti, allora presidente dell'istituto, mi diede la lettera scritta da un prete che si era suicidato pochi giorni prima, impiccandosi a una porta: "Chi invece - iniziava la lettera citando il Vangelo - scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina, e fosse gettato negli abissi del mare".

Nel 2002 la United States Conference of Catholic Bishops (USCCB) commissiona uno studio al John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, per comprendere le dimensioni del problema. Due anni dopo viene pubblicato il risultato, ed è devastante: dal 1950 al 2002 sono state presentate e convalidate 6.700 accuse di abusi sessuali contro 4.392 sacerdoti in servizio negli Stati Uniti. Siccome in quel periodo erano stati attivi 109.694 preti, il 4% di loro si era macchiato di molestie.

Ratzinger diventa papa un anno dopo la pubblicazione di questo studio, e oggettivamente sceglie una linea più dura di Giovanni Paolo II. Chiede scusa in varie occasioni, diventa il primo pontefice che incontra le vittime degli abusi. Nel corso del suo pontificato circa 400 sacerdoti accusati di molestie vengono spretati. Nel 2006 è lui ad accettare le dimissioni di Theodore McCarrick, primo cardinale travolto dallo scandalo, poi dimesso dallo stato clericale da Francesco.

Nel 2019 però il papa emerito scrive che con la rivoluzione sessuale del Sessantotto è iniziato "un collasso della teologia morale cattolica, che ha reso inerme la Chiesa di fronte a questi processi della società". Come se la pedofilia non esistesse prima di allora. Come se denunciare i crimini alle autorità giudiziarie non fosse un dovere di chi li scopriva. Come se la società avesse travolto la Chiesa, impendendole di allontanare i preti che commettevano abusi, per proteggere "questi piccoli che credono in me".      

"Nozze gay come l'anticristo": Luxuria ricorda le parole di Ratzinger contro la comunità Lgbtq. A cura della redazione Politica La Repubblica il 31 dicembre 2022.

L'ex parlamentare: "Mi spiace per l'uomo, ma aveva posizioni al limite dell'ossessione nei confronti del nostro mondo: gli omosessuali furono definiti socialmente pericolosi"

 "Scompare un uomo importante, un punto di riferimento per il mondo cattolico, mi dispiace per la perdita della persona e per la sua sofferenza, però non posso essere ipocrita da tacere i grandi contrasti che ha avuto con la comunità Lgbtq+, contrasti che si sono affievoliti con Papa Francesco".

L'ex parlamentare e attivista Lgbtq+ Vladimir Luxuria interviene così, interpellata dall'Adnkronos, sulla scomparsa di Papa Benedetto XVI.

"Ricordo le sue prese di posizioni molto frequenti, al limite dell'ossessione, su tutti i temi e le leggi che potessero favorire le nostre vite, i nostri affetti. Sicuramente mi dispiace per la perdita dell'uomo, ma non posso essere ipocrita e dimenticare le ingerenze e le dichiarazioni molto forti contro di noi. Quella che mi ferì in modo più forte fu il definire l'omosessualità 'socialmente pericolosa', quella frase ha eretto il muro più grande tra noi e il Vaticano. Ha etichettato le nozze gay come 'il potere antispirituale dell'Anticristo o come 'autodistruzione della società'" sottolinea.

"Ora mi auguro che questo dialogo dell'abbattimento dei muri e di costruire dei ponti, usando i mattoni di questi muri demoliti, possa continuare nel futuro e che non ci sia più questa lotta così aspra, pur nel rispetto delle diverse posizioni, tra la nostra comunità, il Vaticano e tutte le religioni" conclude Vladimir Luxuria. 

Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 4 gennaio 2023.

La veste bianca potrebbe sparire, così come la possibilità di rimanere a vivere all'interno del Vaticano e di utilizzare l'appellativo «Papa». Con la morte di Benedetto XVI gli esperti di diritto canonico, già da tempo al lavoro per regolamentare la figura del Pontefice emerito, sono tornati a ipotizzare una futura pubblicazione di norme ad hoc per eventuali nuovi passi indietro.

 Quell'11 febbraio del 2013, quando Benedetto annunciò al mondo la sua decisione di rinunciare al ministero petrino, tutti rimasero spiazzati, soprattutto gli studiosi del codice: nessuno fino a quel momento si era posto il problema su come comportarsi, tanto che Ratzinger decise autonomamente su come gestire il suo futuro da emerito: avrebbe mantenuto la veste bianca senza segni pontificali, si sarebbe fatto chiamare Papa emerito, continuando a vivere all'interno del recinto di San Pietro, seppur rimanendo nel nascondimento.

Se per una questione di rispetto nei suoi confronti fino a oggi non si è mai affrontato l'argomento, con la sua scomparsa, Papa Francesco potrebbe autorizzare la pubblicazione di un regolamento specifico: per i Papi che faranno un passo indietro si autorizzerebbe l'utilizzo di una veste nera e non più bianca con l'appellativo di «vescovo emerito di Roma», abbandonando per sempre quello di «Papa emerito».

 Oltre a questo, chi rinuncia potrebbe ritrovarsi a vivere non più in Vaticano ma a Roma o nella sua diocesi d'appartenenza. Papa Francesco in un'intervista, ad esempio, ha chiarito che se in un futuro dovesse decidere di fare un passo indietro sceglierebbe una vita da confessore, trasferendosi definitivamente a San Giovanni in Laterano, a Roma, o in una piccola parrocchia sempre della capitale, tornando a fare, in questo modo, il pastore, quella che è sempre stata la sua vocazione.

Di certo non ha mai pensato a un ritorno in Argentina. Delle norme chiare sul «Papa emerito» sono state chieste in passato da più parti, anche all'interno della Curia Romana perché non sono mancate occasioni di strumentalizzazione dovute alla coabitazione inedita dei due papi in Vaticano.

 Qualcuno, infatti, soprattutto tra i sostenitori «delusi» di Ratzinger, da lui stesso criticati, ha più volte provato a far passare l'idea che il vero Papa fosse Benedetto e non Francesco, quest' ultimo «eletto illegittimamente». Tra veleni e pugnalate, tanti anche all'interno delle Mura leonine hanno usato la figura del Papa emerito in chiave anti-Bergoglio e anti-conciliare e per questo una regolamentazione di questa figura potrebbe evitare nuove polemiche.

Non tutti sono però stati d'accordo che si debba assolutamente stilare una normativa specifica. Il cardinale Dominique Mamberti, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, parlando della necessità di una legislazione apposita per il Papa emerito ha affermato: «Non tutto deve essere regolato da leggi. Per il resto la teologia (che pure ha la sua forza normativa mediata) ci ha già insegnato l'essenziale: che il Papa è uno e uno solo, e a lui e a lui solo compete il Primato sia d'insegnamento sia di giurisdizione nella Chiesa.

Si vedrà se per questo ufficio di emerito incomincerà a formarsi una consuetudine». Oltre a questo aspetto, non pochi, anche all'interno delle stanze vaticane, si chiedono quale sarà il futuro di monsignor Georg Gaenswein, l'arcivescovo segretario particolare del Papa emerito e cosa succederà al monastero Mater Ecclesiae, in passato luogo di preghiera e contemplazione di ordini religiosi femminili e poi adattato alle esigenze di Ratzinger, diventando la sua residenza.

Per padre Georg, che è anche formalmente Prefetto della Casa Pontificia anche se ormai da diversi anni si dedicava esclusivamente alla cura dell'anziano Benedetto XVI, Papa Francesco potrebbe decidere di conferirgli, nei prossimi mesi, un incarico di responsabilità fuori dall'Italia o gli permetterebbe di rientrare nella sua diocesi in Germania. Di certo, l'arcivescovo in futuro non risiederà più all'interno del monastero: dopo l'ultima ristrutturazione del 2013 la struttura rimarrà almeno per i primi tempi senza alcun ospite.

  (ANSA il 4 gennaio 2023) Il Motu Proprio "Traditionis custodes" pubblicato da Papa Francesco nel 2021, e con il quale di fatto Bergoglio opera una stretta sulla Messa in latino, ha rattristato il Papa emerito. Lo rivela il suo segretario, mons. Georg Gaenswein, in una intervista a Die Tagespost. "Quello è stato un punto di svolta. Credo che Papa Benedetto abbia letto questo Motu Proprio con il dolore nel cuore", dice Gaenswein, riferendosi alla revisione del 2007 del motu proprio di Benedetto "Summorum pontificum" da parte del suo successore in carica.

(ANSA il 4 gennaio 2023) "Benedetto, Benedetto", è il coro che si alza al termine dell'udienza di Papa Francesco nell'Aula Paolo VI. E' intervallato da un battere di mani a ritmo. Si sentono prima due voci, poi si uniscono altre per omaggiare il pontefice emerito morto il 31 dicembre. Quello che avvolge l'incontro con i fedeli del mercoledì, nell'ultimo giorno di esposizione della salma di Joseph Ratzinger nella basilica di San Pietro, è un clima di festa e di normalità. Con bambini, applausi, sorrisi e urla gioiose per salutare Papa Francesco che al termine dell'udienza si allontana con la sedia a rotelle, dopo la benedizione.

Ratzinger, Padre Georg: "Perché decise di lasciare il Vaticano". Francesco Capozza su Libero Quotidiano il 09 gennaio 2023

Mons. Georg riporta le numerose comunicazioni a tutti gli uffici vaticani e ai vari dicasteri che Wojtyla nel corso degli anni scriveva, di proprio pugno, sotto numerosi dossier che gli pervenivano giornalmente sulla scrivania: «Chiedete al cardinale Ratzinger».

PENSIERO E FERMEZZA

Eppure tanto predestinato il futuro Benedetto XVI non si sentiva, stando a quanto riporta il suo segretario particolare che dedica un ampio capitolo intitolato "La campagna elettorale al contrario" alle mosse, più o meno discrete, che Ratzinger fece per sfiduciare coloro che lo volevano sulla Cattedra di Pietro a votarlo. Dice Gänswein: «Non pensavamo che il suo nome avrebbe retto a lungo nel susseguirsi degli scrutini a causa dell'ostilità di quanti non avevano mai apprezzato il suo pensiero e la sua fermezza nelle posizioni teologiche», e sottolinea che il decano de Sacro Collegio (Ratzinger era succeduto in tale incarico al cardinale Gantin nel 2002 e in tale posizione si trovava a dirigere i cardinali durante la Sede Vacante, ndr) «non aveva mai avuto interesse a partecipare a cordate né a mettersi a capo di una di esse, nonostante fosse stato ripetutamente sollecitato in tal senso da diversi confratelli cardinali».

E ancora: nei giorni del pre-Conclave «si sottrasse ad ogni contatto che non fosse strettamente indispensabile e legato al ruolo che ricopriva», smontando così le tesi di chi ha voluto dipingere il futuro Papa come fortemente impegnato in una campagna elettorale pro domo sua in quei giorni dell'aprile 2005. Ma una vera e propria campagna elettorale era invece in atto sul versante opposto, rivela Gänswein, ma non pro, ma contro qualcuno. Quel qualcuno era proprio il decano Ratzinger. Mons. Georg ripercorre divertito la rassegna stampa di quei giorni d'interregno, ricordando i titoloni di vari giornali vicini alla sinistra italiana, in cui il nome del cardinale bavarese era per lo più assente nei pronostici pubblicati e, quando veniva citato, era più per screditarlo o per dare per scontata la sua sconfitta.

TRAME BERGOGLIANE

Ma una campagna elettorale contro Ratzinger era in corso anche tra i cardinali che si sarebbero chiusi, in quei giorni di aprile del 2005, nel segreto della Cappella Sistina. Ricorda Georg nel capitolo del suo libro intitolato "Effimeri pronostici": «Nell'arco di qualche mese vennero poi alla luce diverse ricostruzioni sugli scrutini, ma ciò che fece più clamore fu il diario di un misterioso cardinale, pubblicato dal vaticanista Lucio Brunelli, che attribuiva a Ratzinger il risultato finale di 84 suffragi su 115 votanti. Personalmente ritengo tuttora che fosse una cifra sottostimata, a giudicare dalla gioia che avevo visto sui volti di quasi tutti i conclavisti e da qualche frase detta a mezza voce da molti di loro quando avevamo avuto occasione di salutarci nei giorni successivi, come anche da altre loro dichiarazioni pubbliche e private di cui sono venuto a conoscenza in seguito. Secondo le mie sensazioni, fra i più attivi a muoversi nel promuoverne la candidatura erano stati il colombiano Alfonso López Trujillo, il cileno Jorge Medina Estévez, gli spagnoli Julián Herranz e Antonio María Rouco Varela, il tedesco Joachim Meisner, l'austriaco Christoph Schönborn, il nigeriano Francis Arinze e l'indiano Ivan Dias. Ma poi numerosi altri si erano convintamente aggiunti.

Le ipotesi circolate fra i giornalisti riguardo all'autore di quel diario coinvolsero i nomi del brasiliano Cláudio Hummes» e, precisa Gänswein, «l'obiettivo sarebbe stato quello di rendere noto, a futura memoria, l'ottimo risultato di Bergoglio che avrebbe raggiunto, nel secondo scrutinio, i 40 voti necessari per bloccare l'elezione di qualunque altro candidato». Una stilettata bella e buona al candidato risultato vincente nel conclave successivo e, soprattutto, a colui che sarà, nel 2013, il vero grande elettore di Francesco: il cardinale Hummes. Gänswein ricorda poi di aver provato a chiedere a Benedetto, successivamente alla rinuncia, cosa pensasse il Papa emerito sugli avvenimenti legati a quel Conclave: «Devo confessare che, nella serenità del Monastero, qualche volta ho provato a stuzzicare Papa Benedetto riguardo a quel diario, ma lui si è sempre limitato a stigmatizzare l'iniziativa dell'eventuale cardinale, dicendo che - nel caso fosse stato vero - ne avrebbe dovuto rispondere alla propria coscienza. E non si lasciò scappare alcunché riguardo a quel testo, nemmeno per confermare o smentire le mie azzardate affermazioni: "Però qualcuno deve pur aver parlato...", sperando almeno in un suo "Eh, sì", che non venne mai!».

LA NOMINA DI BERTONE

Il libro poi passa in rassegna eventi significativi del pontificato di Benedetto XVI, a cominciare dalla travagliata nomina del cardinale Tarcisio Bertone a segretario di Stato a proposito della quale, nel capitolo "Successione traumatica", si sofferma anche sulle resistenze che fece l'uscente Angelo Sodano a lasciare l'incarico e, soprattutto, l'alloggio di rappresentanza all'interno del Palazzo Apostolico che spetta al primo ministro vaticano. Secondo le rivelazioni di Gänswein, si «dovette aspettare dopo l'estate (del 2006) prima che Sodano lasciasse liberi gli ambienti e Bertone potesse prenderne possesso». Nel frattempo, «il nuovo segretario di Stato dovette alloggiare nel Torrione di San Giovanni, posizionato nei Giardini vaticani».

Ma il fedelissimo di Benedetto narra anche di come Bertone arrivò all'obiettivo con una lunga campagna di persuasione sul Pontefice: «Con un Papa tedesco e numerosi prefetti di Congregazione stranieri, Benedetto riteneva opportuno che il segretario di Stato fosse un italiano (Angelo Scola, che qualcuno aveva suggerito, il Papa lo vedeva piuttosto come possibile presidente della Conferenza episcopale italiana). E Bertone, subito dopo il Conclave, cominciò a frequentare periodicamente l'Appartamento, avvalendosi del preesistente rapporto di confidenza che gli permetteva di salire riservatamente, senza dare nell'occhio, tramite l'ascensore privato suggerendo al Papa opinioni riguardo ad alcune vicende della Curia e facendogli comprendere che poteva contare su di lui». E prosegue: «Ricordo che sin da maggio del 2005 alcune persone autorevoli, per esempio il cardinale Schönborn e il vescovo Boccardo, raccontavano in Vaticano che Bertone andava dicendo in giro con convinzione che sarebbe diventato segretario di Stato».

SCANDALO VATILEAKS

Nel volume non poteva mancare un ampio racconto dell'ultima stagione, quella più traumatica, legata allo scandalo cosiddetto Vatileaks, alla fuga di notizie perpetrata dal cameriere personale del Papa, Paolo Gabriele, e a tutto quello che il lettore già conosce ampiamente dalle cronache dell'epoca e successive. Emblematico il titolo del capitolo che il Monsignore dedica a questi avvenimenti, "Un insieme di miserie umane", in cui specifica che Gabriele fu consigliato a Benedetto da Mons. James Micheal Harvey, allora prefetto della casa pontificia, e che questi lo aveva precedentemente assunto come «ca«Con riferimento alla stima di Giovanni Paolo II per Ratzinger, Gänswein riporta ciò che disse Joaquìn Navarro-Valls, storico portavoce di Wojtyla: «Non hanno precedenti le parole che il Pontefice scrisse un anno prima di morire, per la prima volta menzionò con lode esplicita un collaboratore vivo al quale esprime gratitudine ed amicizia» meriere personale dopo averlo notato tra gli inservienti addetti alle pulizie del Palazzo Apostolico».

IL VIAGGIO IN BRASILE

Gänswein passa quindi a ripercorrere gli ultimi mesi del pontificato di Benedetto XVI, a cui dedica un capitolo molto lungo, "La Storica rinuncia che ha segnato un'epoca" a cui fanno da corollario numerosi altri sottocapitoli di cui il più degno di nota è certamente quello intitolato "I motivi della decisione". Scrive il segretario di Benedetto: «Galeotto fu il Mondiale e chi lo indisse. Mi spiego subito: il 30 ottobre 2007 la Fifa aveva assegnato al Brasile l'organizzazione della Coppa del mondo di calcio per il 2014, cosicché, quando il 21 agosto 2011 a Madrid, al termine della 26a Giornata mondiale della gioventù, Benedetto rese noto che la sede della successiva edizione sarebbe stata Rio de Janeiro, venne precisato anche che era stato ritenuto opportuno anticipare la 27a GMG al 2013, non rispettando la consueta cadenza triennale, per evitare la coincidenza dei due affollati eventi.

Si potrà condividere o meno la convinzione del Papa, ma - e lo dico con estrema chiarezza per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco - fu proprio la questione della partecipazione personale a quella GMG a innescare in lui una riflessione, che via via si fece «Il libro si sofferma anche sulle resistenze che fece l'uscente Angelo Sodano a lasciare l'incarico di segretario di Stato vaticano (e soprattutto l'alloggio di rappresentanza all'interno del Palazzo Apostolico): si «dovette aspettare dopo l'estate (del 2006) prima che Sodano lasciasse liberi gli ambienti e Bertone potesse prenderne possesso» «Nell'ultima settimana prima della rinuncia, Benedetto informò i componenti della Casa pontificia, fra coloro che furono messi a conoscenza, oltre ovviamente al fratello Georg, ci furono monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede» sempre più stringente, riguardo alla prosecuzione o meno del suo pontificato».

Successivamente don Georg fa una rivelazione scioccante, inedita fino ad oggi: «Per di più, nel viaggio del 2012 in Messico, il Papa inciampò in un tappetino mentre era in bagno per farsi la barba e cadde di spalle, battendo la testa sul rialzo della cabina della doccia. Non ebbe perdita di conoscenza o problemi particolari, ma furono necessari un paio di punti per suturare la ferita. Nonostante la medicazione il sanguinamento proseguì, al punto da costringere monsignor Guido Marini a non togliergli lo zucchetto, che copriva la garza macchiata, nei momenti in cui la liturgia lo avrebbe richiesto durante la Messa, tant' è che qualcuno pensò che il maestro delle Celebrazioni si fosse distratto! Al rientro in Vaticano, il dottor Polisca fu netto nello sconsigliare un altro viaggio transatlantico, suggerendogli di limitarsi a percorrenze meno impegnative. Benedetto prese sul serio questa indicazione, ampliando la propria meditazione anche riguardo agli altri aspetti del ministero pontificio, e dialogò più volte con il medico personale, per comprendere bene il possibile evolversi della situazione di salute».

DECISIONE FINALE

to a piccoli passi" che Gänswein rivela, definitivamente, come venne presa la decisione finale di Benedetto di rinunciare al Pontificato: «L'idea originaria di Benedetto era di comunicare la rinuncia a conclusione dell'udienza alla Curia romana per gli auguri natalizi, fissata quell'anno per il 21 dicembre, indicando come data conclusiva del pontificato il 25 gennaio 2013, festa della conversione di san Paolo. Quando me lo disse, a metà ottobre, replicai: Santo Padre, mi permetta di dirlo, se farà così, quest' anno non si festeggerà il Natale, né in Vaticano né altrove. Sarà come un manto di ghiaccio su un giardino in fioritura. Benedetto comprese le nostre motivazioni e alla fine scelse l'11 febbraio, giorno festivo in Vaticano per l'anniversario dei Patti lateranensi fra l'Italia e la Santa Sede, nel quale era già previsto un Concistoro cosiddetto per l'annuncio di alcune canonizzazioni».

IN TANTI SAPEVANO

Ma la parte più succulenta di questo capitolo è senza dubbio quella in cui rivela che in molti sapevano all'interno della stretta cerchia di comando e privata attorno al Pontefice: «Nell'ultima settimana prima della rinuncia, Benedetto informò i componenti della Casa pontificia, fra coloro che furono messi a conoscenza, oltre ovviamente al fratello Georg, ci furono monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede. Ambedue ricevettero la notizia dal cardinale Bertone, in modo da essere preparati il primo a guidare la cerimonia del Concistoro e il secondo ad affrontare il prevedibile assalto dei giornalisti. Naturalmente, venne ufficialmente informato il cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio: il Pontefice lo incontrò a quattr' occhi l'8 febbraio e gli diede personalmente la notizia».

Viene così smentita, dopo dieci anni, la favola propalata secondo cui nessuno sapeva niente tranne lo stesso Gänswein e Bertone. Un libro avvincente, pieno di tantissimi retroscena che approfondiremo ancor di più nei prossimi giorni perché, attenzione: manca ancora tutta la parte dedicata all'elezione di Bergoglio! Ma è nel capitolo successivo, quello intitolato "In segreDurante il conclave che portò all'elezione di Ratzinger, fece scalpore la diffusione del diario di un misterioso cardinale, che gli attribuiva "solo" 84 suffragi su 115: «L'obiettivo sarebbe stato quello di rendere noto, a futura memoria, l'ottimo risultato di Bergoglio che avrebbe raggiunto, nel secondo scrutinio, i 40 voti necessari per bloccare l'elezione di qualunque altro candidato»

Francesco Capozza per “Libero quotidiano” il 9 gennaio 2023.

«Riguardo al mio futuro, quel che penso l'ho già affermato in tempi decisamente non sospetti, nel 2016, per cui mi limito a riproporlo: come pluriennale collaboratore e segretario del cardinale Ratzinger, poi di Papa Benedetto, evidentemente mi porto addosso il marchio di “Caino”.

 Verso l’esterno sono perfettamente identificabile. Effettivamente è così: non ho mai nascosto le mie convinzioni. In qualche modo si è riusciti a marchiarmi pubblicamente come quello molto a destra o “falco”, lo confermo». Si conclude con queste eclatanti affermazioni il volume di mons. Georg Gänswein, “Nient’altro che la verità”, in uscita il prossimo 12 gennaio ma che Libero ha avuto modo, in anteprima, di leggere nella sua interezza.

 Il “Prefetto (della casa pontificia, ndr) dimezzato”, come si autodefinisce lo stesso storico e fidato collaboratore di Benedetto XVI dedicando, con questo esatto titolo, un intero capitolo del volume alla narrazione della sua defenestrazione subita nel 2020 da Papa Francesco, chiude il suo manoscritto mettendo in chiaro quel che a tutti gli osservatori era ormai chiaro da giorni: è lui l’anima del conservatorismo, della destra ecclesiale che si rifà al pontefice appena defunto.

 D’altronde Gänswein, nel ripercorrere il rapporto trentennale con Benedetto XVI, ha voluto sottolineare in ogni singolo passaggio del suo libro la fiducia, il rapporto filiale e, soprattutto, il fatto che di Ratzinger è stato il confidente, il custode di aneddoti e segreti, di retroscena, di verità anche scomode.

Il volume, che consta di ben 336 pagine, si apre con il racconto della sua nomina a segretario dell’allora Prefetto del dicastero per la Dottrina della Fede. Siamo nel febbraio del 2003 e Ratzinger è a capo della “Suprema” - come allora ancora in molti chiamavano l’ex Sant’Uffizio - da vent’anni. Troppi per il porporato bavarese che, alla soglia dei 75 anni, aveva espresso a Giovanni Paolo II il desiderio di ritirarsi e tornare in Germania.

 Presentandolo ai membri del dicastero e agli altri collaboratori, Ratzinger disse: «È il mio nuovo segretario, ma siamo provvisori entrambi» racconta don Georg, rivelando anche che il cardinale aveva già pronto l’eventuale escamotage qualora Wojtyla non avesse acconsentito al rientro in patria: «Ratzinger aveva già fatto capire a Giovanni Paolo II che eventualmente avrebbe gradito essere nominato Archivista e Bibliotecario di S.R.C.».

 Come sappiamo, il Papa Polacco non volle mai privarsi della collaborazione del “Panzerkardinal” in un posto chiave, quello “dottrinale” della Chiesa, e Gänswein, per rimarcarlo, sottolinea il fatto che Giovanni Paolo II, in una delle sue ultime pubblicazioni, l’esortazione apostolica “Alzatevi, andiamo” del 2004, scrisse: «Rendo grazie a Dio per la presenza e l’aiuto del cardinale Ratzinger che è un amico fidato».

 Non pago di questa sottolineatura, Mons. Georg riporta anche una dichiarazione successiva di Joaquìn Navarro-Valls, storico portavoce di Wojtyla: «Non hanno precedenti le parole che il Pontefice scrisse un anno prima di morire, per la prima volta menzionò con lode esplicita ed eloquente un collaboratore vivo al quale esprime gratitudine ed amicizia».

 Citazioni, quelle di Giovanni Paolo II e Navarro-Valls, che Gänswein inserisce non a caso, come a voler ricordare anche all’ala progressista della Chiesa: Ratzinger era il preferito di colui a cui vi volete impropriamente rifare, era lui il predestinato. Se tutto questo non bastasse a far capire l’antifona, mons. Georg riporta le numerose comunicazioni a tutti gli uffici vaticani e ai vari dicasteri che Wojtyla nel corso degli anni scriveva, di proprio pugno, sotto numerosi dossier che gli pervenivano giornalmente sulla scrivania: «Chiedete al cardinale Ratzinger».

Eppure tanto predestinato il futuro Benedetto XVI non si sentiva, stando a quanto riporta il suo segretario particolare che dedica un ampio capitolo intitolato "La campagna elettorale al contrario" alle mosse, più o meno discrete, che Ratzinger fece per sfiduciare coloro che lo volevano sulla Cattedra di Pietro a votarlo.

 Dice Gänswein: «Non pensavamo che il suo nome avrebbe retto a lungo nel susseguirsi degli scrutini a causa dell'ostilità di quanti non avevano mai apprezzato il suo pensiero e la sua fermezza nelle posizioni teologiche», e sottolinea che il decano de Sacro Collegio (Ratzinger era succeduto in tale incarico al cardinale Gantin nel 2002 e in tale posizione si trovava a dirigere i cardinali durante la Sede Vacante, ndr) «non aveva mai avuto interesse a partecipare a cordate né a mettersi a capo di una di esse, nonostante fosse stato ripetutamente sollecitato in tal senso da diversi confratelli cardinali».

E ancora: nei giorni del pre-Conclave «si sottrasse ad ogni contatto che non fosse strettamente indispensabile e legato al ruolo che ricopriva», smontando così le tesi di chi ha voluto dipingere il futuro Papa come fortemente impegnato in una campagna elettorale pro domo sua in quei giorni dell'aprile 2005. Ma una vera e propria campagna elettorale era invece in atto sul versante opposto, rivela Gänswein, ma non pro, ma contro qualcuno.

 Quel qualcuno era proprio il decano Ratzinger. Mons. Georg ripercorre divertito la rassegna stampa di quei giorni d'interregno, ricordando i titoloni di vari giornali vicini alla sinistra italiana, in cui il nome del cardinale bavarese era per lo più assente nei pronostici pubblicati e, quando veniva citato, era più per screditarlo o per dare per scontata la sua sconfitta.

Ma una campagna elettorale contro Ratzinger era in corso anche tra i cardinali che si sarebbero chiusi, in quei giorni di aprile del 2005, nel segreto della Cappella Sistina. Ricorda Georg nel capitolo del suo libro intitolato "Effimeri pronostici": «Nell'arco di qualche mese vennero poi alla luce diverse ricostruzioni sugli scrutini, ma ciò che fece più clamore fu il diario di un misterioso cardinale, pubblicato dal vaticanista Lucio Brunelli, che attribuiva a Ratzinger il risultato finale di 84 suffragi su 115 votanti.

Personalmente ritengo tuttora che fosse una cifra sottostimata, a giudicare dalla gioia che avevo visto sui volti di quasi tutti i conclavisti e da qualche frase detta a mezza voce da molti di loro quando avevamo avuto occasione di salutarci nei giorni successivi, come anche da altre loro dichiarazioni pubbliche e private di cui sono venuto a conoscenza in seguito.

 Secondo le mie sensazioni, fra i più attivi a muoversi nel promuoverne la candidatura erano stati il colombiano Alfonso López Trujillo, il cileno Jorge Medina Estévez, gli spagnoli Julián Herranz e Antonio María Rouco Varela, il tedesco Joachim Meisner, l'austriaco Christoph Schönborn, il nigeriano Francis Arinze e l'indiano Ivan Dias. Ma poi numerosi altri si erano convintamente aggiunti.

Le ipotesi circolate fra i giornalisti riguardo all'autore di quel diario coinvolsero i nomi del brasiliano Cláudio Hummes» e, precisa Gänswein, «l'obiettivo sarebbe stato quello di rendere noto, a futura memoria, l'ottimo risultato di Bergoglio che avrebbe raggiunto, nel secondo scrutinio, i 40 voti necessari per bloccare l'elezione di qualunque altro candidato».

 Una stilettata bella e buona al candidato risultato vincente nel conclave successivo e, soprattutto, a colui che sarà, nel 2013, il vero grande elettore di Francesco: il cardinale Hummes. Gänswein ricorda poi di aver provato a chiedere a Benedetto, successivamente alla rinuncia, cosa pensasse il Papa emerito sugli avvenimenti legati a quel Conclave: «Devo confessare che, nella serenità del Monastero, qualche volta ho provato a stuzzicare Papa Benedetto riguardo a quel diario, ma lui si è sempre limitato a stigmatizzare l'iniziativa dell'eventuale cardinale, dicendo che - nel caso fosse stato vero - ne avrebbe dovuto rispondere alla propria coscienza. E non si lasciò scappare alcunché riguardo a quel testo, nemmeno per confermare o smentire le mie azzardate affermazioni: "Però

Il libro poi passa in rassegna eventi significativi del pontificato di Benedetto XVI, a cominciare dalla travagliata nomina del cardinale Tarcisio Bertone a segretario di Stato a proposito della quale, nel capitolo "Successione traumatica", si sofferma anche sulle resistenze che fece l'uscente Angelo Sodano a lasciare l'incarico e, soprattutto, l'alloggio di rappresentanza all'interno del Palazzo Apostolico che spetta al primo ministro vaticano. Secondo le rivelazioni di Gänswein, si «dovette aspettare dopo l'estate (del 2006) prima che Sodano lasciasse liberi gli ambienti e Bertone potesse prenderne possesso».

Nel frattempo, «il nuovo segretario di Stato dovette alloggiare nel Torrione di San Giovanni, posizionato nei Giardini vaticani». Ma il fedelissimo di Benedetto narra anche di come Bertone arrivò all'obiettivo con una lunga campagna di persuasione sul Pontefice: «Con un Papa tedesco e numerosi prefetti di Congregazione stranieri, Benedetto riteneva opportuno che il segretario di Stato fosse un italiano (Angelo Scola, che qualcuno aveva suggerito, il Papa lo vedeva piuttosto come possibile presidente della Conferenza episcopale italiana).

E Bertone, subito dopo il Conclave, cominciò a frequentare periodicamente l'Appartamento, avvalendosi del preesistente rapporto di confidenza che gli permetteva di salire riservatamente, senza dare nell'occhio, tramite l'ascensore privato suggerendo al Papa opinioni riguardo ad alcune vicende della Curia e facendogli comprendere che poteva contare su di lui». E prosegue: «Ricordo che sin da maggio del 2005 alcune persone autorevoli, per esempio il cardinale Schönborn e il vescovo Boccardo, raccontavano in Vaticano che Bertone andava dicendo in giro con convinzione che sarebbe diventato segretario di Stato».

Nel volume non poteva mancare un ampio racconto dell'ultima stagione, quella più traumatica, legata allo scandalo cosiddetto Vatileaks, alla fuga di notizie perpetrata dal cameriere personale del Papa, Paolo Gabriele, e a tutto quello che il lettore già conosce ampiamente dalle cronache dell'epoca e successive.

Emblematico il titolo del capitolo che il Monsignore dedica a questi avvenimenti, "Un insieme di miserie umane", in cui specifica che Gabriele fu consigliato a Benedetto da Mons. James Micheal Harvey, allora prefetto della casa pontificia, e che questi lo aveva precedentemente assunto come «cameriere personale dopo averlo notato tra gli inservienti addetti alle pulizie del Palazzo Apostolico».

Gänswein passa quindi a ripercorrere gli ultimi mesi del pontificato di Benedetto XVI, a cui dedica un capitolo molto lungo, "La Storica rinuncia che ha segnato un'epoca" a cui fanno da co rollario numerosi altri sottocapitoli di cui il più degno di nota è certamente quello intitolato "I motivi della decisione".

Scrive il segretario di Benedetto: «Galeotto fu il Mondiale e chi lo indisse. Mi spiego subito: il 30 ottobre 2007 la Fifa aveva assegnato al Brasile l'organizzazione della Coppa del mondo di calcio per il 2014, cosicché, quando il 21 agosto 2011 a Madrid, al termine della 26a Giornata mondiale della gioventu, Benedetto rese noto che la sede della successiva edizione sarebbe stata Rio de Janeiro, venne precisato anche che era stato ritenuto opportuno anticipare la 27a GMG al 2013, non rispettando la consueta cadenza triennale, per evitare la coincidenza dei due affollati eventi.

Si potrà condividere o meno la convinzione del Papa, ma - e lo dico con estrema chiarezza per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco - fu proprio la questione della partecipazione personale a quella GMG a innescare in lui una riflessione, che via via si fece sempre più stringente, riguardo alla prosecuzione o meno del suo pontificato». Successivamente don Georg fa una rivelazione scioccante, inedita fino ad oggi: «Per di più, nel viaggio del 2012 in Messico, il Papa inciampo in un tappetino mentre era in bagno per farsi la barba e cadde di spalle, battendo la testa sul rialzo della cabina della doccia.

Non ebbe perdita di conoscenza o problemi particolari, ma furono necessari un paio di punti per suturare la ferita. Nonostante la medicazione il sanguinamento prosegui, al punto da costringere monsignor Guido Marini a non togliergli lo zucchetto, che copriva la garza macchiata, nei momenti in cui la liturgia lo avrebbe richiesto durante la Messa, tant è che qualcuno pensò che il maestro delle Celebrazioni si fosse distratto!

 Al rientro in Vaticano, il dottor Polisca fu netto nello sconsigliare un altro viaggio transatlantico, suggerendogli di limitarsi a percorrenze meno impegnative. Benedetto prese sul serio questa indi cazione, ampliando la propria meditazione anche riguardo agli altri aspetti del ministero pontificio, e dialogò più volte con il medico personale, per comprendere bene il possibile evolversi della situazione di salute».

Ma è nel capitolo successivo, quello intitolato "In segreto a piccoli passi" che Gänswein rivela, definitivamente, come venne presa la decisione finale di Benedetto di rinunciare al Pontificato: «L'idea originaria di Benedetto era di comunicare la rinuncia a conclusione dell'udienza alla Curia romana per gli auguri natalizi, fissata quell'anno per il 21 dicembre, indicando come data conclusiva del pontificato il 25 gennaio 2013, festa della conversione di san Paolo. Quando me lo disse, a metà ottobre, replicai: Santo Padre, mi permetta di dirlo, se farà così, quest'anno non si festeggerà il Natale, né in Vaticano né altrove. Sarà come un manto di ghiaccio su un giardino in fioritura. Benedetto comprese le nostre motivazioni e alla fine scelse I'11 febbraio, giorno festivo in Vaticano per l'anniversario dei Patti lateranensi fra l'Italia e la Santa Sede, nel quale era già previsto un Concistoro cosiddetto per l'annuncio di alcune canonizzazioni.

Ma la parte più succulenta di questo capitolo è senza dubbio quella in cui rivela che in molti sapevano all'interno della stretta cerchia di comando e privata attorno al Pontefice: «Nell'ultima settimana prima della rinuncia, Benedetto informò i componenti della Casa pontificia, fra coloro che furono messi a conoscenza, oltre ovviamente al fratello Georg, ci furono monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede.

Ambedue ricevettero la notizia dal cardinale Bertone, in modo da essere preparati il primo a guidare la cerimonia del Concistoro e il secondo ad affrontare il prevedibile assalto dei giornalisti. Naturalmente, venne ufficialmente informato il cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio: il Pontefice lo incontrò a quattr'occhi l'8 febbraio e gli diede personalmente la notizia».

 Viene così smentita, dopo dieci anni, la favola propalata secondo cui nessuno sapeva niente tranne lo stesso Gänswein e Bertone. Un libro avvincente, pieno di tantissimi retroscena che approfondiremo ancor di più nei prossimi giorni perché, attenzione: manca ancora tutta la parte dedicata all'elezione di Bergoglio!

(ANSA il 9 gennaio 2023) Papa Francesco ha visto questa mattina mons. Georg Gaenswein, Prefetto della Casa Pontificia. Lo riferisce il Bollettino della sala stampa vaticana.

Iacopo Scaramuzzi per “la Repubblica” il 9 gennaio 2023. 

I conflitti tra conservatori e progressisti non sono una novità di oggi, ci sono almeno dalla conclusione del Concilio vaticano II (1962-1965). Papa Francesco oggi non è più solo, dopo la morte di Benedetto XVI, di quanto non lo sia inevitabilmente il «buon pastore», e va comunque avanti «con grande forza e grande entusiasmo». Joseph Ratzinger rimane nella memoria come una «presenza umile, discreta e marcata dalla gentilezza e dal sorriso».

Quanto alle esternazioni del suo segretario, monsignor Georg Gaenswein, esse «ricadono sotto la sua responsabilità» e «nessuno può dire» se siano fondate le affermazioni che attribuisce a Benedetto. È l'analisi del cardinale Leonardo Sandri, italo-argentino, sino a novembre scorso prefetto del dicastero vaticano per le Chiese orientali, una lunga carriera di nunzio apostolico alle spalle, Sostituto agli affari generali della Segreteria di Stato con Giovanni Paolo II e il cardinale Angelo Sodano, ora vice decano del collegio cardinalizio.

Eminenza, cosa lascia Benedetto XVI?

«Lascia una eredità soprattutto dottrinale e magisteriale, l'invito al mondo e a ciascuno di noi a ritornare a mettere Dio al centro della nostra vita e, partendo da Lui, a servire i nostri fratelli. Credo che l'immagine più bella sia quella di un Papa sorridente e dolce, che trattava tutti bene e nonostante l'altezza della sua figura è rimasto una presenza umile, discreta e marcata dalla gentilezza e dal sorriso».

 Per Francesco cambia qualcosa? Ora il Papa è più solo?

«No, queste sono le cose che si dicono nei giornali. Benedetto era Papa emerito, ma l'unico Papa era e continua ad essere Francesco. La solitudine e anche l'abbandono da parte di alcuni lo aveva prima e lo ha adesso, ma non a causa della morte di Benedetto, bensì perché è così la figura del buon pastore, che riceve sofferenze ed è unito a Gesù nella croce».

 Papa Francesco va dunque avanti spedito

«Vedo in Francesco una grande forza e un grande entusiasmo: lo vediamo tutti i giorni nella sua parola e nelle sue decisioni: duc in altum, vada avanti!».

Cosa pensa delle divisioni tra conservatori e progressisti che ci sono nella Chiesa?

«Non sono nuove, vengono da dopo il Concilio: adesso venire a trovare la grande divisione è da ridere, sono cose che esistono da tempo».

 Il Papa all'Angelus ha detto che bisogna condividere, non dividere con il chiacchiericcio

«Certo, ma era così già con Papa Paolo VI (1963-1978, il Pontefice che ha chiuso il Concilio vaticano II, ndr ). 

Il grande ideale della Chiesa qual è?

La comunione. Noi dobbiamo essere in comunione con Dio, con Cristo, con i fratelli e soprattutto nella Chiesa tra di noi, tra sacerdoti, tra vescovi. Comunione che corrisponde a questa bella parola che ha usato il Papa, condivisione, partager».

 L'invito alla comunione può trovare esito nel sinodo voluto da Papa Francesco?

«Certamente non si fa un sinodo per dividere di più. A Roma sono arrivati contributi molto ricchi da tutte le Chiese, anche da tutte quelle Orientali. Il "sinodo", che significa camminare insieme, è condivisione».

In questi giorni il segretario particolare di Benedetto XVI, monsignor Georg Gaenswein, sta esternando molte critiche e perplessità, cosa ne pensa?

«Sì, ne ho letto sui giornali, ma sono cose che ricadono sotto la sua responsabilità. Erano cose un po' risapute, eccetto per quanto riguarda la sua responsabilità nella fuga dei documenti dell'appartamento pontificio (il cosiddetto caso Vatileaks, ndr ), che lui confessa. Va comunque detto che è stato al servizio del Papa e al servizio della Chiesa, e questo è un titolo di onore».

 E il fatto che attribuisca oggi dei pensieri a Benedetto?

«Queste sono cose che nessuno può dire perché io non c'ero quando ha ricevuto questi pensieri».

 Lei è italo-argentino, condivide la comune origine con il Papa e lo conosce meglio di altri: secondo lei cosa ci attendiamo nel prossimo futuro da Bergoglio?

«Io da questo Papa mi aspetto sempre che sarà un grande pastore, cioè che darà anche la vita per le sue pecore».

Domenico Agasso per “la Stampa” il 9 gennaio 2023.

«Papa Francesco non è solo». Sono numerosi gli alti prelati - della Curia romana, del Collegio cardinalizio e del panorama episcopale - che in questi giorni di tensioni e veleni contro il Vescovo di Roma gli garantiscono «piena e indissolubile fedeltà. A lui, al suo magistero e ai capisaldi del pontificato». E alla missione che predica e indica, come spiega un cardinale: «La Chiesa di Francesco è aperta a tutti, nessuno escluso. Tutti sono invitati, ricchi e poveri, vicini e lontani, qualunque sia la condizione di vita di ognuno. È la Chiesa della misericordia che non alza ponti levatoio».

La grande sfida di Francesco è rappresentata dal Sinodo sulla sinodalità in programma fino al 2024, pensato per rendere la Chiesa più pronta all'ascolto della gente, anche fuori dal recinto cattolico, a dare responsabilità ai laici e alle donne, a rapportarsi con il mondo e la contemporaneità. L'Assise è fumo negli occhi per la galassia tradizionalista.

Attorno a questo programma - e alla persona del Papa - si schierano in un fronte comune prelati di tutto il pianeta.

Innanzitutto, l'asse di Francesco con il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin è saldo. Poi tra i fedelissimi è annoverato il cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Ci sono i due porporati mandati a portare la vicinanza del Papa alla popolazione ucraina sotto le bombe russe: il fido Elemosiniere Konrad Krajewski, e Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale.

Un nome fortissimo è il presidente della Conferenza episcopale italiana, l'arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi: è in totale sintonia con Bergoglio, allo stesso tempo è molto apprezzato anche per le sue capacità di dialogo con tutte le correnti ecclesiali. Altra figura preziosa alla causa è il cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente delle Conferenze episcopali d'Europa.

C'è monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Poi Marcello Semeraro, Óscar Rodríguez Maradiaga, Claudio Gugerotti, José Tolentino de Mendonca. Monsignor Nunzio Galantino, presidente dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica. Padre Enzo Fortunato, uno dei volti più noti del francescanesimo. Il laico Paolo Ruffini, prefetto della Comunicazione.

 Un ruolo teologico cruciale lo ricopre l'arcivescovo di Vienna cardinale Christoph Schönborn, allievo di Joseph Ratzinger. Negli Usa Wilton Gregory, Washington; Joseph Tobin, Newark; Blase Cupich, Chicago; Robert McElroy, San Diego.

 E c'è la base. Per esempio, una lettera aperta è stata diffusa per invitare monsignor Georg Gaenswein a bloccare la pubblicazione del libro che ha già scatenato polemiche.

L'ha scritta un prete della diocesi di Bergamo, don Alberto Varinelli, il cui appello è stato condiviso sui social da diversi sacerdoti: «Quel testo è molto atteso dalle frange ostili al papa, e se vi saranno attacchi a Francesco farà molto male all'unità della Chiesa».

Nel frattempo, un presule che ha incontrato il Papa in queste ore assicura di averlo visto «tranquillo, a parte il lutto per Benedetto XVI. E pronto a tirare dritto senza farsi condizionare dalle offensive strumentali».

Il Pontefice riprende gli appuntamenti istituzionali e normali della sua agenda, a cominciare da stamattina, con il discorso al corpo diplomatico. Il 31 gennaio partirà per il viaggio in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan. E nel frattempo ha attuato una mossa che ha sparigliato le carte, con l'intento di stemperare gli animi: ha ricevuto a sorpresa il vescovo emerito di Hong Kong, il cardinale conservatore Joseph Zen, tra i più aspri critici di Francesco. Zen ha parlato di un colloquio «cordiale e amichevole».

Addio Joseph Ratzinger, il Papa emerito all’ombra della croce. Marco Grieco su L’Espresso il 31 dicembre 2022.

Si è spento a 95 Benedetto XVI, dopo una lunga malattia. La morte è avvenuta nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano.

È morto oggi  a 95 anni Joseph Ratzinger, 265esimo pontefice e primo papa emerito nella storia della Chiesa. La sua vita si è spenta lentamente nel monastero Mater Ecclesiae, nel cuore dei Giardini Vaticani, lì dove l’ultimo teologo del Novecento aveva scelto di ritirarsi nel 2013 pregando per la chiesa e per papa Francesco. Con lui si chiude il capitolo del cattolicesimo europeo, quello emerso dalle macerie degli ultimi totalitarismi, reso fragile dal passaggio tormentato all’era moderna. Papa Benedetto XVI ha incarnato questo: lui che, fin dalla scelta di diventare sacerdote, voleva solo mettersi all’ombra della croce, si è trovato incollate le ombre di un passato ingombrante per tradizione e per nulla assimilato dai posteri.

La svastica e la croce

La prima delle ombre era quella della Hitler-Jugend, la gioventù hitleriana a cui venne iscritto, allora 14enne, insieme ai seminaristi tedeschi. Ma gli anni della drammatica ascesa del nazionalsocialismo saranno anche quelli decisivi per Ratzinger, perché maturerà la sua vocazione. Il sacerdozio diventò per il giovane bavarese una scelta radicale, il simbolo della resistenza evangelica ai richiami del Terzo Reich. Ratzinger era appena adolescente ma maturato questa consapevolezza grazie all’esempio del vescovo August von Galen, il cosiddetto Leone di Münster che si scagliò contro Hitler. In questo buio, la fede in lui fu come una fiammella: «Ho capito lì la bellezza e la verità della fede» dirà da cardinale ricordando il suo ingresso nel seminario di San Michele. A questa radicalità, Ratzinger non rinunciò neppure quando, a 17 anni, fu canzonato per aver scelto, insieme a pochi altri seminaristi, la strada del sacerdozio mentre la gioventù tedesca veniva galvanizzata nei campi di addestramento nazisti. Fu il primo di una lunga serie di oltraggi, per lui occasioni di vita.

Il rifiuto del Sessantotto

A sei anni dalla fine della guerra, il 29 giugno 1952, mentre il mondo scopriva le immagini raccapriccianti dei campi di concentramento, Joseph Ratzinger e il fratello maggiore Georg venivano ordinati sacerdoti. Dopo pochi mesi come cappellano nella parrocchia di Monaco, Ratzinger iniziava la sua brillante carriera di professore, che lo portò dalla Scuola teologica superiore di Frisinga all’Universtà di Bonn, nella Germania ovest, ma che non gli risparmierà incomprensioni. La prima, nel Sessantotto quando, dopo una parentesi a Munster, era docente a Tubinga durante le prime proteste antireligiose degli studenti. Lascerà Tubinga per la cattedra di Teologia dogmatica a Ratisbona: «Un contesto meno agitato», disse poi, mentre dava alle stampe L’introduzione al Cristianesimo, dove i problemi della fede sono per la prima volta affrontati in chiave filosofico-scientifica. Ratzinger si dissociò dalle istanze del Sessantotto allora come nel 2019 quando, oramai papa emerito, fu criticato per averle definite espressioni di un «radicalismo senza precedenti» causa di un «collasso che ha reso la Chiesa indifesa contro i cambiamenti nella società».

Il rapporto col Concilio Vaticano II

Su Ratzinger venne, così, modellata la maschera di anti-conciliarista, malgrado egli avesse criticato la «dichiarazione di Colonia» firmata da un gruppo di professori di teologia nel 1989 e la loro «contestazione del magistero della Chiesa» di Giovanni Paolo II. Al contrario, Ratzinger non criticò mai il Concilio Vaticano II, definendolo viceversa parte di «crisi che possono sembrare terremoti, ma sono comunque salutari». Ne aveva esperienza diretta, essendo stato consulente teologico dell’arcivescovo di Colonia, Joseph Frings, che lo portò con sé a Roma. Gli anni Settanta segnarono un giro di boa nella vita di Ratzinger: la sua carriera di stimato docente universitario venne stravolta dalla nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga, il 25 marzo 1977. Un mese dopo papa Paolo VI lo creò cardinale. Così la strada del silenzio e degli studi fu sconvolta in lui che, coerente con lo spirito evangelico, cercò sempre nel silenzio quell’oasi di preghiera. Roma diventò più vicina alla Baviera, ma Ratzinger cercò di coltivare la preghiera e lo studio, malgrado gli impegni: per questo, chiederà all’amico Karol Józef Wojtyła, eletto papa il 16 ottobre 1978, di non accogliere l’invito di seguirlo a Roma. Ci ripenserà solo quando Giovanni Paolo II, reduce dall’attentato per mano di Ali Ağca, lo volle vicino, nominandolo Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede.

Dopo i no, Roma

Il 1° marzo 1982 Ratzinger assunse l’incarico di prefetto, sperando di mettere a frutto l’esperienza maturata negli anni della rivista Concilium quando, allora giovane teologo, aveva fatto parte dell’ala progressista dell’episcopato tedesco, perché contestava le posizioni più reazionario con approccio scientifico e studi approfonditi. Ma tutto questo non emerse a Roma, dove il suo ruolo da prefetto fu assorbito nei palazzi romani, restituendogli un’immagine distorta: Ratzinger l’austero, che divenne il Panzer-Kardinal, fanatico dell’ortodossia, a capo dell’ex Sant’Uffizio. Certamente, alcune posizioni dottrinali gli vengono tuttora contestate. Il matrimonio omosessuale, per esempio è per il cardinale tedesco un elemento di rottura rispetto all’Europa cristiana: «Innanzitutto mi sembra importante osservare che il concetto di matrimonio omosessuale è in contraddizione con tutte le culture dell’umanità che si sono succedute fino a oggi, e significa dunque una rivoluzione culturale che si contrappone a tutta la tradizione dell’umanità sino a oggi» ha scritto ne La vera Europa, l’antologia dei suoi testi edita da Cantagalli nel 2021. Era il novembre 1986 e il prete genovese Gianni Baget Bozzo, teologo della sessualità, scrisse su Repubblica “E Wojtyla riscopre Sodoma”, definendo inaccettabile la sua lettera ai vescovi, perché proponeva un’interpretazione restrittiva della dichiarazione Persona humana del 1975: «Sul piano strettamente spirituale, la Lettera è drammatica perché́ predica agli omosessuali la semplice rinuncia al sesso in nome della Croce. Mentre la Chiesa ritiene che la verginità̀ sia un dono e un carisma personale, la pratica di un consiglio evangelico non imposto da alcuna norma ma prodotto solo dalla vocazione della grazia, la Lettera afferma che gli omosessuali debbono rimanere vergini per natura o per destino». Le stesse contestazioni sono state avanzate, in tempi recenti, dai cattolici protagonisti del cammino sinodale della chiesa tedesca.

Teologia della Liberazione e America Latina

Negli anni da prefetto si consumò un altro braccio di ferro, che ha cristallizzato attorno a Ratzinger l’aura di teologo inflessibile: avvennero le prime frizioni con la Teologia della Liberazione, la corrente teologica nata in America Latina che legittimava la lotta sociale armata per liberarsi dal giogo delle dittature. Ratzinger avviò un braccio di ferro con il teologo brasiliano Leonardo Boff, che prese forma in due istruzioni: la Libertatis Nuntius e la Libertatis Conscientia dove il porporato tedesco definiva la visione marxista della società incompatibile col messaggio evangelico: «Aggressione radicale, spietata contro il modello istituzionale della chiesa cattolica» scrisse nel 1984, inaugurando un rapporto burrascoso con le chiese latinoamericane che recupererà solo da papa, con gli incontri della Celam nel santuario mariano di Aparecida, poi confluito nel documento omonimo, che ricalca le sue parole: «Il Vangelo è arrivato nelle nostre terre nel clima di un incontro drammatico e impari di popoli e di culture […]. I “semi del Verbo”, presenti nelle culture autoctone, resero più facile ai nostri fratelli indigeni incontrare nel Vangelo le risposte vitali alle loro più profonde aspirazioni». E proprio nelle Americhe, in Messico e a Cuba, con il suo 23esimo viaggio internazionale, papa Benedetto XVI pose fine ai suoi viaggi apostolici.

L’ultimo papa europeo

Ironia della sorte, sarà un cardinale cileno, Jorge Estevez, che alle 17:50 del 19 aprile 2005, 17 giorni dopo la morte di papa Giovanni Paolo II, annunciò l’elezione di papa Benedetto XVI. Ratzinger è l’«umile lavoratore nella vigna del Signore» che sceglie il nome di Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale e patrono d’Europa, «padre di molti popoli» come lo definì lui stesso a Subiaco: «Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, [...] a fondare Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli». L’idea ratzingeriana di rinascita dalle rovine è quella di un’Europa plasmatasi nel Medioevo attraverso le sue istituzioni: ordini monastici, concili e università, quelle di Anselmo di Canterbury e Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto. Eppure, lui che si era formato negli ambienti accademici, dovette vedere il mondo accademico scagliarglisi contro. Il 12 settembre 2006, nell’aula magna dell’Università di Ratisbona, la sua lectio magistralis sul rapporto tra fede e ragione, suscitò alcune forti reazioni del mondo islamico e dei media: «Avevo concepito quel discorso come una lezione strettamente accademica, senza rendermi conto che il discorso di un papa non viene considerato dal punto di vista accademico, ma da quello politico» ebbe poi a dire. Polemiche che ricalcano le sue parole, non i gesti, a loro modo rivoluzionari. Come quei due minuti di preghiera nella grande Moschea Blu di Istanbul, in babbucce bianche davanti al «mihrab», la nicchia di marmo che indica la direzione della Mecca.

Papa Benedetto XVI e la pedofilia

In otto anni di pontificato che sembrarono una personale via Crucis, papa Benedetto XVI affrontò un nemico interno: quella pedofilia già posta sotto i riflettori nel gennaio 2002, quando un’inchiesta del Boston Globe portò alla rimozione dal sacerdozio di 55 preti pedofili. Ratzinger aveva affrontato la piaga degli abusi dal motu proprio Sacramentorum Sanctitatsi Tutela, con cui Giovanni Paolo II assegnò tutte le competenze in materia di pedofilia alla Congregazione per la dottrina della Fede. Un calvario che non sottrasse Ratzinger dallo scrivere parole dure nell’ultima, sofferente via Crucis di Wojtyla: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute!». Eletto papa, incontrò le vittime e chiese perdono, unendo l’approccio pastorale a quello amministrativo e intransigente della tolleranza zero, poi ereditato da papa Francesco: «Non posso che condividere lo sgomento e il senso di tradimento che molti di voi hanno sperimentato al venire a conoscenza di questi atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati» scrisse nella Lettera ai cattolici irlandesi. È il 2010 l’anno topico: quando tutta la stampa guardava a Roma, papa Ratzinger modificò le norme sui delicta graviora: ampliò la prescrizione da dieci a vent’anni, snellì le procedure, e inserì fra i delicta anche la pedopornografia. Intensificò, inoltre, il dialogo con le conferenze episcopali particolari attraverso linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale di minori da parte di chierici.

L’annus horribilis: il 2012 e Vatileaks

Ma è il 2012 l’annus horribilis per il papa tedesco, quando alcuni documenti riservati uscirono dalla camera del pontefice per essere dati in pasto alla stampa: lotte intestine di potere, mancata applicazione delle norme anti-riciclaggio da parte della Banca Vaticana erano alcuni dei temi scottanti che misero sotto i raggi x dell’opinione pubblica la Santa sede guidata da Benedetto XVI. Nel maggio 2012 la Gendarmeria vaticana arrestò Paolo Gabriele, aiutante di camera del pontefice autodefinitosi «infiltrato dello Spirito Santo nella Chiesa», con l’accusa di furto aggravato. Malgrado la fiducia minata da parte di Gabriele, nel frattempo condannato a un anno e tre mesi di reclusione, Ratzinger gli concesse la grazia poco prima di Natale. Nel 2012 Benedetto XVI era stanco e senza forze. Così l’11 febbraio del 2013 annunciò in Concistoro le sue dimissioni: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Parole che sarebbero passate alla storia: dopo otto anni di pontificato, Benedetto XVI ammetteva l’incapacità di guidare la chiesa. Il 28 febbraio, nei 15 minuti più lunghi della storia, il papa lasciò il Vaticano in elicottero, riavvolgendo il suo nastro con Roma: «Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso. Non porto più la potestà […], ma nel servizio della preghiera resto nel recinto di San Pietro» aveva detto all'ultima udienza generale. Riecheggiavano le parole del prete bavarese, del teologo che amava la preghiera e la musica. Oggi che i Giardini Vaticani sono piombati in un silenzio sommesso, si sente tutto il peso delle parole di un uomo che, malgrado tutto, ha portato su di sé la radicalità di quella Parola che reca l’infinito, mai la fine: «Il “sempre” – disse nella sua ultima udienza generale - è anche un “per sempre”».

Joseph Ratzinger 1927-2022. Benedetto XVI: la liturgia, il diritto e l’altro. LUIGI TESTA su Il Domani il 31 dicembre 2022

Pur se non se ne condividevano alcuni approdi, non se ne poteva mettere in dubbio l’onestà intellettuale, la linearità dell’argomentazione, la lucidità del processo del pensiero. Tutte cose che la contemporaneità ha smarrito un po’, abituata a ragionare più per risultati che per processi.

Da giurista, a me ha sempre colpito l’analogia, cui allude nel suo Introduzione allo spirito della liturgia del 2001, tra crisi della liturgia e crisi del diritto. Quando si può parlare di crisi di liturgia e di diritto? Quando essi non fanno più presente l’Altro e l’altro; quando abdicano alla sua irriducibilità.

Il diritto abdica all’irriducibilità dell’altro quando smette di svolgere la sua funzione di inclusione e integrazione, diventando espressione di una sorta di solipsismo politico. È  quello che Benedetto XVI denunciava nel suo bellissimo discorso al Reichstag di Berlino.

La contemporaneità a volte fa fatica con il pensiero complesso. È per questo che ha avuto difficoltà a dialogare con Benedetto XVI. Pur se non se ne condividevano alcuni approdi – pur sempre figlio del suo secolo –, non se ne poteva mettere in dubbio l’onestà intellettuale, la linearità dell’argomentazione, la lucidità del processo del pensiero. Tutte cose che la contemporaneità ha smarrito un po’, abituata a ragionare più per risultati che per processi. E il dialogo è un processo, non un risultato. Forse, con lui, finisce la storia del pensiero europeo del Novecento.

Saranno altri a provare ad illustrare la profondità della riflessione di Ratzinger prima (forse più interessante, perché più libera) e di Benedetto XVI poi. Da giurista, a me ha sempre colpito l’analogia, cui allude nel suo Introduzione allo spirito della liturgia del 2001, tra crisi della liturgia e crisi del diritto. Da questo accostamento, che mi ha sempre convinto a livello quasi di presentimento, mi sono lasciato interpellare a lungo.

L’ANALOGIA

Cosa c’è, in effetti, di analogo nella liturgia e nel diritto? Forse che entrambi dicono qualcosa sull’altro – o meglio, sull’irriducibilità dell’altro. Con la maiuscola per la liturgia: l’Altro; con la minuscola per il diritto.

La forza della liturgia sta, infatti, nella sua capacità di accompagnamento al mistero di un Altro che di per sé resta sempre inaccessibile, e che tuttavia è reso presente, pur sotto la specie di un velo. La sua potenza è quella di far affacciare sul mistero di questo immensamente Altro, piantandone nella mente l’intuizione e nel cuore il desiderio.

Allo stesso modo, il diritto rende presente l’altro, questa volta con la minuscola. Nella sua formulazione elementare e primaria – suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo –, che costituisce la misura minima della giustizia, il diritto definisce che c’è un ‘ciascuno’ e che ciascuno ha un ‘suo’, inalienabile, irriducibile. E quel ‘dare’ è la forma naturale, essenziale, primaria del rapporto con l’altro, condizione di ogni altro rapporto: «Il diritto è condizione dell’amore», aveva scritto nel 2010.

Se non ci fosse un Altro trascendente, non avrebbe senso alcuna liturgia. E allo stesso modo, se non vi fosse un altro – un ‘ciascuno’ con un ‘suo’ –, non avrebbe senso alcun diritto. Entrambi fanno presente all’uomo l’altro, con la maiuscola o con la minuscola, mettendolo dinanzi al dramma della sua incompiutezza, che costituisce la cifra essenziale dell’umano. Entrambi ricordano all’uomo quella legge primaria della castrazione che gli serra l’accesso al desiderio incestuoso di un’autosufficienza che in realtà di umano ha poco o nulla.

LA CRISI

Quando, allora, si può parlare di crisi di liturgia e di diritto? Quando essi non fanno più presente l’altro e l’altro; quando abdicano alla sua irriducibilità.

Per la liturgia questo accade quando è smarrita del tutto la dimensione trascendente, a favore di un “orizzontalismo” che abdica ad ogni funzione simbolica.

Quanto al diritto, invece, esso abdica all’irriducibilità dell’altro quando smette di svolgere la sua funzione di inclusione e integrazione, diventando espressione di una sorta di solipsismo politico. È del resto quello che Benedetto XVI denunciava, tra altre cose, nel suo bellissimo discorso al Reichstag di Berlino, nel 2011: «È evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta».

D’altra parte, il solo principio maggioritario aveva portato al dramma che sia Benedetto XVI che parlava, che il Reichstag che ascoltava, avevano bene in mente: «Il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto».

E in questo nostro tempo, rischiato di togliere di mezzo l’Altro con la crisi della liturgia, e rischiato di togliere di mezzo l’altro con la crisi del diritto, cosa resta? Non convince più tanto la voce di chi ci dice che il vuoto lasciato dall’Altro e dall’altro sia stato riempito dal narcisismo – una sorta di egolatria. Uno sguardo meno superficiale, infatti, coglie presto che il narcisismo pure ostentato è solo il velo ad un mortale disagio con se stessi, in diverse declinazioni. Quello del nostro tempo è il narcisismo di un innamorato di se stesso che però non è ricambiato. Né l’altro, né l’altro, né se stessi, in realtà. Solo una invasata danza sul vuoto. E Benedetto XVI aveva cominciato ad esserne spaventato da tempo.

LUIGI TESTA. Ricercatore di diritto pubblico comparato presso l'Università dell'Insubria; Accademic fellow presso l’Università Bocconi

Da panzerkardinal a papa mite, Ratzinger e il cammino accidentato della Chiesa. FRANCESCO PELOSO su Il Domani il 31 dicembre 2022

Dalla teologia della liberazione, al giudizio sull’omosessualità: gli interventi più celebri e discussi del Ratzinger cardinale. L’inizio della lotta interna alla Chiesa per fermare la piaga degli abusi sessuali sui minori.

Da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in linea con Giovanni Paolo II, ha cercato di porre un argine alla perdita di consenso e di peso della Chiesa cattolica in Occidente. Suo è stato il tentativo di rispondere sul piano dottrinale ai cambiamenti sociali, politici e scientifici che attraversavano il mondo.

Da papa, è emersa anche la mitezza come caratteristica dell’uomo e del teologo; il pontificato stretto nella morsa fra restaurazione e riforma, le dimissioni come atto di rivolta contro una sistema-Curia soffocante, il passaggio di consegna con papa Francesco.

Jospeh Ratzinger il teologo e lo scrittore, l’inflessibile prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il papa in carica e il papa emerito. Esistono diverse fasi nella vita e nell’opera di Benedetto XVI e forse all’interno di ciascuna di queste quattro definizioni è possibile rintracciarne altre legate al carattere, al sentimento verso la vita e la Chiesa che ne hanno motivato e caratterizzato le scelte. Indubbiamente, tuttavia, l’incarico che ha segnato più a lungo la sua vita al vertice della Chiesa cattolica, è stato quello di cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (dal 1981 al 2005), l’organismo che aveva il compito di promuovere e tutelare la dottrina cattolica ovunque nel mondo. Sono gli anni in cui la Chiesa, sotto Giovanni Paolo II, prova a recuperare il terreno che sta perdendo in particolare in Occidente. Fra le sfide più difficili con  il cardinale deve di misurarsi, c’è quella relativa alla diffusione della teologia della liberazione che fa proseliti in America Latina.

LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

Ricorda sulla Civiltà Cattolica padre Federico Lombardi, ex direttore della Sala stampa della Santa Sede: «La preoccupazione del Papa (Wojtyla,ndr) per l’influsso dell’ideologia marxista sulle correnti di pensiero della teologia latinoamericana è grande, e il Prefetto la condivide e affronta il delicato problema con coraggio. Ne risultano due famose Istruzioni, con l’intenzione rispettivamente di opporsi alle derive negative (la prima, del 1984) e di riconoscere il valore degli aspetti positivi (la seconda, del 1986).

Le reazioni critiche, soprattutto al primo documento, e le discussioni vivaci non mancano, anche per casi specifici di singoli teologi controversi (fra cui il più noto sarà il brasiliano Leonardo Boff). Ratzinger, nonostante la sua riconosciuta finezza culturale, non sfugge dunque al comune destino dei responsabili del Dicastero dottrinale di avere la fama di rigido censore, guardiano dell’ortodossia e avversario principale della libertà della ricerca teologica e, poiché è tedesco, gli viene affibbiato il nomignolo non benevolo di Panzerkardinal».

Di fatto quella stroncatura teologica rappresentò una cesura drammatica, una rottura fra quell’ampia parte di Chiesa che aveva interpretato il Concilio vaticano II come recupero della radice originale del Vangelo nel segno della lotta alle ingiustizie, e le istituzioni vaticane. Nella condanna si confusero di fatto gli eccessi ideologici e un movimento che stava cambiando il volto del cattolicesimo latinoamericano.

È sempre il prefetto a condannare l’inclinazione omosessuale come «intrinsecamente disordinata», una definizione che diventerà uno degli elementi di aperta polemica fra il movimento omosessuale e la Chiesa cattolica. Ancora, è il cardinal Ratzinger con il documento «De delictis gravioribus» a stabilire che gli abusi sessuali dovevano essere trattati dalla Congregazione per la dottrina della fede, è il primo tentativo di scongiurare gli insabbiamenti che avvenivano a ripetizione nelle chiese locali. 

LO SCONTRO CON LA MODERNITÀ

Ma la complessa attività legislativa del dicastero guidato per un quarto di secolo dal futuro Benedetto XVI, va compresa nel più ampio e immenso tentativo, promosso da Giovanni Paolo II, di elaborare e catalogare  risposte il più possibile definitive ai problemi dell'umano, di ricomprenderli dentro l'alveo della dottrina e del diritto canonico, di ricollocare ogni cosa nella filiera teologica che percorre i secoli della storia europea, secondo la giusta dottrina definita da Roma.

La battaglia viene condotta ribattendo colpo su colpo un po' ossessivamente, a ogni mutamento e novità in campo scientifico e tecnologico – spesso sovrapponendo i due piani - dell'evoluzione dei diritti civili e sociali, rintuzzando ogni pezzetto di modernità che toccava la sfera della persona, delle sue relazioni, del suo corpo.

Si è trattato di uno sforzo organicistico gigantesco per mettere argini, puntellare, istruire i cattolici, in primo luogo i politici e i vescovi, con un occhio diffidente verso quanti, indossando l'abito religioso di qualche ordine o congregazione, insegnavano teologia in una delle tante università cattoliche del mondo, perché non c'è peggior nemico di quello interno.

Lo scopo di questo immenso lavoro ordinativo e legislativo, di una infinita serie di divieti, precisazioni e criteri prudenziali, era quello di mantenere intatta la centralità di Roma, la sua 'auctoritas', in definitiva il suo comando. E tuttavia un simile progetto aveva bisogno di una mente raffinata e meticolosa, quasi maniacale nella precisione, nel gusto della citazione, nella conoscenza del testo, una mente conservatrice ma non reazionaria, in grado di somministrare l'amaro calice lasciando sempre uno spiraglio aperto.

Il vero regista di questa operazione ha il volto del cardinale Joseph Ratzinger; è lui che ha costruito lo straordinario scenario di decreti e di elaborazioni dentro le quali ha cercato disperatamente di imbrigliare la modernità. E va riconosciuto, al di là di ogni giudizio di merito, che il tentativo è stato grandioso nella sua portata intellettuale, nella vastità enciclopedica dei territori che occupava, nella puntualità con la quale veniva data una risposta a ogni centro di ricerca giapponese o americano che annunciava qualche strabiliante e impressionante passo in avanti nell'ingegneria genetica; o ancora ad ogni parlamento nazionale, ad ogni consiglio comunale sparso per il mondo, che istituiva unioni o matrimoni omosessuali.

I peccati della chiesa

Il Ratzinger papa è stato già un'altra cosa: Benedetto XVI proverà infatti a portare a termine il suo disegno ideologico-teologico e allo stesso tempo a fare pulizia dentro una chiesa di cui conosceva bene i peccati, anche quelli “gravioribus”.

L'operazione non andrà in porto, lui stesso ne prenderà atto, e la seconda parte dei suoi otto anni di regno saranno segnati sempre più da questo dualismo inconciliabile – restaurazione e riforma. Alla fine sarà lo stesso Ratzinger ad ammettere, con l'atto estremo della rinuncia inteso come rivolta estrema contro i poteri interni impermeabili ad ogni cambiamento, che quell'idea assolutistica, non poteva reggere. Emerge, in questo contesto difficile in cui gli scandali finanziari e sessuali scuotono la Chiesa, un Ratzinger mite, timido, l’opposto del panzerkardinal; è un Benedetto XVI che guarda con nostalgia a un passato perduto, alla tradizione medioevale dei monasteri europei, ma non è allo stesso tempo - e forse proprio per questo - disposto a coprire i malvagi di oggi. 

BENEDETTO E FRANCESCO

Benedetto XVI è stato a tutti gli effetti un papa-teologo, e forse proprio su questo versante va ricercato un limite della sua azione. Il papa teologo è infatti capace di parlare con tutti ma in realtà restando refrattario all'essenza del dialogo, cioè al farsi contaminare dalle ragioni dell'altro. E' insomma difficile se non impossibile mettere mano, ad esempio, al drammatico nodo della pedofilia nella Chiesa – come certamente Benedetto XVI ha provato a fare – girando intorno al rapporto irrisolto fra Chiesa e sessualità e additando nella nebulosa sessantottesca la causa delle perversioni dei costumi che aveva colpito anche la Chiesa (una tesi insostenibile alla luce della storia assai più antica degli abusi sui minori da parte del clero), e senza voler fare veramente i conti con quella rivoluzione sessuale che aveva prodotto nuovi assetti culturali, sociali, legislativi, anche con limiti e difetti certamente, ma non riducibili caricaturalmente a un mondo spregiudicato e immorale. Tuttavia è la mitezza del Ratzinger-papa ad aver contribuito a cambiare la Chiesa, non tanto nelle lamentele dei suoi adulatori più intransigenti, ma proprio nel mettere in luce la fragilità umanissima del ruolo che ricopriva, anche senza rinunciare alle sue idee. Resta, infine, nella memoria collettiva quell’inedito passaggio di consegne fra i due papi, quando Benedetto XVI ha consegnato a Francesco una grossa scatola di documenti contenente l’indagine interna e riservata su “vatilaeaks” a altri disastri vaticani, segno che i problemi aperti attendevano (e in parte ancora attendono) delle risposte.

FRANCESCO PELOSO . Giornalista che segue il Vaticano e la Chiesa da oltre vent’anni. Ha scritto per numerose testate fra le quali: Internazionale, Vatican Insider (La Stampa), il Secolo XIX, Il Riformista, Linkiesta, Jesus, Adista. I suoi ultimi libri sono Oltre il clericalismo (Città Nuova 2020), La banca del Papa (Marsilio 2015) e Se Dio resta solo (Lindau 2007).

LA FINE DEI DUE PAPI. L’addio di papa Francesco a Benedetto XVI: «Solo Dio conosce i suoi sacrifici per la chiesa». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 31 dicembre 2022

In occasione dei Vespri e del Te Deum Bergoglio si è espresso per la prima volta dopo la morte del suo predecessore: «Solo Dio conosce il valore e la forza della sua intercessione» e ha posto l’accento sulla gentilezza. Finisce così l’era dei due papi

Così è finita l’era dei due papi e papa Francesco è rimasto unico e solo. Nel pomeriggio ha rivolto il suo addio al papa emerito Benedetto XVI, morto questa mattina a quasi 10 anni dallo storico avvicendamento dopo le dimissioni nel 2013.

Bergoglio lo ha ringraziato: «Con commozione – ha detto mentre la sua voce restava ferma - ricordiamo la sua persona così nobile, così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per averlo donato alla chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata». Solo Dio, ha detto, «conosce il valore e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della chiesa». 

Il suo discorso era atteso dall’annuncio della dipartita di Ratzinger questa mattina, e come da agenda Bergoglio è intervenuto in occasione del Te Deum per ringraziare dell’anno trascorso.

Durante l’omelia dei Vespri si è concentrato sulla gentilezza: «E parlando della gentilezza, in questo momento, il pensiero va spontaneamente al carissimo papa emerito Benedetto XVI, che questa mattina ci ha lasciato».

Domenica 1 gennaio parlerà di nuovo del papa emerito scomparso, in occasione dell’Angelus domenicale, e la settimana prossima celebrerà il funerale, che si terrà il 5 gennaio.

LA MALATTIA

Dal primo incontro il 23 marzo 2013, i rapporti tra i due sono stati continui e il pontefice ha dimostrato la sua presenza durante tutto l’ultimo periodo di Ratzinger. Lui stesso aveva annunciato lo stato del papa emerito in occasione dell’ultima udienza generale di mercoledì scorso: «È molto ammalato», aveva detto ai fedeli. Quel giorno è andato a fargli visita presso il monastero Mater Ecclesiae, all’interno del Vaticano, dove si trovava Ratzinger e dove si è spento il 31 dicembre a 95 anni.

Il 18 dicembre, Francesco aveva parlato di lui in occasione di un’intervista: «Lo visito spesso e vengo edificato dal suo sguardo trasparente. Vive in contemplazione. Ha un buon senso dell'umorismo, è  lucido, molto vivo, parla piano ma segue la conversazione. Ammiro la sua lucidità. È un grande uomo». Per Bergoglio era «un santo. Un uomo di alta vita spirituale».

Le dimissioni di Ratzinger hanno portato a un evento vaticano senza precedenti, una compresenza di due papi. In ogni caso, Bergoglio aveva specificato che non aveva intenzione di definire lo status giuridico di papa emerito: «No. Non l’ho toccato affatto, né mi è  venuta l'idea di farlo. Ho la sensazione che lo spirito santo non ha interesse a che mi occupi di queste cose», concludeva. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

1927-2022. Il testamento spirituale di papa Benedetto XVI. BENEDETTO XVI – JOSEPH ALOISIUS RATZINGER su Il Domani il 31 dicembre 2022

Il testo è stato redatto in tedesco nel 2006 a meno di un anno dall’inizio del suo pontificato, partito ad aprile del 2005: «Pregate per me, così che il signore, nonostante tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterne. A tutti quelli che mi sono affidati, giorno per giorno va di cuore la mia preghiera». ll documento integrale rilasciato dalla sala stampa vaticana

Ecco il testo integrale del testamento spirituale del papa emerito Benedetto XVI, morto a Roma il 31 dicembre 2022: il documento è stato redatto in tedesco ed è datato 29 agosto 2006, meno di un anno dopo l’inizio del suo pontificato, partito ad aprile del 2005. Benedetto XVI si sarebbe dimesso nel 2013.

Il mio testamento spirituale

Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare. Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono, che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di confusione; rialzandomi sempre ogni volta che incominciavo a scivolare e donandomi sempre di nuovo la luce del suo volto. Retrospettivamente vedo e capisco che anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene.

LA FAMIGLIA

Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita in un tempo difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia madre rappresentano un’eredità per la quale non potrò mai ringraziare abbastanza.

Mia sorella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e con affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi giudizi, la sua vigorosa risolutezza e la serenità del cuore, mi ha sempre spianato il cammino; senza questo suo continuo precedermi e accompagnarmi non avrei potuto trovare la via giusta.

Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne, che Egli mi ha sempre posto a fianco; per i collaboratori in tutte le tappe del mio cammino; per i maestri e gli allievi che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua bontà.

LA PATRIA

E voglio ringraziare il signore per la mia bella patria nelle Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede. E finalmente ringrazio Dio per tutto il bello che ho potuto sperimentare in tutte le tappe del mio cammino, specialmente però a Roma e in Italia che è diventata la mia seconda patria.

A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto, chiedo di cuore perdono.

Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico ora a tutti quelli che nella chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza — le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro — siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica.

LA CERTEZZA DELLA FEDE

Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità.

Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista.

Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita — e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.

Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il Signore, nonostante tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterne. A tutti quelli che mi sono affidati, giorno per giorno va di cuore la mia preghiera.

BENEDETTO XVI – JOSEPH ALOISIUS RATZINGER

Papa Bendetto XVI, svelato il testamento di Ratzinger: "Rimanete saldi nella fede". Il Tempo il 31 dicembre 2022

Papa Benedetto XVI è scomparso la mattina del 31 dicembre 2022 all’età di 95 anni. La notizia ha fatto come ci si aspettava il giro del mondo, dominando le prime pagine dei siti web della Terra. A poche ore dal decesso in Vaticano è emersa una parte del suo testamento: “Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita, e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo”. Come riferisce Il Sole 24 Ore si tratta di uno dei lasciti spirituali che il Papa emerito ha affidato ai fedeli tramite il testamento, che viene pubblicato nel libro "Nient'altro che la verità" scritto dall'Arcivescovo Georg Gänswein, suo segretario particolare, con Saverio Gaeta 

Nel frattempo, subito dopo aver appreso la notizia della morte del Pontefice, fedeli e turisti hanno iniziato a raccogliersi in preghiera davanti al sagrato di San Pietro a Roma. La Basilica è aperta e sono in molti in fila per passare come di consueto attraverso i metal detector. Altre persone hanno deciso di fermarsi in preghiera davanti alle transenne che delimitano la piazza sotto il sagrato al termine di via della Conciliazione.

LA MORTE DEL PAPA EMERITO. Il ricordo di Ratzinger: la sua rinuncia, un atto profetico.

Papa Benedetto XVI scomparso all’età di 95 anni. Era malato da tempo. Con le dimissioni dell’11 febbraio 2013 decretò che c’è un tempo per riconoscersi deboli. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Dicembre 2022

Addio a Joseph Ratzinger, che resterà nella storia moderna come il papa della rinuncia. Nell’Antico Testamento persino la Creazione ha bisogno della pausa, della requie: «E il settimo si riposò». Un altro passaggio biblico, la celebre anafora dell’Ecclesiaste , ammonisce: «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante...». Papa Benedetto XVI con le sue dimissioni dell’11 febbraio 2013 decretò in latino che c’è un tempo per riconoscersi deboli, finanche quando si è «infallibili» in forza di un dogma. Umano, troppo umano.

Il teologo Ratzinger otto anni prima aveva voluto assumere un nome pontificio nel segno europeista e pacifista di Benedetto XV, tenace oppositore del primo conflitto mondiale che aprì il ‘900 «secolo breve». Con il senno di poi, l’appellattivo benedettino evoca il monachesimo di Celestino V, la cui abdicazione del 1294 è tramandata dal verso dell’Inferno in spregio di «colui che fece per viltade il gran rifiuto». Sebbene Dante non nomini Celestino e Petrarca ascriva il gesto a lode di «uno spirito libero e altissimo». 

Già al momento dell’elezione Ratzinger così si rivolse ai fedeli in piazza San Pietro: «Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti». Un’«umiltà» che si fa evidenza nel 2013: è desiderio di silenzio, di ritorno agli amati studi e alla preghiera. Più cielo, meno terra. Più mistero, meno potere. Un «abbandono», certo, ma nel significato proprio della mistica: l’animo si vota a Dio e ne accetta le volontà nascoste o in fieri. 

D’altronde, nonostante le inevitabili dietrologie dell’epoca (mai placatesi in questi anni nonostante gli incontri tra papa Francesco e il suo predecessore), le ragioni del gesto - un gesto enorme - furono esplicite e chiarissime nel testo di Ratzinger: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino... Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo. Vigore che in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato».

Si parlò di irruzione della modernità nelle stanze vaticane. Mentre Giancarlo Bosetti - direttore della rivista «Reset» che ospitò il dialogo filosofico su ragione e fede tra Habermas e Ratzinger - nel «gesto di coraggio» del papa vide in filigrana una sfiducia verso i mass media in cui invece aveva primeggiato Wojtyla. Insomma, il rifiuto di Benedetto XVI di esporsi malato e agonico alla platea del villaggio globale.

Ma l’epilogo di Ratzinger, da allora serratosi nei suoi studi e nella preghiera, serba un che di profetico: un richiamo arcaico e un presagio di futuro. La modernità è infatti per definizione smodata, «faustiana», delirante di onnipotenza, aperta al molteplice e al possibile fino all’irrealtà. In Benedetto XVI vibra invece la corda del riconoscimento del limite. C’è in lui la scelta di assumere la vita «pericolosa e miserabile della maggior parte» di cui scrisse Albert Camus: «Prenderò la Chiesa sul serio quando i suoi capi parleranno la lingua di tutti». Più che mai, oggi che ci lascia, habemus papam.

Zavattaro: «Benedetto XVI rinunciò al papato, non alla Chiesa». Linda Di Benedetto su Panorama il 31 Dicembre 2022.

Nel giorno della morte del Papa Emerito si analizza il suo pontificato e quella scelta al momento unica che fece discutere e che Francesco è pronto a ripetere

Il mondo e la Chiesa in questo ultimo giorno dell’anno piangono la morte di Benedetto XVI il Papa emerito. Teologo, professore, arcivescovo di Monaco, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Papa e poi Papa emerito, nella storia della chiesa è ricordato soprattutto per la sua rinuncia al pontificato. Una scelta annunciata a sorpresa l'11 febbraio del 2013 durante il Concistoro ordinario in Vaticano: «Ben consapevole della gravità di questo mio atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, successore di San Pietro».

«Papa Ratzinger ha cambiato la percezione della vita della Chiesa e non solo con la rinuncia al pontificato. È stato il primo pontefice che è intervenuto sulla pedofilia ed ha incontrato le vittime degli abusi. Ha anche messo mano allo Ior e il suo modo di percepire la chiesa è stato di guardare avanti e camminare con i suoi fedeli»- commenta Fabio Zavattaro uno dei più importanti vaticanisti italiani Che differenza c’era tra Ratzinger e Papa Francesco? «Il Pontificato di Benedetto XVI è stato legato alla percezione di Gesù di Nazareth come dimostrano i suoi libri e la sua comunicazione era molto attenta alla parola ed ai gesti.. Invece la comunicazione di Papa Francesco è fatta di una gestualità che si trasforma in parola ma tra loro c’è stata una continuità ed una piena sintonia, per questo con la morte di Ratzinger la Chiesa perde un Papa che ha segnato il cammino della cristianità in modo profondo avviando un cambiamento importante». Come vede la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI che in qualche modo ha cambiato la figura del Papa nella storia recente? «Ha rinunciato al pontificato perché il suo stato di salute non li consentiva più di continuare. Ci sono stati anche altri Papi ad aver rinunciato ma in alcuni casi è stata una scelta forzata non pubblica e personale come quella di Ratzinger. Una decisione consentita come recita il codice di diritto canonico che prevede che il sommo pontefice possa rinunciare. Pio XII ad esempio rinunciò perché c’era il rischio dell’invasione dei tedeschi a Roma. Giovanni Paolo II invece si dice che potesse scegliere questa possibilità e Papa Francesco ha firmato la lettera di una possibile rinuncia se le sue condizioni non li avessero permesso di continuare. Quindi per risponderle anche con le dimissioni del pontefice non viene mai meno la figura del Papa ma solo la sua gestione temporale. Benedetto XVI una volta salito sul monte ha detto che avrebbe pregato per la vita della chiesa». Eppure il rapporto di Benedetto XVI con la chiesa tedesca da cui proveniva è stato difficile.. «Si è vero il suo rapporto con la chiesa tedesca è stato complicato. Anche se era la sua nazione quel tipo di cristianità è molto vicina al mondo protestante e chiedeva dei cambiamenti a cui Benedetto XVI poneva freni. I tedeschi chiedevano di togliere la scomunica ai divorziati, di avere anche sacerdoti donne ma lui si è opposto». Era un conservatore? «Si per certi aspetti lo era ma io voglio definirlo un conservatore rivoluzionario. Ratzinger è stato un Papa di grande umiltà e semplicità nonché uno dei più stretti collaboratori di Papa Wojtyla che lo nominò nel 1982 prefetto della Congregazione per la dottrina della fede». ©Riproduzione Riservata

Benedetto XVI e il mysterium iniquitatis. L'editoriale dell'ex direttore di Panorama nel giorno delle dimissioni del Papa Emerito, morto oggi a 95 anni.

Giorgio Mulè Benedetto XVI e il mysterium iniquitatis. Al cospetto delle dimissioni di Benedetto XVI siamo tutti smarriti. La grandezza del gesto chiama credenti e non a riflettere sulla portata storica, sull’immensità di un Papa che impone un finale diverso e straordinariamente umano al suo pontificato rispetto alla spiritualità del trapasso che, secondo tradizione, dovrebbe accompagnare il congedo terreno del vicario di Cristo. Benedetto lascia e, al netto della spossatezza del suo corpo, ci dice che è lo spirito della Chiesa a essere malato. E che a imporre un epilogo traumatico al suo mandato è la gravità dei fatti del nostro tempo: la morte, e quindi il «normale» ricongiungimento con il Padre, sarebbe stato un fatto naturale, non avrebbe in alcun modo obbligato il mondo a riflettere sull’unicità e drammaticità delle dimissioni. Per cambiare il corso delle cose, dunque, bisognava riscrivere il finale e, in qualche modo, vincere la morte.

È tutta qui, nell’umiltà del pastore che dà alla sua Chiesa una scossa più potente di mille encicliche, la lezione del Papa. A essere malato non è lui, a dovere incidere con coraggio le proprie carni sono la Chiesa e gli uomini della Chiesa. A loro Benedetto ha implorato di agire, di cambiare, di tornare sul sentiero del messaggio di Cristo. Il Papa non è stato sorretto con la forza necessaria in questo cammino: è stato lasciato solo in primo luogo dalla sua curia. All’indirizzo disegnato con chiarezza dal Santo padre non sono corrisposti atti conseguenti. Ha lottato, eccome, Benedetto. Le dimissioni sono diventate così un atto di ribellione, un evento «rivoluzionario». E tali restano, nel solco dell’insegnamento del primo rivoluzionario descritto nel Vangelo: Gesù. Leggendo delle dimissioni del Pontefice chi crede è confuso, forse impaurito, addirittura terrorizzato come Maria di Magdala che si reca al sepolcro e non trova più il corpo di Gesù. Lei piange e ai «due angeli in bianche vesti» che le chiedono perché è così in pena risponde: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Sarà Gesù a porre fine al tormento della donna e a farsi riconoscere: premiando così la sua tenacia, i suoi sentimenti, il suo zelo. Ecco, oggi siamo noi a essere smarriti, ma i nostri occhi (con loro gli occhi della Chiesa) non possono ancora vedere quale «mysterium iniquitatis» si nasconde dietro la lezione di Benedetto: a Roma c’è molta sporcizia da togliere e ci sono tantissimi peccati da espiare. Il cammino è lungo e il gesto di Benedetto indica che l’unica strada da percorrere è quella di intervenire con coraggio e in profondità nel corpo malato della Chiesa. È il compito, terribile ma improcrastinabile, che attende il suo successore.

La 'Rivoluzione' di Benedetto XVI, morto oggi. Ignazio Ingrao su Panorama l’1 gennaio 2023.

Dalla 'papolatria' di Giovanni Paolo II alla 'collegialità' dei vescovi. Ecco la svolta di Ratzinger morto oggi a 95 anni

Questo Papa vi stupirà” aveva titolato Panorama il 19 aprile 2005, giorno dell’elezione di Benedetto XVI. E così è avvenuto. Con un gesto senza precedenti da otto secoli di storia, Ratzinger ha rassegnato le dimissioni a norma dell’art 332 del Codice di diritto canonico. Ma quello che il Codice non dice è ciò che avviene dopo le dimissioni di un pontefice. Il Santo Padre non è il “presidente di un consiglio d’amministrazione” che può limitarsi a rimettere le deleghe: è Papa per sempre. Quanto peserà la sua presenza fisica nel piccolo monastero di clausura trasformato in appartamento nel cuore dei giardini vaticani, a due passi dal palazzo apostolico dove regnerà il suo successore? E cosa dirà Ratzinger nei prossimi giorni, a cominciare dalla liturgia per il mercoledì delle ceneri, confermata per la giornata di domani, 13 febbraio, a Santa Sabina all’Aventino? Darà indicazioni per chiarire le ragioni del suo gesto? Oppure offrirà, tra le righe, dei suggerimenti per la scelta del successore? Domande per ora senza risposta. Ma ciò che è certo è che, con questo clamoroso gesto, Benedetto XVI ha messo una seria ipoteca anche sui papati futuri: d’ora in poi ogni romano pontefice dovrà misurarsi con l’eventualità delle proprie dimissioni; qualunque Papa, prima o poi, sarà messo sotto esame per verificare se sarà all’altezza del proprio compito. E’ stata questa prospettiva che, nel corso dei secoli, ha sempre frenato i predecessori di Ratzinger dal prendere una decisione del genere. Il Papa tradizionalista e conservatore, con questo colpo di scena ha compiuto uno dei gesti più rivoluzionari della storia della Chiesa e, secondo molti osservatori, in questo modo ha davvero simbolicamente portato a conclusione il Concilio Vaticano II. In particolare per quell’aspetto del Concilio che sta particolarmente a cuore a Ratzinger: la collegialità dei vescovi. Il Papa non è il sovrano assoluto, afferma in sostanza la Costituzione conciliare “Lumen Gentium”. Ma esercita il suo potere “collegialmente” insieme con i vescovi. Per questo il “Vicario di Cristo” può persino chiedere “perdono” per tutti i propri difetti, come ha fatto Ratzinger annunciando le sue dimissioni e fare un passo indietro quando non si sente più all’altezza. Alla “papolatria” che ha segnato il pontificato “carismatico” di Giovanni Paolo II, segue, con Ratzinger, una nuova concezione del pontificato in senso più collegiale e forse, per questo, più al passo con i tempi.

Custos Traditionis. Benedetto XVI, il Papa teologo che ha guidato la Chiesa con gentile fermezza. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 31 Dicembre 2022.

Se n’è andato all’età di 95 anni una delle figure più complesse e forse più contraddittorie della Chiesa postconciliare tra incondizionati osanna, elevati soprattutto da conservatori d’ogni latitudine, e spietati crucifige, gridati per lo più in rete o sui social dai soliti orecchianti

Alla fine, dopo che ciclicamente se ne dava per imminente la scomparsa a seguito di annunciati (e puntualmente smentiti) peggioramenti delle condizioni di salute, Benedetto XVI è davvero morto. Il 265° Papa della Chiesa cattolica, emerito dal 28 febbraio 2013 a diciassette giorni dall’inaspettata Declaratio latina con cui aveva comunicato le sue dimissioni al Collegio cardinalizio, è infatti spirato alle 9.34 nell’ex monastero vaticano Mater Ecclesiae, dove risiedeva da quell’epocale rinuncia. Si era in realtà preparati a una tale notizia, dopo che Francesco, al termine dell’Udienza generale del 28 dicembre, aveva chiesto «una preghiera speciale» per il predecessore «molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli, che lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, fino alla fine», per poi recarsi subito dopo al suo capezzale.

Sempre lucido e vigile, come costantemente ribadito in questi giorni dal direttore  della Sala stampa della Santa Sede Matteo Bruni, Joseph Ratzinger ha percorso «l’ultimo tratto della vita in modo cosciente», morendo «con una propria intenzione». Queste parole, tratte da Eschatologie, Tod und ewiges Leben, una delle sue opere più profonde edita nel 1977 – lo stesso anno della nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga e della creazione cardinalizia –, l’antico professore di Dogmatica e di Storia dei dogmi presso l’Università di Ratisbona le ha inconsapevolmente inverate nel momento della fine. Il suo è stato «l’atteggiamento del cristiano credente di fronte alla morte»,  che da secoli invoca nelle Litanie dei Santi: «A subitanea morte, libera nos, Domine. Liberaci, o Signore, da una morte improvvisa. Essere portato via all’improvviso – così ancora il futuro pontefice nel citato libro – senza essersi potuto preparare, senza sentirsi pronto, è considerato dal cristiano come il massimo dei pericoli da cui vorrebbe essere preservato».

Se n’è andato così all’età di 95 anni – li aveva compiuti il 16 aprile – una delle figure più complesse e forse più contraddittorie della Chiesa postconciliare tra incondizionati osanna, elevati soprattutto da conservatori d’ogni latitudine, e spietati crucifige, gridati per lo più in rete o sui social dai soliti orecchianti. Sotto quest’ultimo rispetto sono state tali l’acredine e la volgarità, che hanno accompagnato la rimessa in circolo di vecchie dicerie sul suo conto, da indurre uno storico mai tenero con lui come Alberto Melloni a parlare di «infamie» propalate da «un raduno di trogloditi puri e di cretini acculturati che si sentono anticlericali solo perché sanno vomitare». A fare da sfondo le complottistiche narrazioni di un Benedetto XVI, spirato in uno stato d’inumano isolamento con il suo segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein, e le quattro fidate Memores Domini. Per non parlare poi delle mai sopite farneticazioni sullo stesso, non già emerito ma unico vero Papa in ragione di una rinuncia al ministerium ma non al munus petrino, di differimento della stessa meramente annunciato e di marchiani errori di latino, da lui inseriti nella citata Declaratio per intenzionalmente invalidare le dimissioni.

Ma come più volte precisato dal cardinale teologo Gerhard Ludwig Müller, amico di vecchia data di Benedetto XVI, suo successore – dopo il settennato d’un altro ratzingeriano quale William Joseph Levada – alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, autorevole capofila della minoranza cardinalizia critica verso Bergoglio, che l’ha sollevato, forse troppo corrivamente, dall’incarico di prefetto dell’ex Sant’Uffizio all’età di 70 anni, «c’è legittimamente un solo Papa e si chiama Francesco. Chiunque sia stato papa, vivo o morto, non lo è più, anche se ha diritto a tutta la gratitudine e alla venerazione personale». 

Affermazione di grande peso – da leggere fra l’altro nell’ambito dell’ampia e rigorosa riflessione sull’infondata tesi della doppia leadership nella Chiesa cattolica in quanto quelli trascorsi dall’elezione di Bergoglio alla morte del predecessore emerito  sono stati «nove anni di convivenza di un solo papa e del suo predecessore come papa emerito» –, che, se rivela da una parte la piena fedeltà e il «genuino amore» del porporato a Francesco come «padre della cristianità», ne rivela dall’altra l’estrema vulnerabilità a lasciarsi facilmente irretire da adulanti alfieri della “sana dottrina”. Ma anche a comprendere – lo rilevava lo scorso anno la teologa e giornalista Dawn Eden Goldstein – fino a che punto movimenti teocon come Tradition, Family, Property (TFP)  strumentalizzino lui e i vari Brandmüller, Burke, Chaput, Sarah «contro la cosiddetta Chiesa bergogliana».

Anche in questo Müller e  gli altri ratzingeriani di ferro sono simili al loro amato modello Benedetto XVI, alla cui qual certa cedevolezza nei riguardi di melliflui difensori della tradizione e scarsa conoscenza dell’animo umano con naturale timidezza sono da ascrivere in ultima analisi la manifesta incapacità a guidare ancora oltre la barca di Pietro, il fallimento del suo modello curiale, la debolezza nell’opporsi a un immagine di sé quale punto di riferimento della variegata galassia di sovranisti e identitaristi cristiani come di pro life e pro family. Ne è una plastica riprova lo slogan «Il mio Papa è Benedetto» che, stampato in voluta contrapposizione all’immagine di Francesco sulle t-shirt dei Giovani Padani, fu urlato nel 2016 sul pratone di Pontida da un Salvini, allora violento fustigatore di Bergoglio, neghittoso ai suoi occhi nel «difendere la civiltà occidentale e la libertà» e pertanto bisognoso d’ascoltare «di più Ratzinger», additatogli a modello per la solerzia «nel chiarire i rischi dell’Islam come dimostra il discorso di Ratisbona».

In realtà, la famosa lectio magistralis, tenuta il 12 settembre 2006 nell’Aula magna dell’Università dove Ratzinger insegnò dal 1969 al 1977, è incentrata su tutt’altro argomento che, esplicitato già nel titolo Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, nulla ha a che vedere con presunti chiarimenti sui rischi dell’Islam. Soprattutto finalizzato a evidenziare l’«urgente bisogno» di «un vero dialogo delle culture e delle religioni», il discorso si presenta nella parte iniziale quale condanna e rigetto inequivocabile del ricorso alla violenza nel diffondere qualsivoglia fede in quanto contrario alla ragione. Fu la decontestualizzazione di una pur sempre infelice citazione dell’imperatore bizantino Michele II Paleologo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava» ad alimentare distorte letture politicizzate come quella salviniana.

Ma, quel che è più grave, a provocare nel mondo islamico un’ondata di reazioni così feroci da indurre Benedetto XVI a pubblicamente manifestare, la domenica successiva, «vivo rammarico» per la situazione creatasi, a rilevare la natura meramente citazionistica delle parole di Paleologo per nulla esprimenti il suo pensiero personale, a chiarire il significato del discorso quale «invito al dialogo franco e sincero, con grande rispetto reciproco». Cosa che s’era premurato di fare già il giorno prima attraverso una dichiarazione del Segretario di Stato, in cui si ribadiva come «la posizione del Papa sull’Islam” fosse «inequivocabilmente quella espressa dal documento conciliare Nostra aetate» e parimenti tale «la sua opzione in favore del dialogo interreligioso e interculturale».

D’altra parte, è proprio nell’opera e nel magistero di dialogo con le altre religioni, a partire da Ebraismo e Islam, e confessioni cristiane che maggiormente s’evidenzia la piena conformità di Ratzinger allo spirito del Vaticano II così come espresso nella Nostra aetate e nell’Unitatis Redintegratio. Meno su altre questioni, che lo hanno reso inviso alla pubblica opinione e fatto additare come un restauratore preconciliare.

Al di là di tutto, Benedetto XVI resta soprattutto – e lo fa notare a Linkiesta il noto mariologo servitano Salvatore Maria Perrella, che, consultore esterno alla Dottrina della Fede dal 1986, ha goduto dell’apprezzamento amicale del Papa Teologo – «un umile e fedele operaio nella Vigna del Signore». Ricordando che Benedetto XVI è morto di sabato nonché alla vigilia di Capodanno, che nella liturgia cattolica coincide con la solennità di Maria Madre di Dio, non poteva mancare da parte del dotto religioso un’osservazione: «Per quanto riguarda la mariologia, come aveva scritto il bravo teologo abruzzese don Michele Giulio Masciarelli, egli è stato il “Papa della Mariologia breve”. Nel senso che non ha scritto trattati, i suoi interventi da teologo furono ‘brevi’, pochi, ma altamente significativi, la sua devozione alla Madre di Gesù erano pudichi, essenziali, biblici, iconologico-ecclesiali e teologali, in cui si intravedeva lo spessore di un teologo che ha favorito la armonizzazione tra Logos (ragione) e Pathos (cuore), invitando i credenti ad accogliere Maria come madre credente e verginale nel Figlio dell’Altissimo, vera icona della Chiesa».

Il mondo saluta Ratzinger, il più longevo dei pontefici. Redazione L'Identità il 31 Dicembre 2022.

Si è spento all’età di 95 anni Benedetto XVI, 265mo Papa della Chiesa cattolica dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013. Le sue condizioni si erano aggravate con l’avanzare dell’età. Papa Francesco aveva invitato a pregare per lui e si era recato al monastero Mater Ecclesiae, dove Ratzinger viveva dal 2013, per salutarlo. 

Protagonista della vita della Chiesa e della cultura europea, teologo, professore, arcivescovo di Monaco, prefetto della Dottrina della fede, papa e papa-emerito, Joseph Ratzinger, nono successore tedesco di Pietro, figlio di un poliziotto e di una cuoca, nacque a Marktl in Germania il 16 aprile 1927. Era la vigilia di Pasqua. 

La cronaca e la storia recente ricordano soprattutto la sua rinuncia al pontificato, un atto di coraggio che ha profondamente innovato il ministero papale.

Ratzinger è stato l’ottavo pontefice a rinunciare al ministero petrino, se si considerano i casi di Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V e Gregorio XII, di cui si hanno fonti storiche certe o molto attendibili. 

È stato anche il più longevo dei papi della Chiesa. 

Fine teologo, uomo timido dotato di grande capacità di ascolto, maestro nel predicare in modo semplice anche sui temi più complessi, nei suoi quasi otto anni da Papa, Ratzinger ha incontrato milioni di persone, ha compiuto decine di viaggi internazionali e in Italia, ha scritto varie encicliche per rinnovare la dottrina sociale della Chiesa. 

Tra le sue opere più importanti il Gesù di Nazareth in più volumi, esempio di come la fede non sia un elenco di proibizioni ma un rapporto di amicizia con il Dio fatto uomo. 

Dal 2 gennaio i fedeli potranno dargli l’ultimo saluto nella Basilicata di San Pietro. Previsto l’arrivo di numero fedeli da tutto il pianeta.

Morto Joseph Ratzinger: addio al papa emerito Benedetto XVI. Francesco Curridori il 31 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La Chiesa cattolica perde papa Benedetto XIV che nel 2013 aveva rinunciato al suo ruolo dopo aver affrontato gli anni più duri per il Vaticano

La Chiesa piange la scomparsa di Benedetto XVI, che verrà ricordato soprattutto per la sua decisione di rinunciare, nel 2013, al suo ruolo di vescovo di Roma e successore di san Pietro.

Negli ultimi giorni Papa Francesco aveva chiesto ai fedeli di pregare per il Papa emerito in quanto le sue condizioni di salute si erano aggravate a causa dell'età avanzata. "Voglio chiedere una preghiera speciale per il Papa Emerito Benedetto che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa, ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa fino alla fine", erano state le sue parole. Dal 2 gennaio la salma di Benedetto XVI sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano e di lì a poco si terrà il funerale.

L'infanzia e l'adolescenza di Joseph Ratzinger

Joseph Ratzinger nasce il 16 aprile 1927, giorno del Sabato Santo in cui riceve anche il battesimo. Il padre è un commissario di polizia che proviene da un’antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera, mentre la madre prima di sposarsi aveva lavorato come cuoca in vari hotel. Ratzinger trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Traunstein, piccola località al confine con l’Austria, in un periodo storico in cui il nazismo nutre una certa ostilità nei confronti della Chiesa cattolica. La sua famiglia vive da vicino le atrocità dei nazisti che, nel 1941, si prendono suo cugino, affetto dalla sindrome di down, ufficialmente per effettuargli alcune terapie ma, in realtà, lo inseriscono nel programma di eutanasia dei portatori di handicap e lo eliminano. Ratzinger viene costretto a iscriversi alla Gioventù hitleriana e serve la Germania indossando, fino al settembre del ’44, l’uniforme tra i servizi ausiliari antiaerei. Il giovane Ratzinger, però, riesce a disertare ma quando arrivano gli americani viene identificato come soldato e recluso per alcune settimane in un campo di prigionia.

Da sacerdote ad arcivescovo di Monaco

Dopo la guerra, studia filosofia e teologia all’università di Monaco e, il 29 giugno del 1951, all’età di 24 anni viene ordinato sacerdote insieme al fratello Georg. Nel 1953 si laurea in teologia con una tesi dal titolo Popolo e casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant’Agostino. Quattro anni dopo ottiene l’abilitazione con una dissertazione su La teologia della storia di San Bonaventura e, poi, insegna teologia dogmatica e fondamentale nella Scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga. Negli anni ‘60 prosegue l’insegnamento nelle principale università tedesche finché nel 1969 diventa docente di teologia dogmatica e storia del dogma all’Università di Ratisbona, dove ricopre anche l’incarico di vicepresidente dell’Università.

Ratzinger, nel 1962, svolge un ruolo molto importante in occasione del concilio Vaticano II come consulente teologico dell'arcivescovo di Colonia cardinale Josef Frings e, a 35 anni, diventa un importante esponente dei riformatori. Dieci anni più tardi, insieme ai teologici Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, dà vita alla rivista Communio. Il 25 marzo del 1977 Papa Paolo VI nomina Ratzinger arcivescovo di Monaco e Frisinga e lui sceglie collaboratore della verità come motto episcopale. “Per un verso, - spiegherà alcuni anni dopo - mi sembrava che era questo il rapporto esistente tra il mio precedente compito di professore e la nuova missione. Anche se in modi diversi, quel che era e continuava a restare in gioco era seguire la verità, stare al suo servizio. E, d’altra parte, ho scelto questo motto perché nel mondo di oggi il tema della verità viene quasi totalmente sottaciuto; appare infatti come qualcosa di troppo grande per l’uomo, nonostante che tutto si sgretoli se manca la verità”.

L'arrivo a Roma e gli anni al fianco di Wojtila

Sempre nel 1977 Papa Paolo VI lo nomina cardinale assegnandogli come sede Santa Maria Consolatrice al Tiburtino e l’anno successivo partecipa ai due conclavi che eleggeranno papi Albino Luciani prima e l’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, poi. Nel 1981 papa Giovanni Paolo II lo nomina prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, presidente della Pontificia commissione biblica e della Commissione teologica internazionale, cariche che mantiene fino alla sua elezione a successore di Pietro. A metà anni ’80 Ratzinger rilascia un’intervista al vaticanista Vittorio Messori da cui nasce il libro Rapporto sulla fede dove condanna la teologia della liberazione. Nel 1986 firma un documento intitolato Cura pastorale delle persone omosessuali, in cui descrive l'omosessualità “come condizione oggettivamente disordinata”. Ma di sé amava dire: “Non sono il Grande Inquisitore né mi sento una Cassandra, quando esamino i fattori negativi nella Chiesa”. Paolo Conti, editorialista del Corriere della Sera, invece, nel 2005, spiega che:“Fu Giovanni Paolo II a fare di lui il “cardinal no” dell’immaginario collettivo. I no sono innumerevoli, dal 1981 a oggi. No al sacerdozio delle donne. No al matrimonio dei preti. No all’omosessualità”. Su quest’ultimo No il cardinal Ratzinger rimarca il fatto che la Chiesa deve accogliere queste persone “con rispetto, compassione e delicatezza, richiamandole a vivere in castità” e nel 2003 chiede ai parlamentari cattolici di tutto il mondo di non votare leggi a favore dei matrimoni gay.

Il rapporto tra Wojtila e Ratzinger è così stretto che il Papa, nel 2002, anziché congedarlo per limiti di età, lo riconferma nel suo ruolo a tempo indeterminato e, nello stesso anno, viene eletto Decano del collegio cardinalizio e gli viene assegnata la sede suburbicaria di Ostia. Nel 2004 Ratzinger pubblica, insieme all’amico Marcello Pera, il libro Senza radici che parla della secolarizzazione dell’Europa cristiana e che diventerà in breve tempo il manifesto dei nuovi teocoon italiani. L’anno successivo, il 25 marzo, Ratzinger sostituisce Papa Giovanni Paolo II in occasione della celebrazione del Venerdì Santo e le sue parole sul marciume in Vaticano risultano profetiche: “Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti”. E ancora: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui. Quanta superbia, quanta autosufficienza”. Una settimana dopo Giovanni Paolo II muore e Ratzinger, in quanto decano del Sacro Collegio, presiede la sua messa funebre. Stessa cosa farà il mattino del 18 aprile 2005 quando presiederà la Missa pro eligendo Romano Pontifice che apre i lavori del Conclave. In quell’occasione condanna la “dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io e le proprie voglie”.

Ratzinger eletto papa

Il giorno seguente, al quarto scrutinio, Ratzinger viene eletto papa e prende il nome di Benedetto XVI. Nel suo primo discorso da pontefice dice: “Cari fratelli e sorelle, dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere”. Nel corso della sua prima udienza generale in piazza San Pietro il Papa spiega le ragioni di quel nome e dice:“Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi idealmente al venerato pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale”. Poi aggiunge che “Il nome Benedetto evoca, inoltre, la straordinaria figura del grande ‘Patriarca del monachesimo occidentale’, san Benedetto da Norcia, compatrono d'Europa” che per Ratzinger“costituisce un fondamentale punto di riferimento per l'unità dell'Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà”. Ratzinger diventa il 265° pontefice della storia e, a solo dieci giorni dalla sua elezione, stabilisce che la causa di beatificazione del suo predecessore abbia subito inizio, annullando così i cinque anni di attesa dalla morte.

Le controversie del papato di Benedetto XVI

Il 28 maggio 2006 visita il campo di concentramento di Auschwitz, mentre il 30 novembre prega insieme al Gran Mufti dentro la Moschea blu di Istanbul. Il suo pontificato è all’insegna della ripresa della tradizione tanto che promuove il latino per le ‘grandi celebrazioni’ e, dal punto di vista estetico, riprende l’utilizzo di abiti di origine rinascimentale come la mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino bianco. Il 12 settembre 2006 fa scalpore la lectio magistralis su ‘fede e ragione’ tenuta all’Università di Ratisbona che provoca forti reazioni, anche violente, da parte del mondo islamico. A suscitare l’ira dei fondamentalisti islamici è una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo che si rivolse in modo brusco a un suo interlocutore dicendo:"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava". Il 15 gennaio 2008 il Papa, dopo le proteste di una settantina di docenti, rinuncia a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma alla quale era stato invitato dal rettore. Il 19 luglio 2008, invece, papa Benedetto XVI, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, si trova a Sydney da dove parla dello scandalo dei preti pedofili irlandesi. “Devono essere portati davanti alla giustizia. Vergogna per i loro misfatti”, dice e da qui riparte la lotta contro la piaga della pedofilia nella Chiesa. Il 17 marzo 2009, nel corso di una visita in Africa, Ratzinger crea di nuovo scalpore a livello mondiale dichiarando che l’Aids “è una tragedia che non si può superare solo con i soldi, non si può superare con la distribuzione dei preservativi che anzi aumentano i problemi”. Nel corso di questi anni, inoltre, pubblica tre importanti libri sulla figura di Cristo: Gesù di Nazaret nel 2007, Gesù di Nazaret. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione nel 2011 e L'infanzia di Gesù nel 2012. Il 12 maggio 2009 incontra di nuovo il Gran Mufti nella Spianata delle moschee di Gerusalemme e il 19 dicembre dello stesso anno celebra la beatificazione di Giovanni Paolo II. Il 25 maggio 2012 scoppia lo scandalo Vatileaks dopo la pubblicazione del libro del giornalista Gianluigi Nuzzi Sua Santità- Le carte segrete di Benedetto XVI. Il maggiordomo del papa, Paolo Gabriele, viene arrestato con l’accusa di essere “il corvo” e, poi, condannato a 18 mesi per furto ma, in seguito, sarà graziato.

La rinuncia al papato

L’11 febbraio 2013, Benedetto XVI, durante il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto, annuncia le sue dimissioni in latino. “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino... Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005”, sono le parole con cui il papa dà inizio al periodo di sede vacante che si conclude solo il 13 marzo 2013 con l’elezione di Jorge Bergoglio a pontefice. Il 27 febbraio, in occasione della sua ultima udienza, spiega: “Il 'sempre' è anche un 'per sempre', non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”. Da quel momento Ratzinger assume il titolo di papa emerito e può continuare a vestire di bianco e a vivere dentro lo Stato del Vaticano.

Il rapporto con papa Francesco

Nel febbraio 2014, Ratzinger partecipa al primo concistoro di papa Francesco e così la basilica di San Pietro ospita per la prima volta, due papi viventi, i quali, dopo appena un mese, concelebrano la messa per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Nel novembre 2015, quando scoppia il caso Vatileaks 2, papa Bergoglio dichiara che continuerà “con i cardinali, con le commissioni quell'opera di pulizia iniziata da Ratzinger" e l’8 dicembre i due si ritroveranno di nuovo insieme per l’apertura del Giubileo straordinario della misericordia. I rapporti tra i due si incrinano nel 2017 quando Benedetto XVI si schiera al fianco del cardinale tradizionalista, Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino, scrivendo la post-fazione del suo ultimo libro e definendolo come un "maestro spirituale, che parla dal profondo del silenzio con il Signore, espressione della sua unione interiore con Lui, e per questo ha da dire qualcosa a ciascuno di noi". A fine maggio, per tutta risposta, Bergoglio, durante una delle sue messe a Santa Marta, chiede di pregare per “i pastori, per i nostri pastori, per i parroci, per i vescovi, per il Papa perché loro non si credano che sono al centro della storia e così imparino a congedarsi". Un chiaro riferimento a Ratzinger che subisce un altro, seppur indiretto attacco in luglio quando viene divulgata la notizia dei 547 bambini vittime di abusi sessuali subiti tra il ’45 e il 90 nel coro del Duomo di Ratisbona, diretto per trent'anni da Georg Ratzinger, fratello del papa emerito Benedetto XVI, che comunque non è mai stato indagato per queste vicende. Il 12 marzo 2018, alla vigilia del quinto anniversario dall'elezione di Bergoglio, il Papa emerito scrive una lettera per spegnere ogni polemica e contestare lo "stolto pregiudizio per cui papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano di oggi".

Nell'estate del 2020 Ratzinger viene colpito da una fastidiosa infezione al viso che gli procura forti dolori e lo costringe a pesanti terapie antibiotiche. Si trattava di una sorta di herpes che sarebbe peggiorata al ritorno dalla Germania, da Ratisbona, dove si era recato per dare l'estremo saluto a suo fratello maggiore Georg, deceduto in quel periodo all'età di 96 anni.

Ecco come Ratzinger immaginava l'aldilà. Il Papa emerito Benedetto XVI criticava la tendenza a censurare il tema della morte nella società. E ne parlò in diverse omelie funebri. Nico Spuntoni l’1 gennaio 2023 su Il Giornale.

Il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa speranza e di profonda gratitudine. E' lo stesso Joseph Ratzinger a fornire le parole giuste per descrivere i sentimenti con cui il mondo ha appreso la notizia della sua morte avvenuta ieri mattina all'età di 95 anni. Le aveva utilizzate nel 2005 per l'omelia funebre dell'amato Giovanni Paolo II di cui sarebbe diventato il successore undici giorni dopo.

Speranza, non bugie

Il tema della morte non era raro negli interventi del grande teologo tedesco che rimproverava alla società contemporanea la tendenza a voler censurare l'argomento. Non accettava che si parlasse sempre di meno, anche nella Chiesa, della fede nella resurrezione della carne e nella vita eterna. Nel suo Guardare Cristo – Esercizi di fede, speranza e carità del 1989, Ratzinger scriveva: "L'ottimismo ideologico è un tentativo di dimenticare la morte con il continuo discorrere di una storia protesa alla società perfetta. Qui si dimentica di parlare di qualcosa d'autentico e l'uomo viene calmato con una bugia; lo si vede sempre quando la morte stessa si avvicina. Invece la speranza della fede apre un vero futuro oltre la morte".

Tra dubbio e fede

Quello della fede è un cammino, amava ricordare Ratzinger. A questo cammino non è affatto estraneo il dubbio che convive con la fede e che, come scriveva nel celebre Introduzione al cristianesimo, accomuna il credente e l'incredulo diventando terreno di confronto tra i due.

Anche il credente ha bisogno del dubbio per far sì che la fede si manifesti per ciò che davvero è: una "provocazione permanente", la definiva l'allora giovane teologo tedesco. E in questo cammino è coinvolta anche la visione dell'aldilà. È illuminante, a tal proposito, la risposta che l'allora cardinale diede nel 2001 al suo biografo, Peter Seewald, nel libro-intervista Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio: rivendicato l'aldilà come parte della prospettiva di vita cristiana, Ratzinger sosteneva che "la vita umana sarebbe grossolanamente amputata se la si vedesse soltanto nella dimensione di questi 70-80 anni che ci sono dati mediamente da vivere".

Una prospettiva che responsabilizza l'uomo facendo sì che non si viva solo per l'istante. Perché nella resurrezione di Cristo, il credente riscontra la prova della "continuità dell'uomo che va oltre l'identità della sua esistenza corporea".

Ratzinger e i funerali

Nella sua lunga esistenza, Ratzinger si è ritrovato a pronunciare le omelie funebri di personaggi importanti per la storia della Chiesa. Due nomi su tutti: Karol Wojtyla e don Luigi Giussani. È probabile che in questi giorni di agonia nel letto del monastero Mater Ecclesiae, sofferente ma lucido, l'anziano Papa emerito abbia attraversato "la valle oscura della malattia e del dolore" nello stesso modo che lui attribuiva al fondatore di Comunione e Liberazione: con lo sguardo fisso su Gesù. Una costante non solo negli ultimi giorni di sofferenza ma in tutta la vita e l'opera dell'ultimo Papa europeo.

Ratzinger, non a caso, si impose alla conoscenza del grande pubblico negli anni Sessanta con quell'Introduzione al cristianesimo che ebbe il merito di riportare al centro dell'attenzione la questione di Dio e di Cristo. La soluzione offerta dal teologo al rischio di espellere Dio dalla società era proprio quella di rilanciare la cristologia ricordando che essendosi fatto uomo in Gesù, Dio non può essere lontano o assente dal mondo.

Di fronte alla morte, Ratzinger più volte amava ricordare questa comunione con Gesù Cristo. È struggente, ad esempio, quanto scrisse l'allora pontefice regnante in occasione del funerale di Manuela Camagni, una delle Memores Domini che formava la sua famiglia pontificia. Pur distrutto dal dolore per la prematura scomparsa della donna, Ratzinger parlò in quel testo di suo ingresso nella "festa del Signore" e, rimarcando l'apparente contraddizione del canto del L'Alleluia anche nella messa dei defunti, osservò: "Noi sentiamo soprattutto il dolore della perdita, sentiamo soprattutto l’assenza, il passato, ma la liturgia sa che noi siamo nello stesso Corpo di Cristo e viviamo a partire dalla memoria di Dio, che è memoria nostra. In questo intreccio della sua memoria e della nostra memoria siamo insieme, siamo viventi".

L'eternità e la scienza

Nei suoi moniti sugli eccessi del razionalismo colpevole di voler presentare una contrapposizione netta tra fede e ragione, Benedetto XVI si servì anche del tema della morte. Lo fece contestando l'atteggiamento di chi vorrebbe ridurre la realtà esclusivamente ai criteri della scienza sperimentale e che non risparmia la questione della morte da questo processo.

Questa tendenza però - sosteneva il teologo - fa vivere il rischio di cadere in "forme di spiritismo" perché fa immaginare che l'aldilà sia una sorta di copia della realtà terrena. "Solamente chi può riconoscere una grande speranza nella morte, può an­che vivere una vita a partire dalla speranza", disse Ratzinger in un'omelia per la commemorazione dei defunti del 2011 mettendo in guardia dalla tentazione di ridurre "l'uomo esclusivamente alla sua dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente" perché ciò fa sì che "la vita perde il suo senso profondo".

Invece, ammoniva Benedetto XVI, "l'uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata" perché "l'uomo è spiegabile solamente se c’è un amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo" concludendo, dunque, che "l'uomo è spiegabile solamente se c’è Dio". Lasciando la vita terrena, Ratzinger ha potuto quindi raggiungere quella che lui stesso chiamava "la sponda della Vita", con la V maiuscola. E c'è da essere convinti che, così come aveva scritto per l'omelia funebre di don Giussani, ora anche per Benedetto si è aperta la porta della casa del Padre.

Scripta manent. Il gesto grafico che racconta Benedetto XVI. L'analisi grafologica sulla scrittura del Papa emerito racconta chi era davvero Joseph Ratzinger, scomparso ieri all'età di 95 anni. Evi Crotti l’1 gennaio 2023 su Il Giornale.

Mai in duemila anni di storia della Chiesa era accaduto che un Papa rinunciasse al pontificato per anzianità poiché, a causa dell'età avanzata, non si sentiva più in grado di sostenere il peso del pontificato. La grafia così minuta di Joseph Ratzinger, mette in luce un pensiero profondo che nulla lascia al pressapochismo.

Dotato di un’intelligenza profonda con buone doti di critica e di verifica, Benedetto XVI era persona che mal sopporta situazioni intrigate o oscure, diventando persino meticoloso pur di evitarle. Grande osservatore dei principi teologici e filosofici, di cui peraltro sembra essere ben dotato (vedi lettere minute e gesto grafico contenuto), difficilmente si lascia andare cedendo alla superficialità.

La grafia che sto analizzando mette in luce un malessere tensivo dovuto a una resistenza psicofisica scadente (vedi gesto grafico congestionato e rigo discendente verso destra, segnali di un decadimento psicofisico generale).

Sua Santità Benedetto XVI possiede un carattere tenace, sensibile e poco incline alle amicizie, quindi senza dubbio selettivo, in quanto utilizza il discernimento sia nelle scelte personali sia in quelle ufficiali. Mai però in maniera rancorosa o infingarda.

Joseph Ratzinger passerà alla storia innanzitutto per il gesto sorprendente della rinuncia, manifestata l'11 febbraio 2013 con la lettura di una breve dichiarazione in latino davanti agli attoniti cardinali, affermando che quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi. Tutto ciò rientra nel quadro caratteriale di questo pontefice che, pur in modo impacciato e schivo, non ha mai rinunciato a difendere il proprio pensiero mantenendo sempre e comunque la propria integrità etica (vedi firma uguale al testo), a volte in modo determinato e duro altre volte con l’atteggiamento paterno.

"Restate saldi nella fede": il testamento spirituale di Ratzinger. Nelle immediate ore successive alla scomparsa di Benedetto XVI, il Vaticano ha reso noto il testamento spirituale del Papa emerito. Francesca Galici il 31 dicembre 2022 su Il Giornale.

È stato reso noto in queste ore il testamento spirituale del Papa emerito Ratzinger. Il Vaticano ha pubblicato il contenuto integrale, rivolto a tutti i fedeli che hanno imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo durante gli anni del suo pontificato e anche successivamente, quando con grande coraggio ha deciso di lasciare il pontificato. "Se in quest'ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare. Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono, che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di confusione", ha scritto nel suo testamento spirituale Benedetto XVI.

Nel suo testo, il Papa emerito lascia un passaggio anche ai suoi genitori, "che mi hanno donato la vita in un tempo difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia madre rappresentano un'eredità per la quale non potrò mai ringraziare abbastanza". Quindi, ricorda i suoi parenti più stretti: "Mia sorella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e con affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi giudizi, la sua vigorosa risolutezza e la serenità del cuore, mi ha sempre spianato il cammino; senza questo suo continuo precedermi e accompagnarmi non avrei potuto trovare la via giusta".

Ha ringraziato per gli affetti tutti ma anche "per la mia bella patria nelle Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede". Ma la richiesta di non perdere l'orientamento lo rivolge a tutti: "Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico ora a tutti quelli che nella Chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza — le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l'esegesi della Sacra Scrittura) dall'altro — siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica".

Quindi, nell'ultima parte del suo testamento spirituale, Benedetto XVI scrive: "Sono ormai sessant'anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede". Quindi, ha concluso: "Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita — e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo. Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il Signore, nonostante tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterna".

"Grazie per il bene compiuto". Il Te Deum di Francesco per Benedetto XVI. Papa Francesco ha regolarmente svolto il Te Deum a San Pietro, utilizzando la parla "gentilezza" come chiave per ricordare Benedetto XVI. Francesca Galici il 31 dicembre 2022 su Il Giornale.

Come già annunciato e confermato subito dopo la morte di Benedetto XVI, Papa Francesco nel giorno di San Silvestro ha onorato l'impegno dei Vespri e del Te Deum nella basilica di San Pietro. Ha regolarmente presieduto i primi Vespri della solennità di Maria Santissima Madre di Dio, cui farà seguito l'esposizione del Santissimo Sacramento, il tradizionale canto dell'inno Te Deum, a conclusione dell'anno civile, e la Benedizione eucaristica. Come già previsto dal protocollo del Vaticano, Papa Francesco si è recato in visita al presepio allestito in piazza San Pietro. Puntualmente, il Papa è entrato in Basilica alle 17 accolto dai cori vaticani.

Nelle sue preghiere, Papa Francesco ha ricordato la scomparsa di Papa Ratzinger in riferimento alla gentilezza e al suo modo di servire la Chiesa. "Gentilezza" è stata la parola chiave del discorso di Papa Francesco durante i Vespri, un invito a tutti ma, soprattutto, un elemento di distinzione del Papa emerito. "Parlando della gentilezza, in questo momento, il pensiero va spontaneamente al carissimo Papa emerito Benedetto XVI, che questa mattina ci ha lasciato. Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile, così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine", ha detto Papa Francesco. La gratitudine menzionata da Papa Francesco si riferisce a quella rivolta a Dio "per averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata. Solo Dio conosce il valore e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della Chiesa".

Quindi, il pontefice ha aggiunto: "Questa sera vorrei riproporre la gentilezza anche come virtù civica, pensando in particolare alla nostra diocesi di Roma". Per il Santo Padre, "non è solo questione di galateo; non è questione di etichetta, di forme galanti. No, non è questo che intendiamo qui parlando di gentilezza. Si tratta invece di una virtù da recuperare e da esercitare ogni giorno, per andare controcorrente e umanizzare le nostre società". Il Papa ha, quindi, proseguito: "La gentilezza è un antidoto contro alcune patologie delle nostre società: contro la crudeltà, che purtroppo si può insinuare come un veleno nel cuore e intossicare le relazioni; contro l'ansietà e la frenesia distratta che ci fanno concentrare su noi stessi e ci chiudono agli altri. Queste 'malattie' della nostra vita quotidiana ci rendono aggressivi".

Il Te Deum è un inno liturgico, abbreviazione del titolo completo Te Deum laudamus, ossia "Dio ti lodiamo". E considerato l'inno cristiano per eccellenza ed è il canto del giorno di San Silvestro che viene innalzato per ringraziare il Signore per l'anno che si sta concludendo.

"L'ultimo eroe del Concilio Vaticano. II Teologo sopraffino, ma attento a tutti". Il presidente del Consiglio per la Nuova Evangelizzazione: "Conosco Joseph da 30 anni. L'ho incontrato 15 giorni fa, stanco ma lucidissimo". Serena Sartini il 31 dicembre 2022 su Il Giornale.

Lo conosce da trent'anni: dapprima come teologo, poi come prefetto all'ex Sant'Uffizio, infine come Papa. Il legame tra monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione e Joseph Ratzinger è forte e di lunga data. Nel 2008 Benedetto XVI lo nomina presidente della Pontificia Accademia per la vita, elevandolo alla dignità di arcivescovo. Nel 2010 viene nominato presidente del nuovo dicastero voluto proprio dallo stesso Papa Ratzinger.

Eccellenza, come ha vissuto questi giorni di ansia per la salute del Papa emerito?

«Papa Francesco ci ha chiesto di pregare in questo momento particolare nella vita di Benedetto XVI e credo che nel mondo intero, la chiesa tutta, ci sia un coro di quel linguaggio che tutti noi conosciamo, anche se in lingue diverse. È l'unico linguaggio della fede, è il modo per accompagnare una persona in un momento di debolezza come questo, con la preghiera. Si vive questo momento ripercorrendo anche i tanti momenti della vita di Joseph Ratzinger, di Benedetto XVI e di quello che lui ha rappresentato e ancora rappresenta per la chiesa».

Che rapporto ha avuto con il Papa emerito?

«La conoscenza con Ratzinger significa più di trent'anni della mia vita, l'ho incontrato per la prima volta nel febbraio del 1993. Prima lo conoscevo come teologo perché avevo letto i suoi libri; nessuno può dimenticare L'introduzione al Cristianesimo, il volume che lo ha fatto conoscere al mondo. Poi il legame è continuato con la nomina alla Pontificia Accademia per la Vita e infine è stato lui che ha voluto istituire il dicastero della Nuova Evangelizzazione, chiedendomi di guidarlo. Sono ricordi che non sono legati alla nostalgia ma che appartengono al presente, e sono più una provocazione a mantenere vivo il suo ricordo».

Che cosa lascia in eredità alla chiesa e al mondo?

«Non dimentichiamo che con lui si conclude l'ultimo teologo significativo del XX secolo che ha partecipato ai lavori del Concilio Vaticano II, una memoria storica del suo contributo al tema della rivelazione, della Chiesa, della tradizione. Ricordiamo che l'11 ottobre scorso Francesco ha voluto celebrare i 60 anni dal Concilio. Questo significa anche valorizzare il contributo personale del teologo Ratzinger. E poi rimangono i sette anni di Pontificato che hanno segnato un momento di grande tristezza per la vita della Chiesa. Non dimentichiamo che è stato Ratzinger che ha voluto affrontare con chiarezza e determinazione il tema dello scandalo degli abusi sessuali nel clero. E non dimentichiamo come Ratzinger abbia affrontato e analizzato il tema della contemporaneità, in piena continuità con Paolo VI. Entrambi i Papi si sono confrontati con il tema della modernità. E poi ci sono stati i momenti di incomprensione: pensiamo al discorso di Ratisbona, o allo strumentale impedimento della facoltà dell'università La Sapienza ad accogliere il Papa e altri fatti tristi che riletti oggi riflettono una situazione di incomprensione nei confronti di un uomo, un teologo, un Papa».

Ha un ricordo particolare del suo legame con Ratzinger?

«È un fatto recente. Sappiamo come Benedetto XVI abbia manifestato sempre la sua passione per i presepi. Ecco, quest'anno siamo giunti alla V edizione dei 100 presepi in Vaticano. Un paio di settimane fa, l'ho incontrato, mentre faceva una delle sue solite passeggiate nei giardini vaticani e con voce sottile mi ha sussurrato: I presepi, i presepi. Aveva perfettamente chiara l'iniziativa e il desiderio di poterla visitare».

Come le è sembrato?

«Stanco, ma sicuramente ancora lucidissimo».

Quelle "teorie" sulle dimissioni: cosa sappiamo del gesto di Benedetto XVI. Quando Papa Ratzinger nel 2013 annunciò le sue dimissioni, in tanti iniziarono a ipotizzare teorie complottiste per giustificare quel gesto. Francesca Galici il 31 dicembre 2022 su Il Giornale.

Era l’11 febbraio 2013 quando Papa Ratzinger annunciò le sue dimissioni dal soglio pontificio. A distanza di 600 anni dalle dimissioni di Celestino V, Papa Benedetto XVI decise di rinunciare al suo ruolo, una decisione che era nell'aria da alcuni giorni ma sorprese tutti i presenti nella Sala Consilina. I cardinali non avrebbero potuto immaginare un finale simile per il pontificato di Benedetto XVI. Su quelle dimissioni aleggia ancora un alone di mistero mai risolto, che rimarrà probabilmente il cono d'ombra più scuro del suo pontificato.

Morto Joseph Ratzinger: addio al papa emerito Benedetto XVI

"Fratres carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem…", disse Papa Benedetto XVI. La riunione nella Sala Consilina non fu convocata esclusivamente per l'annuncio ma il motivo ufficiale era la canonizzazione di 813 martiri di Otranto uccisi dagli ottomani il 14 agosto 1480 e di altre due beate. Quella di Papa Benedetto XVI in quel momento apparve come una presa di coscienza da parte dell'uomo che si rende conto di non essere più in grado di perseguire la sua missione: "Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino". Come dice anche il direttore Augusto Minzolini, "quella fu una scelta coraggiosa. Ammettere in un momento così difficile che c’era bisogno di una grande energia". Il direttore ha poi aggiunto: "Tutto possiamo dire, tranne che sia un Papa che si è dimesso per paura, per timore. Probabilmente è l'astronomia contrario".

Eppure, nonostante le parole di Benedetto XVI siano state molto chiare, così come il suo pontificato è stato all'insegna della trasparenza, da 9 anni si rincorrono teorie complottiate sulle dimissioni di Papa Ratzinger. Sedevacantisti, lefebvriani, estremisti di destra, adepti di QAnon e ultraconservatori della Chiesa si interrogano su quelle che a loro dire sarebbero le vere ragioni dell'addio di Papa Benedetto XVI. Vengono alimentate voci di ricatti, pressioni e di attività di intelligence atte a spingerlo alla rinuncia. Alla base di molte di queste teorie c'è un cavillo che secondo alcuni sarebbe la chiave di risoluzione. Infatti, i complottisti sottolineano come Papa Ratzinger avrebbe al rinunciato al "ministerium" ma non al "munus" di Pietro, ossia avrebbe lasciato l’esercizio pratico del ministero ma non il suo ufficio di Papa. Eppure, le dimissioni erano già state paventate in diverse occasioni, compresa quella, molto chiara, del 2005: "Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi".

Francesco Colafemmina per ilgiornale.it il 31 Dicembre 2022.

Nel nostro tempo soggetto a rapidi mutamenti, raccontare eventi di soli pochi anni fa può talvolta risultare un esercizio difficile, faticoso. Specie quando la memoria riguarda fatti tremendi, che la vita tende a rimuovere. O un pensiero del passato che sembra terminato, sigillato, tanto da non poter più fare ritorno. 

Era il 2006, altre paure angosciavano l’Occidente. Non solo i postumi di guerre lontane, in Iraq e Afghanistan, ma il ricordo ancora vivo degli attentati di Londra del 2005, o di quelli di Madrid del 2004.

Un uomo vestito di bianco, un grande e mite teologo, forse il più grande teologo cattolico del XX secolo, ritorna nella sua università di Ratisbona e tiene una lezione che suscita scandalo e divisione. Quell’uomo è Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI, e la sua lectio magistralis passerà alla storia come Il discorso di Ratisbona. 

Il papa ha un solo obiettivo: mostrare che fede e ragione si tengono per mano. Che la tradizione greco romana non è stata cancellata dall’avvento del Cristianesimo. Al contrario, fede biblica e “interrogarsi greco” hanno vissuto un fondamentale avvicinamento.

Così la fede cristiana ha sin da subito, fin dall’incipit del Vangelo di Giovanni, riconosciuto in Dio il logos “insieme, ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, ma, appunto, come ragione”. 

Così, Benedetto XVI, fa riemergere dalle coltri del passato, le parole di un imperatore bizantino, Manuele II Paleologo – padre dell’ultimo imperatore dell’Impero Romano, Costantino XI Paleologo – che, sul finire del XIV secolo, mentre era ostaggio del Sultano ad Ankara, affrontava con la sapienza greca un saggio persiano. E osava dirgli: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”.

Non con la spada, proseguiva Manuele II Paleologo, ma con la ragione si trasmette la fede, perché “Dio non si compiace del sangue”. Parole fortissime che pesano in quei giorni come un macigno sulla perversa connessione fra religione e terrorismo. E sottolineano una volta di più la diffusa ambiguità delle disorganiche e spesso contraddittorie guide religiose musulmane. 

Tuttavia, il discorso di papa Ratzinger non si ferma alla mera contingenza storica. Perciò rileggerlo oggi ci dà il senso della sua profondità e risuona col tono di una profezia. Il problema del rapporto fra fede e ragione non riguarda, infatti, soltanto l’Islam, ma lo stesso Cattolicesimo.

La scissione fra pensiero greco e pensiero cristiano ha conosciuto secondo Benedetto, diverse fasi. La de-ellenizzazione più recente è quella che mira a ritornare “al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice”, a sostituire “il culto con la morale”. Una Chiesa, in sostanza, che rinuncia a guardare al cielo, che non punta più a rispondere alle grandi domande, agli interrogativi sul “da dove” e “verso dove”, e guarda solo ad istanze materiali e sociali. E lascia la ragione all’ambito della scienza, quasi che la religione, tutte le religioni, siano incompatibili con la ragione. È questo per Benedetto il dramma della rinuncia alle nostre radici elleniche, la rottura del saldo legame fra fede e ragione che discende direttamente dalle domande di Socrate, dalla filosofia di Platone. Un legame che “ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa”.

Due mesi dopo quel discorso pronunciato a Ratisbona, nel novembre del 2006 Benedetto, dopo essersi sfilato le scarpe, varcò la soglia della Moschea Blu di Istanbul e sostò in preghiera davanti al mirhab, l’edicola che indica la direzione della Mecca. E nel Libro d’oro di Santa Sofia, la grande basilica di Giustiniano, all’epoca non ancora trasformata in moschea, come accaduto nel 2021 per decreto del presidente Recep Tayyip Erdogan, Benedetto XVI scrisse in italiano le seguenti parole: “Nelle nostre diversità ci troviamo davanti alla fede del Dio unico”. 

Fede e ragione, ellenismo e cristianesimo, radici di un’Europa millenaria, hanno trovato in Joseph Ratzinger forse l’ultima grande personalità di un mondo antico e sempre vivo, ma oggi sentito quasi estraneo, superato. In nome di una Chiesa sempre più concentrata sui temi del sociale, e di una umanità asservita alla tecnica e alle chimere della scienza. Che procede, come ha sempre ripetuto Ratzinger, etsi Deus non daretur – “come se Dio non ci fosse”, finendo per ridurre l’uomo “a una sola dimensione, quella orizzontale”. Così: “oscurando il riferimento a Dio, si è oscurato anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e ad una concezione ambigua della libertà, che invece di essere liberante finisce per legare l’uomo a degli idoli”.

Parole sempre attuali di un grande profeta dei nostri tempi, non solo troppe volte ignorato, ma in numerosi casi rinnegato, osteggiato, vilipeso e perfino messo a tacere nell’ambito di quella stessa Chiesa che, d’altra parte, non ci ha messo molto a dimenticarlo dopo le dimissioni annunciate l’11 febbraio del 2013.

Papa Ratzinger, 31-12-22: il significato nascosto nella data della morte. Ignazio Stagno su Libero Quotidiano il 31 dicembre 2022

Il Papa Emerito, Benedetto XVI, si è spento all'età di 95 anni dopo una lunga malattia. Nei giorni scorsi si erano rincorse le voci su un peggioramento del suo stato di salute, e Papa Francesco aveva invitato il mondo a pregare per Ratzinger. Oggi l'annuncio della morte. Ma il decesso di Papa Ratzinger è avvenuto in una data particolare, l'ultimo giorno di questo anno, il 2022. Ratzinger si è spento il 31/12/22. Una data e delle cifre piene di significati nascosti che dicono molto sulla figura storia di questo Pontefice, l'unico dopo Celestino a fare il gran rifiuto lasciando il soglio di Pietro. per capire cosa ha rappresenta questa morte che addolora milioni di cristiani in tutto il mondo, bisogna partire dal primo numero, il 31. 

Questo numero corrisponde alla parola ebraica "el", "Dio". La "gloria del Signore" si mostra agli israeliti proprio 31 giorni dopo l'esodo dall'Egitto. Ma la simbologia legata alla morte del Papa non finisce qui. Poi c'è il 12: nelle religioni bibliche, dodici è il numero dei figli di Giacobbe/Israele e dai patriarchi discendono le 12 tribù di Israele. E ancora: 12 è il numero dei profeti minori biblici e il ritrovamento di Gesù nel Tempio avviene all'età di 12 anni. Inutile poi ricordare i 12 apostoli del Messia, ma anche il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: le ceste sono 12. Nell'Apocalisse di Giovanni, al versetto 12, appare "un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle".

 La Gerusalemme celeste ha 12 porte e nelle stazioni della Via Crucis, la dodicesima è quella della morte di Gesù. Poi c'è il numero 22, e anche questo è denso di significati nella numerologia cristiana: 22 è il numero dei capitoli dell'Apocalisse di S. Giovanni. La data della morte del Papa dunque ha alcuni significati che ricongiungono Ratzinger al suo percorso affrontato nella Chiesa. Un Papa che ha messo al centro del suo cammino la difesa della cristianità davanti alle incognite di un futuro sena più tradizioni e valori.

INNOVATORE DELLA TEOLOGIA. Benedetto XVI, primo Papa emerito della storia: ecco chi era Joseph Ratzinger. È stato il 265mo Papa della Chiesa cattolica e il settimo pontefice di nazionalità tedesca. Innovatore della Teologia, è stato considerato uno dei più illustri intellettuali dell’ultimo secolo. Il Dubbio il 31 dicembre, 2022

Il Papa emerito Joseph Ratzinger, il primo ad abdicare da sei secoli, è morto nel suo appartamento tra le mura dell'ex monastero Mater Ecclesiae, nella Città del Vaticano, dove si era ritirato dal 2013 per dedicarsi alla preghiera e ai suoi scritti teologici. È stato il 265mo Papa della Chiesa cattolica e il settimo pontefice di nazionalità tedesca. Innovatore della Teologia, è stato considerato uno dei più illustri intellettuali dell’ultimo secolo.

E' stato il primo Papa nella storia a comunicare con il mondo tramite un social network quando, il 12 dicembre del 2012, postò il suo messaggio di saluto su Twitter. Nato il 16 aprile 1927, a Marktl am Inn in Germania, e salito al soglio pontificio il 19 aprile 2005 con il nome di Benedetto XVI, è rimasto in carica fino al compimento del suo 86esimo compleanno quando decise di ritirarsi: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio - dichiarò l’11 febbraio 2013 - sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Lasciò ufficialmente l'incarico qualche giorno dopo, il 28 febbraio. Fu lui stesso, dopo la rinuncia, a scegliere il titolo di "Papa emerito”.

È stato uno dei pochissimi Papi ad aver rinunciato al ministero petrino: nella storia della Chiesa cattolica altri sette pontefici – tra i casi considerati attendibili - fecero la medesima scelta. Si tratta di Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V e Gregorio XII. Alcuni interpretarono la scelta di abdicare come un atto di responsabilità di Papa Benedetto XVI dinnanzi alla difficoltà di gestire con polso saldo il cattolicesimo mondiale, reduce allora dalle tempeste dello scandalo pedofilia e della stagione Vatileaks. Joseph Aloisius Ratzinger nacque in una famiglia modesta: il padre era commissario di gendarmeria, mentre la madre aveva lavorato come cuoca in alcuni alberghi della Baviera. Ratzinger è cresciuto nella Germania degli anni Trenta, conoscendo gli orrori del nazismo e della guerra.

Nel 1939, all'età di 12 anni entra in seminario (in cui rimase fino al 1942) e nel 1941 fu iscritto nella Gioventù hitleriana, come prevedeva la legge, sebbene contro il suo volere. A 16 anni lui e il fratello Georg furono reclutati nel programma paramilitare Luftwaffenhelfer, ovvero il personale di supporto alla Luftwaffe a Monaco.

Nel 1944 fu arruolato nell’esercito tedesco a Monaco e assegnato alla caserma di fanteria di Traunstein. Non andò mai al fronte, non partecipò mai a scontri armati e non sparò nemmeno un proiettile. Con la disfatta della Germania, nell’aprile del 1945, il futuro Papa fu recluso come prigioniero di guerra vicino Ulma. Fu rilasciato il 19 giugno. Nel 1946 Joseph si iscrisse all'Istituto superiore di Filosofia e Teologia di Frisinga, in Baviera.

Il 29 ottobre 1950, a 23 anni, fu ordinato diacono. Il 29 giugno 1951, insieme al fratello Georg, fu ordinato presbitero. Nel 1953 discusse la tesi di dottorato in Teologia su sant'Agostino, dal titolo ‘Popolo e casa di Dio nella dottrina agostiniana della Chiesa’, riportando la valutazione massima summa cum laude. Nel 1955 presentò la dissertazione su san Bonaventura dal titolo ‘La teologia della storia di san Bonaventura’, per l'abilitazione all'insegnamento universitario. Nel maggio del 1957 ottenne la cattedra di Teologia fondamentale all'Università di Monaco. Nel dicembre dello stesso anno quella di teologia dogmatica e fondamentale all'Istituto superiore di teologia e filosofia di Frisinga.

Nel 1959 diventò professore all'Università di Bonn. Nel 1962 partecipò al concilio Vaticano II. Nel 1963 si trasferì all'Università di Münster. Dal 1959 al 1969 insegnò a Bonn, Münster, e Tubinga. Nel 1969 divenne professore ordinario di teologia dogmatica e storia dei dogmi all'Università di Ratisbona: qui fu vicepresidente dal 1976 al 1977. Il 24 marzo 1977 venne nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da Papa Paolo VI ed il 28 maggio dello stesso anno ricevette la consacrazione episcopale. Il 27 giugno dello stesso anno, sempre Paolo VI lo nominò cardinale, definendolo un “insigne maestro di teologia”.

Nel 1978, ad agosto e ad ottobre, prese parte ai conclavi che elessero al soglio pontificio rispettivamente Albino Luciani e Karol Wojtyla. Nel 1981 Giovanni Paolo II lo nominò prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale.

Dal 1986 al 1992 fu chiamato a presiedere la Commissione per la preparazione del Catechismo per la Chiesa universale. Il 15 aprile 1993 fu elevato alla dignità di cardinale vescovo e gli fu affidata la sede di Velletri-Segni, che mantenne fino al 2005, quando fu eletto Papa. Dal 2003 e fino alla morte di Giovanni Paolo II, nel 2005, Ratzinger fu presidente della Commissione cardinalizia per la preparazione del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica.

In veste di decano del Sacro Collegio, venerdì 8 aprile 2005, presiedette i funerali di Giovanni Paolo II e la sua omelia sarebbe passata alla storia come suo "programma di pontificato". In essa denunciò il pericolo di una “dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”, opponendo a essa “un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo", "misura del vero umanesimo”, “criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità”. Ratzinger affermò che “questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo” anche se “avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo”.

Ratzinger fu eletto Papa nel pomeriggio del 19 aprile 2005, il secondo giorno del conclave, al quarto scrutinio. Scelse il nome di Benedetto XVI in onore di Benedetto XV, “che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. Fu coraggioso e autentico profeta di pace e si adoperò con strenuo coraggio dapprima per evitare il dramma della guerra e poi per limitarne le conseguenze nefaste".

Nelle vesti di Papa, Ratzinger, oltre a numerose visite apostoliche in Italia, ha visitato 21 Paesi in tutti i continenti del mondo. Nel suo terzo viaggio intercontinentale, a Sidney, in Australia, per la giornata mondiale della gioventù nel 2008, prima di ripartire decise di incontrare un gruppo di persone che avevano subìto atti di pedofilia da parte di religiosi cattolici. Ratzinger condannò duramente gli abusi definendoli "misfatti" che devono essere “condannati in modo inequivocabile”. Essi “hanno causato grande dolore e hanno danneggiato la testimonianza della Chiesa. Le vittime devono ricevere compassione e cura e i responsabili di questi mali devono essere portati davanti alla giustizia”. 

L'addio a 95 anni. È morto Joseph Ratzinger, eletto Papa Benedetto XVI nel 2005 si dimise nel 2013. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 31 Dicembre 2022

Joseph Ratzinger cioè Benedetto XVI, muore a 95 anni ed ha attraversato tutto il cammino di un secolo di vita della Chiesa, ha vissuto direttamente il Concilio Vaticano II da giovane consulente teologo dell’arcivescovo di Colonia, ed ha vissuto le turbolenze del dopo-Concilio, con il distacco dal gruppo dei teologi fondatori della nota rivista “Concilium” (tra cui Hans Kung, escluso dall’insegnamento della teologia nel 1979), lo spostamento verso una visione più istituzionale dal 1977 quando, a 50 anni, Paolo VI lo nominò arcivescovo di Monaco e poi cardinale.

Aveva un rapporto di grande fiducia con Giovanni Paolo II (tra l’altro aveva partecipato ai due Conclavi del 1978) e nel 1981 proprio Wojtyla lo volle come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. In quel ruolo è stato protagonista dei principali documenti teologici di Giovanni Paolo II: le encicliche “Fides et Radio”, “Veritatis Splendor”, “Evangelium Vitae”, la Dichiarazione “Dominus Iesus” del 2000. E hanno fatto epoca i provvedimenti contro teologi e tendenze teologiche come ad esempio i due documenti del 1984 e del 1986 sulla teologia della liberazione – il primo di netta critica, il secondo con qualche prudente apertura. E anche i provvedimenti canonici per segnalare i teologi con posizioni non ortodosse in campo di morale e morale matrimoniale: Charles Curran, Edward Schillebeeckx (si conoscevano bene), Leonardo Boff, Tissa Balasuriya e diversi altri.

Di quel periodo e di quei provvedimenti, una volta diventato Papa, Joseph Ratzinger non ha mai parlato. Però è indubbio che il vero atto di governo da lui attuato non è tanto nel promuovere una maggiore trasparenza amministrativa e l’attivazione di un maggiore impegno contro gli abusi commessi da esponenti del clero (misure proseguite con decisione da Papa Francesco), quanto la dichiarazione dell’11 febbraio 2013. Cioè le dimissioni. Per diverso tempo, dopo l’elezione del successore, quando è apparsa chiara la linea “francescana” del pontefice, gli oppositori del nuovo papa si sono arrovellati sull’idea complottista che le dimissioni non fossero valide perché espresse in maniera non libera. Idea a dispetto dell’evidenza, come appare chiaro a rileggere quel testo dell’11 febbraio, già passato nella storia della Chiesa.

Davanti ai cardinali, Benedetto XVI diceva: ‘‘Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice’’.

Così, ad 86 anni di età, terminava il 265esimo pontificato. Le dimissioni hanno aperto una fase inedita: prima di tutto la decisione di ritirarsi ad abitare in Vaticano, con un Joseph Ratzinger ferreo e determinato nel mantenere il silenzio e non intervenire sugli atti di governo di Papa Francesco e sui suoi documenti, sebbene alcuni settori conservatori abbiano cercato di mettere l’uno contro l’altro. A nove anni dalla rinuncia, resta irrisolta la questione teologica, canonistica e pratica di cosa significhi avere un papa dimissionario (fin dal come chiamarlo: papa emerito, vescovo di Roma emerito?) in una Chiesa governata da un papa regnante.

Dal punto di vista teologico, cosa resta di Benedetto XVI? La risposta è complessa. Certamente il contributo da lui offerto al Concilio Vaticano II è stato molto studiato ed approfondito. I suoi libri sono sapienti esposizioni del pensiero cristiano, e vanno citati tre opere per tutte: “Rapporto sulla fede”, libro intervista con Vittorio Messori del 1984 in cui denunciava le rotte sbagliate del dopo-Concilio; e “Introduzione al Cristianesimo”, del 1969, tratto dalle lezioni agli studenti di teologia e molte volte ristampato. La terza è il “Gesù di Nazareth”, scritto da papa, e pregnante sintesi teologica di cosa sia l’incarnazione di Gesù nella storia umana. In questa brevissima rassegna non può mancare, come una vera pietra-miliare, il discorso del 2006 all’Università di Ratisbona, dove tornò da papa dopo aver insegnato come teologo decenni addietro.

Quel discorso venne interpretato come una critica all’Islam ed ha provocato polemiche infinite. E invece il significato è tutt’altro. Benedetto XVI proseguiva, da papa, quello che aveva iniziato come Prefetto della Dottrina della Fede: spendersi – teologicamente parlando – per una razionalità capace di coniugare teologia, filosofia e scienza, come terreno di incontro tra credenti e non credenti, per superare ogni steccato ideologico. La fede deve aprirsi all’ampiezza della ragione, la ragione all’ampiezza della fede. Come si vede, non un discorso contro l’Islam – frutto di un’affrettata e maliziosa sintesi giornalistica – ma un affresco di ampio respiro per invitare l’Occidente post-illuminista a riflettere su se stesso e sulle sue radici cristiane.

Nella ricerca del dialogo è stato un papa moderno, autenticamente postconciliare e Papa Francesco ne prosegue la linea, sebbene troppo spesso i detrattori di quest’ultimo non rintracciano la linea di continuità, perdendosi dietro la ricerca di un regime di cristianità che non esiste più da secoli. Certamente a suo agio nei temi culturali e teologici, molto meno nelle concrete e complesse questioni di governo (si ricordi la fuoriuscita di documenti dall’appartamento papale da parte del “Corvo”, il maggiordomo che riforniva un giornalista), ma comunque sempre lucido, anche quando – da Prefetto – cercava di segnalare deviazioni teologiche ed errori. “È come una candela che si consuma lentamente”, disse qualche tempo fa il suo segretario e collaboratore, l’arcivescovo George Ganswein. Adesso che si è consumata del tutto, resta un’eredità culturale, religiosa e spirituale che – si spera – sarà libera da eccessi di letture.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Cosa succede con la morte del Papa Emerito, il caso senza precedenti. L’ultimo saluto a Papa Benedetto XVI, lunedì la salma a San Pietro: il caso senza precedenti del funerale e delle solenni esequie. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Dicembre 2022

Si è spento all’età di 95 anni il Papa Emerito Benedetto XVI. L’annuncio del decesso è avvenuto alle 9.34 del 31 gennaio 2022. Il mondo piange la scomparsa di Joseph Ratzinger, che rinunciò al papato dal 2013 e da allora è diventato il primo papa emerito. Dalla mattina di lunedì 2 gennaio 2023, il corpo di Ratzinger sarà nella Basilica di San Pietro in Vaticano per il saluto dei fedeli. Lo rende noto il Direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni.

Una celebrazione che desta non pochi interrogativi vista l’unicità della sua posizione. In queste ore verrà stabilito come si procederà per i solenni funerali. Ratzinger non ha mai smesso di essere “Papa”, ha solo ceduto lo scettro a Francesco, il papa “regnante”. Tra due è sempre stata rivendicata intesa ma essendo la prima volta che la Chiesa si trova davanti a una situazione simile gli interrogativi sono tanti: Benedetto avrà esequie precisamente di pieno rango pontificio? La mancanza di precedenti non aiuta a risolvere il rebus.

Dal punto di vista liturgico, credo che quando avverranno le esequie verrà utilizzato sostanzialmente il rituale che si prevede per le esequie dei Papi dal momento che con Ratzinger parliamo di un Pontefice”, ha spiegato don Claudio Magnoli, consultore della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, intervistato dall’Adnkronos. Il liturgista ha spiegato che la differenza sostanziale rispetto a quando muore un Papa “è che probabilmente potrebbe presiederle il Papa regnante, dunque Bergoglio, mentre invece quando c’è la morte di un Papa è il decano dei cardinali a presiedere”. Tuttavia non è escluso nemmeno che Francesco rinunci a presiedere solenni esequie se la sentisse a causa dei noti problemi al ginocchio.

C’è poi un altro aspetto inedito legato alla vestizione del Papa emerito. “Siccome Joseph Ratzinger anche in questi quasi dieci anni da Papa emerito non ha rinunciato alla veste bianca – aveva osservato il liturgista – potrebbe decidere di tenere i paramenti pontifici. Si può ipotizzare anche che Ratzinger abbia dettato anche queste volontà in un testamento. O che deciderà forse il cerimoniale del Vaticano”. Una delle fasi del cerimoniale in occasione della morte di un papa, subito dopo la costatazione della morte, è la frantumazione dell’Anello del Pescatore, una delle insegne del papa che riceve durante la messa solenne di inizio pontificato, che indossa all’anulare della mano destra. Come riportato dall’Agi, a compiere l’atto è il cardinale camerlengo in presenza del cancelliere della Camera Apostolica. Ma l’anello del Pescatore Ratzinger non lo ha più, dal momento che non è più pontefice dal 2013.

Poi la salma solitamente viene portata nella basilica di San Pietro per una esposizione ai fedeli che si protrae per tre giorni. E questo è già stato annunciato. Secondo il protocollo il funerale papale viene detto Missa poenitentialis e viene celebrato in San Pietro alla presenza delle delegazioni di Stato da tutto il mondo. Il servizio funebre si svolge ordinariamente presso l’altare pontificio del Bernini, situato sotto la cupola della basilica, ma gli ultimi funerali sono stati svolti all’aperto, di fronte alla piazza San Pietro gremita. Il corpo senza vita del papa viene posto in una bara di legno.

E da qui i numerosi interrogativi inediti. Il Papa Emerito non è più un capo di Stato. Ci saranno le delegazioni? Come e quanto sarà modificato il cerimoniale? Quel che si sa di certo è che fu lo stesso Ratzinger a indicare nel 2020 il luogo dove voleva essere sepolto. Scelse la tomba che fu di Giovanni Paolo II, nella cripta di San Pietro. Tomba che è libera perché l’urna e i resti di Wojtyla sono stati trasferiti in una cappella vicino alla Pietà di Michelangelo dopo la sua canonizzazione.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il clamoroso annuncio dell'11 febbraio 2013. Perché Benedetto XVI ha lasciato il papato, le storiche dimissioni: “Le mie forze per l’età avanzata non sono più adatte”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Dicembre 2022

Era l’11 febbraio 2013 quando Benedetto XVI annunciò la sua decisione di ritirarsi e lasciare il papato. “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”, disse. Lasciò ufficialmente il 28 febbraio di quello stesso anno. Salito al soglio pontificio il 19 aprile 2005 con il nome di Benedetto XVI, Ratzinger è rimasto in carica fino al compimento del suo 86esimo compleanno quando decise di ritirarsi.

Ratzinger è stato il primo pontefice a rinunciare al soglio pontificio dopo Gregorio XII (nel 1415, 598 anni prima). Benedetto XVI è l’ottavo papa a compiere tale rinuncia dopo Clemente I (incerto), Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V e Gregorio XII. Nel corso dell’ultima udienza il 27 febbraio 2013 in piazza San Pietro disse: “In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi”.

Poi l’elezione di Bergoglio a nuovo Papa. Dalle 17 di giovedì 2 maggio 2013 che dentro le Mura vaticane, convivono due Papi, uno regnante, Francesco, e uno Emerito, Benedetto che ha scelto per il suo buen ritiro il monastero vaticano Mater Ecclesiae.

Come ricorda l’Ansa, dopo la clamorosa rinuncia dell’11 febbraio 2013 e un periodo di circa quattro settimane destinato alla preparazione del conclave, Ratzinger ha formalmente rinunciato al soglio pontificio il 28 febbraio 2013, aprendo così la fase cosiddetta della “sede vacante”. In quel momento lascia per un breve periodo il Vaticano, volando in elicottero a Castel Gandolfo, dove trascorre il tempo del Conclave proprio per non influenzare nemmeno solo con la sua presenza indiretta, la scelta del nuovo Papa. Ma dopo l’elezione di Francesco il 13 marzo del 2013, rientra in Vaticano per prendere possesso della sua nuova dimora, il monastero Mater ecclesiae sulla sommità del monte vaticano, vicino la riproduzione della Grotta di Lourdes, dove assumerà anche un nuovo ruolo, quello che lui stesso ha definito di Pontefice emerito, una sorta di monaco che accompagna la Chiesa con la preghiera. Da allora vive nel monastero assistito dal fido segretario, monsignor Georg Gaenswein, e dalle suore laiche, le memores domini.

Papa Emerito da circa dieci anni, esattamente dal 28 febbraio 2013, Benedetto XVI aveva studiato ogni passaggio dell’inedita coabitazione che da allora si sarebbe verificata tra due Papi in Vaticano. Joseph Ratzinger fece in modo infatti, che dall’annuncio all’elezione del nuovo papa trascorressero all’incirca quattro settimane, un tempo in cui si potevano sistemare gli ultimi affari correnti del suo pontificato e far avere alla Chiesa un nuovo Papa in tempo per la Pasqua.

Dopo l’elezione di Francesco, il 13 marzo 2013, nonostante una disputa tra teologi andata avanti a lungo e risoltasi con la affermazione di quanti lo ritenevano “vescovo emerito”, Ratzinger ha continuato a parlare di sè stesso come del Papa “Emerito”, ha continuato a vestirsi di bianco mentre ha sostituito l’anello del pescatore con l’anello vescovile. Ha messo via però le discusse scarpe da ‘sovrano’ per indossare dei sandali simili a quelli dei monaci benedettini, simbolicamente più corrispondenti al suo nuovo ruolo: quello di accompagnamento con la preghiera alla missione di salvezza delle anime della Chiesa.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Manuela Tulli per l’ANSA l’1 gennaio 2023.

Dai politici allo Ior, dalla sua elezione a Papa alla rinuncia, passando per i giorni dell'infanzia e arrivando anche a Papa Bergoglio. Può considerarsi un vero e proprio testamento spirituale il libro-intervista di Benedetto XVI con Peter Seewald "Ultime conversazioni" del 2016, al quale seguirono altre 'confessioni' con l'amico giornalista contenute nella corposa biografia pubblicata nel 2020. 

Tra gli argomenti affrontati, il Papa emerito, con molta umanità, aveva parlato anche della sua morte. Paura? gli aveva chiesto il giornalista tedesco. "Per certi versi sì", aveva confidato Ratzinger informando di avere comunque già steso il suo testamento "definitivo". E aveva aggiunto che avrebbe voluto che sulla lapide fosse scritto il solo nome.

Ma Benedetto XVI rivelò anche le sfaccettature più nascoste dei suoi giorni da Papa: per esempio la sua insofferenza per le visite dei politici, o la questione Ior che era "un punto di domanda". Disse anche che non si aspettava l'elezione di Bergoglio. In quelle pagine si ritrova anche il suo lungo, e non sempre facile, rapporto con Papa Wojtyla, ma anche dettagli più intimi come il fatto che amasse dormire, o che fosse da anni cieco da un occhio. Ratzinger dunque si è aperto al suo biografo con grande sincerità e naturalezza, ridendo durante la conversazione, diverse volte. 

Come quando raccontò della zia che fece 'marameo' ai nazisti che passavano su un treno. Ma anche piangendo, quando ricordò le campane che lo salutarono nel momento in cui, dopo la rinuncia, lasciò in elicottero il Vaticano per ritirarsi a Castel Gandolfo. Nel trarre un bilancio del suo pontificato aveva detto: "Il governo pratico non è il mio forte e questa è certo una debolezza. Ma non riesco a vedermi come un fallito".

Però confermò quanto già tutti sapevano, ovvero la fatica, lui, che pensava che sarebbe stato per tutta la vita solo un professore, di essere a capo della Chiesa cattolica. Ci sono state "belle esperienze", aveva avuto anche la consapevolezza di "essere sostenuto". "Ma è stato naturalmente sempre anche un fardello", ammise Ratzinger. Una grande libertà espresse infine in quelle parole su Papa Francesco. 

"Nessuno - disse il Papa emerito - si aspettava lui. Io lo conoscevo, naturalmente, ma non ho pensato a lui". Sempre su Papa Francesco disse di apprezzare il suo modo di stare con la gente ma "mi chiedo quanto potrà andare avanti" a "stringere ogni mercoledì duecento mani o più", diceva il Papa emerito così riservato, così diverso nel rapporto con le folle rispetto al Papa argentino.

Benedetto XVI, quell’accusa di «negligenza» sui preti pedofilie la sua battaglia dentro la Chiesa. Storia di Paolo Valentino su Il Corriere della Sera l’1 gennaio 2023.

L’accusa di aver gestito in modo opaco i casi di abusi sessuali all’interno della gerarchia ecclesiastica ha fatto da ombra a Joseph Ratzinger per anni, anche dopo la sua elezione al soglio pontificio, così come la critica di non aver fatto abbastanza per portare in giudizio i vescovi che li avevano coperti.

Ma è stato soltanto un anno fa che un rapporto ufficiale commissionato dalla Diocesi cattolica di Monaco di Baviera ha indicato Benedetto XVI come responsabile di negligenza intenzionale al tempo in cui era arcivescovo nella capitale bavarese, dal 1977 al 1981, in almeno quattro casi di pedofilia, nei quali non prese alcuna misura contro i preti autori degli abusi. È stata la prima volta che l’ex pontefice è stato accusato formalmente non solo di non aver agito nei loro confronti, ma anche di aver consentito loro di continuare il ministero senza alcuna restrizione e controllo.

Il rapporto, lungo quasi 2000 pagine, era frutto di un’inchiesta andata avanti per due anni e condotta dallo studio legale Westpfahl Spilker Wastl. Lo studio identificava almeno 497 vittime di abusi sessuali, in maggioranza ragazzi di cui il 60% di età compresa tra i 6 e i 14 anni. Avevano subito le molestie e le violenze di 235 pedofili, fra i quali preti, diaconi e dipendenti laici della Chiesa. Gli inquirenti avevano avuto accesso a documenti interni della diocesi bavarese e avevano ascoltato decine di testimoni, compreso il Papa emerito, che si era espresso con una dichiarazione scritta lunga 80 pagine, nella quale negava ogni conoscenza dei fatti e sosteneva di non aver mai partecipato a riunioni in cui erano stati discussi i casi di abusi: «Non vi ho preso parte», aveva scritto Benedetto.

Ma nella conferenza stampa di presentazione del rapporto, nel gennaio 2022, gli investigatori definirono «non credibile» la dichiarazione, mostrando le minute di un incontro svoltosi nel gennaio 1980, al quale era presente l’allora vescovo. Nella riunione era stato discusso in particolare il caso di uno dei quattro preti, che nel gennaio 1980 era stato trasferito da un’altra diocesi a quella di Monaco, per essere sottoposto a psicoterapia. Durante l’incontro, Joseph Ratzinger non disse nulla sul caso specifico, ma intervenne su altri temi. Il religioso era stato autorizzato dalla diocesi bavarese a tornare al suo lavoro pastorale in un’altra parrocchia, dove aveva continuato indisturbato negli abusi. Nel 1986 venne nuovamente accusato di abusi sessuali e condannato a 18 mesi di reclusione, con sospensione condizionale della pena. Quando la storia venne fuori, nel 2010, il prete era ancora in servizio.

L’addio al Papa emerito

La prima reazione di Benedetto alla pubblicazione del rapporto era stata piuttosto reticente. A nome del Papa emerito, monsignor Gänswein aveva espresso «turbamento e vergogna di fronte agli abusi su minori commessi da religiosi» ribadendo che Benedetto significava la sua «personale vicinanza e le sue preghiere per tutte le vittime, alcune delle quali aveva incontrato nel corso dei suoi viaggi apostolici». Ma due settimane dopo, Benedetto ammise in una lettera che sotto la sua guida pastorale a Monaco «erano stati commessi abusi ed errori» e chiese perdono. Anche se continuò a negare ogni comportamento scorretto.

Eppure, non c’è dubbio che Benedetto XVI sia stato fra i primi a riconoscere il danno subito dalla Chiesa dalle rivelazioni sugli abusi sessuali, coperti per decenni, riconoscimento culminato nel giugno 2010, quando fu il primo Papa a chiedere perdono, promettendo che la Chiesa avrebbe fatto «tutto il possibile» per fermare e prevenire la piaga della pedofilia fra i suoi ranghi. Poche settimane prima in Portogallo, Benedetto aveva messo in guardia che il più grave pericolo per la Chiesa «veniva dal peccato al suo interno», non dall’esterno, e che «il perdono non è un sostituto per la giustizia».

Ratzinger e le dimissioni: gli intrighi, le invadenti pressioni. E lui decise di dire «no». Storia di Andrea Riccardi su Il Corriere della Sera l’1 gennaio 2023. 

Stavo concludendo la biografia di Giovanni Paolo II ed ebbi una conversazione in proposito con Benedetto XVI, il principale collaboratore di Wojtyla. Questi lo stimava molto: «È l’ultimo teologo del Vaticano II», disse di lui. Ratzinger, riconosciuto intellettuale europeo (faceva parte dell’Académie Française), integrava con la sua dottrina le intuizioni mistiche e carismatiche di Wojtyla. Il cardinale lo ammirava: «Sollevava i continenti», scrisse di lui. Anche se non condivideva tutto, come la preghiera interreligiosa di Assisi, ma anche gli ultimi tempi di pontificato, segnati da una malattia vissuta di fronte al mondo. Il mio colloquio con Ratzinger mi rivelò, ancora una volta, il suo atteggiamento cordiale e paritario. Faceva domande e mostrava grande capacità di ascolto, come chi sente di poter sempre imparare e di conoscere poco la vita. Eppure era aggiornato. Lo vidi quando, a un pranzo di Sant’Egidio con i poveri, incontrò gente di vari Paesi e ricordava a ciascuno la situazione della propria patria. Nel colloquio con lui, mi colpì, oltre i discorsi, la sua gestione dei rapporti. Mi fece aspettare in anticamera più di mezz’ora. Non era un problema per me. Però, quando entrai da lui, era turbato: si scusava eccessivamente dell’attesa, accennando al cardinale in udienza prima di me, come di uno un po’ invadente, che non rispetta gli orari. Mi colpì: una persona, come il Papa, ha molti modi di congedare. Ma non era facile, per lui, timido e mite, gestire i rapporti, specie con i prepotenti o gli insensibili. Quando, nel 1981, venne in Curia come prefetto della dottrina della fede, condivideva un progetto con Wojtyla: «Uscire dalla crisi della Chiesa, massima fedeltà al Vaticano II, proseguire la recezione del Concilio». Mi disse: «No a una riforma strutturale, ma una riforma spirituale». Ratzinger mi parlò del governo di Wojtyla, che talvolta agiva fuori dai canali istituzionali, e della Segreteria di Stato: «C’è una dialettica di sempre tra la persona e l’istituzione, anche con la Segreteria di Stato, che pur stimava. Wojtyla veniva da fuori. Per Paolo VI e Pio XII era diverso: venivano dalla Segreteria». Anche Benedetto veniva dalla Curia. Ma non si sentiva un curiale e conduceva una vita riservata. Non ha mai avuto un governo extraistituzionale come Wojtyla o, in altro modo, Francesco: si è servito della Curia, ma ne ha sentito il peso. Un papa malato come Wojtyla non si doveva dimettere? «In una visione retrospettiva — disse Benedetto — vediamo che è stata una catechesi del dolore. Era un tipo di governo. Si governa con la sofferenza. Ma non sempre è possibile; si può solo dopo un pontificato così lungo. Dopo tanta vita attiva era giusta una pausa di sofferenza. Anche in un mondo dove si nasconde la sofferenza che, invece, è parte dell’essere umano». . Wojtyla, quando si parlava di dimissioni, rispose: «Gesù non è sceso dalla croce». La scelta di Ratzinger è in tutt’altro senso . Non la spiegano i motivi di salute. Ha pesato molto — a mio avviso — la coscienza di non essere più in grado di guidare la Chiesa, anche perché sottoposto a varie pressioni. Non voleva assolutamente che persone o ambienti gli prendessero la mano in un governo che considerava sua responsabilità personale. Così rimise il ministero ai cardinali e credeva che lo Spirito avrebbe indicato il nuovo papa. Il 4 febbraio 2013, al concerto in Vaticano, prevenne il presidente delle sue. Di fronte a un presidente perplesso e a qualche sua obiezione, sembra abbia concluso: . Nel colloquio con Ratzinger, parlammo pure dell’origine di Wojtyla e del suo messianismo polacco: «Era un patriottismo vero, che da un popolo sofferente sviluppa la speranza». Wojtyla — aggiunse — «parlava di un nuovo Avvento e di un tempo di gioia del cristianesimo». «L’ho visto sofferente, ma non triste», concluse. Benedetto XVI aveva in comune con Wojtyla la convinzione che, se il cristianesimo avesse perduto l’Europa, sarebbe stato un dramma per l’intera Chiesa nel mondo. Non è stato, come Francesco, un Papa che viene da lontano. Tedesco, anzi bavarese, amante di Roma e dell’Italia, di cultura francese, si muoveva a suo agio nei dibattiti politici e intellettuali del continente. Gli raccontai di un colloquio di molti anni prima con Wojtyla. Gli avevo espresso l’idea che il Pci fosse diverso dai partiti «fratelli». Wojtyla mi aveva guardato perplesso e critico. Benedetto sorrise e sorprendentemente disse: «No, aveva ragione lei. Il Pci ha nella sua storia una figura come Gramsci che lo ha reso diverso». E si mise a parlare dettagliatamente di Gramsci. Era un uomo forte, seppure timido, quasi accondiscendente. Mi disse il segretario, don Georg: «Niente di più fermo della decisione dei miti». Non aveva l’audacia di Wojtyla, che convocò le religioni ad Assisi nel 1986: per Ratzinger ci furono «malintesi», ma c’erano anche «intenzioni pure». Credeva però che «le religioni debbono essere strumenti di pace». Infatti, per i venticinque anni della preghiera wojtyliana, tornò ad Assisi per celebrarne l’anniversario. Tale era il suo senso di continuità e di fedeltà alla storia della Chiesa. Ratzinger è stato uomo di fede e un grande intellettuale, un europeo complesso, contraddittorio e sfaccettato, nonostante la sua linearità. Per questo, come si vede dopo la sua morte, nonostante i dieci anni trascorsi nel silenzio, la sua figura interroga e interessa ancora.

Domenico Agasso per “la Stampa” il 2 gennaio 2023.

Cardinale Tarcisio Bertone, Lei fu nominato segretario di Stato vaticano da Papa Benedetto XVI: chi era per lei Joseph Ratzinger?

«Era un amico sincero. Per la sua naturale discrezione e finezza non ci siamo mai dati del tu, ma la confidenza e la lealtà degli amici di fatto ci univa. E ciò, senza tralasciare la realtà che è stato un grande maestro di teologia e di vita, mio Superiore e Sommo Pontefice, per cui aveva il mio massimo rispetto, oltre che l'affetto». 

È vero che è stato un teologo «riformatore»?

«Partecipò al Concilio Vaticano II come assistente del Cardinale Frings. Pur non essendo né un membro, né un perito ufficiale, era però uno dei più attivi consiglieri dei Padri conciliari e veniva interpellato anche al di fuori della cerchia dei tedeschi. Così lo ha ricordato Yves Congar: "Fortunatamente c'era Ratzinger. È ragionevole, modesto, disinteressato, di buon aiuto". Cosa si intende per "riformatore"? Ratzinger considerava la Chiesa "una compagnia sempre riformanda", come ebbe a dire in una lectio magistralis al Meeting di Rimini del 1990». 

Poi lo chiameranno «panzerkardinal», rappresentandolo come un inossidabile conservatore, chiuso verso l'omosessualità, troppo teologo che si è allontanato dalla gente, cinico difensore della dottrina e basta. Che cosa c'era di vero?

«L'unica espressione valida è "difensore della fede", tutto il resto è tristemente falso. L'apertura mentale e umana di Ratzinger lo allontanava da ogni discriminazione e lo rendeva capace di accompagnare ogni persona alla pienezza della propria umanità, secondo il progetto creaturale di Dio. 

Quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, diceva che il suo compito era quello di proteggere la fede dei piccoli, degli umili che non hanno gli strumenti culturali adatti per contrastare le insidie del mondo sempre più scristianizzato, secolarizzato e materialista». 

Come le comunicò di averla scelta come Segretario di Stato?

«Nel suo primo anno di pontificato io ero Arcivescovo di Genova e lui ogni tanto mi invitava a fargli visita in Vaticano per uno scambio di opinioni sulla situazione mondiale e della Chiesa. Erano occasioni preziose per me, e serbavo in cuore con discrezione l'oggetto delle nostre conversazioni. 

Mi disse con semplicità che aveva pensato a me come Segretario di Stato. Aveva già ventilato questa idea, ma quando me lo disse con certezza, al termine del 2005, provai un grande timore. Sarei stato comunque accanto a un grande uomo di Dio, e Dio mi avrebbe aiutato a disporre tutte le mie energie in questo compito. 

Per la prima volta la nomina ebbe un iter diverso dal protocollo vaticano: fu pubblicata nel mese di giugno 2006 ma entrò in vigore qualche tempo dopo, il 15 settembre. Il motivo risiedeva nel fatto che il precedente Segretario di Stato, Cardinale Angelo Sodano, desiderava concludere il suo mandato accompagnando Papa Benedetto XVI nel suo viaggio in Germania, contrassegnato dal famoso discorso all'Università di Ratisbona». 

A Ratisbona, avendo citato un antico brano su Maometto, senza farlo proprio, solleva vibratissime proteste del mondo islamico. Come visse in privato quelle giornate Benedetto?

«Restò molto stupito e addolorato delle reazioni violente che ne sono scaturite, poiché le sue reali intenzioni erano molto lontane dal voler criticare o offendere la religione islamica. Recuperò ben presto la fiducia recandosi in Turchia - quando molti nella Chiesa lo sconsigliavano - e instaurando un proficuo dialogo con i musulmani.

Si ricordi la lettera al Papa firmata da 138 esponenti musulmani, che esprimevano apprezzamento, a cui mi fece rispondere in maniera altrettanto positiva e dialogante. Ricordo anche che al termine del suo viaggio in Libano diversi leader musulmani andarono a salutarlo e a riverirlo». 

È vero che Papa Ratzinger aveva ipotizzato di chiamare il cardinale Bergoglio per un incarico in Curia? Perché non avvenne?

«È vero che nel prospettare l'avvicendamento di alcuni cardinali prossimi alla pensione si era pensato anche di chiamare il cardinale Bergoglio in Vaticano. Ciò era motivo di studio frequente nella Curia. Il cardinale Bergoglio era un ottimo candidato per guidare un importante dicastero, ma ciò non avvenne subito e il tempo ci ha dato una bella lezione: il suo compito sarebbe stato sì in Vaticano, ma come Sommo Pontefice». 

Qual è stato il ruolo di Benedetto XVI nella lotta della Chiesa contro la pedofilia?

«Fin da quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e soprattutto da Pontefice, Ratzinger ebbe il coraggio di scoperchiare un triste fenomeno purtroppo racchiuso da molto tempo nella Chiesa. Pur nel bisogno di pentimento e di preghiera, possiamo essere fieri del coraggio che ha avuto e auspicare che il suo esempio sia seguito in altri settori della società.

Quello che si sa di meno è che Papa Benedetto XVI ha voluto creare una Commissione di esperti per approfondire il problema della pedofilia e studiare il possibile recupero delle persone, anche sacerdoti, affette da questa deviazione».

Come visse Benedetto XVI gli scandali culminati in Vatileaks?

«Il profondo dolore di vedere la Chiesa in subbuglio per contrapposizioni scandalistiche, amplificate dai mass media, lo ha certamente addolorato. Ha messo in atto anche qui una Commissione per dirimere a giungere alla verità. 

Per quanto riguarda il primo fautore e nello stesso tempo vittima di questo intrigo, Paolo Gabriele, suo aiutante di camera, Papa Benedetto XVI ha manifestato la misericordia del suo cuore: il processo e la pena verso di lui erano necessari, ma pensando che poteva essere stata una debolezza, seppur colpevole, si è preoccupato per la sua famiglia e per il suo lavoro e mi ha raccomandato di cercargli un alloggio e un'occupazione fuori dal Vaticano».

La rinuncia al pontificato: come e quando ha saputo della decisione di Ratzinger?

«Nella primavera del 2012 ha iniziato a parlarmene ma io ritenevo che fosse un pensiero passeggero. Con più fermezza abbiamo affrontato l'argomento durante l'estate e ho constatato quanto fosse radicato in lui questo proposito maturato nella preghiera e nella riflessione».

E lei come reagì?

«Il mio animo era turbato e oppresso all'idea della reazione che un tale evento avrebbe suscitato nella Chiesa e non solo. La mia preghiera si è fatta più intensa e le mie notti erano meno tranquille. Provavo a fargli dilazionare l'annuncio il più possibile prendendo come scusa anche la promessa fatta di concludere, in occasione del Natale, il suo libro sull'infanzia di Gesù, così da offrire alla Chiesa l'intera trilogia su Gesù di Nazaret.

Così avvenne e l'annuncio della rinuncia fu prorogato fino all'11 febbraio 2013, festa della Madonna di Lourdes. Il libro aperto fu da me posto nell'artistico presepe allestito all'ingresso del mio appartamento come segno di gratitudine per il dono fatto alla Chiesa».

Estratto dell’articolo di Piergiorgio Odifreddi per “la Stampa” il 2 gennaio 2023. 

[…] Benedetto XVI pensava e sperava di poter rimediare alla secolarizzazione dell'Occidente e alla perdita di fede dell'Europa rivolgendosi agli intellettuali come lui. Il famoso discorso di Ratisbona del 2006 era indirizzato «ai rappresentanti della scienza», e citava per ben 45 volte la parola «ragione». Anche se poi attirò l'attenzione dei media per motivi diversi: in particolare, per un'improvvida citazione contro gli islamici, che costrinse il Papa a chiedere pubblicamente scusa e a fare marcia indietro.

La vera tragedia di Benedetto XVI fu che gli intellettuali europei non lo stettero a sentire. Coloro che lui pensava di attirare con la sofisticazione del proprio pensiero, evidentemente non erano interessati ai suoi discorsi, anche se essi contenevano molti punti e spunti sui quali si poteva discutere. […] Per colmo dell'ironia, gli stessi intellettuali occidentali che snobbarono le aperture di Ratzinger, considerandolo soltanto un conservatore o un reazionario, sono poi caduti come facile preda nella rete della predicazione di Francesco, che in realtà è rivolta a «salvare il salvabile»: cioè, a concentrarsi sui popoli del Sud America e dell'Africa, abbandonando l'Europa al proprio destino.

Evidentemente, Ratzinger aveva sopravvalutato gli intellettuali europei, e in particolare italiani, che hanno dimostrato di essere più sensibili al linguaggio gesuitico di Francesco che al sofisticato pensiero di Benedetto XVI, benché il primo sia rivolto ai popoli del Terzo Mondo, e il secondo fosse rivolto a loro. Lo dimostra anche il fatto che Ratzinger è stato sistematicamente considerato dai media un conservatore, e Francesco un progressista, mentre ci sono ottimi motivi per ridimensionare entrambi i giudizi. 

Basta leggere la famosa Introduzione al Cristianesimo, che Ratzinger scrisse nel 1968, per rendersi conto di quanto essa fosse molto più avanzata di molta della teologia da cassetta che va di moda oggi. Fu quel libro che Karol Wojtyla lesse quand'era cardinale, e di cui si ricordò quando divenne Papa. Ed è grazie a quel libro che Ratzinger iniziò una carriera che lo portò a diventare il braccio destro di Giovanni Paolo II, prima, e il suo successore, poi.

[…] Quello che posso dire, personalmente, è che Ratzinger a me è apparso come un uomo gentile, delicato, raffinato e stimolante. E, soprattutto, genuinamente interessato al dialogo e al dibattito, anche su temi che si potrebbero considerare spinosi per un cristiano, e soprattutto per un cattolico. Nelle nostre conversazioni e lettere abbiamo toccato gli argomenti più disparati: dalla prova ontologica dell'esistenza di Dio alla matematica, dall'aneddotica vaticana alla letteratura tedesca. E spesso non sono mancate le battute spiritose, da parte sua.

Una volta, ad esempio, osservando la magnifica vista ravvicinata della cupola di San Pietro, che incombeva da una finestra del Monastero Mater Ecclesiae, mi venne in mente che nel Settecento i problemi di stabilità avevano costretto l'architetto Vanvitelli a imbragarla con cerchioni di ferro. Per fare una battuta, dissi che se ora la cupola stava in piedi, era per grazia dei matematici. E lui rispose prontamente: «E anche di Qualcun altro». […]

Odifreddi: "La matematica, la religione e i miei incontri con Ratzinger". Storia di Eleonora Barbieri su Il Giornale l’1 gennaio 2023.

«In un certo senso, sì, il nostro era un rapporto singolare: da un lato un Papa, credente, capo di una chiesa e dall’altro io, ateo, non credente... Lui un filosofo e famoso teologo, io un matematico, meno famoso...». Apparentemente, quelle di Piergiorgio Odifreddi, matematico e divulgatore (l’ultimo tentativo di far amare la sua materia sono le sue Pillole matematiche, un saggio che si muove fra numeri, scienza, letteratura e arte, pubblicato da Raffaello Cortina Editore) e di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, sono sempre state «due visioni del mondo contrapposte», eppure (o, forse, proprio per questo) fra questi due mondi è nato un dialogo vero: «Si va oltre e ci si incontra personalmente, non in senso fisico, bensì nel senso che ci sono personalità complementari, che vanno d’accordo». Così d’accordo da diventare autori, insieme, di due libri: Caro papa teologo, caro matematico ateo. Dialogo tra fede e ragione, religione e scienza (Mondadori, 2013) e In cammino alla ricerca della Verità. Lettere e colloqui con Benedetto XVI (uscito per Rizzoli nella primavera scorsa).

Piergiorgio Odifreddi, com’è un incontro fra un matematico ateo e un Papa?

«La prima volta gli ho portato una copia del nostro libro e ci siamo messi a parlare di tutto. Tanto che gli ho chiesto se potessi tornare a trovarlo».

E Benedetto XVI?

«Mi disse: “Teniamoci in contatto. Se ci sarò ancora”. Era il 2013, qualche mese dopo le sue dimissioni. L’anno successivo sembrava rinato, forse perché era lontano dal Vaticano... Per un Papa persino parlare con un ateo è un sollievo».

Gli aveva scritto una lettera partendo da alcuni suoi testi, l’Introduzione al cristianesimo e i libri su Gesù.

«Introduzione al cristianesimo era del ’68 e allora fu considerato molto avanzato e progressista, dal punto di vista teologico. E lo è ancora. Forse, dopo tanti anni, tornare indietro a quel periodo, in cui era un teologo in ascesa, gli ha dato davvero sollievo. Il fatto è che, per pensare a quelle cose che gli interessavano, doveva parlare con un ateo: lo trovo un segno della tragicità del suo Papato».

In che senso era tragico?

«Pensava di risollevare le sorti del cattolicesimo tirando dalla sua parte gli intellettuali europei: era a loro che si rivolgeva nei suoi discorsi, come quello di Ratisbona, in cui citò la parola “ragione” quaranta volte. La tragicità è nel fatto che gli intellettuali europei se ne sono disinteressati; e sono gli stessi che oggi esaltano Papa Francesco, il quale, invece, non guarda a loro, come Ratzinger, bensì al Sud America e all’Africa...»

Come è nato quel «dialogo» del 2013?

«Io avevo scritto Caro papa teologo due anni prima: era un gioco letterario, non credevo lo avrebbe mai letto. Poi lui è andato in pensione, diciamo, così gliene ho fatto avere una copia attraverso il suo segretario, Padre Georg; il quale mi disse: “Guarda che lo sta leggendo e, forse, risponderà”. E mi arrivò una lettera di dodici pagine, fitte fitte. E così è nata la nuova edizione del libro, a doppio nome».

Che gli portò.

«Avevo la curiosità di andare in udienza dal Papa... E poi è scoccata questa scintilla, tanto che sono tornato cinque volte. L’ultima prima del Covid».

Come è stato?

«La prima volta abbiamo parlato per un’ora e mezza, da soli. È stato un incontro talmente fuori dal comune che, subito dopo, ho messo tutto per iscritto, così a memoria, e glielo ho mandato. E poi siamo andati avanti così, a scriverci: anche se io sono più logorroico, lui comunque mi ha risposto diciotto volte. Così ho messo tutto insieme e ho fatto una copia delle nostre corrispondenze, una sola. E lui: c’è un amico - il cardinal Ravasi - che potrebbe fare una prefazione... E così è nato In cammino alla ricerca della Verità. È un titolo scelto da lui, infatti Verità ha la V maiuscola, e mi va benissimo».

Entrambi avete cercato la Verità?

«Due fondamentalisti. Lui ce l’aveva col relativismo, della scienza e del pensiero, e da lì siamo partiti; ma è un abbaglio credere che la scienza sia relativa, perché, per un matematico, la verità è assoluta tanto quanto quella della religione. Sono un fondamentalista anche io, anche se io sto sul piano del due più due, e lui su quello della Resurrezione di Cristo, due cose completamente diverse. Come due binari paralleli, che vanno nella stessa direzione: non ci si incontra, ma si cammina insieme».

Ma di che cosa parlavate?

«Beh, per esempio, un giorno in cui ero nel suo studio, che si affaccia su San Pietro, gli ho raccontato che, un secolo dopo la sua costruzione, la cupola stava crollando a causa di calcoli sbagliati e, così, era stata imbragata. Gli dissi: “La cupola sta in piedi per grazia dei matematici”. E lui: “Anche di qualcun altro”».

Le sue Pillole matematiche... i numeri finiscono anche nella religione?

«Ma certo. Nella scolastica la matematica era usata a fini teologici, per capire le proprietà di Dio, che è infinito, e la matematica parla di infiniti e di limiti... Una volta gli portai un libro, Il museo dei numeri, in cui c’era una citazione di Sant’Agostino: “Togli i numeri alle cose e tutte le cose periranno”. E lui ricordò: “Certo, nella Città di Dio Sant’Agostino usa molto i numeri”».

Vi divertivate.

«Però parlavamo anche della fede e dei miracoli, a proposito dei quali diceva: l’unico importante è la Resurrezione di Cristo. Ma non è mica poco... E parlavamo della morte, di come un ateo pensa alla morte. E poi, quando morì suo fratello e, dopo poco, morì anche mia madre, di come un ateo sente la morte. Questo discorso è tornato spesso nel carteggio: è la cosa fondamentale della vita dell’uomo. Siamo qui a scadenza».

Quei miei incontri con Papa Ratzinger al Monastero, mi disse: «Cerco di parlare soprattutto con il silenzio». Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 2 Gennaio 2023.

I colloqui insieme a Benedetto XVI nei giardini vaticani e tra le mura del «Mater ecclesiae». Sul rapporto tra lui e Francesco: «Non era scontato che funzionasse»

«Pregherò per l’Italia…». La voce era un soffio che si perdeva nei viali deserti dei giardini vaticani. Ma l’interesse e la preoccupazione che si indovinavano nelle parole del Papa emerito, Benedetto XVI, erano evidenti e acuti. Joseph Ratzinger sedeva su una panchina dietro la Grotta di Lourdes, la cappella scavata in una roccia dove ogni tanto andava per recitare il Rosario. Erano le sette del pomeriggio di un fine settimana romano. Il Corriere voleva ringraziarlo personalmente per il messaggio mandato ai lettori il 5 febbraio del 2018, nel quale rispondeva ai tanti che chiedevano come stesse: la sua salute era già materia di polemiche e congetture.

Una piccola papamobile elettrica, bianca, come quelle usate sui campi da golf, aspettava a rispettosa distanza che finisse la sua breve passeggiata e la meditazione tra i prati immacolati e gli alberi nel cuore più profondo e inaccessibile dei Giardini vaticani. La sua figura esile era una macchia bianca tra il verde scuro delle piante. Accompagnato da monsignor Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia e suo segretario personale, appariva smagrito. Ma era lucido, attento. E con una curiosità intatta a novantuno anni. Bastò il libro sull’Italia senza leader che gli regalò Luciano Fontana per confermare la sua attenzione a quanto accadeva nella capitale politica che si intravedeva in basso.

Chiese se il capo dello Stato, Sergio Mattarella, sarebbe riuscito a formare un nuovo governo dopo lo tsunami del voto populista. E quando si sentì rispondere che probabilmente sì, avrebbe risolto la crisi, sebbene non fosse scongiurato il rischio di nuove elezioni, gli occhi ebbero un lampo e ripeté: «Pregherò per l’Italia». Era vestito di bianco, come sempre. Sopra l’abito talare indossava una giacca a vento leggera, senza maniche, candida come i capelli e lo zucchetto. L’unica cosa scura, nella figura minuta e fragile, erano i sandali marroni di cuoio. Le mani mostravano dita affusolate, magrissime: tanto che l’anello pontificale appariva smisurato.

Gli echi del mondo, nel Monastero Mater Ecclesiae distante un centinaio di metri, dove viveva in modo monacale dal maggio del 2013, dopo la rinuncia, arrivavano attutiti. Ma arrivavano: anche se nel tramonto romano i suoi gesti lenti davano l’idea che Benedetto vivesse ormai in una dimensione «altra». Quegli echi non erano sempre piacevoli. I tradizionalisti cattolici gridavano la nostalgia per il suo papato, cercando di contrapporlo a Francesco: inutilmente. «Io cerco di parlare con il silenzio, soprattutto. E confido che questo sia apprezzato».

Nelle sue parole si indovinava la soddisfazione, quasi il felice stupore di chi non sapeva, all’inizio, se la convivenza tra i «due Papi» avrebbe funzionato. «Non era scontato», ammise Benedetto. «È stato quasi un miracolo. Ma io e Papa Francesco ci vogliamo bene. Parliamo tanto quando mi viene a trovare...». Già allora, Jorge Mario Bergoglio veniva accusato dagli avversari di mettere a rischio l’unità della Chiesa. Ma Benedetto aveva lo sguardo fiducioso di chi la conosceva bene. «L’unità della Chiesa è sempre in pericolo, da secoli. Lo è stata per tutta la sua storia. Ma la sua unità è sempre stata più forte delle lotte e delle guerre interne».

Eravamo seduti tutti su una panchina di legno. Don Georg scattò alcune foto con il cellulare: istantanee senza pretese di ufficialità, del tutto informali. A un tratto Gianluca, il gendarme in borghese con l’auricolare che accompagnava Benedetto e guidava la piccola papamobile, colse un cenno di monsignor Gänswein. Il Papa emerito si congedò alzandosi in piedi, sebbene gli dovesse costare fatica. Con il garbo che solo i grandi sanno trasmettere, salutò con una lieve stretta di mano. Fu il primo incontro dei tre che Ratzinger, tramite l’arcivescovo «don Georg», concesse al Corriere.

Anche il secondo avvenne nei giardini vaticani, non ancora al Monastero: come se l’accesso a quella villa di mattoni chiari, con l’orto di prodotti biologici a destra e la cappella privata a sinistra, fosse l’approdo di un rapporto di fiducia da costruire per gradi. Le vignette di Emilio Giannelli sono state un passaporto lieve e sorridente per ottenerla. L’appuntamento numero due con Benedetto nacque proprio dall’idea di consegnargli i disegni del suo vignettista più amato. Era il giugno del 2019. Giannelli aveva portato a Roma da Siena una caricatura e cinque vignette su Benedetto: ne scartò tre temendo che fossero troppo irriverenti.

Ma quelle che portò in dono furono un successo. Una, del 15 marzo 2013, ritraeva Bergoglio e Ratzinger che accennavano un passo di danza in coppia. Benedetto teneva tra i denti una rosa. E la didascalia diceva: «La Chiesa cambia passo». E sotto: «Tango». La seconda, del 17 luglio del 2014, mostrava il papa emerito con la coppa del mondo di calcio in mano, che diceva: «Urbi et orbi», mentre un Bergoglio affranto, ripreso di spalle, si allontanava con la maglia della nazionale argentina sulle spalle. Quell’anno, a differenza del 2022, l’Argentina era stata battuta dalla Germania di Ratzinger nella finale a Rio De Janiero.

Il terzo disegno, una caricatura di Benedetto, lo ritraeva con due grandi orecchie e un enorme naso. «Oh, che naso!» aveva esclamato il papa emerito, ridendo di gusto. L’aspetto più intrigante, però, era stato il dialogo tra i due. Giannelli gli raccontò dell’amata Siena, e della devozione di suo fratello, scomparso da poco: una dimestichezza con la fede che, ammise, non gli apparteneva. Benedetto, guardandolo fisso, gli disse solo quattro parole, fulminanti: «Ha tempo per rimediare». Il terzo incontro fu fissato finalmente al Monastero: due anni dopo, all’inizio del 2021, insieme con Luciano Fontana.

Una delle Memores, le quattro «donne consacrate» di Cl che hanno vissuto con lui al Monastero, ci introdusse nel salottino al pianterreno, prima che comparisse il prefetto della Casa pontificia e ci portasse al primo piano con un piccolo ascensore. Fontana porse a Benedetto una cartellina rossa con dentro due nuove caricature di Giannelli: una consuetudine, ormai. «Giannelli è una persona spiritosa», chiosò con aplomb papale e bavarese. Ormai aveva difficoltà ad articolare le parole. Bisognava parlargli da vicino, perché portava due auricolari per sentire meglio.

Ma era rapido di mente, eccome. Sapeva cosa voleva e non voleva dire. «Non ci sono due Papi. Il Papa è uno solo…», disse battendo debolmente il palmo della mano sul bracciolo. Joseph Ratzinger lo affermò con un filo di voce, seduto su una delle due poltrone di pelle chiara che arredavano il salone al primo piano del suo eremo. Sul comodino erano appoggiati gli occhiali da lettura, accanto a una statuetta di legno che raffigurava una Madonna con Bambino.

Incontrare Benedetto era un’occasione rara già in quei mesi. E ancora più inusuale era il fatto che accettasse di affrontare l’argomento più traumatico per la vita della Chiesa negli ultimi secoli: la rinuncia. Dopo otto anni, disorientamento e maldicenze ristagnavano, avvelenando il clima vaticano. Benedetto sembrava volerli esorcizzare. Chiedemmo se avesse ripensato spesso a quel giorno. Annuì. «È stata una decisione difficile. Ma credo di avere fatto bene. Alcuni miei amici un po’ “fanatici” sono arrabbiati, non hanno voluto accettare la mia scelta. Ma la mia coscienza è a posto».

Le frasi uscivano col contagocce. E monsignor Gaenswein in alcuni rari passaggi «traduceva». Ratzinger portava un orologio al polso sinistro, e al destro un bracciale pronto a suonare se avesse avuto problemi fisici. La stanza era calda, sobria, col pavimento di marmo. A fianco della libreria erano appese icone e immagini sacre. Il Papa emerito accennò a Mario Draghi. «Speriamo che riesca a risolvere la crisi», diceva. «È un uomo molto stimato anche in Germania». Parlò di Biden, del vaccino anti-Covid che aveva appena fatto con «don Georg». E l’ora di conversazione volò via.

Fuori cominciava a fare buio. Benedetto consegnò come ricordo una medaglia e un segnalibro: entrambe di quando era Papa. E di nuovo affiorò il paradosso di una Chiesa immersa senza volerlo nell’intreccio di due identità. Rimanendo stavolta seduto, Ratzinger ringraziò indicando le vignette sul tavolino. In una, a colori, consegnava a un Francesco corrucciato le chiavi della Chiesa, aggiungendo: «Mi raccomando…». Un’auto guidata da una guardia svizzera in borghese con l’auricolare ci riportò in tre minuti all’entrata di Porta Sant’Anna: in un altro mondo.

E durante il tragitto, fu inevitabile chiedersi se quando Ratzinger ribadiva che «il Papa è uno», si rivolgesse ai «fanatici» suoi amici; magari ai seguaci di Francesco, spaventati dal papa-emerito. Ma anche se forse, con la sua voce interiore, Benedetto non sussurrasse inconsciamente a sé stesso che poteva esistere un solo pontefice. Da allora, il Monastero è diventato, se possibile, più silenzioso. Solo nell’aprile del 2022, quando Ratzinger stava per compiere 95 anni, arrivò la richiesta di un video di auguri da trasmettere via email. Un minuto e mezzo scarso, illustrato, guarda caso, da due vignette di Giannelli. Gli originali furono recapitati al Monastero a fine luglio.

I tre papi. Il profilo politico di Ratzinger, schiacciato da quelli di Wojtyla e Bergoglio. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 3 Gennaio 2023

A differenza di Giovanni Paolo II e di Francesco, Benedetto XVI ha alienato la Chiesa dalla comprensione dei più foschi segni dei tempi (come dimostra il puntinismo e il trumpismo dei politici ratzingeriani)

In queste ore, nella commozione per la sua morte, e nella devozione un po’ conformistica che la stampa è solita tributare a un grande che se ne va, il florilegio dei commiati al papa emerito Benedetto XVI converge su una serie di caratteristiche particolari e oggettivamente eminenti di Joseph Ratzinger, che portarono un teologo puro ad assurgere al soglio di Pietro e un intellettuale conciliare non pentito a diventare custode e difensore del tradizionalismo dottrinario e, nel contempo, a stupire il mondo con lo scandalo della grande rinuncia e con un atto definitivo di secolarizzazione dell’istituzione papale.

Da questi ricordi, esce un profilo più complesso e sfaccettato di quello caro ai suoi più devoti sostenitori e più acerrimi nemici, in particolare sui temi dell’esperienza e dell’organizzazione ecclesiale e del rapporto tra verità dottrinarie e impegno pastorale. Alla Chiesa che ha governato per otto anni e a cui ha tentato inutilmente di dare la sua impronta, Benedetto evidentemente non pensava come a una caserma e a dimostrarlo basterebbe il rovescio dell’ideale della collegialità in quel correntismo clericale, che scatenò l’inferno di Vatileaks e che di fatto lo costrinse alle dimissioni.

Molta meno attenzione nei ricordi di Benedetto XVI si è però riservata al suo profilo pubblico e politico e al segno – per dirla in modo molto semplicistico – che egli ha cercato di imporre ai rapporti tra la storia della Chiesa e quella del mondo.

Su questo piano – anzi mi permetto di dire: essenzialmente su questo piano – la figura di Benedetto XVI risulta schiacciata e (sia detto con laico rispetto) perdente di fronte a quelle di Giovanni Paolo II e di Francesco, due papi non solo più carismatici e “barbarici” di lui, ma soprattutto due vescovi non italiani di passaporto e non romani di esperienza ecclesiale e quindi, anche per questo, più capaci di leggere i segni profetici dei tempi e di pensare e vivere la Chiesa fuori dalle colonne d’Ercole del potere vaticano.

Quando nel 1978 diventa Papa, Karol Wojtyla non prosegue, ma sovverte il canone fondamentale della Ostpolitik della Santa Sede, fondato sulla dolorosa necessità di convivenza e di compromesso con le leadership comuniste del blocco sovietico e decide che il ruolo della Chiesa non poteva limitarsi alla denuncia degli orrori e degli errori del comunismo sul piano religioso, ma doveva cercare il ribaltamento del potere comunista nell’Europa prigioniera di Mosca. La riuscita di questo piano di certo non è solo legata al cambiamento di rotta dalla Chiesa, ma avviene sulla spinta di un pontificato che aveva subordinato la diplomazia vaticana alla politica ecclesiastica e alla politica cattolica tout court.

Quando Ratzinger succede a Wojtyla, di cui non aveva condiviso gli esiti potenzialmente sincretistici del dialogo interreligioso, la sua Chiesa si impegna essenzialmente in una missione di denuncia dei pericoli del relativismo, sia per la salvezza della Chiesa che per quella del mondo. In questi termini e con questo programma di fatto annuncia la sua candidatura a succedere a Wojtyla nell’omelia che pronuncia da decano del collegio cardinalizio durante la Missa pro eligendo Romano Pontifice il 18 aprile 2005, il giorno prima di essere eletto Papa.

In questa denuncia, il comunismo sta esattamente sullo stesso piano del liberalismo e l’ateismo politico su quello dell’agnosticismo filosofico. Volti diversi dello stesso male. Tutto questo non solo portò a identificare «valori politicamente non negoziabili» in larga misura coincidenti con quelli della morale sessuale e familiare della Chiesa e a far coincidere, nella pubblicistica più corriva, l’antropologia cristiana con la bioetica proibizionistica, ma soprattutto alienò anche la Chiesa dalla comprensione dei più foschi segni dei tempi, che già si addensavano nel cielo del mondo libero e che di lì a qualche anno avrebbero portato, giusto per fare un esempio concreto, auto-dichiarati politici ratzingeriani a identificare in Vladimir Putin e in Donald Trump, in Viktor Orban e in Jair Bolsonaro dei veri e propri defensores fidei.

Non era ovviamente questo il proposito di Ratzinger, ma questo è stato il ratzingerismo reale, per cui ancora pochi anni fa il cardinale Camillo Ruini, flirtando con il sovranismo più volgare, invitò pubblicamente la Chiesa di Bergoglio a dialogare con Matteo Salvini e a interpretare il suo rosario talismano come una reazione contro il politicamente corretto.

Sarebbe bello pensare che il passaggio di consegne tra Ratzinger e Bergoglio sia avvenuto come nel film d’invenzione “I due Papi” di Fernando Meirelles, che racconta del loro rapporto, del legame tra due personalità diverse e alternative e della decisione di Ratzinger di guidare nella sostanza l’auto-ribaltamento della Chiesa e la sua consegna a un pontefice che più lontano da lui non si sarebbe potuto pensare. In ogni caso, che ci sia o meno lo zampino di Benedetto XVI, quel che è vero è che Papa Francesco torna a fare della Chiesa, come fece Wojtyla, anche se con un programma del tutto diverso, un centro di ambizioni politicamente universali.

La sua Chiesa “ospedale da campo dell’umanità”, con le sue istanze elementari di riconoscimento e rispetto della sofferenza umana, come segno di concreta partecipazione al mistero della Croce, non è dottrinariamente così lontana da quella di Ratzinger. Ad essere totalmente diversa è la sua proiezione e l’agenda delle priorità politiche.

È abbastanza grottesco contrapporre un Ratzinger rigido e cattivo a un Bergoglio tenero e buono, quando tutto dimostra che è il secondo ad avere avuto più esperienza e mestiere con le durezze del potere vaticano e sempre il secondo ad essere inciampato in uscite di imbarazzante insensibilità (memorabile è il «se uno mi offende la madre gli do un pugno», all’indomani del massacro di Charlie Hebdo).

È invece realistico contrapporre l’immagine di un Benedetto XVI perso nei labirinti della curia romana a battagliare contro i fantasmi del relativismo, e quella di un Francesco in presa diretta con le urgenze della sua Chiesa derelitta e terzomondiale e consapevole di dovere sfuggire l’abbraccio mortale del nazionalismo religioso di fronte agli sconvolgimenti demografici globali e alla oggettiva trasformazione dell’identità cattolica, da collante del potere del Nord del mondo, a interprete delle angosce e delle speranze di un Sud non più terra di missione, ma serbatoio di fedeli e vocazioni.

Le dimissioni contro divisioni e arrivismi: la mossa storica di Benedetto XVI. GIANFRANCO BRUNELLI su Il Quotidiano del Sud il 02 Gennaio 2023 

Il tema centrale che ha caratterizzato la lunga esistenza di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, da teologo, da vescovo, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, da papa, da emerito, è il primato della fede. Il primato della fede come dato esistenziale, ecclesiale, culturale. Nella fede in Gesù di Nazareth nasce la Chiesa. In quella fede s’addipana l’esistenza. In quella stessa dimensione di fede si conservava e si sviluppava per Ratzinger la cultura occidentale.

La crisi profonda del cristianesimo in occidente aveva posto in evidenza fin dagli anni ’70 del Novecento la grande dissonanza tra fede e storia. In questo la sua riflessione, ma vorrei dire la sua stessa figura di papa fino alle sue dimissioni è stata segnata dal dramma della modernità. «Allargare gli spazi della razionalità»: questa la formula adottata da Benedetto nell’impostare il dialogo tra fede e ragione, questa la formula tentata per andare oltre una dimensione puramente conservatrice della fede. Un dialogo che tuttavia è restato all’interno della dimensione dottrinale per la fede e non ha modificato l’autocomprensione della ragione.

Due riflessioni svolte da Ratzinger nel 2005, l’anno della morte di Giovanni Paolo II e della sua elezione a papa, avevano lascito chiaramente intendere quale sarebbe stato il compito che egli avvertiva per la Chiesa: la via spirituale, non istituzionale, alla riforma della Chiesa e il dialogo tra fede e cultura come risposta al tramonto dell’Occidente. E su quel mandato egli fu eletto papa in uno dei conclavi più rapidi della storia.

Nella conduzione della Via crucis del venerdì santo del 2005 al Colosseo, la prima che Giovanni Paolo II, oramai alla vigilia della morte, non poté guidare, il card. Ratzinger evocava una Chiesa moralmente colpevole. Le sue parole furono come un grido. La caduta della Chiesa trascina a terra Cristo. «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che nel sacerdozio dovrebbero appartenere completamente a lui. Quanta superbia! Quanta autosufficienza!».

Il 18 aprile 2005, nell’omelia prima di entrare in conclave, Ratzinger stigmatizzava gli «ismi» del mondo contemporaneo e fra tutti quella «dittatura del relativismo», nuovo totalitarismo, che sembra pervadere ogni cosa. Al centro della sua personale e magisteriale riflessione vi è stata costantemente la questione della pretesa autosufficienza della modernità, espressa da quella formula: «dittatura del relativismo». Benedetto ha cercato di attraversare il dramma della modernità, caratterizzata da una forma di nuovo nichilismo che è da un lato il derivato di una ipertrofia dell’io, di una dimensione “dongiovannea” della vita, e dall’altro, la conseguenza della separazione della dimensione della libertà dell’uomo dalla sua natura trascendente. Solo la fede può aprire a un’autentica umanizzazione. Nella separazione tra le due dimensioni, per Ratzinger veniva meno ogni fondamento della dignità della persona umana. Questa impostazione è stata seguita in ogni intervento che egli ha fatto nelle principali capitali europee , divenute capitali laiche. Immaginando proprio l’Europa il centro di questa sfida.

Il progetto di rinnovamento della Chiesa attraverso la riforma spirituale, Benedetto XVI lo ha perseguito nella trilogia di encicliche dedicate alla fede, alla speranza e alla carità. Del progetto egli realizzerà direttamente soltanto i primi due passaggi: carità e speranza. La trilogia fu interrotta dalla crisi mondiale del 2008, che richiedeva una risposta sul piano morale, attraverso una nuova enciclica. Le sue dimissioni renderanno poi il progetto incompiuto. L’ultima enciclica, quella sulla fede, verrà firmata a due mani e pubblicata dal suo successore, papa Francesco, nel 2013.

In questo progetto vanno compresi i volumi di cristologia: i due volumi su Gesù di Nazaret (2007, 2011) e quello sull’infanzia di Gesù (2012). Tutti e tre a doppia firma: Joseph Ratzinger e Benedetto XVI. Più complesso il giudizio sul governo della Chiesa, nel quale non sono mancate incomprensioni e incidenti di percorso, anche a motivo della gestione della curia. Del rapporto tra Concilio Vaticano II, di cui egli era stato tra i teologi protagonisti, e la tradizione precedente della Chiesa, Benedetto scelse di dare un’interpretazione nel segno della continuità piana, non del rinnovamento profondo. Il tentativo di riammissione dei lefebvriani, la concessione della doppia liturgia furono il contesto nel quale si consumò il caso più doloroso. Il perdono di Benedetto XVI (2009), che toglieva ai vescovi la scomunica inflitta loro da Giovanni Paolo II nel 1988, riguardò anche il britannico Richard Williamson, un convinto negazionisti della Shoah. In Vaticano nessuno sembrava essersi accorto del suo antisemitismo. Deciso e decisivo invece fu il suo intervento sul tema della pedofilia.

Senza la ferma volontà di Benedetto, la grave crisi che si era prodotta nella Chiesa e che ancora prosegue a livello mondiale non sarebbe stata affrontata così drasticamente. Lo schema della tolleranza e del silenzio non sarebbe stato definitivamente interrotto. E per la prima volta l’istituzione si schierava con le vittime. Il gesto magisteriale più carico di conseguenze istituzionali ed ecclesiali rimangono le sue dimissioni nel 2013.

Quelle dimissioni presero corpo di fronte alla profonda e perdurante crisi di autorità prodottasi nella Chiesa, allo scandalo Vatileaks e al venir meno delle forze del papa. Con quelle dimissioni Benedetto XVI riconosceva la necessità di una riforma profonda della Chiesa accanto e oltre il suo tentativo spirituale e di non poter essere lui a condurla.

Egli ha gridato contro il peccato di divisione interno alla Chiesa, contro l’uso distorto del potere da parte di uomini di Chiesa, contro strumentalizzazioni, arrivismi e carrierismi, ha stigmatizzato la crisi della modernità. E nella mite fermezza della sua fede ha avuto il coraggio, con le dimissioni, di rendere possibile l’apertura di un nuovo corso. Quel gesto consente oggi a papa Francesco di provare a rispondere in maniera innovativa, alla crisi del cristianesimo e della Chiesa. Le grandi riforme attese sono state lasciate in eredità a papa Francesco che da dieci anni regge la Chiesa: dalla riforma della curia, a una gestione più sinodale del ministero petrino, dal ruolo della donna nella Chiesa, alla questione del celibato, alla gestione del denaro.

Dopo otto anni di pontificato, per dieci anni Benedetto ha accompagnato con la preghiera e nel silenzio il tentativo del suo successore. Un tentativo non ancora compiuto.

Monsignor Fisichella: "Ratzinger un riformatore capace di parlare a tutti". Orazio La Rocca su La Repubblica il 2 Gennaio 2023.

Monsignor Rino Fisichella 

Il Rettore emerito della Pontificia Università Lateranense: "Il grande lascito di Benedetto XVI è di aver promosso il rapporto tra Fede e Ragione"

"Il grande lascito di Benedetto XVI è l'aver promosso nella cultura contemporanea il rapporto tra Fede e Ragione, spiegando e sostenendo, da teologo, docente e pastore universale, che tra questi due valori non c'è contrapposizione, ma che ci può essere dialogo, continuità, ricchezza umana e spirituale a tutto vantaggio del bene comune".

Quando Ratzinger diceva: “Il sesso nel matrimonio non sia pura materialità”. Manfred Schell su La Repubblica l’1 Gennaio 2023.

Pubblichiamo uno stralcio esclusivo e inedito in Italia di un’intervista all’allora cardinale Joseph Ratzinger del 1988 che comparirà nel nuovo volume dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI in via di pubblicazione in primavera per i tipi di Libreria Editrice Vaticana

Signor Cardinale Ratzinger, il papa rifiuta la contraccezione. Ma nei fatti molte donne cattoliche si comportano il modo diverso. Il Vaticano si pone la domanda sei i suoi criteri di giudizio riguardo alla morale sessuale siano ancora giusti, ancora attuali?

«Naturalmente dobbiamo sempre chiederci se le nostre posizioni siano motivate. Se la risposta è affermativa, dobbiamo riflettere su come rendere la nostra posizione più convincente.

Il confronto con Paolo Flores d’Arcais: “Lo invitai da ateo a un dibattito parlò di aborto, fede e ragione”. Ilaria Zaffino su La Repubblica l’1 Gennaio 2023.

"Su Micromega pubblicai i suoi articoli. Fu un successo strepitoso"

«Sul piano personale non era la persona rigida, arcigna che invece era su quello dottrinale. Il nostro dibattito è stato civilissimo, ma anche aspro, per nulla diplomatico nei contenuti. C’era una simpatia reciproca nella consapevolezza che non avremmo edulcorato i toni delle nostre posizioni inconciliabili di fondo». Quello con Paolo Flores d’Arcais è stato l’unico dibattito pubblico avuto da Joseph Ratzinger con un filosofo ateo, ora rimesso

Estratto dell’articolo di Claudio Tito per “la Repubblica” il 2 gennaio 2023.

Una resa dei conti. Tra "bergogliani" e "non bergogliani". Per stabilire definitivamente i rapporti di forza dentro la Chiesa. Ma anche per preparare l'eventuale futuro Conclave. La morte del Papa emerito Benedetto XVI non è solo una questione liturgica. Si sta trasformando in un confronto politico. Al centro del quale si trovano il Pontefice regnante e soprattutto i suoi sostenitori. Negli ultimi anni, del resto, che più di un dissapore interno avesse accompagnato il pontificato di Francesco è stato abbastanza chiaro. La presenza silenziosa e mai contrapposta di Ratzinger al suo successore è stata una sorta di ombrello protettivo rispetto ad una potenziale escalation. Ora, però, lo scudo di Benedetto XVI non c'è più.

E nei corridoi ovattati della Santa Sede subito qualcosa si è mosso. […] i funerali di Ratzinger si terranno il 5 gennaio, ma non sono previsti inviti ufficiali agli Stati accreditati presso il Sacro Soglio. […] è stato vissuto dai "critici" del Papa come un segnale chiaro. I "bergogliani" […] stanno lavorando per una organizzazione delle esequie da cui si evinca con chiarezza che il Papa regnante era solo uno. Un ridimensionamento, insomma, del ruolo di Ratzinger da trasmettere dentro e fuori la Curia. […] le campane delle Chiese romane non hanno risuonato alla notizia del decesso del Papa emerito.

[…] Secondo i "non bergogliani", l'obiettivo era quello di limitarne la solennità e la capacità di aggregazione. Alla fine si è arrivati alla data del 5 gennaio per le proteste di molti cardinali e vescovi che avrebbero avuto una impossibilità oggettiva a raggiungere Roma dai cinque continenti. Molti puntano il dito sull'attivismo del mondo gesuita. E prendono ad esempio la rivista statunitense dell'Ordine, "America", che sul suo sito ha descritto Ratzinger in chiaroscuro con un articolo dal titolo: "Il difensore dell'ortodossia definito dalle storiche dimissioni".

Molti ci vedono la zampino di padre Arturo Sosa, venezuelano, preposito generale della Compagnia di Gesù. E sempre i "non bergogliani" vedono nelle scelte compiute dentro la Curia, nelle diocesi e nei Movimenti, come un tentativo di esercitare un controllo ferreo. […] i "bergogliani" che giustificano ogni indicazione come la necessità di "ripulire" la Chiesa dalle incrostazioni negative del passato. […] sullo sfondo c'è la grande partita del prossimo Conclave […] La lettera di dimissioni con la data in bianco di cui ha parlato di recente il Papa è stata una sorta di fischio di avvio.

[…] lo stesso Pontefice ha dato l'impressione di muoversi con il proposito di modificare la geografia del Conclave che dovrà eleggere il suo successore. […] è stato sforato il tetto, imposto da Paolo VI, dei 120 cardinali elettori. Ora sono 132. E […] Dei 132, ben 83 sono stati nominati dal Pontefice in carica, 38 da Benedetto XVI e 11 da Giovanni Paolo II. E c'è già chi scommette che i "bergogliani" punteranno su un italiano per allagare le alleanze. E per frenare una tentazione: volgere verso l'Asia lo sguardo della selezione. […]

"L'ultimo conservatore" e l'ossessione progressista per un pensiero mai così in salute. ​Il Signore "mi ha tolto la parola per farmi apprezzare il silenzio" diceva nella sua umanissima profondità di pensiero papa Ratzinger, incontrando i visitatori durante quella che diceva l'ultima tappa del suo pellegrinaggio. Giannino della Frattina su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Il Signore «mi ha tolto la parola per farmi apprezzare il silenzio» diceva nella sua umanissima profondità di pensiero papa Ratzinger, incontrando i visitatori durante quella che diceva l'ultima tappa del suo pellegrinaggio. E mai il suo silenzio è stata una lezione più cristallina, in queste ore in cui si è spenta solo la sua voce mortale. Facendo riecheggiare così forte la teoresi teologica del Papa filosofo che per tutta la vita ha pensato l'incontro amoroso tra fede e ragione. Non a caso nell'Angelus di Natale del 2010 aveva predicato che «la conoscenza del vero non è geometria, è amore», quell'amore che invera il corruttibile grazie all'incorruttibile. E proprio per questo, nel diluvio di titoli seguiti alla sua scomparsa e a completare una pregevole costruzione grafica con il suo profilo che sembra una preziosa moneta, a colpire (negativamente) è quello in prima pagina di Repubblica che lo tumula come «L'ultimo conservatore». Al che viene da chiedersi se si tratti di condanna non solo postuma di un quotidiano che ha sempre fatto del progressismo la bandiera di casa o un auspicio. La speranza che il magistero conservatore di Ratzinger venga sepolto insieme a lui nelle Grotte vaticane, in quella tomba che non caso fu di Giovanni Paolo II. Perché se c'è un tempo terreno nel quale il conservatorismo sembra godere di ottima salute ed essere ben lungi dall'avere bisogno di una sepoltura è proprio quello che stiamo vivendo. E non solo in Italia, dove la larghissima vittoria elettorale e il crescente consenso popolare di un centrodestra a trazione Giorgia Meloni ha riportato in auge pensieri e pensatori del conservatorismo più classico. Quelli del resto cari a quel Marcello Pera e Rocco Buttiglione che Silvio Berlusconi volle al suo fianco. Un filone di pensiero che non ha mai smesso di innervare la cultura e perfino la politica del nostro Paese e il cui vento spira in molte terre di quell'Europa alla quale il cardinale Ratzinger dopo 25 anni da custode della Congregazione per la dottrina della fede, volle rendere omaggio scegliendo il nome di Benedetto XVI. Perché dopo essere stato uno dei grandi teologi del Concilio, volle far capire che non doveva essere la modernità a salvare la fede, ma la fede a salvare la modernità. È forse questo che ha induce la cultura sedicente progressista che lo ha sempre trattato con un certo disprezzo da «Pastore tedesco», ad auspicare che con lui tramonti la tradizione che avrebbe voluto l'inserimento delle radici cristiane nella Costituzione europea o un ascolto attento del Discorso di Ratisbona che metteva in guardia contro l'armarsi, militare e teologico, dell'Islam. E invece sembra che non sarà così. Che una cultura che come Ratzinger legge Hans Urs von Balthasar, oltre ad aver vinto le elezioni possa dare una spina dorsale alla cultura e alla politica. Si dirà che il conservatorismo non è il populismo ne quale rischia di scivolare certa destra. Si vedrà. E anche a evitare questo, servirà quella lectio magistralis che è stata la vita di Benedetto XVI. Che Dio l'abbia in gloria.

"Il mio amico Joseph ormai voleva morire. Bergoglio lascerà? Niente è già fissato". Il cardinale e il legame con Ratzinger durato 60 anni: "La vita per lui era finita" Serena Sartini su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Un'amicizia durata sessant'anni; due teologi, entrambi tedeschi. «Le dimissioni di Ratzinger segnano un nuovo passo nella storia del Papato». La santità? «Aspettiamo, non sono fautore del santo subito». «Alla fine dei suoi giorni era debole, era stanco...voleva morire». Parla al Giornale il cardinale Walter Kasper, 89 anni, dal 2001 al 2010 presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani. L'uomo che, con Benedetto XVI ha tessuto le fila del dialogo con le altre confessioni religiose. È stato tra i primi cardinali a recarsi nella Basilica di San Pietro per rendere omaggio alla salma del Pontefice emerito, suo connazionale e suo amico.

Eminenza, che rapporto c'era con Joseph Ratzinger?

«Ci siamo incontrati la prima volta 60 anni fa, prima come professori di teologia, poi come vescovi in Germania (Kasper è stato vescovo di Stoccarda dal 1989 al 1999, Ratzinger arcivescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982, ndr), infine qui a Roma. Abbiamo collaborato insieme, abbiamo anche avuto qualche discussione e accesi dibattiti, come avviene spesso tra teologi, ma c'è stato sempre un rapporto di fiducia e amicizia. Quella non è mai venuta meno, anche con visioni alcune volte diverse. È un grande Papa, oggi possiamo essere fieri di averlo avuto al Soglio di Pietro».

Che eredità lascia Benedetto XVI?

«Penso che abbia lasciato tracce nella storia della Chiesa, per i suoi scritti teologici e spirituali, e soprattutto per la sua decisione coraggiosa di rinunciare al ministero petrino. Il suo gesto ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un nuovo passo nella storia del papato, è segno di una grande libertà interiore. È il segno di poter determinare la rinuncia quando ci si accorge che non si hanno più le forze per rispondere a questa missione».

Un gesto, quello della rinuncia, che potrebbe essere ripetuto anche Papa Francesco?

«Si sì, ma non è niente di fissato. È però un segno di libertà, e il gesto di Benedetto XVI ha aperto una nuova strada. Adesso spero di incontrare nuovamente il mio amico Ratzinger in Cielo. Preghiamo per lui».

Con la morte di Ratzinger se ne va l'ultimo testimone del Concilio Vaticano II.

«Sì, è stato uno degli ultimi testimone vivente del Concilio, è stato molto attivo, ha avuto un grande influsso sui documenti fondamentali del Concilio Vaticano II». Lo avremo presto santo? «Non sono troppo favorevole al santo subito. Credo che serva sempre un po' di tempo, il tempo ci insegna molte cose. Poi, vedremo... se sarà possibile».

Eminenza quando aveva incontrato il Papa emerito l'ultima volta?

«Mi ha scritto una lettera datata il 10 dicembre, venti giorni prima della sua morte. Una lettera scritta al computer ma firmata di suo pugno, in cui mi diceva che era molto contento del mio ultimo libro. Un gesto di apprezzamento per il mio lavoro. Alla fine della sua vita, il Papa emerito era molto debole, non parlava più. Voleva morire... Ma è normale a quell'età, la vita era finita per lui. È morto nella sua casa».

Eminenza si aspettava tutta questa folla a San Pietro per rendergli omaggio?

«No, a dire la verità non me l'aspettavo, è un buon segno. C'è molta più gente di quanto si potesse pensare. E non solamente fedeli che lo hanno apprezzato durante il Pontificato».

C'è un incontro speciale con Benedetto XVI che vuole ricordare?

«Ho moltissimi ricordi, ma soprattutto ricordo con commozione il momento in cui Joseph Ratzinger è stato eletto Papa, all'interno della Cappella Sistina, al Conclave. Appena sono andato da lui, gli ho domandato come dovessi rivolgermi a lui d'ora in avanti, se potevo continuare a dargli del tu. E lui mi ha risposto: Certamente, continua pure a darmi del tu. Era un uomo semplice, alla mano, umile, silenzioso, molto gentile, ha portato tanto alla teologia e alla spiritualità».

"La sinistra del potere non capiva Ratzinger". L'ex presidente della Camera Bertinotti: "Papa che ha innalzato la fragilità umana". Francesco Boezi su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

L'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti (nella foto), storico leader di Rifondazione comunista, sulle incomprensioni tra certa sinistra e il primo pontefice emerito della storia.

Ratzinger è stato il Papa conservatore per antonomasia..

«Non condivido la definizione. Credo sia stato un pontefice intellettuale e come tutti i pontefici intellettuali risulta poco classificabile. Chiamare Papa conservatore chi si dimette da pontefice mi pare una contraddizione. Penso a Paolo VI: i pontefici intellettuali hanno una caratura che va interpretata come tale. La figura di Ratzinger è di chi si interroga in modo drammatico sul destino della sua Chiesa. Un pontefice che deve fare i conti con i tormenti della modernità, che è dissolutrice di sacro. Per forza un uomo controverso, più dell'interrogazione che della risposta».

Però gli intellettuali di sinistra non sono stati proprio morbidi con Benedetto XVI.

«Non tutti. La sinistra è un termine molto ampio. L'ultimo Papa che ha messo d'accordo la sinistra è stato Giovanni XXIII. Dopo di lui, tutti sono stati sottoposti ad articolazioni di giudizio, a partire da Giovanni Paolo II».

Il grande avversario di Benedetto XVI è stato il relativismo.

«Faccio notare che nell'uso dell' ismo c'è già un connotato negativo. In ogni caso, in questo siamo fratelli separati con le culture del cattolicesimo. Entrambe, su versanti diversi, pensiamo che il mondo contemporaneo vada vissuto con pensieri forti e grandi capacità interpretative. C'è un elemento messianico nella tradizione comunista che porta al dialogo con l'elemento messianico del cristianesimo. Com'è ovvio, sono due pensieri molto diversi, che però hanno un'avversione irriducibile al relativismo».

Il valore di Ratzinger nella storia contemporanea.

«Devo tornare all'atto delle dimissioni. Ma non solo per l'atto in sé, del rifiuto del potere. L'altro fattore essenziale è l'innalzamento della fragilità dell'uomo e della persona contro qualunque attitudine all'autorità e alla supplenza che il potere e l'autorità possono esercitare sulla qualità della testimonianza. Ratzinger ha compiuto un atto rivoluzionario che parla a tutta l'umanità: liberatevi dalla suggestione del potere. Mi piacerebbe che la sinistra lo interpretasse».

Perché certa sinistra ha osteggiato Benedetto XVI?

«La sordità nei confronti di Ratzinger non è stata della sinistra ma di quella politica e di quella intellettualità che a sinistra ha sostituito la categoria della rivoluzione con quella del potere. C'è una sinistra che ha sostituito Palazzo d'Inverno con Palazzo Chigi. E ha fatto di Palazzo Chigi l'Alfa e l'Omega della politica. Di fronte a un pensatore critico della modernità, c'erano due strade: indifferenza o fraintendimento».

Un Pontefice scomodo. Esprimere un giudizio su un Papa è sempre difficile. Governare un'istituzione millenaria e globale come la Chiesa ti espone a mille valutazioni e a mille contraddizioni. Augusto Minzolini su Il Giornale il 2 Gennaio 2023

Esprimere un giudizio su un Papa è sempre difficile. Governare un'istituzione millenaria e globale come la Chiesa ti espone a mille valutazioni e a mille contraddizioni. Figurarsi poi su una personalità complessa come quella di Benedetto XVI, un Pontefice «conservatore» ma nello stesso tempo «rivoluzionario» nell'epoca del «politically correct» e della «cancel culture». Il custode della dottrina, di una professione della fede orgogliosa, non «tiepida» ma decisa non può non cozzare, infatti, contro l'ipocrisia e il compromesso che caratterizzano i tempi che viviamo. Lo dimostra quella scelta di dimettersi dal soglio di Pietro senza il timore che fosse equivocata (qualcuno addirittura la paragonò alla fuga dalle proprie responsabilità di Celestino V), solo per garantire alla Chiesa un magistero più energico in un momento difficile. Non un gesto dettato dalla paura, quindi, ma al contrario dal coraggio.

Un Pontefice capace di navigare «controcorrente». Costi quello che costi. Fedele al «non abbiate paura» di Papa Wojtyla di cui fu il degno successore e continuatore. Un conservatore al passo con la Storia. Che sceglie il nome di Benedetto, cioè del patrono dell'Europa, proprio per rivendicare le «radici cristiane» dell'Unione dei Paesi del vecchio continente, un elemento identitario che, sembrerà strano, ancora oggi continua a far discutere ed è elemento di discordia nel Parlamento di Strasburgo. Oppure che ha l'ardire nell'epoca della retorica «buonista» senza limiti e confini di teorizzare «il diritto a non emigrare».

Un osare che Ratzinger ha pagato al punto di essere messo all'indice da una certa cultura di sinistra che scambia la religione per un argomento di polemica politica: la lettera con cui sessantasette docenti universitari della Sapienza di Roma impedirono al Papa di aprire l'anno accademico 2007-2008 resta un'offesa, potrà sembrare paradossale, proprio alla laicità dello Stato. Per non parlare delle ombre gettate sul suo pontificato dallo scandalo della pedofilia nel clero, quando di contro fu proprio il Papa sotto il quale la Chiesa espulse il maggior numero di prelati che si erano macchiati di questo peccato.

Tutto ciò trasforma Benedetto XVI in un martire sul patibolo delle nuove ideologie che si sono imposte nel presente. Lo rende scomodo alla cultura prevalente in questo secolo in cui salvaguardare il legame con il passato, con una fede che non accetta compromessi è una colpa imperdonabile. E lo rende nostro. Papa Francesco ci perdonerà, ma nell'epoca dei due Pontefici, Papa Ratzinger era il nostro.

L’Occidente odia se stesso”. Così Benedetto XVI folgorò l’atea Fallaci. Quando la giornalista ricordò l’incontro con Papa Ratzinger: “Anche se atea, è un Papa col quale mi trovo d’accordo”. Redazione su nicolaporro.it il 3 Gennaio 2023

L’Occidente odia se stesso”. Così Benedetto XVI folgorò l’atea Fallaci

Pubblichiamo un estratto del discorso che Oriana Fallaci tenne durante la premiazione del «Annie Taylor Award». In quell’occasione la giornalista raccontò il suo incontro con Papa Benedetto XVI.

Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi.

Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene.

Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale auto-definizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui si deduce che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più intelligenti che in quella laica alla quale appartengo. […] E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana.

Oriana Fallaci, 29 novembre 2005

Quirino Conti per Dagospia il 2 gennaio 2023.  

Tra gli infiniti coccodrilli che stanno preparando le prossime esequie di papa Ratzinger, un inviolabile silenzio continua ad avvolgere, con il profondo rispetto che le sue scelte meritano, il più grande martirio del suo papato: quello formale e stilistico. 

E proprio le interminabili commemorazioni di questi giorni – opinionisti smaniosi da tutti i canali - fanno apparire il suo aspetto di Papa Regnante una sorta di ciclopico, massiccio apparato, impedimento alla fluidità della sua comunicazione e alla vicinanza della sua umanità. Abituati alla scarna e moderna sobrietà di papa Bergoglio, qualsiasi immagine ricorra del suo predecessore è infatti come un tonfo in un tormento estetico che relega il suo ricordo nel più formalistico dei pontificati.

Papa Ratzinger, come molti ricorderanno, è stato da subito vittima di un gruppo di addobbatori, che, infelicissimi per l’assottigliamento della scenografia pontificale, non hanno visto altra strada per il recupero del passato che l’imposizione al nuovo papa  di un vero e proprio massacro formale. 

 Regista di questa operazione? Il suo segretario, l’arcivescovo Georg Gänswein, con il sostegno di due fedelissime assistenti, una coppia di inseparabili principesse, appassionate di liturgismi e paramenti d’antan: Alessandra Borghese e la sua socia Gloria von Thurn und Taxis. Come se giocassero con le bambole, il terzetto combinò addosso al pontefice qualsiasi paramento fosse stato bandito dall’ultimo Concilio celebrato. 

Ogni genere di stranezza e ogni genere di pompa, dalle pantofoline al camauro, furono recuperati addosso al mansueto pontefice. Persino il faldistorio venne ripreso dagli affreschi raffaelleschi, e una mistica infula recuperata da un viaggio organizzato allo scopo, sui resti di un primitivo pontefice, così da riproporne lo stile.

Sarebbe troppo complesso citare per nome ogni stramberia riportata in vita dal terzetto, ma è sufficiente un approfondimento iconografico per scoprire quali e quanti copricapi (di bizzarria estrema) siano stati ripresi dal passato. Via via fino a mozzette, seterie, materiali e calzature. Delle più svariate fogge.

Rimane un mistero: per quale ragione un papa accusato di revisionismo e conservatorismo non si sia ribellato a tali mascherate; anche perché le due principesse, ormai ospiti fisse negli appartamenti papali, rivendicavano attraverso rubriche e interviste l’autorevole ruolo di Addobatrici Pontificie Ufficiali!

Si favoleggiava, quando l’arcivescovo Georg era all’apice della sua potenza,di un suo recupero dall’ambiente lefebvriano. Come dire: una mina vagante disinnescata; tanto cara alla parte che Hans Kung ha contestato fino all’ultimo al suo vecchio amico, divenuto pontefice reazionario.

 Ai poco informati chiosatori di questi giorni di lutto, va comunque ricordato che il segretario Monsignor Georg non è mai più apparso nelle cerimonie pontificie, nel suo ruolo di prefetto della Casa Pontificia, essendo stato rimosso dopo una sfuriata sonorissima dallo stesso papa Bergoglio.

Dunque, due papi martiri: il primo, vittimizzato dai giochetti neogotici di questo infelice entourage teutonico-capitolino, e il suo successore papa Francesco per aver dovuto con piedi di piombo scartare un apparato pressoché teatrale dalle abitudini liturgiche fino a lui arrivate.

 Non si può in ogni caso non notare la gioia dolente di quanti, fino a ora silenziosi,  si sentono finalmente autorizzati a esprimere le loro reazionarie opinioni, attribuendole a un cadavere, pertanto non in grado di rettificare. Augurandoci che giovedì il funerale del Vescovo Emerito di Roma sia strappato dalle mani dell’infaticabile Tappezziere Pontificio padre Georg e delle sue influencer-liturgiste. 

DAGOREPORT il 2 gennaio 2023.

L’Inn è un fiume dell’Europa centrale che prende nome dalla città fondata in Tracia da Enea, Aenus, Eno in italiano. Nasce dal Bernina nell’alta Engadina, che significa appunto “giardino dell’Inn”, a ovest di Sankt Moritz, dove forma i due laghi di Sils e Silvaplana ben noti ai milanesi con i danée: qui riposano anche le ceneri di Claudio Abbado. 

Dopo quasi 500 chilometri, quando è pronto a sfociare nel Danubio presso Passau, il fiume di Enea divide il Bene e il Male. Un ponte, proprio la struttura che i greci non costruivano per non sfidare il volere degli dei, ma i romani sì perché agli dei credevano solo esteriormente, un ponte sulla statale 94 che va da Monaco a Linz, ovvero dalla Birreria al sognato Museo universale, divide o unisce il Bene e il Male.

Questo ponte e confine tra Germania e Austria unisce l’abitato tedesco di Marktl al paesone austriaco di Braunau am Inn, 15 minuti in auto, una ventina di chilometri con in mezzo un bosco e una campagna. Solo che a Marktl nel 1927 è nato Benedetto XVI, papa Ratzinger e a Braunau nel 1889 è nato Adolf Hitler, che nel ’27 aveva già costituito le SS. A osservare questo ponte su una piantina geografica scopriamo che è l’ombelico dell’Europa, dove si incontrano le linee ideali che vanno da Madrid a Vilnius, da Berlino a Roma, da Amsterdam a Istanbul.

Marktl, che vuol dire mercato, sono due case di campagna e un cimitero. In confronto, Sotto il Monte, dove nacque Papa Giovanni XXIII, è già più grande. Una delle due case, presso il numero 11 di Schulstrasse, è dove nacque Ratzinger, terzo figlio di Maria Rieger (1884-1963) e Joseph Ratzinger senior, gendarme da una modesta famiglia di agricoltori. I genitori sono sepolti nel locale cimitero in una tomba con semplice lapide. 

Dentro la casa natale si è realizzato un piccolo museo dove vendono “i mattoni del papa” per ampliarlo e mantenerlo. Ci sono le foto dell’infanzia poverissima del Papa, la sua stola, una pala d’altare, qualche cimelio: è un posto puro, incontaminato, silenzioso, non c’è niente. A fatica si costruiscono le tracce di una santità. Come un ragazzo nato qui andò poi a Tubinga e Ratisbona diventando il maggior teologo dei suoi tempi è mistero.

Come possa essere morto nell’incrollabile certezza che Fede e Ragione siano assolutamente conciliabili, ovvero che di là lo attenda un Dio-uomo dalla veste bianca resta un mistero per chi nel cristianesimo crede come si può credere dopo aver visti papiri Bodmer e di Qumran: Cristo è stato il più fortunato rivoluzionario ebreo del I secolo, la sua setta sopravvisse a stento finché l’imperatore Costantino non scelse il loro culto. Da lì le cattedrali, Caravaggio e Bach…

Se sali in macchina e superi il ponte, dall’altra parte tutti cercano di cancellare le tracce. All’Ufficio turistico non ti dicono dove si trovi la casa natale di Hitler: devi scoprirla da te. La Germania e l’Austria hanno rimosso le due guerre perdute, passano dalla Prussia di Bismarck e dall’Austria Felix direttamente alla Riunificazione senza passare dall’Anschluss. Il ponte divide e unisce così come le Riunificazioni dividono e uniscono. 

La casa natale di Hitler fu costruita da Felix Michael Hafner. Negli anni della Erste Republik (Prima repubblica) fu adibita a trattoria. Dopo l’Anschluss, la Nsdap l’acquistò per 150.000 Reichsmark dal proprietario Josef Pommer con l’intenzione di trasformarla in un luogo che “ogni tedesco deve visitare almeno una volta nella vita”, come affermava la Neue Warte am Inn, giornale di Braunau.

Dopo la guerra si mise in atto la macchina della damnatio memoriae, una specie di cancel-culture contro i cattivi. Nell’ottobre 2016 l’allora Ministro dell’Interno austriaco, Wolfgang Sobotka, dichiarò che sarebbe stata abbattuta. Suscitò una polemica che rivela non solo la difficoltà nella gestione dell’eredità pesante del nazionalsocialismo e dei suoi monumenti in Austria, ma la mancanza di una linea ufficiale sul passato. Nel 2017 la casa è stata espropriata, ma si oscilla sul che farne di una casa del male. 

Mentre a Marktl, di fronte, sta sorgendo il museo del papa bavarese qui si vorrebbe fare una “Casa della Responsabilità” oppure “neutralizzare” il palazzo prima della sua trasformazione in commissariato di Polizia: un’operazione di face lifting architettonica per porre fine al flusso di simpatizzanti neonazisti in pellegrinaggio. Dall’89 c’è davanti una targa con scritto “Per la pace, la libertà e la democrazia. Mai più il fascismo, milioni di morti ammoniscono”.

Mitra, paramenti rossi e albero di Natale: la salma di Ratzinger in Vaticano. La salma del Papa emerito è attualmente esposta nella cappella del monastero Mater Ecclesiae. Tra le mani ha un rosario, deposto anche un mazzo di fiori. Massimo Balsamo l’1 gennaio 2023 su Il Giornale.

È grande il cordoglio per la morte di Joseph Ratzinger. Scomparso sabato mattina all'età di 95 anni nella sua residenza in Vaticano, il Papa emerito ha lasciato un grande vuoto nella Chiesa e i fedeli lunedì avranno la possibilità di rendergli omaggi. Attualmente la salma di Benedetto XVI è esposta nella cappella del monastero Mater Ecclesiae. Come è possibile evincere dalle fotografie diffuse dalla sala stampa vaticana, indossa dei paramenti liturgici rossi e in testa ha la mitra. Tra le mani, invece, ha un rosario. Ratzinger indossa le scarpe al posto dei sandali scelti come calzatura preferita da quando era diventato Papa emerito. All'interno della cappella del monastero Mater Ecclesiae è possibile vedere anche un presepe e l'albero di Natale. Accanto alla salma, collocata davanti all'altare, è stato deposto un mazzo di fiori.

La camera ardente di Ratzinger

Tra i dettagli da sottolineare osservando le foto diffuse dalla sala stampa del Vaticano, Ratzinger non indossa il pallio a differenza di Wojtyla, in quanto Papa emerito. Il primo a fare tappa al monastero Mater Ecclesiae è stato Papa Francesco, poco dopo la scomparsa del tedesco. Insieme al pontefice argentino, il segretario particolare, mons. Georg Ganswein e le Memores Domini che lo hanno vegliato fino alla fine.

"Ci uniamo tutti insieme, con un cuore solo e un'anima sola, nel rendere grazie a Dio per il dono di questo fedele servitore del Vangelo e della Chiesa", l'omaggio di Bergoglio nel corso dell'Angelus di domenica mattina: "L'inizio di un nuovo anno è affidato a Maria Santissima, che oggi celebriamo come Madre di Dio. In queste ore invochiamo la sua intercessione in particolare per il Papa emerito Benedetto XVI, che ieri mattina ha lasciato questo mondo".

Come confermato dal Vaticano, lunedì mattina è in programma un rito privato in occasione della traslazione della salma del Papa emerito dal Mater Ecclesiae alla Basilica vaticana con un passaggio dalla Porta della preghiera. La salma di Ratzinger sarà nella basilica per il saluto dei fedeli, che prenderà il via alle ore 9.00. Nel corso della giornata di domenica sono invece previste le visite private.

Per volontà dello stesso Ratzinger, i funerali verranno svolti nel segno della semplicità. "Solenni ma sobri", l'indicazione di Benedetto XVI, con il protocollo che sarà semplificato rispetto alle esequie di un pontefice "regnante". Il tedesco sarà sepolto nelle cripte vaticane, per la precisione nella nicchia dove dal giugno 1963 al gennaio 2001 è rimasto sepolto san Giovanni XXIII, e poi san Giovanni Paolo II dal 2005 al 2011.

Le ultime tre parole di Benedetto XVI prima di morire: cosa ha detto. Benedetto XVI si è spento serenamente a 95 anni nella residenza Mater Ecclesiae dove scelse di vivere da Papa emerito fin dal 2013. Francesca Galici l’1 gennaio 2023 su Il Giornale.

Papa Benedetto XVI si è spento a 95 anni nella sua residenza in Vaticano circondato dalle persone che negli ultimi 9 anni della sua vita, da quando nel 2013 lasciò il soglio pontificio, gli sono state accanto. Nei giorni precedenti, Papa Francesco aveva chiesto al mondo di pregare per lui, lasciando intendere che la fine del pontefice emerito era ormai vicina. Poi, sembrava che le sue condizioni stessero migliorando o che, comunque, Joseph Ratzinger avrebbe avuto ancora del tempo davanti a sé. Invece, alle 9.34 dell'ultimo giorno dell'anno se n'è andato, lasciando un profondo vuoto nella Chiesa. Il quotidiano argentino "La Nacion", citando fonti bene informate, riferisce che le ultime parole di Papa Benedetto XVI siano state rivolte al Signore: "Gesù, ti amo".

"Restate saldi nella fede": il testamento spirituale di Ratzinger

Sempre secondo il quotidiano argentino, il segretario particolare del Papa emerito Benedetto XVI, Georg Ganswein, avrebbe avvertito subito Papa Francesco, che si è recato nel monastero Mater Ecclesiae dove viveva Ratzinger dieci minuti dopo. Georg Ganswein, intervistato dal Tg1, ha ricordato come per Joseph Ratzinger "il centro della vita di un cristiano deve essere nient'altro che il Signore". Il segretario particolare del Papa nel corso dell'intervista ha anche ripercorso la motivazioni che hanno portato Benedetto XVI alle dimissioni: "Lui stesso ha detto che non aveva la forza fisica e psichica di essere Papa, di guidare la barca di San Pietro. Dopo non ha mai avuto un momento in cui ha dubitato o ha detto 'me ne pento".

Con i suoi 95 anni di età Benedetto XVI è stato il più longevo tra i Papi della Chiesa, battendo il record di Leone XIII che ha vissuto 93 anni, 4 mesi e 18 giorni. Il 265esimo pontefice della bimillenaria storia del Papato aveva compiuto nello scorso giugno 71 anni di sacerdozio, di cui 45 passati come cardinale. Il suo pontificato è durato poco meno di 8 anni, più di 9 il periodo da Papa emerito dopo le dimissioni. È stato il primo Papa emerito della storia della Chiesa dopo essere stato eletto Papa il 19 aprile 2005, al quarto scrutinio del Conclave.

Alì Agca, le rivelazioni su Ratzinger: "Terzo segreto di Fatima? Ecco cosa ha detto". Libero Quotidiano l’01 gennaio 2023

"Papa Ratzinger era molto meglio di quasi tutti i capi del mondo islamico e migliore di tutti i capi religiosi e politici del mondo". A dirlo all’Adnkronos è Ali Agca, l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II, commentando la morte di Joseph Ratzinger da Istanbul, dove vive oggi. E spiega: "Basta vedere i genocidi del mondo islamico dal Clero iraniano, la famiglia reale saudita che ha sciolto nell’acido giornalista Jamal Khashoggi - dice - Dai capi corrotti del Qatar ai capi mafiosi del Dubai e tutti gli altri capi del mondo islamico che hanno ucciso la vera religione. Paragonato a tutti gli altri capi religiosi e politici del mondo, Joseph Ratzinger si assolve". 

Poi Agca cita alcuni "eventi storici" numerandoli. A partire dalla sparizione della giovane Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana di 15 anni, sparita il 22 giugno 1983, mentre la ragazza rientrava a casa dopo le lezioni di musica. "Papa Ratzinger non ha avuto nessuna responsabilità nel mistero Emanuela Orlandi. Tuttavia, Papa Ratzinger poteva liberare Emanuela Orlandi, se avesse deciso di farlo durante nel suo pontificato", spiega Ali Agca, che nel 2000, da condannato all’ergastolo, venne graziato dall’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. E ancora, Ali Agca, cita altri eventi storici: "Papa Ratzinger fu costretto alle dimissioni probabilmente per motivi di salute - prosegue l’ex Lupo grigio- Perciò ha scelto intenzionalmente l’11 febbraio del 2013, il giorno della Madonna di Lourdes, per proclamare le sue dimissioni nell’intento di mandare un messaggio al Cielo". Poi, l’ex esponente dei "Lupi grigi", che il 13 maggio dell’81 sparò al Pontefice a piazza San Pietro, "affida il defunto Joseph Ratzinger alla misericordia di Dio Eterno Onnipotente". 

Però, tiene a sottolineare: "Il 26 giugno del 2000, il Cardinale Ratzinger ha interpretato il Terzo Segreto di Fatima in modo errato soltanto per difendere, giustificare ad ogni costo gli errori inevitabili storici del Vaticano, come ogni potere umano - dice ancora all’Adnkronos - Eppure, il 12 marzo del 2000, Papa Giovanni Paolo II aveva chiesto, in piazza San Pietro, il perdono a Dio davanti a un milione di persone per gli errori storici del Vaticano". L’attentatore di Papa Giovanni Paolo II aggiunge, infine: "Papa Joseph Ratzinger fu il primo Papa ad essere contestato e oltraggiato in tempi moderni da un gruppo di cattolici, il 27 maggio 2012, per aver respinto di recitare una preghiera per Emanuela Orlandi. Dunque Papa Ratzinger ha un debito morale verso la famiglia Orlandi". 

Papa Ratzinger, le prime foto del corpo: cosa tiene tra le mani. Libero Quotidiano l’01 gennaio 2023

Vatican Media ha diffuso le prime immagini della salma del Papa emerito Benedetto XVI. Le foto ritraggono il corpo di Ratzinger, all’interno del Monastero Mater Ecclesiae, vestito con paramenti liturgici rossi e la mitra. Tra le mani del Pontefice emerito un rosario. E al posto dei sandali, Benedetto XVI indossa delle scarpe nere. La salma è stata collocata all’interno di una cappella. In una foto si vedono l’altare con un grande crocifisso, un presepe e l’albero di Natale.

Intanto questa mattina Papa Francesco ha voluto ricordare Benedetto XVI nel suo Angelus: "Oggi affidiamo alla Madre Santissima l’amato Papa emerito Benedetto XVI perchè lo accompagni nel suo passaggio da questo mondo a Dio". Papa Francesco è stato il primo ad arrivare nella stanza dove è spirato il Pontefice Emerito. A rivelarlo è stata la Sala Stampa del Vaticano: "Papa Francesco è stato il primo ad andare ieri mattina al monastero Mater Ecclesiae", appena informato della morte di Benedetto XVI. 

Lo ha confermato il direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni. Il Pontefice era stato immediatamente informato da monsignor Georg Gaenswein, è andato nel monastero intorno alle 9:30 e "si è fermato fino a dopo alle 10". I funerali di Benedetto XVI si terranno il prossimo 5 gennaio nella Basilica di San Pietro. La salma, molto probabilmente sarà tumulata tra le tombe papali nel posto prima occupato dal corpo di Giovanni Paolo II che dopo la beatificazione è stato spostato in un'altra ala della Basilica. 

Papa Emerito Benedetto XVI, fedeli in piazza San Pietro, oggi la salma nella Basilica. Fin dalle prime luci dell'alba diversi fedeli hanno raggiunto la basilica che verrà aperta dalle 9 per l'omaggio al Pontefice. Il Dubbio il 2 gennaio, 2023

Piazza San Pietro si prepara per le esequie di Benedetto XVI, papa emerito deceduto lo scorso 31 dicembre. Fin dalle prime luci dell'alba diversi fedeli hanno raggiunto la basilica che verrà aperta dalle 9 per l'omaggio al Pontefice.

Dopo la traslazione dal Monastero Mater Ecclesiae, dove è rimasto dal 31 dicembre, la salma sarà esposta nella Basilica di San Pietro per la venerazione dei fedeli.

Addio a Papa Benedetto XVI, il commento di Marcello Pera

«Ratzinger è stato impressionante. Lo è stato come uomo, per l’umiltà che solo i grandi hanno. Lo è stato come teologo e anche come pastore, perché è quello che ha influito di più sulla coscienza dei laici. Tutti si sono sentiti in dovere di interloquire con lui, e tanto lui ha influito che alcuni si sono sentiti in difficoltà nel replicargli». Così Marcello Pera, ex presidente del Senato, in una intervista sul Corriere della Sera con cui ricorda papa benedetto XVI, deceduto lo scorso 31 dicembre.

«Ricordo un imbarazzatissimo Sarkozy, presidente laico della laica Francia, dire a Roma che la Francia era cristiana. In ogni caso Benedetto aveva sì risvegliato una coscienza europea, ma era anche consapevole che il processo potesse svilupparsi soltanto con un appello, uso le sue parole, alle minoranze creative. Nel senso che l’Europa si sarebbe salvata solo se alcuni gruppi, sparsi qua e là, all’inizio in catacombe e cenacoli, avessero ripreso la fede cristiana come fondamento», ha aggiunto.

Attesi migliaia di fedeli. L’abbraccio dei fedeli a Ratzinger, l’omaggio e il lungo addio al Papa Emerito in Vaticano. Redazione su Il Riformista il 2 Gennaio 2023

Tutto pronto per l’ultimo saluto a Benedetto XVI. Il Papa Emerito Joseph Ratzinger, deceduto il 31 dicembre scorso, sarà omaggiato per l’ultima volta dai fedeli nella Basilica di San Pietro in Vaticano che apre alle ore 9 per l’omaggio al pontefice.

Fedeli che avranno tempo tre giorni per omaggiare il Papa Emerito: poi giovedì 5 gennaio a partire dalle 9:30 i funerali di Benedetto XVI saranno celebrati da Papa Francesco, con ultimo atto che sarà la tumulazione nelle Grotte Vaticane al termine del funerale.

Attesi almeno 30mila fedeli in queste giornate, tra cui il presidente Mattarella e il premier Meloni.

I media vaticani hanno anche divulgato nelle scorse ore la foto della salma: Ratziger appare vestito dei paramenti liturgici rossi e della mitra, tra le mani un rosario.

Le ultime parole

Signore, ti amo”. Queste, come reso noto dal portavoce del Vaticano Matteo Bruni, sono state le ultime parole, pronunciate in italiano, da Papa emerito Benedetto XVI prima di spegnersi nella notte del 31 dicembre 2022.

A ricostruire con maggiori informazioni gli ultimi istanti del pontefice emerito è il portale d’informazione della Santa Sede, Vatican News raccogliendo la testimonianza di Georg Gänswein, il vescovo da sempre vicinissimo a Ratzinger.

Benedetto XVI non era ancora entrato in agonia, e in quel momento i suoi collaboratori e assistenti si erano dati il cambio: con lui, in quel momento, c’era solo un infermiere che non parlava il tedesco. Il Papa Emerito ha allora parlato con un filo di voce l’ultima proclamazione di fede in italiano: “Signore ti amo!”.

Quelle sono state le ultime parole comprensibili: dopo Ratzinger non è stato più in grado di esprimersi. Al mattino il pontefice tedesco ha quindi esalato l’ultimo respiro.

Benedetto XVI. Addio. E ora? Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 31 Dicembre 2022

Joseph Ratzinger cioè Benedetto XVI, muore a 95 anni ed ha attraversato tutto il cammino di un secolo di vita della Chiesa, ha vissuto direttamente il Concilio Vaticano II da giovane consulente teologo dell’arcivescovo di Colonia, ed ha vissuto le turbolenze del dopo-Concilio, con il distacco dal gruppo dei teologi fondatori della nota rivista “Concilium” (tra cui Hans Kung, escluso dall’insegnamento della teologia nel 1979), lo spostamento verso una visione più istituzionale dal 1977 quando, a 50 anni, Paolo VI lo nominò arcivescovo di Monaco e poi cardinale. Aveva un rapporto di grande fiducia con Giovanni Paolo II (tra l’altro aveva partecipato ai due Conclavi del 1978) e nel 1981 proprio Wojtyla lo volle come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. In quel ruolo è stato protagonista dei principali documenti teologici di Giovanni Paolo II: le encicliche “Fides et Radio”, “Veritatis Splendor”, “Evangelium Vitae”, la Dichiarazione “Dominus Iesus” del 2000. E hanno fatto epoca i provvedimenti contro teologi e tendenze teologiche come ad esempio i due documenti del 1984 e del 1986 sulla teologia della liberazione – il primo di netta critica, il secondo con qualche prudente apertura. E anche i provvedimenti canonici per segnalare i teologi con posizioni non ortodosse in campo di morale e morale matrimoniale: Charles Curran, Edward Schillebeeckxx (si conoscevano bene), Leonardo Boff, Tissa Balasuriya e diversi altri. Di quel periodo e di quei provvedimenti, una volta diventato Papa, Joseph Ratzinger non ha mai parlato. Però è indubbio che il vero atto di governo da lui attuato non è tanto nel promuovere una maggiore trasparenza amministrative e l’attivazione di un maggiore impegno contro gli abusi commessi da esponenti del clero (misure proseguite con decisione da Papa Francesco), quanto la dichiarazione dell’11 febbraio 2013. Cioè le dimissioni. Per diverso tempo, dopo l’elezione del successore, quando è apparsa chiara la linea ‘francescana’ del pontefice, gli oppositori del nuovo papa si sono arrovellati sull’idea complottista che le dimissioni non fossero valide perché espresse in maniera non libera. Idea a dispetto dell’evidenza, come appare chiaro a rileggere quel testo dell’11 febbraio, già passato nella storia della Chiesa. Davanti ai cardinali, Benedetto XVI diceva:

Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa.  Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”.

Così, ad 86 anni di età, terminava il 265esimo pontificato. Le dimissioni hanno aperto una fase inedita: prima di tutto la decisione di ritirarsi ad abitare in Vaticano, con un Joseph Ratzinger ferreo e determinato nel mantenere il silenzio e non intervenire sugli atti di governo di Papa Francesco e sui suoi documenti, sebbene alcuni settori conservatori abbiano cercato di mettere l’uno contro l’altro. A nove anni dalla rinuncia, resta irrisolta la questione teologica, canonistica e pratica di cosa significhi avere un papa dimissionario (fin dal come chiamarlo: papa emerito, vescovo di Roma emerito?) in una Chiesa governata da un papa regnante.

Dal punto di vista teologico, cosa resta di Benedetto XVI?

La risposta è complessa. Certamente il contributo da lui offerto al Concilio Vaticano II è stato molto studiato ed approfondito. I suoi libri sono sapienti esposizioni del pensiero cristiano, e vanno citati tre opere per tutte: “Rapporto sulla fede”, libro intervista con Vittorio Messori del 1984 in cui denunciava le rotte sbagliate del dopo-Concilio; e “Introduzione al Cristianesimo”, del 1969, tratto dalle lezioni agli studenti di teologia e molte volte ristampato. La terza è il “Gesù di Nazareth”, scritto da papa, e pregnante sintesi teologica di cosa sia l’incarnazione di Gesù nella storia umana. In questa brevissima rassegna non può mancare, come una vera pietra-miliare, il discorso del 2006 all’Università di Ratisbona, dove tornò da papa dopo aver insegnato come teologo decenni addietro. Quel discorso venne interpretato come una critica all’Islam ed ha provocato polemiche infinite. E invece il significato è tutt’altro. Benedetto XVI proseguiva, da papa, quello che aveva iniziato come Prefetto della Dottrina della Fede: spendersi – teologicamente parlando – per una razionalità capace di coniugare teologia, filosofia e scienza, come terreno di incontro tra credenti e non credenti, per superare ogni steccato ideologico.

La fede deve aprirsi all’ampiezza della ragione, la ragione all’ampiezza della fede. Come si vede, non un discorso contro l’Islam – frutto di un’affrettata e maliziosa sintesi giornalistica – ma un affresco di ampio respiro per invitare l’Occidente post-illuminista a riflettere su se stesso e sulle sue radici cristiane. Nella ricerca del dialogo è stato un papa moderno, autenticamente postconciliare e Papa Francesco ne prosegue la linea, sebbene troppo spesso i detrattori di quest’ultimo non rintracciano la linea di continuità, perdendosi dietro la ricerca di un regime di cristianità che non esiste più da secoli. Certamente a suo agio nei temi culturali e teologici, molto meno nelle concrete e complesse questioni di governo (si ricordi la fuoriuscita di documenti dall’appartamento papale da parte del “Corvo”, il maggiordomo che riforniva un giornalista), ma comunque sempre lucido, anche quando – da Prefetto – cercava di segnalare deviazioni teologiche ed errori. “È come una candela che si consuma lentamente”, disse qualche tempo fa il suo segretario e collaboratore, l’arcivescovo George Ganswein. Adesso che si è consumata del tutto, resta un’eredità culturale, religiosa e spirituale che – si spera – sarà libera da eccessi di letture.

Funerali di Ratzinger: il protocollo e i simboli nella bara come per l'addio a un Pontefice in carica. Ester Palma su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023.

Giovedì i funerali solenni con re e leader politici di tutto il mondo, mentre continua la processione dei fedeli in San Pietro: anche martedì in 70 mila a salutarlo

Mentre continua incessante la processione e lo sconfinato affetto dei fedeli in San Pietro davanti al feretro di Benedetto XVI (anche ieri sono stati 70 mila, che si sommano ai 65 mila di lunedì) più passano i giorni e più il funerale di Benedetto XVI assomiglia a quello di un Pontefice regnante, piuttosto che di un Papa emerito. Nonostante la richiesta di semplicità espressa dallo stesso Ratzinger, per la cerimonia di domani si moltiplicano le adesioni di potenti e leader di tutto il mondo, l’apparato di sicurezza diventa sempre più complesso e dettagliato come quello mediatico, con oltre 600 giornalisti accreditati, e il protocollo vaticano tende ormai a ricalcare quello ufficiale delle esequie papali. 

Del resto è stato ieri lo stesso Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, a confermarlo: «La base è grossomodo quella, con alcune differenze legate alla particolare situazione». Le modifiche già effettuate sul rigido e complesso protocollo dei funerali papali hanno riguardato per esempio la mancata processione del feretro dal Palazzo Apostolico, dove peraltro Benedetto non viveva più dal 2013, quando annunciò le sue dimissioni, con tutti i cardinali a seguirlo in preghiera. Anche perché questa volta non ci sarà un conclave (dal latino cum clavis, cioè un luogo, da secoli la Cappella Sistina, chiuso a chiave, dove i cardinali possono eleggere il nuovo Pontefice senza influenze esterne). Anche l’Anello del Pescatore (o Piscatorio), il simbolo dell’apostolo Pietro consegnato a ogni Papa (e realizzato espressamente per lui) durante la Messa solenne di inizio pontificato e che viene rotto alla sua morte, nel caso di Benedetto fu spezzato il giorno delle dimissioni ufficiali, insieme ai suoi sigilli. E non sono stati celebrati nemmeno i Novendiali, i 9 giorni di lutto e Messe in suffragio in San Pietro. Mancherà anche la supplica finale della diocesi di Roma e delle Chiese Orientali al momento dell’Ultima Commendatio e della Valedictio. 

Però nella bara di cipresso di Benedetto verranno posti la medaglia e le monete coniate durante il suo regno, il pallio, ovvero la stola bianca che per il Papa viene confezionata con la lana di due agnelli dei monaci trappisti delle Tre Fontane e tessuta, almeno nella tradizione, dalle monache di clausura di Santa Cecilia in Trastevere. Nella bara sarà poggiato anche, chiuso in un tubo metallico, il rogito, cioè un breve riassunto del Pontificato. Domani la bara uscirà da San Pietro alle 8,50, subito dopo inizierà il Rosario dei fedeli. Papa Francesco (che oggi comunque terrà la sua udienza del mercoledì) avvierà la celebrazione alle 9,30, subito dopo il feretro sarà portato nelle Grotte vaticane per la sepoltura, nella tomba che fu di Giovanni Paolo II e che è stata chiesta dallo stesso Benedetto, che non ha voluto nemmeno un monumento funebre. Qui verranno posti la fettuccia intorno alla bara, i sigilli della Camera apostolica, della Casa pontificia e delle Celebrazioni liturgiche, prima di mettere la cassa in una bara di zinco, sigillarla, porla in un’altra bara di legno e poi tumulata in forma privata.

Intanto i potenti della Terra si mobilitano per salutare Benedetto: ieri il premier ungherese Viktor Orban e la moglie Aniko Levai si sono fermati a pregare davanti al catafalco del Papa, come il presidente del Senato, Ignazio La Russa e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Davanti al corpo del Papa emerito si è inginocchiato anche il cardinal Stanislaw Dziwisz, storico segretario di papa Wojtyla, che ha detto: «Giovanni Paolo II non prendeva alcuna decisione dottrinale senza consultarsi con Ratzinger, erano molto amici e si completavano a vicenda». Presente anche l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, con la moglie Diana. Oggi, in rappresentanza del Parlamento Europeo a rendere omaggio a Benedetto ci sarà la vicepresidente Pina Picierno. Domani, oltre al presidente italiano Sergio Mattarella ci saranno anche il suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier, il cancelliere Olaf Scholz e il primo ministro della Baviera, Markus Soeder, accompagnati da una nutrita delegazione anche bavarese, il re e la regina del Belgio, Filippo e Mathilde, la regina madre di Spagna, Sofia, col ministro per la presidenza spagnola Félix Bolaños e il cardinale Juan José Omella, presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, il presidente polacco Andrzej Duda e quello portoghese Marcelo Rebelo de Sousa e una delegazione del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli.

Da liberoquotidiano.it il 3 Gennaio 2023.

La bara di Papa emerito Benedetto XVI sarà riempita con medaglie, monete coniate durante il Pontificato, i pallii (i paramenti liturgici) e il "Rogito", un breve testo che descrive il suo Pontificato e che viene rinchiuso all’interno di un cilindro di metallo. Dopodiché, domani pomeriggio 4 gennaio, sul tardi, la bara sarà chiusa in vista dei funerali a San Pietro tenuti da Papa Francesco giovedì. 

È quanto ha fatto sapere il direttore della sala stampa Vaticana, Matteo Bruni, in un incontro di una ventina di minuti con i giornalisti in cui ha esposto i dettagli della celebrazione.

La bara di Ratzinger, in cipresso, sarà chiusa con i sigilli della camera apostolica e verrà messa all’interno di una seconda bara in zinco che viene saldata e sigillata, e a sua volta messa in una cassa di legno che poi verrà sepolta. 

Giovedì, il giorno dei funerali a San Pietro, il feretro uscirà dalla Basilica intorno alle 8.50 del mattino per permettere ai fedeli di dire il rosario sulla sua

bara, poi si terrà la liturgia, presieduta da Papa Francesco e celebrata dal decano del Collegio cardinalizio, il cardinale Giovan Battista Re, al termine della quale il corpo verrà portato nelle grotte per la sepoltura.

Ester Palma per il “Corriere della Sera” il 3 Gennaio 2023.

Non ci saranno i «novendiali», i tradizionali nove giorni di lutto prima dei funerali, con le Messe quotidiane celebrate in San Pietro dai cardinali, mettendo in risalto ogni giorno, nell'omelia, un aspetto diverso della personalità del Papa defunto. Non ci saranno nemmeno, tranne quelle di Germania e Italia (che sarà guidata dal presidente Mattarella) le delegazioni ufficiali di altri Paesi. 

E forse il corpo di Benedetto XVI non sarà posto nelle tre casse di legni diversi, come prevede il solenne e minuzioso rituale della sepoltura di un romano pontefice. Non è stato ancora chiarito se al momento della chiusura della bara sarà posto sul volto del defunto il tradizionale fazzoletto di seta bianca.

Ci sarà però la folla di fedeli, che già dal primo giorno ha doppiato le stime della prefettura di Roma di 30-35 mila persone al giorno: ieri sono stati 65mila. E ci si aspetta un'enorme affluenza (si parla ora di almeno 70 mila persone, con treni e pullman in arrivo dalla «sua» Baviera) anche per giovedì alle 9,30, giorno e ora dei funerali: tanto che sul sito della Diocesi di Roma c'è l'avviso per i sacerdoti che desiderano concelebrare con papa Francesco le esequie di quello emerito: «L'Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo pontefice ha comunicato che i presbiteri potranno concelebrare muniti di apposito biglietto da richiedere sul sito biglietti.liturgiepontificie.va/ e si dovranno trovare, entro le 8.30, direttamente nel settore loro riservato in piazza San Pietro, dove indosseranno l'amitto, il camice, il cingolo e la stola rossa che avranno portato con sé. Per i fedeli l'accesso in piazza sarà libero, non essendo previsto un biglietto».

Quello al Papa emerito sarà un addio «sobrio», come avrebbe del resto voluto lo stesso Ratzinger, ma al contempo solenne. In effetti quello dei funerali del 265esimo successore dell'apostolo Pietro è per il Vaticano una sorta di «rebus protocollare», dato che non è mai accaduto prima nella Chiesa cattolica che un Papa celebrasse i funerali del suo predecessore. Per un'organizzazione con oltre duemila anni di storia alle spalle, abituata a misurare il tempo in secoli, approntare un modello di funerale mai visto prima non è semplice.

Però in piazza San Pietro sono già partiti i preparativi per l'addio a papa Ratzinger, iniziati con il montaggio, sul sagrato, dell'altare su cui Francesco celebrerà il rito, quello dei maxischermi che vanno a aggiungersi ai display per l'Angelus, e con la sistemazione delle sedie per fedeli e istituzioni.

 Oltre alle due delegazioni ufficiali, «se altri capi di Stato o di governo verranno - ha detto il portavoce vaticano Matteo Bruni - lo faranno a titolo personale», proprio perché non si tratta di un pontefice in carica. Dovrebbero esserci comunque il presidente della Polonia Andrzej Duda, il re del Belgio Filippo, la regina madre di Spagna Sofia, accompagnata dal ministro per la presidenza Felix Bolaños, e da un gruppo di alti prelati guidati dal presidente della Conferenza episcopale spagnola, il cardinale Juan José Omella.

E poi anche il presidente del Portogallo Marcelo Rebelo de Sousa e una delegazione del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli. Al fianco del Pontefice, che potrebbe restare seduto, dati i suoi problemi al ginocchio, potrebbe esserci il decano del collegio cardinalizio, il cardinale Giovanni Battista Re, o il segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Pietro Parolin. Sulla liturgia del rito gli esperti del protocollo sono ancora al lavoro, ma a avere l'ultima parola sarà, com' è giusto che sia, Francesco.

Sia oggi che domani, dalle 9 alle 19, il corpo di Joseph Ratzinger, rivestito con la mitra e i paramenti liturgici rossi (ma senza il pallio papale) e con un rosario fra le mani, resterà esposto alla venerazione dei fedeli. Dopo la cerimonia, funebre, Ratzinger, come da sua espressa richiesta, sarà sepolto nelle Grotte vaticane, nella tomba occupato da san Giovanni Paolo II, prima della traslazione nella parte superiore della Basilica dopo la canonizzazione. Per garantire la sicurezza dei funerali, sono al lavoro da ieri oltre mille agenti delle forze dell'ordine.

Vito Mancuso per “la Stampa” il 3 Gennaio 2023.

Il testamento spirituale di Joseph Ratzinger diffuso dopo la sua morte, ma composto nel 2006, è molto istruttivo per comprenderne l'anima, direi più precisamente la psiche, cioè quella dimensione interiore in cui il pensiero di un essere umano si mescola alle emozioni e crea quel coacervo di razionalità e di irrazionalità in cui ognuno di noi propriamente consiste.

 Il breve testo si divide in quattro parti: ringraziamenti, richiesta di perdono, esortazioni, richiesta di preghiera. Senza sminuire i ringraziamenti e le richieste, belle dal punto di vista umano ma prevedibili quanto ai ringraziamenti e convenzionali quanto alle richieste, la parte decisamente più interessante è la terza delle esortazioni a tutti i cattolici. Scrivendo egli sapeva che questo testo sarebbe stato letto all'indomani della sua morte con la massima attenzione da parte di tutti, il che significa che, se aveva un asso da giocare, era proprio quello il luogo per farlo. E infatti Ratzinger lo giocò.

Dapprima rivolto ai soli bavaresi: «Non lasciatevi distogliere dalla fede». Poi rivolto a tutti e rafforzando con due punti esclamativi l'invito: «Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere!». Ecco la sua più grande esortazione, l'obiettivo per cui spese la vita, il suo asso: la conservazione la fede. Prova ne sia che nel 2016, quando già da tre anni aveva rinunciato al papato, conversando con il giornalista tedesco Peter Seewald per quella che è stata la sua ultima pubblicazione intitolata proprio "Ultime conversazioni", affermerà: «Oggi l'importante è preservare la fede. Io considero questo il compito centrale».

Ma ora si faccia attenzione ai verbi usati: non lasciarsi distogliere, rimanere, non lasciarsi confondere, preservare. Chi parla così? Chi sente di essere al cospetto di una grave minaccia e ne ha paura. Il messaggio conclusivo e sintetico di Joseph Ratzinger, quindi, è nella sua essenza profonda un grido d'allarme. La sua ragione era quella di un uomo sicuro, ma la sua psiche, al contrario, quella di un uomo impaurito.

 Di cosa aveva paura? Lo si comprende dalle "Ultime conversazioni" quando afferma che oggi prevale «una cultura positivista e agnostica che si mostra sempre più intollerante verso il cristianesimo», con la conseguenza che «la società occidentale, in ogni caso in Europa, non sarà una società cristiana». Idea ribadita poco dopo: «La scristianizzazione dell'Europa progredisce, l'elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società».

Ma occorre proseguire l'analisi del testamento spirituale perché in esso Ratzinger entra ancor più nello specifico e mette in guardia i cattolici dal pericolo a suo avviso più minaccioso: «Spesso sembra che la scienza - le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l'esegesi della Sacra Scrittura) dall'altro - siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica». Il pericolo quindi è la scienza? Il testo parla di due forme di scienza: le scienze naturali e le scienze storico-bibliche.

 Per le prime alla domanda sollevata occorre rispondere di no: la scienza per Ratzinger non è un pericolo, lo sono semmai alcune «interpretazione filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza». Anzi, la pura scienza può risultare persino utile alla fede, perché «nel dialogo con le scienze naturali la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità». Immagino che qui Ratzinger pensasse al caso Galileo e al fatto che oggi un episodio del genere non è neppure lontanamente concepibile. Per la fede quindi le scienze naturali non sono un pericolo, anzi talora sono persino un aiuto.

Le cose stanno in modo diverso per le scienze bibliche, al cui riguardo ecco le precise parole di Ratzinger: «Sono ormai sessant' anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc...), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc...), la generazione marxista». Fa un certo effetto ritrovare in un testamento spirituale, accanto ai ringraziamenti più belli a Dio e ai familiari e alle richieste più intime di perdono e di preghiera, la menzione di scuole esegetiche con tanto di nomi.

Ma fa ancora più effetto non ritrovare nessuna parola di apprezzamento per le scienze bibliche, contrariamente a quanto avvenuto per le scienze naturali. Di esse Ratzinger dice solo di aver visto crollare tesi, quasi che nulla sia rimasto in piedi del lavoro svolto, per cui non rimarrebbe altro che affidarsi alla lettura tradizionale della Bibbia promossa dalla Chiesa per riscoprire sempre «la ragionevolezza della fede» e che «Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita».

 Le cose però non stanno per nulla così. Come le scienze naturali, anche le scienze bibliche hanno contribuito notevolmente ad approfondire e a purificare la fede mettendo in condizione di interpretare in modo adulto i testi biblici. Nel 2008, mentre papa Benedetto regnava, il cardinal Martini insigne studioso della Bibbia pubblicò un testo che fece scalpore, "Conversazioni notturne a Gerusalemme", dove giunse a parlare di vere e proprie scuole bibliche per «rendere indipendenti i cristiani» perché, a suo avviso, «ogni cristiano che vive con la Bibbia dovrebbe trovare risposte personali alle domande fondamentali».

Trovare risposte personali. Per Martini infatti la Chiesa deve essere più «un contesto che procura stimoli e supporto, che non un magistero da cui il cristiano dipende». La meta non è l'obbedienza alla Chiesa continuando a credere come si credeva nei secoli passati; è piuttosto la libertà della mente al fine di verificare in prima persona la «ragionevolezza della fede», nel caso purificarla, vivendo così la vita autentica di chi è se stesso e non un portavoce di pensieri altrui.

 La sfiducia di Ratzinger nei confronti delle scienze bibliche emerge in modo clamoroso nella sua opera su Gesù in tre volumi, dove per centinaia di pagine egli prescinde quasi totalmente dai secoli di esegesi scientifica sul testo dei Vangeli, evita le domande scomode e finisce per presentare una figura di Gesù ai limiti del devozionismo.

E se questo è un problema che riguarda solo lui e la statura scientifica di questo suo lavoro, quello che invece riguarda tutti è il modo con cui egli da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (carica mantenuta per 23 anni) esercitò il suo potere disciplinare contro quei biblisti e quei teologi che, come auspicava il cardinal Martini, pensavano in prima persona rielaborando la teologia. Mi riferisco alle decine e decine di teologi a cui venne tolta la cattedra, tra cui ricordo Leonardo Boff, José Maria Castillo, Charles Curran, Jacques Dupuis, Matthew Fox, Ion Sobrino e la condanna post mortem di Anthony De Mello.

La teologia della liberazione venne perseguitata in tutte le sue forme e il vescovo martire Oscar Romero dovette attendere papa Francesco per essere elevato agli onori degli altari. Come ho scritto all'inizio, il problema di Ratzinger è stato a mio avviso la paura. Lo si capisce dai verbi usati nel testamento spirituale tutti sulla difensiva. E dalla paura nasce l'aggressività. Egli è stato un uomo sinceramente devoto al suo Signore, il grande teologo francese Yves Congar nel suo diario del Concilio lo ricorda come «ragionevole, modesto, disinteressato, di buon animo», e io credo che egli sia stato proprio così. Ma la paura è sempre una cattiva consigliera.

Quelle intense parole di Ratzinger a Bari: «Non è facile essere cristiani». Benedetto XVI consumava in Puglia la sua prima visita pastorale dalla sua elezione (in aprile) a pontefice. Quindi gli occhi del mondo erano puntati su Bari: avrebbe il teologo, l’algido tedesco saputo infiammare le masse al pari del suo carismatico predecessore? Carmela Formicola su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Gennaio 2023

Il sole picchiava come un martello fin dalle 9 del mattino. Città blindata. L'immensa spianata di Marisabella, nell'area portuale, affollata di pellegrini fin dalla sera prima. Non era solo una grande attesa di fede, non solo l’intenso raduno di ogni Congresso eucaristico. C’era qualcosa di più in quella luminosissima mattina del 29 maggio 2005.

Benedetto XVI consumava in Puglia la sua prima visita pastorale dalla sua elezione (in aprile) a pontefice. Quindi gli occhi del mondo erano puntati su Bari: avrebbe il teologo, l’algido tedesco saputo infiammare le masse al pari del suo carismatico predecessore? («il mio venerato e amato Predecessore», avrebbe detto proprio quel giorno). E quali messaggi «politici» avrebbe consegnato?

Ratzinger fu accolto dalle classiche ali di folla assiepate oltre le transenne sul lungomare a nord della città. Il tragitto lo percorse sulla papamobile, auto che aveva fino a quel momento rifiutato in occasione delle sue poche uscite a Roma. Alla fine, fu il suo sorriso lieve a conquistare la gente, quella dolcezza del suo fare, la voce pacatissima. Non era Woytjla, ma il grande popolo cristiano che a Bari si era riversato (poco meno di 200mila persone) seppe subito capire papa Ratzinger.

E non mancarono i messaggi, pronunciati sul mastodontico palco allestito sull’ansa di Marisabella, simbolicamente spalancato sul mare Adriatico. «Neppure per noi è facile vivere da cristiani... Da un punto di vista spirituale, il mondo in cui ci troviamo, segnato spesso dal consumismo sfrenato, dall’indifferenza religiosa, da un secolarismo chiuso alla trascendenza, può apparire un deserto non meno aspro di quello "grande e spaventoso" di cui ci ha parlato la prima lettura». Per il Congresso eucaristico barese del 2005 non a caso era stato scelto uno slogan potente: «Senza la domenica non possiamo vivere», con il chiaro riferimento al senso profondo dell’eucaristia. Così Benedetto lanciò il suo messaggio: «Il Figlio di Dio, essendosi fatto carne, poteva diventare Pane, ed essere così nutrimento del suo popolo, di noi che siamo in cammino in questo mondo, verso la terra promessa del Cielo».

"Profondo cordoglio", "Ipocriti". Bufera sulla Sapienza che cacciò Ratzinger. Polemiche sui social per il post di cordoglio con cui La Sapienza ha ricordato Benedetto XVI. Nel 2008 alcuni professori dell'ateneo impedirono infatti al Papa di inaugurare l'anno accademico. Marco Leardi il 3 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Non tutti, per fortuna, hanno la memoria corta. Le proteste che impedirono a Benedetto XVI di entrare alla Sapienza nel 2008 ancora oggi sono una ferita aperta, un'onta difficile da cancellare. Le ostilità che alcuni professori e studenti progressisti riversarono contro l'allora Pontefice hanno infatti segnato una profonda spaccatura, mai del tutto sanata. Così, il cordoglio espresso nei giorni scorsi dall'ateneo romano per la scomparsa di Joseph Ratzinger ha scatenato una vera e propria bufera. Sui social, in particolare, in molti hanno rinfacciato all'Università di aver chiuso le porte in faccia al grande teologo tedesco, per di più in un luogo destinato alla cultura e al confronto delle idee.

Il cordoglio della Sapienza

A suscitare reazioni indignate è stato nello specifico un post firmato dall'attuale rettore Antonella Polimeni e rilanciato dallo stesso ateneo. "Esprimo profondo cordoglio per la scomparsa del Papa Emerito Benedetto XVI. Joseph Aloisius Ratzinger è stato un uomo di fede e di scienza, uno studioso che ha guidato la Chiesa con saggezza", ha scritto la dottoressa romana oggi alla guida dell'Università. Ma in tanti hanno contestato quelle sue parole, riferendosi proprio all'incidente avvenuto alla Sapienza quindici anni prima. Era il gennaio 2008 e, su richiesta del rettore dell'epoca, Renato Guarini, Ratzinger fu invitato a intervenire all'inaugurazione dell'anno accademico. La scelta però fu aspramente criticata da 67 docenti dell'ateneo e il clima ostile portò la Santa Sede a declinare l'invito.

Le polemiche per il post su Ratzinger

L'accaduto suscitò forti polemiche nel mondo politico, giornalistico e universitario. Comprensibilmente, apparve sin da subito inaudito che un Pontefice - peraltro finissimo intellettuale - non potesse esprimersi per le barricate di una chiassosa e ideologizzata frangia di critici. E ancora oggi l'episodio è fonte di polemiche e di recriminazioni. "Ipocriti. Fingete di commemorarlo da morto ma da vivo non lo facevate neanche parlare. Questo è il vostro livello, d'altronde", ha scritto ad esempio un utente nei commenti al post di cordoglio dell'Università. In tanti hanno protestato con argomentazioni analoghe, manifestando fastidio per quell'elogio post mortem segnato indirettamente dagli attriti del passato.

"Macchia indelebile, cordoglio ipocrita"

"Mi attendevo un più dignitoso silenzio, come contrappeso all'altrettanto silenzio subito da un gigante del pensiero", ha osservato un altro utente, Piero, riferendosi proprio all'impossibilità di Ratzinger di pronunciare la propria allocuzione. "Il fatto di non avere permesso a Papa Benedetto XVI di tenere la sua lectio magistralis rimarrà una macchia indelebile per l'università di Roma", ha rimarcato Marie, mentre altri hanno parlato di vera e propria "onta" destinata a rimanere "per sempre". "Almeno risparmiateci il cordoglio ipocrita, sono atea ma sentirvi mi fa venire la nausea", ha sentenziato Maria Grazia.

La frecciata al nobel Parisi

"L'università ha rifiutato il suo intervento defenestrandolo, con ragioni non certo culturali, dato che è indubbio il livello elevatissimo di ricercatore e studioso di Ratzinger. Cattivissimo gusto davvero", ha ricordato qualcun altro. E c'è anche chi, come Daniela, in tono polemico ha fatto allusioni al professor Giorgio Parisi, tra i sottoscrittorri della lettera anti-Ratzinger inviata al rettore dell'epoca. "Si poteva, ad esempio, chiedere scusa per l'oscurantismo di taluni professori (qualcuno poi pure 'insignito' di Nobel) che fecero i diavoli a quattro per dimostrare di non aver capito nulla del nome che porta questa università", si legge ancora nei commenti.

Francesco Antonio Grana per ilfattoquotidiano.it il 4 gennaio 2023.

Lutto non in Vaticano, ma in Italia, nel giorno del funerale del Papa emerito Benedetto XVI. Una nota di Palazzo Chigi afferma che “in occasione delle esequie solenni del Papa emerito Benedetto XVI, la Presidenza del Consiglio ha disposto per il 5 gennaio 2023 l’imbandieramento a mezz’asta delle bandiere nazionale ed europea sugli edifici pubblici dell’intero territorio nazionale”. 

Nessuna disposizione di questo genere è stata diramata, invece, nello Stato più piccolo del mondo, dove non è stato proclamato il lutto nel giorno in cui Papa Francesco presiederà i funerali del suo predecessore. Questo perché, spiegano nei sacri palazzi, in Vaticano il lutto è previsto solo con la morte del Pontefice regnante che apre il periodo della Sede Vacante, ovvero l’arco temporale che va dalla fine di un papato all’inizio del successivo con l’elezione del nuovo Papa in conclave.

In una circolare del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, si legge: “I dipendenti che desiderano partecipare alla cerimonia funebre non dovranno effettuare la timbratura di ingresso e potranno accedere in piazza San Pietro, dalle ore 6,30 fino ad esaurimento posti”.  

Gli uffici vaticani resteranno comunque aperti, mentre l’annona, il supermercato che si trova all’interno dello Stato, chiuderà soltanto durante il funerale. La conferma è arrivata anche dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni: “Domani in Vaticano tutti gli uffici resteranno regolarmente aperti, ma i dipendenti che lo vorranno potranno partecipare ai funerali, a patto però che il funzionamento di tutte le attività essenziali venga garantito”.

La disposizione del governo italiano stride con quanto deciso dal Vaticano e testimoniato fin dal momento della morte del Papa emerito. Tutti i passaggi che si sono svolti finora, dalla casa del defunto, il Monastero Mater Ecclesiae, alla Basilica Vaticana, sono stati, infatti, contraddistinti da una notevole sobrietà che ha rimarcato, con un linguaggio abbastanza eloquente, che non si tratta della morte del Papa regnante. 

Il corpo di Benedetto XVI, rivestito con i paramenti papali, ma senza alcun segno che indicasse la sua giurisdizione al momento della morte, è stato traslato nella Basilica Vaticana, all’alba del 2 gennaio 2023, in forma privata, su un semplice furgoncino. L’ingresso all’interno dell’edificio sacro è avvenuto attraverso la Porta della preghiera, un accesso laterale della Basilica di San Pietro, dove per tre giorni è stato esposto alla venerazione pubblica dei fedeli. 

All’interno dello Stato tutto è continuato a svolgersi regolarmente e l’agenda di Bergoglio non ha subito alcuna modifica. Nessun evento pubblico è stato annullato e nemmeno i tradizionali addobbi natalizi in Vaticano sono stati spenti. 

Oltre all’Italia, anche il Portogallo ha proclamato lutto nazionale nel giorno del funerale. Decisione presa dal presidente della Repubblica portoghese, Marcelo Rebelo de Sousa, che presenzierà alla messa esequiale di Ratzinger insieme con numerosi capi di Stato e di governo. 

La Segreteria di Stato vaticana ha precisato che la loro sarà una presenza “a titolo personale”, non essendo il funerale di un capo di Stato. Il protocollo, per quanto riguarda le delegazioni ufficiali, è stato ridotto all’essenziale, invitando soltanto l’Italia, rappresentata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e la Germania, rappresentata dal presidente Frank-Walter Steinmeier, che sarà accompagnato dal cancelliere Olaf Scholz. 

 Anche diversi Länder della Germania, paese natale di Benedetto XVI, esporranno le bandiere a mezz’asta in segno di lutto in occasione del funerale del Papa emerito. Durante le esequie, su disposizione della Conferenza episcopale tedesca, le campane delle chiese cattoliche di tutte le 27 diocesi del Paese suoneranno a martello.

(ANSA il 4 gennaio 2023) - Un Papa che celebra i funerali del suo predecessore: quanto accadrà domani a Piazza San Pietro con Francesco a presiedere le esequie di Benedetto XVI è stato presentato come un fatto inedito nella storia della Chiesa. Ma un Pontefice in carica che benedice la salma del predecessore prima della sepoltura è un fatto che ha invece un precedente. Lo scrive Vatican News.

 Accadde nel febbraio 1802, con i solenni funerali di Pio VI, celebrati nella basilica di San Pietro dal suo successore Pio VII. Il defunto, al secolo Giannangelo Braschi (Cesena 1717 - Valence 1799), eletto pontefice nel 1775, dopo un lungo regno morì in esilio in Francia, prigioniero di Napoleone.

 Le esequie si svolsero a Valence, subito dopo la morte, mentre i "novendiali" (i nove giorni di messe di suffragio prima dell'inizio delle votazioni in conclave) si tennero a Venezia, nella città in cui i cardinali si erano riuniti per eleggere il successore. Pio VII, eletto il 14 marzo 1800, volle riavere a Roma le spoglie del predecessore, che furono riesumate nel dicembre 1801 e viaggiarono da Valence a Marsiglia e di qui, via nave, verso Genova. Il 17 febbraio 1802 avvenne "il magnifico ingresso trionfale a Roma" e la solenne cerimonia funebre venne celebrata in San Pietro in presenza di Papa Pio VII.     

Funerali di Papa Ratzinger, tutto ciò che c'è da sapere: protocolli, trasporti, sicurezza. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.

Tutto pronto in Vaticano per le esequie di Benedetto XVI tra capi di stato e migliaia di fedeli

La cerimonia

Il funerale di Benedetto XVI sarà quello di un Pontefice regnante, piuttosto che di un Papa emerito. Nonostante la richiesta di semplicità espressa dallo stesso Ratzinger, per la cerimonia di giovedì 5 gennaio si moltiplicano le adesioni di potenti e leader di tutto il mondo, l’apparato di sicurezza diventa sempre più complesso e dettagliato come quello mediatico, con oltre 600 giornalisti accreditati, e il protocollo vaticano tende ormai a ricalcare quello ufficiale delle esequie papali. 

Il protocollo modificato

Le modifiche già effettuate sul rigido e complesso protocollo dei funerali papali hanno riguardato per esempio la mancata processione del feretro dal Palazzo Apostolico, dove peraltro Benedetto non viveva più dal 2013, quando annunciò le sue dimissioni, con tutti i cardinali a seguirlo in preghiera. Questa volta non ci sarà un conclave (dal latino cum clavis, cioè un luogo, da secoli la Cappella Sistina, chiuso a chiave, dove i cardinali possono eleggere il nuovo Pontefice senza influenze esterne).

L'Anello del Pescatore, i Novendiali

Anche l’Anello del Pescatore (o Piscatorio), il simbolo dell’apostolo Pietro consegnato a ogni Papa (e realizzato espressamente per lui) durante la Messa solenne di inizio pontificato e che viene rotto alla sua morte, nel caso di Benedetto fu spezzato il giorno delle dimissioni ufficiali, insieme ai suoi sigilli. E non sono stati celebrati nemmeno i Novendiali, i 9 giorni di lutto e Messe in suffragio in San Pietro. Mancherà anche la supplica finale della diocesi di Roma e delle Chiese Orientali al momento dell’Ultima Commendatio e della Valedictio.

La medaglia e le monete, il pallio e il rogito

Però nella bara di cipresso di Benedetto verranno posti la medaglia e le monete coniate durante il suo regno, il pallio, ovvero la stola bianca che per il Papa viene confezionata con la lana di due agnelli dei monaci trappisti delle Tre Fontane e tessuta, almeno nella tradizione, dalle monache di clausura di Santa Cecilia in Trastevere. Nella bara sarà poggiato anche, chiuso in un tubo metallico, il rogito, cioè un breve riassunto del Pontificato.

Gli ospiti illustri, da Sofia ai reali del Belgio (e c'è anche l'Imam)

I potenti della Terra si mobilitano per salutare Benedetto: ieri il premier ungherese Viktor Orban e la moglie Aniko Levai si sono fermati a pregare davanti al catafalco del Papa, come il presidente del Senato, Ignazio La Russa e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Davanti al corpo del Papa emerito si è inginocchiato anche il cardinal Stanislaw Dziwisz, storico segretario di papa Wojtyla. Presente anche l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, con la moglie Diana. Oggi, in rappresentanza del Parlamento Europeo a rendere omaggio a Benedetto ci sarà la vicepresidente Pina Picierno. Domani, oltre al presidente italiano Sergio Mattarella ci saranno anche il suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier, il cancelliere Olaf Scholz e il primo ministro della Baviera, Markus Soeder, accompagnati da una nutrita delegazione anche bavarese, il re e la regina del Belgio, Filippo e Mathilde, la regina madre di Spagna, Sofia, col ministro per la presidenza spagnola Félix Bolaños e il cardinale Juan José Omella, presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, il presidente polacco Andrzej Duda e quello portoghese Marcelo Rebelo de Sousa e una delegazione del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli. Ha fatto sapere che sarà presente anche l'Imam Yahya Pallavicini, vicepresidente Coresi, Comunità Religiosa islamica italiana.

Il precedente

Un Papa che celebra i funerali del suo predecessore: quanto accadrà domani a Piazza San Pietro con Francesco a presiedere le esequie di Benedetto XVI è stato presentato come un fatto inedito nella storia della Chiesa. Ma un Pontefice in carica che benedice la salma del predecessore prima della sepoltura è un fatto che ha invece un precedente. Lo scrive Vatican News. Accadde nel febbraio 1802, con i solenni funerali di Pio VI, celebrati dal suo successore Pio VII.

Il piano sicurezza

Sono più di 60mila le persone attese nella Capitale per i funerali del Papa emerito Benedetto XVI tra capi di stato e fedeli. L’affluenza stimata va oltre le previsioni iniziali e ha comportato una riorganizzazione dei piani di sicurezza e dei servizi per la mobilità. La “No fly zone”, l’area in cui sarà interdetto il volo, avrà un raggio più ampio della sola piazza San Pietro. Saranno intensificate, con 300 unità aggiuntive, le forze dell’ordine in servizio per un totale di oltre mille uomini e donne in campo che contano sulla collaborazione della polizia locale capitolina e la Gendarmeria vaticana. Dalle 24 del 4 gennaio e sino alle 14 del 5 gennaio vige il divieto di vendita per asporto e trasporto di contenitori in vetro, previsto dall'ordinanza emanata dal prefetto Frattasi.

Come arrivare a San Pietro

L’Atac, azienda capitolina per il trasporto pubblico, potenzierà le corse di metropolitane, bus e tram. A essere maggiormente interessata dai flussi sarà la linea A della metropolitana, con le fermate Ottaviano, Cipro e Lepanto che lambiscono il quartiere Prati e il Vaticano. Sulla Metro A sono previsti 25 treni, rispetto ai 22 del servizio ordinario dei giorni feriali, e che diventeranno 28 in occasione delle esequie. Le linee bus 64 e 40, che collegano Termini e San Pietro e Termini con Borgo Sant'Angelo, si moltiplicano: si passa da 9 a 12 mezzi per il 40 e da 15 a 20 per il 64. Previste due aree di scambio, una ad Anagnina e una a Laurentina, per far sì le persone che si muovono con mezzi propri possano parcheggiare lontano da San Pietro.

La zona rossa «blindata»

Dalla mezzanotte di oggi, mercoledì, e fino alle 14 di giovedì, l'area attorno San Pietro sarà zona rossa, come disposto sempre dall'ordinanza prefettizia. L'accesso all'area sarà consentito solo attraverso i varchi presidiati dalle forze dell'ordine. L'area di rispetto disposta dall'ordinanza della Prefettura è quella compresa tra piazza del Santo Uffizio, via Paolo VI, largo degli Alicorni, piazza Pio XII, Borgo Santo Spirito, via della Conciliazione (comprese le complanari) fino a via Traspontina, largo del Colonnato, via dei Corridori, piazza della Città Leonina, Borgo pio da via del Mascherino a via di Porta Angelica, via di Porta Angelica fino a piazza Risorgimento.

La messa esequiale

Papa Francesco presiederà la messa esequiale per Benedetto XVI sul sagrato della basilica di San Pietro alle ore 9.30 del mattino e celebrerà l'omelia. Al termine della funzione avranno luogo l'Ultima Commendatio e la Valedictio. Il feretro del Pontefice emerito sarà portato all'interno della basilica e quindi nelle Grotte Vaticane per la tumulazione.

Funerali di Ratzinger: in 100 mila per dirgli addio fra capi di Stato, politici e fedeli da tutto il mondo. Ester Palma su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.

Sarà il decano dei cardinali Giovanni Battista Re a celebrare la Messa funebre, Francesco farà l'omelia e i riti di commiato finali, con oltre 3.700 sacerdoti. In quasi 200 mila hanno salutato il Papa emerito in San Pietro

Saranno centomila, almeno, ai funerali di papa Ratzinger. Forse anche di più. Oltre ai 200 mila che in questi 3 giorni hanno sfilato, aspettato in coda, pregato, pianto e persino chiesto grazie davanti al corpo esile e rivestito con la casula rossa e la mitra di Benedetto XVI poggiato sul catafalco ai piedi dell’altare maggiore di San Pietro. Oggi il popolo di papa Ratzinger lo saluterà per l’ultima volta, con la Messa funebre solenne delle 9,30 affidata al cardinale decano Giovanni Battista Re, mentre Papa Francesco terrà solo l’omelia e i riti di commiato finali. A concelebrare ci saranno oltre 120 cardinali, più di 400 vescovi e 3.700 sacerdoti. Proprio la presenza così massiccia dei fedeli è stata la vera sorpresa di questi giorni. Secondo le previsioni doveva essere un funerale in tono minore, quello di un Papa dimissionario e che viveva isolato ormai da quasi 10 anni, non molto versato nella comunicazione e spesso considerato troppo intellettuale per piacere davvero alla sua gente. Che invece in questi giorni gli ha dimostrato un affetto profondo e sincero: in tantissimi sono partiti per Roma dall’Italia e dal resto del mondo per vederlo l’ultima volta e partecipare ai funerali. 

Sulla piazza è tutto pronto da ieri, compresa l’enorme immagine della Resurrezione di Cristo appesa alla facciata della basilica e sono stati ultimati in fretta anche i lavori per l’allestimento della tomba di Joseph Aloisius Ratzinger, nella terra delle Grotte Vaticane, quella occupata dal corpo di Giovanni Paolo II prima della canonizzazione e del trasferimento nella parte superiore della Basilica. La pietra tombale di Wojtyla non c’è più dal 2014: fu rimossa intatta per essere inviata a Cracovia e collocata in una chiesa dedicata a lui. A vegliare sulle spoglie del Papa emerito c’è il bassorilievo di una Madonna con bambino, ma Ratzinger ha lasciato detto di non volere alcun monumento funebre. Ieri le ultime visite «eccellenti», dalla delegazione della Cei, guidata dal cardinale Matteo Zuppi e dal segretario generale monsignor Giuseppe Baturi e composta da 150 persone in rappresentanza di direttori, responsabili e personale degli Uffici, dei Servizi e degli Organismi collegati alla Conferenza episcopale italiana. Poi il presidente della Camera Lorenzo Fontana e il ministro della Difesa, Guido Crosetto. 

Oggi ci saranno certamente il capo dello Stato, Sergio Mattarella (accompagnato dalla figlia Laura e dal segretario generale alla presidenza Ugo Zampetti) i presidenti di Senato e Camera, La Russa e Fontana, il vicepremier Antonio Tajani. Ci sarà anche l’ex premier Mario Draghi, le cui dimissioni lo scorso luglio vennero commentate con rammarico da Benedetto («nessuno può dire che non fosse un uomo di alta qualità internazionale») e altri politici. E poi le presenze internazionali: la delegazione ufficiale tedesca, col presidente Frank -Walter Steinmeier, e il premier Olaf Scholz, i reali del Belgio Filippo e Mathilde, e la Regina madre di Spagna Sofia. La lista diffusa dalla Santa Sede (aggiornabile fino all’ultimo perché non si tratta di funerali di Stato e quindi i leader parteciperanno a titolo personale) comprende anche i presidenti della Lituania, Gitanas Nauseda; Polonia, Andrej Duda; Portogallo, Marcelo Rebelo de Sousa, che ha firmato un’ordinanza per istituire per oggi un giorno di lutto nazionale, San Marino, coi Capitani Reggenti Luisa Berti e Manuel Ciavatta; Slovenia, con Natasa Pirc Musar; Togo, con Faure Essozinma Gnassingbe, e Ungheria, con la presidente Katalin Novak. Il premier Viktor Orban e la moglie avevano visitato il feretro nei giorni scorsi. E ancora i premier della Repubblica Ceca (Petr Fiala), Gabon (Rose Christiane Ossouka Raponda), Slovacchia (Eduard Heger), e il Luogotenente di Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta Fra John T. Dunlap, 5 ministri di Cipro, uno dalla Colombia, Croazia, Francia, e Gran Bretagna. Oltre a una delegazione della comunità ebraica di Roma e per i musulmani il presidente dell'Ucoi Yassine Lafram e il vicepresidente della Coreis Yahya Pallavicini.

Ieri qualche polemica era stata suscitata dall’intervista rilasciata da padre Georg Gaenswein al quotidiano tedesco «Die Tagespot». Parlando del Motu Proprio « Traditionis custodes» del luglio 2021, con cui Francesco ha imposto una stretta alle messe tradizionali in latino, permesse invece da Ratzinger nel 2007 nel suo «Summorum Pontificum», ha detto: «Quello è stato un punto di svolta. Credo che quell’atto abbia spezzato il cuore di Benedetto».

Benedetto XVI, i funerali di papa Ratzinger in diretta | Papa Francesco: «Grati per la sua sapienza e dedizione». Paolo Conti, Ester Palma, Virginia Piccolillo, Fabrizio Roncone e Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 5 gennaio 2023.

Alle 9.30 iniziano i funerali di Benedetto XVI.

In piazza per i funerali circa 50mila persone.

Rispetto al protocollo tradizionale, alcune variazioni: non è prevista la processione dal Palazzo Apostolico né un conclave.

Per Papa Francesco inizia ora la «fase due» del Pontificato.

Il testo del «Rogito» inserito nella bara di Benedetto XVI: che cos’è e che significato ha.

L’omelia di Francesco: «Noi grati alla dedizione e alla delicatezza di Ratzinger. La sua gioia sia perfetta».

Ore 07:38 - Parolin: «Ha fallito chi pensava di approfittare dei due Papi per creare confusione»

(di Gian Guido Vecchi) «La contingenza storica che ha visto convivere nello stesso tempo due Successori di Pietro ha configurato per la Chiesa una situazione istituzionale inedita, che poteva anche essere delicata. Qualcuno magari ha pensato di approfittarne, e magari ci ha anche provato, per spargere confusione. Ma non è riuscito nel suo intento...». Il cardinale Pietro Parolin, 67 anni, segretario di Stato vaticano, racconta di questi anni unici nella storia della Chiesa.

Perché chi voleva creare confusione non ci è riuscito, eminenza? «Per la fede del Papa e del Papa emerito e per le preghiere del Popolo di Dio, che li ha sempre abbracciati e sostenuti tutti e due. La fede del Popolo di Dio è sempre connotata da un affetto istintivo nei confronti del Successore di Pietro. Fa parte di quello che la Chiesa riconosce come il sensus fidei, l’istinto della fede, di cui tanto ci ha parlato Joseph Ratzinger e continua a parlarci papa Francesco. Ricordo che il cardinale Joseph Ratzinger riconosceva quella che lui definiva la “funzione davvero democratica” del Magistero ecclesiale, chiamato a volte anche a proteggere tutti i battezzati dalle operazioni di parte».

Ore 07:38 - Parolin: «Ha fallito chi pensava di approfittare dei due Papi per creare confusione»

(di Gian Guido Vecchi) «La contingenza storica che ha visto convivere nello stesso tempo due Successori di Pietro ha configurato per la Chiesa una situazione istituzionale inedita, che poteva anche essere delicata. Qualcuno magari ha pensato di approfittarne, e magari ci ha anche provato, per spargere confusione. Ma non è riuscito nel suo intento...». Il cardinale Pietro Parolin, 67 anni, segretario di Stato vaticano, racconta di questi anni unici nella storia della Chiesa.

Perché chi voleva creare confusione non ci è riuscito, eminenza? «Per la fede del Papa e del Papa emerito e per le preghiere del Popolo di Dio, che li ha sempre abbracciati e sostenuti tutti e due. La fede del Popolo di Dio è sempre connotata da un affetto istintivo nei confronti del Successore di Pietro. Fa parte di quello che la Chiesa riconosce come il sensus fidei, l’istinto della fede, di cui tanto ci ha parlato Joseph Ratzinger e continua a parlarci papa Francesco. Ricordo che il cardinale Joseph Ratzinger riconosceva quella che lui definiva la “funzione davvero democratica” del Magistero ecclesiale, chiamato a volte anche a proteggere tutti i battezzati dalle operazioni di parte».

Ore 07:47 - Il libro di padre Georg sulla vita di Ratzinger: il racconto dell’ultimo giorno del pontificato

(di padre Georg Gänswein) L’ultimo giorno del pontificato l’ho vissuto quasi in apnea. Al mattino, nella sala Clementina, ci fu l’incontro di Benedetto con i cardinali presenti a Roma. Era stato un suo vivo desiderio poter dare loro un saluto di congedo collettivo e la scelta di prorogare al 28 febbraio la permanenza sulla Cattedra di Pietro aveva tenuto conto anche della necessità di consentire ai più lontani il tempo per sistemare le cose in diocesi prima di raggiungere Roma. «Per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce della presenza del Signore risorto. La vostra vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero», furono le grate parole pronunciate da Papa Ratzinger. […]

Nel pomeriggio, mentre le Memores si erano già recate a Castel Gandolfo, con don Alfred controllammo che nell’Appartamento pontificio fosse tutto in ordine. Poco prima delle 17, demmo con Benedetto un ultimo sguardo a quelle stanze e quindi scendemmo con l’ascensore Nobile. Fu un addio, devo riconoscerlo, che mi fece soffrire e mi colpì nell’intimo, al punto che non potei far altro che lasciar libero corso alle lacrime. Al piano terra c’erano i due cardinali vicari per la diocesi di Roma e per la Città del Vaticano, Agostino Vallini, che si accorse del mio turbamento e cercò di confortarmi, e Angelo Comastri, che disse a Benedetto di aver pianto, ricevendo come risposta un tranquillizzante: «Un Papa va e un Papa viene, l’importante è che Cristo c’è». In attesa per un saluto, nel cortile di San Damaso, c’erano i responsabili della Segreteria di Stato e altri fra i principali collaboratori del Pontefice, mentre la Guardia svizzera era schierata con il picchetto d’onore. Ma tutt’intorno si erano radunati moltissimi dipendenti vaticani, che con un intenso applauso espressero il loro affetto. Poi tutto si svolse molto rapidamente, mentre sull’account @Pontifex di Twitter, inaugurato nel dicembre del 2012, compariva il suo ultimo messaggio: «Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita».

Ore 07:47 - Piazza San Pietro inizia a riempirsi di fedeli

(di Fabrizio Roncone) Il colpo d’occhio su piazza San Pietro, che inizia a riempirsi sotto un cielo basso, nebbioso, nelle luci giallognole dei lampioni: folla di fedeli, suore che recitano il rosario, colf straniere, preti, turisti in vacanza che si sono ritrovati dentro un evento mondiale, boy-scout, crocerossine in divisa. Transenne, metal-detector, spaventoso spiegamento di polizia e carabinieri, i cecchini già appostati sul colonnato del Bernini. E poi: ecco i cardinali che sfilano diretti all’interno della Basilica insieme a donne vestite di nero, con cappelli neri come le veline. Guardie svizzere in alta uniforme. L’altare, laggiù, sul sagrato dove, alle 9, giungerà il feretro del Papa emerito Benedetto XVI.

Ore 07:50 - Un pezzo di Baviera a San Pietro: la banda con strumenti e vessilli

(di Paolo Conti) Ore 7, via delle Fornaci (che collega a san Pietro l’area di villa Pamphilj e del quartiere Gianicolense) diventa un pezzo di Baviera. Tre pullman fanno sbarcare un gruppo compatto di componenti di una banda musicale con vessilli bianco/celesti (il vessillo della Baviera), i caratteristici cappelli piumati, le giubbe di pelle per gli uomini e le gonne ampie e fiorate per le donne. Si mettono in fila e ricevono ordini secchi, di sapore militare. I romani che abitano lì si affacciano incuriositi, a Roma si vede di tutto ma questo è uno spettacolo insolito. Poi un grido e la banda parte con gli ottoni in prima fila. Però anche loro devono superare i controlli di sicurezza. Tromboni e pifferi inclusi.

Ore 08:09 - La Russa ha l’influenza, per il Senato ci sarà Gasparri

A causa di un «leggero stato influenzale» il Presidente del Senato Ignazio La Russa «non parteciperà ai funerali di Papa Benedetto XVI. Il Senato sarà rappresentato dal vicepresidente Maurizio Gasparri». Lo comunica la presidenza del Senato.

Ore 08:21 - Nebbia a Roma, in Vaticano dall’alba. «È stato il Papa della mia infanzia»

(di Ester Palma) Il giorno dei solenni funerali di Benedetto XVI Roma si sveglia sotto una fitta nebbia. Ma il popolo di papa Ratzinger è lì, molti da prima dell’alba: «È stato il Papa della mia infanzia, mia nonna me lo faceva vedere sempre in tv. Ora lei non c’è più e io sono qui anche per lei», racconta Martina Chiari, 22 anni, partita da Firenze apposta con due amiche.

Ore 08:29 - Alemanno: «Sono venuto a salutare un Santo»

«Sono venuto a salutare un Papa che sentivo amico quando lo incontravo da Sindaco e che oggi percepisco già come un Santo». Sono le parole di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma e portavoce del comitato «Fermare la Guerra», all’Agi mentre entra in una piazza San Pietro già piena di fedeli per i funerali.

Ore 08:31 - Tra poco comincia il trasporto del feretro, rosario alle 8:45

(di Fabrizio Roncone) Dal portone della basilica ha fatto capolino il cardinale decano Giovanni Battista Re, che celebrerà la messa funebre (Papa Francesco terrà solo l’omelia e i riti di commiato finali): sul sagrato, ai lati dell’altare, nei posti riservati, affluiscono le delegazioni straniere, autorità politiche (Pier Ferdinando Casini accolto come un cardinale emerito), gli ultimi rappresentanti della nobiltà papalina romana. Con Battista Re, concelebreranno altri 120 cardinali, 400 vescovi, 3700 sacerdoti. Due chierichetti portano l’ultimo enorme candelabro. Non ci sono fiori. Dagli altoparlanti, i canti sacri del coro della Sistina. Tra pochi minuti comincerà il trasporto del feretro del Papa emerito, che giungerà così sul sagrato. Alle 8:45, è previsto l’inizio del rosario che precede la cerimonia funebre.

Ore 08:36 - Chiacchiere in attesa del rosario: Sangiuliano e Crosetto

(di Fabrizio Roncone) Chiacchiere in attesa del Rosario. Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano racconta a Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai, di quando faceva il 12% di ascolti con il suo Tg2. Poi si sincera che una delle poltroncine rosse sia riservata anche a lui. Piccolo parapiglia: due rappresentanti della delegazione polacca su sono seduti sulle sedie riservate a due ufficiali della nostra Marina (chicchissimi, con il mantello blu). Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, con lo zuccotto blu tipo incursore. In effetti: umidità notevole, nebbia persistente e inconsueta.

Ore 08:39 - Bottiglie vietate in pazza San Pietro

(di Ester Palma) Non passano nemmeno le bottigliette di profumo ai controlli per entrare (a fatica). «Possono essere pericolose», spiega la volontaria della Protezione civile al varco vicino piazza della Città Leonina, nei pressi della casa di Ratzinger da cardinale. Qualcuno si stupisce, ma non protesta nemmeno il ragazzo francese cui viene strappato dalle mani e buttato nel secchio un flacone mezzo pieno.

Ore 08:40 - «Siamo qui dalle 5 del mattino»

(di Ester Palma) »Siamo qui dalle 5, flusso costante e regolare, alle 6 già c’era gente. Abbiamo visto una decina di ragazzi che dormivano all’inizio di via della Conciliazione, col sacco a pelo», spiega Luca, contabile nella vita e volontario della protezione civile. All’ingresso del colonnato i suoi colleghi distribuiscono cartoline con papa Ratzinger sorridente.

Ore 08:41 - I settore dei sacerdoti

(di Paolo Conti) Nel settore di sinistra, guardando la Basilica di san Pietro, una macchia bianca. Sono le centinaia di sacerdoti con cotta (la veste liturgica) e la stola rossa che concelebreranno la messa, occorre un passi speciale per il comparto. Vengono dai tanti istituti religiosi romani, dalle università cattoliche, dai seminari e sono di innumerevoli nazionalità.

Ore 08:51 - Il libretto della messa

(di Gian Guido Vecchi) Sulla copertina del libretto della Messa distribuito ai fedeli, l’immagine drammatica della Deposizione di Caravaggio, Cristo che sta per essere seppellito dopo l’agonia.

Alle 8:50 la bara di papa Ratzinger esce sul sagrato, dalla folla parte un applauso forte.

Ore 09:21 - La nebbia si dissolve

Ore 08:52 - La bara di cipresso è sul sagrato

(di Paolo Conti ) La pesante nebbia del mattino si sta dissolvendo. La Cupola ora giganteggia come sempre le cielo romano che sta tornando azzurro. Il solito spettacolo di una città unica al mondo. Una terribile umidità ha infradiciato la piazza e reso scivolosi i sampietrini.

Ore 08:54 - Padre Georg bacia la bara

Ore 08:57 - Giorgetti con il rosario

(di Virginia Piccolillo) Nella delegazione del governo, accanto al ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida anche il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, con un rosario in mano.

Ore 08:59 - Arriva Mattarella

(di Gian Guido Vecchi) È appena passata l’auto del Presidente Sergio Mattarella che sta raggiungendo piazza San Pietro.

Ore 09:13 - Meloni in prima fila accanto a Mattarella

(di Virginia Piccolillo) La premier Giorgia Meloni siede in prima fila tra il capo dello Stato Sergio Mattarella e i reali del Belgio, Filippo e Mathilde.

Ore 09:16 - Il Salve Regina in latino

(di Ester Palma) Alle 9:13 parte il Salve Regina in latino, canta anche la piazza.

Ore 09:18 - I fedeli in piazza: «Santo subito»

«Santo subito»: è quanto si legge in un cartello esposta da una delle tante fedeli presenti in piazza San Pietro. Ci sono molte le bandiere tedesche e polacche, molti i fedeli arrivati dalla Baviera in costume tipico bavarese.

Ore 09:22 - «Arriviamo da Strasburgo»

(di Ester Palma) «Siamo partiti, mio marito e io, martedì da Strasburgo, dove viviamo - racconta Aurelie Feix- Arnold, 38 anni - Ieri siamo stati a visitare la salma di Benedetto e a sentire la Messa in basilica. Lui è stato molto importante per me. Ho studiato Teologia a Tubinga, dove ha insegnato, molti anni prima ma il suo ricordo era ancora molto forte. E ero alla GMG di Colonia, la sua prima uscita all’estero, un’esperienza indimenticabile. Di lui mi piacevano la semplicità e l’umiltà, era davvero un grande».

Ore 09:25 - Papa Francesco in piazza per i funerali

Papa Francesco è arrivato in sedia a rotelle a Piazza San Pietro dove presiederà la celebrazione dei funerali di Benedetto XVI.

Ore 09:30 - Inizia la celebrazione

Inizia la celebrazione con Papa Francesco che si fa il segno della croce. Poi il mea culpa in latino. Il pontefice è in piedi. Segue il canto del Kyrie eleison.

Ore 09:36 - Presenti anche i patriarchi di Iraq e Libano

Ci sono anche diversi patriarchi orientali in piazza San Pietro. Tra loro Louis Raphael Sako da Baghdad e Bechara Rai da Beirut.

Ore 09:39 - La famiglia di Cardiff con sei figli

(di Ester Palma) In piazza ci sono molti bambini, anche piccoli. Lucy e Paul, 39 e 41 anni, sono venuti da Cardiff, Inghilterra, con i loro 6 figli, che hanno da 3 a 13 anni: «Io sono irlandese — sorride lei — ci siamo conosciuti alla Gmg di Colonia, papa Benedetto l’abbiamo sempre sentito come una specie di protettore della nostra famiglia. Non potevamo non esserci».

Ore 09:42 - Cosa c’è scritto nel «Rogito» messo dentro la bara

(di Gian Guido Vecchi) Nel «Rogito», il testo in latino custodito in un cilindro di metallo che ricorda i tratti salienti della vita e del ministero del Papa emerito ed è stato messo dentro la bara di Benedetto XVI, si legge tra l’altro: «Lottò con fermezza contro i crimini commessi da rappresentanti del clero contro minori o persone vulnerabili, richiamando continuamente la Chiesa alla conversione, alla preghiera, alla penitenza e alla purificazione».

Ore 09:50 - Un mini asilo durante l’addio

(di Paolo Conti) Sulla sinistra della piazza, sugli scalini del colonnato, due bambini compilano libretti con i rudimenti dell’alfabeto: la S di squalo, la T di trattore, la U di uovo. Poi corrono intorno alla fontana. I genitori accanto a loro pregano seguendo la messa sul maxischermo. Un mini asilo nido nel cuore di San Pietro, durante l’addio a Benedetto XVI.

Ore 09:51 - L’omelia di Papa Francesco: «Che la tua gioia sia perfetta nell’udire la voce del Signore»

«Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marco’ la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita». Così Papa Francesco nell’omelia della messa esequiale per il Pontefice Emerito Benedetto XVI. «Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la voce del Signore», ha aggiunto.

«Siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni». E ancora: «È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore».

Ore 10:00 - Bandiere a mezz’asta in tutti gli edifici pubblici

Bandiere a mezz’asta al ministero della Giustizia di via Arenula e in tutti gli edifici pubblici. La decisione, in omaggio al Papa emerito Benedetto XVI, nel giorno della celebrazione dei funerali solenni nella basilica di San Pietro. Anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, partecipa alle esequie.

Ore 10:15 - Il ritratto in bianco e nero

(di Paolo Conti) Il fotografo e artista Marco Delogu, oggi alla Guida del Palazzo delle Esposizioni di Roma, ricorda quando nel 1998 Jospeh Ratzinger, ai tempi Prefetto per la Congregazione della Fede, gli concesse mezz’ora per la sua galleria di ritratti di Cardinali poi uscita per Bruno Mondadori. Ecco lo sguardo vivo e penetrante del futuro Benedetto XVI nel nitido bianco/nero di Delogu.

Ore 10:19 - Anche Mario Draghi ai funerali

Anche Mario Draghi è presente sul sagrato di San Pietro per i funerali di Benedetto XVI. L’ex presidente del Consiglio si è seduto nel settore della delegazione italiana. In quella tedesca è presente anche il cancelliere Olaf Scholz. Presenti anche il re del Belgio, Filippo e il presidente del Portogallo, Marcelo Rebelo de Sousa.

Ore 10:20 - Il gruppo dalla Corea

(di Ester Palma) Sono 12 («Come gli apostoli», ridono) e vengono da Seul, Corea del Sud, un gruppo di amici e colleghi che aveva deciso di regalarsi una vacanza romana. «Per stamattina avevamo prenotato un tour dei Fori imperiali. Ma l’abbiamo saltato, volevamo tutti essere qui in piazza per salutare Benedetto, anche i sette di noi che non sono cattolici».

Ore 10:28 - Il cardinale Re prosegue la liturgia eucaristica

Dopo la prima parte della Messa, ora la celebrazione nella sua liturgia eucaristica, vede sull’altare il cardinale Giovanni Battista Re per evitare che Francesco si affatichi, considerato che in questa parte della liturgia il celebrante è in piedi e al momento della consacrazione in ginocchio.

Ore 10:32 - Tra le 45 e le 50mila persone in piazza San Pietro

A quanto si apprende, sono tra le 45 e le 50mila le persone presenti in piazza San Pietro per i funerali del Papa Emerito Benedetto XVI. Mentre al centro la piazza appare gremita ai due lati diversi spazi vuoti.

Ore 10:37 - Scambio del segno di pace tra i fedeli

Ore 10:39 - Il cardinale Re benedice il feretro

Ore 10:46 - Tra poco la traslazione del feretro nelle grotte vaticane

I funerali di Benedetto XVI si avviano alla conclusione. Ora ci sono l’«ultima commendatio et valedictio», il momento liturgico del «commiato» con le quali il Papa emerito è affidato a Dio. Tra poco la traslazione del feretro nelle grotte vaticane, la cripta sotto la Basilica di San Pietro che contiene le spoglie di oltre 90 papi. Sarà tumulato nella nicchia appartenuta a Giovanni Paolo II.

Ore 10:49 - La fine della Messa tra gli applausi

(di Ester Palma) Alle 10:45 un applauso della piazza saluta la fine della Messa.

Ore 10:49 - Le campane a morto

(di Ester Palma) Le campane a morto e un altro grande applauso salutano il feretro di papa Benedetto che rientra in san Pietro per la sepoltura.

Ore 10:49 - Grande commozione

(di Virginia Piccolillo) Grande la commozione durante il Magnificat che ha concluso la celebrazione, di monsignor Georg Gaeswein e delle quattro Memores Domini che costituivano la “famiglia” del Papa emerito, o, come la chiamava lui la Casa.

Ore 10:52 - Il feretro lascia la piazza, la benedizione di Papa Francesco

(di Gian Guido Vecchi) Papa Francesco attende in piedi, appoggiato a un bastone, il passaggio della bara di Benedetto XVI che viene portata nelle grotte sotto la Basilica di San Pietro. Traccia il segno della croce, posa la mano destra sul feretro e resta con il capo chino e gli occhi chiusi in preghiera, poi si mette la mano sul cuore.

Ore 11:11 - Gli oggetti sequestrati ora vendono restituiti

(di Paolo Conti) Bottiglie, ombrelli e anche stendardi ritirati dai servizi di sicurezza all’ingresso della piazza e ora restituiti ai legittimi proprietari all’uscita. Ci sono anche seggiolini pieghevoli, binocoli, borracce e bottiglie di plastica. Tutti oggetti potenzialmente pericolosi.

Ore 11:12 - La commozione di un tedesco: «È come fosse morto mio padre»

(di Ester Palma) Peter, 26 anni, tedesco di Bonn, piange abbracciato alla fidanzata Margaretha: «Mi scusi, non riesco a parlare, per noi è come se fosse morto nostro padre».

Ore 11:15 - Il sacerdote canadese

(di Ester Palma) «Vivo a Roma dove studio teologia dogmatica alla Gregoriana, ma sono canadese — racconta Favin Alemao, sacerdote 34enne —. Ero a Toronto, a casa, per le vacanze. Ma sono tornato prima, ci tenevo a concelebrare per papa Benedetto, grande uomo e grande Pontefice».

Ore 11:35 - Regolare il deflusso dei fedeli, ai funerali tanti bambini

Stanno a poco a poco lasciando piazza San Pietro i fedeli che hanno assistito ai funerali di Joseph Ratzinger, il Papa Emerito Benedetto XVI. Tra i tanti religiosi e i fedeli molti stranieri e famiglie con bambini che hanno sfidato anche il freddo per rendere l’ultimo saluto a Ratzinger.

Ore 12:15 - Ai funerali 3.700 sacerdoti da tutto il mondo e 50 mila fedeli

(Carlotta De Leo) Per le solenni esequie di Benedetto XVI in piazza San Pietro sono presenti 120 cardinali, 400 vescovi e circa 3.700 sacerdoti di tutto il mondo. Ad assistere alla cerimonia, 50 mila fedeli (che si aggiungono ai 165 mila dei giorni scorsi per l’esposizione della salma). In prima fila le delegazioni ufficiali guidate dal Presidente Sergio Mattarella e da quello tedesco Frank-Walter Steinmeier, insieme ai rappresentanti di case reali, governi e istituzioni internazionali.

Ore 12:22 - Piazza San Pietro chiusa e vuota, riaprirà alle 16.30

Piazza San Pietro si è svuotata. Rimangono le bandiere della Baviera che vengono sventolate insieme a quella tedesca e della Città del Vaticano. La folla percorrere via della Conciliazione dove ci sono ancora le transenne che altrove vengono tolte. La Basilica e la piazza al momento sono chiuse al pubblico, ma riapriranno alle 16.30, come riportato sui maxi schermi.

Ore 12:24 - Il bacio alla bara di padre Georg

Il bacio di padre Georg alla bara del Pontefice emerito. Mons. Georg Ganswein, segretario particolare di Benedetto XVI dopo avere aperto il Vangelo sul feretro di Ratzinger, inginocchiandosi ha dato un bacio alla bara.

Ore 12:28 - Meloni: «Ratzinger ci lascia un’eredità spirituale e intellettuale di fede, fiducia e speranza»

«Oggi a San Pietro per dare l’ultimo saluto a Benedetto XVI, Papa emerito. Illuminato teologo che ci lascia un’eredità spirituale e intellettuale fatta di fede, fiducia e speranza. A noi il compito di conservarla e onorarla sempre e di portare avanti i suoi preziosi insegnamenti». Lo scrive la premier Giorgia Meloni su twitter.

Oggi a San Pietro per dare l'ultimo saluto a Benedetto XVI, Papa emerito. Illuminato teologo che ci lascia un'eredità spirituale e intellettuale fatta di fede, fiducia e speranza. A noi il compito di conservarla e onorarla sempre e di portare avanti i suoi preziosi insegnamenti. 

Ore 12:32 - Zaia: «Emozione e fede, grande commozione ai funerali»

«Emozione e fede. 50mila fedeli hanno partecipato con grande commozione ai funerali di Benedetto XVI. Il Papa emerito sarà tumulato nella tomba che fu di Giovanni Paolo II, trasferito nella Basilica vaticana una volta diventato santo. Dopo l'ultimo "Amen" pronunciato da Papa Francesco, la folla di fedeli presente in piazza ha scandito a piena voce il grido "Santo subito!"». Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia.

Ore 12:44 - Conclusa la tumulazione nelle grotte vaticane

Si è conclusa la traslazione della salma del Papa emerito Benedetto XVI e la sua tumulazione nel luogo destinato delle grotte vaticane. Lo rende noto la Sala Stampa vaticana.

Ore 13:09 - L'arcivescovo di Kiev: «Ratzinger mi scrisse all'inizio dell'aggressione russa: "Prego per voi"»

All'inizio dell'aggressione russa in Ucraina, il Papa Emerito Benedetto XVI ha inviato una breve lettera a mons. Sviatoslav Shevchuk, Capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, per esprimere la sua solidarietà e la sua vicinanza nella preghiera. Questi sentimenti furono poi ribaditi dal Papa emerito personalmente a Shevchuk nell'ultimo incontro che ebbero, il 9 novembre 2022. Il 7 marzo 2022 Ratzinger scriveva a mons. Sviatoslav: «In quest'ora di grande difficoltà per il Suo popolo, Le sono vicino e vorrei assicurarLe che Lei e la Sua Chiesa siete sempre presenti nelle mie preghiere. Che il Signore La protegga e La guidi giorno dopo giorno. Che Egli soprattutto vinca l'accecamento che ha condotto a simili misfatti».

Ore 14:17 - Padre Georg: «Io prefetto dimezzato, restai scioccato»

«Restai scioccato e senza parole»: così mons. Georg Gaenswein racconta il momento in cui nel 2020 è stato "congedato" da Papa Francesco da capo della Prefettura della Casa Pontificia. È lo stesso segretario di Ratzinger a definirsi «un prefetto dimezzato» nel libro «Nient'altro che la verità» scritto con il giornalista Saverio Gaeta (Piemme). «Lei rimane prefetto ma da domani non torna al lavoro», avrebbe detto il Papa, secondo quanto riferisce Gaenswein. Benedetto commentò ironicamente: «Penso che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode...»; scrisse al Papa per intercedere ma nulla cambiò.

Ore 14:47 - Le visite alla tomba di Ratzinger non prima di domenica

La basilica vaticana riaprirà oggi pomeriggio ma non sarà possibile scendere alle Grotte vaticane per vedere la tomba di Benedetto XVI. «Devono completare i lavori, non credo prima di domenica», risponde il portavoce vaticano Matteo Bruni alle domande dei giornalisti.

Ore 15:10 - La preparazione del feretro

La preparazione della bara di Benedetto XVI. Prima della chiusura del feretro un panno bianco viene posizionato sul corpo di Ratzinger. Lo scatto è stato pubblicato dall'ufficio di comunicazione del Vaticano.

Ore 15:29 - Sangiuliano: «Mi restano i libri e la sua voce gentile»

«È stato un momento di grande commozione partecipare questa mattina ai funerali del Papa Emerito Benedetto XVI. Di lui mi restano i suoi libri che ho ripreso a leggere e la sua voce gentile che mi riecheggia nella mente». A scriverlo su Twitter il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.

Ore 15:57 - L'editrice Morcelliana riedita la biografia più aggiornata di Ratzinger

L'editrice Morcelliana è pronta ad una nuova ristampa della più aggiornata biografia su Papa Benedetto XVI, scritta dallo storico dei papi, Roberto Rusconi, il testo più tradotto all'estero. Si intitola «Joseph Ratzinger, teologo, cardinale, papa». Il libro ripercorre la vita di Benedetto XVI. Da una piccola cittadina della Baviera fino alla cattedra di san Pietro: «così si snoda la vita di Joseph Ratzinger, teologo e accademico, arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga, divenuto poi cardinale e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e dal 2015 romano pontefice, dopo i quasi trenta anni del polacco Giovanni Paolo II. Dal 2013 la sua presenza inedita di «papa emerito», con la bianca veste, tra le mura della Città del Vaticano, apre le porte a nuovi interrogativi e prospettive: quale bilancio e quale futuro per la Chiesa del ventunesimo secolo?» scrive l'autore. Roberto Rusconi, già professore di Storia del cristianesimo e delle Chiese all'Università Roma Tre, è tra i fondatori della Rivista di storia del cristianesimo. Tra le pubblicazioni per Morcelliana: Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette (2013), Il governo della Chiesa. Cinque sfide per papa Francesco (2013), Papi santi (2014) e I papi e l'anno santo (2015).

Ore 17:47 - Atac, 130 mila transiti in stazioni metropolitane vicine a San Pietro

L’azienda capitolina per il trasporto pubblico locale, Atac, ha pianificato ed effettuato un intenso servizio in occasione dei funerali di Benedetto XVI. In tutto sono stati effettuati 130 mila transiti nelle stazioni metro in prossimità di San Pietro dal 2 gennaio al pomeriggio di oggi. In una nota Atac spiega che il sostenuto flusso di passeggeri ha beneficiato del servizio potenziato previsto da Atac in occasione dei funerali del Papa emerito Benedetto XVI. Sulla Metro A hanno viaggiato 28 treni nelle punte della giornata odierna. In superficie l’intensificazione ha portato ad incrementare fino a 12 bus sulla linea 40 e 15 sulla 64, a garanzia di migliore collegamento di Termini con Borgo Sant’Angelo e Termini con San Pietro. Atac, inoltre, ha disposto adeguati presidi di personale a supporto dei clienti sul territorio: personale di stazione, di assistenza e di sicurezza. L’afflusso di viaggiatori è stato notevole ma regolare ed ordinato: dal 2 gennaio al primo pomeriggio di oggi, si sono registrati 130 mila transiti nelle stazioni metro in prossimità di San Pietro.

Ore 18:28 - Meloni ringrazia chi ha collaborato per afflusso fedeli

«Nei giorni dell`omaggio al Papa emerito Benedetto XVI e del funerale, desidero ringraziare sentitamente quanti hanno consentito l`afflusso e la presenza di migliaia di fedeli e cittadini in condizioni impeccabili: forze dell’ordine, polizia di Roma Capitale, vigili del fuoco, operatori sanitari, Protezione civile, volontari e tutti coloro che hanno organizzato, lavorato e collaborato, d`intesa con le competenti autorità vaticane». Lo ha dichiarato in una nota la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Ratzinger e le lacrime dei 50 mila: «Santo subito». L’ultimo saluto al Papa emerito. Storia di Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 5 gennaio 2023.

Aspettate. È vero: sembra non esserci racconto. Sapete tutto, avrete già visto tutto. Intere batterie di telecamere in diretta tivù da piazza San Pietro, i fotografi appostati sulla Terrazza del Braccio di Carlo Magno zumano su ogni dettaglio di questo funerale così irrituale — non il primo, però — con un Papa che celebra le esequie del suo predecessore. I siti dei giornali in continuo aggiornamento, social network in sacra tempesta, whatsapp che fanno il giro del pianeta. Forse qualcosa sulla scena più forte dell’intera cerimonia, osservata poco fa, a una ventina di passi, si potrà aggiungere nei giorni che verranno: , di cui è stato segretario personale, mentre le agenzie di stampa battono stralci del suo libro biografico, Nient’altro che la Verità, pieno, gonfio di tremende accuse a Papa Francesco.

Ma ci sarà tempo per saperne di più, e svelare retroscena, capire meglio cosa è successo, e soprattutto succederà, nella penombra di certi corridoi della Santa Sede. Aspettate, invece. Perché ci sono due enormi battenti suggestioni da riferire. E che solo dal vivo, qui, su questo sagrato, vicino a quella bara di cipresso — sotto un cielo basso, velato di nebbia, nella luce giallognola dei lampioni, un occhio sulla folla e un altro all’altare — è stato possibile sentirsi addosso: non era percepito dai fedeli come un Papa emerito, un pensionato sia pure ancora vestito di bianco, ma come un autentico e grandioso Papa in attività; ed è così che Francesco, all’improvviso, appare tremendamente solo, e fragile, e indifeso. Legge la sua omelia — «Benedetto, fedele amico dello sposo, che la tua gioia sia perfetta…» — con voce non più tonda, sempre meno scandita; è arrivato spinto su una sedia a rotelle e, sebbene tutti sapessimo dei suoi 86 anni portati con crescente fatica, della gonalgia che gli tormenta il ginocchio, adesso ci appare curvo, piegato; tremante s’è aggrappato alla ferula, in alcuni momenti è sembrato quasi nascondere lo sguardo. Certo è impossibile dire se abbia intercettato quello levigato nel marmo di monsignor Gänswein, che siede lì di fronte accanto alle Memores Domini, le donne di Comunione e Liberazione che hanno assistito Benedetto XVI nei quasi dieci anni trascorsi dentro il monastero Mater Ecclesiae. Mentre — questo si può invece scrivere con qualche certezza — Bergoglio non ha avuto bisogno di rivolgere nemmeno mezza occhiata ai ranghi dei 130 cardinali, macchia rossa e immobile alla sua destra. Sa perfettamente che, tra loro, si annidano i suoi avversari più temibili.

Gli avversari

Brandmüller, Pell, Müller, Burke, Sarah, Zen Ze-kiun. Cardinali critici, con durezza, su vari fronti. Cardinali che videro nell’elezione di Benedetto XVI la possibilità di rilanciare un certo wojtylismo con assoluta fermezza dottrinale e che poi rimasero profondamente delusi: un po’ per come Ratzinger reagì alla bufera degli scandali che deflagrarono durante il suo pontificato, confondendo un drammatico tono penitenziale, con miserabile cedevolezza; un po’ per la decisione di rinunciare al soglio pontificio, annunciata quel lunedì 11 febbraio del 2013. Ma di cardinali pronti a far ripartire trame e agguati sul cammino di Papa Francesco, dietro le transenne, c’è percezione scarsa, se non proprio nulla. Ai circa duecentomila fedeli affluiti da lunedì per rendere omaggio alla salma di Benedetto XVI, bisogna aggiungerne altri cinquantamila che, ora, dopo aver superato i metal-detector sistemati tra le colonne del Bernini, pregano a mani giunte. Una folla commossa, riverente, piena di affetto e di riconoscenza per un Papa che, da quasi un decennio, non aveva più preso la parola in pubblico, e che comunicava il suo pensiero solo attraverso sofisticati testi scritti. Suore e boy-scout, badanti straniere e militari in libera uscita, preti di campagna, infermiere, giovani e anziani, mamme con i figli nel passeggino, bavaresi in abito tipico. Distribuite migliaia di copie dell’ Osservatore Romano e di un libretto con cui seguire la messa (in copertina, l’immagine della Deposizione di Caravaggio). Molti striscioni con identiche scritte: e «Danke Papst Benedikt».

Lacrime e rosari. Sembra che anche il ministro Giancarlo Giorgetti ne stringa uno tra le dita. Accanto a lui, mezzo Cdm: Crosetto (con zuccotto blu tipo incursore della Marina: però, in effetti, c’è un’umidità inconsueta), Nordio, Lollobrigida, Bernini, Tajani, Sangiuliano. È arrivato pure Mario Draghi, molto omaggiato. Niente a che vedere, però, con l’accoglienza riservata a Pier Ferdinando Casini: trattato come un cardinale emerito. Siedono, in prima fila, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e la premier Giorgia Meloni; dietro, il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, e Maurizio Gasparri, in sostituzione del Presidente del Senato, Ignazio La Russa (influenzato per una botta di freddo, sembra, presa a Cortina). La nostra delegazione e quella tedesca sono le uniche ufficiali. Altri capi di Stato e presidenti sono venuti a titolo personale. Ecco i sovrani del Belgio, Matilde (con velo nero) e Filippo. La regina Sofia di Spagna, il presidente lituano Gitanas Nauseda, il polacco Andrzej Duda, il portoghese Marcelo Rebelo de Sousa.

Gli umori

«L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio…», dice il celebrante cardinale decano Giovanni Battista Re. La messa funebre — sobria, come aveva chiesto il defunto — volge al termine, la nebbia si è diradata e ne resta solo una nuvola, che copre il Cupolone. Le guardie svizzere in alta uniforme portano al petto le loro alabarde. Dal portone escono i dodici sediari che vanno a schierarsi ai lati della bara. I funerali hanno un momento in cui diventano tutti uguali, con la domanda di un lampo: chi è stato l’uomo che se ne va per sempre? Papa Francesco, per Ratzinger, ha evocato i concetti di dedizione e delicatezza. Ma a questa folla, cercando di interpretarne gli umori, sono piaciuti molto anche la purezza di spirito capace d’una scossa di clamorosa, rivoluzionaria modernità: non mi sento più all’altezza, lascio. Il coro intona il Magnificat. C’è un applauso lungo e intenso. Papa Francesco, adesso ritto, appoggiato al bastone, aspetta la bara portata a spalla al centro del sagrato. «Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto. Sicut erat in principio, et nunc et semper, et in sæcula sæculorum. Amen». Nei secoli dei secoli. Che poi è la spiegazione di tutto.

Piazza San Pietro “blindata”. 100mila per l’addio a Papa Benedetto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Gennaio 2023

Il rito con un protocollo con qualche limatura dei passaggi dedicati a un Papa regnante, è presieduto da Papa Francesco Bergoglio, che ieri ha definito il suo predecessore “un grande maestro”, e celebrato dal decano del collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re.

Questa mattina tutti gli occhi del mondo sono stati diretti verso piazza San Pietro sullo Stato più piccolo del pianeta. Per la prima volta nella storia della Chiesa un Papa presiede i funerali di un Papa emerito, e viene scritta una pagina di storia della Chiesa e delle istituzioni, presenti con vari leader internazionali. Per volontà dello stesso Benedetto XVI le sue esequie che hanno avuto inizio alle 9,30 sono state organizzate “nel segno della semplicità», e saranno quindi “solenni ma sobrie”. Allorquando la sua bara verrà tumulata nelle Grotte vaticane, finirà l’“emeritato”, e “da quel momento in poi si andrà a pregare sulla tomba di un Pontefice“, spiega un alto prelato. Il rito con un protocollo con qualche limatura dei passaggi dedicati a un Papa regnante, è presieduto da Papa Francesco Bergoglio, che ieri ha definito il suo predecessore “un grande maestro”, e celebrato dal decano del collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re.

Campane hanno suonato a morto nella Basilica Vaticana quando la bara con le spoglie del Papa emerito Benedetto XVI è uscita dalla Basilica portata dai sediari, poco dopo le 8.50 per permettere il rosario dei fedeli in piazza San Pietro. Fragorosi gli applausi ripetuti della folla dei fedeli. Una fitta coltre di nebbia conferisce fascino e mistero, incornicia il cupolone di San Pietro dove è tutto pronto per la cerimonia funebre di papa Ratzinger. Alle fermate della metropolitana vicine alla Basilica servizi di vigilanza osservano discreti il movimento di pellegrini che si avviano a partecipare al funerale. Bandiere tedesche sventolano nel cielo e la corsa per un posto a sedere è serrata. Il primo blocco davanti alla chiesa è già tutto pieno. In giro diversi striscioni con la scritta in tedesco “Danke Benedikt” ( “Grazie Benedetto” n.d.r.) e un fiume di gente ancora si appresta ad arrivare per superare i controlli e avere così accesso alla piazza per l’ultimo saluto al Papa emerito. “Santo subito”: è quanto si legge in un cartello esposta da una delle tante fedeli presenti in piazza San Pietro. Ci sono molte le bandiere tedesche e polacche, molti i fedeli arrivati dalla Baviera in costume tipico bavarese.

Uomini della gendarmeria vaticana e le guardie svizzere dirigono l’afflusso dei fedeli. Distribuiti libretti della messa e copie dell’Osservatore Romano, listato a lutto, interamente dicato al pontificato di Ratzinger, il successore di Giovanni Paolo II dal 2005 e dimessosi nel 2013.

Il Vangelo è stato aperto sul feretro del Papa emerito. Mons. Diego Ravelli, cerimoniere pontificio e mons. Georg Ganswein, segretario particolare di Ratzinger, hanno aperto il Vangelo sulla bara come avviene nei funerali dei papi Prima della recita del rosario, dopo che la bara di Ratzinger è stata portata fuori dalla Basilica . Tornano alla memoria dei fedeli le pagine del Vangelo che si aprivano con il vento durante le esequie di Papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro. La pioggia caduta nella notte costringe i partecipanti alla messa ad asciugare le sedie con fazzolettini di carta mentre l’umidità avvolge la piazza e la facciata della basilica, sotto cui è allestito il palco papale, circondato da quattro maxischermi che trasmetteranno la funzione.

Il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella è presente in piazza San Pietro. Nella delegazione del governo guidata dal premier Giorgia Meloni , accanto a lei il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ed il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, con un rosario in mano, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano insieme ai presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana ed Ignazio La Russa.  Anche l’ex-premier Mario Draghi è presente sul sagrato di San Pietro per i funerali di Benedetto XVI. L’ex presidente del Consiglio si è seduto nel settore della delegazione italiana.

Il premier ungherese Viktor Orban e quello polacco Mateusz Morawiecki si ritroveranno insieme, nel ricordo di Benedetto XVI, si saluteranno e si parleranno con il premier Meloni , perché si conoscono bene. In realtà non sono previsti in agenda incontri ufficiali con i due leader della destra dell’Europa orientale.

La Meloni ci parlerà, e d’altra parte, anche le sfumature nella selezione effettuata dalla Santa Sede dei rappresentanti nazionali alle esequie diventano scelte politiche, adesioni ideali, segnali. Orban, ad esempio, ha voluto partecipare di persona, è stato tra i primi a giungere nella Capitale, ha già reso omaggio al Papa emerito visitando la camera ardente ed è in piazza San Pietro. La stessa scelta dei polacchi, guidati oltreché da Morawiecki anche dal presidente Andrzej Duda. Diverso invece l’atteggiamento di due esponenti come Joe Biden ed Emmanuel Macron, entrambi tra l’altro in rapporti ottimi con Papa Francesco: il governo degli Stati Uniti – guidato dal secondo Presidente cattolico della storia, dopo John Fitzgerald Kennedy – sarà rappresentato dall’ambasciatore americano presso la Santa Sede, mentre il Presidente francese verrà rappresentato dal ministro dell’Interno. Assenze volte a rispettare il desiderio della Santa Sede di funerali solenni, ma sobri.

Ma non è tutto qui. Perché Meloni avrà oggi incastri d’agenda permettendo un incontro di massimo livello: quello con Olaf Scholz, che compone la delegazione ufficiale tedesca assieme al presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier. Ci lavorano le diplomazie e non sarà un incontro banale (neanche il primo, si erano già parlati il 6 dicembre).

Hanno confermato la partecipazione, tra gli altri, la madre del Re di Spagna, la Regina Sofia; il Re e la Regina del Belgio, Filippo e Mathilde; il presidente portoghese Marcelo Nuno Duarte Rebelo de Sousa. Presente la Real Casa Savoia con Clotilde e Vittoria. In Piazza anche personalità delle altre Chiese cristiane, compreso il Patriarcato di Mosca con il metropolita della Chiesa russa Antonij di Volokolamsk; e poi leader delle altre fedi, dai musulmani agli ebrei. Ci sono anche diversi patriarchi orientali in piazza San Pietro. Tra loro Louis Raphael Sako da Baghdad e Bechara Rai da Beirut.

Sono circa 130 i cardinali che concelebrano i funerali di Benedetto XVI. A loro si aggiungono i circa trecento vescovi e i 3.700 sacerdoti giunti da ogni parte del mondo.

Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce” ha detto Papa Francesco Bergoglio nell’omelia per i funerali di Benedetto XVI chiedendo di “affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita” ed aggiunto “Siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore”.

Dopo la prima parte della Messa, la celebrazione nella sua ‘liturgia eucaristica’, ha visto sull’altare il cardinale Giovanni Battista Re per evitare, come ormai succede da tempo nelle Messe presiedute dal Papa, che Francesco Bergoglio si affatichi, considerato che in questa parte della liturgia il celebrante è in piedi e al momento della consacrazione in ginocchio. Un momento di preghiera e di commozione: prima che la bara di Benedetto XVI lasciasse il sagrato di San Pietro, Papa Francesco si è alzato in piedi appoggiato a un bastone, attende in piedi, il passaggio della bara di Benedetto XVI che viene portata nelle grotte sotto la Basilica di San Pietro. Papa Francesco ha messo la mano sul feretro, traccia il segno della croce, posa la mano destra sul feretro e resta con il capo chino e gli occhi chiusi in preghiera, poi si mette la mano sul cuore.

Mentre sta terminando il rito delle esequie del Papa emerito Joseph Ratzinger, dopo l’ultimo ‘Amen‘ pronunciato da Papa Francesco, la folla di fedeli presente in piazza scandisce a piena voce il grido “Santo subito!“. Alle 10:45 un applauso della piazza saluta la fine della Messa. Le campane a morto e un altro grande applauso salutano il feretro di Papa Benedetto che rientra in san Pietro per la sepoltura.

Al termine del rito la salma ha lasciato piazza San Pietro per raggiungere le grotte vaticane dove sarà tumulata durante una cerimonia privata e senza telecamere. Nella bara verranno inserite le monete e le medaglie coniate durante il suo Pontificato, i pallii che ha indossato durante la sua carriera ecclesiale e il rogito, cioè una sintesi della sua storia da Papa. La nicchia nella quale riposerà Joseph Ratzinger sarà la stessa che era appartenuta a san Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II, prima che le loro spoglie fossero traslate nella Basilica di San Pietro.

Redazione CdG 1947

Perché sui funerali di Ratzinger aleggiava il senso di una doppia fine. Andrea Riccardi su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Il pontificato di Ratzinger ha mostrato le fragilità della Chiesa, l’ingovernabilità della macchina vaticana, la fine del papato europeo. E la Chiesa - ammalatasi della crisi europea - vive un momento di frantumazione, e si affaccia a un futuro nebbioso

Il clima dei funerali di Benedetto XVI era triste.

Non era solo la mestizia funebre.

Aumentava la sensazione la nebbia, rara a Roma. Ratzinger è stato una personalità grande: come intellettuale e Papa. Morto — direbbe la Bibbia — «sazio di giorni».

Eppure un senso di fine aleggiava sulla liturgia.

Francesco, con le rosse vesti del lutto papale, aveva un volto grave e non ha nascosto le lacrime dopo il commiato.

La fine di un uomo e di un mondo. Wojtyla fu il primo Papa non italiano dal 1553. Sembrò un salto. Ma, con Ratzinger, si vide che un Papa europeo, polacco dell’asburgica Cracovia o bavarese, non era lontano da un italiano (il bresciano Montini o il bergamasco Papa Giovanni). Il papato italo-europeo era considerato capace di gestire la Chiesa universale. Dopo la forza carismatica di Wojtyla (che, per il cardinal Martini, copriva un po’ i problemi), il papato di Ratzinger ha invece mostrato le fragilità della Chiesa e l’ingovernabilità della macchina vaticana.

Sia Ratzinger che Wojtyla hanno creduto alla funzione centrale dell’Europa nell’ecumene cattolica, origine dello slancio mondiale del Papa polacco. Questi disse drammaticamente: «Se si perde l’Europa, tanto è perduto del cattolicesimo».

I funerali hanno mostrato la fine del papato europeo già manifestata dall’elezione di Francesco, venuto «quasi dalla fine del mondo».

Il cattolicesimo si è ammalato della crisi europea o forse è parte di essa. Lo mostrano i pochi praticanti, le scarse vocazioni (in un continente che inviava missionari ovunque).

Il funerale di Ratzinger non ha mostrato la forza dei conservatori e dei tradizionalisti. Il numero dei fedeli in piazza era relativo. L’operazione di fare del Papa emerito un anti Francesco non funziona. Il mondo tradizionalista non ha coesione. E poi quanti cattolici s’interessano ai «due Papi»?

Il problema del cattolicesimo oggi è che vive nel tempo dell’«io», il soggettivismo rapido dei social, mentre il «noi», la Chiesa o le varie realtà sociali, si sfarinano.

Ma non ci sono due correnti nella Chiesa, bensì un fenomeno di frantumazione e poche visioni comuni, come nella società europea.

Lo stesso ceto dirigente della Chiesa, non più centrato su un coagulo europeo, non ha trovato nuovi equilibri. I cambiamenti — lo insegna Montini — si fanno con una rinnovata classe dirigente.

Il funerale di Benedetto XVI era abitato dalla stanchezza, come in Europa. La risposta dei «forti» leader sovranisti, il polacco o l’ungherese, venuti ad omaggiare il Papa della tradizione, non è risolutiva.

Francesco, di fronte a questo scenario, non ha parlato di storia o di futuro, limitandosi a evocative parole credenti. La sobrietà del funerale sta nelle parole più che nel rito.

Forse il Papa l’ha fatto consapevole che l’antica Chiesa di Roma vive una transizione verso un futuro ancora un po’ nebbioso.

Da osservatoreromano.va il 5 gennaio 2023.

«Fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta»: così Papa Francesco ha concluso l’omelia della messa esequiale per il suo predecessore, il Sommo Pontefice emerito Benedetto XVI , presieduta stamane, giovedì 5 gennaio, sul sagrato della basilica Vaticana, alla presenza di moltissimi fedeli giunti da tutto il mondo in piazza San Pietro. Eccone il testo.

 «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23, 46). Sono le ultime parole che il Signore pronunciò sulla croce; il suo ultimo sospiro — potremmo dire —, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo.

Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli.

 Il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore: «Guarda le mie mani», disse a Tommaso (Gv 20, 27), e lo dice ad ognuno di noi: “Guarda le mie mani”. Mani piagate che vanno incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per noi e crediamo in esso (cfr. 1 Gv 4, 16).1

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» è l’invito e il programma di vita che ispira e vuole modellare come un vasaio (cfr. Is 29, 16) il cuore del pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù (cfr. Fil 2, 5).

 Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni... tu appartieni a loro”, sussurra il Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”.2

È la condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate, prendete e bevete, questo è il mio corpo, corpo che si offre per voi (cfr. Lc 22, 19). La synkatabasis totale di Dio.

 Dedizione orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve affrontare (cfr. 1 Pt 1, 6-7) e l’invito fiducioso a pascere il gregge (cfr. Gv 21, 17).

 Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la loro dignità (cfr. Eb 5, 7-9).

In questo incontro di intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare. Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia (cfr. 2 Tim 1, 12).

 Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio (cfr. Gv 21, 18): «Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire.

Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza».3

 E anche dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo (cfr. Esort. ap. Gaudete et exsultate, 57), nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua discendenza per sempre (cfr. Lc 1, 54-55).

 Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita (cfr. Mt 25, 6-7).

San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato.4 È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”.

Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!

L’omelia del papa per i funerali di Benedetto XVI. Il Domani il 05 gennaio 2023

Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia di papa Francesco in occasione dei funerali del papa emerito Benedetto XVI. 

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Sono le ultime parole che il Signore pronunciò sulla croce; il suo ultimo sospiro – potremmo dire –, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli. Il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore: «Guarda le mie mani», disse a Tommaso, e lo dice ad ognuno di noi. Mani piagate che vanno incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per noi e crediamo in esso.

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» è l’invito e il programma di vita che sussurra e vuole modellare come un vasaio il cuore del pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù. Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni... tu appartieni a loro”, balbetta il Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”. È la condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate, prendete e bevete, questo è il mio corpo che si offre per voi. La synkatabasis totale di Dio.

Dedizione orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve affrontare e l’invito fiducioso a pascere il gregge.

Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la loro dignità. In questo incontro di intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare. Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia. Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio: «Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza».

Dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo, nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua discendenza per sempre.

Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò lau sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita.

San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato.

È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”.

Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!

Ratzinger e la lettera segreta su Putin prima di morire. Libero Quotidiano il 05 gennaio 2023

Ai funerali di Benedetto XV anche diversi vescovi ucraini. Tra questi Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina. È stato lui a parlare di una missiva giunta dallo stesso Ratzinger. All’inizio dell’aggressione russa, infatti, il papa emerito ha inviato una breve lettera al Capo e Padre della Chiesa greco-cattolica ucraina: "All’inizio della guerra, il Papa Emerito ha voluto inviarmi la sua lettera assicurando al popolo aggredito la sua vicinanza e le preghiere per la pace". Sentimenti poi ribaditi da Ratzinger durante un faccia a faccia con Shevhcuck, quello avvenuto lo scorso 9 novembre. "Il Papa Emerito - ha fatto sapere l'arcivescovo di Kiev - intercedeva per la Chiesa in Ucraina ed era attento a ogni situazione".

Nella missiva datata 7 marzo 2022, Benedetto XVI scriveva: "In quest’ora di grande difficoltà per il Suo popolo, Le sono vicino e vorrei assicurarLe che Lei e la Sua Chiesa siete sempre presenti nelle mie preghiere. Che il Signore La protegga e La guidi giorno dopo giorno. Che Egli soprattutto vinca l’accecamento che ha condotto a simili misfatti. Con questi sentimenti, rimango Suo nel Signore. Benedetto XVI". 

E ancora, spiega Shevchuk, "in mezzo al dramma della guerra eravamo sicuri che nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano nella sua grande e altrettanto umile personalità abbiamo un supplicante del Signore per la pace nella “martoriata Ucraina". Shevchuk ha così voluto ringraziare personalmente Benedetto XVI: "Nella nostra conversazione – ricorda – Papa Benedetto XVI, già molto debole però lucido, mi ha assicurato: ‘Continuo a pregare per l’Ucraina’. Sono convinto che anche adesso nella sua persona il nostro popolo avrà un intercessore davanti al trono del Signore". Sua Beatitudine conclude la lettera assicurando a Papa Francesco "le preghiere per l’anima di Benedetto XVI da parte dei vescovi, clero, religiosi e fedeli della Chiesa greco-cattolica ucraina". 

Ecco cosa scrisse Benedetto XVI all’arcivescovo di Kiev dopo lo scoppio della guerra. Il Domani il 05 gennaio 2023

«In quest’ora di grande difficoltà per il suo popolo, le sono vicino e vorrei assicurarle che lei e la sua chiesa siete sempre stati presenti nelle mie preghiere», aveva scritto Benedetto XVI lo scorso 7 marzo

C’è una lettera che Benedetto XVI ha scritto per l’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk e che è stata resa pubblica solo ora a quasi una settimana dalla sua morte. Nella lettera l’allora papa emerito aveva espresso la sua solidarietà al popolo ucraino a pochi giorni dall’inizio della guerra iniziata il 24 febbraio.

Nella lettera, datata 7 marzo, Benedetto XVI scrive: «In quest’ora di grande difficoltà per il suo popolo, le sono vicino e vorrei assicurarle che lei e la sua chiesa siete sempre stati presenti nelle mie preghiere. Che il signore le protegga e la guidi giorno dopo giorno. Che egli soprattutto vinca l’accecamento che ha condotto a simili misfatti».

Un messaggio di forte vicinanza all’arcivescovo ucraino nel momento in cui l’esercito russo stava tentando di prendere il controllo di Kiev e avanzava nel Donbass. Poche settimane prima della morte l’arcivescovo Shevchuk aveva fatto visita a Benedetto XVI e aveva citato la lettera ricevuta a marzo.

Lo scorso 31 dicembre non appena saputa la notizia del decesso di papa Ratzinger, l’arcivescovo ha inviato a Francesco una lettera di cordoglio: «Il pontificato di Benedetto XVI ha abbracciato la nostra chiesa con tanti gesti provvidenziali che hanno favorito la sua rinascita dopo la persecuzione comunista, e lo sviluppo autentico nei tempi moderni. Siamo riconoscenti al suo predecessore per il grande contributo nella crescita e nella formazione delle strutture della nostra chiesa e il sostegno in diversi ambiti della vita pastorale».

IL MESSAGGIO DI CORDOGLIO DI PUTIN

Nei giorni scorsi dopo la morte di Benedetto XVI, il presidente russo Vladimir Putin ha inviato un telegramma a Papa Francesco, nel quale ha ricordato Joseph Ratzinger come «un importante leader religioso e statista e un convinto sostenitore dei valori cristiani tradizionali».

«Durante il periodo del suo Pontificato, la Russia e il Vaticano hanno intessuto relazioni diplomatiche su vasta scala e le relazioni tra la chiesa ortodossa russa e la chiesa cattolica romana si sono sviluppate», ha aggiunto Putin. «Ho avuto la possibilità di incontrare questa persona straordinaria e conserverò i ricordi più cari di lui. Vorrei estendere la mia sincera solidarietà in quest’ora dolorosa», ha concluso il presidente russo.

"Quella volta che Benedetto XVI conquistò i britannici con Elisabetta II". Il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, ha ricordato il successo del viaggio di Ratzinger nel Regno Unito. Nico Spuntoni il 6 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il 2022 si è concluso con la morte del 95enne Benedetto XVI e aveva visto pochi mesi fa anche quella della regina Elisabetta II. Un anno particolare, dunque, per i sudditi di Sua Maestà di fede cattolica, sebbene Benedetto XVI fosse ormai soltanto emerito e non più Pontefice regnante. Ma proprio in Regno Unito ci fu uno dei viaggi apostolici di maggiore successo di Ratzinger, risalente al 2010. E' in quell'occasione che pronunciò uno dei suoi discorsi più celebri, quello sul ruolo della religione nella società a Westminster Hall. Al fianco di Benedetto XVI in quel viaggio c'era l'arcivescovo di Westminster, il cardinale Vincent Nichols che ancora oggi ricopre quell'incarico e che ha voluto ricordare il Papa emerito in quest'intervista concessa a Il Giornale.it al termine della giornata dedicata alle sue esequie.

Eminenza, si immaginava tutta questa gente per l'ultimo saluto a Benedetto XVI?

Sì, sinceramente me lo immaginavo. Così come non mi sorprende la presenza di così tanti cardinali, vescovi e sacerdoti. Perché Benedetto XVI è stato un Papa socievole, con un carattere ed una personalità accoglienti.

Conserva una testimonianza diretta di questo suo aspetto?

Fu molto chiaro, ad esempio, quando venne nel Regno Unito nel settembre del 2010. Prima della partenza c'era molta ostlitià nei media e nell'opinione pubblica ma quando ripartì tutti parlavano di lui come dello zio favorito. D'altra parte, quando lo incontravi o lo ascoltavi parlare non potevi non dire che era un pastore molto gentile ed amorevole. Ed è questo il motivo per cui oggi, qui, c'era tanta gente.

Come riuscì a conquistare i britannici durante quella visita apostolica di quasi tredici anni fa?

All'inizio il clima era difficile perché molti media si occuparono del suo arrivo parlando esclusivamente dello scandalo abusi nella Chiesa e di nient'altro. Però quando la visita ebbe inizio, tutto cambiò. E, tra i motivi, ce n'è uno in particolare..

Quale?

Uno dei motivi principali di questo cambiamento si deve al fatto che Benedetto XVI decise di non atterrare a Londra, come avviene quasi sempre in viaggi istituzionali, ma disse 'no, voglio atterrare in Scozia, a Edimburgo'. E questo perché la prima cosa che voleva fare in Regno Unito era salutare la regina Elisabetta. A quel punto, quando tutti videro l'accoglienza riservata al Papa dalla regina e il bel rapporto tra i due, nulla fu più lo stesso.

Nel Regno Unito c'è sempre stata una grande attenzione per la questione liturgica a cui Benedetto XVI ha prestato sempre particolare attenzione. Lei vede i frutti dei suoi insegnamenti?

La liturgia è un tema molto importante ed anche molto delicato nella vita della Chiesa. Gli insegnamenti di Benedetto XVI sono stati indirizzati a far sì che attraverso la liturgia fosse compreso il mistero della nostra salvezza. Lui ha incoraggiato i sacerdoti a celebrare nel migliore dei modi. Oggi nel Regno Unito vediamo sorprendentemente tantissimi giovani che cercano una messa più contemplativa e profonda. E questa è una buona cosa.

Benedetto si dimise per Obama. Era ritenuto un Papa scomodo, contrario alle sue politiche. Tino Oldani su Italia Oggi il 5 gennaio 2023.

«Il diavolo in Vaticano ha agito contro Benedetto XVI». Così Georg Gaenswein, arcivescovo-segretario di papa Joseph Ratzinger fino alla sua morte, in un'intervista a Ezio Mauro su Repubblica. Da prelato prudente, Gaenswein non fa nomi. Ma la sua denuncia è talmente clamorosa che, inevitabilmente, molti si chiedono chi sia questo diavolo, che nome abbia, e se sia un solo diavolo o più di uno. Sul web, mi hanno incuriosito alcuni interventi, soprattutto uno basato su una testimonianza personale.

Mi riferisco al generale in pensione Piero Laporta, che sul proprio sito e su Stilum Curiae dell'ex vaticanista Marco Tosatti ha postato il 3 gennaio un articolo intitolato: «La cerchia romana (e Usa…) che voleva far dimettere Benedetto».

Di questa cerchia, in base a ricordi personali di Laporta, facevano parte «un emissario di primo piano del governo Usa, con le mani in pasta nella finanza (dove è ancora) e nella politica italiana, e un personaggio dei piani alti della National Security Agency (Nsa) che andava vantandosi delle dimissioni alle quali presto sarebbe stato costretto Benedetto XVI, mentre scorrevano le prime settimane del suo pontificato. Lo fece con disinvoltura e protervia, dalla quale trapelò il disegno persino al di sopra della sua pur potentissima organizzazione». Un'allusione alla Casa Bianca.

Ratzinger è stato eletto papa il 19 aprile 2005 e si è dimesso il 28 febbraio 2013. Dunque, per il generale Laporta, già nel 2005 vi era un diavolo americano all'opera per far dimettere il papa appena eletto, che lavorava ai piani alti della Nsa, un braccio armato del governo Usa, considerata più potente della Cia.

Ma perché un papa come Ratzinger era considerato un ostacolo da eliminare per gli Usa? In fondo, era soprattutto un teologo che per 24 anni aveva retto in Vaticano la Congregazione per la dottrina della fede, un conservatore sul piano dottrinario, ma del tutto estraneo alle dispute politiche mondiali di quell'epoca.

Qualcosa di più, sotto quest'ultimo aspetto, è venuto alla luce solo anni dopo, quando nel 2020 lo scrittore Peter Seewald, autore di «Benedetto XVI. Una vita» (Garzanti), ha rivelato per la prima volta alcuni giudizi di Ratzinger su leader politici mondiali. Si scoprì così che Barack Obama, presidente Usa dal 2009 al 2017, aveva lanciato e portato avanti idee che il papa «non poteva condividere». Da presidente, e prima ancora da dirigente di primo piano del partito democratico Usa, Obama è stato l'antesignano dei «nuovi diritti» in materia sessuale e delle aperture legislative necessarie. Una linea ritenuta progressista, perseguita dalle élites Usa già nel 2005 (compresa la Nsa), e messa in atto da Obama durante il suo mandato, affiancato dal favore dei media mainstream e dal movimento Lgbt, che l'ha esportata in Europa. Una linea, però, bocciata da Ratzinger in quanto «relativista», in contrasto con la dottrina cattolica. Non a caso, nel mondo progressista e pro-Lgbt, Obama è stato usato come un controcanto di Ratzinger: l'ex presidente Usa indicato come un politico che «irradia speranza», mentre il papa tedesco, «preso dalla paura, vuole limitare il più possibile la libertà delle persone per imporre un'era di restaurazione». Per questo, come diceva a Roma l'agente della Nsa citato dal generale Laporta, un ostacolo culturale da eliminare fin dal 2005.

Le dimissioni di Ratzinger, annunciate a sorpresa, risalgono al 28 febbraio 2013. Il papa le giustificò con gli affaticamenti fisici della vecchiaia (ingravesciente aetate), ma in molti rimase il dubbio che la vera causa fosse un'altra, non detta. Ipotesi che trovò conferma in un articolo del sito belga Media Press Info del 5 aprile 2015, in cui fu rivelato che, nell'ambito del sistema Swift, che regola le transazioni di 10.500 banche nel mondo, distribuite in 215 paesi, «nei giorni che precedettero le dimissioni di Benedetto XVI nel febbraio 2013, tutte le transazioni della banca del Vaticano, lo Ior, furono bloccate. E senza aspettare l'elezione di papa Bergoglio, il sistema Swift è stato sbloccato subito dopo le dimissioni di Benedetto XVI». Aggiungeva Media Press Info: «C'è stato un ricatto venuto non si sa da dove, per il tramite di Swift, esercitato su Benedetto XVI. Le ragioni profonde di questa storia non sono state chiarite, ma è evidente che Swift è intervenuto direttamente nella direzione degli affari della Chiesa».

In buona sostanza, con l'esclusione dal circuito Swift, la banca del Vaticano non poteva più vendere né comprare, di fatto veniva trattata alla stregua delle banche degli stati canaglia (vedi Iran). Un blocco deciso dopo che nel marzo 2012 il Dipartimento di Stato Usa (presidente Obama, con Hillary Clinton alla guida del Dipartimento) aveva inserito il Vaticano tra i paesi suscettibili di monitoraggio per il riciclaggio di denaro. Blocco che, come per miracolo, è stato tolto subito dopo l'annuncio delle dimissioni di Ratzinger.

Che lo Ior e le finanze vaticane non fossero un modello di trasparenza era noto a tutti, quindi anche a Ratzinger, che di certo non condivideva i metodi, le spese, i lussi e gli sprechi della casta che le amministrava. Metodi e sprechi venuti alla luce a seguito di due scandali Wikileaks (2012 e 2015), il primo basato su documenti rubati dal cassetto di Gaensweien, che indagava per conto del papa, il secondo su altri documenti sottratti alla commissione d'inchiesta voluta da papa Francesco subito dopo la sua elezione. Vicende opache, come raccontano i libri diGianluigi Nuzzi e di Emiliano Fittipaldi, mai chiarite fino in fondo nonostante un processo in Vaticano. Ora la testimonianza del generale Laporta sulla mano Usa dietro le dimissioni di Ratzinger aggiunge un dettaglio in più.

Iacopo Scaramuzzi per “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.

Eletto da cardinali che videro in lui l'uomo capace di rilanciare i fasti del wojtylismo con credibilità personale e fermezza dottrinale, Joseph Ratzinger, a un certo punto del suo pontificato, deluse i ratzingeriani duri e puri. I conservatori non hanno apprezzato che Benedetto XVI reagisse agli scandali che esplosero nei suoi anni con tono penitenziale, scambiato per cedevolezza.

E non gli hanno mai perdonato, chi più sommessamente chi più apertamente, di aver rinunciato al pontificato. Rovinando la tela che stavano tessendo per fare emergere un successore in linea, e aprendo le porte ad un Conclave che, nel marzo del 2013, elesse l'arcivescovo di Buenos Aires. 

Per gli ambienti conservatori e tradizionalisti la personalità di Joseph Ratzinger è rimasta un baluardo per arginare le aperture bergogliane, spesso ben al di là delle intenzioni dello stesso Papa emerito. Lo hanno eletto a riferimento per l'opposizione a Francesco - ruolo al quale Benedetto si è risolutamente sottratto - e ora si sentono orfani.

Se il suo segretario particolare, monsignor Gänswein, rompe gli indugi anzitempo e attacca Francesco sulla liturgia, altri in queste ore rimangono in silenzio. Ma i loro volti sono noti da anni. C'è l'anziano cardinale tedesco Walter Brandmüller, che ha criticato apertamente Ratzinger per il passo indietro, e non ha mai lesinato critiche a Francesco.

Da ultimo, ha criticato la determinazione del Papa argentino a nominare cardinali di tutto il mondo, auspicando che il prossimo pontefice sia eletto da soli cardinali residenti da almeno dieci anni a Roma: norma che, se valida nel 1978, avrebbe ad esempio impedito l'elezione di con dubbi dottrinali (in latino, "dubia") sulla comunione ai divorziati risposati. La fronda anti-bergogliana della Chiesa è forte in generale nell'episcopato degli Stati Uniti.

Lo si è visto quando un ex nunzio a Washington, monsignor Carlo Maria Viganò, attaccò Francesco a testa bassa, nel silenzio eloquente di diversi vescovi. Oggi a fianco di Brandmüller e Burke compare spesso il cardinale Gerhard Ludwig Müller, allievo di Benedetto XVI e suo successore alla testa della congregazione della Dottrina della fede, fino a quando Francesco non lo prepensionò.

Da allora è rimasto a Roma, difendendo, da buon teologo, la piena legittimità di Papa Francesco («C'è solo un Papa»), ma tampinandolo di raccomandazioni sulla necessità di non aumentare la "confusione" dei fedeli. Critico in modo più discreto di Papa Francesco è poi il cardinale australiano George Pell: carattere impetuoso, ex ministro delle Finanze del Vaticano, è stato in carcere 400 giorni nel suo paese per un'accusa, poi decaduta, di abusi sessuali su minori.

Turbocapitalista, conservatore schietto, non ha mai nascosto il dissenso nei confronti del riformismo bergogliano. Il cardinale Robert Sarah, da parte sua, guineano, ha un rapporto personale cordiale con il Papa, ma la pensa diversamente da lui sull'islam e sull'immigrazione, sulla morale sessuale e, soprattutto, sulla liturgia. Sarà a Roma per i funerali di Benedetto, su autorizzazione delle autorità di Hong Kong, l'anziano cardinale Zen Ze-kiun, critico sull'accordo della Santa Sede con la Cina. Fino ad oggi questi porporati si nascondevano dietro la figura bianca del Papa emerito. Con i funerali di Benedetto XVI cambia anche il loro rapporto con il Papa regnante.

L’emerito popolare. Il funerale di Benedetto XVI ha dimostrato la fragilità della vulgata giornalistica negativa. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 6 Gennaio 2023.

Le esequie del Papa emerito sono state brevi e sobrie, durate circa un’ora e un quarto. Ma la grande partecipazione e l’omaggio ininterrotto della folla per tre giorni hanno fatto capire che certe ricostruzioni mediatiche sulla reputazione di Ratzinger erano alquanto fantasiose

Più che sobrio, il funerale di Benedetto XVI è stato alla meno peggio in una piazza San Pietro, pur gremita di decine e decine di migliaia di fedeli, oltre centotrenta cardinali e trecento vescovi, 3.700 sacerdoti, rappresentanti di Case reali, numerosi capi di Stato, tra cui Sergio Mattarella, il tedesco Frank-Walter Steinmeier, il lituano Gitanas Nausėda, il polacco Andrzej Duda, il portoghese Marcelo Nuno Duarte Rebelo De Sousa.

Celebrate ieri mattina da Papa Francesco – che per motivi di salute ha presieduto la prima parte della Messa e il rito dell’Ultima Raccomandazione (Ultima Commendatio) e del Commiato (Valedictio) lasciando al cardinale decano Giovanni Battista Re la celebrazione della liturgia eucaristica, l’aspersione e incensazione del feretro – le esequie si sono infatti concluse nel giro di un’ora e un quarto. Un parroco ha commentato a Linkiesta, tra l’amaro e l’ironico: «È molto probabile che la mia messa funebre durerà un po’ di più di quella del Papa emerito».

Breve poi, generica e inconsistente l’omelia di Bergoglio, che ha pronunciato il nome del predecessore nella sola chiusa: «Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!».

Come che sia, le partecipate esequie e l’ininterrotto omaggio della folla, che per tre giorni ha sfilato davanti alla salma del Papa emerito esposta nella Basilica di San Pietro, hanno soprattutto dimostrato la fragilità della vulgata giornalistica negativa, all’origine della leggenda nera su un Benedetto XVI odiato dalla gente e insensibilmente arroccato su posizioni da avvocato d’ufficio della Tradizione.

Insussistente e controproducente, di certo inidonea a stemperare gli animi, appare nondimeno certa narrazione panegiristica, che di Joseph Ratzinger continua a farsi dal 31 dicembre. A peggiorare il quadro vanno ad aggiungersi le piccate, talora velenose, dichiarazioni, che il suo segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein, continua a rilasciare alla stampa o sono comunque diffuse quali estratti del suo libro “Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI”, in uscita per i tipi Piemme il 12 gennaio.

Nulla a che vedere, in ogni caso, con fantasiose ricostruzioni mediatiche, come quella offerta ieri mattina da Andrea Purgatori e da Lucetta Scaraffia, inconsolabile vestale del pontificato ratzingeriano, che su La7 hanno parlato d’un Gänswein a tal punto irato da non concelebrare la Messa esequiale. Ignorando, dunque, che la partecipazione ai funerali di un Papa da parte del proprio segretario particolare è in abito corale come fece, ad esempio, Stanisław Dziwisz a quelli di Giovanni Paolo II.

E proprio Gänswein insieme con le fidate Memores Domini, alcuni cardinali, tra cui il decano Giovanni Battista Re e il vicario di Roma Angelo De Donatis, un ristretto gruppo di persone particolarmente legate a Benedetto XVI hanno assistito alla di lui tumulazione, avvenuta nelle Grotte Vaticane immediatamente dopo i funerali. Prima d’essere calata in quella che fu la tomba di Giovanni XXIII e quindi di Giovanni Paolo II, la bara di cipresso contenente le spoglie del Papa emerito, come da prassi, è stata legata con un nastro rosso a forma di croce – sui quali sono stati impressi i sigilli in ceralacca della Camera apostolica, della Prefettura della Casa Pontificia, dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche e del Capitolo Vaticano –, e collocata in una doppia cassa di zinco e rovere.

Di Benedetto XVI resta ora il ricordo. Ma a fronte di tante ultime analisi e discettazioni sarebbe forse da leggere la sintesi della vita e del ministero di Joseph Ratzinger così come delineata dal Rogito, che, stilato in elegante latino e inserito in un cilindro metallico, è stato posto l’altrieri nella bara di cipresso insieme con i palli e le medaglie e monete coniate durante il suo pontificato.

Al di là dei dati biografici, particolarmente significativi i riferimenti alla promozione del dialogo ecumenico e interreligioso e al processo di ricomposizione dello scisma lefebvriano («dialogo cum anglicanis, iudaeis et aliarum religionum moderatoribus efficaciter favit, sicut et cum sacerdotibus e Communitate Sancti Pii X usus redintegravit»), alla lotta nel contrasto agli abusi su minori e persone vulnerabili («clericorum crimina contra minores seu vulnerabiles firmiter oppugnavit»), all’ampia produzione teologica, che ne costituisce il più ampio lascito («theologus probatae auctoritatis, insigne patrimonium studiorum pervestigationumque de praecipuis institutis fidei reliquit»).

Certo, si tratta pur sempre d’un testo appartenente al genere funebre-laudatorio. Ma le coordinate tracciate sono tali da indicare quali aspetti si dovranno soprattutto approfondire in futuro, per comprendere meglio la complessa personalità di un uomo, un teologo, un papa, che ha segnato la storia degli ultimi decenni.

La figura di Benedetto XVI è più complessa di quanto siamo soliti pensare. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 5 Gennaio 2023.

La morte del Papa Emerito, Benedetto XVI, ha scosso il mondo cattolico, radunando a San Pietro una folla di migliaia di fedeli provenienti da tutto il mondo per rendergli omaggio: descritto durante il suo pontificato come un papa “difficile”, eccessivamente erudito e sofisticato e, dunque, distante dal “sentimento” di fede popolare, la sentita e numerosa partecipazione alle sue esequie ha ribaltato ogni aspettativa e contraddetto la narrazione che soprattutto gli ambienti più progressisti e riformisti hanno contribuito a diffondere rispetto al defunto pontefice. Alla celebrazione del funerale – presieduto da Papa Francesco questa mattina alle 9,30 – hanno partecipato, infatti, oltre 100.000 persone e in tre giorni 200.000 fedeli sono accorsi a Roma per l’ultimo saluto. La Città del Vaticano è blindata per accogliere fedeli, religiosi e capi di Stato e su tutti gli edifici d’Italia sono state messe le bandiere a mezz’asta in segno di lutto. Sono state molte, inoltre, le delegazioni che a titolo personale sono giunte in Vaticano per omaggiarlo, mentre quelle ufficiali sono solo quelle di Germania e Italia. Non è mancato poi chi ha sottolineato che i funerali del Papa Emerito hanno fornito l’occasione per un vertice dei cosiddetti “leader sovranisti”: Giorgia Meloni, il premier ungherese Viktor Orban e quello polacco Mateusz Morawiecki si sono ritrovati, infatti, per ricordare Benedetto XVI. Sono gli stessi leader conservatori considerati vicini a una Chiesa definita impropriamente “conservatrice”.

Teologo di vasta e profonda erudizione, Joseph Ratzinger, nato a Marktl, in Germania, nel 1927, ha sempre svolto un ruolo di primo piano nella Chiesa conciliare e post-conciliare, avendo partecipato ai lavori del Concilio Vaticano II e ricoperto per buona parte del suo servizio ecclesiastico ruoli di spicco all’interno dei dicasteri cattolici: il 25 novembre 1981, Giovanni Paolo II lo ha nominato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. È divenuto poi anche Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale, fino alla sua elezione a Papa nel 2005. Per diversi devoti e commentatori restano ancora aperte le cause reali delle sue “dimissioni” – avvenute nel 2013 – considerando inverosimili le motivazioni ufficiali della sua rinuncia al munus petrino e ipotizzando ragioni legate a dissidi interni alla Chiesa che coinvolgono anche il piano politico internazionale.

La sua difesa della civiltà occidentale e delle sue radici cristiane, la lotta contro la dittatura del relativismo, la professione di una fede “radicale” e la difesa dell’antropologia cristiana e della natura umana contro quelle considerate le derive della “rivoluzione sessuale” hanno contribuito a dare di lui l’immagine di “ultimo baluardo della vera dottrina cattolica” presso una larga parte di fedeli che lo accostano erroneamente alla Tradizione cattolica, sebbene Ratzinger sia pienamente ascrivibile alla corrente “modernista”, tanto che molti lo ricordano per la sua capacità di «capire la modernità». Il che ha contribuito anche a creare quella spaccatura silenziosa, ma ben evidente, segnata dalle correnti apparentemente contrapposte dei “bergogliani” e dei “ratzingeriani”. I primi inclini a una riforma radicale della Chiesa, che si apra totalmente al mondo e alle sue logiche; i secondi propensi, invece, a difendere maggiormente i caposaldi della dottrina nella loro integrità, auspicando una Chiesa che non sia succube delle logiche mondane.

In realtà, la questione del dualismo inconciliabile tra “una Chiesa mossa dal mondo” e una “Chiesa che muove il mondo” non risale alla divisione tra ratzingeriani e bergogliani, bensì al Concilio Vaticano II (CVII) – aperto nel 1962 da Papa Giovanni XXIII, proseguito da Paolo VI e terminato nel 1965 – ai cui lavori Ratzinger ha dato un grande contributo. Lo spirito del Concilio è considerato dai cosiddetti “tradizionalisti” – rappresentati soprattutto dai “lefebvriani” della comunità di San Pio X –  come l’elemento che più di tutti nella storia del cattolicesimo ha determinato l’apertura – e indirettamente la sudditanza – della Chiesa al mondo, annacquandone la dottrina anche attraverso la modifica radicale della liturgia, passando dalla Messa antica o Messa tridentina – celebrata in latino – che segue il Messale Romano promulgato da Papa Pio V nel 1570, alla Messa “novus ordo” riformata.

Benedetto XVI è stato un difensore del Concilio avendo anche preso parte ai lavori in qualità di consulente teologico del cardinale Frings, arcivescovo di Colonia. Ratzinger – al contrario dei “tradizionalisti” che parlano di rottura – ha insistito molto sulla continuità del Concilio con l’intera storia del cattolicesimo, collocandolo all’interno della storia della Chiesa, secondo quella che è conosciuta come “ermeneutica della continuità”. Per questo molti sono contrari ad annoverare Ratzinger tra gli esponenti della Tradizione, definendolo piuttosto come un “modernista conservatore” che ha dato un notevole contributo al processo di modernizzazione della Chiesa e all’ecumenismo, pur tentando di frenarne le derive più marcate.

Tra i meriti attribuiti a Ratzinger e al suo pensiero teologico vi è sicuramente quello di avere insistito sull’accordo tra fede e ragione, viste non in contrapposizione, ma come elementi complementari, funzionali uno all’altro, secondo gli insegnamenti della patristica e della scolastica medievale. Ma anche quello di avere fatto notare i limiti della tecnoscienza assurta a verità ultima del mondo moderno e contemporaneo, condannandone la pretesa di poter soddisfare ogni esigenza della natura umana e mostrandone i pericoli. Ha inoltre “liberalizzato” la Messa antica, considerata forma extraordinaria del rito romano dal motu proprio Summorum Pontificum del 2007, annullato poi dal motu proprio di Papa Francesco, Traditionis Custodes, che ha sancito che il Messale riformato dopo il Concilio Vaticano II è «l’unica espressione della lex orandi del Rito romano». Secondo l’arcivescovo Georg Ganswein, segretario di Benedetto XVI, Traditionis Custodes avrebbe «spezzato il cuore» del Papa emerito, mostrando in questo una divergenza di vedute con il suo successore: «è stato un duro colpo. Io credo che abbia spezzato il cuore di Papa Benedetto leggere il nuovo Motu Proprio […] Se si pensa per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita e nutrimento spirituale per molte persone, tra cui molti santi, è impossibile pensare che non abbia più nulla da offrire», ha affermato l’arcivescovo, rimarcando così uno degli elementi di divisione all’interno della Chiesa che ha alimentato anche il divario tra i sostenitori di Bergoglio e quelli di Ratzinger.

Nonostante non fosse particolarmente amato dagli ambienti progressisti sia politici che ecclesiastici che l’hanno ritratto come un conservatore dogmatico – tanto che nel 2008 gli fu impedito di tenere un discorso all’università La Sapienza di Roma in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico – la sua dipartita ha dimostrato che il suo Pontificato ha lasciato un segno indelebile nel cuore di molti fedeli, grazie alla sua difesa delle radici della civiltà occidentale e per essersi opposto – seppure parzialmente –  a quelle che tra i fedeli vengono considerate le derive disgregatrici della fede e della natura umana. L’ampia partecipazione alle sue esequie è una dimostrazione di come quella che viene percepita – a torto o ragione – come un’adesione radicale ai principi della fede, lontana da aperture “mondane” – sia in grado di attrarre i fedeli, riuscendo a colmare il vuoto relativista e materialista molto spesso avvertito dalla società secolarizzata. [di Giorgia Audiello]

Cosa resta di Papa Ratzinger. Redazione L'Identità il 4 Gennaio 2023

di Anna Maria Fasulo

Joseph Aloisius Ratzinger da Marktl am Inn, Baviera, che regnò per otto anni (dal 2005 al 2013) col nome di Benedetto XVI, è morto. È giusto dare la solennità che spetta a questo momento: perché la morte di un uomo, qualsiasi uomo, è una cosa seria; e perché la morte del Papa emerito è certamente un evento particolare per la storia della Chiesa. Riassumere il pontificato di Benedetto XVI non è facile. Certamente è stato un Papato di conservazione, con un occhio molto attento ai contenuti ed alla catechesi. Il Papa teologo è stato un intellettuale, ma con un gran cuore: ed è stato capito da molti nel suo addio il 28 febbraio di quel drammatico 2013; decidere di lasciare non perché sia un vigliacco, ma semplicemente perché la sua missione è esaurita. Benedetto, con le sue dimissioni, ci ha risparmiato anni penosi di malattia, debolezza, ingrigimento, nel corso ed al termine dei quali il Papa, al solito, non avrebbe potuto decidere alcunché e molte decisioni sarebbero state prese da altri. Bisogna essergli grati anche per questo, a patto che non diventi un modo per trasformare il Papato in una specie di “presidenza” della Chiesa cattolica. Un futuro di Papi emeriti non sarebbe facile da gestire. Da emerito, la “non presenza” di Benedetto è stata pesante. Ha scelto di vivere in Vaticano: forse avrebbe dovuto lasciare Roma e ritirarsi in qualche monastero (è sempre stato affascinato dalla vita monastica), oppure tornare nella sua Germania. Francesco è stato molto intelligente a sapersi “appoggiare” a lui ed al suo enorme prestigio e peso morale ed intellettuale; ha posto un modello per eventuali Papi emeriti del futuro. Ma la domanda resta: che cosa sarebbe successo se il Papa emerito avesse contestato apertamente il suo successore? Questa cosa, domani, potrebbe succedere: e se i due Papi fossero entrambi in Vaticano, la cosa non aiuterebbe né la Chiesa né i fedeli. Ma questo, per adesso, resta nella fantareligione.  Che cosa resta di Ratzinger, dunque? C’è un tesoro culturale e intellettuale rappresentato non solo dai documenti magisteriali ma anche dai libri (la bellissima serie su Gesù è l’esempio più lampante) che resteranno nel pensiero occidentale. C’è il gesto clamoroso delle dimissioni che ha desacralizzato la figura papale e indicato una via che Bergoglio sta percorrendo  volte con delle esagerazioni (ma nessuno è perfetto). Ratzinger entrerà in una specie di “tridente della fede” facendo trittico con il predecessore Karol Wojtyla che lo volle a Roma e di cui fu grande e intimo amico; e col successore Bergoglio, che necessariamente dovrà sempre fare i conti con l’ombra di Benedetto e viceversa. Ma non è una figura destinata a scomparire, anche se resterà schiacciata tra l’enorme popolarità del predecessore e quella del successore: c’è il rischio che venga rimpianta da tanti, pur non essendo stata capita da tutti.

DUE PAPI E DUE CHIESE. Redazione L'Identità il 5 Gennaio 2023

di ANDREA ZHOK, Professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale, Università di Milano

Premesso che chi scrive non ha alcun titolo a parlare di un’istituzione millenaria, di cui neppure fa parte, tuttavia la vicenda della diarchia tra Benedetto e Francesco, connessa manifestamente e dichiaratamente a scontri di potere all’interno della Chiesa cattolica, segnala uno slittamento culturalmente rimarchevole – e come slittamento culturale riguarda tutti noi, cattolici e non.

Sin dalla scelta dei nomi gli orientamenti di Ratzinger e Bergoglio erano evidenti, ed evidentemente divergenti.

Rifarsi a Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine monastico dei benedettini, significava rifarsi a quella spina dorsale della cultura cristiana ed europea che erano i monasteri come luoghi di preghiera e lavoro (ora et labora). Questi monasteri conservarono la cultura degli antichi e costituirono un modello di comunità ancora oggi esemplare. Studio, contemplazione, lavoro, spiritualità, conservazione e comunità sono qui i riferimenti fondamentali.

Rifarsi a Francesco d’Assisi invece significava rifarsi a un modello antiistituzionale, pauperistico, rivoluzionario della Chiesa. Non è un caso che la scelta di Bergoglio sia isolata: è stata la prima volta che un papa decideva di prendere questo nome, giacché S. Francesco è ab origine un santo eccentrico, al limite dell’eresia, ma alla fine ricondotto nell’alveo della tradizione e della Chiesa. Rifarsi a Francesco significava idealmente muoversi in una direzione innovativa, di liberazione dalle incrostazioni del passato, “democratica”.

Naturalmente entrambe le figure storiche, sia quella di Benedetto da Norcia che quella di Francesco d’Assisi sono esempi grandiosi di virtù e visione, e dunque entrambi sono straordinariamente degni di una ripresa e riproposizione del loro messaggio profondo. Non siamo qui dunque certo a inscenare un “concorso di bellezza” tra santi per stabilire chi sia il “migliore”.

Tuttavia questa diarchia, che ha rappresentato una questione eminentemente politica, con le dimissioni di Benedetto e l’avvento di Francesco presenta un aspetto culturalmente di grande interesse se lo collochiamo, come è necessario fare, nel generale processo storico corrente, di imposizione della ragione liberale in Occidente.

Il teologo Benedetto rappresentava in certo modo il volto classico del ruolo della Chiesa: la Chiesa come àncora, roccia cui aggrapparsi, come istituzione antichissima e radicata nella storia, capace di integrare variamente istanze e culture plurali, senza però mai perdere di vista il senso della propria continuità.

L’accusa all’istituzione ecclesiastica di essere un “freno conservatore al progresso” è in qualche modo un topos, una figura dello spirito, e una tesi non senza motivazioni: non c’è alcun dubbio che la Chiesa non sia mai stata animata da alcuna pulsione rivoluzionaria (avendo una rivoluzione spirituale alle sue proprie origini) e al contrario, che abbia sempre fatto spazio con fatica, cautela e prudenza ad ogni innovazione, dalla Dottrina sociale della Chiesa, al modernismo, al Concilio Vaticano II.

Ma, come sempre, il ruolo di una visione o di un’istituzione cambia in modo essenziale a seconda del contesto in cui opera.

E qual è il contesto odierno, in cui opera la Chiesa del XXI secolo?

Si tratta, almeno in Occidente, di un contesto di frenetica accelerazione tecnologica, tecnocratica, soggettivista, scientista, di un processo di sistematico scioglimento dei legami, di sradicamento, di cancellazione del passato, di dissoluzione identitaria. Questa tendenza è strettamente legata a quel processo secolare che è stato l’evoluzione del capitalismo di matrice angloamericana, che nell’ultimo mezzo secolo ha raggiunto una connotazione di imperialismo culturale in tutto l’Occidente (e nelle parti occidentalizzate del resto del mondo, come il Giappone urbano).

Di per sé tanto rifarsi alla tradizione di Francesco che a quella di Benedetto avrebbe potuto di principio rappresentare una mossa di distanziamento dalle tendenze contemporanee. Dopo tutto Francesco è il santo “anticapitalista” per eccellenza, nel messaggio e nell’esempio, e peraltro il sudamericano Bergoglio avrebbe potuto giovarsi della lezione dell’America Latina, dove la percezione popolare dell’Impero americano come minaccia persistente è un tratto di fondo.

Ma il papa, non bisogna mai dimenticarlo, è sì un sovrano assoluto, ma non è onnisciente né onnipotente: come ogni sovrano deve agire affidandosi ad una struttura di consiglieri e informatori. Ciò che è apparso sempre più chiaro con il passare del tempo è che quell’entourage vaticano che aveva messo in grave difficoltà Ratzinger era ora nelle condizioni di orientare in sempre maggiore misura le posizioni e affermazioni del nuovo papa, che in quanto per disposizione e formazione “progressista”, era disposto a dare ascolto ad orientamenti up to date. Scivoloni degni di Repubblica come la stigmatizzazione della “crudeltà di ceceni e buriati” tra le truppe russe sono il segno del fatto che l’entourage papale non confida più su fonti autonome, ma è manifestamente sintonizzato sulla pubblicistica delle agenzie di stampa dominanti (le statunitensi Associated Press e United Press International e la britannica Reuters).

L’apparente perdita di autonomia culturale della Chiesa, il suo farsi trascinare sempre di più dall’opinionismo alla moda, dalla ricerca di compiacere i mutamenti di costume, il suo farsi dettare l’agenda culturale dalla cosiddetta “comunità internazionale” è un segno dei tempi, un segno preoccupante.

In questi tempi di rimozione, dissoluzione e cancellazione generalizzata, il carattere conservatore dell’istituzione ecclesiastica avrebbe un grande ruolo da giocare. Questo ruolo non dipende, sia detto per chiarezza, dal fatto che la tradizione tomistica e le successive elaborazioni vaticane siano “sempre nel giusto”, o che abbiano sempre una risposta adeguata alle sfide correnti. Il punto sta nel fatto che un’istituzione millenaria, radicata, capace di conservare in vita un coacervo di tradizioni, sarebbe di per sé, con la sua stessa ingombrante esistenza, un fondamentale bastione di opposizione ad una tendenza storica corrente che si caratterizza per un’irriflessa accelerazione e un “progressismo” caotico.

Il venir meno di questa fondamentale autonomia, di questa estraneità alle esigenze della modernità è un grave danno culturale, non solo per i cattolici, ma per l’intero mondo occidentale.

I due Papi. Per Bergoglio, Ratzinger è stato «un grande maestro di catechesi». L’Inkiesta il 5 Gennaio 2023.

Il Pontefice ha reso omaggio al predecessore: «Il suo pensiero acuto e garbato non è stato autoreferenziale, ma ecclesiale, perché sempre ha voluto accompagnarci all'incontro con Gesù». Prosegue il terzo e ultimo giorno di omaggio a Benedetto XVI

Nel terzo e ultimo giorno di omaggio a Benedetto XVI, Papa Francesco ha ricordato con affetto il suo predecessore: «È stato un grande maestro di catechesi. Il suo pensiero acuto e garbato non è stato autoreferenziale, ma ecclesiale, perché sempre ha voluto accompagnarci all’incontro con Gesù»,  ha detto nel corso dell’udienza generale tenutasi nell’Aula Paolo VI. «Ci aiuti ora a riscoprire in Cristo la gioia di credere e la speranza di vivere».

Finora 135mila persone hanno reso omaggio al Papa emerito alla basilica vaticana che rimarrà aperta fino alle 19 di oggi, prima del funerale che si terrà giovedì 5 gennaio in Piazza San Pietro. Come riporta l’Ansa, il direttore della sala stampa vaticana Matteo Bruni ha rivelato qualcosa sulla cerimonia funebre per Ratzinger. A partire dalla bara che avrà tre rivestimenti: in cipresso, zinco e legno. Mentre all’interno saranno inserite le monete e le medaglie coniate durate il pontificato di Benedetto XVI durato dal 24 aprile 2005 al 28 febbraio 2013, giorno formale in cui si è dimesso dalla carica di 266esimo Papa della chiesa cattolica. Nella bara sarà inserito anche un cilindro di metallo che contiene un testo sul pontificato di Ratzinger. 

Pietro Parolin: «Ha fallito chi pensava di approfittare dei due Papi per creare confusione». GIan Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Il segretario di Stato vaticano ricorda Ratzinger: «Dopo le sue dimissioni andavo a trovarlo». «Le caricature costruite da qualcuno per denigrarlo verranno spazzate via»

«La contingenza storica che ha visto convivere nello stesso tempo due Successori di Pietro ha configurato per la Chiesa una situazione istituzionale inedita, che poteva anche essere delicata. Qualcuno magari ha pensato di approfittarne, e magari ci ha anche provato, per spargere confusione. Ma non è riuscito nel suo intento...». Il cardinale Pietro Parolin, 67 anni, segretario di Stato vaticano, racconta di questi anni unici nella storia della Chiesa.

Perché chi voleva creare confusione non ci è riuscito, eminenza?

«Per la fede del Papa e del Papa emerito e per le preghiere del Popolo di Dio, che li ha sempre abbracciati e sostenuti tutti e due. La fede del Popolo di Dio è sempre connotata da un affetto istintivo nei confronti del Successore di Pietro. Fa parte di quello che la Chiesa riconosce come il sensus fidei, l’istinto della fede, di cui tanto ci ha parlato Joseph Ratzinger e continua a parlarci papa Francesco. Ricordo che il cardinale Joseph Ratzinger riconosceva quella che lui definiva la “funzione davvero democratica” del Magistero ecclesiale, chiamato a volte anche a proteggere tutti i battezzati dalle operazioni di parte».

Tempo fa, a proposito della «naturale continuità del magistero papale», notava il tratto unico che aveva assunto con Francesco e Benedetto. Che cosa è stato?

«La prossimità fraterna tra papa Francesco e il Papa emerito Benedetto XVI l’abbiamo vista tutti. L’affetto espresso nei loro abbracci, negli sguardi e nelle parole che si scambiavano nei loro incontri è stato per tanti motivo di commozione e di consolazione. Ricordo le parole indimenticabili che Benedetto rivolse a papa Francesco nel giugno del 2016, in occasione della piccola celebrazione dell’anniversario della sua ordinazione sacerdotale. “Grazie a lei, Santo Padre, la sua bontà dal primo momento della elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce interiormente”, disse quella volta Ratzinger, aggiungendo che “più che i Giardini Vaticani con la bellezza che hanno, la sua bontà è il luogo dove abito, mi sento protetto”».

Eppure erano diversi, no?

«L’affetto tra Benedetto XVI e papa Francesco ha reso manifesta anche la loro consonanza di sguardo davanti al mistero palpitante della Chiesa. Certo, loro hanno avuto temperamenti, sensibilità, idee, preferenze, percorsi esistenziali diversi. Anche questo fa parte della bellezza della Chiesa e dello stesso ministero dei Successori di Pietro. La Chiesa è adornata dal suo Signore di molti gioielli, e nessun Papa è il clone di un altro Papa. La cosa che garantisce il cammino è la fede condivisa in Gesù, seguire Lui, ognuno coi propri tesori e le proprie povertà. La fede di Pietro ha accomunato Benedetto e papa Francesco».

E che altro?

«Hanno avuto, con accenti diversi, la stessa sollecitudine missionaria. Hanno ripetuto che la fede e il cristianesimo non sono uno sforzo etico o religioso, ma un dono di grazia, che avviene incontrando Gesù. Ambedue, anche negli anni della loro convivenza nel “recinto di Pietro”, hanno ripetuto che il frutto del seguire Gesù è la felicità, la “vera gioia”, come ripeteva sempre papa Ratzinger, e la possibilità inesauribile di sperare sempre nel cammino della vita, anche quando è segnato da difficoltà e dolore. Tutti e due, in modo diverso, hanno ripetuto che l’unica missione della Chiesa è annunciare Gesù, che solo se la Chiesa segue Gesù non si ripiega su sé stessa, non diventa “autoreferenziale”, e questo seguire Gesù e annunciare al mondo la sua salvezza è anche la vera sorgente di ogni autentica riforma ecclesiale».

Il suo ricordo personale di Joseph Ratzinger?

«Ho lavorato in segreteria di Stato come sottosegretario per i Rapporti con gli Stati durante i primi quattro anni del Pontificato di Benedetto XVI, dal 2005. Nel 2009 mi nominò Nunzio Apostolico in Venezuela e accettò di ordinarmi Vescovo nella Basilica di San Pietro assieme a quattro altri sacerdoti. Fu per me una grande gioia e un’esperienza indimenticabile. L’omelia che egli pronunciò in quell’occasione ha impressionato tutti: a me è scesa nel profondo del cuore e continua ad essere guida per il mio cammino e il mio servizio alla Chiesa. Dopo la sua rinuncia e il mio ritorno in Vaticano lo andavo a trovare una volta all’anno, a Natale. Mi trasmetteva sempre una sensazione di grande serenità e di pace profonda. Più che incontri di cortesia erano momenti di preghiera: egli continuava a intercedere per la Chiesa, chiedendo al Signore di custodirla e di consolarla. E percepiva che a sostenerlo e quasi portarlo in braccio erano le preghiere del Popolo di Dio, che gli voleva tanto bene, come testimoniano in questi giorni anche le moltitudini di persone di ogni età che rendono l’ultimo saluto alle sue spoglie mortali, qui a san Pietro».

In questi giorni, a cominciare da papa Francesco, molti hanno fatto notare anzitutto la sua gentilezza...

«In papa Ratzinger la gentilezza non era solo un tratto temperamentale. Era anche il riverbero di come il Vangelo aveva modellato nel tempo il suo cuore e la sua anima. Egli è stato uno dei più grandi teologi del Novecento. Nel contempo, viveva questo suo dono senza supponenza, ostentazione, sempre proiettato fuori da sé stesso, preso dall’entusiasmo di condividere con tutti e di far partecipi tutti dei tesori della Tradizione, dei Padri della Chiesa, della grande teologia. Quando era professore, i suoi studenti per primi hanno goduto e potuto far tesoro della passione calma e piena di stupore con cui aiutava a far percepire con parole semplici e luminose anche i grandi misteri della fede cristiana. La stessa cosa l’ha potuta sperimentare tante volte anche il Popolo di Dio, quando lui è divenuto Papa. Proprio da questo suo sguardo sempre puntato sul cuore della fede sgorgava la sua umiltà, nel riconoscimento dei propri limiti. Una umiltà che ha avuto la sua massima manifestazione pubblica proprio nel suo spogliarsi del suo ministero petrino».

In che senso?

«Lui si è spogliato anche del Papato. È rimasta la sua fede nuda. Quella di chi rende lode con gratitudine al Signore anche per aver nascosto le cose importanti ai sapienti e ai dotti e averle rivelate ai piccoli. Per questo credo che anche le caricature malevoli costruite da qualcuno per denigrare la sua persona verranno spazzate via come pula, nella memoria lunga della Chiesa».

Addio a Ratzinger, parla mons. Satriano: «Ha offerto sintesi tra fede e ragione». A Bari la celebrazione eucaristica in suffragio al Papa emerito. Redazione online su La Gazzetta del mezzogiorno il 4 Gennaio 2023.

«Nell’umiltà vissuta e testimoniata, frutto della sua intimità con il Signore, egli ha offerto il punto di sintesi e di saldatura tra fede e ragione, aprendo alla consapevolezza del limite, vero e proprio criterio ermeneutico con cui affrontare ogni ricerca, ogni dialogo, ogni confronto». E' un passaggio dell’omelia dell’arcivescovo di Bari-Bitonto, monsignor Giuseppe Satriano, nella celebrazione eucaristica in suffragio del Papa merito Benedetto XVI, nella Cattedrale di Bari.

«Errato considerarlo - ha evidenziato l’arcivescovo - un Papa di transizione. Da pontefice, Benedetto ha operato una grande apertura del papato stesso alla consapevolezza di una coscienza, mai sopita e mai sottomessa alle ragioni del ruolo».

«Incoraggianti - ha ricordato Satriano - le sue parole in quel lontano maggio 2005, rivolte all’assemblea radunata sulla spianata di Marisabella, qui a Bari, in occasione del Congresso eucaristico nazionale».

L’arcivescovo ha dunque citato le parole pronunciate da Benedetto in quell'occasione: «'Neppure per noi è facile vivere da cristiani'» e che «'la strada che Dio ci indica nella sua Parola va nella direzione iscritta nell’essenza stessa dell’uomo.

La Parola di Dio e la ragione vanno insieme. Seguire la Parola di Dio, andare con Cristo significa per l’uomo realizzare se stesso; smarrirla equivale a smarrire se stesso. Il Signore non ci lascia soli in questo cammino. Egli è con noi; anzi, Egli desidera condividere la nostra sorte fino ad immedesimarsi con noi», disse il Papa a Bari.

«Pastore dal tratto gentile e dallo sguardo profondamente umano - ha sottolineato ancora Satriano - ha illuminato col suo breve pontificato un periodo storico non semplice. Le fatiche della Chiesa facevano ormai capolino tra le fatiche del mondo, delineando un periodo difficile, inquieto, che ancora oggi segna i nostri vissuti».

Fabrizio De Feo per “il Giornale” il 6 gennaio 2023.

La politica italiana si ritrova in Piazza San Pietro per l'ultimo saluto al Papa emerito Joseph Ratzinger. In prima fila poco dopo le nove il capo dello Stato Sergio Mattarella, con la figlia Laura e il segretario generale alla presidenza Ugo Zampetti, si siede dietro le transenne, raggiunto da Giorgia Meloni. Dopo pochi istanti Mario Draghi, raggiunge lo spazio riservato alle autorità italiane.

 Saluta Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant' Egidio e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Si sistema la sciarpa blu e si intrattiene per qualche minuto a colloquio con Giancarlo Giorgetti. Un faccia a faccia che fa scattare inevitabilmente la curiosità dei cronisti e le ipotesi sui contenuti della loro chiacchierata.

 Il titolare del ministero dell'Economia d'altra parte è l'uomo che rappresenta la continuità con il governo precedente, essendo l'unico ministro in carica nei due esecutivi. Inoltre l'ex ministro dello Sviluppo Economico non ha mai nascosto la sua grande stima per Draghi, da lui definito come «un uomo autorevole, un fuoriclasse». Giorgetti ha sostenuto la sua ascesa a presidente del Consiglio e ha tentato di promuoverne la candidatura per il Quirinale.

 Nell'autunno del 2021, nel libro di Bruno Vespa Perché Mussolini rovinò l'Italia (e perché Draghi la sta risanando), disse che «anche da lì guiderebbe il convoglio, sarebbe un presidente della Repubblica che allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole».

 Nel suo trasloco da via Molise a via XX Settembre, Giorgetti incassò anche un attestato di stima importante da parte di Daniele Franco: «Sarebbe adattissimo per fare il ministro», disse l'ex titolare dell'Economia. Giorgetti, d'altra parte, ha sviluppato il suo percorso a cavallo tra politica ed economia ricoprendo in parlamento il ruolo strategico di presidente della commissione Bilancio, forte della sua laurea in Economia conseguita alla Bocconi.

 Da tempo Draghi e Giorgetti non si vedevano di persona. È rimasto un filo diretto anche in questi mesi di avvio della legislatura. E la stima è forte e invariata, con Supermario che pare abbia apprezzato la linea prudente e realistica adottata sulla Legge di Bilancio, un approccio che ha rassicurato i mercati evitando l'attacco della speculazione.

 La presenza di Mario Draghi a Piazza San Pietro non è figlia di un omaggio formale. L'ex numero uno della Bce aveva un rapporto di grande stima verso Benedetto XVI ed ebbe un ruolo nella stesura dell'enciclica Caritas in Veritate. Dopo la crisi dei subprime, infatti, Benedetto XVI chiese all'allora segretario di Stato Tarcisio Bertone che fosse l'allora governatore di Bankitalia Mario Draghi a rileggere l'Enciclica, scritta in collaborazione con Stefano Zamagni.

 Draghi pubblicò poi un articolo su L'Osservatore Romano, criticando il liberismo selvaggio come «un modello in cui gli operatori considerano lecita ogni mossa». Draghi è uomo dalle solide radici cattoliche, a partire dalla sua formazione scolastica nel prestigioso istituto della Compagnia di Gesù del Massimiliano Massimo di Roma dove conseguì la maturità classica nel 1965. Un rapporto con la fede che lo accumuna allo stesso Giorgetti, cattolico praticante, uno dei pochi politici invitati nel 2019 alla prima edizione della Summer School di formazione geopolitica organizzata dalla Diocesi di Roma.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 6 gennaio 2023.

Aspettate. È vero: sembra non esserci racconto.

Sapete tutto, avrete già visto tutto. Intere batterie di telecamere in diretta tivù da piazza San Pietro, i fotografi appostati sulla Terrazza del Braccio di Carlo Magno zumano su ogni dettaglio di questo funerale così irrituale - non il primo, però - con un Papa che celebra le esequie del suo predecessore. I siti dei giornali in continuo aggiornamento, social network in sacra tempesta, whatsapp che fanno il giro del pianeta.

Forse, nei giorni che verranno, qualcosa si potrà aggiungere sulla scena di maggior impatto dell'intera cerimonia, osservata poco fa, a una ventina di passi: monsignor Georg Gänswein, in ginocchio, bacia - teatralmente - la bara di Benedetto XVI, di cui è stato segretario personale, mentre le agenzie di stampa battono stralci del suo libro biografico, Nient' altro che la Verità , pieno, gonfio di tremende accuse a papa Francesco.

 Ma ci sarà tempo per saperne di più, e svelare retroscena, capire meglio cosa è successo, e soprattutto succederà, nella penombra di certi corridoi della Santa Sede.

Aspettate, invece.

Perché ci sono due enormi battenti suggestioni da riferire. E che solo dal vivo, qui, su questo sagrato, vicino a quella bara di cipresso - sotto un cielo basso, velato di nebbia, nella luce giallognola dei lampioni, un occhio sulla folla e un altro all'altare - è stato possibile sentirsi addosso: Joseph Aloisius Ratzinger non era percepito dai fedeli come un Papa emerito, un pensionato sia pure ancora vestito di bianco, ma come un autentico e grandioso Papa in attività; ed è così che Francesco, all'improvviso, appare tremendamente solo, e fragile, e indifeso.

Legge la sua omelia - «Benedetto, fedele amico dello sposo, che la tua gioia sia perfetta» - con voce non più tonda, sempre meno scandita; è arrivato spinto su una sedia a rotelle e, sebbene tutti sapessimo dei suoi 86 anni portati con crescente fatica, della gonalgia che gli tormenta il ginocchio, adesso ci appare curvo, piegato; tremante s' è aggrappato alla ferula, in alcuni momenti è sembrato quasi nascondere lo sguardo.

Certo è impossibile dire se abbia intercettato quello levigato nel marmo di monsignor Gänswein, che siede lì di fronte accanto alle Memores Domini, le donne di Comunione e Liberazione che hanno assistito Benedetto XVI nei quasi dieci anni trascorsi dentro il monastero Mater Ecclesiae. Mentre - questo si può invece scrivere con qualche certezza - Bergoglio non ha avuto bisogno di rivolgere nemmeno mezza occhiata ai ranghi dei 130 cardinali, macchia rossa e immobile alla sua destra.

Sa perfettamente che, tra loro, si annidano i suoi avversari più temibili. Brandmüller, Pell, Müller, Burke, Sarah, Zen Ze-kiun. Cardinali critici, con durezza, su vari fronti. Cardinali che videro nell'elezione di Benedetto XVI la possibilità di rilanciare un certo wojtylismo con assoluta fermezza dottrinale e che poi rimasero profondamente delusi: un po' per come Ratzinger reagì alla bufera degli scandali che deflagrarono durante il suo pontificato, confondendo un drammatico tono penitenziale, con miserabile cedevolezza; un po' per la decisione di rinunciare al soglio pontificio, annunciata quel lunedì 11 febbraio del 2013.

Ma di cardinali pronti a far ripartire trame e agguati sul cammino di papa Francesco, dietro le transenne, c'è percezione scarsa, se non proprio nulla.

Ai circa duecentomila fedeli affluiti da lunedì per rendere omaggio alla salma di Benedetto XVI, bisogna aggiungerne altri cinquantamila che, ora, dopo aver superato i metal detector sistemati tra le colonne del Bernini, pregano a mani giunte. Una folla commossa, riverente, piena di affetto e di riconoscenza per un Papa che, da quasi un decennio, non aveva più preso la parola in pubblico, e che comunicava il suo pensiero solo attraverso sofisticati testi scritti. Suore e boy-scout, badanti straniere e militari in libera uscita, preti di campagna, infermiere, giovani e anziani, mamme con i figli nel passeggino, bavaresi in abito tipico. Distribuite migliaia di copie dell'Osservatore Romano e di un libretto con cui seguire la messa (in copertina, l'immagine della Deposizione di Caravaggio).

Molti striscioni con identiche scritte: «Santo subito» e «Danke Papst Benedikt». Lacrime e rosari. Sembra che anche il ministro Giancarlo Giorgetti ne stringa uno tra le dita. Accanto a lui, mezzo Cdm: Crosetto (con zuccotto blu tipo incursore della Marina: però, in effetti, c'è un'umidità inconsueta), Nordio, Lollobrigida, Bernini, Tajani, Sangiuliano. È arrivato pure Mario Draghi, molto omaggiato.

 Niente a che vedere, però, con l'accoglienza riservata a Pier Ferdinando Casini: trattato come un cardinale emerito. Siedono, in prima fila, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e la premier Giorgia Meloni; dietro, il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, e Maurizio Gasparri, in sostituzione del Presidente del Senato, Ignazio La Russa (influenzato per una botta di freddo, sembra, presa a Cortina).

 La nostra delegazione e quella tedesca sono le uniche ufficiali. Altri capi di Stato e presidenti sono venuti a titolo personale. Ecco i sovrani del Belgio, Mathilde (con velo nero) e Filippo. La regina Sofia di Spagna, il presidente lituano Gitanas Nauseda, il polacco Andrzej Duda, il portoghese Marcelo Rebelo de Sousa.

 «L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio», dice il celebrante cardinale decano Giovanni Battista Re. La messa funebre - sobria, come aveva chiesto il defunto - volge al termine, la nebbia si è diradata e ne resta solo una nuvola, che copre il Cupolone. Le guardie svizzere in alta uniforme portano al petto le loro alabarde. Dal portone escono i dodici sediari che vanno a schierarsi ai lati della bara.

I funerali hanno un momento in cui diventano tutti uguali, con la domanda di un lampo: chi è stato l'uomo che se ne va per sempre? Papa Francesco, per Ratzinger, ha evocato i concetti di dedizione e delicatezza. Ma a questa folla, cercando di interpretarne gli umori, sono piaciuti molto anche la purezza di spirito capace d'una scossa di clamorosa, rivoluzionaria modernità: non mi sento più all'altezza, lascio. Il coro intona il Magnificat . C'è un applauso lungo e intenso. Papa Francesco, adesso ritto, appoggiato al bastone, aspetta la bara portata a spalla al centro del sagrato. «Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto. Sicut erat in principio, et nunc et semper, et in sæcula sæculorum. Amen». Nei secoli dei secoli. Che poi è la spiegazione di tutto.

I funerali in mondovisione e i 50 mila in piazza San Pietro per l’addio a Ratzinger. Andrea Canali Spezzaferro su L’Identità il 6 Gennaio 2023

Sono stati intensi questi giorni dal 31 dicembre scorso fino al rito finale dei funerali. Infatti, da quando è avvenuta la traslazione della salma nella Basilica di San Pietro e dopo che sono accorse oltre 20mila persone in Basilica per poterlo salutare, comprese le maggiori cariche dello Stato, i preparativi da parte del cerimoniale vaticano sono stati impegnativi, seppur inconsueti, in quanto non vi sono i conseguenti “novindiali” preparatori del conclave – come invece accade di solito quando muore un Papa -, per effettuare le elezioni e scegliere il suo successore. Come previsto, il funerale è stato trasmesso in mondovisione e in diretta da San Pietro, a partire dalle ore 8.45, quando il feretro con le spoglie di Joseph Ratzinger è stato portato sul sagrato. Tutto inizia con la recita del rosario. La messa, prevista per le ore 9.30, è stata presieduta da Papa Francesco il quale ha pronunciato l’Omelia, ma a celebrare è stato il Cardinale Giovan Battista Re, in qualità di decano del Collegio cardinalizio. Nell’omelia Bergoglio parte dal vangelo, ricordando le ultime parole pronunciate da Cristo sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. E rivolgendosi al Papa emerito afferma: “Siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde”. Parole intense quelle pronunciate da Papa Francesco, il quale in un passaggio del suo discorso aggiunge: “Oggi grati per la sua sapienza, delicatezza e dedizione”. Proprio Benedetto XVI si definì il “semplice Pellegrino” in occasione dell’ultima apparizione pubblica in Castel Gandolfo, in data 28 febbraio 2013 (dopo le dimissioni). Quando la bara di cipresso è stata chiusa, al suo interno sono state inserite le medaglie e le monete coniate durante il suo Pontificato, i palli del vescovo e il rogito in un apposito tubo di metallo. Il funerale è stato un evento epocale: ha visto la presenza di più di 50mila fedeli emozionati e commossi che chiedevano già dai giorni scorsi a gran voce di voler Benedetto XVI Santo. Quello che è successo il 5 gennaio si può considerare cruciale per la Chiesa del terzo millennio, oltre che un unicum. Basti pensare che hanno partecipato alla celebrazione anche 120 cardinali ed almeno 4mila sacerdoti. Inoltre, per tale evento sono stati accreditati più di 600 giornalisti da tutto il mondo. Non solo, ma pur non essendo formalmente dei funerali di Stato, sono state accreditate importanti delegazioni ufficiali come quella dell’Italia – alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella (con il nostro paese in lutto, mentre non lo è stato il Vaticano). Per la Germania erano presenti il presidente Frank-Walter Steinmeier, il cancelliere Olaf Scholz, il primo ministro della Baviera, Markus Söeder (presente a titolo privato). Poi erano presenti i sovrani del Belgio, Filippo e Mathilde, il presidente polacco Andrzej Duda e quello portoghese, Marcelo Rebelo de Sousa, nonché la regina madre della Spagna, Sofia. Insomma, la partecipazione è stata di spessore, anchali di Benedetto XVI e in merito alle relazioni e i rapporti ecumenici, intrapresi durante il suo pontificato, da Papa Benedetto XVI, che ha determinato la presenza di importanti rappresentanti ecumenici, come Antony di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le Relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca.Tra gli altri, il metropolita Emmanuel di Calcedonia e Policarpo d’Italia, per il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli. Dopo la messa il feretro è stato portato nelle Grotte vaticane per la sepoltura. Qui, come già annunciato dalla Sala Stampa Vaticana, il rito prevede che il feretro sia stato posto in una bara di zinco e sigillato. Di seguito la bara di zinco è stata collocata in un’altra bara di legno e prima di essere sepolta viene messa una fettuccia intorno alla bara, dei sigilli della Camera apostolica, della Casa pontificia e delle Celebrazioni liturgiche per poi effettuare la tumulazione. Il tutto è stato eseguito in forma privata. Cosa lascia la scomparsa di Ratzinger al Popolo di Dio? Sicuramente la piena realizzazione, in base alle sue forze e ai suoi intendimenti, del suo Pontificato; affermando infatti, poco prima di abbandonare questo mondo terreno: “Gesù Ti Amo!”. Non è stato sicuramente facile per Papa Benedetto XVI raccogliere il testimone lasciato da San Giovanni Paolo II. Basti pensare che verrà sepolto proprio nella stessa tomba dove era il Papa polacco prima di essere beatificato. Sono stati dei funerali semplici ma unici, che sicuramente rimarranno alla storia.

La fede nella musica secondo Papa Ratzinger. Benedetto XVI ha studiato i grandi compositori da Bach a Verdi per trovare una via verso Dio. Mattia Rossi il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

Se è vero che la musica, nata con la chiesa, ha da sempre accompagnato la sua storia e la vita d'Oltretevere dei papi lungo i secoli, è altrettanto corretto notare come vi siano stati alcuni papi che, con il loro magistero, hanno maggiormente segnato il corso della musica. Fatta eccezione per la bolla avignonese trecentesca Docta sanctorum di Giovanni XXII con la quale si tentò di arginare e regolamentare il proliferare della nascente polifonia, il primo documento papale vero e proprio dedicato alla musica è l'enciclica Annus qui di Benedetto XIV datata 1749 con cui papa Prospero Lambertini affrontò sistematicamente le maggiori questioni in tema di musica sacra condannando i principali abusi.

Due sono, invece, i testi fondamentali nel corso del '900: il motu proprio Inter sollicitudines di Pio X del 1903, con il quale papa Sarto, sulla scia di Benedetto XIV, bandì la musica teatrale e melodrammatica ottocentesca dalle chiese come era in voga in quel periodo, e l'enciclica Musicae Sacrae disciplina di Pio XII del 1955. Papa Pacelli fu un papa musicista: si dilettava al violino e, complice il periodo come nunzio in Germania, era un profondo estimatore di Wagner: nella sua enciclica dedicata alla musica Pio XII, anch'egli richiamandosi alla Annus qui, ne offrì un'elevatissima lettura teologica.

Nel caso di Joseph Ratzinger la musica ha plasmato a fondo la sua ricerca teologica e la sua produzione accademica. Di certo Ratzinger è stato, dopo Pio XII, il papa più attento e competente (suonava abitualmente il pianoforte) in fatto di musica nel '900: «Nel guardare indietro alla mia vita, ringrazio Dio per avermi posto accanto la musica quasi come una compagna di viaggio», disse nel 2007. La musica fu, del resto, una sorta di marchio di famiglia dei fratelli Ratzinger: Georg, anch'egli sacerdote, diresse per trent'anni il coro della cattedrale di Ratisbona e i Regensburger Domspatzen, sotto la sua guida, raggiunsero i massimi livelli di purezza e precisione sonora come testimoniato dall'ampia discografia per Deutsche Grammophon, Rca, Polydor.

Eletto al soglio petrino, Ratzinger vantava di decenni di studio e di ricerca sulla musica. Una preziosa fonte che racchiude il cuore della ricerca musicologica di Ratzinger è l'undicesimo volume dell'opera omnia dedicato alla teologia della liturgia (Libreria Editrice Vaticana, 2010) che raccoglie numerosi testi.

Nel 1974, Ratzinger era professore all'Università di Ratisbona e scrisse un saggio per il centenario della locale scuola di musica sacra: Il fondamento teologico della musica sacra, un testo riedito in La festa della fede (Jaca Book, 1983, 2005) in cui il prof. Ratzinger si concentrò sulla musica nella teologia di san Tommaso d'Aquino scagliandosi contro quel «banale razionalismo postconciliare che ritiene degno della liturgia soltanto ciò che è per tutti razionalmente praticabile, e che è così giunto alla proscrizione dell'arte».

Nel 1985, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Ratzinger tenne una conferenza a Roma - L'immagine del mondo e dell'uomo propria della liturgia e la sua espressione nella musica sacra - nella quale dimostrò la stretta parentela tra liturgia, musica e uomo contemporaneo: «Oggi vediamo come all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare», scrisse aggiungendo che la musica insegna nuovamente all'uomo d'oggi «il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare ed insegnandogli a volare, che è il modo d'essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa nuovamente risuonare in lui il canto che era stato sepolto». Concetto ripreso nel 1994, nella conferenza A te voglio cantare davanti agli angeli tenuta in occasione del congedo del fratello alla guida della cappella musicale della cattedrale di Ratisbona.

Durante i suoi otto anni di pontificato, Benedetto XVI ha avuto modo di assistere a numerosi concerti e, ogni volta, prendendo la parola, non ha mancato di offrire chiavi di lettura anche delle grandi pagine sinfoniche e dei grandi compositori (alcuni passaggi sono stati pubblicati in La musica, Libreria Editrice Vaticana, 2009).

Per Ratzinger, papa musicologo, sopra tutti stava Bach, immagine della verità e della bellezza «più degli argomenti di ragione». Altro autore prediletto era Mozart che gli ricordava gli anni da ragazzo in parrocchia dove veniva cantata una sua messa: «In Mozart ogni cosa è in perfetta armonia, ogni nota, ogni frase musicale». Di Beethoven, Benedetto XVI analizzò diverse sinfonie: nella nona «il travolgente sentimento di gioia trasformato qui in musica non è qualcosa di leggero e di superficiale: è un sentimento conquistato con fatica, superando il vuoto interno di chi dalla sordità era stato spinto nell'isolamento. Le quinte vuote all'inizio del primo movimento e l'irrompere ripetuto di un'atmosfera cupa ne sono l'espressione. La solitudine silenziosa, però, aveva insegnato a Beethoven un modo nuovo di ascolto che si spingeva ben oltre la semplice capacità di sperimentare nell'immaginazione il suono delle note che si leggono o si scrivono». Schubert quando «fa calare un testo poetico nel suo universo sonoro, lo interpreta attraverso un intreccio melodico che penetra nell'anima con dolcezza, portando anche chi l'ascolta a provare lo stesso struggente rimpianto avvertito dal musicista». Bruckner fu il padre di un sinfonismo che «si stacca dal modello classico, il suo discorso musicale si sviluppa per grandi blocchi accostati, sezioni elaborate e complesse non delimitate in modo chiaro, ma separate molto spesso da semplici episodi di collegamento». Nel Magnificat di Vivaldi i «cinque assoli stanno quasi a rappresentare la voce della Vergine, mentre le parti corali esprimono la Chiesa-Comunità» e nel Credo «le modulazioni continue rendono il senso profondo dello stupore». Nel Verdi dello Stabat Mater «la musica si fa essenziale, quasi si afferra alle parole per esprimerne nel modo più intenso possibile il contenuto, in una grande gamma di sentimenti».

Papa Ratzinger, cosa si è portato nella bara: trema il Vaticano. Libero Quotidiano il 07 gennaio 2023

Il testamento spirituale di Papa Ratzinger è contenuto in un documento, il "Rogito", la cui copia è stata sepolta insieme al corpo di Benedetto XVI nella bara esposta al mondo giovedì in piazza San Pietro. Un compendio che raccoglie la vita, le opere, il pensiero teologico e le riflessioni del Papa Emerito. Un cilindro metallico capace di racchiudere e in un certo senso chiudere il travaglio della Chiesa dal secondo Dopoguerra all'inizio del nuovo Millennio. 

"Nella luce di Cristo risorto dai morti - recita uno stralcio pubblicato dal Corriere della Sera -, il 31 dicembre dell'anno del Signore 2022, alle 9,34 del mattino, mentre terminava l'anno ed eravamo pronti a cantare il Te Deum per i molteplici benefici concessi dal Signore, l'amato Pastore emerito della Chiesa, Benedetto XVI, è passato da questo mondo al Padre. Tutta la Chiesa insieme col Santo Padre Francesco in preghiera ha accompagnato il suo transito". 

 Nel "Rogito" si ricordano i trascorsi accademici di Ratzinger, dalla Scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga e l'Università di Monaco. all'ordinamento come sacerdote il 29 giugno 1951, la nomina a perito ufficiale del Concilio Vaticano II nel 1962, come assistente del Cardinale Joseph Frings. "Papa Montini lo creò e pubblicò Cardinale, del Titolo di Santa Maria Consolatrice al Tiburtino, nel Concistoro del 27 giugno 1977. Il 25 novembre 1981 Giovanni Paolo II lo nominò Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede". Quindi l'elezione a Pontefice dopo la morte di Papa Wojtyla, nel Conclave del 19 aprile 2005, quando si auto-definì "umile lavoratore nella vigna del Signore". Quindi l'ultima udienza generale del pontificato, il 27 febbraio 2013, successiva alla clamorosa decisione di dimettersi. "Continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre".

Nel documento si ricorda quindi il ritiro nel monastero Mater Ecclesiae, nel quale "visse gli ultimi anni della sua vita in Vaticano". "Il magistero dottrinale di Benedetto XVI si riassume nelle tre Encicliche Deus caritas est (25 dicembre 2005), Spe salvi (30 novembre 2007) e Caritas in veritate (29 giugno 2009)". C'era un filo comune, anche nelle sue quattro "Esortazioni apostoliche", ed era la lotta al relativismo e all'ateismo pratico sempre più dilaganti: "Nel 2010 - si legge -, con il motu proprio Ubicumque et semper, istituì il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, a cui nel gennaio del 2013 trasferì le competenze in materia di catechesi. Lottò con fermezza contro i crimini commessi da rappresentanti del clero contro minori o persone vulnerabili, richiamando continuamente la Chiesa alla conversione, alla preghiera, alla penitenza e alla purificazione". 

Ritratto inedito. Il sentito elogio del patriarca ecumenico di Costantinopoli a Benedetto XVI (e la condanna alla follia di Putin). Francesco Lepore su Linkiesta il 9 Gennaio 2023

Bartolomeo I, la massima autorità ortodossa e primo oppositore di Kirill, a Istanbul ha reso omaggio a Papa Ratzinger per la sua promozione del dialogo con tutte le confessioni cristiane e, in particolare, con quella ortodossa

A soli due giorni dalle sobrie esequie in piazza San Pietro, Benedetto XVI è stato ricordato con ben altra solennità, sia pur nella mestizia del rito, nella Seconda Roma. Sabato pomeriggio Istanbul, storico ponte tra Occidente e Oriente e crocevia di etnie, culture, religioni, ha visto infatti radunarsi autorità, tra cui il governatore Ali Yerlikaya, componenti del corpo diplomatico, fedeli di diverse confessioni cristiane presso la sede del Vicariato apostolico.

Nell’ottocentesca cattedrale dello Spirito Santo, principale luogo di culto cattolico della città a mezza via tra piazza Taksim e Nişantaşı, l’arcivescovo Marek Solczyński, nunzio apostolico – per capirsi, l’ambasciatore vaticano – in Turchia, Azerbaigian e Turkmenistan, ha presieduto il pontificale in suffragio del Papa emerito. A concelebrare con lui gli arcivescovi Ramzi Garmou, arcieparca caldeo di Diyarbakır, e Boghos Lévon Zékiyan, arcieparca di Costantinopoli degli Armeni, nonché i tre presuli di rito latino Martin Kmetec (arcivescovo di Smirne), Paolo Bizzeti (vicario apostolico dell’Anatolia) e, ovviamente, Massimiliano Palinuro, che quale vicario apostolico d’Istanbul e, dunque, “padrone di casa” ha voluto e organizzato la cerimonia nei minimi particolari.

Rispondendo così al suo invito, hanno inoltre partecipato, in compagnia delle rispettive delegazioni, anche il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il patriarca armeno di Costantinopoli Sahak II Mashalian, il metropolita e vicario patriarcale siro-ortodosso a Istanbul e Ankara Yusuf Çetin. La messa di suffragio si è così configurata, commenta Palinuro a Linkiesta, quale «grande momento non solo ecclesiale ma anche ecumenico». Un’ulteriore riprova, dunque, della particolare sollecitudine di Joseph Ratzinger nel promuovere il dialogo con le altre confessioni cristiane e, in particolare, con quella ortodossa.

L’ha rilevato nel suo splendido discorso Bartolomeo I, che, esattamente un mese fa, s’era fra l’altro nuovamente imposto alla generale attenzione nel condannare, ancora una volta con durezza, l’invasione dell’Ucraina, denunciare il panslavismo quale base ideologica dell’aggressivo espansionismo russo, puntare il dito contro il suo omologo moscovita Kirill, promotore della tesi della “Santa Russia” (Rousskii Mir) e artefice d’una fede ridotta a «colonna vertebrale dell’ideologia del regime» putiniano.

Indiscussa l’importanza delle parole, con cui il patriarca di Costantinopoli, riconosciuto detentore d’un primato d’onore sulle altre Chiese ortodosse e per questo insignito del titolo d’ecumenico, ha tracciato il suo inedito ritratto di Benedetto XVI. Ha così ricordato la personale e consolidata conoscenza, risalente a ben prima dell’elezione di Ratzinger a vescovo di Roma, la reciproca e fruttuosa collaborazione nei quasi otto anni di pontificato, il fondamentale contributo di Benedetto XVI alla promozione del dialogo tra la Chiesa cattolica romana e quella ortodossa, il mantenimento di rispettosi e amicali rapporti anche dopo la di lui rinuncia al ministero petrino.

Bartolomeo I ha soprattutto rilevato come Benedetto XVI, durante il suo viaggio apostolico in Turchia (28 novembre – 1 dicembre 2006) avesse visitato ufficialmente il Fanar, sede del Patriarcato ecumenico, e sottoscritto nella Sala del Trono, insieme con lui, una storica Dichiarazione comune. Particolare emozione, poi, nel rammentare l’invito dell’allora pontefice a tenere il 18 ottobre 2008, nella Cappella Sistina, un discorso ufficiale sulla Parola di Dio ai cardinali, presuli, sacerdoti, fedeli partecipanti alla XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

Dopo aver raccontato d’aver sentito una volta Benedetto dire d’aver conosciuto meglio l’ortodossia proprio grazie ai suoi studenti ortodossi – tra essi si ricordano, ad esempio, nomi dal calibro di Stylianos Harkianakis e Damaskinos Papandreou –, Bartolomeo I ha particolarmente elogiato «la forza d’animo e il coraggio» di Ratzinger nel dimettersi da vescovo di Roma, compiendo così un gesto cui non si assisteva da oltre seicento anni, ossia dalla consimile rinuncia fatta da Gregorio XII il 4 luglio 1415.

"Siamo tutti cercatori sulla via della spiritualità. E la fede è la mappa". Il teologo affronta la secolarizzazione: "Conta il contesto culturale della nostra esperienza". Stefania Vitulli l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Il professor Charles Taylor e i suoi scritti compiono il miracolo che ogni rovesciamento della prospettiva comune realizza e nel suo caso la rivoluzione riguarda la secolarizzazione. È su questo che il libro più noto di Taylor e anche il suo ultimo, pubblicato nel 2007 e tradotto per l'Italia da Feltrinelli, L'Età Secolare si concentra e non a caso è diventato uno dei saggi che più ha segnato il dibattito pubblico negli ultimi decenni. La maggior parte degli scritti di questo filosofo canadese (Montreal, classe 1931) - allievo di Isaiah Berlin a Oxford e professore di Filosofia e Diritto alla Northwestern University of Chicago e all'Università McGill di Montreal, di cui oggi è emerito - sono tradotti in 20 lingue e spaziano su problemi che vanno dall'intelligenza artificiale al linguaggio e dall'etica e al multiculturalismo (ricordiamo Radici dell'io, Feltrinelli, 1993, Il disagio della modernità, Laterza, 1994, La modernità della religione, Meltemi, 2004). Nel 2007 gli è stato conferito il premio Templeton, lo stesso consegnato tra gli altri a Madre Teresa di Calcutta e Aleksandr Solenicyn, e nel 2019 il premio Ratzinger, proprio per «l'ampiezza di sguardo» sulla secolarizzazione. Nelle quasi 900 pagine in cui descrive la sua tesi sull'età secolare, ci consegna un monito illuminante: proprio perché assimilato come certo, l'indebolimento del senso di appartenenza religiosa ha la strada spianata. Secondo Taylor, tuttavia, la tensione spirituale è immutata, e se il contesto culturale non la incoraggia più, dobbiamo lavorare sul contesto culturale, non piangere la scomparsa di qualcosa che è in noi da sempre: proprio su questo domani alle 11, in Università Cattolica a Milano, Charles Taylor terrà una lectio dal titolo «Solo la secolarizzazione ci potrà salvare? Fede e ragione nell'epoca del disincanto». Nella stessa giornata, insieme a Monsignor Claudio Giuliodori, al docente di Teologia Julian Carron e al professor Adriano Pessina, parteciperà alla tavola rotonda «La secolarizzazione e le sue sfide».

Professore, lei vede la secolarizzazione come un processo di trasformazione e non un punto di arrivo, per la fede. È così?

«La secolarizzazione come la intendiamo è situata in un contesto geografico e politico preciso. Quando parliamo di noi, intendiamo noi occidentali. La maggior parte di noi parla della nostra epoca come secolare con nostalgia, riferendosi ad altre epoche in cui prevaleva la fede come elemento sociale portante. L'abbandono di ogni pratica e credo religioso, le persone che si allontanano da Dio e non frequentano più la Chiesa, gli spazi pubblici spogliati della presenza iconica di Dio. In questi sensi sì, l'Europa è diventata secolare».

Lei però non sembra interessato a discuterne in questi termini.

«A me interessa comprendere in quale contesto culturale operino la nostra ricerca e la nostra esperienza religiosa».

Come mai?

«Perché il nuovo terreno di scelta può diventare l'occasione per la ricomposizione della vita spirituale in nuove forme e per nuovi modi di esistere sia all'interno sia all'esterno del rapporto con Dio».

Lei parla di nuovi linguaggi da creare per un dialogo, visto che quelli tradizionali sono stati abbandonati.

«Nel tipo di contesto culturale contemporaneo, ciò di cui abbiamo bisogno è il linguaggio dell'esperienza. La vita o la pratica religiosa cui faccio riferimento non deve essere soltanto una mia scelta, ma deve parlarmi, dev'essere percepita come significativa nei termini della crescita spirituale che sperimento ogni giorno. Possiedo, sento il senso che esiste qualcosa di più altro e di più profondo, di una forma più piena. E ho necessità di incarnarlo».

Sostiene la necessità di un linguaggio spirituale sottile che descrive come una «forma creativa di pratica religiosa». Trova esempi anche in letteratura, nella ricerca spirituale di Camus, Flannery O'Connor o del poeta Gerard Hopkins.

«Si tratta di incoraggiare le forme metaforiche di espressione: un certo tipo di metafore aiuta le persone a trovare la propria strada, proprio perché provano a definire il senso che è oltre l'umano. Ci sono oggi un gran numero di movimenti che sono in grado di rendere molto chiaro che tipo di ricerca spirituale stanno facendo, che raccolgono organizzazioni e individui che vogliono rispondere a questa ricerca, che aprono un dialogo e consentono a questa ricerca di espandersi nella società».

Qual è la domanda che questa ricerca spirituale si pone?

«Che tipo di individuo spirituale vuoi diventare?».

Siamo però in un contesto, soprattutto post-pandemico, in cui la crisi interiore intacca addirittura la salute mentale.

«Perché cerchiamo il senso, sempre, sì. Ma non comprendiamo più quello che stiamo perdendo. Per me, che credo, è chiaro, guardando qualcuno dal di fuori: vedo che sente un senso di vuoto e posso capire se è religioso. Quando le persone si trovano in questo stato, qualcuno dovrebbe chiedere loro Che cosa stai cercando?, in un ascolto simpatetico. E così con i giovani: se i genitori, se le religioni tradizionali non capiscono questa ricerca, può accadere che vengano lasciati soli».

Le sue parole sono innervate da una sorta di ecumenismo spontaneo. La guerra tra religioni è tornata o no?

«Dobbiamo andare oltre l'idea che la religione sia un mezzo di controllo: una volta che capiamo che siamo tutti cercatori, uguali tra gli altri, cooperiamo per la ricerca. La libertà è la condizione perché questa ricerca si realizzi. Non penso che il relativismo sia il problema: ci sono troppi fanatici, non troppo relativismo, nel mondo».

Papa Ratzinger, quel filo tenue che lo lega a Lady Diana. Luigi Bisignani su Il Tempo l’08 gennaio 2023

Caro direttore, lo sgomento post mortem negli episcopati americani e tedeschi reclamano risposta ad una sola domanda: «Ora che Benedetto è nella luce di Dio, chi porterà avanti in terra i suoi insegnamenti e la sua testimonianza di fede?». Nella nebbia di Piazza San Pietro il mondo cattolico, triste e disorientato, sperava di cogliere nell’orazione di Papa Francesco, sia pur in «bergogliese», una qualche continuità nell’operato del Papa Emerito, così come fece lo stesso Ratzinger, fin dalla sua omelia per le esequie di Giovanni Paolo II e poi per tutta la sua vita, accompagnando con quel «Seguimi» i suoi momenti più difficili. Così, purtroppo, non è stato. Bergoglio, forse troppo provato fisicamente, non è riuscito a trasmettere quell’afflato che invece nella piazza era palpabile. Un’onda anomala che ha visto in prima fila anche la maggior parte dei cardinali votanti, i quali, seppur creati dallo stesso Francesco, non si riconoscono più in una Chiesa secolarizzata, sempre più lontana dalla dottrina cattolica per avvicinarsi ai media protestanti. E chi si attendeva di vedere pochi fedeli in processione per l’ultimo saluto a Benedetto XVI ha peccato ancora una volta di presunzione, dovendo anzi constatare che l’opera delicata e coerente di Joseph Ratzinger in questi anni ha ben tenuto viva la brace sotto la cenere. Di ciò, il segno più eloquente sono stati i quasi 5000 preti, al 90 per cento giovani, accorsi a concelebrare le esequie. Tuttavia Francesco va capito: la gentile empatia di Ratzinger è irraggiungibile per il suo successore soprattutto ora che, con la forza del suo carisma «peronista», dovrà fare in modo che la Chiesa non si disorienti e non si divida, ma che trovi, come sempre nella sua missione pastorale, una nuova luce per continuare ad essere dottrina della fede.

È in corso un appuntamento di grande rilevanza: il Sinodo dei Vescovi tedeschi. Discute e vuole sottoporre ad approvazione materie dottrinali controverse (sacerdozio femminile, natura del matrimonio, liceità dei matrimoni gay, facilità di divorzio), rischiando però un grave precedente dal momento che possono essere oggetto di voto esclusivamente argomenti di carattere pastorale e non dottrinale. Ma Bergoglio non è solo: incredibilmente, in queste ore, a scegliere di intraprendere una personale via crucis, è il prelato in maggior intimità con l’Emerito: Padre Georg, sconvolto per la perdita del suo «lume», sembra aver smarrito in poche ore tutta quella lucidità ed umiltà che gli avevano permesso di accudire con infinita dedizione Benedetto. Monsignor Gänswein non è infatti riuscito a trattenersi dal rendere pubblici proprio il giorno dei funerali di Ratzinger i suoi rancori personali verso Francesco, che mai l’ha sopportato. Ma, evidentemente, nel 2023 i panni sporchi non si lavano più in casa, e non solo nel clero, anche nelle famiglie reali. Le «memorie» dell’ex prelato d’onore di Ratzinger, il cui libro è di prossima uscita, richiamano paradossalmente quanto sta accadendo in queste ore alla Corona inglese, con le prime indiscrezioni sul libro di Harry, al secolo duca di Sussex, secondogenito di Carlo d’Inghilterra e della Principessa Diana. Ratzinger e Lady D, due protagonisti assoluti di questi tempi. Divisivi da vivi, aggregatori da morti. Si «parva licet componere magnis» e con tutto il doveroso rispetto, la fine terrena del sovrano della Chiesa Papa Ratzinger e della principessa del popolo Diana hanno delle analogie. Controversi in terra, a poche ore dalla scomparsa, entrambi hanno iniziato ad essere universalmente venerati. Per nessuno di loro si poteva immaginare un coinvolgimento popolare così ampio, una commozione plebiscitaria così profonda. Non lo pensava Papa Francesco, che aveva praticamente confinato il Papa Emerito nella Mater Ecclesiae, e neppure la Regina Elisabetta, che sperava di scalfire la popolarità di Diana per suo legame con l’egiziano Dodi Al-Fayed. Coraggiosi e rivoluzionari nel fare un passo indietro dai loro rispettivi ruoli, si sono guadagnati la gloria eterna. Per entrambi nessun funerale di Stato né bandiere a mezz’asta, né in Vaticano e nemmeno nel Regno Unito. Eppure la potenza emotiva delle loro esequie passerà alla storia. E le tante défaillances nei preparativi passeranno in secondo piano. In Vaticano c’è stato il caos, nonostante ben dieci anni a disposizione per varare un protocollo adeguato all’eccezionalità degli estremi onori ad un Papa Emerito. E l’ennesima, totale débâcle della comunicazione vaticana, inesistente e misericordiosamente soccorsa prima da mamma Rai e poi dall’Ebu (Unione Europea di Radiodiffusione). La Regina Sofia di Spagna, ed altri ospiti importanti sono stati abbandonati per mezz’ora all’ingresso della Basilica da un Ettore Valzania qualsiasi (per la cronaca è diplomato odontotecnico ma è capo dell’accoglienza e grandi eventi della Fabbrica di San Pietro: il protocollo del Capitolo Vaticano) che riceveva gli ospiti, coronati e non, in jeans. Oppure mancanze ancor più incredibili, come negare la Comunione ai fedeli che la volevano ricevere in ginocchio perché «qualcuno» avrebbe potuto pensare che fosse una concessione ai tradizionalisti o Ministri e dignitari abbandonati alla ricerca della via d’uscita. Una cerimonia che ha dimostrato come Bergoglio, pur nella sua grandezza, in questi anni non sia riuscito a circondarsi di collaboratori degni della tradizione secolare vaticana.

A partire dal chiaramente inadatto cerimoniere Diego Ravelli fino all’Arciprete della Basilica, il «Cardinale per caso» Mauro Gambetti, frate minore catapultato Oltretevere dal Convento di Assisi, che per mandare avanti la grande fabbrica di San Pietro ha assunto nei ruoli apicali quattro ex colleghi, e numerosi conoscenti della società elettrica dove lavorava prima di farsi frate. Ma la Provvidenza vede e provvede, quando il caos per il funerale di Benedetto stava diventando incontrollabile è intervenuto in «articulo mortis» il Protocollo della Segreteria di Stato, nella persona di monsignor Joseph Murphy, il quale però non è riuscito a convincere Bergoglio a presenziare alla tumulazione di Ratzinger, affidata pertanto al sempreverde Cardinal Re. Infine l’impressione di un pontificato forse troppo assolutista, muscolare, che oggi con imbarazzo nessuno osa raffrontare a quello di Benedetto, nel quale l’umiltà e l’amore hanno sempre regnato. Per dirla con le parole dell’evangelista Marco quando sintetizza in una frase la morte di Gesù «Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» versi che sembrano attuali nell’assistere all’onda anomala dei fedeli per rimpossessarsi della Chiesa di Benedetto. Ad maiora semper.

Papa Ratzinger santo subito? "Ci sono delle regole", faida in Vaticano. Libero Quotidiano il 07 gennaio 2023

Santo subito? Meglio aspettare. Papa Ratzinger spacca la Chiesa anche dopo la sua morte. Mentre la folla di fedeli accorsa in piazza San Pietro per l'ultimo saluto al Papa emerito Benedetto XVI, acclamando la sua beatificazione-lampo, è monsignor Georg Baetzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca, a frenare clamorosamente su questa ipotesi rappresentando plasticamente il gelo che pare aver caratterizzato anche la reazione di Papa Francesco. 

"Nel diritto della Chiesa ci sono delle buone regole le quali dicono che bisogna aspettare cinque anni prima dell'avvio di una canonizzazione - ha spiegato monsignor Baetzing incontrando i giornalisti al termine dei funerali -. In questo periodo si protegge la quiete, si sta in silenzio, si riflette, si prega e poi queste decisioni scaturiscono, se qualcuno è chiamato alla beatificazione o alla santificazione dalla Chiesa. Non credo sia questo il punto. È stato un atto insolito, non comune, che il popolo di Dio allora radunato alle esequie di Giovanni Paolo II qui a Roma pronunciò, chiamò quel Santo subito, non si può ripetere in questo modo".

Proprio su Giovanni Paolo II sono arrivate altre parole del monsignore, decisamente pesanti e giudicate da alcuni commentatori fuori luogo: "Negli ultimi tre giorni oltre 200.000 persone sono andate a San Pietro per la salma di Papa Benedetto, molto di più di quanto atteso. Forse avrebbero potuto venire più persone alle esequie questa mattina ma era molto difficile darne una stima. Papa Benedetto ha vissuto per 10 anni una vita ritirata, ha pregato, pensato alla Chiesa. Io ho avvertito che sia stata un grande numero di fedeli qui per congedarsi da lui, non è ovviamente la stessa cosa come con Giovanni Paolo II che è morto come papa regnante. Ciò appartiene anche un po' allo stile di Benedetto XVI, appartato e umile, come gli ultimi anni che ha trascorso". 

Nelle ultime ore il Vaticano è stato agitato anche dalle anticipazioni sul libro di memorie di padre Georg Ganswein, ex segretario particolare di Benedetto, particolarmente duro su Francesco. In questo caso, però. monsignor Baetzing si mostra piuttosto conciliante: "Ringrazio per il servizio che l'arcivescovo Georg Gaenswein ha svolto non solo durante il pontificato di Papa Benedetto, ma anche negli ultimi 10 anni, è stato un grande servizio che ha fatto, essere e rimanere al fianco di questo Papa emerito fino alle sue ultime ore e fino alle esequie oggi. Per quanto riguarda il futuro dell'arcivescovo Gaenswein, spetta a lui stesso e coloro che dovranno prendere le decisioni, prenderanno sicuramente buone decisioni".

Mattia Feltri per La Stampa il 7 gennaio 2023.

Santo subito, eccola l'espressione perfetta a stabilire il trionfo di Andy Warhol: persino i papi replicabili in una confezione sempre uguale a sé stessa, come il barattolo della zuppa Campbell's.

 Fare santo Ratzinger, come è stato fatto santo Wojtyla, e prima Montini, e prima Roncalli, cioè siamo a quattro degli ultimi cinque e il quinto, Luciani, è beato. Non so se sarà accolta l'invocazione dei credenti - figlia senz' altro di uno slancio genuino - ma intanto dà l'indizio della spettacolare applicazione del cattolicesimo alle regole pop del tempo dei social: voglio tutto, lo voglio subito.

 Impossibile amare Ratzinger senza portare l'amore e l'oggetto d'amore in una dimensione titanica: che sia santo, e ora. Di duecentosessantasei papi, ne sono stati canonizzati ottantadue, quelli delle origini praticamente tutti, prima che diventasse un'elevazione eccezionale: dei papi compresi fra l'Undicesimo e il Diciannovesimo secolo, soltanto cinque. E occorrevano istruttorie lunghe centinaia, o perlomeno decine di anni, e minuziose e implacabili, perché la prudenza, una delle quattro virtù cardinali, indica la divina lontananza dalle furie del tempo (e infatti la proclamazione di un santo è una delle rare occasioni in cui il Papa in carica esercita il dogma dell'infallibilità).

Ora si cede all'enfasi dell'istante e del plebiscito, al popolo che sa meglio e non perde tempo, e persino a un non credente fa un po' dispiacere vedere un'istituzione bimillenaria, che non si confondeva col secolarismo per l'ambizione di essere immersa nella dimensione dell'eternità, dedicarsi a una celebrazione mondana che fa tanto Hall of Fame.

Gianluigi Nuzzi per la Stampa il 7 gennaio 2023.

Incontrai per l’ultima volta prima che morisse Paolo Gabriele, l’aiutante di camera di Benedetto XVI, soprannominato da Wojtyla Paoletto, su una terrazza romana quando già era ammalato. In quell’occasione mi svelò la guerra nei sacri palazzi tra chi voleva reintegrarlo dopo lo scandalo Vatileaks e chi lo voleva in esilio. Un illuminante scontro ai massimi livelli che testimonia come questa storia vada ancora scritta, aldilà di qualche visione revisionista che tende a dipingerlo non come colui che rese noto il malaffare, ma come un semplice ladro di documenti.

 È pentito di aver fotocopiato per mesi nell’inverno del 2011 le carte segrete sugli scandali vaticani dalla scrivania di Ratzinger e avermele date per un mio saggio?

«Non sono pentito di aver perso tutto quello che ho perso: non ho perso niente di bello, è una situazione che mi ha fatto ammalare quindi come posso rimpiangerla? Quando vedo papa Francesco e i due suoi aiutanti, di certo penso che potrei essere a loro posto gratificato di poter vivere vicino a Francesco e poterci parlare, come con Ratzinger, ma se non ci fosse stato tutto questo casino non ci sarebbe stata in conclave quella spinta tale da compiere un passo così importante e portare Bergoglio ad essere eletto pontefice.

 Benedetto XVI mi concesse la grazia soprattutto per ridare tranquillità e sicurezza alla mia famiglia ma non tutti erano d’accordo e infatti fui mandato a lavorare a mille euro al mese in una cooperativa fuori le mura dove non svolgevo alcuna attività. Ma sapevo come sarebbe andata a finire, altro che tranquillità ritrovata: per sei mesi andavo lì e non mi facevano fare niente. Volevano farmi scoppiare la testa per vendicarsi…».

 Chi voleva che le saltassero i nervi, chi che venisse reintegrato in vaticano e lei cosa ha fatto?

«Il cardinale Paolo Sardi diceva di pazientare ma io non ce la facevo più e così scrissi una lettera nell’inverno del 2013 al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che avevo conosciuto da monsignore, per chiedergli un incontro. Rimanemmo insieme quasi tre ore, al termine disse “Adesso vedo se riesco a trovare un’alternativa a questo impiego. Ne parlerò al sostituto Becciu (Angelo Becciu, il cardinale finito poi a processo pper la compravendita del palazzo a Londra, ndr)”.

 Io gli risposi: “Se ne parla con Becciu non servirà a niente perché era stato proprio lui a decidere questa soluzione”. Volevo mollare, cercare lavoro da solo ma Sardi si arrabbiò tantissimo: “Se te ne vai non ti potrò più aiutare, prosegui e lascia aperto uno spiraglio per il futuro. Le cose potranno cambiare qualora se ne andranno certi personaggi che stanno ancora là…”».

 E Parolin?

«Parolin mi richiamò dopo un paio di mesi e mi disse “Paolo, purtroppo non si può fare nulla… Ho sondato il terreno ma non è possibile un tuo ritorno…”. E scopro un retroscena: Parolin e l’assessore per gli affari generali della segreteria di Stato, il diplomatico Peter Bryan Wells (dal 2016, nunzio apostolico in Sud Africa, ndr) erano d’accordo per un mio reintegro ma Becciu si continuava ad opporre.

A questo punto informo Ingrid (suor Ingrid Stampa, tedesca, già governante di Ratzinger e una delle persone a lui più vicine, ndr) che in maniera molto scaltra ne parla con Benedetto XVI al telefono: “Ho saputo che il cardinale James Michael Harvey (statunitense, dal 2012 arciprete della Basilica di San Paolo fuori le Mura, ndr) vuole aiutare Paolo e in effetti c’è la possibilità di lavorare lì da lui ma ci sono molte resistenze; il sostituto si oppone perché pensano che riprendere Paolo sia uno sgarbo nei suoi confronti, Santità”».

 E Benedetto cosa rispose?

«Che io come tutti ho diritto a una seconda opportunità. Chiese di dire al cardinale Harvey di avere coraggio. Ingrid si autorizzò a riferire questo desiderio e, sempre da quanto mi disse, lo condivise con Parolin: “Benedetto XVI è d’accordissimo”. Il segretario di Stato ringraziò e informò Francesco».

E poi?

«Finito a casa il rosario con i ragazzini, suona il campanello… era Ingrid che era venuta ad abitare a fianco a noi… era contentissima: “Pensa che stasera in vaticano ho incontrato Harvey, mi ha chiamato da parte per confidarmi che Becciu gli ha comunicato: ho l’incarico da parte di papa Francesco di dirle che può procedere a richiamare Paolo a lavorare”».

 L’avevano accontentata…

«No, anzi. Harvey chiese se potevo essere reinserito in organico e Becciu gli avrebbe risposto: “Eh no questo il papa non l’ha detto”. Come dire: se Harvey vuole aiutare Paolo lo faccia ma senza stipendio vaticano. E come si fa? Così tutto si blocca. Arriva il licenziamento dalla cooperativa nel marzo del 2015 ma per farmi tornare a casa intervengono anche altri…».

E chi?

«Il cardinale elemosiniere del papa, Konrad Krajewski veniva a trovarci a casa e mi suggerì di andare da Parolin per raccontare tutto quello che stava accadendo: “Nel caso intervengo con il santo padre”. Mi confrontai con Parolin, che, saputo del licenziamento mi chiese: “Ma adesso la tua famiglia come farà?”. E io: “Come abbiamo sempre fatto, sperando nella divina provvidenza… Ma poi, secondo lei eminenza posso sperarci ancora?

 E lui: “Sono in imbarazzo perché Harley ti vuole molto bene ma riconducendoti alla santa sede, l’opinione pubblica non gradirebbe… Non bisogna stracciarsi le vesti ma è stato fatto male a molti e molto”. Io rimango impietrito e gli dico: “Ma ho pagato e sto pagando… cosa altro devo fare, non esiste il perdono, la riconciliazione vera?”. E lui: “Eh ma sai non è facile, adesso vediamo cosa possiamo fare”. Poi a giugno 2015 Sardi scrive al papa, arrivano altre preghiere e la situazione si sblocca. Incontro Harvey: “Parolin mi ha detto che i due papi sono d’accordo, don Giorgio non si è opposto, Becciu ha preso atto”. E così lavoro lì dal primo luglio 2015. Curo l’archivio».

 Quando Ganswein l’accusò di aver fotocopiato i documenti di Ratzinger lei come reagì?

«Il mio confessore era stato molto chiaro: “Se non è il papa a chiedertelo, nega sempre”».

 Poi ci fu l’arresto…

«I gendarmi a casa trovarono un archivio delle mie ricerche sui servizi segreti, massoneria, avevo l’intera collezione di Gnosis, la rivista ufficiale della nostra intelligence…».

 Non è un po’ strano che il maggiordomo del Papa nutra questi interessi?

«Cercavo di capire l’origine di certi mali che incontravo nella vita quotidiana in curia».

Qualcuno ha subdorato che lei lavorasse per qualche intelligence…

«Mi sento un infiltrato dello Spirito santo che, se vogliamo, è l’intelligence della Chiesa… (ride, ndr). In realtà, se avessi fatto parte di qualunque organizzazione, sarei stato soggetto a riferire ai superiori, quindi non avrei potuto fare quello che ho fatto. Invece, sono un uomo libero…

 Poi, chieda a mia moglie quando la stampante si inceppava… Non essendo un criminale né essendo stata un’azione scientifica quello che hanno trovato a casa è la prova della mia genuinità».

 Poi è stato arrestato…

«Ricordo che il capo della gendarmeria Domenico Giani venne subito da me, era preoccupato del dossier sulla Orlandi».

 Cioè?

«Era impaurito dal fatto che fosse stato fotocopiato. In effetti, sul tavolo di don Giorgio un giorno vidi questo piccolo fascicoletto appena arrivato, fatto da Giani su carta semplice, dal titolo Rapporto sul caso Orlandi. Non lo toccai perché era composto da qualche pagina spillata… avrei dovuto girare i fogli e si sarebbe notato che era stato rovistato».

 E il futuro?

«Sono fiducioso in Vaticano cambiano le cose in modo repentino… spero in una rivincita personale, nessuno me la può negare… basta che in certi ruoli o incarichi vada chi ha coraggio».

Ma Paoletto nel novembre del 2020 muore, a 54 anni.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” l’8 gennaio 2023.

«Il piano segreto dev'essere articolato su più assi e fasi, ma coltiva un unico obiettivo: stressare il pontificato per arrivare alla rinuncia di Francesco, contando su un progressivo indebolimento del santo padre e su scelte dottrinali che creano sacche di malcontento da enfatizzare e raccogliere». 

 Chi parla è un navigato cardinale italiano, fine conoscitore della curia romana dai tempi di Wojtyla: «Gli oppositori di Francesco sono consapevoli che oggi rappresentano una minoranza, quantomeno ai posti di comando. Hanno bisogno di tempo sia per conquistare consensi sia per indebolire Bergoglio. 

 Per questo si muovono su più livelli: chi nell'ombra trama per ostacolare le mosse del papa, incrinando ad esempio le potenziali candidature forti al vertice della Congregazione per la Dottrina della Fede o della Conferenza episcopale italiana, chi pubblicamente crea tensione e scompiglio sugli indirizzi teologici come monsignor Georg Ganswein, il segretario di Ratzinger che, consapevolmente o inconsapevolmente, in libri e interviste ha valorizzato distanze e fratture tra i due papi, andando frontalmente contro il gesuita argentino». 

 Insomma, quelli de "l'altra Chiesa", come qualcuno sussurra nei sacri palazzi, sanno bene che siamo distanti anni luce dal 2011-2012 quando Benedetto XVI decise di rinunciare e che quella situazione, quell'humus non è replicabile.

 All'epoca la curia romana era italiano-centrica con una solida alleanza tra segreteria di Stato ed episcopato americano, alla guida le famose tre B (Bertone, Becciu e Balestrero), in sostanziale equilibrio con la vecchia guardia di area diplomatica (Sodano) e astri nascenti (Piacenza). Benedetto XVI era consapevole che il Papa entrante avrebbe azzerato quel blocco di potere, coagulatosi fin dai tempi di Paolo VI, come poi avvenuto, in una lotta quotidiana finora poco raccontata. 

 E, infatti, oggi troviamo uomini voluti da Bergoglio con una frammentazione del potere, a iniziare dal ruolo più contenuto affidato al cardinale Pietro Parolin, rispetto ai predecessori segretari di Stato. È innegabile che quest' ultimo abbia un ascendente più ridotto sul papa regnante, rispetto a quello esercitato da Bertone - almeno fino a metà 2012 - su Ratzinger.

Questa situazione rafforza Bergoglio che ha ormai quasi concluso i cambiamenti e impone cautela tra le file dei suoi critici. In questa direzione vanno interpretate le parole dell'arcivescovo Timothy Broglio, il conservatore presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti e che sicuramente fa parte di chi è scettico nei confronti di questo pontificato. In una intervista a Repubblica, prima ha criticato le fuoriuscite di Ganswein («Se abbiamo critiche da fare al Santo Padre non bisogna farle tramite i mass media ma direttamente a lui personalmente. 

 E considero monsignor Ganswein come un amico»), poi ha ripreso un altro obiettivo caro ai critici di Francesco, normalizzare la rinuncia in modo da renderla un passo quasi normale, soprattutto per questioni di salute: «Forse la possibilità di un ritiro di Francesco sarebbe più fattibile adesso che non c'è più il Papa emerito Ho visto anche la difficoltà, il fatto che non celebra: sono tutti elementi di un lavoro pastorale normale che mancano». Del resto, Francesco lo scorso mese ha spento 86 candeline e in una intervista all'Abc ha ricordato di aver già firmato una rinuncia in caso di impedimento di salute forse ricordando come terminò il pontificato di Wojtyla.

Il riflettore è quindi acceso sulla potente comunità degli Stati Uniti e le parole scelte da Broglio tranquillizzano, ma solo fino a un certo punto. La visione di Bergoglio di una Chiesa universale che torna alle origini con un Vaticano ridotto nelle marce di potere e un'interpretazione minimalista, pauperista, ed ecologista delle scritture agita quella comunità e anima le discordanze. Rimbalzano le preoccupazioni su questioni profonde come l'abolizione del celibato obbligatorio per i sacerdoti, i diritti delle coppie gay, la comunione per i divorziati, che vanno riammessi, e ancora e ancora. I critici conservatori aumentano e fanno rete. 

Certo, è da qualche mese che non tuona come suo solito monsignor Carlo Maria Viganò contro la fede globalizzata e un papa eretico, nemico della Chiesa, ma è più chi trama dietro le quinte per arrivare poi a porporati di rango come i tedeschi Walter Brandmüller e Gerhard Ludwig Muller, che firmarono i "dubia" su Amoris Laetitia con i cardinali Raymond Burke e Carlo Caffarra fino al guineano Robert Sarah e al novantenne Zen Ze-kiun, che ha appena incontrato Bergoglio ma che da una vita coltiva posizioni distanti dalla linea di dialogo con le autorità di Pechino per la chiesa clandestina e ufficiale in Cina.

 Immigrazione, Islam e sessualità sono altri temi che dividono e creano frontiere tanto che in questo scacchiere organizzazioni come Opus Dei, Cavalieri di Colombo e cavalieri di Malta, seppur per motivi assai diversi tra loro, patiscono un raffreddamento nei rapporti, rispetto ai predecessori.

E così nei sacri palazzi l'attenzione ora è massima, anche la recente firma del Papa sulla riforma del vicariato di Roma, segnata a San Giovanni in Laterano e non in Vaticano ha suscitato congetture. C'è anche chi ha letto la scelta come un segnale chiaro di valorizzazione della sua figura di vescovo della capitale rispetto a quella di monarca assoluto del piccolo stato e pontefice. Del resto, la fatidica data del prossimo 11 febbraio, giornata della prima apparizione della madonna di Lourdes e della firma dei Patti Lateranensi, si avvicina. 

Verrà ricordata soprattutto per il primo decennale dell'annuncio di Ratzinger che sconvolse il mondo: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Parole che in diversi, in penombra e a mezza voce, sognano di riascoltare con quell'inconfondibile accento spagnolo.

Vaticano, gli occhi sul «Conclave». Il fronte dei tradizionalisti per opporsi a Francesco. Massimo Franco su Il Corriere della Sera l’8 Gennaio 2023.

Il malcontento verso il Papa e le mosse dopo la morte di Ratzinger

«Se in Conclave sarà eletto un altro Bergoglio, per la Chiesa sarà una tragedia...». Il funerale del papa emerito Benedetto non era stato ancora celebrato, quando uno dei cardinali tradizionalisti più in vista ha iniziato il tamtam della guerra di logoramento con Francesco. Dal 31 dicembre, giorno della scomparsa di Joseph Ratzinger, il tema non sembra quello di come raccordarsi col pontefice argentino alla ricerca di una ricucitura. Su questo, le speranze ma anche la voglia di una tregua appaiono esili. La vera questione, per i suoi avversari, è come impedire che Jorge Mario Bergoglio riesca a condizionare il prossimo Conclave. 

Le bordate sorprendenti arrivate contro Francesco dal segretario personale di Ratzinger e prefetto della Casa pontificia, monsignor Georg Gaenswein, sono state viste come l’inizio di una fase apertamente conflittuale. Di certo, riflettono il risentimento di una persona che si è sentita umiliata e costretta a tacere a lungo tra le mura del Monastero per non dispiacere a Benedetto. Ma tra gli avversari di Francesco le sue uscite sono state accolte con una miscela di sorpresa e di imbarazzo. Ne sono in arrivo altre, però. 

È in uscita un libro-intervista dell’ex custode della dottrina cattolica, il cardinale Gerhard Muller, con la vaticanista Franca Giansoldati, intitolato «In buona fede», che si preannuncia corposo e profondo nelle critiche al papato argentino. Muller era stato indicato come la personalità su cui puntavano i tradizionalisti. Ma ha sempre rifiutato di schierarsi contro Francesco: pur attaccando duramente i suoi consiglieri e definendo il Monastero dove ha vissuto per quasi dieci anni Benedetto «il luogo dove vanno a curarsi le persone ferite da Francesco. E sono molte...». 

Ma questi «feriti» mostrano quanto in realtà il cattolicesimo ortodosso sia esasperato, tutt’altro che compatto, e non ancora pronto a offrire un’alternativa. Per questo ogni mossa compiuta a Casa Santa Marta mette in agitazione una porzione non piccola dell’episcopato mondiale che da anni mugugna per le decisioni del papa. L’accusa di fondo è di avere fatto imboccare alla Chiesa una strisciante deriva «protestante»; di nutrire un pregiudizio sudamericano contro i «gringos»; di preparare un Conclave scegliendo solo cardinali fedeli alla sua linea; e di avere stipulato «un patto col diavolo» per l’accordo segreto con la Cina di Xi Jinping. Eppure l’altroieri Francesco ha ricevuto il cardinale emerito di Hong Kong, Joseph Zen, che era stato arrestato nel maggio scorso e poi rilasciato su cauzione dalle autorità cinesi. 

A questo si aggiungono l’irritazione per il «no» alla messa in latino, alla quale ha dato voce monsignor Gaenswein, e per il modo in cui il papa ha accolto a Roma il presidente degli Usa, Joe Biden, inviso all’episcopato del suo Paese per le posizioni morbide sull’aborto. «Bergoglio sta piantando le sue bandierine a ogni nomina cardinalizia», è l’accusa. Nel suo pontificato, fino all’agosto del 2022 ha nominato 113 cardinali, di cui 83 elettori su un totale di 132 elettori. In realtà, ogni elezione papale dimostra come le dinamiche che scattano una volta entrati nella Cappella Sistina sfuggano a qualunque piano preventivo. Si avvertono dunque in queste affermazioni soprattutto la diffidenza e una certa prevenzione contro Francesco; e magari la consapevolezza dei cosiddetti «ortodossi» di non avere una candidatura unitaria e forte da opporre a quella dei cosiddetti «progressisti». 

Si scruta il panorama del Collegio cardinalizio, alla ricerca di alleanze trasversali tra gli scontenti di Francesco, presenti anche tra i bergogliani. In questo dibattito opaco e sottotraccia si inseriscono le voci sulla possibile scelta di un italiano. «Francesco tende a escludere che possa accadere, a meno che non si tratti di Matteo Zuppi», presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, spiegano nelle alte sfere vaticane. Sarebbe freddo, invece, sul segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. Ma è indicativo che dal fronte conservatore si additi «la mafia di San Gallo», un gruppo di cardinali progressisti, come regista dell’elezione di Bergoglio nel 2013. E adesso si indichi «la lobby di Trastevere», alludendo alla Comunità di sant’Egidio che ha sede nel quartiere romano e da cui proviene Zuppi. 

E pazienza se il presidente della Cei ha fin dall’inizio cercato di superare le divisioni e unire le varie componenti dell’episcopato. Sono veleni che fluiscono mentre sta per riaprirsi il processo controverso nei confronti, tra gli altri, del cardinale Giovanni Angelo Becciu: un’onda di fango soprattutto sulla nomenklatura italiana. Di fatto, anche quella vicenda oscura rientrerà nel «Conclave senza Conclave» che il fronte tradizionalista, e non solo, ha intensificato dopo la morte di Benedetto. E le truppe ecclesiastiche si schierano. Anzi, alcune sono già schierate con e contro Francesco, e contro qualunque candidatura associata al suo nome: a cominciare dai cardinali degli Stati uniti. 

I segnali che arrivano da oltre Atlantico sono negativi. Dal 15 novembre scorso è stato eletto presidente dei vescovi monsignor Timothy Broglio, ex segretario di un roccioso conservatore come il cardinale Angelo Sodano, scomparso lo scorso anno, «primo ministro» di Giovanni Paolo II. Broglio, ordinario militare per gli Stati Uniti d’America dal novembre del 2007, è passato per Roma poche settimane fa. E avrebbe descritto una situazione preoccupante per Francesco, al quale sarebbe ostile circa il novanta per cento dei vescovi; sebbene Broglio abbia criticato Gaenswein per avere attaccato il papa sui mass media.  

Tra l’altro, avrebbe ricordato ai suoi interlocutori vaticani un episodio del 2016 a Cracovia, alla Festa mondiale della gioventù. Monsignor Broglio era in fila per presentarsi a Bergoglio. E quando spiegò che era l’ordinario militare americano, Francesco avrebbe commentato in modo assai poco diplomatico gli interventi delle forze armate statunitensi in alcuni Paesi poveri: parole che sono state riferite a conferma delle distanze culturali tra pontefice argentino e «yankee». È vero che in termini numerici i cardinali nordamericani non sono molti. Ma hanno dietro di sé una potenza finanziaria che dalla II Guerra Mondiale ha nutrito per decenni le casse del Vaticano, oggi esangui.

Jacopo Scaramuzzi per repubblica.it l’8 gennaio 2023.

Contrapporre Benedetto XVI e Francesco non ha senso, perché dal punto di vista teologico erano "molto più vicini di quanto si creda", e il segretario particolare di Ratzinger, che in questi giorni sta esternando critiche disparate nei confronti di Bergoglio, farebbe meglio "a tacere". Francesco, da parte sua, non ha nessuna intenzione di rinunciare: lo farà senza problemi in caso di impedimento medico grave, ma, come ha detto egli stesso, "non si governa con le gambe, ma con la testa", e già guarda al Giubileo del 2025.

 Il cardinale Walter Kasper è una figura di peso in Vaticano: collega di Ratzinger nelle università tedesche, poi vescovo di Stoccarda, è stato il "ministro" per l'ecumenismo prima di Giovanni Paolo II poi di Benedetto XVI, ed è un teologo più volte citato da Francesco come punto di riferimento.

Oggi boccia l'idea che il Papa emerito sia dichiarato "santo subito" ("Non si va in cielo con treno ad alta velocità"), esprime perplessità sulla scelta di adottare il titolo di "Papa emerito" (sarebbe più adatto "vescovo emerito di Roma"), e ritiene che lo scontro tra "cosiddetti progressisti e cosiddetti conservatori", nella Chiesa, possa trovare una sintesi nel sinodo globale indetto da Papa Francesco: "Ognuno ha la sua convinzione ma si deve anche rispettare l'altro, dialogare".

 Si possono contrapporre Joseph Ratzinger a Jorge Mario Bergoglio?

"Sono personalità diverse, è ovvio, vengono da culture diverse, l'uno proveniva da una cultura europea l'altro da una cultura latino-americana, questo è chiaro, ma sotto l'aspetto teologico erano molto più vicini di quanto si creda. Papa Francesco ha spesso citato Benedetto, ha avuto con lui rapporti amichevoli. Non bisogna trovare altre differenze, e il fatto che tra i due ci fosse una differenza di accenti è assolutamente normale".

 Durante i funerali di Benedetto qualche fedele ha chiesto, come avvenne con Giovanni Paolo II, che venga fatto "santo subito": è plausibile?

"Io non sono d'accordo con questo: il diritto canonico dice che si devono aspettare almeno cinque anni dalla morte prima di aprire un tale processo e questo è una indicazione molto prudente e saggia. Non si va con treno ad alta velocità in cielo".

 In questi giorni il segretario particolare del Papa emerito, monsignor Georg Gänswein, sta facendo dichiarazioni contro Papa Francesco: cosa ne pensa?

"Sarebbe stato meglio tacere. Adesso non è il momento per tali cose".

 Il Pontificato di Francesco a suo avviso da adesso in poi cambia? La convince l'idea di chi sostiene che poiché non c'è più un Papa emerito è più probabile che il Papa rinunci?

"Non so se il suo pontificato ora cambi o no, bisogna aspettare e vedere, non posso anticipare il Papa. Ma no, non credo che rinuncerà. Lui stesso ha detto esplicitamente che al momento non ha questo intenzione. Rinuncerà se non sarà più capace di affrontare le sfide del suo pontificato, sì, ma adesso va avanti. Vuole portare avanti il processo sinodale della Chiesa universale, fa già riflessioni sull'anno santo del 2025, giubileo del Concilio di Nicea. Al momento non è pronto a fare una rinuncia, se sarà necessario sì ma adesso no: come lui dice, non si governa con le gambe ma con la testa".

La convince l'idea di chiamare un Papa che rinuncia "Papa emerito"?

"Quella alla quale abbiamo assistito era una situazione unica, che sinora non si era mai presentata, con due uomini vestiti di bianco l'uno Papa e l'altro Papa emerito. Ma si tratta di una situazione non desiderabile. A mio avviso c'è un ampio consenso circa la necessità di non avere più il titolo Papa emerito, e optare per un'alternativa, magari vescovo emerito di Roma. Avrebbe senso, Papa emerito non era un titolo molto opportuno. Ma non so se Papa Francesco prenderà un'iniziativa in tal senso e cambierà qualcosa, non ne ho parlato con lui".

 Nella Chiesa cattolica c'è uno scontro tra conservatori e progressisti?

"È ovvio che c'è uno scontro tra due sensibilità diverse, i cosiddetti progressisti e i cosiddetti conservatori, ma abbiamo bisogno di continuare il dialogo tra posizioni differenti, perché questi scontri non fanno bene alla Chiesa".

Il sinodo globale indetto da Francesco può essere il luogo adatto?

"Il sinodo è un modo per superare questi problemi: bisogna parlarsi, discutere dei problemi, e poi anche trovare dei compromessi. Ognuno ha la sua convinzione ma si deve anche rispettare l'altro, dialogare: questo è quello che vuole il Papa con questo processo sinodale".

 Non c'è un rischio di scisma, ad esempio negli Stati Uniti?

"Io non parlo di scisma, forse ci possono essere degli scismi di fatto, ma non bisogna esagerare la situazione. Solo se la comunione eucaristica è interrotta si può parlare di scisma reale, ma questo non è il caso adesso: ancora parliamo e celebriamo insieme l'eucaristia. C'è una diversità di opinioni che non è certo una novità nella storia della Chiesa. In ogni Chiesa possono esserci preoccupazioni diverse: negli Stati Uniti, in Germania, ma anche in Africa, in Asia... il problema di oggi è che c'è una pluriculturalità della Chiesa e questo è molto difficile da coordinare e pacificare. Ma la pluralità non deve diventare uno scisma"

Alessandro Sallusti: oltre agli scandali, la nostra Europa è in San Pietro. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 06 gennaio 2023

Ovvio che chi governa deve prestare attenzione a ciò che pensa l'Europa, sostenere l'inverso è solo demagogia. Che si tratti di conti e spese piuttosto che di contrasto all'immigrazione l'Italia non può che mediare a costo di turarsi il naso, in senso figurato e pure materiale stante l'ultima decisione, per l'appunto europea, di dare il via libera alla messa in commercio alla farina di insetti. 

Certo, se alle cavallette commestibili ci aggiungi che non pochi membri di quelle istituzioni stavano vendendo pezzi d'Europa alle peggio dittature islamiche e che i ministri del governo europeo che bloccano l'adeguamento delle nostre pensioni e dei nostri stipendi si sono rivalutati i loro compensi a mille euro al giorno, beh di fronte a tutto questo capisco che è difficile dirsi convintamente europeisti. Ma poi accade che muore un Papa, nel caso emerito, il mondo si commuove e a Roma va in scena un funerale che è un gigantesco omaggio alle radici cristiane della stessa sciagurata Europa di cui sopra. E allora, al netto delle polemiche tra papi regnanti e non, che anche chi se ne frega, ti viene il dubbio che l'Europa non sia quella cosa là ma quella cosa lì, e lo sia anche per un laico convinto come me e immagino come molti di noi. Ma allora, se è quella cosa lì vista in piazza San Pietro non possiamo chiamarci fuori pena perdere non solo un ruolo ma pure una identità. 

Ebbene sì, spiace dirlo ma noi siamo europei fino al midollo e lo siamo perché siamo figli di una storia cristiana, la quale non è esattamente ciò che oggi per lo più ci raccontano. Lo disse anche Ratzinger: «Non deve nascere l'impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico, la Chiesa non è un'organizzazione per il miglioramento del mondo». Inutile e complicato rivangare la storia millenaria ma in estrema sintesi senza il cristianesimo oggi non ci sarebbe l'Europa. E allora al diavolo le cavallette, i soprusi e gli abusi. Al diavolo, detto con rispetto e per metafora, pure certi preti: siamo e dobbiamo rimanere europei. Tocca alla politica, anche alla nostra nuova politica, tenere il baricentro dell'Europa su ciò che in questi giorni abbiamo visto a Roma, che quello che succede a Bruxelles sì ci colpisce ma non ci affonderà e soprattutto non è eterno. L'Europa si può provare a cambiarla, per quel poco che ne so mai come adesso ci siamo vicini.

Ester Palma per il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

Piazza San Pietro è strapiena, come se il popolo cattolico volesse testimoniare la sua fedeltà al Papa, al suo secondo Angelus in piazza San Pietro dopo la morte di Papa Benedetto XVI e il primo dopo le sferzanti accuse di mons. Georg Gaenswein. Che Francesco, negli otto minuti del suo discorso, non cita mai direttamente. Però commenta:

 «Come Dio, che è giusto, ma misericordioso, noi pure, discepoli di Gesù, siamo chiamati a esercitare in questo modo la giustizia, nei rapporti con gli altri, nella Chiesa, nella società. Un cristiano non usa la durezza di chi giudica e condanna dividendo le persone in buone e cattive, ma la misericordia di chi accoglie condividendo le ferite e le fragilità delle sorelle e dei fratelli, per rialzarli. Vorrei dirlo così: non dividendo, ma condividendo.

 Non dividere, ma condividere. Facciamo come Gesù: condividiamo, portiamo i pesi gli uni degli altri, invece di chiacchierare e distruggere, guardiamoci con compassione, aiutiamoci a vicenda».

Francesco dedica buona parte della sua riflessione domenicale alle «divisioni fra cristiani». Perché non si può essere cattolici, discepoli di Cristo e allo stesso tempo «sparlare del prossimo e lavorare per dividere»: «Domandiamocelo: io sono discepolo dell'amore di Gesù o del chiacchiericcio che divide? Il chiacchiericcio  è un'arma letale, uccide, uccide l'amore, uccide la società, uccide la fratellanza. Chiediamoci: io sono una persona che divide o una persona che condivide?». E ancora: «Fratelli. facciamo come Gesù: condividiamo, portiamo i pesi gli uni degli altri, invece di chiacchierare e distruggere, guardiamoci con compassione, aiutiamoci a vicenda». Più volte in questi anni Papa Francesco ha stigmatizzato l'uso del pettegolezzo, delle chiacchiere distruttive: ma questa volta le sue parole hanno un peso diverso. 

Poi ha citato il Papa emerito: «Benedetto XVI ha affermato che `Dio ha voluto salvarci andando lui stesso fino in fondo all'abisso della morte, perché ogni uomo, anche chi è caduto tanto in basso da non vedere più il cielo, possa trovare la mano di Dio a cui aggrapparsi e risalire dalle tenebre a rivedere la luce per la quale egli è fatto». Tendendo alla fine quasi una mano al segretario dell'Emerito: «La giustizia di Dio, come la Scrittura insegna, è molto più grande: non ha come fine la condanna del colpevole, ma la sua salvezza e la sua rinascita, il renderlo giusto. Perché nasce dall'amore, da quelle viscere di compassione e di misericordia che sono il cuore stesso di Dio, Padre che si commuove quando siamo oppressi dal male e cadiamo sotto il peso dei peccati e delle fragilità. La giustizia di Dio, dunque, non vuole distribuire pene e castighi ma, come afferma l'Apostolo Paolo, consiste nel rendere giusti noi suoi figli liberandoci dai lacci del male, risanandoci, rialzandoci».

 Poco prima il Pontefice aveva battezzato nella Cappella Sistina, come da tradizione della domenica in cui la Chiesa cattolica celebra il Battesimo di Cristo, alcuni neonati figli di dipendenti e cittadini vaticani.

All'Angelus ha esteso «la benedizione a tutti i bambini che hanno ricevuto o riceveranno in questo periodo il battesimo. Rinnovo a tutti l'invito a festeggiare la data in cui siamo stati battezzati e diventati cristiani. Ogni anno festeggiamo quella data, che è il compleanno della fede». E ha concluso ricordando le sofferenze dei civili ucraini «in questo Natale in guerra senza luce o caldo, Soffrono tanto, per favore non dimentichiamoli»: «Penso alle mamme delle vittime della guerra, dei soldati uccisi, russe e ucraine, Penso ad ambedue. Questo è il prezzo della guerra».

L’addio diventa il festival del rancore. È morto Ratzinger ma vogliono seppellire Papa Francesco: il rancore di padre Georg e l’attacco dei media. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 6 Gennaio 2023

«La contingenza storica che ha visto convivere nello stesso tempo due Successori di Pietro ha configurato per la Chiesa una situazione istituzionale inedita, che poteva anche essere delicata. Qualcuno magari ha pensato di approfittarne, e magari ci ha anche provato, per spargere confusione. Ma non è riuscito nel suo intento». Così ha parlato ieri il Segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin, in una lunga intervista al Corriere della Sera, per fornire delle spiegazioni e riequilibrare una seconda situazione inedita: dopo la rinuncia del 2013, i funerali di un papa celebrati dal successore. Oggi, dopo la cerimonia solenne ma sobria e dopo l’intervista data da mons. Georg Gänswein, occorrerà, forse, preoccuparsi affinché la “confusione” non prosegua.

A dire la verità c’è chi già chi opera in tal senso, come ha fatto vedere l’account twitter “StopFakeNews” che certifica la falsità su un video del 2011, ora riproposto, secondo cui Joseph Ratzinger in gioventù sarebbe stato respinto dai gesuiti, ordine in cui voleva entrare. Peccato non sia mai accaduto. Intanto il capo del governo, Giorgia Meloni, presente ai funerali, ha twittato sull’ “eredità spirituale e intellettuale” del Papa emerito, “fatta di fede, fiducia e speranza” che tocca preservare e portare avanti. Altri siti di stampo conservatore di qua e di là dell’Oceano, criticano l’omelia di Papa Francesco ai funerali. Si è trattato di un testo breve, dall’impronta spirituale, a commento delle parole di Gesù sulla Croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, che si trovano nel Vangelo letto in Piazza davanti ad una folla compatta, valutata in centomila fedeli. Il primo a dare voce ad un “disappunto” verso l’omelia è stato il cronista e commentatore del Wall Street Journal, il corrispondente da Roma e dal Vaticano Francis X. Rocca, che di questioni ecclesiali si intende e molto.

Ha scritto subito che si è trattato di una solenne cerimonia, però “non si è focalizzata sulla vita e sulle opere del deceduto”. Ed ha aggiunto: «Colpisce il contrasto con l’elogio funebre che il futuro papa Benedetto, allora noto come cardinale Joseph Ratzinger, pronunciò per san Giovanni Paolo II all’ultimo funerale papale, nel 2005. L’omelia del cardinale Ratzinger in quell’occasione approfondiva ampiamente la biografia del papa polacco come modello per seguire Gesù. In confronto, la brevità dell’omaggio di Francesco al suo predecessore di giovedì rischiava di deludere molti ammiratori di Benedetto». E poi hanno molto colpito le frasi del segretario particolare di Benedetto XVI, l’arcivescovo tedesco George Gänswein, che in un’intervista prontamente rilanciata in italiano, ha preso di mira uno dei provvedimenti di papa Francesco: la decisione del 2021 di abolire le norme giuridiche promulgate dal suo predecessore nel 2007 per celebrare correttamente la messa in latino. Nell’intervista al giornale tedesco Die Tagespot, mons. Gänswein si è riferito al Motu Proprio “Traditionis custodes” pubblicato da Bergoglio nel 2021.

«Credo che papa Benedetto abbia letto questo Motu Proprio con il dolore nel cuore», in riferimento all’abrogazione decretata da quest’ultimo testo per il Motu Proprio “Summorum pontificum” del 2007 con cui papa Ratzinger indicava le norme giuridiche e liturgiche per una corretta celebrazione dell’Eucaristia secondo il Messale promulgato nel 1962 da Giovanni XXIII. Consapevole della portata della questione, il testo del 2021 era accompagnato da una nota esplicativa e da una lettera ai vescovi di tutto il mondo in cui il Papa sottolineava la necessità di «ristabilire in tutta la Chiesa di Rito romano una sola e identica preghiera che esprima la sua unità, secondo i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II e in linea con la tradizione della Chiesa». Così una volta deceduto il papa emerito, si vuole far intendere che non sia vera la collaborazione e il rispetto tra i due?

Ma si sa, sul latino si gioca una partita molto complessa: la lingua viene presa come bandiera per quei settori che ancora dopo quasi 60 anni, non accettano il rinnovamento liturgico del Concilio Vaticano II e la decisione di celebrare nelle lingue locali. Per cercare un punto di equilibrio, era rimasta la facoltà di celebrare, su richiesta, la messa in latino. Ma come spiega papa Francesco, invece di riappacificare, le norme hanno inasprito la controversia, favorendo una sorta di contrapposizione tra i riti e da qui la decisione normativa del 2021. Quanto all’omelia, papa Francesco l’ha dedicata alla fiducia nell’azione di Dio. Come Gesù sulla Croce si affida al Padre celeste, fanno lo stesso tutti coloro che credono e pregano Dio, secondo i canoni della “dedizione orante” e della “dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito”. Quindi – ha aggiunto papa Francesco – «anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita (cfr Mt 25,6-7)».

Si è trattato di un’omelia spirituale e non un elenco dei meriti e delle opere di Benedetto XVI. Ma c’è anche da dire che nel testo dell’omelia, breve, Papa Francesco ha inserito quattro citazioni da opere del suo predecessore. A quanto pare non è bastato agli esegeti più capziosi. Naturalmente si può immaginare che se avesse fatto un’ampia omelia di riassunto e riepilogo dell’opera di papa Ratzinger, sarebbe stato criticato e il testo passato al microscopio. «Si ha quasi la sensazione che si tratti di un’omelia funebre generica, leggermente adattata per Benedetto XVI, e che potrebbe irritare alcuni dei più ardenti sostenitori del defunto pontefice, che la vedranno come un segno di mancanza di rispetto», ha affermato il noto commentatore statunitense John Allen al Wall Street Journal. Le prossime settimane e mesi daranno di sicuro delle indicazioni in merito a eventuali nuovi equilibri andranno raggiunti e trovati.

Resta però un tema centrale, su cui non solo il Vaticano ma un po’ tutta la Chiesa fatica a rendersi conto e riguarda il ruolo dei social media nell’entrare a piedi uniti nel dibattito politico, sociale, culturale, religioso, a volte creando dal nulla delle polemiche destinate a durare anni. Anche perché quello che è pubblicato in rete, lì resta e non si cancella ed è destinato a venire ripescato sia in senso positivo sia negativo come calunnia o falsa notizia da rimettere in circolazione. Come il proliferare delle fake news dimostra, l’importante è scrivere “la qualunque”, tanto si troveranno sempre persone e gruppi disposti a crederci. Se poi dietro a prese di posizione avventate, parziali, riduttive, false, si giocano interessi economici e di potere, sarà meglio attrezzarsi per tempo per contrastarli. E qui la Chiesa avrebbe molto da imparare, anche considerando tutti i mezzi di comunicazione che ha.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Non c’è più il custode della tradizione e ora aumenta il rischio di scisma. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 6 Gennaio 2023

Ora che le spoglie di Benedetto XVI riposano accanto a quelle di San Giovanni Paolo II, Papa Francesco è più solo che mai. Anzi, è un Pontefice dimezzato. Perché non rappresenta tutto il Vaticano e perché il suo papato incarna soltanto alcuni aspetti della Chiesa. E non dà voce a quella visione della Chiesa che invece vedeva in Ratzinger la massima espressione. Non a caso, con la scomparsa Benedetto XVI prende piede la possibilità della rinuncia da parte di Bergoglio. Anche perché per il Papa argentino si apre anche una stagione inedita: quella del governo della Chiesa senza il tacito ausilio del suo predecessore. Il Papa emerito si era sì ritirato in preghiera ma teneva in qualche modo buoni gli oppositori del gesuita che a sorpresa, eletto al soglio di Pietro, aveva scelto il nome del Poverello di Assisi. Ora i ratzingeriani, che coincidono in larga parte con i conservatori (forse anche reazionari) del Vaticano non potranno più restare in silenzio. Il loro tutore della tradizione è ormai in cielo.

Ratzinger aveva scelto la verità come motto episcopale, diventandone in seguito il custode – fortemente voluto da Giovanni Paolo II – come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Fino al compito, giunto nel 2005, di confermare i fratelli nella verità, secondo il mandato proprio di Pietro. Verbo fatto carne è la persona di Cristo: la verità. Il papato di Benedetto XVI è tutto nella sua celebre massima: “Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, ma di una Chiesa più divina. Solo allora essa sarà veramente umana”. Tutto torna.

Come torna egualmente e con altrettanta forza la visione di Bergoglio, figlia di quel cattolicesimo sudamericano tanto inviso alla potente chiesa cattolica nordamericana, rimasta esclusa nell’ultimo conclave. Bergoglio progressista, riformista, ai limiti dell’idolatria e della scomunica – come quando benedisse un idolo pagano degli indios dell’Amazzonia in San Pietro (statua che poi finì nel Tevere per mano certo non dei bergogliani). Mentre padre Georg ora si sfoga e si leva i sanpietrini dalle scarpe, citando tutte le volte che Bergoglio ha spezzato il cuore a lui e al suo amato Benedetto XVI, la Chiesa è monca. Non ci sono più i due Papi che insieme rappresentavano l’intera cristianità. Ora resta solo il Pontefice che guarda solo avanti. Se Bergoglio vuole che la Chiesa sia moderna e recuperi il ritardo rispetto ai mutamenti della società, c’è chi – come i ratzingeriani – ritiene che proprio la fedeltà al dogma è un contraltare indispensabile, una bussola – anche per i non credenti – in un mondo fin troppo confuso.

Ciò che logora il Papa non è tanto la sua missione di pastore nel mondo, ma l’essere a capo di una Chiesa che al posto delle correnti così come le conosciamo nei partiti politici ha gli ordini, che sono contrapposti da secoli e secoli, se non millenni. Il capo della Chiesa (di fatto una monarchia assoluta) non rappresenta mai tutte le anime e i poteri del Vaticano. Nel caso di Bergoglio poi la contrapposizione è stata finora bipolare. Ma senza più il Papa emerito come fattore di equilibrio, ci sarà una battaglia senza quartiere tra le “correnti” in Vaticano. Con il rischio concreto di uno scisma. A partire da quello dei cattolici nordamericani, tra i più conservatori.

In ogni caso, se Bergoglio dovesse davvero replicare il gesto estremo del suo predecessore – quella rinuncia che tanti ratzingeriani non hanno mai perdonato al loro Papa – il nuovo Pontefice difficilmente sarà italiano. Nel corso del 2023 tanti cardinali raggiungeranno gli 80 anni, ma fra di loro ci sono soltanto cinque italiani. Si riduce sempre più il peso della chiesa italiana. Francesco nel frattempo dovrà decidere se il decentramento annunciato a inizio pontificato diventerà realtà o resterà fra le buone intenzioni.

Se ieri in Piazza San Pietro in tanti hanno esclamato “Santo subito” per Benedetto XVI, celebrato nelle esequie come un Sommo Pontefice e non come un Papa emerito, altrettanti – tra i bergogliani – stanno dando la stura alle critiche al pontificato di Ratzinger.

Papa Francesco ora dovrà essere ancora più forte di prima. Altrimenti la rinuncia sarà (ancora una volta) inevitabile.

VATICAOS. Andrea Canali su L'Identità il 4 Gennaio 2023

Con la morte terrena del Papa emerito Benedetto XVI, che amava la musica e i gatti e che apprezzava gustare per il suo compleanno lo strudel, essendo molto più sensibile, umile e gentile di quello che potesse apparire, sembrerebbe riaprirsi una riflessione tutta interna alla Chiesa cattolica, che perdura già da un po’ di tempo ed è molto impegnativa, ancorché gravosa. Infatti, mentre migliaia di persone gli rendono omaggio in San Pietro, e si commuovono nel poterlo vedere e salutare, si riapre nella storia della Chiesta Cattolica la annosa questione della visione delle due Chiese, ossia quella progressista, contrapposta a quella conservatrice. Da sempre, a livello comunicativo, nei conclavi del novecento, finanche ai primi due degli anni duemila, che hanno portato alle elezioni di Ratzinger e Bergoglio, si è sempre voluta creare una fazione di cardinali progressisti, con i loro candidati, fronteggiati da un’ala più prudente, sostenuta dai propri fidati porporati. Spesso, la storia, ha visto trionfare invece una terza via che rappresentasse, appieno, lo specchio dei tempi. Cosa succederà ora con la dipartita di Benedetto XVI? Continuerà questo clima di apparente distensione, dovuto alla presenza di due Papi in Vaticano, oppure l’ala ratzingeriana, sostenuta dai cardinali meno favorevoli ad una deriva “luterana” del cattolicesimo, e foraggiata dai potenti mezzi economici dell’episcopato statunitense, uscirà allo scoperto, sconfessando il pontificato di Bergoglio? Certo, numeri alla mano sembrerebbe che il collegio cardinalizio sia numericamente composto in misura maggioritaria da porporati nominati da Papa Francesco, ma i fedelissimi di Benedetto XVI, fuori e dentro la Curia romana, sono tanti e, di sicuro, non silenziosi. Forse potrebbero avere deliberatamente deciso di passare questi anni sotto traccia al fine di organizzare la controrivoluzione per il prossimo conclave, in modo da poter nominare un Papa a loro gradito. Sempre che Papa Francesco opti anche lui per le dimissioni, aprendo in tal modo formalmente la sede vacante per l’elezione di un nuovo Romano pontefice. Certo, questo potrebbe anche portare, di concerto ai gruppi sedevacantisti, ad uno scisma “a destra” di cui si è spesso paventato, nel corso degli anni, all’interno della Chiesa cattolica. Perlomeno, già a partire da prima della fine del Concilio Vaticano II, che volevano rovesciare prima dell’elezione di Papa Paolo VI. La restaurazione, nell’anno 2007, da parte di Benedetto XVI, dell’antica messa tridentina in Latino, peraltro mai abolita del tutto, ma solo abbandonata come rito ordinario e mantenuto come rito straordinario, aveva in parte placato le annose questioni che ora, forse, potrebbero riaprirsi e tornare allo scoperto. Di contro, la Chiesa cattolica rischia un profondo scisma anche “a sinistra”. La Conferenza Episcopale tedesca, anche essa molto ricca e numericamente cospicua, sostiene profonde innovazioni in seno alla vita ecclesiale. Possibilità alle donne di celebrare i sacramenti liturgici; consentire la stessa facoltà finanche ai preti sposati e benedizione delle coppie omosessuali sono solo alcuni dei punti che tale episcopato propone alla Chiesa cattolica, nel prossimo Sinodo dei Vescovi, che già si preannuncia particolarmente infuocato. Anche perché, tenendosi il predetto Sinodo, la prima parte nell’anno appena inaugurato, e per la seconda nell’anno venturo, traghetterà la Chiesa direttamente verso il Giubileo del 2025. Ma, soprattutto, quale Papa sarà alla guida della Chiesa? La questione non è di poco conto. Alcuni settori del cattolicesimo sostengono che tali proposte, avanzate dalla Chiesa tedesca, portino direttamente ad una liturgia che possa accontentare sia i cattolici, sia i protestanti. Con loro somma disapprovazione. Paradossale sapere che proprio Ratzinger, contrario a tali derive, veniva proprio dalla terra tedesca. Se con il suo pontificato, la volontà di “germanizzare” la Chiesa è fallita, sicuramente la battaglia è ancora aperta. La visione dell’attuale Sommo Pontefice, come da Sue parole, in merito ad eventuali scismi, è molto chiara e netta: “Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. È una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, perché c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente. Il cammino nello scisma non è cristiano. Uno scisma è sempre una situazione elitaria. E comunque le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II io copio lui”.

Come finirà questa diatriba è ancora presto per dirlo anche perché, con la morte di Benedetto XVI, la questione è stata appena riaperta.

Silenzio papale. A differenza di Ratzinger, Bergoglio non ha mai denunciato la follia del terrorismo islamico. Carlo Panella su L’Inkiesta il 5 Gennaio 2023.

Benedetto XVI ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziare il jihadismo insito nel dettato coranico, mentre Papa Francesco cerca una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere l’aggressività in tanta parte dottrinale dell’Islam

Incredibilmente nel 2015 Papa Francesco ha giustificato l’attentato terrorista islamico a Charlie Hebdo che aveva mietuto 12 morti e 11 feriti. Papa Benedetto XVI con la prolusione di Ratisbona ha denunciato il dramma dell’Islam contemporaneo: la sua pratica del jihad violento e il divorzio tra fede e ragione che lo caratterizza.

Stranamente, in morte del papa emerito pochi hanno rimarcato questa enorme dissonanza tra i due pontificati.

Giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo, nonostante fosse ben noto il pesante bilancio di morte, così Papa Bergoglio ha risposto a un giornalista di La Croix che gli aveva chiesto la sua posizione sulle conseguenze tragiche della pubblicazione delle vignette su Maometto: «Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasparri che è un amico dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede».

Altrettanto sconcertante, come hanno rilevato molti, è il prolungato silenzio degli ultimi tre mesi di Papa Francesco di fronte alle crudeli e inumane condanne a morte di giovani manifestanti in Iran e alla uccisione nelle piazze di almeno cinquecento di loro.

Di nuovo sconcertante il suo giudizio del 2019 sulla persecuzione in atto dei cristiani: «La persecuzione dei cristiani è sempre la stessa: le persone che non vogliono il cristianesimo si sentono minacciate e così portano alla morte i cristiani».

Ancora un travisamento totale e radicale della realtà. I musulmani uccidono i cristiani – 16 al giorno, ogni giorno! –  non perché si sentono minacciati da questa esigua minoranza pacifica che non ha alcun mezzo per far loro del male, ma in applicazione rigida della sharia. La sharia wahabita giudica infatti i cristiani idolatri, apostati, blasfemi, i più gravi peccati per l’Islam. Da qui le uccisioni.

Di fatto, tutto l’attuale pontificato si distingue per un atteggiamento di accettazione passiva della violenza che proviene dal mondo islamico perché accetta la falsa e non reale versione che vuole che questa violenza islamica sia reattiva alla violenza dell’Occidente, non insita nel dettato coranico e nella sharia.

Di conseguenza Papa Francesco si impegna nella ricerca di una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere la aggressività insita in tanta parte dottrinale dell’Islam.

Opposta la posizione di Papa Ratzinger, che non si è limitato a denunciare il jihadismo insito nel dettato coranico, ma ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziarlo.

Il suo appello di Ratisbona a esaltare la convivenza tra fede e ragione ha indicato lo stesso, identico, nodo teologico individuato dai poco ascoltati e perseguitati riformatori islamici. Riformatori che non a caso sono tra i pochissimi nel mondo musulmano a rifarsi al razionalismo aristotelico di Averroè, tanto influente nella cristianità quanto rigettato dal mondo musulmano.

Tra questi, esemplare è stato il sudanese Mohammed Taha che appunto ha applicato la ragione per storicizzare il dettato coranico, per esercitare la esegesi, per interpretarlo, ritenendo contingenti, determinate dalla cronaca storica e quindi da superare le Sure che esaltano il Jihad contro gli ebrei, gli apostati, i cristiani e gli infedeli dettate da Maometto nel corso delle sue battaglie alla Medina.

Al contrario, Mohammed Taha ha invitato a fare tesoro delle Sure precedentemente dettate da Maometto alla Mecca – non a caso amichevoli e intrise di ecumenismo nei confronti di cristiani ed ebrei – che contengono i capisaldi della pura fede dell’Islam. Da questa esegesi derivava per Mohammed Taha il rifiuto del Jihad, della posizione subordinata della donna e quindi dell’obbligo del velo e anche una sorta di teologia della liberazione a favore degli oppressi.

Di fatto, come Mohammed Taha, i – pochi – riformatori dell’Islam intendono ripercorrere il cammino  del cristianesimo e dell’ebraismo che da secoli non seguono la lettera formale del Libro, del Verbo, ma la interpretano, la attualizzano, la spogliano dello specifico contesto storico.

Ma Mohammed Taha è stato impiccato a Khartoum nel 1980 come apostata sulla base – questo è fondamentale – di una fatwa di condanna emessa da al Azhar, stranamente considerata da molti in Vaticano come la più alta autorità morale sunnita (in realtà il suo prestigio si limita all’Egitto e al Sudan e i suoi Grandi Imam sono nominati e controllati ieri da Nasser e Mubarak e oggi da al Sisi). 

Dunque, la coesistenza, la compenetrazione tra fede e ragione, è una fase ancora chiusa in un Islam nel quale impera il dogma del Corano Increato, parola eterna e inscalfibile di Dio, precedente e successiva all’umanità, non interpretabile, da non sottoporre assolutamente a esegesi, da applicare alla lettera.

Con questo Islam il gesuita latinoamericano Papa Francesco intende solo convivere in pace, come dimostra il “Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune” firmato assieme al Grande Imam di Al Azhar Ahmad al Tayyeb nel 2019 ad Abu Dhabi.

L’europeo e agostiniano Papa Benedetto XVI, dopo decenni d’inconcludente dialogo inter religioso, ha voluto stimolare l’Islam ad affrontare finalmente la modernità con le armi di una teologia alta e coraggiosa.

Ma l’Islam gli ha risposto offeso e irato. E continua nella sua immobilità di pensiero e nella sua aggressività.

Kater. Edoardo D’Alfonso Masarié su L’Inkiesta il 5 Gennaio 2023.

Wir sind kein Papst!Il rapporto complicato tra Benedetto XVI e l’élite cattolica tedesca

Joseph Ratzinger è stato molto più romano che teutonico, e ai propri connazionali spesso non l’ha mandata a dire

Fra i momenti iconici del pontificato di Benedetto XVI non può mancare la copertina della Bild il giorno successivo alla sua elezione con il leggendario titolo: Noi siamo Papa! (Wir sind Papst!). Quel titolo fu una trovata effettivamente geniale, segno di un momento particolarmente favorevole per la riscoperta in positivo di un’identità tedesca che, dopo l’elezione nel 2005 di un pontefice tedesco (la prima dal Medioevo) e della prima donna alla Cancelleria, si vide coronata ai mondiali di calcio dell’anno successivo, quando per la prima volta dopo il nazismo venne rotto il tabù dello sventolare in massa bandiera e colori nazionali senza per questo sentirsi folli nazionalisti. Per la Germania una conquista collettiva assai più rilevante del terzo posto al torneo calcistico.

Sia il titolo della Bild, sia quello sfacciato de Il Manifesto (“Il pastore tedesco”) probabilmente colsero a loro modo un segmento rilevante dell’opinione e del sentimento del proprio pubblico di riferimento, tuttavia di entrambi può dirsi – col senno di poi – che sbagliarono nell’individuare nell’identità nazionale un tratto qualificante della vita e dell’opera di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. In questo egli sicuramente si scostò dal profilo del suo predecessore, quel Giovanni Paolo II (1920-2005) che aveva fatto del proprio essere polacco un tratto distintivo del proprio pontificato e la cui elezione e azione da polacco sulla Cattedra di Pietro contribuì decisivamente a risvegliare quel patriottismo che diede la spallata fatale ai regimi realsocialisti.

Che Benedetto XVI non fosse Giovanni Paolo II era chiaro a tutti. Anzitutto a lui stesso, la cui prima frase pubblica da Papa (“un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”) fu un’ammissione di ammirante diversità dal predecessore e di ritrosia verso l’idea di essere un “grande” che cambia la storia. Benedetto XVI è stato un Papa del discorso lungo, della parola non improvvisata ma frutto di ricerca e meditazione, uno di cui era necessario prendere appunti e magari leggere e rileggere il testo originale, uno sforzo spesso necessario per poterlo comprendere e non solo per sfuggire alla pessima stampa di cui ha goduto prima, durante, dopo e soprattutto a prescindere dal suo operato.

Egli fu sempre, anche dopo aver lasciato nel 1977 da vicerettore l’Università di Ratisbona per diventare arcivescovo, un professore universitario a riposo profondamente contraddistinto dal modo di parlare ed argomentare dell’accademia, un Prof. Dr. Papst cultore e custode del lógos e perciò disarmato e travolto di fronte alla comunicazione di massa in tempo reale dove le immagini contano più delle parole, il titolo più del testo, l’impressione più del contenuto. Certo, i primi due viaggi dell’allora nuovo pontefice in Germania furono un trionfo.

A Colonia in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù 2005 (pochi mesi dopo l’elezione) Ratzinger fu acclamato da oltre un milione di giovani cattolici di tutto il mondo con un entusiasmo che quasi nessuno si aspettava. Il suo arrivo in barca su un Reno le cui rive erano stracolme di giovani che giubilavano il pontefice tedesco sembrò poter diventare un simbolo per una Chiesa viva, gioiosa e risvegliata. L’anno successivo la sua Baviera gli riservò un’accoglienza popolare immensa, le scuole rimasero chiuse per consentire a tutti di andare a vedere di persona il Papa e persino l’allora nuova Cancelliera Angela Merkel dovette cantare l’inno nazionale bavarese insieme a tutta Monaco. Mentre lei però leggeva il testo dagli schermi, il Papa, orgoglioso e commosso, lo sapeva e cantava a memoria.

Di Benedetto XVI disse l’allora Cardinale di Colonia Joachim Meisner (1933-2017): È intelligente quanto dieci professori universitari e devoto come un bimbo della prima comunione. Se di una definizione così si può certo essere orgogliosi, essa fu però per Joseph Ratzinger in patria una condanna. L’entusiasmo dei primi tempi non si tradusse infatti mai in proficua armonia fra Papa Benedetto e una larga parte dell’episcopato e del laicato tedesco. I cambiamenti nella Chiesa che il pontefice bavarese aveva in mente e simboleggiava e le richieste di riforma di diversi vescovi ed associazioni laicali nella sua patria hanno viaggiato su binari visibilmente e rumorosamente divergenti. Come ha raccontato su Kater Gregor Christiansmeyer ad aprile 2020, la compresenza e convivenza con il protestantesimo tedesco – molto più sincronico con opinioni forti e tendenze dominanti nelle società occidentali contemporanee – ha fatto del cattolicesimo in Germania un terreno fertile per chi si auspica una Chiesa “al passo coi tempi”, che corrisponda al mondo nel quale vivono i suoi fedeli e sappia – attraverso un sempre maggiore avvicinamento ai fratelli protestanti – in un certo modo anche superare se stessa.

Grazie a meccanismi peculiari per la Chiesa cattolica in Germania come il pingue finanziamento della tassa ecclesiastica obbligatoria, l’elezione dei vescovi per cooptazione tramite il clero locale e l’insegnamento della teologia in università statali – peculiarità ancorate nel diritto costituzionale tedesco e nei Concordati degli anni Venti stipulati dall’allora Nunzio apostolico Eugenio Pacelli con i Länder e dunque pressoché intoccabili – le posizioni cosiddette progressiste sono particolarmente forti nelle facoltà teologiche e nelle curie diocesane, cioè fra quei professori e vescovi che dall’ex Sant’Uffizio il cardinal Ratzinger ebbe per un quarto di secolo il compito di controllare e redarguire.

Un Ratzinger che, fin da quando era giovane prete negli anni Cinquanta, individuò invece in una crisi della fede in Dio la ragione di crisi della Chiesa in Occidente e che da Papa cercò di orientare ad un rafforzamento nella fede cattolica e non ad un adattamento ai tempi l’agenda del cattolicesimo mondiale. Per lui la patria tedesca fu tutt’altro che un modello cui adeguarsi, quanto piuttosto un’icona di un Occidente relativista e paganeggiante nel quale coltivare oasi di fede ed operosità come fece un altro grande Benedetto, il monaco di Norcia. Da cui Ratzinger non a caso scelse il nome pontificale.

La frattura fra l’élite del cattolicesimo tedesco ed il pontefice connazionale divenne evidente alla fine del terzo viaggio di Benedetto XVI in Germania, sei anni dopo il primo. In quelle intense giornate del settembre 2011 Benedetto seppe intessere una tela di comunanza con quella che apparentemente sarebbe dovuta essere per lui la controparte: a Berlino indicò, con un memorabile discorso ai deputati del Bundestag, in un dialogo sulla ragione tra credenti e non credenti la base per una nuova intesa sui valori capace di resistere ai cambi di maggioranze e lodò il movimento dei Verdi come “un grido che anela all’aria fresca [nella politica], un grido che non si può ignorare né accantonare”, mentre a Erfurt di fronte ai vertici del protestantesimo tedesco accolse come propria e rivolse alla propria Chiesa la domanda centrale di Martin Lutero sul male e sul rapporto individuale con Dio, che “deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda”.

Eclatante fu però la conclusione del viaggio, quando a Friburgo, di fronte ai connazionali cattolici lì riuniti, il Papa predicò con convinzione una Chiesa che si “smondanizzasse”, che rinunciasse ai privilegi fiscali e giuridici ottenuti nel passato e che le garantiscono in Germania ingenti risorse e un ruolo pubblico costituito, una Chiesa con meno lavoratori dipendenti e più volontari che abdicasse a soldi e potere per orientarsi esclusivamente all’annuncio del Vangelo e alla fedeltà alla propria tradizione.

Alla Chiesa tedesca Benedetto XVI rimproverò esplicitamente “un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito” e la ammonì ricordandole che “se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma delle strutture resterà priva di effetti”. Ai critici del fronte cosiddetto progressista Papa Benedetto indicò come modello alternativo una Chiesa che accettasse di essere una minoranza nella società secolarizzata e fosse sì più piccola nei numeri, ma più povera, ancorata alla propria fede e più consapevole alla propria natura mondiale. Insomma, meno tedesca e più cattolica. L’accoglienza fu glaciale, il rifiuto evidente. E contraccambiato: l’allora Arcivescovo di Friburgo Robert Zollitsch, padrone di casa dell’incontro col Papa ai piedi della Foresta Nera, fu il primo Presidente della Conferenza episcopale tedesca nella storia a non essere elevato a cardinale, una scelta che il successore di Benedetto, Francesco, non ha mancato di confermare.

E mentre Ratzinger non aspettò neppure la pubblicazione della sua stessa ultima enciclica prima di dimettersi (poi firmata dal successore), egli attese invece che fosse fresca di stampa (e quindi non più modificabile) la nuova edizione del Gotteslob, il libro di canti e preghiere presente in ogni chiesa della Germania e dell’Austria e nella casa di pressoché ogni fedele, frutto di un decennale lavoro preparatorio di musicisti, liturgisti e teologi. Una cosa che, per uno come Ratzinger, non poteva certo essere lasciata al caso o, peggio, ai detrattori.

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Addio a Benedetto XVI, un papa non troppo tedesco

Per il compianto teologo, professore e pontefice bavarese i rapporti con l’élite cattolica tedesca sono stati più un problema che un punto di forza. Joseph Ratzinger è stato molto più romano che teutonico, ed ai propri connazionali spesso non l’ha mandata a dire.

Fra i momenti iconici del pontificato di Benedetto XVI non può mancare la copertina della Bild il giorno successivo alla sua elezione con il leggendario titolo: Noi siamo Papa! (Wir sind Papst!).

Quel titolo fu una trovata effettivamente geniale, segno di un momento particolarmente favorevole per la riscoperta in positivo di un’identità tedesca che, dopo l’elezione nel 2005 di un pontefice tedesco (la prima dal Medioevo) e della prima donna alla Cancelleria, si vide coronata ai mondiali di calcio dell’anno successivo, quando per la prima volta dopo il nazismo venne rotto il tabù dello sventolare in massa bandiera e colori nazionali senza per questo sentirsi folli nazionalisti. Per la Germania una conquista collettiva assai più rilevante del terzo posto al torneo calcistico.

Sia il titolo della Bild, sia quello sfacciato de Il Manifesto (“Il pastore tedesco”) probabilmente colsero a loro modo un segmento rilevante dell’opinione e del sentimento del proprio pubblico di riferimento, tuttavia di entrambi può dirsi – col senno di poi – che sbagliarono nell’individuare nell’identità nazionale un tratto qualificante della vita e dell’opera di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. In questo egli sicuramente si scostò dal profilo del suo predecessore, quel Giovanni Paolo II (1920-2005) che aveva fatto del proprio essere polacco un tratto distintivo del proprio pontificato e la cui elezione ed azione da polacco sulla Cattedra di Pietro contribuì decisivamente a risvegliare quel patriottismo che diede la spallata fatale ai regimi realsocialisti.

Che Benedetto XVI non fosse Giovanni Paolo II era chiaro a tutti. Anzitutto a lui stesso, la cui prima frase pubblica da Papa (“un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”) fu un’ammissione di ammirante diversità dal predecessore e di ritrosia verso l’idea di essere un “grande” che cambia la storia. Benedetto XVI è stato un Papa del discorso lungo, della parola non improvvisata ma frutto di ricerca e meditazione, uno di cui era necessario prendere appunti e magari leggere e rileggere il testo originale, uno sforzo spesso necessario per poterlo comprendere e non solo per sfuggire alla pessima stampa di cui ha goduto prima, durante, dopo e soprattutto a prescindere dal suo operato. Egli fu sempre, anche dopo aver lasciato nel 1977 da vicerettore l’Università di Ratisbona per diventare arcivescovo, un professore universitario a riposo profondamente contraddistinto dal modo di parlare ed argomentare dell’accademia, un Prof. Dr. Papst cultore e custode del lógos e perciò disarmato e travolto di fronte alla comunicazione di massa in tempo reale dove le immagini contano più delle parole, il titolo più del testo, l’impressione più del contenuto. Certo, i primi due viaggi dell’allora nuovo pontefice in Germania furono un trionfo. A Colonia in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù 2005 (pochi mesi dopo l’elezione) Ratzinger fu acclamato da oltre un milione di giovani cattolici di tutto il mondo con un entusiasmo che quasi nessuno si aspettava. Il suo arrivo in barca su un Reno le cui rive erano stracolme di giovani che giubilavano il pontefice tedesco sembrò poter diventare un simbolo per una Chiesa viva, gioiosa e risvegliata. L’anno successivo la sua Baviera gli riservò un’accoglienza popolare immensa, le scuole rimasero chiuse per consentire a tutti di andare a vedere di persona il Papa e persino l’allora nuova Cancelliera Angela Merkel dovette cantare l’inno nazionale bavarese insieme a tutta Monaco. Mentre lei però leggeva il testo dagli schermi, il Papa, orgoglioso e commosso, lo sapeva e cantava a memoria.

Di Benedetto XVI disse l’allora Cardinale di Colonia Joachim Meisner (1933-2017): È intelligente quanto dieci professori universitari e devoto come un bimbo della prima comunione. Se di una definizione così si può certo essere orgogliosi, essa fu però per Joseph Ratzinger in patria una condanna. L’entusiasmo dei primi tempi non si tradusse infatti mai in proficua armonia fra Papa Benedetto e una larga parte dell’episcopato e del laicato tedesco. I cambiamenti nella Chiesa che il pontefice bavarese aveva in mente e simboleggiava e le richieste di riforma di diversi vescovi ed associazioni laicali nella sua patria hanno viaggiato su binari visibilmente e rumorosamente divergenti. Come ha raccontato su Kater Gregor Christiansmeyer ad aprile 2020, la compresenza e convivenza con il protestantesimo tedesco – molto più sincronico con opinioni forti e tendenze dominanti nelle società occidentali contemporanee – ha fatto del cattolicesimo in Germania un terreno fertile per chi si auspica una Chiesa “al passo coi tempi”, che corrisponda al mondo nel quale vivono i suoi fedeli e sappia – attraverso un sempre maggiore avvicinamento ai fratelli protestanti – in un certo modo anche superare se stessa.

Grazie a meccanismi peculiari per la Chiesa cattolica in Germania come il pingue finanziamento della tassa ecclesiastica obbligatoria, l’elezione dei vescovi per cooptazione tramite il clero locale e l’insegnamento della teologia in università statali – peculiarità ancorate nel diritto costituzionale tedesco e nei Concordati degli anni Venti stipulati dall’allora Nunzio apostolico Eugenio Pacelli con i Länder e dunque pressoché intoccabili – le posizioni cosiddette progressiste sono particolarmente forti nelle facoltà teologiche e nelle curie diocesane, cioè fra quei professori e vescovi che dall’ex Sant’Uffizio il cardinal Ratzinger ebbe per un quarto di secolo il compito di controllare e redarguire. Un Ratzinger che, fin da quando era giovane prete negli anni Cinquanta, individuò invece in una crisi della fede in Dio la ragione di crisi della Chiesa in Occidente e che da Papa cercò di orientare ad un rafforzamento nella fede cattolica e non ad un adattamento ai tempi l’agenda del cattolicesimo mondiale. Per lui la patria tedesca fu tutt’altro che un modello cui adeguarsi, quanto piuttosto un’icona di un Occidente relativista e paganeggiante nel quale coltivare oasi di fede ed operosità come fece un altro grande Benedetto, il monaco di Norcia. Da cui Ratzinger non a caso scelse il nome pontificale.

La frattura fra l’élite del cattolicesimo tedesco ed il pontefice connazionale divenne evidente alla fine del terzo viaggio di Benedetto XVI in Germania, sei anni dopo il primo. In quelle intense giornate del settembre 2011 Benedetto seppe intessere una tela di comunanza con quella che apparentemente sarebbe dovuta essere per lui la controparte: a Berlino indicò, con un memorabile discorso ai deputati del Bundestag, in un dialogo sulla ragione tra credenti e non credenti la base per una nuova intesa sui valori capace di resistere ai cambi di maggioranze e lodò il movimento dei Verdi come “un grido che anela all’aria fresca [nella politica], un grido che non si può ignorare né accantonare”, mentre ad Erfurt di fronte ai vertici del protestantesimo tedesco accolse come propria e rivolse alla propria Chiesa la domanda centrale di Martin Lutero sul male e sul rapporto individuale con Dio, che “deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda”. Eclatante fu però la conclusione del viaggio, quando a Friburgo, di fronte ai connazionali cattolici lì riuniti, il Papa predicò con convinzione una Chiesa che si “smondanizzasse”, che rinunciasse ai privilegi fiscali e giuridici ottenuti nel passato e che le garantiscono in Germania ingenti risorse e un ruolo pubblico costituito, una Chiesa con meno lavoratori dipendenti e più volontari che abdicasse a soldi e potere per orientarsi esclusivamente all’annuncio del Vangelo e alla fedeltà alla propria tradizione. Alla Chiesa tedesca Benedetto XVI rimproverò esplicitamente “un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito” e la ammonì ricordandole che “se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma delle strutture resterà priva di effetti”. Ai critici del fronte cosiddetto progressista Papa Benedetto indicò come modello alternativo una Chiesa che accettasse di essere una minoranza nella società secolarizzata e fosse sì più piccola nei numeri, ma più povera, ancorata alla propria fede e più consapevole alla propria natura mondiale. Insomma, meno tedesca e più cattolica. L’accoglienza fu glaciale, il rifiuto evidente. E contraccambiato: l’allora Arcivescovo di Friburgo Robert Zollitsch, padrone di casa dell’incontro col Papa ai piedi della Foresta Nera, fu il primo Presidente della Conferenza episcopale tedesca nella storia a non essere elevato a cardinale, una scelta che il successore di Benedetto, Francesco, non ha mancato di confermare. E mentre Ratzinger non aspettò neppure la pubblicazione della sua stessa ultima enciclica prima di dimettersi (poi firmata dal successore), egli attese invece che fosse fresca di stampa (e quindi non più modificabile) la nuova edizione del Gotteslob, il libro di canti e preghiere presente in ogni chiesa della Germania e dell’Austria e nella casa di pressoché ogni fedele, frutto di un decennale lavoro preparatorio di musicisti, liturgisti e teologi. Una cosa che, per uno come Ratzinger, non poteva certo essere lasciata al caso o, peggio, ai detrattori.

Davanti a tutta la predicata diversità fra Ratzinger e Bergoglio, ciò che quando si tratta di Germania appare più evidente è una profonda continuità fra il pontefice argentino e quello bavarese. Così anche Francesco, come Benedetto prima di lui, non fa mistero della sua “drammatica preoccupazione” per la Chiesa in Germania, contraccambiata con ostentato distacco verso il Papa regnante da tanti connazionali del di lui predecessore.

Con Joseph Ratzinger-Benedetto XVI si spegne non solo un patriota bavarese e convinto europeista, un teologo di prim’ordine e un (e forse il primo) Papa emerito della Chiesa cattolica. Egli fu l’ultimo pontefice della generazione che visse la Seconda guerra mondiale e partecipò al Concilio Vaticano II, che dei totalitarismi fece esperienza diretta e la cui fede sorse in un contesto anteriore all’attuale Occidente secolarizzato e in larga parte indifferente al fenomeno religioso. Alle radici della sua personalità nella Baviera profonda, contadina e cattolica dedicò, nella sua ultima estate da Papa, un discorso a braccio (qui il video) e una definizione che certo vale più di mille immagini:

La cultura bavarese è una cultura allegra: noi non siamo persone rudi, non si tratta di semplice divertimento, ma è una cultura allegra, imbevuta di gioia; nasce da un’interiore accettazione del mondo, da un “sì” interiore alla vita che è un “sì” alla gioia. Questa gioia si fonda sul fatto che noi siamo in sintonia con la Creazione, in sintonia con lo stesso Creatore e che per questo sappiamo che è una fortuna essere al mondo. E dobbiamo ammettere Dio in Baviera ci ha veramente facilitato il compito: ci ha donato un mondo così bello, una terra così bella che diventa facile riconoscere che Dio è buono ed esserne felici.”

Vergelt’s Gott, Santo Padre! Il Paradiso riuscirà ad essere ancora più bello della Sua bella Baviera. Forse.

Edoardo D’Alfonso Masarié

Gli ultimi codici Ratzinger di papa Benedetto XVI e Mons. Gänswein (a Repubblica). Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 03 gennaio 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Le ultime parole di papa Benedetto sono state “Gesù ti amo”. Una nostra lettrice, Anna Maria A., ha colto in esse un dettaglio fondamentale: queste sono le parole di San Pietro in risposta a Gesù (Gv 21 15-23). Papa Benedetto ci ha lasciato l’ultimo messaggio per farci capire che è sempre rimasto il solo papa esistente, il solo successore di San Pietro legittimo, fino all’ultimo. Non a caso, verrà sepolto nel sarcofago che fu di Giovanni Paolo II. Nessuno si è chiesto: ma se era abdicatario, che diritto avrebbe ad essere sepolto nella cripta dei papi? Ma ormai il pensiero logico è un lusso per pochi e tutti ingollano a grandi cucchiaiate la narrativa mainstream che insiste in modo ossessivo-compulsivo su quello che avrebbe dovuto essere l’atto più importante di tutto il pontificato di Benedetto XVI: le “dimissioni”.  Come ha ben evidenziato Giuseppe De Lorenzo sul sito di Nicola Porro, non gliene importa a nessuno delle cose enormemente significative compiute da Benedetto XVI, ma tutti insistono sulla narrativa del papa abdicatario perché il diktat-velina che circola per le redazioni è: “proteggere Bergoglio a tutti i costi”. Se crolla lui, crolla il deep-tutto e buonanotte ai suonatori.

Da un certo punto di vista, che le dimissioni di papa Benedetto siano state l’atto più importante del suo pontificato, è vero, perché con la sua rinuncia fattuale al ministerium,  al “fare” il papa, permettendo che la sede romana venisse totalmente impedita (can. 335) , papa Benedetto ha finalmente purificato la Chiesa dal marciume e dall’apostasia.

Ora è bene fare un veloce ripasso di come funziona il Codice Ratzinger prima di illustrarvi gli ultimi messaggi contenuti nella recentissima intervista di Mons. Gaenswein a Repubblica. Questo stile di comunicazione, che si serve di anfibologie, silenzi eloquenti, o fraintendimenti voluti, serve a celare una lettura “B” dietro una lettura “A” facile-facile e bergoglianamente corretta. Naturalmente, papa Benedetto ha adottato questo stile sia perché, essendo impedito, non poteva parlare chiaramente, sia perché voleva “separare i credenti dai non credenti” secondo una tecnica di selezione di cui abbiamo già scritto: solo chi ha orecchie per intendere viene “arruolato” nel suo esercito. Il Papa, come Colui di cui era il Vicario, vi ha lasciato la libertà di credere, o non credere.

Per questo motivo, vi elencheremo una serie di frasi-tipo, usate spesso da papa Benedetto o da Mons. Gaenswein che, sulle prime, vi sembreranno suffragare la favola del Benedetto abdicatario e del legittimo papa Francesco. Subito dopo vi illustreremo cosa vogliono dire a una seconda, più approfondita lettura.

Poi, se la seconda lettura affatica troppo qualcuno che si vuole accontentare della “strada larga bergogliana”, faccia pure.

Papa Benedetto, nel 2013, ha liberamente rinunciato al suo ministero e oggi è, senza alcun dubbio, il papa emerito”.

Verissimo: Papa Benedetto, nel 2013, ha liberamente rinunciato al suo ministero-ministerium, (e non al ministero-munus) cosa che lo mandava in sede impedita, ed oggi resta, senza alcun dubbio, il papa emerito, cioè colui che merita di essere papa, che ne ha il diritto (da emereo), anche se privo del potere pratico.

Nessuno lo ha mai costretto a compiere questo passo, ci ha pensato a lungo e lo ha fatto in piena consapevolezza. Chi dice che la rinuncia è stata forzata dice un’assurdità”.

Certo: nessuno lo ha mai costretto a compiere questo passo, (il ritiro dal ministerium) mentre invece lo volevano far abdicare a tutti i costi rinunciando al munus. Ci ha pensato a lungo, era un passo difficile, ma necessario per purificare la Chiesa. Chi dice che la rinuncia è stata forzata dice un’assurdità, in quanto qualsiasi rinuncia, essendo un “volontario abbandono di qualcosa”, non può che essere libero.

Benedetto veste ancora di bianco perché è stata la cosa più pratica in quanto non aveva altri abiti disponibili, ma porta comunque la veste bianca in modo diverso da quello del papa”.

Giusto: non aveva un altro abito perché non esiste una veste da papa impedito, ma porta comunque la veste bianca diversa da quella classica da papa, senza la fascia e la mantelletta, in modo che si riconosca il suo nuovo status di papa impedito.

Se Papa Benedetto celebra la messa in unione con papa Francesco? Egli non ha mai menzionato nessun altro nome nel canone della messa, né ha mai nominato il suo nome”.

Sacrosanto: infatti la formula liturgica recitata dal papa è “in unione con me, Tuo indegno servo”. Così papa Benedetto, celebrando in comunione con se stesso, non citava né il suo, né nessun altro nome.  

Papa Francesco è oggi l’unico papa regnante. Benedetto ha passato più anni da emerito che da regnante”.

E’ vero, Francesco è stato per nove anni l’unico papa regnante, sebbene illegittimo: infatti, per via della sede impedita e della conseguente usurpazione del trono petrino, abbiamo avuto due papi, uno legittimo-contemplativo (Benedetto) e uno illegittimo attivo, (Bergoglio) che sta regnando. (Vedasi discorso del ministero allargato” QUI  ). Papa Benedetto è vissuto più anni da papa impedito che da regnante.

Benedetto aveva una sincera amicizia personale con Francesco”.

Verissimo. Era solo sua, “personale”, monodirezionale, non corrisposta, dando realizzazione al comandamento di Cristo “Ama il tuo nemico e prega per il tuo persecutore”.

A questo punto, se avete scaldato le “orecchie per intendere”, siete pronti per comprendere le frasi più significative della recente intervista di Ezio Mauro a Mons. Gaenswein.

D. Lei era accanto al Papa nel 2009 all’Aquila, davanti alla teca dov’è custodito il corpo di Celestino V, l’unico pontefice che, come Ratzinger, fece liberamente la rinuncia nel 1294; e lei aiuta Benedetto che si è sfilato il pallio a deporlo sulla teca di Celestino V. Perché quel gesto che sembra un’autoprofezia?

R. «Mettere sulla tomba della Chiesa distrutta di Collemaggio il pallio papale era un gesto di grande onore a Celestino. Ma non c’entra niente con un atto di rinuncia che diventerà realtà alcuni anni più tardi. Escludo un collegamento».

Questo concetto è stato ribadito varie volte anche dallo stesso papa Ratzinger: egli non aveva nulla a che spartire con Celestino V perché questi aveva abdicato, e lui no, ovviamente.

D. Alle 11:46 la notizia (delle “dimissioni” n.d.r.) fa il giro del mondo. E in qualche modo è l’assoluto che deve fare il conto con il relativo, l’universale che si scontra con la debolezza umana denunciata in pubblico. In questo senso è anche l’irruzione della modernità di un’istituzione che ha 2 mila anni di vita, con il Pontefice, rappresentante di Cristo in terra, che rivela la sua fragilità di fronte al peso di reggere la Chiesa universale e anche la responsabilità che ne consegue. È d’accordo con questa lettura?

R. «Non è una spiegazione completa, ma sono totalmente d’accordo».

Non è completa perché Benedetto ha rinunciato solo a “fare” il papa ma non a “esserlo”.

D. Perché Benedetto ha scelto per sé la formula di Papa Emerito, sollevando discussioni?

R. «Ha deciso così lui, personalmente. Penso che davanti a una decisione così eccezionale tornare cardinale sarebbe stato poco naturale. Ma non c’è nessun dubbio che c’è stato sempre un solo Papa, e si chiama Francesco».

Di fronte alla decisione di farsi totalmente impedire la sede con la rinuncia al ministerium, tornare cardinale non sarebbe stato naturale, nel senso che Benedetto manteneva la sua natura di papa. C’è sempre stato un solo papa (Benedetto) e lo si chiama Francesco. Attenzione: Gaenswein non dice “ed è Francesco”, come papa Benedetto non ha mai voluto dire per nove anni. L’arcivescovo dice  “si chiama”, il che può voler anfibologicamente significare sia “è Francesco”, sia “lo si chiama Francesco”, “viene individuato con Francesco”. Ma non è detto che lo sia davvero.

D. Non crede che dopo la rinuncia di Ratzinger il sacro sia diventato più umano?

R. «Il sacro è il sacro, e ha anche aspetti umani. Io credo che con la sua rinuncia Papa Benedetto abbia anche dimostrato che il Papa, se è sempre il successore di Pietro, rimane una persona umana con tutte le sue forze, ma anche con le sue debolezze».

Qui c’è l’ammissione finale: la rinuncia al ministerium ha mantenuto Benedetto XVI papa: “E’ sempre il successore di Pietro.

Non siete convinti? Padronissimi. Ricordiamo le parole di papa Benedetto-Gaenswein alla Lumsa: “Potete credere, o non credere. Se non credete, la risposta è nel libro di Geremia, non vi dico dove”.

E in Geremia si legge: “Io sono impedito”.

Poi se volete considerarla una coincidenza, fate pure. E’ quello che ha voluto il Papa: o di qua, o di là.

Francesco, il papa emerito e la rinuncia "già firmata": cosa c'è di vero nelle voci di dimissioni. Iacopo Scaramuzzi La Repubblica il 31 dicembre 2022.

Il decesso del predecessore può essere usato dai suoi avversari ma Jorge Mario Bergoglio ha già chiarito che lascerà solo per un impedimento di carattere medico. I progetti per i prossimi anni, la sfida del sinodo globale in corso 

Il decesso di Benedetto XVI apre una pagina nuova, e non priva di insidie, nel pontificato di Francesco, che il papa gesuita prevedibilmente governerà, come ha governato questi quasi dieci anni di coabitazione, nel segno dell’unità della Chiesa.

Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio non potevano essere più diversi, ma l’elezione del secondo non sarebbe avvenuta senza l’inedita rinuncia del primo. Al teologo conservatore è succeduto il riformista latino-americano, al tutore dell’ortodossia cattolica, che con il suo passo indietro ha rivoluzionato la vita della Chiesa, è subentrato il pastore che vuole far evolvere gradualmente, e sinodalmente, il magistero. Era inevitabile che la compresenza di un Papa regnante e di un Papa emerito, a distanza di poche centinaia di metri, innescasse interrogativi e qualche tensione.

Come quando il segretario particolare di Benedetto XVI, monsignor Georg Gaenswein, parlò di un “ministero petrino condiviso”, concetto subito rettificato dal Vaticano; o quando, a poche settimane dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica “Querida Amazonia” di Francesco uscì un libro a quattro mani di Benedetto XVI con il cardinale Robert Sarah, che sbarrava la strada a ogni ipotesi – semmai fosse stata nelle intenzioni del pontefice regnante – circa i “viri probati” per la regione amazzonica, i cosiddetti preti sposati. Un certo mondo conservatore ha guardato a Benedetto come baluardo contro la ventata di novità portata da Francesco, ben al di là delle sue intenzioni, e da lui si è sentito rassicurato.

"Lui li ha cacciati via"

Bergoglio in persona ha accennato a questo scenario nel 2016, sul volo di ritorno dall’Armenia: “Ho sentito – ma non so se è vero questo – sottolineo: ho sentito, forse saranno dicerie, ma concordano con il suo carattere, che alcuni sono andati lì a lamentarsi perché “questo nuovo Papa…”, e lui li ha cacciati via! Con il migliore stile bavarese: educato, ma li ha cacciati via”. Benedetto XVI al momento stesso della rinuncia aveva promesso piena obbedienza al suo successore, chiunque egli sarebbe stato.

Francesco da parte sua ha sempre tributato al predecessore ogni onore, invitandolo, fin dall’inizio del pontificato, a non sparire dalla scena pubblica, andandolo a trovare periodicamente, portando da lui i nuovi cardinali ad ogni Concistoro. “Lui per me è il Papa emerito, è il “nonno” saggio, è l’uomo che mi custodisce le spalle e la schiena con la sua preghiera”.

Francesco è stato bersaglio di critiche a tratti feroci da parte dei settori più tradizionalisti, ha incontrato resistenze e malumori, nel mondo curiale e tra i cattolici più legati ai suoi predecessori, ma ha fatto attenzione a evitare strappi e preservare l’unità della Chiesa. E’ consapevole che con la morte di Benedetto XVI da quegli ambienti potrebbero levarsi pressioni perché in futuro pensi a sua volta alla rinuncia: uno degli argomenti più ricorrenti, del resto, non era che un tale passo indietro sarebbe stato impensabile fintantoché c’era già un Papa emerito?

Diversi emeriti, o nessuno

Uno scenario che, però, non ha un fondamento oggettivo. Perché, innanzitutto, a parte un problema di deambulazione, Papa Francesco, 86 anni, è in buona salute, l'attività di governo procede spedita, l'agenda fitta. Prima della storica rinuncia di Benedetto, poi, non era stata neppure contemplata l’ipotesi di un Papa che rinuncia, il dopo è tutto da definire. E se Francesco sinora si è rifiutato di regolamentare lo statuto del Papa emerito, sempre nel 2016 si era espresso chiaramente al riguardo: “Io ho ringraziato pubblicamente – disse – Benedetto per aver aperto la porta ai Papi emeriti. 70 anni fa i vescovi emeriti non esistevano; oggi ce ne sono. Ma con questo allungamento della vita, si può reggere una Chiesa a una certa età, con acciacchi, o no? E lui, con coraggio – con coraggio! – e con preghiera, e anche con scienza, con teologia, ha deciso di aprire questa porta. E credo che questo sia buono per la Chiesa. Ma c’è un solo Papa. L’altro… o forse – come per i vescovi emeriti – non dico tanti, ma forse potranno essercene due o tre, saranno emeriti”.

Così come nulla a priori escludeva, o escluderà in futuro, che ci siano più di un Papa emerito, così non c’è alcuna correlazione tra la morte di Benedetto e l’eventuale rinuncia di Francesco. Tema indirettamente evocato nelle scorse settimane dal Papa argentino. Cosa succede, gli hanno domandato a metà dicembre i giornalisti del quotidiano spagnolo Abc, se un pontefice resta improvvisamente impedito da problemi di salute o da un incidente? Non sarebbe opportuna una norma per questi casi? "Io ho già firmato la mia rinuncia", ha risposto Bergoglio, 86 anni.

Non si tratta di un'iniziativa recente, ma risale ai primi mesi del pontificato, “era quando Tarcisio Bertone era segretario di Stato”, ha spiegato: il salesiano andò in pensione lo stesso anno del Conclave, nel 2013, succeduto dall'attuale segretario di Stato, Pietro Parolin. “Ho firmato la rinuncia e gli ho detto: "In caso di impedimento medico o che so io, ecco la mia rinuncia. Ce l'hai". Non so a chi l'abbia data Bertone", ha proseguito Francesco: "Ora forse – ha aggiunto con una punta di ironia – qualcuno andrà a chiedere a Bertone: "Dammi quella lettera"”.

La rinuncia solo per impedimento

Francesco, dunque, non esclude la rinuncia. Ma solo “in caso di impedimento medico” o simile. Già altri Papi avevano lasciato un simile documento: lo fece Pio XII quando temeva di essere rapito da Hitler, lo fece Paolo VI quando dovette affrontare problemi di salute. Giovanni Paolo II valutò la cosa ma si risolse a rimanere al governo fino all'ultimo respiro. Una scelta dal sapore mistico, che ha avuto però risvolti problematici: vittima di un attentato tre anni dopo l'elezione, nel 1981, e poi negli ultimi anni con il Parkinson che avanzava, Karol Wojtyla delegò molte decisioni ad una Curia romana pervasiva e non priva di opacità. 

Anni dopo, il Papa venuto "quasi dalla fine del mondo", ha fatto pulizia e ridimensionato la burocrazia vaticana. Se c'è una certezza, è che non delegherà mai il "munus" petrino, assegnatogli dallo Spirito santo tramite i cardinali elettori, alla Curia romana, piuttosto si dimetterebbe. Ma – è un possibile sottotesto delle sue recenti dichiarazioni – non per un semplice problema di mobilità (“Si governa con la testa, non con le ginocchia”) o, ad esempio, perché non c’è più un Papa emerito.

Gli impegni in agenda non mancano: il prossimo viaggio in Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan, a inizio febbraio, il probabile viaggio, “tra un anno”, a Marsiglia, come ha detto nella stessa intervista a Abc, e l’intenzione, “tra due anni”, di nominare una donna a capo di un dicastero vaticano. C’è poi da portare a conclusione il grande sinodo globale, con l’assemblea finale già fissata per ottobre 2024. Onorando la memoria del suo predecessore, e saldamente in sella.

Bergoglio “dimissionario” alla morte di Benedetto XVI per un nuovo antipapa. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 30 dicembre 2022

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Miserabile spettacolo quello degli avvoltoi che si affollano volteggiando sui cieli del monastero Mater Ecclesiae, addolorandosi fintamente per le condizioni del vero papa Benedetto XVI e spingendo, però, come dannati sulla favola delle sue dimissioni del 2013.

Ha del surreale, poi, l’eccitatissimo e iettatorio dibattito sul funerale: “Bisognerà celebrarlo come per un vescovo emerito o come per un papa? Benedetto dovrà essere vestito di bianco e indossare il pallio? Ad oggi non si è mai avuto un papa emerito, non sappiamo come regolarci”...

Già, ma il dubbio è presto sciolto: papa emerito vuol dire papa impedito, quindi le esequie del Santo Padre Benedetto XVI - il più tardi possibile - dovranno essere celebrate con tutti gli onori riservati al Pontefice romano, e dopo la sua morte la sede sarà non più impedita, ma vacante.

E, come lui stesso scrisse nella Declaratio che il mainstream tenta a tutti i costi, in questi giorni, di gabellarvi come un atto di abdicazione, il prossimo Sommo Pontefice dovrà essere eletto “DA COLORO A CUI COMPETE”, cioè solo dai veri cardinali di nomina pre-2013.  QUI 

La costituzione apostolica Universi Dominici Gregis di Giovanni Paolo II parla chiaro: “33. Il diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente ai Cardinali di Santa Romana Chiesa, ad eccezione di quelli che, prima del giorno della morte del Sommo Pontefice o del giorno in cui la Sede Apostolica resti vacante, abbiano già compiuto l'80° anno di età. Il numero massimo di Cardinali elettori non deve superare i centoventi. È assolutamente escluso il diritto di elezione attiva da parte di qualsiasi altra dignità ecclesiastica o l'intervento di potestà laica di qualsivoglia grado o ordine”.

Sappiamo che Benedetto ha di fatto rinunciato al ministerium, quindi solo a “fare” il papa, e che, nonostante non fosse abdicatario gli hanno eletto alle spalle, con un conclave illegittimo, un antipapa, producendo la “sede totalmente impedita”. Ora, il canone 335 impone che, quando la sede è totalmente impedita, “nulla si cambi nel governo della Chiesa universale” e per questo le nomine cardinalizie di Bergoglio sono del tutto nulle, come tutto quello da lui fatto dal 2013 ad oggi. Ecco perché il prossimo conclave dovrà essere composto solo da VERI CARDINALI PRE-2013, nominati da Benedetto o al massimo da Giovanni Paolo II.

E qui si inserisce l'astuta manovra di antipapa Francesco, il quale, lo ricordiamo, nonostante le annose polemiche sull’abdicazione di Benedetto si è sempre ben guardato dal dirimere la questione. Anzi, pur ammettendo lui stesso che le dimissioni di Ratzinger furono “poco chiare” (inconcepibile per il Diritto canonico, dato che papa dubius, papa nullus), non si è mai preoccupato di fare luce. Al massimo, ha invitato a non fare del chiacchiericcio QUI   e a non dare retta ai “complottismi”.

Assurdo, no? Come se qualcuno mettesse in dubbio la vostra laurea per motivi burocratici, e voi, invece di andare alla segreteria dell’Università per cercare di chiarire e risolvere, tranquillamente continuaste a esercitare la vostra professione, col rischio di farlo abusivamente.

L’eventualità di non avere l’assistenza dello Spirito Santo non turba minimamente Bergoglio: basta questo dato oggettivo per darvi la caratura del soggetto il quale, oggi, furbamente, ha pronto un piano.

Si parla insistentemente, infatti, di “dimissioni” di Bergoglio alla morte di Benedetto. Ovviamente, Francesco non ha nulla da cui dimettersi, perché non è il papa in quanto Benedetto non ha mai abdicato. Ma la sceneggiata è finalizzata a uno scopo ben preciso: quello di andare subito a un conclave invalido comprendente i circa 80 invalidi cardinali elettori di nomina antipapale.

Scommettete che le presunte “dimissioni” di Bergoglio non saranno in latino, ma in italiano, o in spagnolo? Certo: se le scrivesse in latino dovrebbe rinunciare al munus petrino, perché solo in latino c’è la distinzione fra munus (investitura divina, “essere” papa) e ministerium (conseguente esercizio del potere, “fare” il papa). Nelle altre lingue volgari (escluso il tedesco) munus e ministerium si traducono con la parola “ministero”. Quindi, se Bergoglio si “dimettesse” in latino, si vedrebbe subito che il munus è rimasto per tutti questi anni nelle mani di Benedetto XVI e certo non passerebbe a Bergoglio “per eredità”. Inoltre, Francesco ha detto che non diventerebbe papa emerito, perché, appunto, il papato emerito non esiste giuridicamente (come invece esiste per il vescovo) in quanto non c’è un’età pensionabile per il papa e questi non ha nessuno a cui presentare le dimissioni. Papa emerito vuol dire “colui che merita di essere papa”, e si riferisce in modo puramente descrittivo al papa impedito che, infatti, resta papa a tutti gli effetti: è l’unico che ne ha diritto.

Così, con mielose ostentazioni di umiltà e apparente devozione a papa Benedetto, antipapa Francesco si “dimetterà” immediatamente dopo la sua morte.

In questo modo i tradizionalisti saranno completamente truffati: da un lato frastornati per la morte di Benedetto, ma euforicamente galvanizzati per l’uscita di scena di Francesco, andranno ben volentieri e di filato a un conclave invalido comprendente i falsi cardinali. Tenteranno delle manovre diplomatiche per cercare di far eleggere un cardinale conservatore, o moderato, che possa mettere tutti d’accordo e far recuperare la faccia alla Chiesa. E la frittata sarà fatta: verrà eletto un altro antipapa, ancora una volta PRIVO DEL MUNUS, l’investitura divina, privo dell’assistenza dello Spirito Santo e la vera chiesa cattolica perderà la sede: dovrà “uscire dalla Sinagoga” e rifondarsi fuori dal Vaticano, ripartendo dagli stracci e dalle catacombe. Il nuovo vero papa sarà un capo religioso che, eletto dai fedeli come nei primi secoli del Cristianesimo, (l’altra categoria di “coloro a cui compete”) raccoglierà il munus di Benedetto. Per questo motivo Benedetto, alla domanda di Seewald: “Lei potrebbe essere l’ultimo papa per come lo conosciamo?” rispondeva: “Tutto può essere”, senza calcolare minimamente il suo “successore” Francesco. QUI 

Capite? In queste ore si gioca il futuro della Chiesa canonica visibile.

Politicamente sarà quasi impossibile che, con una maggioranza schiacciante di falsi cardinali bergogliani possa essere eletto un conservatore, ma quand’anche si riuscisse ad evitare un turbomodernista come Zuppi, Tagle o Maradiaga, perfino se, per un caso straordinario, venisse eletto un tradizionalista, anche questi sarà un antipapa in quanto eletto in un conclave invalidato dalla presenza di falsi cardinali.

ED È QUESTO CHE PREME A BERGOGLIO: la sua aggressione al Cattolicesimo è di natura essenzialmente spirituale. Gli importa poco chi sia l’eletto: l’importante è che sia antipapa, che non abbia il munus petrino, cioè l’investitura di successore di San Pietro che deriva da Dio e che comporta l’infallibilità ex cathedra e l’assistenza dello Spirito Santo nell’insegnamento del magistero ordinario.

Il piano per la distruzione definitiva della Chiesa canonica visibile è questo. Ma Bergoglio ha fatto i conti senza l’Ostia.

Torna a parlare monsignor Gänswein: "Cerco lavoro". L'ex segretario di Benedetto XVI, privato di qualsiasi incarico, è tornato nella diocesi di origine e continua a presentare il suo libro. Nico Spuntoni il 15 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il 2023 è senz'altro l'annus horribilis di monsignor Georg Gänswein. É iniziato con la morte del suo maestro Benedetto XVI, tornato alla casa del Padre proprio l'ultimo giorno del 2022. Poi ci sono state le dure polemiche per l'uscita del libro Nient'altro che la verità scritto a quattro mani con il giornalista Saverio Gaeta e per i funerali di Ratzinger. Le udienze accordate nei primi mesi dell'anno non sono bastate a chiarire i problemi con Francesco che ha deciso di interrompere il suo incarico - ormai solo formale - di prefetto della casa pontificia da fine febbraio e di allontanarlo dal Vaticano, disponendo per lui il rientro nella diocesi di origine a partire dal 1 luglio.

La sofferta obbedienza

Persi ruolo, stipendio ad esso legato e residenza in Vaticano, Gänswein ha accettato di obbedire alle disposizioni del Papa ed ha fatto ritorno nella sua Friburgo in sordina. Pur essendo arcivescovo, infatti, non è stato mandato a guidare l'arcidiocesi di Friburgo in Brisgovia. Senza alcun incarico, l'ex segretario personale di Benedetto XVI si è trasferito al Collegium Borromaeum ed è diventato un vicino scomodo per l'arcivescovo metropolita Stephan Burger. Gänswein può considerarsi fortunato: monsignor Burger, 61 anni, non è un esponente dell'episcopato tedesco più progressista e favorevole all'agenda del Synodale Weg.

Tuttavia, non è difficile credere che abbia percepito come "ingombrante" - secondo la definizione data dallo stesso ex segretario di Ratzinger - quest'arrivo nella sua arcidiocesi. Alla metà di luglio i due presuli si sono incontrati brevemente ed hanno concordato che l'ex prefetto della casa pontificia celebrerà Messa nella cattedrale di Friburgo e potrà conferire il sacramento della Confermazione nonché presiedere funzioni liturgiche speciali, previa consultazione. Il canonico di Friburgo Georg Bier ha così spiegato alla stampa tedesca il rapporto instauratosi tra i due: "Entrambi i vescovi non si impegnano in nulla, ma si assicurano reciprocamente la reciproca disponibilità a dare una mano nei singoli casi e, se necessario, a chiedere aiuto a vicenda".

Di fronte a questa nuova condizione, forse monsignor Gänswein - che ha soltanto 67 anni, età non prossima alla pensione per un vescovo - avrà nostalgia per quando era un semplice parroco a Oberkirch nei primi anni dopo l'ordinazione sacerdotale.

Le presentazioni del libro

Nonostante molti siano convinti che la causa delle sue disgrazie sia proprio l'uscita del libro Nient'altro che la verità contenente i dettagli del suo rapporto non idilliaco con Francesco e dei disaccordi tra il Papa regnante ed il suo predecessore negli anni vissuti da quest'ultimo al monastero Mater Ecclesiae, Gänswein non ha rinunciato alle presentazioni che sono state organizzate in giro per la Germania dell'edizione tedesca. L'ultima sua uscita pubblica, infatti, risale a giovedì scorso per presentare il libro nella piccola cittadina di Kirchzarten, a pochi chilometri da Friburgo, davanti ad un pubblico di più di 300 persone che lo ha accolto con un applauso. L'ex braccio destro di Benedetto XVI, vestito in clergyman, è apparso sorridente sul palco montato nel cortile dell'edificio che ha ospitato l'evento. Cordiale, ha stretto la mano ai presenti ed ha autografato le copie del libro.

Dialogando con l'editore Manuel Herder, monsignor Gänswein ha utilizzato l'ironia per descrivere il suo ritorno a Friburgo. "Adesso sono qui, diciamo, in cerca di lavoro", ha detto l'ex segretario di Benedetto XVI scherzando anche sulla necessità di rivolgersi ad un ufficio di collocamento. Inoltre, il presule ha confidato che durante uno dei loro ultimi incontri Francesco gli consigliò di prendersi una vacanza.

Deluso, ma va avanti

Non è la prima volta che Gänswein fa ricorso all'umorismo per manifestare l'evidente malessere causato dall'essere stato allontanato, senza alcun incarico nonostante sia un under 75, dal luogo in cui ha prestato servizio per quasi 30 anni. Fu chiamato in Vaticano nel 1995 e l'allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger lo conobbe mentre collaborava alla congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.

In ogni caso, la sua notorietà e l'amore dei fedeli per Benedetto XVI di cui è stato segretario prima da cardinale, poi da pontefice regnante e infine da papa emerito, fa sì che la presenza di Gänswein sia richiesta in tutta la Germania. Ad esempio, martedì prossimo in occasione della festa dell'Assunta è atteso in Baviera, nella cittadina di Ziemetshausen chiesa di pellegrinaggio Maria Vesperbild dove celebrerà una messa pontificale nella grotta della Vergine.

Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” domenica 16 luglio 2023.

«Sono arrivato quattro giorni fa, è presto per dire come sarà questa nuova vita . Dev o ancora capire cosa farò». Padre Georg Gänswein sembra davvero un po’ spaesato. Dalla comunicazione dell’«esilio» impostogli a metà giugno da papa Francesco a oggi è passato un mese, ma tutto è ancora da scrivere. 

Lei cosa ha in mente ? «Nei prossimi giorni vedrò l’arcivescovo Berger, ne discuteremo. Sono un rompiscatole — dice scherzando — nel senso che sono ingombrante, mi sono trovato in mezzo a questa situazione».

La ricerca parte al mattino. […] Della sua presenza in città […] non dà conferme l’ufficio stampa dell’arcidiocesi, né alla portineria del Collegium Borromaenum, dove risiederebbe, vanno oltre la concessione di poter accettare un biglietto scritto a penna da depositare nella sua cassetta privata. «Ma c’è? Lo leggerà?». «Parli con l’ufficio stampa».

[…] Ultimo indirizzo conosciuto Santa Marta, città del Vaticano, nuova residenza ipotizzata Schoferstrasse, assegnatario di un appartamento di 150 metri quadrati. Fin da quando il quotidiano Die Welt ha dato l’anteprima dell’arrivo, fioccano vane le indiscrezioni. Previsto l’1 luglio, slittato al 7, dato per certo una settimana fa (unico indizio: i cartelli di un trasloco apparsi davanti al Collegio).

«Il George Clooney Vaticano torna in Germania» pregustava la Bild . […] Ma padre Georg c’è, oppure no? «Ma certo, è al collegio», si lascia sfuggire un novizio, prima di essere fulminato dal suo superiore. 

[…] Un necessario riepilogo: papa Francesco, col quale non è mai corso buon sangue, ha congedato l’ex segretario personale di Benedetto XVI dopo 28 anni in Vaticano, riassegnandolo in Germania «per il momento». Gänswein non ha però un nuovo compito. Ha quasi 67 anni e ne mancano otto alla pensione.

L’arcivescovo di Friburgo, già traballante per uno scandalo di abusi sessuali, non è autorizzato a dargli direttive, ma lo stesso vale al contrario. Una situazione senza precedenti e la loro collaborazione andrà negoziata su premesse non semplici. La Brisgovia, con 1,8 milioni di persone, è una delle più grandi arcidiocesi tedesche, ma le messe in cattedrale sono semideserte e su Gänswein, ben più tradizionalista della chiesa locale, si concentrano anche le speranze di una rinascita.

[…] È quasi ora di cena. Mentre dal Collegio defluisce l’orchestra di ragazzi, eccolo finalmente. Giacca della divisa sacerdotale appoggiata sulle spalle, accoglie un uomo all’ingresso e lo fa entrare brevemente in ufficio. Padre Georg, permette? La sua buona accoglienza all’intrusione è sincera, sembra quasi compiaciuto di avere queste attenzioni nel limbo in cui si trova: «Ho visto il suo biglietto, davvero il Corriere l’ha mandata a cercarmi? Come sa, ho promesso di tacere e obbedire». 

Le regole di ingaggio sono allora subito chiare. Chiacchierata informale, niente domande sulle polemiche, inclusa l’ultima per una cerimonia officiata sul lago di Costanza, lungo la strada del rientro. Passare dalla sacralità romana all’informalità di Friburgo dove, a messa in corso, un banchetto di rape e rabarbaro per il quotidiano mercato biologico si piazza proprio davanti l’ingresso della cattedrale, non deve essere facile. 

«Friburgo è bellissima — dice senza esitare padre Georg —, ho studiato qui 40 anni fa, si vive bene. Ha visto i canali d’acqua? Sommandoli sono lunghi 60 chilometri. E poi c’è un ottimo vino, migliore di quello italiano». L’obiezione non fa in tempo a essere formulata: «Intendo il vino di qui, non tutto quello tedesco». 

E sull’attesa di chi spera in lei per rilanciare la diocesi? «I cittadini di qui mi conoscono meglio di come io conosca loro, vediamo». Poi fa per allontanarsi a piedi: «Mi saluti Roma e buon rientro. Chi è che sciopera negli aeroporti?». Padre Georg, dopotutto non ha perso il sorriso: «Avevo un’alternativa?».

Estratto dell’articolo di Giampaolo Visetti per “la Repubblica” l'1 luglio 2023. 

L’esilio nel luogo natale, almeno per qualche ora, può aspettare. L’ultimo schiaffo di Georg Gänswein a papa Francesco è una tappa a sorpresa lungo l’imposto viaggio verso la diocesi nel Sud della Germania, costretta a riaccogliere l’ex segretario personale di Benedetto XVI. Secondo l’ordine del Vaticano, l’ex prefetto della Casa pontificia allontanato da Roma dopo 28 anni avrebbe dovuto presentarsi da oggi a Friburgo […]

Destinazione: un appartamento solitamente riservato al rettore del seminario, all’interno del Collegio Borromeo. Gänswein invece ha deciso di fermarsi 190 chilometri prima, a Bregenz, capoluogo austriaco del Vorarlberg, sul lago di Costanza. Qui, nel pomeriggio, ordinerà sacerdote il diacono Marton Héray, ospite della famiglia spirituale “Das Werk”. A organizzare la funzione, nella parrocchia del Sacro Cuore, il gruppo conservatore cattolico tedesco da sempre vicino a Joseph Ratzinger, pubblicamente schierato contro riforme e aperture della Chiesa di Francesco.

La scelta di padre Georg di ribadire la volontà un suo ruolo di riferimento per il clero più tradizionalista ha sorpreso la stessa curia di Friburgo: fino all’ultimo pronta ad aprirgli ieri sera le porte del Borromeo, certa che oggi alle 9 si sarebbe presentato alla messa del mattino nella cappella del collegio sulla Schofer Strasse. Anche di qui la gelida riservatezza che avvolge il “rientro punitivo” in Germania dell’uomo che dal 2005, quale braccio destro di Ratzinger, è stato uno degli esponenti più potenti del cattolicesimo contemporaneo.

[…] La freddezza dell’accoglienza da parte della sua città, sia dentro il clero che tra la maggioranza dei fedeli, va però oltre ogni previsione. Silenzio sui media, infastidito riserbo nella curia dell’arcivescovo Stephan Burger, non una funzione pubblica in agenda, o un evento in onore del cittadino più famoso nel mondo.

È la prima volta che un arcivescovo, 67 anni a fine luglio, segretario di un pontefice di cui è esecutore testamentario, appena congedato da prefetto della Casa pontificia, viene allontanato dal Vaticano senza alcun incarico. I media tedeschi l’hanno definito «l’apice dell’umiliazione». […] Il ribattezzato “problema”, […] ruota attorno all’inciso «per il momento», contenuto nell’ordine di concedo germanico imposto a Gänswein a metà giugno. Promessa di futuri incarichi all’altezza del rango voluto da Ratzinger, o minaccia in attesa di valutare i prossimi atteggiamenti nei confronti di Bergoglio? […] 

[…] Padre Georg rientra così da invisibile privato, per ora ignorato e in un clima pesante nella sua Friburgo, dove si registra una fuga di massa di iscritti paganti alla Chiesa cattolica. […] Come simbolo conservatore Gaenswein rischia però di restare isolato in casa propria, ospite di un clero locale progressista e di una comunità cattolica che chiede riforme profonde, vicina a Bergoglio». 

Come dire che tantomeno in Germania vengono dimenticati i veleni vaticani, il caso del libro a doppia firma a favore del celibato dei preti mandato in stampa dal cardinale Robert Sarah, le accuse a Francesco contenute nel volume Nient’altro che la verità, presentato da padre Georg pochi giorni dopo la morte di Ratzinger. Per quasi tre decenni Gänswein, maestro di sci, è stato il “prete bello” più potente del Vaticano. […]

Estratto dell’articolo di Gian Guido Vecchi per corriere.it il 15 Giugno 2023.

Due righe di comunicato per chiudere la faccenda: «In data 28 febbraio 2023, Sua Eccellenza monsignor Georg Gänswein ha concluso l’incarico di Prefetto della Casa Pontificia. Il Santo Padre ha disposto che Mons. Gänswein dal 1° luglio rientri, per il momento, nella sua Diocesi di origine». 

La Santa Sede conferma ufficialmente ciò che era trapelato in Germania un paio di settimane fa: l’arcivescovo tornerà dal mese prossimo nella diocesi di Friburgo. Il fatto che si dica «per il momento», tuttavia, significa che in futuro potrebbero essergli assegnati nuovi incarichi. 

Quello di prefetto della Casa pontificia, si viene a sapere, era scaduto il 28 febbraio: dieci anni esatti — la durata di due mandati quinquennali — dalla rinuncia al pontificato di Ratzinger, che lo aveva nominato a dicembre del 2012.

Francesco lo aveva confermato ma di fatto Gänswein non era più prefetto da tre anni, lui stesso si era definito un «prefetto dimezzato». All’inizio del 2020 era uscito in Francia un libro del cardinale Robert Sarah contro ogni apertura sul celibato sacerdotale, a doppia firma con Benedetto, poco prima che Francesco si pronunciasse (cosa che peraltro non fece) sulle richieste del Sinodo amazzonico. 

Messa così, sembrava una interferenza del Papa emerito sul successore, cosa che Ratzinger era sempre stato attento a non fare. Gänswein disse d’aver chiesto di «togliere il nome di Benedetto come coautore» parlando di «malinteso», Sarah ribattè che erano d’accordo.

Francesco lo congedò, «lei rimane prefetto ma da domani non torna al lavoro», ha riferito Gänswein nel suo ultimo libro, «Nient’altro che la verità», pubblicato all’indomani dei funerali di Benedetto. […]

Padre Georg, ascesa e declino del tedesco che ha fatto arrabbiare il Papa: dalle copertine patinate al ritorno a Friburgo. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 04 Giugno 2023.

Georg Gänswein ha fatto la sua ultima udienza con Francesco in maggio: ora tornerà a Friburgo. Il quotidiano Die Welt: «Dovrà congedarsi entro il primo di luglio» 

Da anni tendono a chiamarlo «padre» Georg, anche se non è un religioso come un gesuita o un francescano ma un prete secolare divenuto arcivescovo, che andrebbe nominato piuttosto con «monsignore» o magari un più semplice «don». Lo chiamano così perché all’inizio, quando apparvero le prime foto di quel sacerdote quarantenne, il volto da attore, lo paragonarono al padre Ralph di Uccelli di rovo, un polpettone televisivo che andava forte negli anni Ottanta e aveva come protagonista un prete bello, proprio come Georg Gänswein. E ora che s’avvicina ai 67 anni e si prepara a lasciare Roma per tornare, dicono in Germania, nella sua diocesi di Friburgo — arrivò in Vaticano nel 1995, un anno prima che Ratzinger lo chiamasse all’ex Sant’Uffizio — sembrano remoti i tempi delle copertine, della popolarità seguita al conclave del 2005 come segretario personale del nuovo papa Benedetto XVI, di Donatella Versace che disegnava una sfilata spiegando di essersi ispirata a lui, «un uomo che ricerca la qualità interiore e allena i muscoli dell’anima», delle risposte che nel 2007 affidava alla Süddeutsche Zeitung , «un po’ irritato» dalla faccenda della bellezza ma in fondo divertito per le «lettere d’amore» che gli arrivavano in Vaticano: «Non è una cosa che fa male, anzi mi lusinga, del resto non è un peccato».

Anche per lui lo spartiacque è stata la declaratio dell’11 febbraio 2013 , l’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI. Prima c’era stato l’impegno quotidiano da segretario, scandito dalle curiosità innocue che il «George Clooney del Vaticano» aveva attirato su di sé. Nato nel versante meridionale della Foresta Nera, a Riedern am Wald, figlio maggiore (ha due fratelli e due sorelle) di una casalinga e d’un fabbro in una fucina di famiglia da sette generazioni, ne raccontavano le passioni comuni alla sua generazione, i «lunghi capelli riccioluti» dell’adolescenza invisi al padre, «la musica dei Pink Floyd e di Cat Stevens», gli sport che ha continuato ad amare, «il calcio, lo sci, il tennis», i primi soldi guadagnati come postino, «con la bicicletta in una località della Foresta Nera».

Fino alla vocazione, gli studi di teologia a Friburgo e a Roma, il dottorato in Diritto canonico a Monaco. E il privilegio degli anni passati accanto a uno dei massimi teologi del Novecento: «Già da liceale e poi da seminarista, avevo letto l’Introduzione al cristianesimo di Ratzinger, e quel filo conduttore si è arricchito», raccontava al Corriere: «La sua teologia mi ha nutrito e permeato il cuore e la mente, come la pioggia». Le cose sono cambiate, e si sono fatte difficili, nel Monastero vaticano dove il Papa emerito si era ritirato «nascosto al mondo».

Passata la bufera di Vatileaks, era stato promosso da Ratzinger arcivescovo e prefetto della Casa pontificia poco prima della rinuncia. Bergoglio lo aveva mantenuto in carica, sorta di ponte tra i «due Papi» che «si scrivono, si telefonano». Ma ogni parola di Ratzinger filtrava dal Monastero attraverso Georg, era lui a tenere i contatti con l’esterno. Così il segretario ha finito col diventare il responsabile o il capro espiatorio, secondo i punti di vista, di tutti i tentativi della fronda tradizionalista di mettere Benedetto contro Francesco: «Ci sono persone che vogliono strumentalizzare le mie parole per seminare zizzania». Del resto ha continuato a smentire chi vaneggiava di dimissioni forzate, «tutte assurdità».

Ma gli incidenti di percorso — inediti di Ratzinger, prefazioni — erano diventati troppi. All’inizio del 2020 uscì in Francia un libro del cardinale Robert Sarah contro ogni apertura sul celibato sacerdotale, a doppia firma con Benedetto, poco prima che Francesco si pronunciasse (cosa che peraltro non fece) sulle richieste del Sinodo amazzonico. Gänswein disse d’aver chiesto di «togliere il nome di Benedetto come coautore» parlando di «malinteso», Sarah ribattè che erano d’accordo. Francesco lo congedò, «lei rimane prefetto ma da domani non torna al lavoro», ha riferito Gänswein nel suo ultimo libro, Nient’altro che la verità, pubblicato all’indomani dei funerali di Benedetto. Un libro servito, ancora, al tentativo post mortem di usare Benedetto XVI contro Francesco. L’ultima udienza con il Papa è stata il 19 maggio. Già trapelava che Bergoglio volesse farlo tornare a Friburgo. Il quotidiano Die Welt ha scritto che dovrà farlo «entro il primo luglio». Nulla di ufficiale, non resta che aspettare: «Non sono io a decidere. Io sono quello che viene deciso».

Dove andrà Padre Georg, il vescovo si sfoga a Verissimo. Giada Oricchio su Il Tempo il 16 aprile 2023

Padre Georg Ganswein punge di nuovo Bergoglio: “Sto aspettando”. Ospite del programma “Verissimo” su Canale 5, domenica 16 aprile, il prefetto della Casa Pontificia ha ricordato la vocazione e gli anni vicino a Benedetto XVI, il Papa emerito morto il 31 dicembre 2022. L’intervista è filata liscia fino alle battute finali quando la conduttrice Silvia Toffanin ha domandato: “Lei è stato prefetto della Casa Pontificia negli ultimi 7 anni, ma nel suo libro (“Nient’altro che la verità - La mia vita al fianco di Benedetto XVI”, nda) emerge un po’ di delusione per gli ultimi tempi. È così?”, “Sì. Sono rimasto prefetto perché nominato da Ratzinger” ha detto Padre Georg prima di confermare lo screzio con Papa Francesco: “A gennaio 2020, il Pontefice mi ha detto adesso lei rimane a piena disposizione di Benedetto, non torni più a fare lavori anche se formalmente rimane prefetto. Si dedichi totalmente a lui”.

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L’arcivescovo ha raccontato di aver fatto notare al Sommo Padre che già lo faceva da anni, ma Bergoglio ha ripetuto che da quel momento in poi si doveva occupare esclusivamente del Papa emerito. Qui Padre Georg, con una smorfia tra lo stupore e lo scettico che rivela meglio di mille parole il profondo disaccordo con Bergoglio, ha aggiunto: “Gli ho detto per me questo non è comprensibile, ma se lei vuole, certamente obbedisco. E lui: sì, questa è la mia volontà e allora in obbedienza accetto. Questo è rimasto fino al 31 dicembre. Ora aspetto un alto incarico, ciò che Francesco vuole darmi, lui è il Papa e io sono un suo figlio vescovo e accetterò qualsiasi cosa voglia darmi”. 

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Toffanin ha inzigato: “E qualunque cosa la renderà felice, giusto?”, “Io lo prendo come la volontà della provvidenza tramite il vescovo di Roma. Anche io sono curioso quando e cosa mi dirà” ha concluso Ganswein ostentando una pacata insofferenza.

Padre Georg: «Molti cardinali oggi sarebbero in sintonia con Angelo Scola come Papa». Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

Gänswein, segretario di Ratzinger: «All’ex cardinale di Milano mi legano stima e simpatia personale. Ma non posso dire altro, a Santa Marta c’è grande sensibilità»

«Credo non pochi cardinali avrebbero vissuto bene se Angelo Scola fosse stato Pontefice». Le parole sembrano scorrere comode nell’ampio sorriso che le accompagna. Padre Georg Gänswein, segretario particolare di Joseph Ratzinger per quasi vent’anni, non cerca spunti polemici o frasi a effetto, ma non si sottrae e non aggira le domande, tranne una. 

Lei personalmente, ripensandoci adesso, in un pomeriggio di primavera milanese del 2023, avrebbe gradito l’elezione a Papa dell’allora arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola?

«Io non posso dire di essere stato amico del cardinale Scola, ma a lui mi lega una grande simpatia personale e una profonda stima. Ma dire certe cose, oggi, sapendo che in Santa Marta c’è grande sensibilità…». 

Classe 1950, sacerdote dell’arcidiocesi di Friburgo, in Germania, dal 1984 e dottore in Diritto canonico. Chiamato nel 1995 in Vaticano, dapprima nella Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e l’anno successivo in quella per la Dottrina della fede, nel 2003 divenne segretario personale dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Dopo l’elezione al pontificato, il 19 aprile 2005, Benedetto XVI lo confermò nell’incarico e nel 2012 lo nominò prefetto della Casa pontificia, consacrandolo arcivescovo, il 6 gennaio 2013, con il titolo di Urbisaglia. Papa Francesco lo ha mantenuto nella responsabilità dell’ufficio, affidandogli però, dal gennaio del 2020, il compito di dedicarsi esclusivamente al Papa emerito. E ora che Ratzinger non c’è più è in attesa di una nuova destinazione. Ma nel frattempo ha scritto, insieme al giornalista Saverio Gaeta, un libro: «Nient’altro che la verità - La mia vita al fianco di Benedetto XVI». E di passaggio a Milano per una presentazione alla libreria Mondadori, si sofferma per qualche momento a ricordare il rapporto tra il «suo» Papa e il cardinale Angelo Scola. Lo stesso arcivescovo emerito di Milano ha usato parole di grande affetto e stima, alla morte di Benedetto XVI: «Mi è stato amico ma ancor più padre non facendomi mai mancare il suo aiuto anche in certi momenti non facili della mia vita». 

Lei che ricordi ha del rapporto tra queste due figure importanti della chiesa cattolica? 

«Mi vengono in mente le due visite ufficiali che Ratzinger fece a Scola durante il suo Pontificato. La prima fu a Venezia, dove Scola era Patriarca. Nel maggio 2011. Al di là della cornice della città, che già da sola mi ha lasciato ricordi bellissimi indelebili, l’accoglienza fu straordinaria e poi si notava già molto bene la simpatia umana e la sintonia teologica tra il Papa e il Patriarca. Si conoscevano già da tempo, appunto in un contesto di riflessioni teologiche, e a quel punto si ritrovavano in una bella armonia. Per descriverla mi viene in mente l’immagine di una barca a vela sospinta da una buona brezza». 

E un anno più tardi la situazione si è riproposta, però a Milano, dove nel frattempo Scola era diventato arcivescovo proprio per scelta di Ratzinger. «Quella però non fu una visita alla diocesi ma avvenne in occasione dell’Incontro mondiale delle famiglie. Erano le stesse due persone, anche se il cardinale aveva cambiato ruolo e città e ricordo ancora benissimo di averli visti proprio felici quando sono entrati nello stadio San Siro gremito di persone».

In quel momento non si parlava di potenziale successore perché non era nemmeno ipotizzabile che un Papa si dimettesse. Ma l’11 febbraio 2013 le cose cambiarono improvvisamente. 

«E ancora di più a partire dal 28 febbraio, quando alle ore 20 il Papa firmò la rinuncia e salì sull’elicottero che lo portò a Castel Gandolfo, perché il monastero Mater Ecclesiae non era ancora pronto a ospitarlo. Ricordo benissimo che tanti, e voi giornalisti in particolare, si sono precipitati a dire che il cardinale Scola sarebbe stato il successore naturale, anzi addirittura scontato». 

E la realtà, per quanto ricorda lei qual è? 

«Papa Benedetto XVI non parlò con nessuno, non rispondeva a nessuno, proprio perché non voleva e comunque non poteva in alcun modo influenzare il Conclave. Ma come ci sono i cosiddetti “kingmaker”, esistono anche i “papameker” che, magari anche a partire da dati di fatto veri, come la sintonia teologica e umana tra i due, aggiungevano anche molta fantasia. Ma il mondo cattolico e della Chiesa è grande e diversificato, c’è sempre qualche elemento incalcolabile e concentrarsi soltanto su Roma è un errore». 

Lo stesso Cardinale Scola, prima di partire per il Conclave, ai suoi collaboratori in arcivescovado disse di stare «tranquilli» perché non sarebbe stato eletto lui. Ma lei che è stato così vicino a Papa Ratzinger, sarebbe stato contento se la scelta dei cardinali fosse ricaduta sull’arcivescovo di Milano? «Al di là della mia stima e simpatia personale, le capisce che ogni mia frase su questo potrebbe essere interpretata come una manifestazione negativa nei confronti dell’attuale Pontefice. E come le ho detto, a Santa Marta c’è grande sensibilità…». 

Allora provo a dirlo io e lei mi dice se sbaglio. Secondo me, da tutto quello che ha raccontato non è difficile desumere che a lei sarebbe piaciuto molto Angelo Scola come successore a papa Benedetto XVI. Ma questo lo dico io. Nessuna risposta verbale. Mani giunte davanti alla bocca. Ampio sorriso. Occhi socchiusi. Testa che annuisce. Ma poi aggiunge: «Credo non pochi cardinali avrebbero vissuto bene se Angelo Scola fosse stato Pontefice».

E cosa significa per un cardinale vivere bene in un pontificato? 

«Significa sentirsi in sintonia non soltanto esteriormente ma anche interiormente».

Padre Georg: «Il mio futuro non è deciso, non ho mai voluto dividere». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

Monsignor Gänswein celebra una messa a Roma in ricordo di Benedetto XVI : «Papa Francesco si è preso un po’ di tempo per riflettere. Contro di me fake news, ma la Chiesa è grande anche culturalmente». L’eredità di Ratzinger

Papa Francesco lo ha ricevuto in udienza la mattina del 4 marzo, «abbiamo avuto un colloquio paterno, di circa venticinque, trenta minuti, l’ho messo al corrente delle pratiche testamentarie, ci vorranno ancora almeno tre settimane; su di me lui ha detto che non ha ancora deciso, c’è un po’ di tempo per riflettere». L’arcivescovo Georg Gänswein, questa mattina - nel giorno di San Giuseppe, onomastico di Joseph Ratzinger -, ha celebrato una messa nella parrocchia romana di Santa Maria Consolatrice, a Casal Bertone, la chiesa della quale era titolare il cardinale che sarebbe divenuto Papa Benedetto XVI. Tra i lasciti testamentari del Papa emerito, morto il 31 dicembre, c’era la donazione alla sua parrocchia d’una preziosa veste talare che gli è appartenuta. Era la prima uscita pubblica dell’ex segretario del Papa emerito, in Italia, da quando è scoppiato il caso del libro-intervista «Nient’altro che la Verità», proprio all’indomani dei funerali di Benedetto. Un libro che nel sottobosco dell’opposizione tradizionalista a Francesco è servito per il tentativo post mortem di usare Benedetto XVI come un vessillo e creare un conflitto tra «i due papi» che nella realtà, ha ripetuto Bergoglio, non c’è mai stato. Pur senza accennare al libro o al suo autore, Papa Francesco era stato durissimo a proposito delle «storie cinesi», ovvero delle menzogne seguite alla morte del predecessore, fino a dire ai giornalisti nel volo di ritorno dal Sud Sudan, il 5 febbraio: «Credo che la morte di Benedetto sia stata strumentalizzata da gente che vuole portare acqua al proprio mulino. E la gente che, in un modo o in un altro, strumentalizza una persona così brava, così di Dio, quasi direi un santo padre della Chiesa, quella gente non ha etica, è gente di partito, non di Chiesa».

Così ora monsignor Gänswein nega voluto creare divisioni: «Non è una critica ma è un pregiudizio che non accetto. Le critiche ci sono, ci saranno e devo anche vivere con le critiche. Io sono favorevole alle critiche fondate ma se sono infondate, e si levano per altri scopi, allora non le posso prendere sul serio». Quanto alle voci di un suo sfratto imminente, seguite ad una prima udienza con il Papa a gennaio, dice: «Quando ho chiesto udienza dopo le esequie, ciò che hanno scritto l’hanno inventato, c’è una parola sola, “fake news”, ci sono correnti che non vogliono proprio amarmi». E la considerazione per cui la stretta sulla messa in latino voluta da Francesco avrebbe «spezzato il cuore» a Benedetto? «Nel mio libro non c’è, chi ha scritto questo proprio non ha letto o non capisce l’italiano» dice Gänswein. In realtà la frase contestata si riferiva a un’intervista al settimanale tedesco Die Tagespost nella quale parlava di «dolore nel cuore». Se gli si chiede perché mai, allora, ci sarebbero tante illazioni contro di lui, Gänswein allarga le braccia, come a prendere le distanze dalle polemiche: «È una domanda che mi faccio da tanti anni, e cerco di trovare una risposta convincente, finora non l’ho trovata. Non vorrei drammatizzare. Nella Chiesa ci sono diversi modi di vivere e realizzare la fede, è normale, non siamo in una dittatura, ma creare correnti forse è interessante per scandalizzare».

Comunque «la Chiesa cattolica è grande geograficamente ma anche culturalmente», dice Gänswein a proposito del suo prossimo incarico. Anche nei giorni scorsi, presentando il suo libro in Germania, aveva spiegato che per lui, ancora formalmente prefetto della Casa pontificia, il futuro non era ancora deciso. Tra le tante voci, da una sede diplomatica all’estero a una sistemazione romana, da ultimo in Vaticano si era parlato di un incarico a Ratisbona alla guida della sede tedesca della Fondazione Ratzinger, ma nulla è stato ancora deciso. Nel frattempo, circa l’eredità del Papa emerito, è saltato fuori che ci sono cinque cugini: «Io pensavo fossero due, è stato una sorpresa anche per me», dice Gänswein. Se le accetteranno, riceveranno le ultime somme liquide lasciate da Benedetto sul suo conto. Le lettere private, invece, «le ho distrutte come lui voleva», fa sapere l’ex segretario: «Un peccato? Sì, anche io glielo dissi ma lui mi ha dato questa indicazione: nessuna scappatoia». Scritti inediti non ne sono rimasti, «io non ho più niente in mano, l’ultimo testo è “Che cosa è il cristianesimo”».

(ANSA il 2 marzo 2023) - "Io spero che Papa Francesco si fidi di me, spero di non aver dato un motivo di non fidarsi più": lo dice mons. Georg Gaenswein, lo storico segretario di Ratzinger, alla trasmissione di Bruno Vespa 'Cinque Minuti' che andrà in onda questa sera su Rai Uno. Quanto al suo futuro Gaenswein dice: "Questo me lo dirà il Santo Padre tra pochi giorni". Alla domanda di Vespa se sia fedele a Bergoglio, Gaenswein ha risposto: "Fedele e leale: è il Papa della Chiesa cattolica e il successore di Pietro, come sono stato fedele a tutti i suoi predecessori".

Il libro "Nient'altro che la verità" non aveva l'obiettivo di creare "guerre" nella Chiesa. Lo dice mons. Georg Gaenswein a 'Cinque minuti', la trasmissione di Bruno Vespa che andrà in onda questa sera su Rai Uno. "L'unico mio obiettivo era mettere chiarezza anche in punti in cui vi erano molti problemi. Chiarezza è dire e dare la verità per tutti quelli che volevano saperlo. Niente guerre, niente fazioni, io volevo solo dare la mia testimonianza delle vere cose che sono successe".

 Quanto alla tempistica della pubblicazione del libro, avvenuta durante i giorni del commiato a Benedetto XVI, Gaenswein ha commentato: "Qualsiasi momento della pubblicazione sarebbe stato criticato da qualsiasi persona". Il resto, come voci di scisma, sono "invenzione dei giornalisti".

"Papa Benedetto amava molto don Camillo e Peppone". E' quanto confida mons. Georg Gaenswein alla trasmissione di Bruno Vespa 'Cinque minuti' che andrà in onda questa sera su Rai Uno. A Ratzinger piaceva "sia sentire leggere, perché spesso una delle nostre memores ha letto ad alta voce, e spesso abbiamo visto anche questi filmati famosi - dice Gaenswein riferendosi alle storie uscite dalla penna di Giovannino Guareschi -. Qualche volta anche don Matteo" era tra i film che erano visti al monastero. Quanto invece alla musica, i suoi preferiti erano "Mozart e Schubert".

 "Fino a qualche mese prima della morte ha cercato di suonare regolarmente ma sempre un po' di meno perché mi ha detto: 'non mi seguono più le dita'", riferisce don Georg. (ANSA) 

Padre Georg e papa Francesco (e mons. Becciu) ai funerali del cardinal Pell: «Un uomo forte e fedele a Dio anche nella prova delle false accuse». Ester Palma su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

La lettera di Benedetto XVI mentre era in carcere: «Ha aiutato la Chiesa cattolica in Australia a uscire da un liberalismo distruttivo, guidandola ancora verso la profondità e la bellezza della fede cattolica»

C'erano anche padre Georg Gaeinswein e mons. Becciu con Papa Francesco, che come per tutti i funerali dei cardinali ha recitato l'Ultima Commendatio e la Valedictio finale, a celebrare sabato mattina in San Pietro la Messa per l'addio a George Pell. Il cardinale australiano era stato protagonista suo malgrado nei suoi ultimi anni e nella sua terra, di una clamorosa vicenda giudiziaria per presunti abusi su minori, che gli costò anche 404 giorni di carcere, prima dell'assoluzione finale e della liberazione.  «L'inaspettato chiudersi dell'esistenza del Cardinale Georg Pell ci ha colti tutti di sorpresa. Era con noi a concelebrare la Messa esequiale per il Papa emerito Benedetto XVI e nonostante i suoi 81 anni sembrava in buona salute. E' stato un uomo di Dio e della Chiesa, di profonda fede e grande saldezza di dottrina, che sempre difese senza tentennamenti e con coraggio, preoccupato solo di essere fedele a Cristo, anche nella prova», ha detto il Decano del collegio cardinalizio Giovanni Battista Re nell'omelia pronunciata davanti a oltre 300 persone, fra cui il fratello del defunto Cardinale, David, volato apposta dall'Australia con parenti e amici.  

Papa Benedetto era molto amico di Pell, il che spiega anche la presenza del suo segretario fra i concelebranti, dopo l'evidentemente definitivo chiarimento di Gaenswein con il Papa in carica. Nel suo libro «Diario di una prigionia», scritto per raccontare la sua esperienza di detenuto (innocente) il cardinale aveva scritto, come racconta il settimanale «Tempi»: «In quel periodo mi arrivò una misteriosa fotocopia di una lettera dal Vaticano, senza firma. È stata molto incoraggiante, diceva che “in questo momento difficile, per tutto il tempo, le sono rimasto vicino con la mia preghiera e il mio sostegno spirituale”. L’autore si diceva dispiaciuto per la mia condanna, poi con mia sorpresa aggiungeva: “Lei ha aiutato la Chiesa cattolica in Australia a uscire da un liberalismo distruttivo, guidandola ancora verso la profondità e la bellezza della fede cattolica… Temo che adesso dovrà pagare anche per la sua incrollabile cattolicità, ma in questo modo sarà molto vicino al Signore”. E concludeva con la promessa di «una continua vicinanza nella preghiera». Pell rivelò che l'autore della lettera era il Papa Emerito solo durante la presentazione del libro. 

La presenza del cardinale Angelo Becciu, già imputato nel processo in Vaticano per lo scandalo finanziario legato alla compravendita del Palazzo londinese,  era forse meno prevedibile, dato che il cardinal Pell, che è stato anche prefetto della Segreteria per l'Economia del Vaticano, fu tra i suoi principali accusatori. Nel suo roccioso e tradizionale cattolicesimo, il cardinale australiano del resto non era stato tenero nemmeno con lo stesso Francesco: in un recentissimo articolo per il settimanale inglese The Spectator, aveva attaccato il «Documento di lavoro per la Tappa Continentale del Sinodo», definendolo «incubo tossico», «uno dei documenti più incoerenti emessi da Roma», «potpourri, effusione di una benevolenza stile New Age».  «Molti di noi ambiscono a una vita tranquilla, alcuni non riescono a conseguirla, ciascuno però deve scegliere da che parte stare. Non si può evitare di combattere», aveva scritto, sempre nel suo libro.

Padre Georg, la dolorosa confessione su Ratzinger: "Papa Francesco gli ha spezzato il cuore". Il Tempo il 04 gennaio 2023

Una confessione dolorosa in un'intervista al giornale tedesco "Die Tagespost". Lo storico segretario particolare del Papa emerito, monsignore Georg Gänswein critica Bergoglio in merito alla messa in latino. Il Motu proprio "Traditisonis custodes" pubblicato da Papa Francesco nel 2021 avrebbe "spezzato il cuore" a Benedetto XVI. In "Traditionis Custodes" Francesco ha, di fatto, posto condizioni particolarmente restrittive per quanto riguarda il cosiddetto rito tridentino o Messa in latino, contrariamente a quanto invece previsto nel Motu proprio "Summorum pontificum" di Papa Ratzinger del 2007. "Quello è stato un punto di svolta. Questo Motu proprio ha colpito Papa Benedetto molto duramente. Credo che gli abbia spezzato il cuore", ha evidenziato Gänswein.

Gänswein è stato l'uomo più vicino a Benedetto XVI sia negli otto anni di pontificato sia dopo le sue dimissioni. È rimasto sempre al suo fianco, Fino alla fine. È stato lui a somministrare a Ratzinger, mercoledì scorso, il sacramento dell’Unzione degli infermi e poi sabato mattina è stato lui ad avvisare Papa Francesco della morte dell'emerito.

"L’intenzione di Papa Benedetto era stata quella di aiutare coloro che avevano semplicemente trovato una casa nella Messa antica, a trovare una pace interiore, trovare una pace liturgica e anche di allontanarli da Lefebvre", ha raccontato Padre Georg al giornale cattolico. "Se si pensa per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita spirituale e nutrimento per tanti santi, è impossibile immaginare che non abbia più nulla da offrire. E non dimentichiamo tutti quei giovani che sono nati dopo il Concilio Vaticano II e non sanno nulla dei drammi che circondarono il Concilio Vaticano II. Togliere questo tesoro alla gente, perché?".

Perché le parole di monsignor Georg su Ratzinger danno inizio alla «fase due» del papato di Francesco. Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.

Monsignor Ganswein, che ha rivelato il dolore di Benedetto per le decisioni di Francesco sulla messa in latino, era già finito al centro dello scontro tra i tradizionalisti e i bergogliani. Oggi la storia rischia di ripetersi: e l’ala più distante dal Papa, priva del «freno» rappresentato da Ratzinger, sembra pronta a esplicitare le sue critiche

L’inizio della fase due del papato di Francesco è stata marcata dal secondo inquilino del Monastero dove viveva Benedetto XVI: il prefetto della Casa pontificia, monsignor Georg Gänswein.

In un’intervista al giornale tedesco Die Tagespost, l’uomo più vicino da sempre a Joseph Ratzinger parla di «punto di svolta» nei rapporti con Jorge Mario Bergoglio nel 2021: l’anno in cui da Casa Santa Marta, residenza di Francesco, arrivò la decisione di scoraggiare la celebrazione della Messa in latino.

Papa Benedetto lo lesse «con il dolore del cuore», ha raccontato Gaenswein, che è stato con lui fino all’ultimo; e che in questi giorni ha vegliato la salma esposta nella basilica di San Pietro, commosso e con l’aria provata, accompagnando i visitatori illustri.

La sua può essere stata la rivelazione di un episodio che aveva colpito particolarmente Ratzinger; e che non nasconde nessuna intenzione di creare polemiche sui rapporti tra i cosiddetti «due papi».

Ma Die Tagespost è lo stesso giornale, considerato vicino all’Opus Dei e pubblicato a Wurzburg, che il 5 febbraio del 2020 rivelò la rimozione di «don Georg» dal suo incarico.

Scrisse che il papa gli aveva ordinato di non sedere più alla sua destra nelle udienze pubbliche; di non andare nemmeno in ufficio e di assistere soltanto Benedetto al Monastero. Era stato l’epilogo di un sordo conflitto tra i tradizionalisti cattolici che cercavano di strattonare il papa emerito perché criticasse di più Francesco, e la cerchia della «corte parallela» di Casa Santa Marta.

Gänswein, stretto sempre più nella gabbia di una doppia fedeltà, alla fine era diventato il capro espiatorio dello scontro.

Pretesto scelto per metterlo da parte: il pasticcio editoriale di un libro del cardinale conservatore Robert Sarah, che sembrava avesse scritto insieme con Ratzinger. Benedetto, invece, aveva soltanto autorizzato la pubblicazione di un suo breve saggio sul «no» al sacerdozio degli uomini sposati. Ma l’operazione editoriale, condotta maldestramente, aveva aumentato la tensione già latente tra i cerchi magici dei «due papi»: fino al cortocircuito che aveva portato a sacrificare «don Georg».

La cosa singolare è che la sua scomparsa accanto a Bergoglio dal 15 gennaio del 2020 non è mai stata mai annunciata dal Vaticano. Per tre anni nessun comunicato ufficiale. Nessuna motivazione, tranne quella un po’ goffa secondo la quale non c’era stata «nessuna sospensione»: solo «un’ordinaria redistribuzione dei vari impegni e funzioni» del Prefetto della casa pontificia, spiegò imbarazzato il portavoce vaticano Matteo Bruni.

Ma quella scomparsa dalla scena pubblica, sostituito dal suo vice monsignor Leonardo Sapienza, è stato il primo indizio di una continuità interrotta, e di un’armonia incrinata.

E ora che Benedetto è morto, ci si chiede se stia per cominciare una stagione di confronto più aspro tra i vari settori della Chiesa; di critiche aperte nei confronti di alcune scelte del pontefice argentino; e di resa dei conti finale con «don Georg», magari usando anche la sua ultima intervista al quotidiano tedesco.

Avere parlato del dolore di Benedetto per la scelta del successore di scoraggiare le Messe in latino prima ancora che si celebrino i funerali è stato visto da alcuni come un gesto di imprudenza; un’arma consegnata a chi vuole sostituirlo anche formalmente come Prefetto della Casa pontificia: incarico che finora ha mantenuto, seppure senza poterlo esercitare.

Le ali più radicali del cattolicesimo stanno estremizzando le divergenze reciproche da tempo. La filiera più ortodossa del cattolicesimo è in fermento. E ora che manca il diaframma moderatore di Ratzinger, promette di tracimare. Se ne ha sentore da quando Francesco ha fatto capire di volere come nuovo custode dell’ortodossia l’attuale vescovo di Hildesheim, monsignor Heiner Wilmer: una personalità che riflette le posizioni più radicali dell’ala progressista dell’episcopato tedesco su temi come la sessualità in generale e l’omosessualità.

Insomma, un anti-Ratzinger.

La nomina era prevista per metà dicembre, ma è stata rimandata. Nel momento in cui verrà ufficializzata, esisterebbe già un gruppo di cardinali tradizionalisti pronti a contestarla.

In più si registra un malumore diffuso dei ratzingeriani per il modo in cui sono state organizzate le esequie di Benedetto. «Volevano che i funerali fossero sottotono, e invece ci sono decine di migliaia di persone che spontaneamente vanno a salutare papa Ratzinger nonostante fosse diventato invisibile da quasi dieci anni. È un omaggio alla sua statura di grande teologo e un segnale di stima che dovrebbe insegnare qualcosa ai consiglieri di Francesco», ammonisce uno dei cardinali tradizionalisti più influenti.

Non solo. La stessa decisione di invitare ufficialmente solo le autorità di Stato italiane e tedesche, declassando la partecipazione delle altre delegazioni a visite private, è stato considerato un modo per sminuire la solennità dell’estremo saluto a Ratzinger: un calcolo, se tale è stato, smentito dalla partecipazione di massa di questi giorni e dalla presenza di primi ministri e reali.

In realtà, Bergoglio sembra avere compreso prima di altri le incognite che si aprono per lui. Sa che Ratzinger rappresentava una garanzia per tenere unita la Chiesa, frenando le spinte di chi voleva un suo pronunciamento contro Francesco. Sa che non ha mai detto una sola parola contro di lui, e ribadito in più occasioni: «Il Papa è uno solo». Il pericolo, ora, è che senza la barriera protettiva dell’Emerito, «le persone ferite da Francesco» che andavano «a curarsi al Monastero», come ha dichiarato con parole dure il cardinale Gerhard Muller, possano ritrovarsi bandate; e siano tentate di organizzare una fronda contro il pontefice argentino.

Di nuovo, monsignor Gänswein rischia di trovarsi in bilico tra l’identità di uomo fidato di Benedetto e di collaboratore, da ormai tre anni congelato, del papa attuale. E di essere identificato come l’anello più esposto dell’«altra Chiesa», quella impropriamente identificata con il papa emerito, da colpire e spezzare nel momento di massima debolezza.

Il papato di Francesco non è finito, ma è finito con Benedetto «un» suo papato, quello della convivenza diplomatizzata col predecessore. E pochi sono pronti a scommettere che in questo «secondo tempo» la corte di Casa Santa Marta concederà spazio a Don Georg.

Le parole al vetriolo dell'ex segretario di Ratzinger. Padre Georg all’attacco di Papa Francesco: “Sulla messa in latino ha spezzato il cuore a Benedetto”. Redazione su Il Riformista il 4 Gennaio 2023

Alla vigilia dei funerali che celebrerà Papa Francesco, il pontefice argentino riceve un duro attacco da parte di monsignor Georg Gänswein, storico segretario di Benedetto XVI, il Papa emerito che verrà sepolto giovedì dopo la cerimonia che verrà presieduta in piazza San Pietro dal suo successore.

Oggetto delle critiche di Gänswein è la cosiddetta “messa in latino”, tema caro al Papa emerito. Joseph Ratzinger infatti nel 2007 aveva liberalizzato il ricorso alla messa in latina pre-conciliare tramite la lettera apostolica “Summorum Pontificum”.

Una mossa per ricucire i rapporti con i lefebvriani, il movimento ultraconservatore e  tradizionalista interno alla Chiesa in rotta con i ‘vertici’ sin dal Concilio vaticano II.

Una scelta ribaltata nel 2021 da Francesco con il motu proprio “Traditionis custodes”, in cui il Pontefice ne criticava un “uso strumentale” caratterizzato “da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la ‘vera Chiesa’”.

In una intervista concessa a Die Tagespost, monsignor Gänswein parla di quel provvedimento, che essendo pubblicato sotto forma di motu proprio è inappellabile e immediatamente valido per tutta la Chiesa cattolica, come di un “punto di svolta”. “Credo che Papa Benedetto abbia letto questo Motu Proprio con il dolore nel cuore”, sono le parole al vetriolo del segretario dell’ex pontefice tedesco.

L’intenzione di papa Benedetto era stato quello di aiutare quelli che semplicemente avevano trovato una casa nella vecchia messa a trovare una pace interiore, trovare una pace liturgica e anche per sottrarli a Lefebvre. Se pensate per quanti secoli la vecchia messa è stata fonte di vita spirituale e nutrimento per molti santi è difficile immaginare che non abbia più nulla da offrire. È impossibile immaginare che non abbia più nulla da offrire. E non dimentichiamo tutti quei giovani che sono nati dopo il Concilio vaticano II e non sanno nulla dei drammi che hanno circondato il Concilio Vaticano II”, sono le parole di monsignor Gänswein al giornale tedesco.

Il libro di padre Georg sulla vita di Ratzinger: il racconto dell’ultimo giorno del pontificato. Di padre Georg Gänswein su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Benedetto XVI raccontato dal segretario personale Georg Gänswein in un libro in uscita per Piemme. Il silenzio assoluto in elicottero lasciando il Vaticano

L’ultimo giorno del pontificato l’ho vissuto quasi in apnea. Al mattino, nella sala Clementina, ci fu l’incontro di Benedetto con i cardinali presenti a Roma. Era stato un suo vivo desiderio poter dare loro un saluto di congedo collettivo e la scelta di prorogare al 28 febbraio la permanenza sulla Cattedra di Pietro aveva tenuto conto anche della necessità di consentire ai più lontani il tempo per sistemare le cose in diocesi prima di raggiungere Roma. «Per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce della presenza del Signore risorto. La vostra vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero», furono le grate parole pronunciate da Papa Ratzinger. […]

L’addio

Nel pomeriggio, mentre le Memores si erano già recate a Castel Gandolfo, con don Alfred controllammo che nell’Appartamento pontificio fosse tutto in ordine. Poco prima delle 17, demmo con Benedetto un ultimo sguardo a quelle stanze e quindi scendemmo con l’ascensore Nobile. Fu un addio, devo riconoscerlo, che mi fece soffrire e mi colpì nell’intimo, al punto che non potei far altro che lasciar libero corso alle lacrime. Al piano terra c’erano i due cardinali vicari per la diocesi di Roma e per la Città del Vaticano, Agostino Vallini, che si accorse del mio turbamento e cercò di confortarmi, e Angelo Comastri, che disse a Benedetto di aver pianto, ricevendo come risposta un tranquillizzante: «Un Papa va e un Papa viene, l’importante è che Cristo c’è». In attesa per un saluto, nel cortile di San Damaso, c’erano i responsabili della Segreteria di Stato e altri fra i principali collaboratori del Pontefice, mentre la Guardia svizzera era schierata con il picchetto d’onore. Ma tutt’intorno si erano radunati moltissimi dipendenti vaticani, che con un intenso applauso espressero il loro affetto. Poi tutto si svolse molto rapidamente, mentre sull’account @Pontifex di Twitter, inaugurato nel dicembre del 2012, compariva il suo ultimo messaggio: «Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita».

L’eliporto

Salimmo in automobile verso l’eliporto e decollammo, mentre le campane della Basilica vaticana e delle altre chiese romane suonavano a distesa. In elicottero, silenzio assoluto: guardavamo quello che ci scorreva sotto gli occhi, anche perché era la prima volta che passavamo sul centro storico di Roma, dato che in occasioni precedenti, giungendo da Ciampino o da Castel Gandolfo, il pilota aveva percorso una rotta più limitrofa alla città. Soltanto mesi dopo abbiamo visto con Benedetto le immagini che erano state trasmesse in mondovisione da un secondo elicottero che ci seguì per tutto il viaggio, in un documentario curato dal Centro televisivo vaticano. Per me fu molto emozionante rievocare quel giro attorno alla cupola di San Pietro che il pilota fece senza averci preavvisati, ma il Papa emerito mantenne il suo atteggiamento impassibile e non commentò affatto. Giunti nella residenza di Castel Gandolfo, poco dopo le 17.30, Benedetto si affacciò dal balcone esterno per salutare i fedeli e pronunciò le sue ultime parole da Papa regnante. […] Rientrato in casa, si ritirò in camera da letto per sistemare le cose personali e per pregare da solo i vespri. Alle 19.30 ci fu la consueta cena e alle 20 sentimmo il rumore della chiusura del portone. Subito dopo ci recammo davanti al televisore per il Tg1, con i vari servizi dedicati alla giornata. Durante il telegiornale non c’erano mai commenti, al massimo capitava di scambiare qualche opinione durante la successiva passeggiata. E quella sera il silenzio regnò ancor più sovrano. D’altra parte, cosa si sarebbe potuto dire in quei frangenti? Al termine, facemmo una passeggiata attraverso diverse stanze del primo piano: la biblioteca privata, la sala del Concistoro, la galleria e altre sale fino alla sala degli Svizzeri, dove c’è un bel terrazzino affacciato verso il lago Albano. Infine, recitata la compieta in cappella, Benedetto rientrò nella sua stanza. Dopo 2.873 giorni, si concludeva così il pontificato del 264° successore di san Pietro.

Da corriere.it il 5 gennaio 2023.

«Restai scioccato e senza parole»: così monsignor Georg Gänswein racconta — nella sua biografia, «Nient’altro che la Verità» — il momento in cui nel 2020 è stato «congedato» da Papa Francesco da capo della Prefettura della Casa Pontificia. È lo stesso segretario di Ratzinger a definirsi «un prefetto dimezzato», in una rivelazione che arriva a poche ore dal funerale di Benedetto XVI.

 «Lei rimane prefetto ma da domani non torna al lavoro», avrebbe detto Francesco, secondo quanto riferisce Gänswein. E — sempre secondo il racconto di Gänswein — Benedetto avrebbe commentato ironicamente: «Penso che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode...». Nel libro si parla anche di una lettera scritta al Papa per intercedere: ma quella lettera non ebbe effetto.

Le parole di Gänswein arrivano non solo a poche ore dal funerale di Benedetto XVI, ma anche a breve distanza da altre affermazioni che hanno fato discutere — questa volta, a un giornale tedesco, Die Tagespost. Nell’intervista al direttore del giornale cattolico, considerato vicino all’Opus Dei e pubblicato a Wurzburg, Gänswein spiegava di aver visto come un «punto di svolta» nei rapporti con Jorge Mario Bergoglio il momento in cui da Casa Santa Marta, residenza di Francesco, arrivò la decisione di scoraggiare la celebrazione della Messa in latino. Quella stretta, ha detto monsignor Gänswein, «lo ha colpito molto duramente. Penso che abbia spezzato il cuore di Papa Benedetto». «Togliere questo tesoro alla gente, perché? Non credo di poter dire di essere a mio agio con questo», ha aggiunto, parlando della decisione di papa Francesco.

Come spiegato qui da Massimo Franco, le parole di Gänswein al giornale tedesco hanno segnato, di fatto, l’avvio di una «fase due» del pontificato di Francesco:

 «Le ali più radicali del cattolicesimo stanno estremizzando le divergenze reciproche da tempo. La filiera più ortodossa del cattolicesimo è in fermento. E ora che manca il diaframma moderatore di Ratzinger, promette di tracimare».

 Il fatto che Gänswein venne congedato (proprio il Tagespost — ricorda sempre Franco — «scrisse che il papa gli aveva ordinato di non sedere più alla sua destra nelle udienze pubbliche; di non andare nemmeno in ufficio e di assistere soltanto Benedetto al Monastero») era stato

«l’epilogo di un sordo conflitto tra i tradizionalisti cattolici che cercavano di strattonare il papa emerito perché criticasse di più Francesco, e la cerchia della “corte parallela” di Casa Santa Marta. Gänswein, stretto sempre più nella gabbia di una doppia fedeltà, alla fine era diventato il capro espiatorio dello scontro.

 La cosa singolare è che la sua scomparsa accanto a Bergoglio dal 15 gennaio del 2020 non è mai stata mai annunciata dal Vaticano. Per tre anni nessun comunicato ufficiale. Nessuna motivazione, tranne quella un po’ goffa secondo la quale non c’era stata “nessuna sospensione”: solo “un’ordinaria redistribuzione dei vari impegni e funzioni” del Prefetto della casa pontificia, spiegò imbarazzato il portavoce vaticano Matteo Bruni. Ma quella scomparsa dalla scena pubblica, sostituito dal suo vice monsignor Leonardo Sapienza, è stato il primo indizio di una continuità interrotta, e di un’armonia incrinata.

E ora che Benedetto è morto, ci si chiede se stia per cominciare una stagione di confronto più aspro tra i vari settori della Chiesa; di critiche aperte nei confronti di alcune scelte del pontefice argentino; e di resa dei conti finale con “don Georg”, magari usando anche la sua ultima intervista al quotidiano tedesco».

«Il futuro di monsignor Georg Gänswein?», ha detto il presidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Georg Baetzing, rispondendo alle domande dei giornalisti in un punto stampa dopo la celebrazione delle esequie del Papa emerito Benedetto XVI. «Credo dipenda innanzitutto da lui. E poi, naturalmente, dalle persone che sono deputate a queste scelte nella Curia vaticana».

Da corriere.it il 5 gennaio 2023.

Ad accompagnare il feretro del Papa emerito in piazza San Pietro anche il segretario particolare di Benedetto XVI, l'arcivescovo Georg Gaenswein. Padre Georg ha posato il Vangelo aperto sulla bara, si è inginocchiato e l'ha baciata.

Padre Georg e il bacio alla bara di Ratzinger: «Distruggerò le sue carte private. Francesco mi ha scioccato». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Il libro del segretario particolare di Benedetto XVI: «Il suo successore fece di me un prefetto dimezzato, nacquero due tifoserie sui pontefici»

Si è avvicinato lentamente. Ha aiutato a sistemare il Vangelo sulla bara. Si è inginocchiato. E, prima di andar via, ha baciato il legno di cipresso .

Lo ha dato così monsignor Georg Gänswein l’ultimo saluto a Joseph Aloisius Ratzinger: per tutti il Papa emerito, per lui l’uomo con cui ha condiviso le amarezze della vita dopo il ritiro.

Lui, che nel lontano 2003 era stato scelto come segretario personale dall’allora cardinal Ratzinger,diventa ora la «famiglia» del Papa emerito assieme alle quattro memores domini che ieri, in prima fila, visibilmente commosse, hanno presenziato alla cerimonia fino alla parte più privata della tumulazione.

Ma Gänswein era anche il detentore dei suoi segreti che ora nel libro in uscita Nient’altro che la Verità (Piemme edizioni) annuncia di voler, in parte, distruggere: «La fine è segnata». «I fogli privati di ogni tipo devono essere distrutti. Questo vale senza eccezioni e senza scappatoie», gli avrebbe ordinato il papa emerito.

Aggiungendo «precise istruzioni, con indicazioni di consegna che mi sento in coscienza obbligato a rispettare, relative alla sua biblioteca, ai manoscritti dei suoi libri, alla documentazione relativa al Concilio e alla corrispondenza».

Il cardinale esclude che fra questi ci sia anche un dossier su Emanuela Orlandi: «Non è mai esistito».

E ora? Gänswein si definisce un «prefetto dimezzato» alludendo al congedo ricevuto da Papa Bergoglio: «Mi disse: lei rimane prefetto ma da domani non torni al lavoro». Rivela il vano tentativo di Ratzinger di intercedere in suo favore. E la battuta del Papa emerito: «Penso che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode...».

E se adesso appare sempre di più come punto di riferimento per la corrente conservatrice, quella più in contrasto con Papa Francesco, lui stesso descrive questo scenario: il problema, racconta nel libro, non è stato «tanto quello della coesistenza dei due papi, uno regnante e uno emerito, quanto la nascita e lo sviluppo di due tifoserie».

Col tempo, dice, «ci si rese conto sempre di più che effettivamente c’erano due visioni della Chiesa» e che «queste due tifoserie» creavano una «tensione» spesso fondandosi su affermazioni o atteggiamenti di Francesco e Benedetto «talvolta con invenzioni».

Una faglia che si allarga a ogni dichiarazione di padre Georg: l’ultima sul «cuore spezzato» di Ratzinger per lo stop di Francesco alla messa in latino. E si fa più profonda anche grazie a blog e siti. Fra questi quello descritto in sintonia con Gänswein è Silere non possum che ieri titolava: «Saltano gli altarini sul non detto di questi anni». Rimproverava a Bergoglio di aver «sempre temuto» il predecessore e aver voluto per lui «un funerale come ogni altro cardinale». E precisava che «nell’ovile cattolico ci sono anche quelli che non vogliono una chiesa alla “volemose bene”, ma una seria istituzione di Cristo che vuole la salvezza dell’anima».

Nel libro padre Georg ripercorre le tappe di quel crescendo di incomprensioni. A partire dal «no» di Francesco all’Appartamento papale.

«Di solito dormo come un sasso. Ma nel pensare all’Appartamento non ho chiuso occhio», gli disse Bergoglio. «Motivi psichiatrici», aveva detto il Papa scherzando, racconta Georg, a un gruppo di gesuiti. Ricorda come lui provò a far notare che «per tutti quelli che passavano di sera davanti alla Basilica vaticana era un punto di riferimento la luce accesa nell’Appartamento pontificio e che ci sarebbe stata sicuramente nostalgia se si fosse modificata la residenza». «Però ebbi l’impressione che le migliaia di chilometri di distanza da Roma non lo avevano reso partecipe di tale sensibilità», conclude.

In un altro passo dell’intervista , assicura che fra i due Papi il rapporto era «affettuoso», con scambi di vino e dulce de leche argentini e dolci tirolesi delle memores e limoncello.

Tuttavia, morto Ratzinger le insidie per Francesco non mancheranno . Pure a causa delle voci di sue possibili dimissioni per le condizioni di salute, alimentate anche strumentalmente.

La prima sfida sarà gestire le richieste dei fedelissimi di Benedetto XVI di una procedura fast di beatificazione, già manifestate ieri in piazza con lo striscione «Santo subito».

Gänswein scrive: «Personalmente non ho dubbi sulla sua santità, però, ben conoscendo anche la sensibilità espressami da Benedetto XVI, non mi permetterò di fare alcun passo per accelerare il processo canonico».

(ANSA il 6 gennaio 2023) - Il segretario di Ratzinger, monsignor Georg Gaenswein, distruggerà tutte le carte private di Benedetto. L'arcivescovo tedesco rivela che lo stesso Papa emerito ha lasciato una disposizione nero su bianco in tal senso: "I fogli privati di ogni tipo devono essere distrutti. Questo vale senza eccezioni e senza scappatoie". 

Secondo quanto affermato dallo stesso Gaenswein nel libro "Nient'altro che la verità" (Piemme), "ho ricevuto da lui precise istruzioni, con indicazioni di consegna che mi sento in coscienza obbligato a rispettare, relative alla sua biblioteca, ai manoscritti dei suoi libri, alla documentazione relativa al Concilio e alla corrispondenza".

Gaenswein rivela anche che, oltre al testamento spirituale che è stato anche pubblicato dal Vaticano, Ratzinger ha lasciato anche "annotazioni relative ad alcuni lasciti e doni personali, per il cui adempimento ho il compito di esecutore testamentario, sono state aggiornate via via nel corso degli anni, fino alla più recente aggiunta del 2021".

Da liberoquotidiano.it il 6 gennaio 2023.

C'è anche l'appartamento pontificio di Bergoglio nell'esplosivo libro di memorie di Padre Georg Ganswein, l'ex segretario del Papa Emerito Benedetto XVI. Parole che chiamano nuovamente in causa, pesantemente, Papa Francesco.

 "Gli spazi personali degli ultimi Pontefici - studio, salotto, stanza da letto e bagno - sono stati equivalenti a quelli di Francesco nell'appartamento di Santa Marta", sottolinea  Monsignor Gaesnwein nel libro Nient'altro che la verità (Piemme), contestando pienamente (ma "senza alcuna polemica") la contrapposizione che avvenne all'inizio del Pontificato di Francesco, tra Bergoglio e Ratzinger. Padre Georg ricorda che ci fu chi volle contrapporre i due "anche sotto l'aspetto della residenza, affermando che il nuovo Pontefice non voleva il fasto del Palazzo apostolico, ma si accontentava di una stanza in albergo".

"'Di solito dormo come un sasso - gli aveva confidato lo stesso Pontefice -, ma nel pensare all'Appartemento non ho chiuso occhio', gli disse Bergoglio. "Motivi psichiatrici', aveva detto il Papa scherzando a un gruppo di gesuiti". Quando Papa Francesco decise di non abitare nel Palazzo apostolico, Gaenswein provò, racconta, a "sottoporgli la questione dal punto di vista emotivo, dicendogli che per tutti quelli che passavano di sera davanti alla Basilica vaticana era un punto di riferimento la luce accesa nell'Appartamento pontificio e che ci sarebbe stata sicuramente nostalgia, se si fosse modificata la residenza". "Però ebbi l'impressione - conclude padre Georg - che le migliaia di chilometri di distanza da Roma non lo avevano reso partecipe di tale sensibilità".

Oltre alle parole sul suo sconcerto nel giorno in cui, nel 2020, Bergoglio lo congedò ("Ero scioccato, Francesco mi ha reso un prefetto dimezzato"), l'ex segretario particolare di Ratzinger nel libro scritto a quattro mani con Saverio Gaeta ricorda anche l'intervista che il Papa rilasciò al direttore dell'Adnkronos, Gian Marco Chiocci. Parlando dei dossier consegnati alle sue dimissioni nella famosa foto con lo scatolone bianco, Ganswein ricorda che "il Papa emerito non utilizzò mai il termine Vatileaks né avanzò proposte o suggerimenti, lasciando al nuovo Pontefice la totale libertà di azione. Lo confermò Papa Francesco - scrive - nell'intervista con Gian Marco Chiocci il 30 ottobre 2020: 'Nel passare le consegne mi diede una scatola grande: 'Qui dentro c'è tutto, ci sono gli atti con le situazioni più difficili, io sono arrivato fin qui, sono intervenuto in questa situazione, ho allontanato queste persone e adesso...tocca a te'".

Domenico Agasso per lastampa.it il 6 gennaio 2023.

Monsignor Gaenswein si auto-definisce un «prefetto dimezzato», usando l’immagine dal titolo del libro di Italo Calvino. «Restai scioccato e senza parole», svela raccontando il momento in cui Francesco lo ha allontanato, «sospeso», nel gennaio 2020. Piazza San Pietro non si è ancora svuotata dei fedeli che hanno partecipato ai funerali di Benedetto XVI, quando l’aria nei Sacri Palazzi vaticani diventa pesante. E avvelenata.

 La morte di Joseph Ratzinger e lo sfogo di padre Georg contro Bergoglio possono definitivamente rompere gli argini che in questi dieci anni di coabitazione dei «due Papi» hanno contenuto le offensive degli oppositori al pontificato argentino. Le stoccate contro Francesco sono scritte nero su bianco nel libro «Nient’altro che la verità», realizzato con il giornalista Saverio Gaeta (Piemme).

 Per molti prelati è un’«evidente dichiarazione dello schieramento di cui farà parte Gaenswein, che ora guarda al suo futuro e sa che difficilmente potrà tornare in Curia. Da oggi in avanti potrà manifestare la sua ostilità a Francesco senza più mettere in imbarazzo Ratzinger», afferma con amarezza un monsignore.

 C’è atmosfera di resa dei conti. Aspra. La sensazione è che la galassia tradizionalista sempre pronta a screditare il papato di Francesco ora sia in «pericoloso fermento», e stia schierando le forze, dopo che molte volte è stata frenata dalla sola presenza di Benedetto XVI, ritenuto un conservatore ma che mai si sarebbe pronunciato o avrebbe tramato contro il suo successore. Neppure quando non era d’accordo con lui, come nel caso della stretta sulla messa in latino: altra rivelazione incendiaria di Ganswein - «ha spezzato il cuore di Papa Benedetto» - emersa la vigilia delle esequie.

«Ma il rischio è che la tensione non si limiti al caso singolo, bensì che sia il grimaldello per riaccendere le dispute nella Chiesa tra i “bergogliani” e coloro che vedevano in Benedetto XVI il loro punto di riferimento e ispiratore». Adesso non c’è più, e si prevede che gli avversari di Bergoglio si riorganizzino «per individuare un nuovo leader con atteggiamenti conflittuali». Con una strategia che appare «chiara: screditare Francesco, speculare sulle sue condizioni di salute, criticarlo da più fronti e su più argomenti - liturgia, apertura alla comunione ai divorziati risposati, eccessiva ventata di novità - per accelerare l’arrivo a un nuovo conclave. In cui giocare un ruolo determinante». In alcuni circoli tradizionalisti si fa già il toto-nomi per il successore, e si sente sempre più spesso pronunciare la parola «conclave, quasi a invocarla».

 Gli emisferi più estremi del recinto cattolico sembra stiano rinfocolando le contrapposizioni, «i malumori sopiti potranno essere rilanciati, e se il clima si infiammerà potrà davvero lacerare la Chiesa», temono molti presuli. 

Uno dei temi che potranno provocare uno scontro infuocato è la nomina del nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: l’incarico del cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer è scaduto, e si attende la decisione del Papa.

 Se opterà per un progressista saranno fuoco e fiamme. E instabilità, confusione, spinte centrifughe, temute per il Vaticano e per la Chiesa universale. C’è chi parla di spettri di «scismi» che aleggerebbero. A destra negli Stati Uniti, epicentro della contestazione della sensibilità troppo ecologista e «pauperista» di Bergoglio: a novembre i vescovi hanno eletto nuovo presidente monsignor Timothy P. Broglio, considerato distante da Francesco. A sinistra in Germania, dove il sinodo ha avviato una «fuga aperturista in avanti» di una parte della Chiesa europea sui temi sensibili(ssimi): benedizione delle coppie gay, abolizione del celibato obbligatorio dei preti, sacerdozio femminile, comunione per i divorziati.

Ma in questo momento si teme di più la frangia «sovranista». Tra i prelati capofila c’è monsignor Carlo Maria Viganò, che nel 2018 chiese le dimissioni del Papa. Il cardinale Raymond Leo Burke, un tempo legato a Steve Bannon (ora non più). E il cardinale Zen Ze-kiun, duro antagonista dell'accordo del Vaticano con la Cina.

 Poi, chi condivide poco o nulla del magistero di Francesco è il cardinale guineano Robert Sarah. Così come il porporato tedesco Walter Brandmüller, quasi sempre apertamente contrario alla linea bergogliana. Solo un gradino meno drastico è un altro cardinale tedesco, Gerhard Ludwig Müller, allievo di Benedetto XVI e suo successore alla guida dell’ex Sant’Uffizio.

Tra gli ispiratori dell’emisfero conservatore ci sono anche Martin Mosebach, scrittore tedesco, e Rémi Brague, filosofo francese.

 Nel frattempo, il Papa lavora per il Sinodo sulla sinodalità che si riunirà a ottobre, ma per cui appositamente ha creato un secondo appuntamento nel 2024: «Con ogni probabilità confidando che si distendano gli animi», dice un vescovo.

 Quell’Assise è la grande sfida di questa nuova fase del pontificato, iniziata con le esequie di Benedetto XVI: Francesco vuole rendere la Chiesa più pronta a dare responsabilità ai laici e alle donne, a dialogare con il mondo e la contemporaneità, senza erigere più muri ideologici, ma neanche con fughe in avanti non compatibili con la dottrina.

 Il Sinodo è fumo negli occhi per gli ultra-conservatori, e dunque un altro potenziale terreno di contrasti durissimi nelle Sacre Stanze.

Padre Georg, nuove rivelazioni: «Francesco non ascoltò Ratzinger sulla propaganda gender». Bergoglio: «Silenzio e umiltà, non credete a false notizie». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

Gänswein: «Benedetto scrisse a Francesco che occorreva una “resistenza forte e pubblica”. Non arrivarono più altre richieste specifiche di osservazioni»

«Dio si incontra nell’umiltà e nel silenzio». Risuona come un gong di fine round il richiamo di Papa Francesco, nei giorni del clamore provocato dalle rivelazioni dell’assistente di Papa Benedetto XVI Georg Gänswein, su frizioni e incomprensioni tra i due pontefici. E, all’indomani del funerale di papa Ratzinger, punto di riferimento per l’ala più tradizionalista dei cattolici che è entrata in fibrillazione, lancia alto un monito a non «dare scandalo» .

Parlando ai fedeli dell’Epifania, Bergoglio scandisce: «Adoriamo Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie; adoriamo Dio per non inchinarci davanti alle cose che passano e alle logiche seducenti ma vuote del male».

Impossibile non pensare alle parole di Gänswein che nel libro in uscita Nient’altro che la Verità lamenta di essere rimasto «scioccato» alla decisione di Papa Francesco di renderlo un «prefetto dimezzato» .

La fede, ricorda il papa argentino, è anche «sofferenze che scavano nella carne». E aggiunge: «In questi momenti si levano dal nostro cuore quelle domande insopprimibili, che ci aprono alla ricerca di Dio». E tra queste: «Dov’è quell’amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti?».

Cita papa Benedetto XVI papa Francesco, spiegando che la fede è un «pellegrinaggio», un «mettersi in cammino». E sottolinea che «la fede non cresce se rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio e verso i fratelli». Facendo pensare quasi a una risposta a padre Georg che in un’intervista lo ha accusato di aver «spezzato il cuore» di Ratzinger con il suo stop alle messe in latino .

Ma papa Francesco non si limita ai moniti. E quasi a bloccare il chiacchiericcio su sue ipotetiche dimissioni (più semplici ora che non c’è più Ratzinger e i papi non dovrebbero diventare tre, dice chi le auspica) riprende in mano con vigore le redini decisionali. Rivoluziona la sua diocesi, quella di Roma. E commissaria, di fatto, il cardinal vicario Angelo De Donatis: «Non intraprenderà iniziative importanti o eccedenti l’ordinaria amministrazione senza aver prima a me riferito», dispone. La linea la detta da subito nella Costituzione Apostolica. Ed è una sterzata verso una «conversione missionaria e pastorale» per «non lasciare le cose come stanno».

«La Chiesa perde la sua credibilità» avverte «quando i suoi membri, talvolta anche coloro che sono investiti di autorità ministeriale, sono motivo di scandalo con i loro comportamenti infedeli al Vangelo», rimarca il papa. Senza citare il caso del gesuita Marko Rupnik, accusato di abusi da diverse suore. E auspica una Chiesa di Roma che sia «per tutte le altre, testimone del fatto che nessuno deve essere escluso». Con particolare impegno «nell’accoglienza dei tanti rifugiati e migranti». E conclude: «Sogno una trasformazione missionaria che coinvolga integralmente le persone e le comunità, senza nascondersi o cercare conforto nell’astrattezza delle idee».

Ma è sulle idee che si consuma lo scontro tra le «opposte tifoserie», come le chiama padre Georg. Lui, nel libro, ricostruisce le diverse visioni di Francesco e Benedetto. Prima fra tutte quella su come affrontare la «propaganda sulla filosofia gender».

Lo scrisse Ratzinger a Bergoglio. D’accordo con il papa che bisognasse «trovare un equilibrio tra rispetto della persona e amore pastorale e dottrina della fede» ammonì che «la filosofia gender insegna che è la singola persona che si fa uomo o donna. Non interessa il bene della persona omosessuale ma di una voluta manipolazione dell’essere». «So che molti omosessuali sentono di essere pretesto per una guerra ideologica. Perciò una resistenza forte e pubblica è necessaria», scrisse Benedetto.

E Gänswein annota: «Richieste specifiche di osservazioni non sono più arrivate».

Le parole in un libro in uscita. I veleni di padre Georg, monsignor Gänswein all’attacco di Papa Francesco: “Bergoglio mi ha reso un prefetto dimezzato, restai scioccato”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 6 Gennaio 2023

Le parole al vetriolo emergono da anticipazioni di stampa che escono nella stessa giornata in cui Joseph Ratzinger, il papa emerito Benedetto XVI, riceve il funerale dal suo successore Papa Francesco, con un tempismo che desta stupore.

Restai scioccato e senza parole”, così monsignor Georg Gänswein, il più fedele collaboratore di Ratzinger, racconta il momento in cui nel 2020 è stato ‘congedato’ da Papa Francesco da capo della Prefettura della Casa Pontificia. È lo stesso ex segretario di Ratzinger a definirsi “un prefetto dimezzato” nel libro “Nient’altro che la verità” scritto con il giornalista Saverio Gaeta (edizioni Piemme), di cui sono emerse anticipazione nella giornata di giovedì, giorno in cui si è celebrato l’addio a Ratzinger.

Lei rimane prefetto ma da domani non torna al lavoro“, avrebbe detto il Papa, secondo quanto riferisce Gänswein nel libro. Benedetto avrebbe quindi commentato ironicamente: “Penso che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode…”. Inoltre scrisse anche al Papa per intercedere, ma nulla cambiò, racconta ancora Gänswein nel libro.

Quelle contenute nel libro sono solo le ultime dichiarazioni clamorose del fedelissimo dell’ex papa emerito nei confronti di Bergoglio. In una recente intervista alla Tagespost Francesco aveva rilasciato altre dichiarazioni ad effetto: il provvedimento con il quale papa Francesco ha ribaltato la liberalizzazione della messa in latino “credo che abbia spezzato il cuore” di Ratzinger, aveva accusato l’ex segretario di Benedetto XVI.

Dichiarazioni che spaccano ulteriormente una Chiesa già messa alla dura prova dalla ‘coesistenza’ tra due pontefici. Lo ammette a Repubblica anche il cardinale Angelo Bagnasco, per dieci anni presidente della Conferenza episcopale italiana: “Se le ha dette, vuole dire che ha ritenuto in coscienza di poterlo e di doverlo fare“, commenta Bagnasco. “Lui è testimone più vicino di Benedetto, lo ha accudito, curato, seguito con tanta dedizione e amore: non credo che ci sia nessun’altra volontà o intenzione diversa a quella di dare testimonianza“.

Parole, quelle di Gänswein, che fanno emergere ancora più nettamente come lo stesso ex segretario di Benedetto XVI era e possa essere un punto di riferimento per l’ala più conservatrice della Chiesa, in contrasto dal principio con Papa Francesco.

Lo ammette lo stesso monsignore nel libro: il problema, racconta, non è stato “tanto quello della coesistenza dei due papi, uno regnante e uno emerito, quanto la nascita e lo sviluppo di due tifoserie”.

Col tempo, aggiunge Gänswein, “ci si rese conto sempre di più che effettivamente c’erano due visioni della Chiesa” e che “queste due tifoserie” creavano una “tensione” spesso fondandosi su affermazioni o atteggiamenti di Francesco e Benedetto “talvolta con invenzioni”.

Quanto al futuro di monsignor Gänswein, “credo dipenda innanzitutto da lui e poi naturalmente dalle persone che sono deputate a queste scelte nella Curia vaticana”, ha spiegato invece giovedì il presidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Georg Baetzing, rispondendo alle domande dei giornalisti in un punto stampa dopo la celebrazione delle esequie del papa emerito Benedetto XVI.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lette

Intanto Bergoglio decide la stretta su Roma. Papa Francesco dopo le accuse di padre Georg: “Tradimenti e false notizie, Dio è nel silenzio”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Gennaio 2023

Non ha fatto tanti giri di parole padre Georg Gänswein nel puntare il dito contro Papa Francesco proprio nei giorni del lutto per la morte del papa emerito Ratzinger. Lo ha accusato di aver “spezzato il cuore” di Ratzinger con la decisione sulla messa in latino e di averlo “scioccato”, rendendolo “un prefetto dimezzato”. Oggi il Pontefice, all’interno dell’omelia della messa per la Befana, sembra avere inserito un paio di risposte che lasciano pensare ai fatti delle ultime ore. “Adoriamo Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie”, ha detto il Papa. E qualcuno le ha interpretate proprio come risposta alle polemiche delle ultime ore.

Papa Francesco ha iniziato l’omelia citando il suo predecessore quando era ancora Papa regnante: “Il pellegrinaggio esteriore dei Magi, ha detto Benedetto XVI, era espressione del loro essere interiormente in cammino, dell’interiore pellegrinaggio del loro cuore”. Una ricerca, quella dei Magi, cui Francesco ha opposto quella di chi va in cerca di un “traguardo personale”: e si lascia irretire da prospettive false. “Adoriamo Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie”, ha detto il Papa. Qualcuno ha letto in queste parole una vera e propria stilettata rivolta al polemico padre Georg.

E ancora all’Angelus Francesco ha ribadito: “Il Signore s’incontra così: nell’umiltà e nel silenzio”. “La fede non cresce se rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio e verso i fratelli”, ha detto però ancora Francesco durante l’omelia di oggi.

Dopo l’omelia il Papa ha firmato un documento papale che stabilisce una volontà di maggiore controllo da parte del Papa, sulla diocesi di Roma: il cardinale vicario, si legge nel documento, “non intraprenderà iniziative importanti o eccedenti l’ordinaria amministrazione senza aver prima a me riferito”. E ancora: “La Chiesa perde la sua credibilità quando viene riempita da ciò che non è essenziale alla sua missione o, peggio, quando i suoi membri, talvolta anche coloro che sono investiti di autorità ministeriale, sono motivo di scandalo con i loro comportamenti infedeli al Vangelo”. Secondo quanto riportato dall’Ansa in controluce si legge anche una gestione non ottimale, da parte del Vicariato, del caso del gesuita Marko Rupnik, accusato di abusi da diverse suore. Certo è che la morte di Benedetto ha riacceso numerose polemiche in Vaticano.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto del libro “Nient’altro che la verità” di Georg Gaenswein pubblicato da “il Messaggero” il 7 gennaio 2023.

Appena sfogliai il libro Sua Santità, firmato dal giornalista Gianluigi Nuzzi, mi resi conto che alcuni dei documenti citati, e addirittura fotografati, non erano passati per altri uffici vaticani se non il mio. Li avevo mostrati al Papa, che vi aveva apposto la sua sigla e indicato come procedere, e li avevo conservati sullo scaffale alle spalle del mio tavolo di lavoro. A quel punto feci mente locale su come si svolgesse il nostro lavoro nella stanza della segreteria situata di fianco allo studio del Papa e visualizzai che sostanzialmente, oltre al secondo segretario Xuereb e all'aiutante Gabriele, non vi entrava nessuno.

Per affrontare di petto la situazione, in accordo con Benedetto XVI, convocai per la mattinata del 21 loro due, insieme con le quattro Memores e anche suor Birgit. Chiesi a ciascuno se fosse stato lui a consegnare quei documenti, e tutti negarono con fermezza. A quel punto fui molto duro e, rivolgendomi direttamente a Paolo, lo accusai del furto, approfittando del fatto che nella stanza aveva una scrivania con un computer per lavori di archiviazione.

Quando al mattino arrivava la borsa dalla Segreteria di Stato, io smistavo il contenuto e sottoponevo al Papa la documentazione da valutare personalmente; lui leggeva, annotava qualche appunto e talvolta domandava chiarimenti, e alla fine mi restituiva tutto con il suo responso. Documenti e lettere rimanevano in un posto riservato del mio ufficio, nel tempo in cui accompagnavo Benedetto alla Seconda loggia per le udienze, fino a quando, prima di pranzo, un addetto della Segreteria di Stato veniva a riprendere la borsa con il materiale visionato.

 Paolo veniva con noi, ma poi spesso risaliva per sbrigare i suoi compiti. Avendo la chiave dell'ascensore Sisto V poteva salire e scendere senza dare nell'occhio e, poiché nel frattempo anche Xuereb si muoveva, lui poteva restare spesso solo. Pensandoci in seguito, mi sono reso conto che, dopo il pranzo, costantemente rientrava in ufficio e se ne andava verso le 15 (in genere, arrivava intorno alle 7 per la Messa), dando l'impressione che dovesse recuperare lavoro arretrato, cosicché aveva tempo disponibile per le sue cose.

 Ma lui ebbe la prontezza di negare assolutamente il fatto, addirittura facendo l'offeso e chiedendomi come fossero nati in me tali sospetti.

 Dopo il pranzo, entrai in cappella e non mi aspettavo di trovarlo lì. Lo avvicinai e gli chiesi di dirmi la verità su cosa avesse combinato. Fu quello il momento in cui cominciò ad ammettere di aver incontrato Nuzzi e di avergli consegnato qualche documento. Io restai scioccato da questa rivelazione. La conferma dei sospetti fu un duro colpo anche per Benedetto, che sotto l'aspetto affettivo lo considerava quasi come un figlio, come per noi membri della famiglia pontificia era praticamente un fratello, oltre che un collega nel lavoro quotidiano. Avevo offerto le mie dimissioni a Benedetto, chiedendogli di assegnarmi un altro incarico esterno alla Casa pontificia, ma lui mi rispose semplicemente che non se ne parlava.

Nonostante per Benedetto fosse stata umanamente una grande delusione, soprattutto perché Paolo aveva avuto costantemente la possibilità di parlargli personalmente e chiarirsi qualsiasi dubbio, la decisione di condonargli la pena venne presa ancor prima che lui chiedesse formalmente la grazia, mediante una lettera a inizio settembre nella quale riconosceva il proprio errore e implorava al Papa perdono per aver tradito la sua fiducia. Benedetto rispose personalmente, inviandogli un libro dei Salmi con la propria benedizione apostolica vergata sul frontespizio del volume.

 Per rendere pubblicamente nota la concessione della grazia, si ritenne però opportuno attendere un momento spiritualmente significativo e venne scelto il periodo natalizio. Così, il 22 dicembre successivo, accompagnai il Papa nella caserma della Gendarmeria dove era recluso e poi li lasciai soli. Non ho mai saputo cosa si siano detti, ma ho visto Paolo molto provato e ho avuto la sensazione che si fosse reso conto di quanti danni la sua improvvida iniziativa avesse causato.

 Per diversi anni non ne ebbi notizie, finché a metà novembre del 2020 mi telefonò la signora Ingrid Stampa per informarmi che Paolo era gravemente malato e per chiedermi se potessi andare a trovarlo. Per essere certo che fosse opportuno, domandai alla moglie e lei mi confermò questo desiderio. Lo trovai molto dimagrito e affaticato, ma fu molto contento di vedermi. Mi disse che voleva riconciliarsi in pieno con me, parlammo confidenzialmente a quattr' occhi e mi chiese di ricevere il Viatico; poi pregammo insieme con la moglie e i tre figli. Qualche giorno dopo, il 24 novembre 2020, morì e io, il cardinale Harvey e l'arcivescovo De Nicolò abbiamo assistito alla Messa funebre presieduta dal cardinale Konrad Krajewski. Successivamente non abbiamo fatto mancare qualche aiuto alla famiglia, con la discrezione del caso.

Il libro di Monsignor Georg Ganswein: così Benedetto XVI evitò lo scontro tra Papi. Luigi Bisignani su Il Tempo il 9 gennaio 2023

Caro direttore, per dirla scherzosamente alla romana è proprio il caso di esclamare: «Da che pulpito vien la predica»… Archiviate le esequie di Benedetto XVI Papa Francesco torna il «pastore gaucho» che lapidariamente condanna: «Il chiacchiericcio è un’arma letale, uccide l’amore, la società, la fraternità». Con ogni probabilità, si riferiva al libro di Monsignor Georg Gänswein e Saverio Gaeta, «Nient’altro che la verità» edito da Piemme, del quale Il Tempo pubblica qualche estratto su massoneria, gestione del potere e le polemiche attorno al Cardinal Sarah. Il chiacchiericcio è un tema ricorrente per Francesco, forse perché il suo pontificato nacque proprio su una cassa di pettegolezzi alla base di Vatileaks 1, un processo interno, di giustizia sommaria, compiuto interrogando cardinali, vescovi e dignitari di Curia che mai hanno potuto vedere la trascrizione delle loro deposizioni. Per i detrattori di Francesco, il chiacchiericcio è invece, sinora, l’arma che gli ha permesso di governare, consentendo attacchi e prese di posizione responsabili di aver portato alla sbarra il cardinale Becciu, così come a scovare nuove nidiate di corvi vaticani che iniziano ad aleggiare intorno al Cupolone.

ESTRATTI DAL LIBRO "NIENT'ALTRO CHE LA VERITA'"

Le sfide del prefetto sulla massoneria

Poco dopo il suo arrivo in Congregazione, Ratzinger si era trovato dinanzi a una delle tematiche più spinose di quegli anni… «Chi dà il nome a una associazione che complotta contro la Chiesa sia punito con una giusta pena; chi poi tale associazione promuove o dirige sia punito con l’interdetto». Questa innovazione aprì una polemica che coinvolse diversi fronti, sia all’interno che all’esterno della Chiesa cattolica. Così il prefetto ritenne opportuna una esplicita dichiarazione, approvata da Papa Wojtyla e pubblicata il 26 novembre 1983 (il giorno precedente l’entrata in vigore del nuovo Codice). Il testo chiariva definitivamente che la non espressa menzione della massoneria «è dovuta ad un criterio redazionale seguìto anche per le altre associazioni ugualmente non menzionate in quanto comprese in categorie più ampie», restando invece «immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro princìpi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita… L’anno successivo rincarò la dose con una riflessione della Congregazione sulla «inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria», nella quale venivano messe in luce le sue «idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica», nonostante «il dialogo intrapreso da parte di personalità cattoliche con rappresentanti di alcune logge che si dichiaravano non ostili o perfino favorevoli alla Chiesa». (…) Quando venne eletto Pontefice, risultò evidente il disappunto (per non dire altro) della massoneria nei confronti di Benedetto XVI. Perciò, leggendo nel 2013 il caloroso saluto di Gustavo Raffi, il gran maestro del Grande Oriente d’Italia - «Forse nella Chiesa nulla sarà più come prima. Il nostro auspicio è che il pontificato di Francesco possa segnare il ritorno della Chiesa-Parola rispetto alla Chiesa-istituzione, [nella speranza che] una Chiesa del popolo ritrovi la capacità di dialogare con tutti gli uomini di buona volontà e con la Massoneria» - fui certo che, più di un «benvenuto» a Papa Bergoglio, che francamente non credo gli fosse particolarmente familiare, si trattasse di un «benservito» a Papa Ratzinger!

Le pietre d’inciampo del complesso governo. Decisioni a 360 gradi

Sin dai primissimi giorni del pontificato, mi resi conto di quanto sia enorme la responsabilità che grava sul Papa riguardo alle nomine, sulle quali spetta in sostanza a lui la scelta finale: più di tremila circoscrizioni ecclesiastiche in ogni parte del mondo, con quasi duecento rappresentanze diplomatiche, per un totale di circa quattromila vescovi in attività, fra diocesani, ausiliari e nunzi; e poi tutte le cariche nei molteplici organismi della Curia vaticana, che indirizzano le attività della Santa Sede nell’ambito spirituale e pastorale, ma anche in quello amministrativo e caritativo, tenendo conto di un orizzonte complessivo di un miliardo e trecentomila cattolici con tradizioni culturali, situazioni economiche e prospettive sociali del tutto variegate (…). Benedetto certamente non affrontò questo compito a cuor leggero, e lo fece seguendo l’insegnamento del suo amato san Bonaventura, per il quale «governare non era semplicemente fare, ma era soprattutto pensare e pregare: tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera». Sapeva bene infatti che, umanamente parlando, è molto difficile giudicare le persone e decidere a loro riguardo, poiché, diceva, «nessuno può leggere nel cuore dell’altro» (…). Anche se è vero che Papa Ratzinger non aveva uno spiccato interesse per le questioni di governo.

Il «pasticciaccio» di Sarah a proposito del libro a doppia firma

La bomba mediatica esplose d’improvviso, il 12 gennaio 2020, con un’intervista apparsa sul quotidiano francese «Le Figaro», nella quale il cardinale Robert Sarah, annunciava che, tre giorni dopo, avrebbe pubblicato con Benedetto XVI «un libro a quattro mani dove i due prelati esprimono una medesima visione della Chiesa (…). In copertina il nome Benedetto XVI spiccava in alto, con la stessa grandezza di quello del cardinale Sarah, e le immagini erano due loro fotografie affiancate (addirittura quella di Benedetto era ancora del tempo da Pontefice, con la mantellina ben visibile). Portai immediatamente il volume al Papa emerito e anche lui rimase stupefatto, comprendendo immediatamente quali polemiche ne sarebbero scaturite (…). Benedetto ritenne perciò necessario un chiarimento (…). Il Papa emerito, infatti, sapeva che il cardinale stava preparando un libro e aveva inviato il suo breve testo sul sacerdozio autorizzandolo a farne l’uso che voleva. Ma non aveva approvato alcun progetto per un libro a doppia firma, né aveva visto e autorizzato la copertina. Si tratta di un malinteso, senza mettere in dubbio la buona fede del cardinale Sarah (…). La conclusione di quella lettera del 17 febbraio a Papa Francesco metteva in luce tutta l’amarezza di Benedetto per l’accaduto e poneva una definitiva pietra: «Ho già deciso di non pubblicare più niente durante la mia vita in questa terra. Santo Padre, spero di aver chiarito la storia del mio testo per il libro del cardinale Sarah e posso soltanto esprimere la mia tristezza sull’abuso del mio articolo nella discussione pubblica». Non c’era necessità di una specifica risposta, cosicché da parte di Papa Francesco ci fu unicamente il riscontro della ricezione. Ma, per quanto ne so, comprese la totale buona fede del suo predecessore e ne apprezzò la trasparenza nel comportamento.

Domenico Agasso per “la Stampa” il 10 gennaio 2023.

«L'udienza non era scritta nel programma di ieri del Santo Padre. E non ce la aspettavamo così presto». Un alto prelato vaticano manifesta il suo stupore di fronte all'incontro a sorpresa tra Papa Francesco e monsignor Georg Gaenswein, fido segretario particolare di Benedetto XVI.

Un faccia a faccia dopo le tensioni di questi giorni, e il terremoto sollevato dalla pubblicazione delle anticipazioni del libro - nelle ore dei funerali di Joseph Ratzinger - di padre Georg («Nient' altro che la verità», realizzato con il giornalista Saverio Gaeta, Edizioni Piemme, in uscita giovedì) da cui sono emersi sfoghi contro il Pontefice argentino.

Con ogni probabilità, questo è stato uno degli argomenti del colloquio.

 Nel volume l'Arcivescovo tedesco ripercorre il complesso rapporto con Francesco, raccontando di essere rimasto scioccato quando il Papa lo allontanò, «sospese», dall'incarico di capo della Casa pontificia, rendendolo un «Prefetto dimezzato». Sostiene Gaenswein: «Lui mi guardò con espressione seria e disse a sorpresa: "D'ora in poi rimanga a casa. Accompagni Benedetto, che ha bisogno di lei, e faccia scudo". Restai scioccato e senza parole.

Quando provai a replicare, chiuse seccamente il discorso: "Lei rimane prefetto, ma da domani non torni al lavoro". In modo dimesso replicai: "Non riesco a capirlo, non lo accetto umanamente, ma mi adeguo soltanto in obbedienza". E lui di rimando: "La mia esperienza personale è che "accettare in obbedienza" è una cosa buona".

 Tornai al Monastero e lo raccontai a Benedetto, il quale commentò in modo ironico: "Sembra che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode!"». Rivelazioni che si sono aggiunte all'intervista al Die Tagespot, in cui Gaenswein ha svelato che la stretta operata da Bergoglio sulla messa in latino sarebbe stata un dolore per Ratzinger.

 Parole che rischiano di riaccendere gli scontri nel recinto cattolico tra le fazioni tradizionalisti e bergogliani, uno scenario vaticano che potrebbe essere scosso da quelle che Gaenswein stesso ha definito «due tifoserie». Nei giorni scorsi l'Arcivescovo con gli amici si sarebbe difeso definendo «decontestualizzati gli estratti che hanno provocato polemiche».

 L'altro ieri Francesco all'Angelus ha, in qualche modo, risposto alle accuse di Georg: «Il chiacchiericcio è un'arma letale, uccide, uccide l'amore, uccide la società, uccide la fratellanza. Chiediamoci: io sono una persona che divide o una persona che condivide?».

Il Papa, tranquillo per ciò che riguarda gli impegni quotidiani da Pontefice, sarebbe «amareggiato e dispiaciuto per il polverone sollevato dalle dichiarazioni di Gaenswein», racconta un presule.

 Nel dialogo di ieri il Vescovo di Roma «avrebbe detto a Gaenswein che in questo momento la soluzione migliore è il silenzio. Tacere, per stemperare le tensioni. Ora serve silenzio, avrebbe ribadito il Papa», racconta un monsignore. E Gaenswein «avrebbe riportato questa indicazione alle persone a lui vicine». Anche perché è in gioco il futuro ecclesiastico del «Prefetto dimezzato», che potrebbe essere in procinto di fare le valigie. È l'altra questione spinosa che aleggia e che probabilmente hanno affrontato.

Dando per altamente improbabile che padre Georg torni a pieno servizio nella Casa pontificia, secondo fonti vaticane papa Francesco aveva riflettuto sull'argomento «qualche tempo prima della morte di Benedetto XVI, e sembrava orientato a destinare Gaenswein in una nunziatura, magari in America Latina, in Asia o in Europa. Ora, se anche il Pontefice avesse deciso, e non c'è alcuna comunicazione in tal senso, bisogna vedere se i veleni di questi giorni hanno portato a qualche cambiamento di un'eventuale idea». Si parla anche di una docenza in un ateneo cattolico all'estero.

Più complesso un ritorno nella sua Germania, dove l'episcopato pare non lo accoglierebbe a braccia aperte. Il presidente della Conferenza episcopale tedesca monsignor Georg Batzing nei giorni scorsi si è limitato a un distaccato: «Dipende dal diretto interessato e da chi prende queste decisioni nella Curia vaticana»; insomma, nessun invito particolare a padre Gaenswein per unirsi ai vescovi suoi connazionali. Se invece «sarà nominato per qualche ruolo a Roma - ragiona un altro prelato - credo sarà importante che non si presti a diventare capofila degli oppositori al pontificato».

Nel frattempo, emergono «malumori nei confronti del segretario di Ratzinger anche dalla stessa galassia tradizionalista», riporta un vescovo. «È difficile immaginare che Papa Benedetto lo avesse autorizzato a mettere in piazza nelle ore successive alla sua morte tutte le carte segrete e, soprattutto, le vicende, gli aneddoti e gli episodi che possono contrapporlo a Francesco».

 Inoltre, il porporato assicura che «vari prelati dei circoli tradizionalisti si stanno smarcando dall'atteggiamento tenuto da Ganswein nei giorni delle esequie di Benedetto XVI. Secondo me, se il segretario di Ratzinger aveva l'obiettivo di diventare punto di riferimento degli ultraconservatori contro Bergoglio, il primo passo compiuto è stato sbagliato, nei modi e soprattutto nei tempi».

L'incontro tra il Pontefice e il segretario di Ratzinger. Cosa è successo tra Papa Francesco e padre Georg, tutta la verità. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 10 Gennaio 2023

In tempi rapidi, a quattro giorni dal funerale del papa emerito, Papa Francesco ieri mattina ha ricevuto mons. Georg Ganswein, arcivescovo, le cui esternazioni in vista del suo libro di prossima uscita hanno riempito le cronache dei primi di gennaio. Mons. Ganswein dal 2003 è stato segretario personale dell’allora cardinale Ratzinger, mantenendo l’incarico quando quest’ultimo è stato nominato papa. In realtà don Georg, come viene semplicemente chiamato, è salito alla ribalta all’indomani della morte del papa emerito, quando hanno trovato spazio sui media diverse dichiarazioni. Tutto nasce dalle anticipazioni del suo libro di prossima uscita, intitolato Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI (edizioni Piemme, in libreria dal 12 gennaio). In maniera attenta sono state diffusi alcuni passaggi, come la richiesta del papa emerito di bruciare tutte le carte private, e lo sconcerto di Ganswein quando Papa Francesco lo ha sollevato dai compiti di Prefetto della Casa Pontificia, pur mantenendone formalmente la carica.

Sullo sfondo dell’udienza a due di ieri, di cui non si conoscono i contenuti, ci sono le frasi di Papa Francesco pronunciate il 6 gennaio, giorno dell’Epifania: “nel silenzio si trova Dio”, accompagnate dal monito: “il chiacchiericcio è un’arma letale”. E dall’esortazione: “chiediamoci: sono una persona che divide o condivide? Io sono discepolo dell’amore di Gesù o un discepolo del chiacchiericcio che divide?”. Frasi rivolte ai fedeli però ben si attagliano alla situazione creata dall’intervista in cui mons. Ganswein rivelava che a Ratzinger “spezzò il cuore” lo stop alla messa in latino deciso da papa Francesco. Il libro contiene ricordi e sicuramente delle rivelazioni, a partire dalla decisione di Bergoglio di renderlo un “prefetto dimezzato”. In realtà in questi ultimi due giorni diversi prelati hanno giudicato quanto meno poco opportune le frasi di mons. Ganswein, invitandolo a rendersi conto quanto sia meglio tacere. Nell’ordine, il consiglio è venuto dal cardinale tedesco Walter Kasper, dal cardinale argentino Leonardo Sandri, dall’arcivescovo italiano Vincenzo Paglia. Nel colloquio di ieri, per quanto si comprende delle “cose” vaticane, si sarà probabilmente parlato del futuro di mons. Ganswein e dunque prossimamente si vedrà cosa sia stato deciso dal Papa.

Nel recente passato, i segretari dei defunti pontefici hanno ricoperto ruoli di rilievo, sebbene non esista una regola generale. Ad esempio mons. Loris Capovilla, che per un decennio fu segretario di Papa Giovanni XXIII, venne nominato arcivescovo da Paolo VI e Prelato del Santuario di Loreto nelle Marche. Mons. Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI quando era arcivescovo di Milano, lo seguì in Vaticano, fu testimone dell’ultima fase del Concilio Vaticano II e divenne arcivescovo nel 1988, anche lui con l’incarico di gestire il Santuario di Loreto dopo Capovilla. Il notissimo segretario di Giovanni Paolo II, mons. Stanislao Dziwisz, è ora cardinale e arcivescovo emerito di Cracovia. Certo, nessuno di loro è stato autore di rivelazioni, ma – si sa – i tempi sono cambiati ed anche la polarizzazione in atto nella Chiesa, amplificata da media e social media, è un aspetto che va studiato ed analizzato.

Come recita la quarta di copertina del libro di memorie di mons. Ganswein, “oggi, dopo la scomparsa del Papa emerito, per l’attuale prefetto della Casa pontificia è giunto il momento di raccontare la propria verità riguardo le bieche calunnie e le oscure manovre che hanno cercato invano di gettare ombre sul magistero e sulle azioni del Pontefice tedesco, e di far conoscere così, finalmente, il vero volto di uno dei più grandi protagonisti degli ultimi decenni, troppo spesso ingiustamente denigrato dai critici come Panzerkardinal o Rottweiler di Dio. Un racconto autentico e schietto, in cui monsignor Ganswein propone l’autorevole ricostruzione di un particolarissimo periodo per la Chiesa cattolica, affrontando anche gli interrogativi su enigmatiche vicende, quali i dossier di Vatileaks e i misteri del caso Orlandi, lo scandalo della pedofilia e i rapporti fra il Papa emerito e il successore Francesco. Ne scaturisce l’intensa testimonianza della grandezza di un uomo, cardinale, Papa che ha fatto la storia del nostro tempo e che emerge qui come un faro di competenza teologica, chiarezza dottrinale e saggezza profetica”.

Sempre dalle anticipazioni fatte filtrare in questi giorni Ganswein rivela che, oltre al testamento spirituale che è stato anche pubblicato dal Vaticano, Ratzinger ha lasciato anche “annotazioni relative ad alcuni lasciti e doni personali, per il cui adempimento ho il compito di esecutore testamentario, sono state aggiornate via via nel corso degli anni, fino alla più recente aggiunta del 2021”. Si parla poi anche del caso di Emanuela Orlandi, la ragazza scomparsa nel nulla nel 1983: proprio ieri il Vaticano ha fatto sapere di aver riaperto l’inchiesta. Don Georg apre un’altra diatriba con la famiglia Orlandi: “Non ho mai compilato alcunché sul caso Orlandi per cui questo fantomatico dossier non è mai stato reso noto unicamente perché non esiste”, ha spiegato il segretario di Ratzinger. Ma la legale della famiglia Orlandi ha un’altra versione: “Lo andai a trovare alla Prefettura della Casa Pontificia quando ancora esercitava in modo sostanziale il munus di Prefetto e fu lui stesso a dirmi, tra le altre cose, che esisteva, eccome, un dossier riservato su Emanuela e che avrei dovuto insistere per farmelo consegnare dalla Segreteria di Stato. Quando gli chiesi di conoscerne il contenuto, o almeno qualche elemento di esso, ribadì che avrei dovuto indirizzare le mie richieste alla Segreteria di Stato. Spero le pagine del libro siano chiarificatrici”.

Come si vede ci sono tutti gli ingredienti per versare ancora fiumi di inchiostro. Secondo le ricostruzioni giornalistiche di questi giorni, tra conservatori e progressisti che si fronteggiano, mons. Ganswein militerebbe nelle file dei primi e – per chi si spinge oltre – le sue esternazioni sarebbero una sorta di tentativo di mettersi a capo degli eredi del Papa emerito. Fantasie che saranno vanificate quando sarà chiaro il nuovo incarico dell’arcivescovo. Pare escluso però un rientro in Germania a capo di qualche diocesi. In proposito in questi giorni mons. Georg Baetzing, vescovo di Limburgo e presidente della Conferenza episcopale, è stato molto chiaro: “Non trovo giusto mettere Benedetto tra i conservatori e Francesco tra i progressisti, sono forzature”. E su un rientro in Germania di Ganswein: “Dipende dal diretto interessato e da chi prende queste decisioni nella Curia vaticana”. E invece sul superamento del rito latino della messa, voluto da Papa Francesco, il presidente dei vescovi tedeschi ha avuto parole di grande chiarezza: “Benedetto XVI aveva forse più a cuore tutti coloro che tengono alle tradizioni, ma c’erano molti riti e Francesco ha voluto mettere fine a questa confusione nel segno del Concilio Vaticano II”.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Un pellegrino chiamato Georg. Andrea Canali su L’Identità il 10 Gennaio 2023

Divenuto attualissimo il rapporto tra i due Papi. Infatti tutto è ripartito già il giorno del funerale del Papa Emerito, dove il suo fedelissimo segretario, Padre Gänswein, dopo essersi inchinato sulla bara in segno di devozione per Ratzinger, sembrerebbe successivamente si sia lasciato andare a delle esternazioni che potrebbero non essere state gradite al Pontefice. Infatti, il Santo Padre Francesco, nelle sue ultime uscite, sembra quasi aver cercato di rispondere a tali affermazioni con dichiarazioni del tipo: “il chiacchiericcio letale” oppure di non dar seguito alle “false notizie”, volte a destabilizzare la Chiesa. È indiscutibile quindi che si riferisse in qualche modo alle interviste e alle notizie trapelate dal libro di Padre George, in uscita il prossimo 12 gennaio dal titolo “Nient’altro che la verità” in cui il prelato tedesco racconta il suo percorso e quindi la sua vita al fianco di Benedetto XVI. Basti ricordare alcune presunte incomprensioni, o meglio l’annosa vicenda del gennaio 2020, in merito alla nota questione del “celibato sacerdotale” di cui si parlava nel libro del Cardinale Robert Sarah e che conteneva un contributo del Papa emerito, proprio in concomitanza del sinodo dell’Amazzonia. Successivamente a tale accadimento, Papa Francesco chiese a Padre George, dopo avergli negato l’appartamento nel Palazzo Apostolico, di occuparsi di Benedetto e quindi gli disse: “Lei rimane prefetto, ma da domani non torni al lavoro”. Quando tale fatto fu riportato al Papa emerito quest’ultimo affermò che forse Papa Francesco non si fidasse più di lui. E ancora, come non citare la dichiarazione dell’arcivescovo tedesco dove afferma che il Papa emerito provò dolore nel sapere che l’attuale Pontefice ribaltò la previsione da lui posta in essere che consentiva di officiare la messa in latino. Tali rilevazioni hanno imbarazzato, se non addirittura infastidito, anche la curia, la quale si è celata dietro un diplomatico e opportuno silenzio. Alla fine ieri vi è stato l’importante e anchee atteso confronto, visti gli sviluppi della vicenda, tra Papa Francesco e monsignor Georg Gänswein. L’attuale prefetto è stato ricevuto ieri da Papa Francesco prima della classica udienza di inizio anno, prevista per il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Sicuramente tale evento si può considerare fondamentale per il futuro ruolo al servizio della Chiesa che avrà l’ex braccio destro di Benedetto XVI. Quindi dopo le interviste e il libro sopracitato si è visto necessario l’incontro tra le due personalità, dove probabilmente il Papa sicuramente cercava delle risposte, o perlomeno delle spiegazioni, su quanto divulgato nei giorni scorsi. Così presumibilmente si sarà parlato del futuro di Padre Georg ora che l’unico incarico al quale Bergoglio lo aveva destinato tre anni orsono è terminato con la morte di Benedetto XVI. Infatti, immediatamente subito dopo la morte del Papa emerito, a prescindere dalle dichiarazioni conseguenti, e dalle significative anticipazioni del libro, nei palazzi vaticani si vociferava di un futuro lontano da Roma per Gänswein, probabilmente come nunzio apostolico. Più difficile il rientro nella sua patria, in Germania, in quanto gli alti prelati tedeschi rappresentano, di sovente, vedute e carismi diversi rispetto al Papa emerito Ratzinger. Quale sarà, quindi, il futuro di monsignor Gänswein? Ma, soprattutto, le tensioni scaturite da tali dichiarazioni verranno sanate oppure rappresenteranno l’anticamera di una profonda spaccatura, prodromica ad uno scisma? Che ci siano, in seno alla Chiesa cattolica, due opposte fazioni che vedono contrapporre ad un’ala più conservatrice un’altra sicuramente maggiormente progressista è cosa nota già prima della fine del Concilio Vaticano II. Anche se i due Papi sono stati spesso immortalati in atteggiamenti fraterni e di comunione tra loro, non è detto che i seguaci di uno piuttosto che dell’altro, all’interno del Collegio cardinalizio, permangano in un atteggiamento attendista. Prima o poi le annose questioni usciranno allo scoperto. Solo allora vedremo se si arriverà ad uno scisma oppure se la Chiesa, pellegrina sulla terra continuerà, nella unità, la bimillenaria opera di evangelizzazione.

Da lastampa.it il 12 gennaio 2023.

Georg Gaenswein, il segretario di Joseph Ratzinger, deve lasciare il monastero Mater Ecclesiae entro il primo febbraio. Lo scrive il settimanale 'Die Zeit', secondo il quale l'indicazione a Gaenswein sarebbe arrivata con un biglietto inviato da papa Francesco.

 Non si sa ancora quale sarà il prossimo incarico di padre Georg, che formalmente riveste ancora la carica di prefetto della Casa pontificia. Anche se Bergoglio lo ha di fatto sollevato dalle mansioni operative tempo fa. Lunedì scorso, a distanza di tre giorni dai funerali di Benedetto XVI, il monsignore tedesco è stato ricevuto da papa Francesco in udienza privata.

 Nel suo libro padre Georg – «Nient’altro che la verità» –ripercorre il complesso rapporto con Francesco, raccontando di essere rimasto scioccato quando il Papa lo allontanò, «sospese», dall’incarico di capo della Casa pontificia, rendendolo un «Prefetto dimezzato».

Sostiene Gaenswein: «Lui mi guardò con espressione seria e disse a sorpresa: “D’ora in poi rimanga a casa. Accompagni Benedetto, che ha bisogno di lei, e faccia scudo”. Restai scioccato e senza parole. Quando provai a replicare, chiuse seccamente il discorso: “Lei rimane prefetto, ma da domani non torni al lavoro”.

 In modo dimesso replicai: “Non riesco a capirlo, non lo accetto umanamente, ma mi adeguo soltanto in obbedienza”. E lui di rimando: “La mia esperienza personale è che “accettare in obbedienza” è una cosa buona”. Tornai al Monastero e lo raccontai a Benedetto, il quale commentò in modo ironico: “Sembra che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode!”». Rivelazioni che si sono aggiunte all’intervista al Die Tagespot, in cui Gaenswein ha svelato che la stretta operata da Bergoglio sulla messa in latino sarebbe stata un dolore per Ratzinger.

 Parole che rischiano di riaccendere gli scontri nel recinto cattolico tra le fazioni tradizionalisti e bergogliani, uno scenario vaticano che potrebbe essere scosso da quelle che Gaenswein stesso ha definito «due tifoserie». Nei giorni scorsi l’Arcivescovo con gli amici si sarebbe difeso definendo «decontestualizzati gli estratti che hanno provocato polemiche».

La supplica di Padre Georg a Marina Berlusconi: "Ferma il libro su Ratzinger". Il Tempo il 13 gennaio 2023

Padre Georg avrebbe provato in tutti i modi a fermare la pubblicazione del suo libro di memorie "Nient'altro che la verità", cercando di non farlo uscire nei giorni coincidenti ai funerali di Joseph Ratzinger. Lo svela il Corriere della sera riprendendo una notizia del tedesco Tagespost. Per riuscirci, lo storico assistente di Benedetto XVI si sarebbe rivolto ai vertici di Mondadori, e cioè a Marina Berlusconi, ma il volume era ormai arrivato alla fase finale della produzione ed era già stato distribuito ai rivenditori, rendendo così impossibile il blocco.

I motivi della prudenza del monsignore tedesco sono chiari. Georg infatti si sarebbe conto che le rivelazioni bomba contenute del libro avrebbero potuto scuotere ulteriormente il Vaticano in una fase già delicata come quella successiva alla scomparsa del Papa emerito. In effetti, notizie come il disappunto di Ratzinger per la messa al bando da parte di Francesco della messa in Latino, o lo stesso sentirsi del padre come un "prefetto dimezzato" a causa del demansionamento deciso da Bergoglio non hanno fatto altro che allargare il divario tra le due correnti della Chiesa, quella "tradizionalista più vicina a Benedetto XVI e quella progressista che sostiene Francesco, in una sorta di prologo del prossimo Conclave.

Non a caso, dopo le prime anticipazioni Bergoglio ha convocato padre Georg e gli avrebbe comunicato il suo trasferimento dalla Mater Ecclesiae, dal primo febbraio. Il prelato tedesco dovrebbe far ritorno nella sua Germania e sarà così allontanato dall' "epicentro" delle polemiche.

DAGONEWS il 13 Gennaio 2023.

A che gioco gioca l’ex segretario particolare di Benedetto XVI?

Il vanesio arcivescovo, Georg Gaenswein, coltiva in segreto una smisurata ambizione: diventare il punto di riferimento fortissimo dei catto-conservatori dopo il tramonto del para-trumpiano mons. Carlo Maria Viganò, che ciancia di “nuovo ordine mondiale” e sostiene che Bergoglio sia schierato “dalla parte del Nemico”, cioè Satana.

Padre Georg sa di poter contare sulle simpatie del mondo cattolico americano, grande finanziatore del Vaticano e apertamente schierato contro Papa Francesco. Il prelato tedesco, però, sconta l’ostilità della sua stessa conferenza episcopale: quella di Germania, spostata su posizioni molto progressiste. La velleitaria missione che si è auto-attribuito sarebbe “convertire” vescovi e cardinali tedeschi alla sua causa. Gli servirebbe un miracolo, visto che la Chiesa di Germania lo osteggia apertamente.

V. Pic. Per il “Corriere della Sera” il 13 Gennaio 2023.

 Monsignor Georg Gänswein avrebbe cercato di fermare il libro su papa Ratzinger che ha messo in subbuglio il Vaticano. Lo sostiene il giornale tedesco a lui vicino Tagespost . Lo stesso al quale l'ex segretario personale di Benedetto XVI ha rivelato che papa Francesco «spezzò il cuore» al suo predecessore con lo stop alla messa in latino. Nel tentativo di impedire la pubblicazione di Nient' altro che la verità , scrive il quotidiano, Gänswein «si è rivolto ai vertici del Gruppo Mondadori. Ciò significa fino a Marina Berlusconi, la figlia di Silvio».

 Ma il libro, si dice, era ormai arrivato negli «ultimi canali della distribuzione». Intanto padre Georg sta per lasciare il monastero Mater Ecclesiae , dove per quasi dieci anni ha vissuto con papa Ratzinger. Secondo Die Zeit l'indicazione sarebbe arrivata con un biglietto di papa Francesco e, già il primo febbraio, sarebbe previsto il trasferimento dalla «Casa» - come Ratzinger usava chiamare la residenza all'interno dei giardini vaticani, dove abitava con sei Memores Domini che si prendevano cura di lui e, appunto, Gänswein.

Nessun commento ufficiale dal Vaticano sul trasferimento. La «Casa» è in realtà un convento e la sua residenza lì aveva senso solo con Ratzinger in vita. Lo stesso Gänswein peraltro nel libro si definisce «prefetto dimezzato», alludendo al congedo ricevuto da Papa Bergoglio. «Mi disse: "lei rimane prefetto ma da domani non torni al lavoro"», racconta, ricordando le sue resistenze e la battuta di Benedetto XVI: «Penso che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode...».

Padre Georg, il monsignore dimezzato. Storia di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2023.

Il monsignore dimezzato. Il papa emerito Benedetto XVI era appena morto e già mons. Georg Gaenswein, il suo segretario, traboccava di lagnanze. Prima ha ricordato come il «motu proprio», con cui papa Francesco nel 2021 ha posto un veto sulla messa in latino, abbia «spezzato il cuore» di Ratzinger. Poi ha accennato al dissidio fra i due papi sulla «propaganda gender», infine ha parlato del suo defenestramento da prefetto della Casa Pontificia: «Lei rimane prefetto ma da domani non torna al lavoro». «Rimasi scioccato e senza parole», scrive Gaenswein nell’autobiografia «Nient’altro che la Verità» (in uscita da Piemme).

Lontani i giorni in cui padre Georg godeva della confidenza di principesse romane, giocava a tennis, era imitato da Fiorello, veniva elevato dai rotocalchi a «George Clooney della Curia», il simbolo della Grande Bellezza ratzingeriana. Adesso sembra un loquace personaggio di Italo Calvino, quello del «Visconte dimezzato»: il nobiluomo Medardo di Terralba durante la guerra contro i Turchi venne tagliato a metà da una cannonata. Si divise in due personaggi, il Gramo e il Buono.

Il Buono è il fedelissimo e affranto segretario, usque ad mortem, l’esecutore testamentario dell’emerito; il Gramo è quello che ha un libro in uscita e si abbandona alle anticipazioni il giorno del solenne funerale.

Padre Georg, chi è l'arcivescovo-segretario che per Ratzinger è stato come un figlio. Orazio La Rocca su La Repubblica il 31 dicembre 2022.

L'uomo al fianco di Benedetto XVI fino all'ultimo. Fu chiamato a Roma a metà degli anni 90 e non l'ha più lasciato. "Ho servito due papi, Francesco e Benedetto. All'inizio, lo devo ammettere, è stato piuttosto faticoso, ma poi mi sono abituato a stare accanto a due grandi personalità"

Più che un segretario particolare, l'arcivescovo Georg Gaenswein per Joseph Ratzinger è stato un figlio. Sempre al suo fianco, fino alla fine, come un'ombra fedele, da cardinale, Pontefice e Papa Emerito, anche nelle delicate vesti di Prefetto della Casa Pontificia, responsabilità a cui Benedetto XVI lo chiama il 7 dicembre del 2012, consacrandolo contestualmente alla dignità episcopale con la nomina a vescovo titolare di Urbisaglia, una antica diocesi marchigiana, poco più di due mesi prima dell'annuncio della rinuncia al pontificato, l'11 febbraio 2013.

Incarico che gli sarà confermato anche dal successore di Ratzinger, papa Francesco, per cui – ha confidato più volte monsignor Gaenswein – io in Vaticano ho il privilegio e la responsabilità di servire due Papi, il Pontefice emerito Benedetto XVI come suo segretario e il Papa regnante, Francesco, in qualità di Prefetto della Casa Pontificia. All'inizio, lo devo ammettere, è stato piuttosto faticoso, ma poi mi sono abituato a stare accanto a due grandi personalità, servendo loro e, di conseguenza, anche la Chiesa”.

Chi è padre Georg

Nato in Germania il 30 luglio 1956, nella cittadina di Riedrn am Wald, presso Friburgo, Gaenswein viene ordinato sacerdote il 31 maggio 1984. Il trasferimento in Vaticano a metà degli anni Novanta, su invito dell'allora cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Ratzinger colpito dalle sue doti di giovane studioso di Diritto Canonico, disciplina che insegnerà alla Pontificia Università della Santa Croce (Opus Dei) a Roma.

Nel 2003 la nomina a segretario del cardinale Ratzinger, accanto al quale resterà per quasi una ventina d'anni, diventando il suo braccio destro negli ultimi due anni all'ex Sant'Uffizio e, successivamente, durante il Pontificato e nei circa dieci anni di Papa emerito, nei primi due mesi nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo e successivamente all'ex monastero Mater Ecclesiae, in Vaticano, dove è stato in tutto e per tutto il costante collegamento di Benedetto XVI col mondo esterno. Diventando, di volta in volta, la sua voce, la sua Parola, il puntuale testimone del suo nuovo servizio alla Chiesa con la preghiera, la meditazione e il silenzio. Marcato a vista, nel corso degli ultimi dieci anni, da mass media di tutto il mondo sempre più “affamati” di notizie sulla vita di Joseph Ratzinger all'indomani della rinuncia al Papato, Gaenswein non si è mai sottratto dal fornire le giuste informazioni, belle, meno belle, persino scomode, sui ritmi della quotidianità all'interno dell'ex monastero.

Non si è tirato indietro nel fornire, nei tempi e nei modi necessari, interviste sia alla carta stampata che alle radio ed alle televisioni, diventando, gioco forza, uno dei volti più popolari della Chiesa contemporanea, grazie anche ad una vaga somiglianza ad attori che negli ultimi hanno dato il volto a fiction seguitissime dal grande pubblico. Particolari che – in verità - a Gaenswein non hanno mai interessato.

Il suo primario interesse è stato solo “servire fedelmente” papa Ratzinger nella veste di segretario particolare. Non un semplice incarico, ma una “missione personale” alla quale ha dedicato tutto sé stesso, al punto che il giorno in cui Ratzinger lascia definitivamente da Papa regnante il Palazzo Apostolico del Vaticano non nasconde la commozione nemmeno davanti alle telecamere in diretta mondovisione.

Padre Georg e l'ultimo giorno da papa di Ratzinger

Ecco come lui stesso lo ricorda, parlandone come uno dei momenti più significativi e forse dolorosi della sua vita: “...Dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00 dal palazzo di Castel Gandolfo Benedetto XVI rinunciava al ministero di Vescovo di Roma e Successore di San Pietro. La decisione era talmente grave che in quel momento avevo personalmente immaginato un’aspettativa di vita di Benedetto XVI di non più di un anno (ma di anni ne sono passati quasi 10, ndr). Quando perciò il 28 febbraio 2013 lasciammo insieme il Palazzo Apostolico, tutto il mondo fu testimone di come non riuscii a trattenere le lacrime...”.

Da quel momento per Gaenswein inizia una nuova “avventura”, accompagnando da fedele scudiero Joseph Ratzinger nelle sue preghiere da Papa Emerito, dalle Messe del Mattino, alle meditazioni, alle passeggiate con la recite del Rosario, sia a Castel Gandolfo che in Vaticano, dove oltre alla cappella del mater Ecclesiae, la meta preferita da Benedetto XVI è stata la Grotta della Madonna di Lourdes, sosta quotidiana accompagnata da preghiere mariane, momenti di silenzi e di meditazione. Con Gaenswein sempre accanto. Come gli è stato accanto nelle due sole volte che il Papa emerito in circa 10 anni è uscito fuori dal Vaticano, in una giornata di vacanza a Castel Gandolfo, su pressante invito di papa Francesco, e per correre in Germania al capezzale del fratello Georg pochi giorni prima della morte nel Luglio del 2021.

Padre Georg, parole e lacrime in difesa del papa emerito

Gaenswein non si è mai risparmiato ogni qual volta sentiva la necessità di intervenire pubblicamente in difesa del Papa Emerito. Per anni ha dovuto rispondere a domande sul suo stato di salute, spiegando ogni volta che “Benedetto XVI, pur essendo lucido, è una persona anziana che ha problemi di deambulazione, e col passare del tempo si sta spegnendo lentamente come una candela...”. Espressione letta in modo negativo da non pochi osservatori, ai quali ha dovuto replicare spiegando che “il riferimento alla candela è dovuto al fatto che, pur col passare degli anni Benedetto XVI riesce ad illuminarci sempre, anche se la luce diventa sempre più fioca”.

Decisi i suoi interventi in risposta alle accuse che una parte dei vescovi tedeschi hanno lanciato nei mesi scorsi contro Joseph Ratzinger ritenendolo responsabile, negli anni in cui era vescovo di Monaco, di omesso controllo su un prete pedofilo. Accusa gravissima, formulata per di più da un Rapporto di una commissione diocesana, respinta decisamente al mittente da Gaenswein, e per la quale il Papa Emerito era già pronto ad affrontare il giudizio di un Tribunale Civile tedesco, rinunziando a qualsiasi forma di immunità o di prescrizione.

Negli ultimi tempi, con l'aggravarsi delle condizioni fisiche di Ratzinger, è stato il suo segretario a far viaggiare le sue Parole ed i suoi pensieri. In un evento nei mesi scorsi in Germania, organizzato per il conferimento dell'annuale Premio Ratzinger, tra le lacrime e fermandosi più volte, Gaenswein riferisce che il Papa Emerito gli aveva pregato di portare i suoi saluti ai partecipanti al convegno confidandogli che non avrebbe “mai immaginato come fosse lunga la strada per arrivare alla porta del Paradiso”. Una espressione tra realismo ed ironia con cui Benedetto XVI faceva capire di essere pronto a rispondere alla “chiamata”.

Per queste parole Gaenswein ha pianto in pubblico, avendo evidentemente compreso che ormai la corsa di Benedetto XVI stava per intravedere il traguardo oltre il quale sarebbe ritornato a Casa. Un dolore umano comprensibile da parte di un uomo che di certo non potrà mai dimenticare la dolcezza ed il privilegio di aver “condiviso tanti anni col Papa emerito la stessa tavola, lo stesso altare e la preghiera comune”.

Estratto dell’articolo di Domenico Agasso per “la Stampa” il 2 gennaio 2023.

[…] «Erano circa le 3 della mattina del 31 dicembre. Ratzinger non era ancora entrato in agonia, e in quel momento i suoi collaboratori e assistenti si erano dati il cambio». Con lui, in quel momento, «c'era solo un infermiere che non parla il tedesco. "Benedetto XVI - racconta commosso il suo segretario, Gänswein - con un filo di voce, ma in modo ben distinguibile, ha detto, in italiano: 'Signore ti amo!' Io in quel momento non c'ero, ma l'infermiere me l'ha raccontato poco dopo. Sono state le sue ultime parole comprensibili, perché successivamente non è stato più in grado di esprimersi"».

[…] In un intervento per il quotidiano tedesco Bild, Gaenswein difende il Vescovo emerito di Roma da varie critiche: «Non era un Papa attore e ancor meno un insensibile automa papale. Era e rimase pienamente umano anche sul soglio di Pietro». Benedetto XVI è stato «assolutamente occidentale», e ha incarnato la ricchezza della tradizione cattolica dell'Occidente come nessun altro, sostiene Gaenswein (come riporta l'agenzia Sir): «Allo stesso tempo ha aperto così audacemente la porta a un nuovo capitolo nella storia della Chiesa togliendosi il suo Anello del Pescatore (simbolo pontificale, ndr) di suo libero arbitrio. Non c'era mai stato un passo come questo prima d'ora e non deve sorprendere, quindi, che alcuni lo vedessero come rivoluzionario, mentre altri vedessero il papato come demitizzato - o semplicemente più umano». […]

Estratto dell’articolo di Ezio Mauro per “la Repubblica” il 2 gennaio 2023.

Monsignor Georg Gänswein, lei ha 66 anni, da 38 è al servizio della Chiesa, oggi è Prefetto della Casa Pontificia ma soprattutto è stato segretario privato del Papa emerito Benedetto XVI, gli è stato accanto fino al momento della morte, e prima nel giorno dell'elezione e in quello della rinuncia che ha stupito il mondo. 

[…] Lei quando ha saputo della scelta del Papa?

«Il Papa me lo ha detto a Castel Gandolfo. Era fine settembre del 2012». 

[…] Gli ha detto che non poteva farlo?

«Sì, sì, l'ho detto direttamente, così come parlo con lei adesso. Santo Padre, no. Si deve e si può pensare a ridurre gli impegni, questo sì. Ma lasciare, rinunciare è impossibile.

Papa Benedetto mi ha lasciato parlare. E poi ha detto: lei può immaginare che ho pensato bene a questa scelta, ho riflettuto, ho pregato, ho lottato. E ora le comunico una decisione presa, non una tesi da discutere. Non è una quaestio disputanda, è decisa. La dico a lei, e lei adesso non deve dirla a nessuno». 

C'era già stato tutto il travaglio dentro di lui, dunque, prima della scelta: lei se n'era accorto?

«Io mi ero accorto all'inizio di luglio che il Papa era molto chiuso, molto pensieroso. E pensavo che fosse concentrato sul terzo volume su Gesù, che stava finendo. Quando poi a fine settembre mi ha rivelato la sua scelta ho capito che stavo sbagliando: non era il libro che lo preoccupava, ma era la lotta interna di questa decisione, una sfida». 

[…] Tutto cambia il 19 Aprile 2005, alle 17 e 56, quando la fumata bianca trasforma Joseph Ratzinger in Benedetto XVI, 265esimo successore di Pietro. Lei dov' era quel giorno?

«Nell'aula che collega la Cappella Sistina e la Cappella Paolina, la Sala Regia. Dopo un'ora, scoppia un applauso forte. Si poteva sentire da fuori, dov'ero io. Ma i cardinali non applaudono, il conclave non è un concerto. Allora l'unica spiegazione è che hanno scelto, e che il prescelto ha accettato. Poco dopo ricordo "Bum, Bum, Bum", la grande porta che si apre di colpo e il più giovane cardinale che esce di fretta, dicendo "Abbiamo deciso, c'è il nuovo Papa". Nient' altro».

[…] Ma immediatamente prima del Conclave c'era stata quella frase di Ratzinger sulla pedofilia tra i sacerdoti, quando dice "quanta sporcizia nella Chiesa". Questa denuncia davanti ai cardinali era una specie di programma di governo?

«Non deve dimenticare che da Prefetto era stato il primo, o uno dei primi, a venire a contatto con questa brutta piaga degli abusi. È ovvio che una tale esperienza non può non essere presente nella Via Crucis 2005». 

Poi c'è la prima omelia all'inizio del pontificato, quando il nuovo Papa dice pregate per me, perché io non fugga per paura davanti ai lupi. Di quali lupi parlava?

«Qualcuno mi ha chiesto se potevo fare qualche nome. Chiedete al Papa stesso, ho risposto, io non so se ha pensato a qualcuno, ma non lo credo. Certamente quell'immagine vuol dire non è facile anche essere coerente, controcorrente, e mantenere questa direzione se molti sono di un'altra opinione». 

Però si capisce da queste parole che lui aveva la percezione che non sarebbe stato un papato di tranquillità, ma di lotta: se lo aspettava?

«Chi crede che ci possa essere un papato di tranquillità credo che abbia sbagliato la professione». 

Però forse non immaginavate che questa lotta sarebbe nata proprio all'interno del Vaticano, con scandali sessuali, morali, economici. Una crisi più pesante del previsto?

«La parola scandalo certamente è un po' forte, ma vero è che durante il pontificato ci sono stati molti problemi, Vatileaks, poi lo Ior. Ma è ovvio che, come direbbe Papa Francesco, il cattivo, il maligno, il diavolo non dorme. È chiaro, cerca sempre di toccare, di colpire dove i nervi sono scoperti, e fa più male». 

Sta dicendo che ha sentito la presenza del diavolo in quegli anni?

«L'ho sentito in realtà molto contrarie, contro Papa Benedetto». 

Vatileaks è uno scandalo enorme, fa il giro del mondo. D'altra parte, pensiamo, documenti riservati rubati direttamente dalla scrivania del Papa, dal suo maggiordomo. Com' è stato possibile?

«Qui devo fare una piccola correzione. I documenti non sono stati rubati dalla scrivania di Papa Benedetto, ma dalla mia. Purtroppo me ne sono accorto molto, molto più tardi, troppo tardi. Io ho parlato con Benedetto, chiaramente, gli ho detto Santo Padre, la responsabilità è mia, me la assumo. Le chiedo di destinarmi a un altro lavoro, io mi dimetto. No, no, mi ha risposto: vede, c'era uno che ha tradito persino nei 12, si chiama Giuda. Noi siamo un piccolo gruppo, qui, e rimaniamo insieme». 

Lei sa che c'è chi pensa che il Papa abbia abdicato sotto una specie di ricatto dopo il furto dei documenti. D'altra parte noi conosciamo le carte che sono state rese pubbliche, ma non sappiamo quali altre carte sono state lette, carpite, quali magari sono state esibite come una minaccia davanti a Benedetto. Cosa risponde a un'ipotesi del genere?

«Lo escludo totalmente. Non c'era nient' altro di peso». 

Papa Benedetto recentemente è stato chiamato in causa per una vicenda di abusi sessuali del 1980, quando era arcivescovo di Monaco. Lui un anno fa ha scritto una lettera per scusarsi del suo comportamento, dicendo che forse doveva investigare di più, farsi più domande, però al tempo stesso respinge categoricamente l'accusa di aver detto delle bugie. È il sentimento della colpa?

«C'è stato un errore da parte uno dei nostri collaboratori, perché abbiamo dovuto leggere 8.000 pagine della documentazione, e la persona che ha letto le carte ha detto che in quella famosa riunione del 15 gennaio 1980, il Cardinal Ratzinger non era presente». 

Perché questa bugia?

«Il nostro collaboratore ha sbagliato le date, una cosa brutta. Quando io ho detto Santo Padre, qui abbiamo sbagliato, Benedetto ha deciso di scrivere una lettera personale, così nessuno può dire che non abbia risposto in prima persona». 

Naturalmente la questione è se questi scandali hanno influito sulla rinuncia di Ratzinger. Lei dice di no, cito le sue parole: non è fuggito dai lupi, ha semplicemente e umilmente ammesso di non avere più la forza per reggere la chiesa di Cristo. Di nuovo i lupi. Le domando, quei lupi il Papa li ha incontrati?

«Io ho parlato una volta di questo con Papa Benedetto, ma tutti questi scandali, come vengono chiamati, non erano anche un motivo per lasciare? No, ha risposto, la questione non ha influito sulla mia rinuncia. L'11 febbraio 2013 ho detto i motivi: mi mancavano le forze e per governare. Per guidare la Chiesa, oggi, servono le forze, altrimenti non funziona».

 Però Benedetto veniva dopo un Papa come Giovanni Paolo II, che ha vissuto in pubblico la sua malattia e quasi ha offerto la sofferenza del corpo come testimonianza della sua fede, anche in coerenza col suo motto papale: Totus tuus. Come si è confrontato Benedetto con la scelta del suo predecessore?

«Lui mi ha detto una volta: non posso e non voglio copiare il modello di Giovanni Paolo II nella malattia, perché io devo confrontarmi con la mia vita, con le mie scelte, con le mie forze. Ecco perché il Papa si è permesso di fare questa scelta. Che secondo me richiede non soltanto molto coraggio, ma anche moltissima umiltà». 

Questa scelta pone anche una domanda al teologo Ratzinger, e cioè la tentazione dell'umano di deviare il disegno divino che l'ha portato sulla cattedra di Pietro: l'uomo può farlo?

«L'uomo deve prendere la decisione che in quel momento secondo lui è giusta». 

[…] Mi racconta il mattino dell'11, il giorno della scelta?

«L'11 febbraio, la Madonna di Lourdes. Abbiamo celebrato la Santa Messa, recitato il breviario, fatto la prima colazione, il Papa si è preparato per il Concistoro. L'ho aiutato a indossare la mozzetta con la stola, poi l'ho accompagnato con un piccolo ascensore dall'appartamento alla seconda loggia. Non abbiamo parlato, niente. Cioè il silenzio era assoluto, perché non era il momento delle parole. Alla fine del Concistoro il Papa dice: Signori cardinali, rimanete qui, devo ancora dirvi una cosa importante per la vita della Chiesa».

Ha un foglietto in mano, lo ha scritto lui?

«Sì, direttamente in latino. Io ho chiesto perché, e lui mi ha risposto che un annuncio così si deve fare nella lingua della Chiesa, la lingua madre. Così ha letto quelle parole sono diventate la dichiarazione della rinuncia». 

[…] Perché Benedetto ha scelto per sé la formula di Papa Emerito, sollevando discussioni?

«Ha deciso così lui, personalmente. Penso che davanti a una decisione così eccezionale tornare cardinale sarebbe stato poco naturale. Ma non c'è nessun dubbio che c'è stato sempre un solo Papa, e si chiama Francesco». […]

Padre Georg: “In Vaticano il diavolo ha agito contro di lui”. Ezio Mauro su La Repubblica il 2 Gennaio 2023.

Intervista al segretario di Ratzinger. Il Monsignore rimasto vicino a Benedetto anche dopo l’abdicazione: “Fu coraggioso e umile. Disse: non posso copiare Giovanni Paolo II”

Giovedì prossimo su Rai 3 alle ore 23.40 andrà in onda la puntata speciale de La scelta, intitolata “Così Ratzinger decise di dimettersi”, con l’intervista integrale

di Ezio Mauro a Monsignor Georg Gänswein, registrata pochi giorni prima della morte

di Benedetto XVI, di cui pubblichiamo questo estratto

Monsignor Georg Gänswein, lei ha 66 anni, da 38 è al servizio della Chiesa, oggi è Prefetto della Casa Pontificia ma soprattutto è stato segretario privato del Papa emerito Benedetto XVI, gli è stato accanto fino al momento della morte, e prima nel giorno dell’elezione e in quello della rinuncia che ha stupito il mondo.

La lectio di Ratisbona che rischiò di scatenare uno scontro di civiltà. Silvia Ronchey su La Repubblica l’1 Gennaio 2023.

L’allora pontefice aveva condannato l’islam come religione "malvagia e disumana, diretta a diffondere la fede con la spada"

Quando il 12 settembre 2006, nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, Joseph Ratzinger tenne la sua lectio magistralis in seguito nota come discorso di Ratisbona, l’uditorio rimase agghiacciato. L’allora pontefice aveva esordito evocando una condanna dell’islam come religione intrinsecamente «malvagia e disumana», originariamente diretta «a diffondere la fede con la spada», per una vocazione jihadista che veniva fatta risalire direttamente a Maometto.

Autoritario.

Immigrazionista.

Progressista.

Giornalista.

Gesuita.

Ambientalista.

LGBT-Friendly.

Malato.

Pacifista.

Economo.

Autoritario.

Estratto dell'articolo di Franco Bechis per open.online sabato 2 dicembre 2023.

Non era solo uno sfogo quello di Papa Francesco sul cardinale conservatore Raymond Leo Burke: nel giro di una settimana secondo quanto risulta ad Open sono arrivate all’abitazione romana dell’Eminenza americana due raccomandate. Una con un decreto pontificio che gli ha comunicato la revoca dello stipendio cardinalizio. 

Una da parte dell’Apsa, la società vaticana che amministra anche il patrimonio ex Propaganda Fide, che gli comunica la fine del comodato gratuito dell’appartamento oggi in uso. Per entrambi i provvedimenti la decorrenza è quella del 1° dicembre 2022. 

Era appena il 20 novembre scorso il giorno in cui il Papa aveva – secondo autorevoli indiscrezioni – dato il preavviso di sfratto al cardinale durante una riunione con i Capi Dicastero della Curia Romana: «Il cardinale Burke», aveva motivato il pontefice, «è un mio nemico; perciò gli tolgo l’appartamento e lo stipendio». La frase ha rapidamente fatto il giro del mondo, suscitando scalpore e polemiche soprattutto negli Usa dove la componente conservatrice della Chiesa cattolica è molto forte ed influente.

A qualche giorno di distanza però non c’era stata notizia di atti concreti, e quello del Papa era sembrato più che altro uno sfogo che segnalava certamente i difficili rapporti con quel cardinale. Da ambienti della segreteria di Stato al Papa per altro era stata consigliata una certa prudenza, rimarcando come quella parte della Chiesa americana che certamente sostiene Burke era non solo influente, ma assai ricca e fra le principali donatrici dell’Obolo di San Pietro. 

Quando Papa Francesco però si mette in testa una cosa, non c’è realpolitik in grado di frenarlo. Tanto è che i provvedimenti erano già stati messi in moto e il cardinale che ne era l’obiettivo – stando in questo momento negli Stati Uniti – ne è venuto a conoscenza solo nelle ultime ore, chiedendo ai suoi collaboratori romani di aprire la corrispondenza comunicandone il contenuto.

Nel decreto curiale la revoca dello stipendio è motivata con l’attività di “disunione” della Chiesa che avrebbe lungamente contraddistinto atti, lettere e discorsi del cardinale. Nella lettera dell’Apsa si comunicava la fine al 30 novembre del comodato gratuito dell’appartamento di circa 400 metri quadrati, aggiungendo che se il cardinale avesse voluto restare inquilino sarebbe stato possibile pagando di tasca sua una cifra a metro quadro che avrebbe comportato un affitto superiore ai 10 mila euro mensili. 

Al di là degli atti formali Papa Francesco ha voluto spiegare la sua decisione anche a un giornalista amico incontrato in Vaticano il pomeriggio del 27 novembre scorso. Si tratta del suo biografo britannico Austen Ivereigh, che ha raccontato il contenuto di quell’incontro sul sito wherepeteris.com dopo essere stato autorizzato a farlo dallo stesso Papa.

Nella ricostruzione Francesco nega di avere pronunciato il 20 novembre la frase che gli era stata attribuita: «Non ho mai usato la parola ‘nemico’ né il pronome ‘mio’. Ho semplicemente annunciato il fatto alla riunione dei capi dicastero, senza dare spiegazioni specifiche», ha scritto a Ivereigh. 

Il giornalista britannico spiega che il 27 novembre «nel corso della nostra conversazione, Francesco mi ha detto di aver deciso di togliere al cardinale Burke i privilegi cardinalizi – l’appartamento e lo stipendio – perché li aveva usati contro la Chiesa. Mi disse che, sebbene la decisione non fosse segreta, non intendeva fare un annuncio pubblico, ma che quel giorno (lunedì) era trapelata la notizia». [...]

Il cardinale Burke sfrattato resterà ancora negli Stati Uniti per due o tre settimane. Prima della fine di dicembre sicuramente tornerà a Roma, ma non ha ancora deciso se celebrare il Natale con i suoi fedeli in Wisconsin nel Santuario di Nostra signora di Guadalupe da lui fondato o se invece farlo in Vaticano con tutti gli altri cardinali e il Papa. 

Ai suoi collaboratori ha comunque chiesto di cercare fra le agenzie immobiliari un altro appartamento in affitto non lontano dal Vaticano ma a prezzi più abbordabili. Resterà quindi a Roma sostenuto anche economicamente dai numerosi fedeli americani che lo seguono da anni.

Immigrazionista.

Che squallore la Chiesa a immagine e somiglianza di Casarini. Secondo La Verità, dalle diocesi italiane sarebbero arrivati oltre 2 milioni di euro alla Ong dei migranti. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 29 Novembre 2023

La vicenda – così come l’ha ricostruita Giacomo Amadori su “La Verità” – è diabolicamente multiforme: contro lo Stato italiano, perché emerge una attività insistita e organizzata contro le istituzioni nazionali; contro la giustizia morale, etica e religiosa, per motivi che stanno in se stessi, che non occorre precisare; contro la stessa Chiesa, i cui comandamenti vengono sistematicamente traditi; soprattutto, forse, contro i fedeli, che non magari non sapevano di finanziare, di mantenere coi soldini della carità uno che può vantarsi di campare alla grande, sistemando le sue grane, “senza dover andare a lavorare in un bar”. Che per un comunista è il massimo. E questi prelati, questi sepolcri intonacati, vengono a belare di non violenza? Mentre sponsorizzano Luca Casarini, dedito fin dai tempi giovanili a bivaccare nei centri sociali del Veneto, che si è arrabattato fra occupazioni, assalti alla polizia, condanne, partite iva, fino a che, improvvisatosi armatore non ha trovato una Chiesa e un Papa a sua immagine e somiglianza?

A farla breve, questo scandalo, miserabile, epocale, immane, ma sul quale verrà stesa una cortina narcotica, essendoci di mezzo il Vaticano, consiste in quanto segue: Luca Casarini, ex noglobal ultracomunista, diventa trait d’union tra Chiesa e Sinistra col pretesto dei migranti. Casarini è politicamente indiziato d’aver svolto un ruolo di provocatore verso il governo per conto dei compagni della parrocchietta solidale, e non è un caso che suo sponsor risulti mezza sinistra parlamentare dal Pd al giro Fratoianni, Verdi ed altre propaggini. L’eterno Casarini, in perenne attesa di una candidatura sempre promessa e sempre rimandata. La Chiesa, ricostruisce La Verità, avrebbe versato più di 2 milioni di euro alla Ong di un indagato per immigrazione clandestina. Casarini, colto nelle intercettazioni mentre, ricevuto un bonifico da circa 125mila euro, oggi agli atti del processo, esultava “stasera tappo i debiti e ceno a champagne”.

L’immagine è tutto. Uno così si sarebbe convertito sulla via di Bergoglio, che l’ha mandato al Sinodo di bianco vestito. Se di truffa si sia davvero trattato si vedrà, o forse non si vedrà mai, dati i precedenti e la magistratura scarlatta, dello stesso color porpora dei cardinali: comunque una farsa di sicuro. In mezzo, oltre alla sinistra politica, anche quella ecclesiastica: il cardinal Zuppi; “vescovoni” sparsi; il don Ciotti, santone della sinistra estremista e vippaiola; nel parterre dei garanti non poteva mancare, stiamo sempre agli elementi di indagine ricostruiti da Amadori, in qualità di europarlamentare, il medico pasionario siciliano Pietro Bartolo, anche lui già coi suoi guai, come Vasco Rossi (per dettagli, c’è il nuovo libro di Nicola Porro che vi si sofferma in modo puntiglioso).

Casarini si sarebbe preso più di 2 milioni di euro, soldi delle parrocchie, per il “salvataggio” di 400 migranti. Dove stava qui l’afflato umanitario? Dove la buona amministrazione? Per i magistrati era tutta una partita di giro ma “coperta”: non doveva saperne niente nessuno a cominciare dai fedeli (difatti lo scoop de “la Verità” ha del clamoroso, del devastante). E se pure un compare di Casarini fingeva un rimasuglio di coscienza ammettendo che “non era stato bello tacere sui soldi raccolti su Facebook”, visto che ne arrivavano in quantità manageriale via clero, da parte dei porporati e degli intonacati, nessuno scrupolo.

Possiamo dirlo, che, mettetela come volete metterla, fa schifo? Possiamo dirlo, che questi fedeli, che si trovavano chiusi i portali delle chiese in faccia durante in Covid, una fra le pagine più vili, più mortificanti nella storia della chiesa cattolica, che sono stati abbandonati, discriminati, perfino colpevolizzati dalla cara madre chiesa, poi venivano ingannati col pretesto più infame, quello della pietà, della solidarietà, del bisogno, ad ogni omelia un parroco a pianger miseria, e le vecchiette e i timorati di Dio ad aprire il borsellino, e poi i soldi finivano a Casarini? Ma non si vergognano? Ma davvero hanno potuto reggere bordone a uno al comando di una ONG sotto processo? Realmente gli giravano due milioni e passa di euro con la scusa delle “vite umane” da salvare? Che ci fa la Chiesa dietro o dentro tutto questo?

Quando Ratzinger tolse il disturbo, fu scelto un pontefice con il malcelato incarico di distruggere la Chiesa cattolica: missione compiuta, dopo 10 anni il capo del cattolicesimo non ha voce in capitolo su niente, la sua voce nessuno la calcola (al vertice di Dubai sul riscaldamento globale non può andare perché è raffreddato), le sue missioni diplomatiche sono un rosario di fallimenti persino patetici, la sua autorità morale è a zero, la sua secolarizzazione imbarazzante, a sentir Messa ci vanno ormai in 17 praticanti su 100 credenti, e dopo questa miserabile pastetta saranno, fatalmente, ancora meno. C’è da capire, solo i fanatici e gli stupidi possono continuare come se nulla fosse, tanto più che ad essere fregati, nella fede e nella borsa, erano loro. E se nessuno si fiderà più ad aprire il borsellino, non sarà altro che prudenza e perfino dovere: pagare per imbarcare sempre più clandestini che arricchiscono alcuni, ma distruggono il tessuto sociale, delinquono spesso, e con la nuova jihad partita da Gaza si sono ulteriormente scatenati in tutta Europa?

In tutta questa storia, almeno per come sta emergendo, quello che ne esce meno peggio, pare incredibile, è proprio Casarini, il quale alla fine si conferma semplicemente per l’avventuriero che è sempre stato (se poi volete credergli quando si straccia le vesti per i “fratelli migranti”, o fa la faccia da pretone ben pasciuto al Sinodo, è un problema vostro, e siete irrecuperabili): ma i vescovi, i prelati, gli intonacati sono molto peggio. A cominciare dal vertice assoluto, che è il regista di questa faccenda. Quando Bergoglio dice “cari fratelli e sorelle”, viene un impulso a rispondergli: no, scusa: io non sono tuo fratello. Non sono vostro fratello. E neanche di Casarini. Max Del Papa, 29 novembre 2023

Esclusiva di Panorama in edicola questa settimana – Testo di Giacomo Amadori pubblicato da la Verità mercoledì 29 novembre 2023.

C’è un passo del Vangelo di Giovanni che racconta la pesca miracolosa di Simon Pietro e di altri discepoli nel lago di Tiberiade. Ma duemila anni dopo c’è ancora chi, in nome di Gesù, fa pesche miracolose, in questo caso di migranti, ma soprattutto di euro. È la banda di Luca Casarini, già leader delle Tute bianche e No global, celebre per aver declamato una «dichiarazione di guerra» al mondo alla vigilia del G8 di Genova, anno del Signore 2001. 

Lui e altre cinque persone sono imputati davanti al Tribunale di Ragusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre la violazione delle norme del codice della navigazione è contestata a Casarini e ad altri tre. Il prossimo 6 dicembre inizierà l’udienza preliminare propedeutica al rinvio a giudizio, richiesto dalla Procura. Il lavoro dei pm 

L’inchiesta ruota intorno, è la tesi accusatoria, all’equivoco o, meglio, all’inganno in base al quale gli indagati, schermandosi con l’associazione di promozione sociale (Aps) Mediterranea saving humans (di cui Casarini è fondatore e membro del consiglio direttivo), hanno costituito una compagnia di navigazione triestina, la Idra social shipping, proprietaria del rimorchiatore battente bandiera italiana Mare Jonio, non tanto per soccorrere in mare i migranti a fini umanitari, ma per farne un business. […]

A quanto risulta a Panorama, Mediterranea e le attività di recupero di migranti della Mare Jonio vengono finanziate da numerose diocesi italiane grazie all’impegno, in primis, del presidente della Cei Matteo Maria Zuppi, dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice (l’uomo che avrebbe fatto capire a Casarini e ai suoi il vero senso del Vangelo) e di altri suoi colleghi come il napoletano Domenico Battaglia, all’interno del progetto «Cum-finis, fratelli tutti (come l’enciclica del Pontefice, ndr), alle frontiere di mare e di terra, d’Europa». Un programma sperimentale che, almeno sulle fonti aperte, non è stato pubblicizzato e su cui, all’ufficio stampa della Cei, non hanno saputo darci informazioni.

Eppure ci risulta che, il 26 aprile 2023, proprio la presidenza della Conferenza episcopale, destinataria dell’8 per mille, abbia approvato un finanziamento di 780 mila euro delle arcidiocesi di Napoli e Palermo e delle diocesi di Brescia, Pesaro e Ancona. In pratica avrebbe avallato le erogazioni mensili dell’importo di 65 mila euro previste da questo progetto pilota. E il «sostegno economico determinante di alcuni vescovi» è citato in un dossier interno di Mediterranea sulla relazione con la Chiesa cattolica, dove viene esaltato il ruolo centrale di Zuppi e Lorefice. Probabilmente l’imprimatur è arrivato direttamente da Jorge Mario Bergoglio. 

[…]

Oltre alle somme già citate, nel 2021 a Mediterranea sarebbero stati elargiti altri 219 mila euro, nel settembre 2022 ulteriori 200 mila provenienti dalle arcidiocesi di Napoli e Palermo, soldi che avrebbero consentito di coprire le missioni in mare di quell’anno. Sempre nel 2022, 10 mila euro sarebbero stati erogati dalla diocesi di Modena, 20 mila dalla Fondazione migrantes (organismo pastorale della Cei costituito per «la fraterna accoglienza», l’evangelizzazione e l’integrazione degli stranieri), 30 mila direttamente dal vescovo di Palermo, 115 mila euro dagli enti ecclesiastici (diocesi e fondazione). Nel 2023, 200 mila sarebbero stati versati dalla Caritas, 200 mila di nuovo da Napoli e Palermo, altri 270 mila euro da altre diocesi, 25 mila direttamente dal cardinal Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della commissione delle conferenze episcopali dell’Unione europea. In tutto, più di 2 milioni di euro.

Se si considera che Mediterranea nelle uniche quattro missioni condotte con la Mare Jonio tra il 2022 (gennaio, aprile e giugno) e il 2023 (nell’ottobre scorso) ha condotto in porto 422 migranti in tutto, il recupero di ogni naufrago è valso a Casarini e soci 4.900 euro, una vera pesca miracolosa. 

La «conversione» […]L’ex ateo Casarini ha da tempo completato il suo percorso da incendiario a pompiere e che nel 2019 ha confessato ai giornali la sua svolta spirituale, a cui, però, non ha voluto dare un nome. Ha solo fatto sapere di avere sul comodino l’enciclica Laudato si’ di Bergoglio. Meritandosi quest’anno un posto al Sinodo dei vescovi come «invitato speciale». […] Il 5 agosto 2020, dopo aver ricevuto la lettera con la proposta da Casarini, monsignor Castellucci si scioglie: «Carissimo Luca, grazie!».

[…] Ed ecco l’ispiratissima risposta di Casarini: «Don Erio Grazie. Grazie per quella che tu chiami “una goccia nel mare”, ma che ha in sé una potenza straordinaria. Queste gocce, come le lacrime, sono calde. Si fanno strada nell’acqua resa gelida dall’indifferenza, nell’aria rarefatta dei senza respiro, e si muovono, scendono dagli occhi e rigano il viso, bagnano il mare e per un attimo lo riscaldano, mescolandosi alle onde. Caro Padre, sappi questo: con questa goccia delle tue lacrime, noi riscalderemo l’acqua del Grande Lago di Tiberiade».

Dopo questa concessione al lirismo, Casarini diventa pragmatico e spiega di essere «in assoluta emergenza», ma offre anche una possibile soluzione da realizzare attraverso un’associazione costituita ad hoc: «Se organizziamo il fatto che una volta al mese le parrocchie delle diocesi possano destinare una lacrima, le offerte raccolte dai fedeli, al soccorso in mare […] Provo a mettere giù uno schema di costruzione della associazione Grande Lago di Tiberiade, cosicché tu possa parlarne a Don Matteo Zuppi. Il giorno 10 incontreremo, io, Beppe e Don Mattia, Don Corrado Lorefice. Poi Monsignor Mogavero (Domenico, ndr), poi Don Pennisi (il vescovo Michele, ndr) e tanti altri. Per intessere insieme la rete dei pescatori di uomini. Grazie dunque per questa prima goccia». 

Arrivano i bonifici A questo punto Casarini invia l’iban di Caccia e specifica: «Si tratta del conto di Beppe, per non fare inutili giri di bonifici che farebbero tardare l’arrivo. Ci mettiamo alla ricerca adesso di tutto il resto: entro martedì dobbiamo pagare circa 40 mila euro... ma ce la faremo! Ti abbraccio forte. Luca».

Il fiume di finanziamenti inizia con questa prima goccia, a cui ne seguono molte altre. Il 14 agosto 2020 don Mattia invia lo screenshot della ricevuta di un secondo bonifico bancario da 10 mila euro, disposto dalla diocesi di Brescia. Il 29 settembre, Caccia riceve dall’arcidiocesi di Modena-Nonantola 20 mila euro e chiede di «ringraziare molto Monsignor Castellucci». Il 14 gennaio 2021 giunge una nuova iniezione di cash sempre dalla diocesi di Modena, che tra agosto 2020 e febbraio 2021 invia 45 mila euro. Gli investigatori rilevano «gravi e sistematici elementi di anomalia» nelle movimentazioni bancarie di Caccia.

[…] Per esempio alcune sono state inoltrate alla Idra come «prestiti infruttiferi», pronte per essere richieste indietro dai novelli lupi di mare. In una captazione Caccia ammette che «non è stato bello tenersi i soldi delle donazioni di Facebook e di domandarli in prestito». Al telefono Casarini, destinatario di 6 mila euro di emolumenti mensili, ammette che «’sta roba» è stata messa su da lui, Metz e Caccia e che gli ha permesso di «pagare l’affitto di casa e la separazione» senza dover «andare a lavorare in un bar». 

[…] Ma che le parrocchie siano viste come una gigantesca mucca da mungere è dimostrato da un’intercettazione del 27 novembre 2020. Caccia spiega che «la riunione con i vescovi», organizzata per chiedere «un intervento di emergenza sui debiti» dell’anno, «è andata molto bene» e che «vi erano 16 vescovoni», quindi aggiunge che «partirà il tesseramento, le donazioni permanenti». Il brogliaccio della telefonata prosegue con altri particolari riportati da Caccia: «Tutti hanno detto dobbiamo... poi don Ciotti, che è il capo dei bergogliani, li ha messi in riga, e tutti hanno detto che non è in discussione il fatto che la nave bisogna comperarla e finanziare perché tutti hanno detto che è la loro nave, e noi gli dobbiamo garantire di potere navigare».

Addirittura per qualcuno la Mare Jonio avrebbe dovuto battere bandiera vaticana. Caccia sogna a occhi aperti e si augura che «con questi qua» passi «il concetto di 30.000 euro (forse 3.000, ndr) al mese da ogni diocesi» (in Italia sono 226), che vorrebbe «dire mettersi d’accordo con 100 parrocchie che sottoscrivano per ogni diocesi 30 euro per Mediterranea». 

Caccia, a questo punto, aggiunge: «Siamo già 100.000 sopra la previsione messa sul piano economico di Mediterranea e si è già sui 580 annui».

[…] Ma chi sono stati i garanti di un’operazione tanto rischiosa? Eccoli: gli allora deputati del Pd Matteo Orfini, Gennaro Migliore, Luca Rizzo Nervo, Fausto Raciti, Massimo Ungaro, Giuditta Pini (nel direttivo di Mediterranea), Luca Pastorino, Vincenza Bruno Bossio, il fondatore di Sinistra ecologia e libertà ed ex governatore della Puglia Nichi Vendola, la verde Rossella Muroni, il senatore dem Francesco Verducci e l’ex collega Francesco Laforgia, i già parlamentari (alcuni rieletti nel 2022) di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, Loredana De Petris, Giuseppe De Cristofaro, Erasmo Palazzotto, gli europarlamentari Pietro Bartolo (ex sindaco di Lampedusa) e Massimo Smeriglio, il consigliere regionale lombardo di +Europa-Radicali Michele Usuelli, oltre a Caccia e Metz.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per La Verità - Estratti giovedì 30 novembre 2023.

Le carte dell’inchiesta di Ragusa su Luca Casarini e altre cinque persone, compreso il suo fraterno amico e compagno di lotta Giuseppe Caccia (tutti indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre la violazione delle norme del codice della navigazione), raccontano come in un reality show tutte le manovre di avvicinamento dell’ex capo delle Tute bianche ai vertici della Chiesa. 

Un film che si dipana tra il 2019 e il 2021, sino al sequestro dei cellulari. In un dossier interno dell’associazione di promozione sociale Mediterranea, di cui Casarini e Caccia sono animatori, viene spiegato come sia iniziato tutto. «La relazione tra Mediterranea e la Chiesa cattolica è una cosa che ha lasciato stupiti molti. 

(...) Ma com’è nato tutto ciò? Il merito (o la colpa) di aver avviato questo rapporto è degli arcivescovi delle due città in cui si trovano la sede legale e la sede operativa di Mediterranea, Bologna e Palermo: Matteo Zuppi e Corrado Lorefice.

(...) 

Il punto di svolta nel rapporto tra Mediterranea e la Chiesa è stato poi l’incontro tra Luca Casarini, capomissione di Mediterranea, e l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, avvenuto l’8 aprile 2019. Quell’incontro ha rappresentato una svolta ed è stato epifanico». 

Soprattutto perché l’arcivescovo avrebbe dato un nome ai sentimenti che spingevano l’ex attaccabrighe dei centri sociali a salvare migranti. «Lorefice ha fatto capire a Luca e a tutta Mediterranea che quello che stavamo vivendo era il Vangelo» e «da quel momento Luca e tutti i ragazzi e le ragazze di Mediterranea hanno iniziato ad avere ancora più interesse verso il Vangelo e la Chiesa e hanno chiesto di poter avere un cappellano dentro Mediterranea, cioè un prete che li accompagnasse spiritualmente nel cammino, figura che poi è stata individuata in don Mattia Ferrari a motivo della sua storica amicizia con i ragazzi e le ragazze dei centri sociali bolognesi Tpo e Làbas, che sono tra i fondatori di Mediterranea». 

(...)

La testa di ariete per l’ingresso dentro alle diocesi sono proprio don Mattia e anche don Luigi Ciotti, di Libera. Il primo è in tutte le chat, fa parte del direttivo di Mediterranea, naviga sulla Mare Jonio. E in una conversazione annuncia tutto felice il ritorno in auge della Teologia della liberazione: «Leggete l’omelia del Papa questa mattina. Ancora in versione comunista». 

Anche se ogni tanto, pure don Mattia, qualche dubbio sui suoi «compagni di viaggio» lo nutre: «Mi disse una volta una compagna di Labas: “Ci abbiamo messo anni e anni e finalmente abbiamo distrutto la famiglia”. Giusto per favorire il dialogo con la Chiesa. La famiglia resta un tema su cui tra Chiesa e centri sociali resta una certa distanza». Bontà sua. 

È sempre il cappellano ad ammettere che la loro marcia per occupare il Vaticano, al contrario di quella di Mao, non è stata neppure troppo lunga: «È partito tutto con l’incontro tra Casarini e Lorefice. E sette mesi dopo siamo dal Papa». 

È il 5 dicembre 2019 e quell’incontro non è stato troppo pubblicizzato per preciso volere della Santa Sede.

Dopo pochi giorni, però, la banda festeggia un’altra omelia del Pontefice: «Il succo del discorso di papa Francesco di oggi: Casarini è diventato il ghost writer di papa Francesco», scrive don Mattia. Anche il cardinal Michael Czerny avrebbe notato la stessa cosa. E aggiunge: «Quel santegidiano di Zuppi imparerà che con noi si fa sul serio». Casarini ribatte: «Siamo gesuiti», Don Mattia non ci sta: «Io sono Mediterranea e basta». Casarini rilancia: «Ormai siamo arruolati». Don Mattia: «Tu più che altro nel discorso di oggi sei stato il ghost writer del Papa». 

Casarini è realista: «Tu pensi che abbiamo arruolato noi loro, o il contrario Fratello mio?». Don Mattia: «Siamo noi che abbiamo arruolato loro». Poi fa un passo indietro. «È Gesù di Nazareth che ci ha arruolati tutti». 

Passano un paio di mesi, e un altro indagato, Giuseppe Caccia sembra infastidito di essere trattato come un amante da tenere nascosto: «Posso dire che i nostri amici vescovi bergogliani sono un po’ dei coglioni a decidere di non gestirsi pubblicamente alla grande il rapporto con noi?». Anche in questo frangente Casarini invita alla pazienza: «Tempo al tempo. Vedrai che Czerny non si lascia sfuggire la cosa e la giocherà dal basso».

Nel febbraio 2020 Casarini & C. partecipano a un convegno dei vescovi a Bari, che don Mattia lo definisce «una ciofeca». 

Caccia chiede: «Quando abbiamo appuntamento privato con i “nostri” vescovi?».

Don Mattia avverte: «Zuppi mi ha garantito che a Bari ci farà salutare il Papa. Questa volta ci sono le macchine fotografiche e le telecamere». Non devono più nascondersi. Il cappellano è di ottimo umore: «Non dimenticherò mai Bassetti che ci confonde con Tirrenia e la cena in cui ci siamo imbucati tra vescovi. E i vescovi che vengono a riverire Casarini. E l’ausiliare di Messina che dice: “Grazie, mi avete edificato”. 

E Lorefice che quando gliel’ho riferito, ha detto: “A me lo dici? A me Luca Casarini mi ha evangelizzato. Che poi è quello che dico sempre io: voi mi evangelizzate sempre». Casarini cita solo con le sigle il loro «squadrone»: «Z, P, C, K, M, L, H».

Ovvero i cardinali Zuppi, Czerny, Konrad Krajewski, Lorefice e Jean-Claude Hollerich e i monsignori Domenico Mogavero (sempre che M non stia per il cardinale Francesco Montenegro) e Michele Pennisi. 

«L mi ha detto che è pronto ad andare a parlare con il Papa. Anche P l’ho visto determinato. H bisogna informarlo di tutto, anche C». 

La diffidenza del Vaticano sta per essere definitivamente superata, anche se con un po’ di fatica: «Krajewski gli ha ribadito (a Zuppi, ndr): “Io a loro (cioè a noi) non gli do niente direttamente. Voi fatemi una richiesta scritta in cui è chiarissimo che io i soldi li do a voi e non a loro”. Domani Zuppi chiama Lorefice, Mogavero e Montenegro per procedere con la richiesta scritta».

Arriva il 19 marzo e don Mattia scrive a Caccia e Casarini: «E nel giorno della festa del papà, auguri ai miei due papà politici».

Caccia non è d’accordo: «Festa del papà? Oggi è San Giuseppe!». 

L’11 aprile, il giornale dei vescovi, Avvenire, pubblica una lettera del Pontefice, di risposta a quella di Casarini, che si era lamentato per tutti gli ostacoli incontrati per «poter salvare dalla morte i nostri fratelli e sorelle migranti»: «Luca, caro fratello […] grazie per tutto quello che fate» aveva scritto Francesco. Anticipando il futuro aiuto: «Vorrei dirvi che sono a disposizione per dare una mano sempre.

Contate su di me». 

La banda prende la palla al balzo e usa questo viatico per fare il giro delle sette chiese, nel vero senso della parola.

Dopo un po’ di tempo Casarini ha uno scontro con il leghista Igor Gelarda. 

I due si scambiano querele e l’ex no global scrive: «Questo, dal video che ha fatto, mi pare davvero un coglione, tra l’altro. Su tema oratorio suggerisco di produrre lettera del Papa a me». Poi ci pensa: «Sarà ora che me ne faccia scrivere un’altra… quella ormai ce la siamo venduta in ogni dove». Un interlocutore ricorda l’incipit: «Luca, caro fratello» e Casarini rilancia: «Per la seconda lavoriamo su “Luca, figliolo prediletto” e “Benedico quei santi avvocati che ti proteggono”». 

Quando don Mattia riesce a portare i suoi strani compagni di viaggio davanti al Papa confessa quale sia stato il vero motivo dell’incontro: «Ragazzi devo ancora riprendermi da questi giorni e soprattutto dallo sforzo fisico che ho fatto per avere la faccia da c...

per dire al Papa di mettere i soldi». In un altro messaggio si era vantato: «Come sai so essere un ottimo rompic...».

Per lui le diocesi sono un bancomat: «La Chiesa cattolica sta diventando il nostro Soros». Ovvero il filantropo George che da decenni finanzia Ong in tutto il mondo. 

Ma i fondi stentano ad arrivare e don Mattia inizia a perdere la pazienza. A suo giudizio Zuppi è troppo «prudente» e «vuole la botte piena e la moglie ubriaca»: «Per quanto sia un grande a me con ‘ste lentezze ha un po’ rotto i coglioni». Casarini ha un’idea: «Scrivigli che l’hai visto (in tv, ndr) e che era bello e così gli chiedi». Per Caccia «importante è per noi non restare con coglioni schiacciati in mezzo alla porta mentre vescovi e Krajewski tirano da una parte all’altra».

Don Mattia ha le sue idee sui rallentamenti del cardinale elemosiniere: «Il punto di fondo è questo: appena Francesco saprà che sta bloccando tutto perché crede alle balle della Lamorgese (Luciana, ex ministro dell’Interno, ndr), farà procedere». Ma anche ha l’asso nella manica: «Poi al massimo abbiamo l’ultima carta, quella che ti ha detto Lorefice, facciamo parlare Lorefice con il Papa».

Casarini e i soldi Cei: le intercettazioni lo inguaiano. Lodovica Bulian il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Il caso dei fondi della Chiesa al leader della ong Mediterranea. L'ex no global, indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: "Seimila euro per l'affitto di casa"

È diventato un caso il contenuto negli atti dell'inchiesta della Procura di Ragusa che indaga Luca Casarini e altre cinque persone per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione del codice della navigazione. Il pm ne ha chiesto il rinvio a giudizio e il gip decide il 6 dicembre. «Frasi totalmente inventate» dice Casarini di quelle rivelate da Panorama e dalla Verità che svelano la cornice in cui si sarebbero mossi l'attivista e la ong Mediterranea, con la sua Mare Jonio, nel salvataggio dei migranti. Emerge la relazione tra Mediterranea e l'uso delle donazioni ricevute da parte della Chiesa, come da dichiarazioni agli atti dell'indagine. Casarini viene descritto come «destinatario di 6 mila euro di emolumenti mensili ammette che 'sta roba gli ha permesso di pagare l'affitto di casa e la separazione senza andare a lavorare in un bar».

«È tutto totalmente falso», dice lui mentre minaccia querele. Ma il rapporto con i vescovi sarebbe stato così stretto da indurre uno degli indagati, Giuseppe Caccia, amico di Casarini, a dire che «i nostri amici vescovi bergogliani sono un po' dei co... a non gestirsi pubblicamente il rapporto con noi», in relazione alla mancata «pubblicità» del finanziamento economico alla ong da parte della Chiesa. Dalle intercettazioni emergerebbe una relazione così stretta con i vescovi che la finanziano, che dopo una omelia del Papa si parla di «Casarini come del ghost writer di Francesco». Viene citata anche una lettera di Francesco in risposta a Casarini che lamenta le difficoltà del soccorso in mare. E che inizia così: «Luca, caro fratello». Casarini commenta: «Ora lavoriamo su Luca, figliolo prediletto». «Frasi false, manipolate o al di fuori dal loro contesto», dice lui al Corriere ipotizzando «un'operazione per intimidire il gip che deciderà sul rinvio a giudizio». L'uomo di riferimento per ottenere sostegno sarebbe stato l'attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. E Don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio.

La Procura contesta anche a Casarini di aver ricevuto 125 mila euro dalla compagnia danese Maersk, proprietaria della nave che aveva salvato 27 naufraghi poi presi a bordo dalla Mare Jonio di Mediterranea. L'ipotesi è che il trasferimento dei migranti sia avvenuto per motivi economici e non umanitari. «Non vediamo l'ora di poter dimostrare che è tutto falso», dice Casarini. E rilancia: «Mi spiace di essere lo strumento per quello che è chiaramente un attacco a Papa Francesco». Una delle frasi che restituiscono meglio il vitale sostentamento finanziario alle missioni della ong: «La Chiesa cattolica sta diventando il nostro Soros. Ho avuto la faccia da c di chiedere i soldi a Bergoglio», dice il Cappellano della nave.

Quando i fondi della Chiesa però a volte stentano ad arrivare ci sono tensioni. Per don Mattia, Zuppi è troppo «prudente» e «vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Per quanto sia un grande a me con 'ste lentezze ha un po' rotto i coglioni». Casarini suggerisce: «Scrivigli che l'hai visto (in tv, ndr) e che era bello e così gli chiedi».

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per La Verità -Estratti venerdì 1 dicembre 2023.

L’uomo su cui la banda di Luca Casarini puntava maggiormente era l’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. Era lui la loro arma segreta. O perlomeno i Casarini boys si auguravano potesse diventarlo. Con in prima fila don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio, il rimorchiatore dell’associazione Mediterranea che, a causa di una missione a scopo di lucro, ha portato alla sbarra a Ragusa Casarini, il sodale Giuseppe Caccia e altre quattro persone, accusati a vario titolo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione delle norme del codice della navigazione.

(…) 

All’inizio del progetto, Caccia lo afferma senza esitazioni: «Se la situazione finanziaria diventa drammatica, bisogna andare da Zuppi e Lorefice e battere cassa. Loro hanno soldi e personalmente gli arcivescovi hanno sempre una dotazione di cui dispongono liberamente. Dopo tutta la gratuita pubblicità che gli abbiamo fatto...». Casarini sul punto della «pubblicità» è d’accordo e consiglia a don Mattia: «Scrivi, così la vedono tutti, quella considerazione lì».

Già quando Zuppi era stato creato cardinale i nostri avevano esultato, in particolare don Mattia: 

«Devo dire che comunque in questo nostro progetto che stiamo costruendo abbiamo anche un bel po’ di fortuna (o di Provvidenza): Krajewskij accende la luce a Spin time (noto palazzo della capitale occupato dai centri sociali, ndr), costringendo tutti a riconoscere la positività di quello che Spin time e amici compagni (cioè noi) fanno; Francesco crea cardinali Zuppi, Czerny (Michael, ndr) e Hollerich (Jean-Claude, ndr) che sono nostri supporter; il Vaticano si decide proprio ora, finalmente, ad accettare che la Chiesa possa sostenere i movimenti popolari. Insomma abbiamo un incastro perfetto».

Zuppi si era in effetti messo a disposizione all’inizio del progetto. In un dossier interno di Mediterranea si legge che «nella sua azione pastorale a Bologna ha costruito un’amicizia sincera e profonda con tutte le persone di buona volontà […] e quindi anche con i centri sociali (abbattendo, va detto, muri secolari)». In una chat don Mattia riferisce i suggerimenti di Zuppi per portare avanti il progetto di una nuova nave e di finanziamenti da parte della Chiesa: «Dice che è ottimo parlarne con Krajewskij, Czerny, Hollerich, sia perché tutti e tre sono molto in gamba, sia perché Krajewskij vede quasi tutti i giorni il Papa, Czerny lo vede spesso, e Czerny e Hollerich lo vedranno quasi ininterrottamente per tutto il mese di ottobre per il Sinodo. Quindi è sicuro che gli parleranno del nostro incontro». 

(…)

Infatti vedete che ci aprono praterie». «Noi siamo pronti», ribatte fra’ Tac Casarini. Il prete continua: «Non a caso i vescovi tedeschi stanno finanziando da anni le Ong tedesche e le stanno sostenendo a go go. 

Qui è stato come sempre geniale Zuppi che ha avuto l’idea di proporci per Mediterranea di aggirare la Cei e di passare attraverso Czerny e Hollerich.

L’intelligenza politica di Zuppi è sempre geniale. Abbiamo degli ottimi alleati».

A dicembre don Mattia riporta un dialogo con Zuppi.

«Vi faccio la trascrizione del nostro colloquio telefonico di stasera (registrava, ndr?).

Zuppi: “Ciao Mattia, ascolta. Ho visto il testo di Luca ed è buono, per me va bene. Il problema è che ho parlato con Krajewskij e lui è dubbioso”. Io: “Dubbioso su cosa?”. Zuppi: “Dubbioso sull’operazione. Non si è sbottonato. Ha detto solo che è dubbioso”. Io: “Quindi che si fa?”. 

Zuppi: “Dobbiamo pensarci , ma ce la facciamo, perché da quanto avete detto il Papa era d’accordo con voi. Provo a parlare con Lorefice e gli altri. Dobbiamo trovare il modo per convincere Krajewskij. Bisognerebbe che ricevesse il mandato direttamente dal Papa». Don Mattia fa un esempio: «Tenete presente questo: quando il Papa ha pagato Open arms, non erano passati per Krajewskij, ma erano arrivati direttamente dal Papa».

Per Mediterranea l’ostacolo, in quel momento, sembra essere Krajewskij: «Ormai abbiamo capito che più che altro non è sul pezzo. Uno che si fida della Lamorgese (Luciana, allora ministro dell’Interno, ndr) che gli dice che torneranno le navi militari e che, quando gli dico che all’epoca delle navi militari c’erano anche le Ong, cade dal pero, vuol dire che non è sul pezzo». In un altro messaggio il giudizio è ancora più duro: «Il problema di fondo ragazzi è che Krajewskij è la Carola Rackete del Vaticano. È pazzo. È capace di mosse coraggiosissime, decise in autonomia, come quella di Spin time, e al tempo stesso a seconda di come gli gira può piantare delle grane se non vede che le cose vanno come vuole lui». 

Casarini posta un articolo dell’Espresso sulla presunta «furia sovranista contro papa Francesco» e don Mattia commenta: «Pensa come saranno contenti questi che vogliono fermare Francesco e che invece vedono che i nuovi cardinali sono anche più spinti di lui…

(…)

Ma, nel racconto dei nostri eroi, Zuppi a un certo punto diventa una specie di re Tentenna sebbene, lontano dai riflettori, cerchi di aiutare la banda di Mediterranea. È il momento di far partire le donazioni e i vescovi sono pronti, ma don Matteo, come lo chiama Casarini, non spingerebbe abbastanza: «Tutti loro sono compatti dietro Zuppi. Ma lui evidentemente sta fermo». A suo giudizio il cardinale sarebbe «prudente» e vorrebbe «la botte piena e la moglie ubriaca». Nel 2020 il prete è insofferente: «Capisco che sia incasinato per il coronavirus, però deve darsi una mossa il buon Matteo». Spiega: «L’ho richiamato 7 volte, continuo fino a 70 volte 7 finché non mi risponde. 

A questi qua bisogna tallonarli sennò confondono i tempi della realtà con i tempi biblici». E a un certo punto il cardinale fa perdere la pazienza anche al suo grande fan, don Mattia: «Per quanto sia un grande a me Zuppi con ’ste lentezze ha un po’ rotto i coglioni». Casarini ha un’idea: «Scrivigli che l’hai visto e che era bello e così gli chiedi».

Ma il gruppetto continua comunque a fare il tifo per il futuro presidente della Cei: «Non so cosa pensino gli altri vescovi di fatto è il più lanciato e visibile dei vescovi italiani». 

A un certo punto Zuppi risponde a Casarini e don Mattia commenta: «Si conferma che Luca è il preferito e tutti noi veniamo dopo». L’ex capo delle Tute bianche rassicura gli amici: «Ora manda messaggio a tutto il nostro giro perché partano richieste di soldi a Krajewskij». Un altro messaggio registra i progressi: «Domani Zuppi chiama Lorefice, Mogavero (Domenico, vescovo emerito di Mazara del Vallo, ndr) e Montenegro per procedere con la richiesta scritta». Per la combriccola «i bergogliani fanno gruppetto» e Zuppi lo avrebbe confermato quando, di fronte a nomi di vescovi disponibili ma fuori dal loro giro, avrebbe risposto: «No no, facciamo noi». 

(…)

Giorgio Gandola per La Verità - Estratti venerdì 1 dicembre 2023.

«Il Papa non sapeva dei soldi». La frase percorre le sacre stanze ed è la versione di velluto per proteggere Francesco dalla tempesta perfetta uscita dalle intercettazioni dell’inchiesta della Procura di Ragusa. 

C’è silenzio e c’è imbarazzo in Vaticano dopo le rivelazioni di Panorama e della Verità; le notizie non compaiono negli organi ufficiali ma la copertina del settimanale è la più fotocopiata oltre le mura leonine. 

Quel «il Papa non sapeva dei soldi» pronunciato da un cardinale vorrebbe essere la versione 2.0 del «troncare, sopire» di manzoniana memoria ma diventa a suo modo una velata accusa. E alimenta il sospetto che nella Chiesa vengano prese decisioni così impattanti bypassando l’inquilino con la veste bianca che abita in Santa Marta. Per questo si fa strada l’ipotesi di una verifica interna per capire se ci sono stati coinvolgimenti diretti di alcuni dirigenti vaticani.

La scoperta dei 2 milioni di euro della pesca miracolosa di «fratello Luca» (così il Pontefice chiamava Luca Casarini) suscita infatti il fastidio di parte della Curia romana. Innanzitutto perché svela la destinazione impropria delle elemosine dei fedeli. Napoli, Palermo, Brescia, Pesaro, Ancona: il finanziamento con destinazione finale ambigua arriva dalle diocesi, quindi dalle chiese frequentate dalla gente comune, che durante la Messa ritiene di donare il proprio piccolo contributo al bene della parrocchia, dei poveri, degli indigenti della porta accanto. 

Anche se l’Obolo di San Pietro nel 2022 ha incassato 107 milioni, prende corpo il timore di una disaffezione sempre più grande.

Con un esempio concreto che lascia stupefatti: mentre monsignor Matteo Maria Zuppi, come presidente della Cei, dava la sua benedizione all’operazione Casarini, in una delle diocesi citate (Brescia), l’abate di Montichiari, don Cesare Cancarini, lanciava un appello drammatico: «Rimbocchiamoci le maniche o dovremo chiudere le chiese». Il forte calo delle offerte ha messo il sistema con le spalle al muro anche nella ricca provincia lombarda. Su 20.000 euro di spese di gestione di Santa Maria Assunta, le offerte mensili dei fedeli nel 2023 ammontavano a 6.000 euro, di cui 1.000 per la colletta alimentare e 500 per le candele. 

«Senza contare che ormai, in occasione di battesimi, cresime e funerali non si dona più nulla». Ora quelle stesse famiglie che nonostante tutto continuano a sostenere il loro luogo di culto, sanno che i denari potrebbero finire nelle tasche dell’ex leader delle Tute bianche imputato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Ma in Vaticano, più che dai 2 milioni, lo schiaffo alla buona fede arriva dalla sensazione di essere stati manipolati. Confermata dalle parole del fondatore di Mediterranea e del suo braccio destro Giuseppe Caccia, storico leader politico della sinistra veneziana legato ai centri sociali. Tutti i «vescovoni» - così vengono citati dai due campioni delle traversate umanitarie nelle conversazioni registrate dai pm - hanno letto le frasi delle intercettazioni. «La Chiesa cattolica sta diventando il nostro Soros» (don Mattia Ferrari); «Devo ancora riprendermi dallo sforzo che ho fatto per avere la faccia da culo di dire al Papa di mettere di soldi» (don Mattia Ferrari); «Posso dire che i nostri amici vescovi bergogliani sono un po’ dei coglioni a decidere di non vestirsi pubblicamente alla grande il rapporto con noi?» (Caccia).

(…)

Le trame del Card. Zuppi per aggirare la Cei e dar soldi al pregiudicato Casarini. Giacomo Amadori su Panorama l'1 Dicembre 2023

Il prete di bordo di Mare Jonio: «Per farci finanziare dalla Caritas è passato direttamente dai cardinali Czerny e Hollerich, geniale». I rapporti con i centri sociali e l’esultanza per le nomine progressiste di Francesco. «Krajewskij è la Carola Rackete del Vaticano» L’uomo su cui la banda di Luca Casarini puntava maggiormente era l’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. Era lui la loro arma segreta. O perlomeno i Casarini boys si auguravano potesse diventarlo. Con in prima fila don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio, il rimorchiatore dell’associazione Mediterranea che, a causa di una missione a scopo di lucro, ha portato alla sbarra a Ragusa Casarini, il sodale Giuseppe Caccia e altre quattro persone, accusati a vario titolo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione delle norme del codice della navigazione. Le chat sequestrate dai militari della Guardia di finanza agli atti dell’inchiesta sequestrate dai militari della Guardia di finanza agli atti dell inchiesta mostrano la corsa degli esponenti più progressisti della Chiesa a sostenere Casarini. Un signore che nella sua presentazione a candidato del direttivo di Mediterranea, associazione di cui è fondatore, nell’ottobre 2020 si presentava così: «Mi occupo anche dello sviluppo di percorsi politicospirituali all’interno di alcune strutture della chiesa cattolica, collaborando con i circuiti vicini a Papa Francesco. Sono da sempre arrivista (un lapsus freudiano si potrebbe dire, ndr) dei movimenti di contestazione italiani e non solo e, in seguito a questo impegno politico, ho accumulato 4 anni e 7 mesi di condanne definitive». Un curriculum perfetto per fare da consigliere del Papa, o ghost writer come azzarda l’allegra brigata («Casarini come Scalfari», butta lì Caccia in una chat, facendo riferimento al fondatore di Repubblica, per un periodo compagno di conversari del Pontefice). Già nel gennaio del 2020, due anni prima della nomina, la combriccola è al lavoro: «Probabilmente Bassetti (Gualtiero, allora capo dei vescovi italiani, ndr) darà le dimissioni in primavera e a maggio Zuppi diventerà il prossimo presidente della Cei» ragiona don Mattia. «È chiaro che se lui sarà presidente della Cei per Mediterranea le cose saranno molto più facili. Però non possiamo stare nell’incertezza. Metti che poi a maggio fanno un colpo di mano ed eleggono un altro. A quel punto saremo stati fermi per mesi invano». Caccia, che di politica sa qualcosa, arriva subito al dunque e domanda: «Chi può dare una spinta a Zuppi?». Don Mattia ha già in testa una soluzione che passa per due nomi: «Lorefice (Corrado, arcivescovo di Palermo, ndr) e Montenegro (Francesco, cardinale, ndr)». Ma don Mattia è dubbioso: «Sì sì, infatti dico che non possiamo stare fermi fino a maggio, tra l’altro non è neanche ancora sicuro, anche se è molto probabile, che a maggio Zuppi diventerà presidente. La cosa migliore è che voi in quei giorni vediate Lorefice e Pennisi (Michele, arcivescovo emerito di Monreale, ndr)». L’obiettivo è facilmente intuibile: «Così gli danno la spinta finale», sentenzia don Mattia. Nei momenti bui l’ancora di salvezza è sempre lui: Zuppi. All’inizio del progetto, Caccia lo afferma senza esitazioni: «Se la situazione finanziaria diventa drammatica, bisogna andare da Zuppi e Lorefice e battere cassa. Loro hanno soldi e personalmente gli arcivescovi hanno sempre una dotazione di cui dispongono liberamente. Dopo tutta la gratuita pubblicità che gli abbiamo fatto...». Casarini sul punto della «pubblicità» è d’accordo e consiglia a don Mattia: «Scrivi, così la vedono tutti, quella considerazione lì». Già quando Zuppi era stato creato cardinale i nostri avevano esultato, in particolare don Mattia: «Devo dire che comunque in questo nostro progetto che stiamo costruendo abbiamo anche un bel po’ di fortuna (o di Provvidenza): Krajewskij accende la luce a Spin time (noto palazzo della capitale occupato dai centri sociali, ndr), costringendo tutti a riconoscere la positività di quello che Spin time e amici compagni (cioè noi) fanno; Francesco crea cardinali Zuppi, Czerny (Michael, ndr) e Hollerich (JeanClaude, ndr) che sono nostri supporter; il Vaticano si decide proprio ora, finalmente, ad accettare che la Chiesa possa sostenere i movimenti popolari. Insomma abbiamo un incastro perfetto». Zuppi si era in effetti messo a disposizione all’inizio del progetto. In un dossier interno di Mediterranea si legge che «nella sua azione pastorale a Bologna ha costruito un’amicizia sincera e profonda con tutte le persone di buona volontà […] e quindi anche con i centri sociali (abbattendo, va detto, muri secolari)». In una chat don Mattia riferisce i suggerimenti di Zuppi per portare avanti il progetto di una nuova nave e di finanziamenti da parte della Chiesa: «Dice che è ottimo parlarne con Krajewskij, Czerny, Hollerich, sia perché tutti e tre sono molto in gamba, sia perché Krajewskij vede quasi tutti i giorni il Papa, Czerny lo vede spesso, e Czerny e Hollerich lo vedranno quasi ininterrottamente per tutto il mese di ottobre per il Sinodo. Quindi è sicuro che gli parleranno del nostro incontro».

«La Cei in mano a Casarini». Ecco il colpo grosso per spillare soldi alle diocesi. Giacomo Amadori,François De Tonquédec su Panorama il 02 Dicembre 2023.

Dalle intercettazioni di Ragusa i retroscena sulle trame milionarie. Don Mattia Ferrari: «La conquista è iniziata». Le spese pazze con la carta di credito dell’ex no global La banda di Luca Casarini, il commodoro no global, ha conquistato l’associazione di promozione sociale Mediterranea a piccoli passi, sino a trasformarla in un brand internazionale, usando il suo fiuto per il marketing. Il colpo da maestro è stata la strombazzata conversione e la conquista dei sacri palazzi. Una scalata che ha portato molti soldi nelle casse dell’associazione, ma anche dell’Idra social shipping, la compagnia privata pensata da Casarini e dall’amico Giuseppe Caccia (socio di maggioranza) che arma la Mare Jonio, il rimorchiatore che si offre (anche in cambio di denaro, secondo i magistrati) di recuperare naufraghi in mare o sulle navi altrui. Sino al 2019, nelle tasche dei due, oggi accusati a Ragusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, giravano pochi euro.

Fabio Amendolara per la Verità - Estratti sabato 2 dicembre 2023.

«Tenete presente questo: quando il Papa ha pagato Open Arms, non erano passati per Krajewskij ma erano arrivati direttamente dal Papa». Don Mattia Ferrari, sacerdote cresciuto nella parrocchia di ormigine, popolosa cittadina a 30 minuti da Modena, e salito a bordo della Mediterranea con i gradi da viceparroco dopo aver sposato la causa dell’ex No global Luca Casarini, questo concetto lo ha esplicitato più di una volta nelle chat acquisite dagli inquirenti. Konrad Krajewskij è il cardinale polacco chiamato da Bergoglio a fargli da elemosiniere. 

E a don Mattia, che ha brigato non poco con vescovi e alti prelati pur di far ottenere lauti finanziamenti a Casarini & Co., non deve essere andato giù che la spagnola Open Arms sia riuscita a costruire l’ipotizzato rapporto diretto con papa Francesco. Don Mattia, nonostante la pesante cordata pro Mediterranea guidata nientepopodimeno che da Matteo Zuppi, sembra convinto che il meccanismo del bancomat della Chiesa debba essersi inceppato proprio per colpa di Krajewskij. E il 9 gennaio 2020 lo ricorda in chat: «Open Arms ha ricevuto molti soldi che non sono passati da Krajewskij».

E consiglia di usare tutte le leve per convincere l’elemosiniere: «Se non trovate i soldi tornate da Krajewskij e gli dite: “Abbiamo il progetto, abbiamo l’appoggio dei vescovi sul progetto, e gli fate l’elenco per nome e cognome di Lorefice (Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, ndr), Zuppi, Mogavero (Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, ndr), Marciante (Giuseppe Marciante, vescovo di Cefalù, ndr), Hollerich (Jean Claude Hollerich, cardinale lussemburghese, ndr), eccetera, ma non abbiamo i soldi per la nave. Ci serve il vostro aiuto per farla partire”. A quel punto Krajewskij vi dà i soldi». 

Ma la rivelazione clamorosa, della quale non si trova traccia nei rapporti sociali della Ong spagnola, è questa: «A Open Arms, nel corso di questi quattro anni da che Oscar Camps (il fondatore della Ong, ndr) ha iniziato a frequentare il Papa, pare che il Vaticano abbia dato in totale 2 milioni di euro. Secondo me gliene ha dati meno, ma comunque cifre considerevoli.

Quindi se anche dopo il colloquio con don Matteo (Zuppi, ndr) non avete i soldi, tornate da Krajewskij e lui vi darà i soldi». Don Mattia in quel messaggio sostiene di riportare le parole di una sua fonte in Vaticano. Un cardinale che ha un certo peso specifico: Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena che in quel momento era anche il segretario della Commissione Cei per le migrazioni. 

(…) Inoltre, è di Open Arms la nave che Matteo Salvini da ministro dell’Interno durante il primo governo Conte trattenne in mare per controlli con 147 persone a bordo, nell’estate 2019 (a Palermo è in corso un processo per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio). 

Il 22 aprile 2017 Camps incontra Bergoglio. Ai giornalisti, nella sala stampa vaticana, mostra il suo invito inviato a nome del Papa dalla Prefettura della Casa pontificia. I due si trattengono circa 40 minuti nel Palazzo apostolico, durante i quali Camps ricorda al Papa di avergli donato a Lesbo il giubbotto salvagente di un bimbo profugo morto in mare. All’uscita Camps afferma: «Il Papa è l’unico leader mondiale che si occupa del problema».

La relazione, come sospetta don Mattia, deve aver portato nelle casse di Open Arms «molti soldi». Molti rispetto a quanto è riuscita a incassare Mediterranea, i cui attivisti, ogni qual volta si parla di Open Arms, sembrano provare un certo fastidio. Sempre nel 2020, per esempio, si tiene un incontro tra tale don Nandino (che deve essere vicino ai Casarini boys) e un giornalista di Famiglia cristiana che brigava per la costituzione di una nuova Ong. 

Il ragionamento proposto durante l’incontro, stando a quanto riportato a Casarini, sarebbe stato questo: «Più siamo meglio è, l’importante è mettere navi in mare, dato che quelle di Mediterranea non fanno un c... E poi noi abbiamo Open Arms che ci fa la formazione e ci dà il loro personale in esubero». Il rapporto si sarebbe chiuso con don Nandino che avrebbe ricordato al suo interlocutore che con questa operazione sarebbero stati «responsabili dell’ulteriore spaccatura nelle forze cattoliche». Proprio quelle sulle quali contavano Casarini & Co.

Giacomo Amadori François De Tonquédec per la Verità - Estratti sabato 2 dicembre 2023.

La banda di Luca Casarini, il commodoro no global, ha conquistato l’associazione di promozione sociale Mediterranea a piccoli passi, sino a trasformarla in un brand internazionale, usando il suo fiuto per il marketing. Il colpo da maestro è stata la strombazzata conversione e la conquista dei sacri palazzi. 

Una scalata che ha portato molti soldi nelle casse dell’associazione, ma anche dell’Idra social shipping, la compagnia privata pensata da Casarini e dall’amico Giuseppe Caccia (socio di maggioranza) che arma la Mare Jonio, il rimorchiatore che si offre (anche in cambio di denaro, secondo i magistrati) di recuperare naufraghi in mare o sulle navi altrui. Sino al 2019, nelle tasche dei due, oggi accusati a Ragusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, giravano pochi euro. Fare i no global di professione, sino alla scoperta della pesca miracolosa dei migranti, non era troppo remunerativo. E per capire come fossero messi questi due signori prima di solcare i mari, è utile leggere una chat che si sono scambiati nel novembre 2019. La coppia non ha ancora incontrato il Papa e il progetto del finanziamento dei prelati è ancora di là da venire. L’«armatore» Caccia scrive al suo «dipendente» (ma per gli investigatori amministratore di fatto) Casarini, in difficoltà economiche: «Siamo nella merda finché non si sbloccano i fondi che ha YB (l’associazione Ya Basta, ndr).

Ma lo stipendio può certo essere anticipato. Faccio fare subito 1.500. Ma sull’uso della carta, invece, devi evitare di fare cazzate. Non hai spedito giustificativi e il tabulato è pieno di voci ingiustificabili, che sarà un casino spiegare. 

Così mi metti in forte imbarazzo con gli altri». Casarini prova a ribattere: «Ci sono alcune voci che riguardano arredamento sede/foresteria. Altre che vanno detratte perché non avevo altro per pagare(ad esempio un cinema con i ragazzi). Ma è tutto spiegabile e penso che non superi i 100 euro». 

(...)

Comunque hai ragione. Sono troppo incasinato con i soldi. Devo darmi una regolata una volta per tutte. È che ogni mese pago 280 euro di cambiali. E questo non lo sa nessuno. È tutto troppo precario in come vivo. Devo pensare a come fare». Pure Caccia è depresso: «Non dirlo a me. Io da gennaio devo trovarmi un lavoro con uno stipendio, se no mi mangio fuori tutto e lascio i ragazzi nella merda».

Esattamente un anno dopo, anche grazie all’inizio della mungitura dei vescovi, i due amici scherzano al telefono e Casarini esclama: «O riuscivamo a fare ‘sta roba per pagare l’affitto di casa e la situazione della separazione oppure mi me dovevo andare a lavorare in un bar». Per riuscirci Casarini si è trasformato in una sorta di gesuita laico, pronto ad abbindolare con i suoi discorsi i «vescovoni», come li chiama lui. Parla e scrive come se fosse ispirato direttamente da Gesù e con chi gli fa i complimenti per il suo discorso, definendolo il ghost writer del Papa, lui si schermisce: «Non sono mie le parole… vengono dal nostro capo. È lui il Ghost writer che ci fa dire le cose giuste nel modo giusto. Che arrivano al cuore. Anche del Papa».

La svolta arriva con la visita a Francesco del 6 dicembre 2019 e con la consegna di un crocefisso con il giubbotto di salvataggio che fa innamorare i preti. Don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio, festeggia: «Abbiamo fatto un lavorone. Abbiamo ottenuto un risultato enorme: abbiamo portato molti vescovi e cardinali a sostenere Mediterranea, abbiamo ottenuto che Papa Francesco ha speso parole di elogio enorme per Mediterranea e ha fatto esporre la croce e il giubbotto con il logo di Mediterranea nell’atrio del Palazzo apostolico. Abbiamo ottenuto risultati storici. Siamo a un passo dall’obiettivo di avere una nuova nave».

Per la verità dal 2018 Casarini & C. continuano ad andare per mare con il rimorchiatore Mare Jonio, classe 1972, una nave vecchia, ma «robusta e affidabile». Eppure nelle chat è tutto un discutere di finanziamenti e bonifici e le nostre fonti hanno ricostruito, tra il 2021 e il 2023, donazioni per circa 2 milioni di euro da parte della Cei, della Caritas e delle diocesi. L’assedio ai vescovi bergogliani, progressisti «spinti», giudicati a volte in modo irriconoscente «un po’ coglioni» («nessuno si è spinto a regalare il libro su Med ai propri preti» si lamenta don Mattia) e a quelli «centristi tendenti a sinistra», persino più «coraggiosi», ha portato al risultato di sbloccare gli aiuti da parte delle diocesi, nonostante l’iniziale opposizione del «tesoriere» del Papa, il cardinale Konrad Krajewskij, «dubbioso» sul finanziare le ong per il soccorso in mare e per questo bollato come un «pazzo» dalla combriccola, «la Carola Rackete del Vaticano».

Don Mattia spiega: «Krajewskij non è stato pregiudizialmente ostile all’operazione, lui è perplesso sul fatto di pagare l’acquisto della nuova nave, ma c’è anche un’altra via percorribile. Infatti, se la Chiesa pagasse le prossime quattro missioni di Mediterranea (per un totale di 800.000 euro), Mediterranea potrebbe procedere autonomamente all’acquisto della nuova nave, grazie alle banche». Infatti l’unica condizione sarebbe quella di dimostrare di poter salpare. 

Il sacerdote sa di avere un asso nella manica: «Bisogna anche ricordare che nell’udienza privata con Mediterranea del 6 dicembre scorso (2019, ndr), papa Francesco aveva detto apertamente che lui sosteneva Mediterranea sia nella possibilità di acquisto diretto della nuova nave sia nella possibilità di finanziamento delle prime quattro missioni».

Don Mattia, che come consigliori può contare sul futuro presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, fa sapere che si procederà «con l’inviare le richieste (dei vescovi, ndr) da mandare timbrate a Krajewskij». Alla fine la soluzione si trova: dalle diocesi inviano richieste di denaro per opere caritatevoli a Krajewskij, il quale gestisce l’Obolo di San Pietro, cioè le offerte dei fedeli, e l’Elemosiniere scuce quanto richiesto senza dover pagare direttamente soggetti che evidentemente non gli piacciono troppo come l’ex no global con 4 anni e 7 mesi di condanne passate in giudicato. 

La banda Casarini passa le giornate a fare i conti dei soldi da spillare ai preti con la scusa della «nuova barca» e delle missioni (la prima, come detto, non ancora acquistata, le seconde effettuate con il contagocce). Caccia invia a Casarini lo «schema delle donazioni permanenti» a cui puntano. Il risultato deve essere di 60.000 euro al mese. 

Nei suoi piani, sulle 25.000 parrocchie italiane, punta a coinvolgerne 3.300, con offerte diverse: cento parrocchie dovrebbero donare 100 euro al mese, duecento 50 euro, mille solo 20 euro e duemila appena 10. Così i conti tornerebbero.

Dopo una lunga azione di pressing sulla Chiesa il gruppetto di Mediterranea è convinto di riuscire a passare all’incasso. Il 5 ottobre 2019 don Mattia lancia in chat i cinque step per chiudere la partita. Si punta sull’effetto domino: «Se per dire Caritas internationalis mettesse 100.000 euro, poi Caritas europea ne metterebbe altrettanti e Caritas italiana pure, poi la Migrantes idem e così via. Alla fine si supera il milione di euro». Ma l’incombenza considerata più urgente è quella di «far firmare ai nostri vescovi la garanzia che la Chiesa restituirà» agli istituti di credito «i soldi della nave entro la data stabilita». Una garanzia fideiussoria di cui Panorama ha trovato traccia e che sarebbe stata presentata a Banca etica. 

Il 7 maggio 2020, alla vigilia del suo compleanno, Casarini scrive: «Messaggio di Zuppi: oggi arrivati e oggi fatto bonifico». Don Mattia non sta nella pelle: «E così finalmente, per la prima volta, la Chiesa italiana finanzia il soccorso in mare. Abbiamo fatto la storia ragazzi». 

L’8 maggio un altro vescovo amico, Giovanni Ricchiuti, consiglia a don Mattia come muoversi e spiega di aver scritto alla fondazione Migrantes che il loro direttore generale don Giovanni de Robertis è della partita e avrebbe consigliato a Casarini di scrivere una lettera, sulla falsariga di quella inviata ai vescovi, al presidente della Cei Bassetti (Gualtiero, ndr) e al segretario generale Stefano Russo. Il consiglio è di indicare il costo delle quattro missioni o anche di una sola. L’accerchiamento è quasi completato e tutti hanno iniziato a scrivere al riottoso Krajewskij. Don Mattia a questo punto suggerisce «di alzare la posta per la richiesta alla Cei». E commenta. «La lettera del Papa a Luca ha proprio sbloccato tutto». Quindi ironizza: «Pensate il povero Krajewskij che adesso di troverà subissato di lettere. Dirà: “Perché non gli ho dato tutto subito?”».

Casarini, in quel momento, deve avere il simbolo dell’euro al posto delle pupille, come nei fumetti: «Se fa la somma vengono fuori tre milioni». Don Mattia rilancia: «Ma ora che abbiamo sbloccato il meccanismo la cifra aumenterà. Se addirittura la Cei fa una donazione, dopo è il tana liberi tutti. E per come certi devono far vedere di non essere da meno, fanno partire le richieste anche loro». 

Una previsione che sarebbe stata confermata nei fatti, come ha rivelato l’inchiesta di Panorama in edicola. Il 22 maggio 2020 il vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada invia una missiva al miele a don Ferrari e questi va in brodo di giuggiole: «Il vescovo di Brescia è uno aperto, anche se non è tra i più spinti. Aveva ragione Beppe, dobbiamo sfondare anche tra questi, che forse sono più concreti. Intanto comunque la conquista dei vescovi è cominciata: uno dopo l’altro cadranno nelle mani di Med. Presto la Cei sarà in mano a Luca Casarini». Ma il progetto è persino più ambizioso. In quelle stesse ore l’ex mangiapreti si esibisce in un commovente discorso davanti ad alcuni vescovi e don Mattia commenta: «Pare che l’intervento di Luca abbia sbancato. Ma non poteva che essere così. Era davvero un intervento al livello dei Dossetti (Giuseppe, ndr) e La Pira (Giorgio, ndr)».

Casarini fa il modesto: «Sei troppo buono… semplice intervento da marinaio del lago Tiberiade». Don Mattia insiste: «Come vedete qui stanno arrivando tutti gli elogi dei vescovi per Luca. Al prossimo conclave ce lo giochiamo. Secondo me sei il candidato più quotato». Una battuta, ma forse neanche troppo. Nella Chiesa bergogliana anche Casarini, forse, può ambire al soglio di Pietro.

Salvatore Cannavo' per "Il Fatto Quotidiano" - Estratti domenica 3 dicembre 2023. 

Dopo giorni di attacchi mirati da parte del quotidiano La Verità e di Panorama ieri dal mondo della Chiesa italiana sono giunte le prime risposte. Il quotidiano e il settimanale diretti da Maurizio Belpietro pubblicano infatti da giorni stralci dell’inchiesta che vede Luca Casarini accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina tramite l’associazione Mediterranea dando risalto, però, non al cuore dell’accusa (il presunto traffico operato tra Meditarrenea e la compagnia danese Maersk), ma alle conversazioni riservate tra i vari leader della Ong – oltre a Casarini, Beppe Caccia ,e il parroco di bordo Mattia Ferrari – che riguardano il presidente della Cei, cardinal Matteo Zuppi, altri prelati e lo stesso Papa Francesco. 

LA TESI DI FONDO degli articoli è che i soldi, ingenti, arrivati dalle varie strutture vaticane, dalle diocesi, e garantiti dallo stesso Pontefice, in realtà siano serviti a Casarini e compagni per interessi personali – “se non arrivano i soldi dai vescovi mi tocca lavorare in un bar”, dice Casarini – e che tutta l’operazione sia stata solo un raggiro degli alti prelati di fatto accusati di aver finanziato con milioni Mediterranea e di aver messo, addirittura, “la Cei nelle mani di Casarini”. Ieri il quotidiano della Cei, Avvenire, in modo molto asciutto ha dato una prima risposta. “Accoglienza e integrazione, così la Chiesa aiuta i migranti”, il titolo in prima pagina mentre in un corsivo interno, non firmato, si legge: “La notizia c’è. Ed è buona, in effetti: da duemila anni o giù di lì, accanto ai migranti, la Chiesa c’è. La trovi del resto soprattutto nelle situazioni di maggiore vulnerabilità e debolezza. E quindi c’è accanto a chi cerca asilo e un domani lontano da guerre e ingiustizie”. 

“Le notizie di questa accoglienza e di questa denuncia”, si legge ancora su Avvenire “trovano spesso la prima pagina”. Anche per dare giusta cittadinanza mediatica a chi la vede quasi sempre negata”. “I nostri lettori – e non solo loro – lo sanno. E sanno pure che questa è l’unica trama, in senso letterale, che unisce i vescovi italiani: carità nella verità. Altro sono le inchieste giudiziarie e i processi di cui ci siamo occupati”.  

(...)

Un altro messaggio è giunto invece da Palermo con l’incontro, e l’abbraccio, tra don Luigi Ciotti e lo stesso Casarini. L’occasione è stata data da un convegno organizzato dall’istituto gesuita Pedro Arrupe cui ha partecipato anche il vescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che farebbe parte di quella Chiesa finita “in mano” a Meditarranea. 

Raggiunto dal Fatto Casarini racconta dell’incontro con i due prelati: “Don Luigi mi ha abbracciato e mi ha detto che lui è con noi. Che non dobbiamo avere paura, né farci intimidire. Ha assicurato che Libera contribuirà alle missioni, in maniera più forte di prima. E ha anche detto che dobbiamo tutti stringerci a Papa Francesco, che è il vero obiettivo di ‘un’odio strutturato, organizzato, agito da professionisti della disinformazione e della demolizione della dignità delle persone’”. Abbraccio anche con il cardinal Lorefice che ha invitato Casarini all’incontro di lunedì prossimo in Cattedrale dove ci saranno il Nunzio apostolico di Damasco e l’arcivescovo di Tunisi.

(…)

Fazio chiedeva a Casarini &c che domande fare alla Lamorgese. Giacomo Amadori su Panorama il 3 Dicembre 2023

Nuove rivelazioni nell'inchiesta di Panorama e La Verità sui soldi dei fedeli alle Ong La «banda» in chat rivela che il conduttore ha cercato don Mattia Ferrari e Beppe Caccia per preparare il colloquio con l’allora ministro sui decreti Sicurezza. Il prete: «È un bene che Fabio sia così schierato». E lui per una volta fa una intervista quasi vera. Luca Casarini è il classico personaggio che piace alla gente che piace. Con quella sua faccia stropicciata, i capelli sale e pepe raccolti in uno chignon, l’orecchino e la parlata venesiàn ispirata. Un pregiudicato per svariati reati, condannato a 4 anni e 7 mesi in via definitiva (lo dice lui nel suo cv, come se fosse la prova del suo impegno) che, evidenzia la Guardia di finanza, al momento dell’inaugurazione della Mare Jonio non sta più negli abiti e pronuncia una frase che inquieta gli investigatori. I quali, nella loro informativa, annotano: «Dopo una serie di ripetuti messaggi inviati nel gruppo in cui si discute dei finanziamenti necessari all’acquisto della nave, della formazione e ricerca dell’equipaggio e dei salvataggi in corso nel Mediterraneo centrale, Luca Casarini afferma testualmente: “Compagni, questa è la nuova Genova”, naturalmente in riferimento al G8 del 2001 in cui lo stesso fu il protagonista delle note rivolte». Giocò a fare la guerra e ci scappò il morto. Quindi non può non destare preoccupazione che Casarini paragoni i salvataggi in mare al disastro del capoluogo ligure. Ma forse non ha tutti i torti, se il riferimento è alla luce abbacinante dei riflettori che l’ex leader delle Tute bianche riesce ad attirare sulle sue imprese. Tra i suoi tifosi gente come Fabio Fazio, Checco Zalone, Roberto Saviano, Aboubakar Soumahoro e don Luigi Ciotti. Tutti in gradinata a tifare per lui e la sua ciurma. Anche a costo di esagerare un po’. Nonostante cotanti sponsor, fa specie che questa combriccola, apparentemente a nome dell’associazione di promozione sociale Mediterranea saving humans, sia riuscita a infiltrarsi nella redazione di Fazio in veste di suggeritrice quando il conduttore savonese ha intervistato nello studio di Che tempo che fa niente meno che l’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. È un po’ come se ad Al Capone avessero fatto preparare le domande per il ministro delle Finanze americano. Ovviamente, è bene precisarlo, la nostra è un’iperbole. Altrimenti Casarini & C. , che hanno già minacciato querele su tutti i giornali, potrebbero ulteriormente adontarsi. Ma torniamo al feeling tra l’equipaggio della Mare Jonio e la trasmissione Che tempo che fa, oracolo consultato non certo per prevedere procelle e fortunali. Già a maggio del 2019 l’ex imitatore si unisce a una campagna di Mediterranea e posta un video pro migranti il cui succo è: «Nessuno sceglie dove nascere». Il 25 ottobre dello stesso anno, don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo del rimorchiatore, informa la ciurma che il futuro presidente della Conferenza episcopale italiana il cardinale Matteo Zuppi  presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi, sarà ospite della trasmissione. Due giorni dopo don Mattia è in sollucchero sulla chat di gruppo: «Ragazzi, guardate il video di Zuppi da Fazio». Pausa. «Strepitoso. Ha detto delle robe fortissime». Il 18 dicembre don Mattia annuncia: «Fazio disponibile ad aderire alla campagna per il dissequestro. Domani mattina mi chiama». Questa volta la petizione si intitola «Adesso basta. Basta una firma#Free Mediterranea» ed è stata avviata dopo che la Mare Jonio è stata bloccata in porto e ha ricevuto una multa da 300.000 euro per la violazione del decreto Sicurezza. Il 20 dicembre il prete allega una foto del presentatore e chiosa: «Intanto Fazio mi ha mandato questa». Caccia chiede: «È la nuova campagna “Krajewskij firma l’assegno!”?». L’armatore, con questa battuta, confessa l’ovvio: le catene di Sant’Antonio dei vip servono a fare pressione sulla Chiesa per ottenere i sospirati finanziamenti. Anche Luciana Littizzetto manda uno scatto, suscitando l’entusiasmo dei nostri. L’equipaggio porta in Vaticano un crocifisso con il giubbotto di salvataggio in dono al Papa e Fabiolo ha un attimo di confusione. Poco apprezzato da capitan Caccia: «Quel cazzaro di Fazio è riuscito a dire che il crocifisso al Papa è stato regalato dai profughi di Lesbo». «No, davvero?!» domanda don Ferrari. Che comunica: «Gli mando un messaggio». Caccia annota: «Sta intervistando don Carmelo. Magari dopo la pubblicità rettifica». Il prete ha qualche dubbio: «Ma non so se legge. Comunque gli ho scritto. A lui e all’autrice Monica Tellini». Caccia non sembra apprezzare la puntata: «È spottone per i pranzi di Sant’Egidio». Anche don Mattia boccia il programma: «Mah. Fazio bigotto. Non c’è più religione. A me non piacciono i bigotti». Poi inoltra un Whatsapp: «Grazie Mattia. Lo dico ad autori». E spiega: «Questa la risposta di Monica Tellini, una delle direttrici di Che tempo che fa». Fazio è per i Casarini boys un po’ come Ambra per Gianni Boncompagni. Gli mancano solo auricolare e mossette. Caccia aggiorna gli amici: Ha appena rettificato. #DioTiPerdonaDonMattiaNO». Il prete è contento: «Ho fatto bene Beppe?». Replica dell’ex assessore veneziano: «Benissimo. Seduta in prima fila c’era pure Francesca Bazoli». Ossia la figlia del presidente emerito di Banca Intesa San Paolo e loro finanziatrice. Il don spedisce un messaggio penitente di Fazio: «Ho rimediato e scusa». Il prete commenta: «Poveretto. Quando il capomissione Caccia chiama il soldato Ferrari risponde». A fine gennaio 2020 don Mattia, in occasione dell’uscita di un suo libro firmato con il giornalista di AvvenireNello Scavo, annuncia: «L’1 marzo sono da Fazio. O ci siamo insieme con Nello. Io ho chiesto che si possa far parlare con me qualcun altro di Mediterranea. Mi devono saper rispondere». Caccia lo applaude: «Complimenti Autore! Poi dobbiamo metterci d’accordo per gestione tour di presentazioni». L’8 febbraio arriva il momento di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo: «Mi ha chiamato Fazio dicendomi che domenica sera avrà ospite la Lamorgese» scrive don Mattia. Caccia non è sorpreso: «Lo so. La redazione mi ha chiesto una consulenza sulle domande da farle». Il prete informa i compagni di aver ricevuto a stessa proposta: «Ah ottimo. Lo ha chiesto anche a me. Allora ci tiene proprio. Se gli hai già risposto tu siamo a posto». Replica di Caccia: «No, devo parlare domattina con il suo autore, Arnaldo Greco. Sentiamoci prima, così concordiamo su quali punti insistere». Don Mattia è soddisfatto delle loro cheerleader: «Comunque bene che Fazio e i suoi autori siano così schierati». È utile ricordarlo, con i soldi del servizio pubblico. «È un’ottima cosa» chiosa. Il Viminale dà visibilità all’intervista sul proprio sito: «Immigrazione e sbarchi, sicurezza e percezione della sicurezza: il ministro Lamorgese ospite di Rai 2». Il brain storming equosolidale sembra dare qualche risultato. Fabio-Ambra quasi subito piazza una domanda che ha la risposta incorporata: «Secondo lei i decreti sicurezza (quelli che hanno bloccato la Mare Jonio, ndr) sono da modificare o da cancellare?». Tertium non datur (ovvero il loro mantenimento). Fazio sfoglia gli appunti. E poi sornione chiede, riferendosi ai migranti recuperati da una Ong: «Quindi non le viene in mente di non farli sbarcare?». La Lamorgese accenna un sorrisino complice e risponde secca: «No». continua: laverita.info

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” lunedì 4 dicembre 2023. 

Avvenire, il giornale dei vescovi, per anni si è opposto alle politiche dei porti chiusi sull’immigrazione. Ma oggi scopriamo che lo ha fatto coordinandosi con Luca Casarini e i suoi soci, una ciurma di imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. 

Personaggi che hanno ricevuto sostanziosi finanziamenti dalla Chiesa, erogazioni che avrebbero potuto essere concesse a tante altre organizzazioni umanitarie guidate da incensurati. 

E, anche se il quotidiano manifesta grande serenità, di fronte alla nostra inchiesta a puntate sui soldi concessi all’associazione Mediterranea saving humans e alla compagnia armatoriale Idra social shipping (socio di maggioranza Beppe Caccia, a sua volta indagato e amico fraterno di Casarini), in realtà è palpabile l’imbarazzo.

Che aumenterà con le novità di giornata, riguardanti il rapporto ambiguo dell’equipaggio con i cronisti del quotidiano. Una vera sinergia in chiave antisalviniana. 

Le carte dell’inchiesta di Ragusa mostrano, infatti, come i vescovi e il loro organo di stampa non ce la raccontino giusta e abbiano usato le notizie per fare politica. Una malizia che dal giornale dei monsignori non ci si aspetterebbe.

Casarini & c. […] hanno da anni un rapporto privilegiato con il giornalista di Avvenire Nello Scavo, autore nel 2020 di un libro, Pescatori di uomini, scritto a quattro mani con don Mattia Ferrari, cappellano di bordo della Mare Jonio. Un legame che, già nel 2019, permetteva a don Mattia di poter anticipare a Casarini e al suo socio Giuseppe Caccia, gli articoli che il giornalista avrebbe pubblicato. 

L’ex leader delle Tute bianche, il Capitan Fracassa del G8 di Genova, il 28 aprile 2019, su una chat di gruppo, inoltra un messaggio di Scavo su come gestire alcune notizie. La prima riguardava l’imbarco di don Mattia, con la benedizione dei vescovi, sulla Mare Jonio, in quel momento al centro di una violenta contrapposizione con il governo e in particolare con il ministro dell’Interno Salvini.

Un’informazione che sarebbe stata divulgata in contemporanea con la conferenza stampa indetta da Mediterranea e Idra social shipping per annunciare la partenza da Marsala del rimorchiatore e una denuncia per diffamazione nei confronti del leader leghista. 

«Ciao Luca, stiamo organizzando con Repubblica l’uscita in esclusiva e in tandem circa don Mattia a bordo. Ne ho parlato anche con Beppe Caccia e se sei d’accordo anche tu, siamo dell’idea di dare la notizia con grande rilevanza sull’edizione cartacea di martedì e contemporaneamente sui siti (con foto e brevi filmati).

Questo ci permetterà anche di cogliere di sorpresa il Truce (Salvini, così soprannominato in senso dispregiativo dal Foglio ndr). Visto che sempre martedì (30 aprile, ndr) alle 12 ci sarà, poi, la vostra conferenza stampa a Roma a cui daremo grande rilevanza sia sui siti che il giorno dopo sui giornali (1 maggio, poi il 2 non saremo in edicola). Io avrò anche una dichiarazione del vescovo di Modena che ha autorizzato don Mattia, e questo terrà calma la “gerarchia”. […]» 

[…] Casarini ha una sola obiezione, per non deludere gli altri amici giornalisti: «Carissimo, mi sembra un ottimo schema. Unica cosa che mi viene in mente: se la vostra uscita di martedì rimane centrata su don Mattia e si riesce a non dire che siamo già partiti, ma che “stiamo partendo”, allora così non ci bruciamo la notizia con gli altri media, oggetto poi della conferenza stampa. Sostanzialmente sul cartaceo di mercoledì darai notizia che MJ (Mare Jonio, ndr) è già in zona Sar libica. Che ne pensi? Comunque ovviamente va bene». Caccia commenta: «Ottimo. Le stesse cose che gli ho detto io».

Il 30 aprile, Avvenire titola: «Io don Mattia, a bordo con chi salva vite». E spiega: «C’è anche un sacerdote a bordo della Mare Jonio, che sta per riprendere i soccorsi in mare. “Gesù è vicino ai ragazzi affamati di pace e di giustizia”. La Messa domenicale sulla nave di Mediterranea con i ringraziamenti al suo vescovo Castellucci (Erio, ndr) e ai presuli Zuppi (Matteo, ndr) e Lorefice (Corrado, ndr)». 

Ovvero le menti dell’operazione di sostegno economico alle missioni della Mare Jonio. La Repubblica, con Fabio Tonacci, fa eco al quotidiano della Cei: «La Chiesa sale a bordo della Mare Jonio che salva i migranti. “Il Vangelo è qui”». Sottotitolo: «Sulla nave italiana si è imbarcato anche don Mattia Ferrari, parroco a Nonantola (Modena, ndr). Con il permesso di due arcivescovi. Dirà messa ogni giorno. “Sono il cappellano di bordo, il mio compito è rappresentare vicinanza ai ragazzi di Mediterranea che hanno un gran rispetto per papa Francesco”». Anche in questo caso vengono nominati Castellucci e Lorefice. […]

[…] Ma l’episodio che attira maggiormente l’attenzione degli investigatori, avviene l’estate successiva. È l’8 luglio del 2020 quando il cappellano di bordo annuncia a Casarini: «Venerdì mattina Nello e io siamo stati invitati a un webinar con i rappresentanti della sezione Migranti e rifugiati. Cioè Baggio, Czerny (i cardinali Fabio e Michael, all’epoca sottosegretari della sezione, ndr), Flaminia (segretaria di Crezrny, ndr) e altri cinque loro fedelissimi».

Poi aggiunge: «Siamo d’accordo con Nello di essere durissimi venerdì mattina. Di far capire che o si passa alla concretezza o è la sconfitta per tutti, Chiesa compresa». Infine chiosa: «Per noi è l’occasione per metterli con le spalle al muro». Il 12 luglio, il parroco modenese aggiorna Casarini sull’incontro: «Il webinar è andato molto bene. Nello direttissimo nel dire: “Se volete che io continui il lavoro di inchiesta, dovete finanziare Mediterranea e sostenere le Ong, perché senza di loro che vedono e testimoniano le mie inchieste non potrebbero continuare”». 

Un avvertimento che avrebbe sortito effetti immediati, sempre stando alle parole del cappellano: «Come reazioni, c’è stata quella di Bruno Forte che ha detto che intanto farà subito un versamento dalla sua diocesi». […]

Sempre riguardo al rapporto con i media, le indagini relative alle «operazioni di trasbordo migranti» avvenute il 12 settembre 2020 dalla petroliera danese Maersk Etienne al rimorchiatore alla Mare Jonio rivelano la spregiudicatezza con cui Casarini e i suoi gestiscano le informazioni da veicolare all’opinione pubblica. Dagli atti risulta che a bordo era presente una donna, M.N., nata in Camerun nel 1991, che «riferiva di avere comunicato al personale sanitario della «Mare Jonio» di avvertire forti dolori allo stomaco e a fronte di tale quadro anamnestico, le era stato comunicato […] che sicuramente era incinta e, poiché chi l’aveva visitata non era riuscita a infilarle l’ago della flebo per curare la disidratazione», era stata richiesta la sua «evacuazione medica» dalla nave.

Che non vi fosse certezza sullo stato interessante è confermato da un messaggio inviato dal medico di Mediterranea, Agnese Colpani, neolaureata, a una collega a terra […]. Ma un pancione, in una situazione di stallo, poteva far comodo a Mediterranea e accelerare le procedure di sbarco. 

In quelle ore di concitazione Nello Scavo scrive a Caccia: «Da Pozzallo alcuni sostengono che la ragazza forse non era neanche in gravidanza. Voi avete fatto qualche riscontro medico su questo?». Nel documento inviato ai pm ragusani gli investigatori non annotano nessuna risposta.

In compenso, c’è il messaggio (inviato ad Alessandra Ziniti, giornalista di Repubblica) con cui Caccia cerca di sminuire l’informazione appena ricevuta: «Alessandra, solo per avvertirti che a Pozzallo c’è chi sta mettendo in giro la voce che la donna non sia mai stata incinta, ma solo colpita dal fibroma». E alla domanda se fosse o meno gravida, Caccia replica: «Sì, di quattro mesi. No ciclo da 4 mesi».

Due giorni dopo, il portavoce di Mediterranea, Luca Faenzi, domanda: «Come sta la ragazza incinta ricoverata? Sappiamo qualcosa?». L’ex assessore veneziano risponde: «Dimessa. Si trova all’hotspot col marito. Non era incinta, ma colpita da fibroma uterino. Notizia deve restare riservata tra noi, prima che la destra la possa usare».

Dunque le notizie vanno manipolate o nascoste, con il solo obiettivo di non far emergere verità scomode. In un’ottica tutta politica. Come confessa don Mattia, quando, il 17 novembre 2020, è impegnato nel suo solito lavoro di propaganda e ha appena ottenuto un articolo su Mediterranea sul giornale diocesano e un incontro con il vescovo: «Diciamo che questa è la vostra riconquista di Padova», dice a Casarini e Caccia, ex militanti no global nella città di Sant’Antonio. 

E aggiunge: «Passando per la Chiesa e in questo modo, paradossalmente (questo è il bello della Chiesa di papa Francesco), superando tutti a sinistra». Persino i centri sociali. Casarini approva soddisfatto: «La Chiesa cattolica, quanta saggezza e intelligenza politica in quel vecchio grande partito». Se i preti ragionano così, non deve stupire che i cronisti del quotidiano dei vescovi organizzino imboscate a un ministro della Repubblica. 

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” lunedì 4 dicembre 2023. 

Luca Casarini è il classico personaggio che piace alla gente che piace. Con quella sua faccia stropicciata, i capelli sale e pepe raccolti in uno chignon, l’orecchino e la parlata venesiàn ispirata. Un pregiudicato per svariati reati, condannato a 4 anni e 7 mesi in via definitiva […] che, evidenzia la Guardia di finanza, al momento dell’inaugurazione della Mare Jonio non sta più negli abiti e pronuncia una frase che inquieta gli investigatori.

I quali, nella loro informativa, annotano: «Dopo una serie di ripetuti messaggi inviati nel gruppo in cui si discute dei finanziamenti necessari all’acquisto della nave, della formazione e ricerca dell’equipaggio e dei salvataggi in corso nel Mediterraneo centrale, Luca Casarini afferma testualmente: “Compagni, questa è la nuova Genova”, naturalmente in riferimento al G8 del 2001 in cui lo stesso fu il protagonista delle note rivolte». 

Giocò a fare la guerra e ci scappò il morto. Quindi non può non destare preoccupazione che Casarini paragoni i salvataggi in mare al disastro del capoluogo ligure. Ma forse non ha tutti i torti, se il riferimento è alla luce abbacinante dei riflettori che l’ex leader delle Tute bianche riesce ad attirare sulle sue imprese. Tra i suoi tifosi gente come Fabio Fazio, Checco Zalone, Roberto Saviano, Aboubakar Soumahoro e don Luigi Ciotti.

[…] Nonostante cotanti sponsor, fa specie che questa combriccola, apparentemente a nome dell’associazione di promozione sociale Mediterranea saving humans, sia riuscita a infiltrarsi nella redazione di Fazio in veste di suggeritrice quando il conduttore savonese ha intervistato nello studio di Che tempo che fa niente meno che l’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. 

[…] Ma torniamo al feeling tra l’equipaggio della Mare Jonio e la trasmissione Che tempo che fa, oracolo consultato non certo per prevedere procelle e fortunali. Già a maggio del 2019 l’ex imitatore si unisce a una campagna di Mediterranea e posta un video pro migranti il cui succo è: «Nessuno sceglie dove nascere».

Il 25 ottobre dello stesso anno, don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo del rimorchiatore, informa la ciurma che il futuro presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi, sarà ospite della trasmissione. Due giorni dopo don Mattia è in sollucchero sulla chat di gruppo: «Ragazzi, guardate il video di Zuppi da Fazio». Pausa. «Strepitoso. Ha detto delle robe fortissime». 

Il 18 dicembre don Mattia annuncia: «Fazio disponibile ad aderire alla campagna per il dissequestro. Domani mattina mi chiama». Questa volta la petizione si intitola «Adesso basta. Basta una firma #Free Mediterranea» ed è stata avviata dopo che la Mare Jonio è stata bloccata in porto e ha ricevuto una multa da 300.000 euro per la violazione del decreto Sicurezza.

Il 20 dicembre il prete allega una foto del presentatore e chiosa: «Intanto Fazio mi ha mandato questa». Caccia chiede: «È la nuova campagna “Krajewskij firma l’assegno!”?». L’armatore, con questa battuta, confessa l’ovvio: le catene di Sant’Antonio dei vip servono a fare pressione sulla Chiesa per ottenere i sospirati finanziamenti. 

[…] L’8 febbraio arriva il momento di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo: «Mi ha chiamato Fazio dicendomi che domenica sera avrà ospite la Lamorgese» scrive don Mattia. Caccia non è sorpreso: «Lo so. La redazione mi ha chiesto una consulenza sulle domande da farle». Il prete informa i compagni di aver ricevuto a stessa proposta: «Ah ottimo. Lo ha chiesto anche a me. Allora ci tiene proprio. Se gli hai già risposto tu siamo a posto».

Replica di Caccia: «No, devo parlare domattina con il suo autore, Arnaldo Greco. Sentiamoci prima, così concordiamo su quali punti insistere». Don Mattia è soddisfatto delle loro cheerleader: «Comunque bene che Fazio e i suoi autori siano così schierati». È utile ricordarlo, con i soldi del servizio pubblico. 

«È un’ottima cosa» chiosa. Il Viminale dà visibilità all’intervista sul proprio sito: «Immigrazione e sbarchi, sicurezza e percezione della sicurezza: il ministro Lamorgese ospite di Rai 2». Il brain storming equosolidale sembra dare qualche risultato. Fabio-Ambra quasi subito piazza una domanda che ha la risposta incorporata: «Secondo lei i decreti sicurezza (quelli che hanno bloccato la Mare Jonio, ndr) sono da modificare o da cancellare?».

Tertium non datur (ovvero il loro mantenimento). Fazio sfoglia gli appunti. E poi sornione chiede, riferendosi ai migranti recuperati da una Ong: «Quindi non le viene in mente di non farli sbarcare?». La Lamorgese accenna un sorrisino complice e risponde secca: «No».

In studio scatta la ola. Il presentatore cerca di mettere in difficoltà il ministro sulla conferma del «contestatissimo memorandum» degli accordi con la Libia preparato dal precedente governo giallo-verde. 

E poi arriva la domanda delle domande, con la foto gigante del rimorchiatore di Casarini & C. sullo sfondo: «Martedì il tribunale di Palermo ha dissequestrato la Mare Jonio della Rete Mediterranea» esordisce Fazio. Ma già l’incipit contiene un falso: l’imbarcazione è di una compagnia commerciale privata, la Idra social shipping, che offre agli armatori servizi profumatamente pagati, compresa il prelievo dei migranti a bordo.

Per questo la banda è alla sbarra a Ragusa con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Fazio prosegue: «Ora si spera di rimetterla in mare, però, le multe alle Ong rimangono e sono anche pesanti… a persone che hanno salvato altre persone. Qual è l’atteggiamento suo e del governo nei confronti delle Ong?». Il ministro cincischia un po’ e allora Fazio, in una versione quasi mai vista di intervistatore incalzante, cerca lo sconto per gli amichetti: «Le multe sono 300.000 euro…». 

La Lamorgese concede: «Le modificheremo con i decreti sicurezza». Una promessa che probabilmente, sulla Mare Jonio, fa scattare i brindisi come a Capodanno. Il 10 aprile don Ferrari scrive: «Ragazzi, mi ha chiamato Fazio. Mi chiede di intervenire domenica sera alle 20. Presentazione del libro, coronavirus, migranti e Mediterranea. Domenica sentiamoci che dite quello che devo dire». Casarini si è appena scritto con il Papa e Caccia istruisce il cappellano: «Benissimo. Domani fagli avere anche tutti i materiali sullo scambio epistolare».

Quello tra Casarini e Papa Francesco, in quel momento ancora riservato. Don Mattia fa sapere che pure il cardinale Michael Czerny si è trasformato in portavoce: «Mi ha detto di far preparare a Mediterranea una bozza di comunicato stampa sulla lettera che verrà pubblicata da Avvenire. Dobbiamo mandargliela e Czerny la farà tradurre in altre lingue».

Il 13 aprile Fazio riceve una ricca rassegna stampa sulla questione e risponde a stretto giro con alcuni emoticon sorridenti e una frase da curato di campagna: «State facendo una grande grande cosa per tante persone sfortunate e così facendo state redimendo tanti di noi che per egoismo non vediamo o non vogliamo vedere… ti abbraccio». 

[…] Fazio […] evidentemente viene considerato come un marinaio ad honorem della nave. Passano 20 minuti e Casarini scrive: «Fatto». E soggiunge: «Saviano mi ha scritto dicendo che da Fazio dirà sul blocco Civil fleet». Il giorno dopo Caccia è soddisfatto: «Per il pomeriggio che ne dite di recuperare i passaggi più significativi di Saviano e Scavo da Fazio ieri sera e rilanciarne via Fb un bel montaggio?».

Tutto rigorosamente sulla fiducia, come spiega lo stesso armatore: «Io non li ho visti, ma ho sentito giudizi positivi». L’8 novembre don Mattia assicura di aver riscritto al conduttore: «Dice di dirgli bene la situazione del blocco» racconta. E aggiunge: «C’è speranza che stasera ci citi». Quindi chiede all’amico Beppe Caccia di preparare «un messaggio da girargli». Il mozzo savonese Fazio, come sempre, è pronto a lucidare la tolda della Mare Jonio.

Giacomo Amadori per “la Verità” - Estratti mercoledì 6 dicembre 2023.

Anche i «buoni» nel loro piccolo si incazzano. E fanno le faide. Nelle carte dell’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in cui sono imputati Luca Casarini, il sodale Giuseppe Caccia e altri quattro, emerge come la banda no global abbia epurato dal direttivo dell’associazione Mediterranea tutti quelli che avevano dubbi sulla gestione delle donazioni. 

Come il cuculo, Casarini si è candidato a entrare nel politburo (tra l’altro rivendicando i 4 anni e 7 mesi di condanne definitive) della Ong e poi, una volta entrato nel nido, è riuscito a scalzare chi voleva controllare i maneggi dell’ex leader delle Tute bianche e dei suoi presunti complici. E da Mediterranea sono volati fuori, tra gli altri, Cecilia Strada, figlia di Gino, fondatore di Emergency, e il marito della donna Tommaso Ferdinando Nogara Notarianni, detto «Maso».

I due sono stati sentiti dagli inquirenti «in quanto dall’attività tecnica erano stati rilevati forti contrasti in ordine alla trasparenza dei costi sostenuti dalla Mare Jonio non riportati alla associazione» e «dalle dichiarazioni acquisite sono emersi rilevanti elementi investigativi che hanno corroborato ulteriormente il quadro indiziario, che non lasciano dubbi sulla poca chiarezza posta in essere dal duo Caccia-Casarini nei confronti dell’associazione Mediterranea». 

Per le Fiamme gialle «costoro, con le loro decisioni e iniziative, hanno fatto sì che si affermasse il loro ruolo all’interno della predetta associazione portando come conseguenza le dimissioni dei membri del vecchio direttivo e l’elezione di uno nuovo con soggetti scelti ad “hoc” che perseguissero, senza ostacolare, le loro decisioni».

Gli investigatori annotano anche che Donatella Albini, ex medico di bordo della Mare Jonio, pure lei dimissionaria, «ha riferito che, a seguito di una riunione nel mese di ottobre 2020 del Consiglio direttivo dell’associazione, “furono sollevati problemi di trasparenza proprio in ordine alle modalità di impiego delle risorse raccolte da Mediterranea. In quella occasione erano presenti Erasmo Palazzotto (parlamentare di Leu), Maso Notarianni, Alessandra Sciurba (portavoce di Mediterranea, ndr) e Cecilia Strada».

La Albini avrebbe anche riferito di una riunione del Consiglio di indirizzo di Mediterranea di fine novembre 2020, «nell’ambito della quale una tale Letizia Terna, laureata in filosofia, sollevò perplessità in ordine alla trasparenza dei bilanci» e chiese «chiarimenti sui rapporti tra Mediterranea e Idra», ovvero la compagnia di navigazione di proprietà di Caccia che possiede il rimorchiatore Mare Jonio utilizzato dall’associazione. «In quella occasione fui pubblicamente accusata da Luca Casarini di aver predisposto o indotto l’intervento di Letizia su quell’argomento. Molti appartenenti di Mediterranea a seguito di quelle accuse hanno preso le distanze nei miei confronti» avrebbe affermato la dottoressa.

Le tensioni interne, secondo quanto riportato nell’informativa finale della Guardia di finanza, esplodono nel momento della decisione di andare a recuperare 27 migranti sul mercantile Maersk Etienne, un’operazione che, secondo gli inquirenti, sarebbe stata compiuta a fine di lucro per liberare la nave da quel carico ingombrante che impediva la prosecuzione della navigazione. Per questo lavoro Casarini & C. avrebbero intascato 125.000 euro e successivamente, come rappresentanti della Idra social shipping, avrebbero trattato con altre compagnie armatoriali per offrire lo stesso servizio. 

(…)

La notizia della giovane incinta si rivelerà falsa, ma pazienza. Cecilia Strada nella chat del gruppo direttivo di Mediterranea, dopo le comunicazioni di Metz esterna «i propri timori e dubbi per l’operazione in corso»: «Immagino che i responsabili abbiano valutato pro e possibili contro di questa azione e deciso di conseguenza, d’altronde l’intenzione di andare verso la Maersk era già stata ventilata ieri e non ho considerazioni da aggiungere».

Metz non fa un plissé: «La possibilità era effettivamente stata» prospettata «anche ieri. 

[…] Adesso però c’è una richiesta formale di verifica condizioni medico-sanitarie da parte della nostra equipe, a bordo abbiamo dottoressa e paramedico e una risposta altrettanto formale va data». 

Ma il paramedico, F.G., in realtà ha come unica esperienza quella di aver guidato le ambulanze e allora la Strada, che sente puzza di bruciato, consiglia: «Per la comunicazione pubblica: suggerisco di verificare con Fabrizio come si chiama la sua figura, perché a quanto ne so in Italia non esiste la figura del “paramedico” come, invece, è precisamente normata in altri Stati; penso che se ci vogliamo riferire a chi presta soccorso sulle ambulanze, in Italia sia definita “soccorritore”, ma sicuramente Fabrizio sa meglio di me come chiamarsi».

Caccia è molto arrabbiato sia con la Strada che con la Albini, la dottoressa colpevole di avere sollevato dei dubbi sulle capacità professionali della neolaureata Agnese Colpani, (…)

A scaldare ancora di più gli animi è una comunicazione di Casarini condivisa con il gruppo dirigente di Mediterranea che la Strada commenta in questi termini: «Ho riletto, per la terza volta, la mail odierna di Luca. Raramente ho visto una mail così densa di offese, screditamento degli altri, insinuazioni; e pure cose che non so da dove gli derivino - come il fatto che qualcuno “fin dall’inizio” avrebbe insinuato che lui lo faceva per soldi […]

«E quindi? Conclusioni?

Andate fuori dai coglioni o no?».

Metz al telefono rimarca il ruolo di comando di Caccia e Casarini: «Le decisioni sulla nave e su chi la governa e su chi la faccia partire sono prese da Beppe e Luca». Nella faida i loro nemici sono destinati a uscire sconfitti. 

L’ex presidente vaticina che «circa 10 persone del direttivo attuale usciranno da “Mediterranea”» e che «alcuni di loro tra i quali Alessandra (Sciurba, ndr), Cecilia, Maso, Palazzotto, avrebbero gettato fango su Luca e Beppe e che il loro intervento in assemblea sarà di protesta e causerà la loro fuoriuscita». 

La Strada e Notarianni sono soprannominati dalla «banda» Rosa e Olindo, come i due assassini di Erba, e insultati in modo feroce. Per un suo intervento Maso, il 24 settembre 2020, viene definito un «merdoso sciacallo» e pure «brutta merda infame», uno che dà «pugnalate alle spalle di chi già sta gestendo una situazione difficile».

In chat Caccia e Casarini commentano gli interventi di un direttivo. Casarini inizia: «Nervosetti». Caccia replica: «Io non risponderei alla Strada». Poi Casarini se la prende con chi non si è esposto abbastanza al loro fianco: «Si è sprecato il signor dirigo tutto io. Ma stavolta gli diamo sui denti a ogni cagata. Come sempre Sandrone (Metz, ndr) non ha capito una mazza… ah ah ah». Caccia: «Infatti bisogna non fargliene passare una. E archiviare foto di tutte le porcherie. Perché se voleranno gli stracci faremo un bel dossier con tutte le infamie (e i silenzi di chi doveva fermarle)». 

Casarini: «Certo. Ma vedrai che li disintegriamo. Perché questi non fanno politica, ma solo trame da miserabili. E sul piano umano sono delle merde». Insomma chi oggi ci accusa di dossieraggio era pronto a raccogliere prove contro i nemici. Ma proseguiamo nell’edificante lettura. Caccia è soddisfatto della piega che ha preso il dibattito: «Buona mail di Meco, Ada e Giuliana. Proposto ordine del giorno che non nomina nemmeno Idra. Adesso basterebbe che don Mattia e Arestivo si dicessero d’accordo con loro». Casarini condivide.

L’ex no global manda una missiva che entusiasma Caccia: «Ottima mail fratellone. 

Ti lovvo, come dicono i nostri ragazzi. E poi, per fortuna, un po’ lo siamo rimasti». 

Casarini: «Grazie fratello. Aqui no se rinde nadie!». Qui non ci si arrende, celebre frase di Che Guevara. Caccia chiede di non rispondere all’ex portavoce, Sciurba. E Casarini concorda: «Non ci penso nemmeno. Conferma quello che ho scritto: le vittime sono tra noi, non in Libia». Se il riferimento fosse ai tanto vituperati lager per migranti, sarebbe sconcertante. Ma Casarini, in passato, si è distinto per i commenti sprezzanti nei confronti degli extracomunitari. Come quando, in una manifestazione, gridò «metti ‘sti cazzo di migranti davanti». Figurine da usare, più che persone da tutelare.

Casarini riprende il discorso: «Ora vedrai che la merda la farà Maso e lì salta il palco». E conclude: «Vediamo se completiamo l’opera e facciamo Emergency 2 il remake. Se se ne va anche quel pezzo di merda». Caccia si vanta di aver preparato «una rispostina di Sandrone sui rendiconti», lasciando intendere che Metz sia eterodiretto nei suoi interventi. Casarini chiede: «Hai visto Cecilia?». Replica di Caccia: «Non capisco se c’è una strategia o dementi incattiviti in libertà». Casarini propende per la seconda che ha detto: «Dementi in libertà». Caccia: «Elegantissima la rivendicazione dei 60k raccolti. Noi che cosa dovremmo scrivere? 

E, comunque, se se ne va davvero, sparerà merda nel ventilatore». Casarini: «Beh, con il suo curriculum viene facile ributtargliela in faccia. In tema di uscita da associazioni non la batte nessuno. Ora dobbiamo riallacciare i rapporti con Gino». Ossia Gino Strada, che sarebbe mancato di lì a pochi mesi. Vuoi vedere che i nostri capitani coraggiosi non portano neppure troppo bene.

Passano alcuni giorni e Caccia osserva: «Questi non mollano affatto e vogliono trasformare il 10 (il consiglio del 10 ottobre 2020, ndr) nel vomito dei loro rancori. Vedrai che trappola che ci fanno, se noi non la prepariamo bene». Casarini risponde: «Dobbiamo pregare bene certo. Ma intanto si stanno mangiando la merda». «Pregare?» lo interroga Caccia. «Preparare» si corregge Casarini. «Ormai vado in automatico». Il 6 ottobre Caccia riassume un intervento della Strada: «Con velenoso rancore sino all’ultimo minuto… ma questa è la storia che racconterà: noi due (Caccia e Casarini, ndr) volevamo solo dei prestanome e lei non c’è stata».

Casarini non ha dubbi: «Sarà seppellita dall’oblio. Questo è il suo terrore. Ieri telefonata di Cecilia a Leon, quasi piangendo, “chiudiamola qua, Maso non si ricandida, vi prego di non fargli niente, etc…”». Il 9 ottobre, alla vigilia dell’assemblea che dovrà eleggere il nuovo direttivo, Casarini definisce i rivali «morti che (…) La Strada e il marito sono fuori dal direttivo. Casarini è incoronato responsabile del rapporto con i garanti e della comunicazione. Caccia, in veste di invitato permanente, è promosso coordinatore operativo. Il terzo socio, Metz, rappresentante di Idra. La battaglia è vinta. La guerra non ancora. 

Oggi parte l’udienza preliminare che vede Caccia e Casarini imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Reato aggravato dal profitto ricavato nella vicenda Maersk. Forse Cecilia Strada non aveva tutti i torti a sospettare di Casarini & C.

Casarini fra le avance a Soumahoro e l’appoggio di don Ciotti. Ecco il piano per finanziare le Ong. Angelo Vitolo su L'Identità il 7 Dicembre 2023

Arriva a coinvolgere il nome di don Luigi Ciotti, il sacerdote antimafia, lo sviluppo giornalistico su Luca Casarini che anche oggi il quotidiano La Verità porta avanti circa i contenuti degli atti di inchiesta del processo Mare Jonio a Ragusa – ieri slittata l’udienza preliminare – e fa tornare in primo piano Aboubakar Soumahoro. Nella città siciliana il noto attivista Luca Casarini è indagato con altri (Pietro Marrone, Alessandro Metz, Beppe Caccia, Agnese Colpani e Fabrizio Gatti) per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di violazione del Codice di navigazione. E si difende dal caos mediatico in cui è finito sostenendo che in questo modo si tende a condizionare l’esito del processo.

Perché da giorni Casarini e i suoi compagni della ong Mediterranea sono tirati in ballo anche per quanto emerge dalle intercettazioni sui loro colloqui, che La Verità ricostruisce come un sistema opaco collegato ai finanziamenti della Chiesa cattolica per i progetti di Mediterranea e delle altre ong impegnate nel salvataggio dei migranti.

Al centro di questo sistema la Comece, la Commissione delle conferenze episcopali della Comunità Europea fondata nel 1980 e che riunisce i vescovi europei, dal marzo di quest’anno guidata da Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno.

Snodo dei progetti che puntavano ad ottenere finanziamenti, la Comece ha un segretariato anche a Bruxelles. In occasione dei suoi 40 anni, il cardinale Jean-Claude Hollerich, allora al vertice della Commissione, alla fine del mese di gennaio aveva scritto insieme ai cardinali Czerny e Krajewski una lettera indirizzata a tutti i vescovi e i presidenti delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea e dell’Europa, invitando le Chiese a farsi promotrici di accoglienza nei confronti dei profughi. Un obiettivo prioritario, la tutela dei migranti. Un fine analogo a quello delle ong in campo in Europa.

A partire da quelle italiane, che La Verità dipinge in una corsa contro il tempo per ottenere l’approvazione dei progetti. Con Casarini e i suoi compagni – il cappellano della Mare Jonio Mattia Ferrari come raccordo dei rapporti intessuti nella vicenda alla fine del 2019 – alla ricerca di una conferma del pieno appoggio di don Ciotti ai loro progetti. Appoggio che il sacerdote ribadisce.

A questo punto le intercettazioni pubblicate dal quotidiano evidenziano, oltre che un linguaggio a dir poco assai esplicito, quella che il giornale diretto da Maurizio Belpietro definisce “una faida” tra ong. Con Mediterranea a competere con la ResQ di Milano cui sono vicini Cecilia Strada e l’ex pm Gherardo Colombo (nei colloqui anche “accusata” di aver millantato in comunicazioni di posta elettronica l’appoggio del sacerdote antimafia). Una “corsa contro il tempo” per la quale era necessario arrivare per primi. Adeguatamente sostenuti, oltre che incoraggiati. Tra i propositi, quello di contattare anche Aboubakar Soumahoro, all’epoca non ancora finito nello scandalo di moglie e suocera.

Giacomo Amadori Fabio Amendolara per “la Verità” - Estratti giovedì 7 dicembre 2023.  

Amore contro odio. Il nuovo mantra dell’ex barricadero Luca Casarini fa sorridere chi legge le chat depositate nell’inchiesta sul traffico di migranti clandestini della Procura di Ragusa.

Infatti l’ex leader delle Tute bianche e i suoi coimputati, a partire dall’armatore della Mare Jonio Giuseppe Caccia, sprizzano bile contro chi prova a intralciare la loro scalata dentro al Vaticano. In particolare la nemica giurata Cecilia Strada, irrisa e insultata senza ritegno, o i concorrenti milanesi della ResQ, ossia «la nave della società civile», salpata per la prima volta il 7 agosto 2021. 

 Volti simbolo di questa esperienza, tanto detestata da Casarini & C. sono la solita Strada, l’ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo, il sindacalista della Cgil Corrado Mandreoli, Lia Manzella, vicepresidente della Onlus, e l’ex giornalista di Famiglia Cristiana e presidente Luciano Scalettari. Tutti visti come fumo negli occhi da capitan Fracassa Casarini e soci, i quali, in questa guerra fratricida, a voler credere a quanto scrivevano in chat, potevano contare su un pezzo da 90 dell’associazionismo catto-progressista, il fondatore di Libera don Luigi Ciotti. La marcatura di Mediterranea comincia a fine 2019 quando i milanesi di ResQ iniziano a sondare il terreno.

(...)

L’agenda di don Ciotti è indispensabile anche ad aprire le porte di diocesi che si dimostreranno particolarmente generose nei finanziamenti: «Il nuovo vescovo di Napoli è monsignor Battaglia (Domenico, ndr), grande amico di don Ciotti» sottolinea sempre don Mattia.

(...)

Don Ciotti non lo conosce personalmente (e questa cosa secondo me è già una cosa significativa). Se vogliamo, lui può parlare direttamente con Czerny e con il Papa per superare l’ostacolo. Per quanto riguarda i milanesi, […] ha aggiunto che nella mail che avevano mandato a qualcuno avevano scritto che don Ciotti e Libera aderiscono e lui ha smentito». 

Nelle chat quelli di ResQ sono accusati di inserire «arbitrariamente tra gli aderenti» personaggi a loro insaputa. Ma il prete bellunese non si sarebbe fatto fregare: «Lui ha ribadito loro: “Io sto con Mediterranea. Punto. Se c’è Mediterranea, ci sono anch’io, se non c’è Mediterranea non ci sono neanch’io”. Don Ciotti insomma è con noi. Ha detto, se sentite qualcuno che dice […] che lui aderisce a questa cosa dei milanesi, di smentire». Alla fine don Mattia chiosa: «Questi milanesi comunque non mi sembra che stiano facendo un bel gioco.

Altri messaggi confermano che nella corsa all’oro del Vaticano e nella guerra contro i «milanesi» Casarini & C. hanno potuto contare sul sostegno del fondatore di Libera: «Don Ciotti voleva sapere esattamente cosa deve dire lui a Zuppi per smuovere la cosa.

E mi è tornato a dire che è molto infastidito da questa cosa dei milanesi», rivela don Mattia.

Per la ciurma è una corsa contro il tempo: «Dobbiamo puntare a chiudere entro l’Epifania (del 2020, ndr). Anche perché a metà gennaio potrebbe uscire allo scoperto la piattaforma dei milanesi».

Il cappellano in chat conferma l’impegno del loro nume tutelare: «Mi ha scritto Zuppi dicendo che lo ha chiamato don Ciotti per perorare la causa di Mediterranea. 

Grande don Ciotti». Per il parroco modenese la mobilitazione del collega nativo di Pieve di Cadore è «un buon segnale». Don Mattia per vincere le ultime resistenze dei vescovi punta sul legame tra l’arcivescovo Michele Pennisi e don Ciotti e consiglia di «calcare sull’amicizia» tra i due. 

Il giovane prete marca stretto i concorrenti meneghini e può contare su una rete di informatori degna della Ddr: «Scalettari del progetto dei milanesi ha scritto a don Ivan Maffeis, sottosegretario della Cei per avere soldi. Maffeis ha inoltrato a De Robertis (don Gianni, ndr) e a Soddu (don Francesco, direttore Caritas), che hanno inoltrato a me». Il prete è preoccupato.

«Comunque ragazzi da oggi i nostri rapporti con la Chiesa potrebbero diventare più difficili, se i milanesi, come hanno fatto con don Maffeis, continuano a muoversi in concorrenza con noi per chiedere soldi».

Il 9 ottobre 2020, alla vigilia dell’uscita dal direttivo di Mediterranea della Strada, don Mattia scrive: «Avete visto Cecilia su Facebook che lancia ResQ?». Casarini se la ride: «Hahaha che ridicola». Il mese successivo il prete racconta di essere stato chiamato dal Festival della Migrazione: «La prossima settimana devo partecipare a un incontro con Scalettari e Colombo. Sarà impegnativo. La cosa bella è che in cambio ci danno una bella offerta per Mediterranea». Insomma per denaro ci si può pure confrontare con i «nemici». 

L’arma segreta della combriccola è imbarcare don Ciotti, che, come annuncia Casarini in un messaggio, ha il libretto di equipaggio numero 01/2021, e Aboubakar Soumahoro, non ancora travolto dai problemi giudiziari di moglie e suocera. Sulla chat di gruppo viene rilanciato un articolo intitolato «Don Luigi Ciotti entra a far parte dell'equipaggio 2021 di Mediterranea».

La faida prosegue e don Mattia fa riferimento a quanto appreso da una professoressa bolognese «legata alla sinistra di Cl» e «sostenitrice di Mediterranea, pure essendo di provenienza ciellina»: «Ha ricevuto l’invito da qualcuno a finanziare ResQ e mi ha scritto per avere informazioni, perché ha nasato che per come si presenta qualcosa non va». 

Dopo pochi giorni il cappellano aggiunge benzina sul fuoco: «Io intanto sono riuscito ad ascoltare un estratto dei discorsi dei nostri passati con ResQ. Sentirli parlare delle nostre missioni senza mai nominare Mediterranea è stata una grande ferita». L’11 febbraio 2021 Casarini lascia intendere di non fidarsi neanche di uno dei loro fedelissimi, un giornalista di Avvenire: «Cerchi di capire per favore che cosa sta combinando Nello Scavo, che stasera si fa promotore di ResQ?».

Nove giorni dopo don Mattia aggiorna i suoi: «Mi ha scritto Zuppi di chiamarlo per una cosa di Gherardo Colombo […]. Se questi di ResQ stanno cercando di metterci i bastoni tra le ruote io mi arrabbio senza precedenti. Cecilia Strada, che è dei loro, sa benissimo che il rapporto con la Chiesa lo abbiamo costruito con grande fatica. Mettersi in mezzo senza neanche dirci nulla mina alla base la possibilità di collaborare con loro». Dopo aver parlato con il presidente della Cei, don Mattia conclude: «Ho parlato con Zuppi. Sono andati da lui Gherardo Colombo e Luciano Scalettari. La prima cosa che lui ha chiesto loro è come sono i rapporti con Mediterranea, che loro hanno detto essere buoni. Io gli ho spiegato tutto». Che cosa gli abbia detto non è difficile da immaginare.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per la Verità - Estratti venerdì 8 dicembre 2023.

La Chiesa cattolica, con il progetto Cum-finis, è da anni il più generoso sostenitore delle missioni del rimorchiatore Mare Jonio, quello dei Casarini boys. Ma, quando i vescovi non avevano ancora iniziato a riempire le tasche di questo gruppo di no global attempati con gli oboli dei fedeli, la barca è rimasta a galla anche grazie alla generosità di personaggi come Checco Zalone. 

Capace di far arrivare alla società armatrice, la Idra social shipping, la bellezza di 201.300 euro in un mese per usare la nave e l'equipaggio per le riprese del film Tolo Tolo. 

La prima traccia di questa storia l’abbiamo trovata nell’informativa finale della Guardia di finanza depositata agli atti dell’inchiesta per favoreggiamento di immigrazione clandestina della Procura di Ragusa, procedimento che vede alla sbarra, tra gli altri, Luca Casarini e i due principali soci della Idra, Giuseppe Caccia e Alessandro Metz. Il documento rivela quali fossero le vere finalità di Idra, nata nel 2018, e del rimorchiatore Mare Jonio, acquistato ai tempi dei decreti Sicurezza del ministro Matteo Salvini e del governo giallo-verde.

Ad affrontare l’argomento in un’intercettazione è il socio di maggioranza della Idra, Caccia.

L’armatore parla con una giornalista veneziana e, nella conversazione, per gli investigatori, «spicca la preoccupazione di evitare che sia resa pubblica la stessa esistenza di Idra in modo che rimanga celato alla opinione pubblica il particolare rapporto che questa ha con Mediterranea». In particolare, non deve essere divulgato «lo svolgimento di operazioni prettamente commerciali». E a tal proposito Caccia avrebbe citato, a mo’ d’esempio, «il noleggio di un’altra imbarcazione da lui procurata in favore di una impresa che se ne era servita per l’allestimento di un set cinematografico». 

Tra queste operazioni a fine di lucro c’è quella per cui Caccia, Casarini e altri quattro sono oggi imputati, ovvero il trasbordo di 27 migranti dal mercantile Maersk Etienne in cambio di 125.000 euro (è questa la ricostruzione dell’accusa).

La giornalista domanda il nome della società e Caccia risponde di «lasciare perdere il nome della società, aggiungendo la testuale frase: “Quella la teniamo coperta perché fa anche attività commerciali tra… per finanziare Mediterranea». L’ex assessore veneziano ribadisce di «utilizzare la società per fare delle operazioni, tra virgolette, commerciali che servono a…». La frase si interrompe e l’uomo invita l’interlocutrice a non diffondere la notizia: «Questa parte teniamola riservata». 

Poi, «a patto che resti tra loro due», svela che «Checco Zalone, per finanziarli indirettamente, ha voluto la loro collaborazione al film Tolo Tolo, noleggiandogli la nave con l’equipaggio per le scene dei salvataggi». In un’altra intercettazione Caccia rimarca la differenza tra il loro sistema e quello delle altre Ong. Infatti, precisa che Mediterranea «a differenza delle altre ha un rapporto formalmente commerciale con la società armatoriale (la Idra) che è anomala nella gestione, che condivide gli obiettivi sociali e umanitari» e, per far comprendere meglio il concetto all’interlocutore, «riferisce che come esperienza fatta da loro c’è il noleggio della nave Mare Jonio che ha portato benefici a tutto il meccanismo». Soprattutto al portafogli degli indagati.

Nell’annotazione sui conti bancari di Casarini, in cui si parla, però, dei guadagni di tutta la «banda», si legge: «I rapporti intestati ai soggetti indagati risultano essere alimentati sia dalle somme provenienti dalla Idra social shipping Srl che da bonifici esteri. Le uscite sono rappresentate sia da spese di natura personale che da donazioni alla Mediterranea saving humans Aps che, come detto, procede a sua volta al trasferimento delle stesse alla Idra. Le somme percepite dai soggetti indagati non corrispondono a quanto effettivamente dichiarato anche alla luce del sistematico utilizzo di carte di credito prepagate intestate alla società, ma di fatto utilizzate per fini personali o per far transitare somme provenienti dai conti correnti aziendali».

(…) Sempre Caccia riferisce che «se Mediterranea è riuscita ad andare in mare, è stato possibile farlo grazie al fatto che si sono potute compiere delle operazioni commerciali» e «porta come esempio le scene girate per il film di Checco Zalone, che hanno portato denaro a Mediterranea». 

Quanto? In un’annotazione della Guardia di finanza sui conti bancari di Casarini c’è uno specchietto molto chiaro, in cui sono indicati 4 bonifici inviati dalla Taodue Srl, società di produzione televisiva e cinematografica, datati 10 e 20 giugno (come anticipo), 11 e 15 luglio, rispettivamente da 54.900 euro, 45.750, 50.325 e 50.325, per un totale di 201.300 euro. 

I soldi, secondo quanto scoperto dalla Finanza, sarebbero finiti direttamente sul conto della Idra, la società privata che ha messo a disposizione la barca e l’ha noleggiata. 

Contattato dalla Verità Pietro Valsecchi, fondatore della Taodue e successivamente produttore di Zalone, ricorda la nave, ma non i conti: «È un film di quattro anni fa», dice subito. Poi spiega: «Noi non siamo più nella Taodue e io non mi occupavo di queste cose». Di fronte alle nostre insistenze prova a liquidarci così: «Ma sapete quanti bonifici si fanno per un film?12.000 o 13.000, quindi non so neanche di cosa stiate parlando francamente».

Quando gli viene spiegato, però, che la cifra è importante, Valsecchi cerca di fare due conti al volo e dopo essersi consultato «con un amico» richiama: «Guardi che le cifre che lei mi ha detto non esistono... hanno pagato, così mi han detto, a naso... 40-50.000 euro...».

(…)

I finti "salvataggi" di Casarini nelle foto della Guardia libica. Immortalata la Mar Jonio che imbarca migranti non in pericolo. Il sito Migrant rescue watch accusa: "Operazioni pianificate". Luca Fazzo su Il Giornale l'11 Dicembre 2023

Sei immagini scattate dalla Guardia costiera libica il 18 marzo 2019. Quattro ritraggono la Mar Jonio, la nave della ong italiana Mediterranea, impegnata a prendere a bordo 49 migranti «in pericolo di vita». Due, scattate poco prima, ritraggono lo scafo utilizzato dai migranti: che in pericolo non sembrano affatto, ma vengono ugualmente accolti dalla Mar Jonio per essere trasferiti nel «porto sicuro» più vicino.

Ora, a quattro anni di distanza, quelle immagini sembrano rafforzare gli interrogativi sul ruolo realmente svolto nel Mediterraneo meridionale dalla ong guidata dall'ex leader dei centri sociali veneti Luca Casarini. La ong ora è sotto inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, nell'inchiesta della Procura di Ragusa che ha fatto emergere i finanziamenti per centinaia di migliaia di euro che Mediterranea riceveva da almeno tre Arcivescovi italiani grazie agli appoggi nelle gerarchie vaticane. Al centro dell'inchiesta, un altro trasbordo di migranti: quello avvenuto l'anno dopo quando la Mar Jonio prende a bordo 27 profughi provenienti dal cargo danese Etienne Maersk. Alla ong di Casarini, la Maersk versa 125mila euro.

Il trasbordo del 18 marzo 2019 invece avviene poco al largo delle coste libiche, ed è documentato dalle immagini della Guardia costiera. Si vedono i migranti salire a bordo, e si vede il loro gommone poco prima pienamente gonfio e operativo, non sovraccarico e in normale navigazione.

Le foto scattate dalla Guardia costiera vengono pubblicate sul sito Migrant rescue watch, che accusa Mediterranea di «pianificare operazioni» di salvataggio. È lo stesso sito, gestito dal giornalista canadese Rob Gowans, che in queste ore è stato pesantemente attaccato da una dei principali sponsor politici di Casarini, l'ex deputata dem Giuditta Pini, che lo ha accusato di pubblicare foto riservate della Guardia costiera e soprattutto di essere «il sito ufficiale della mafia libica». È una accusa identica a quella lanciata contro il sito da un altro personaggio di cui in questi giorni si parla molto, don Mattia Ferrari, modenese come la Pini, cappellano di bordo della Mar Jonio e uomo di collegamento tra Casarini e le gerarchie ecclesiastiche. Due anni fa don Ferrari denunciò alla procura di Modena di essere stato «pesantemente minacciato» dal sito che «non è solo portavoce della mafia libica, ma è legato a servizi segreti deviati di diversi Paesi». Otto mesi dopo la Procura chiede la archiviazione del fascicolo, non vedendo traccia di minacce ma di una certa vocazione di don Ferrari alla visibilità mediatica e ad uscire dagli ambiti tradizionali - riservati e silenziosi - del mandato pastorale». Ma il prete modenese si oppone alla archiviazione e ottiene nuove indagini.

Ora lo scontro riparte, con al centro le indagini su Mediterranea della procura di Ragusa, rilanciate anch'esse da Migrant rescue watch. E lo schema sembra ripetersi: l'accusa di essere al servizio di una imprecisata «mafia libica», l'utilizzo di materiale più o meno riservato. Ma senza mai affrontare il tema decisivo: è vero o non è vero quanto viene riportato? Sono vere le foto dei barconi, i soldi dalla Curia, le faide con le altre ong? Luca Fazzo

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” domenica 10 dicembre 2023.

In piena emergenza Covid la banda di Luca Casarini & C. era alla disperata ricerca di soldi per le missioni della nave Mare Jonio (per la verità molto poche), per acquistare un nuovo battello (missione non ancora riuscita) e per pagare gli stipendi (soprattutto quelli dell’armatore Beppe Caccia e di Casarini). Anche perché le spese fatte dai fondatori dell’associazione Mediterranea e della compagnia armatoriale Idra social shipping, secondo gli investigatori, nonostante gli stipendi non stellari (sotto i 2.000 euro) erano notevoli. 

Per esempio in un’annotazione delle Fiamme gialle sui conti correnti di Casarini si legge: «Le somme percepite dai soggetti indagati non corrispondono a quanto effettivamente dichiarato anche alla luce del sistematico utilizzo di carte di credito prepagate intestate alla società, ma di fatto utilizzate per fini personali o per far transitare somme provenienti dai conti correnti aziendali. Al riguardo si precisa che il capo missione della Mare Jonio (in quel momento probabilmente Caccia, ma anche Casarini lo è stato, ndr) e principale indagato riceve mensilmente una media di euro 6.000 a titolo di rimborso spese dalla società armatrice Idra social shipping il cui conto corrente è alimentato da bonifici effettuati dalla Mediterranea saving humans Aps».

Quindi nel 2020 i nostri erano particolarmente affamati di soldi, nonostante il supporto dell’allora arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, il quale, oltre a donare i primi 50.000 euro consigliò alla ciurma come convincere gli altri monsignori («Ha detto di dire ai vescovi di non menzionare Med nella richiesta a Konrad Krajewskij», l’elemosiniere del Papa). 

[…]

E verso novembre un bonifico della Fondazione migrantes portò a 150.000 euro «la quota di soldi avuti dalla Chiesa. Ma i soldi era considerati insufficienti e quando il vescovo emerito Domenico Mogavero portò in dono sulla nave dolci di pasta di mandorle fatti dalle suore benedettine, due bottiglie di vino Marsala («ottime» ci fa sapere Casarini) e un assegno di 1.000 euro, l’ex assessore veneziano Caccia, replica sarcastico: «Con la visita di altri 959 vescovi potremo acquistare la nave nuova». 

Sarà per questo che i due imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e il loro cappellano di bordo, don Mattia Ferrari, puntano, cinicamente, a colpire la sensibilità del Papa. Per esempio, il 14 agosto 2020, don Mattia chiede di poter vedere «la foto del ragazzo crocifisso» e, magari, di poterla mandare ai vescovi.

In realtà si tratta di uno screenshot estrapolato da un breve video in cui si vede il cadavere di un migrante che galleggia in mare con le braccia e le gambe spalancate. Casarini è dubbioso: «Quella foto vorrei mandarla solo al Papa e a Cz», ovvero il cardinale canadese Michael Czerny, particolarmente vicino al Pontefice. «Per i vescovi sto preparando una lettera/report in cui descriviamo». 

Dopo due mesi l’ex leader delle Tute bianche rivela che uso abbia fatto di quel filmato con il morto, mentre sta scrivendo un articolo sulle torture in Libia a danno dei migranti: «Ho un’idea: e se ai vescovi facessimo giungere la mia famosa lettera al Papa, quella in cui parlo del crocefisso in mare con la foto, ovviamente attualizzando ad oggi? Cioè parliamo a uno perché intendano gli altri». Il cappellano risponde che «ci può stare».

Ma tra le mosse promozionali che lasciano interdetti ce n’è un’altra altrettanto macabra. E la lancia don Mattia il 18 aprile 2020: «Ragazzi, un’altra cosa importante, che potrebbe essere molto utile. Visto che sappiamo i nomi delle persone morte e chi sono i loro familiari, potremmo chiedere ai loro familiari o amici di scrivere una lettera al Papa. Sicuramente Czerny gliela porterebbe». Casarini anche in questo caso non è completamente d’accordo: «Troppo complicato ora. Ovviamente questa cosa dei nomi è super riservata». 

Il cappellano non si arrende: «Però teniamola presente come possibilità per il futuro. Il Papa in generale a questa cosa dei nomi tiene moltissimo. Quindi fargli sapere che li sappiamo sarebbe fargli perdere la testa per Med. E una lettera dei familiari, la farebbe appendere su tutte le bacheche». Un marketing cimiteriale, degno dell’agenzia Taffo, in cui i morti diventano figurine da utilizzare per ottenere finanziamenti dalla Chiesa. 

Nelle chat colpiscono molto anche le considerazioni riservate a Papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, morto l’ultimo giorno dello scorso anno. È il 4 maggio 2020 ed è appena uscito nelle librerie tedesche Ein Leben, la biografia di mille pagine del giornalista amico Peter Seewald. Il volume contiene un’intervista intitolata «Le ultime domande a Benedetto XVI», in cui il Pontefice emerito denuncia: «Mi vogliono silenziare». Don Mattia è molto critico: «Avete visto le ultime uscite di Ratzinger? Se c’era ancora lui, altro che il rapporto di Med con la Chiesa». 

[…]

Il cappellano fa presente come sarebbe la situazione senza Francesco: «Non avremmo avuto neanche Zuppi a Bologna, Lorefice (l’arcivescovo Corrado, ndr) a Palermo e Czerny cardinale». Ovvero i bancomat della banda. E sebbene Ratzinger nell’intervista non avesse attaccato Jorge Mario Bergoglio e anzi avesse assicurato che l’amicizia con lui era cresciuta, don Mattia ironizza: «Con i soldi dati ai trans da Papa Francesco gli è venuto un colpo». Anche perché il Papa emerito, nel tomo, sosteneva che il «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» sono il «potere spirituale dell’Anticristo». […] 

Addirittura Don Mattia posta un cuore quando Casarini cita il libro Impero dell’ex «cattivo maestro» padovano Toni Negri e di Michael Hardt, in cui è scritto che «la leggenda di San Francesco d’Assisi» potrebbe «illuminare la vita futura della militanza comunista». 

[…] 

A un certo punto don Mattia punta a diventare presidente di Mediterranea: «Per quanto riguarda la gestione interna di Med, ricordatevi anche che se si va verso l’ipotesi di una mia presidenza […], l’autorizzazione di don Erio è fondamentale perché la nomina possa avere effetto. Nel caso, potete fargli il nome di don Luigi Ciotti come esempio di prete presidente di un’associazione».

Purtroppo per il giovane prelato il via libera non arriva.

Il giovanotto chiede il parere a Czerny, specificando che i membri dell’associazione lo vorrebbero incoronare e che Zuppi e Castellucci pensano che dovrebbe accettare, ma ammette anche che forse non sarebbe un buon presidente. E il cardinale canadese lo gela: «Sono d’accordo con la tua conclusione (no grazie), anche se saresti un buon presidente. Per favore, prova a rifiutare con fermezza». 

Zuppi suggerisce: «Fatti fare onorario. Lui forse non vuole che ti identifichi e prendi responsabilità dirette». Pure il vescovo Castellucci frena l’entusiasmo del candidato: «Anche la Congregazione della dottrina della Fede chiede di declinare, forse è bene che tu chieda a Luca e Beppe di pazientare almeno per un mandato». L’aspirante presidente è scorato: «Non ho capito che sta succedendo».

Casarini non vuole problemi: «Scrivigli che farai così e che ti fidi di loro». Don Mattia si scalda: «Certo non ho scelta. Ma questa modalità di Czerny che non dà spiegazioni e che pare che sia intervenuta la Congregazione per la dottrina della fede mi fa arrabbiare». Caccia prova a smorzare la tensione: «Niente di grave: sanno anche Loro quanto vali e vogliono tenerti a far carriera nella Loro Organizzazione». 

Casarini prova a inserirsi: «Siamo Mediterranea, mica la bocciofila». E il cappellano rincara: «Io tengo più a Mediterranea che a far carriera nella mia organizzazione». E conclude: «Il segretario della Congregazione per la dottrina della fede è un destrone. È contro le Ong». Probabilmente il riferimento è all’attuale vescovo di Reggio Emilia Giacomo Morandi. Caccia, curiale, chiude il discorso: «La Provvidenza farà in modo che tutto funzioni per il meglio».

La Cei in imbarazzo sui soldi a Casarini. Luca Fazzo il 9 Dicembre 2023 su Il Giornale.

I vescovi: "Basta con le accuse diffamatorie". Ma non prendono le distanze dai suoi guai

«L'impegno della Chiesa è combattere l'illegalità con la legalità», fa sapere ieri la Cei, la Conferenza del vescovi italiani. È la prima reazione pubblica dopo una settimana in cui sulla Cei e sul Vaticano sono piovute quotidianamente paginate di rivelazioni sui rapporti con Mediterranea, la organizzazione pro-migranti guidata dall'antagonista Luca Casarini. Combattere l'illegalità con la legalità dicono i vescovi: peccato che il loro beniamino Casarini abbia agito, secondo l'inchiesta della procura di Ragusa, abbondantemente fuori dai sentieri della legge, e che per questo i pm abbiano chiesto di rinviarlo a giudizio per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, aggravato dall'accusa di avere agito «per trarne profitto». Ma la Cei neanche ieri scarica Casarini, continua a parlare di «presunto favoreggiamento», e se la prende con la pubblicazione delle chat «in modo strumentale e improprio», «una pratica che merita sdegno e disappunto».

Disappunto comprensibile, in effetti. Man mano che intercettazioni e accertamenti contabili venivano pubblicati da La Verità, i vescovi si sono trovati costretti a elaborare una linea di difesa. Non devono essere stati giorni facili. Perché nelle carte dell'indagine pullulano di nomi di porporati di primo piano, a partire dal numero 1 della Cei, l'ex arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, registrato ripetutamente mente parla con il cappellano di bordo della Mar Jonio, la nave di Mediterranea. Zuppi appare come lo sponsor di Casarini dentro il Vaticano, il promotore dell'incontro dell'ex antagonista con Papa Francesco. Ma Zuppi non è solo: nelle intercettazioni due vescovi, Mario Grech e Augustus Lojodice, vengono indicati come così legati a Mediterranea che la loro promozione a cardinali viene vissuta dalla ong come un omaggio di Bergoglio.

Della dimestichezza con cui Casarini e i suoi si muovono negli ambienti vaticani, della conoscenza dettagliata che mostrano delle dinamiche ecclesiastiche, il comunicato della Cei non dice nulla. Non spiega perché, nella nobile campagna in soccorso di profughi e migranti («Ogni vita va salvata!») il Vaticano abbia scelto come interlocutore privilegiato proprio la ong di Casarini, senza nemmeno effettuare una due diligence sui suoi conti. Col risultato che i fondi dell'8 per mille sono finiti anche a ripianare le spese private dell'ex leader dei centri sociali.

Sul tema cruciale dei finanziamenti arrivati a Mediterranea, la nota si limita a dire che «la Cei non ha mai sostenuto in modo diretto «Mediterranea Saving Humans» e di avere «accolto una richiesta presentata da due Diocesi in una cornice ampia». Peccato che nelle intercettazioni si apprende che l'idea di fare passare i soldi attraverso i vescovi di Napoli e Palermo per evitare contatti diretti con Mediterranea sia stata partorita proprio dai vertici della Cei; «È stato come sempre geniale Zuppi che ha avuto l'idea di proporci per Mediterranea di aggirare la Cei e di passare attraverso Czerny e Hollerich», ovvero i cardinali Michael Czerny e Jean Claude Hollerich. Ai calcoli della Verità, che parla di due milioni in tutto, la Cei ribatte che si tratta solo di 400mila euro. La sostanza non cambia.

Casarini, la Cei e Avvenire. Una rete tra soldi e potere che ora imbarazza la Chiesa. Invano sul sito di Avvenire si cercherebbe oggi un accenno al caso che sta investendo la Chiesa italiana proprio sul tema dei rapporti con Casarini e il suo staff. Luca Fazzo il 5 Dicembre 2023 su Il Giornale.

«Papa Francesco incontra i soccorritori di Mediterranea, contate su di me», 10 aprile 2020. «Papa Francesco incontra i soccorritori di Mediterranea», 22 marzo 2023. «Il Papa e le Ong dei soccorsi, non ci fermeranno, politiche scellerate», 25 settembre 2023. «Luca Casarini, tra i migranti in mare ho riscoperto il mio essere cristiano», 4 ottobre 2023.

Sono tutti titoli di Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, che raccontano in modo inequivocabile il rapporto privilegiato che la Chiesa, a partire da Papa Bergoglio, ha creato in questi anni con Mediterranea, la ong dell'ex antagonista veneziano Luca Casarini. Ma invano sul sito di Avvenire si cercherebbe oggi un accenno al caso che sta investendo la Chiesa italiana proprio sul tema dei rapporti con Casarini e il suo staff. Rapporti di militanza comune, di propaganda, e di soldi. Con i fondi del Vaticano che finiscono con ripianare i bilanci di Mediterranea, svuotati da Casarini usando per fini personali contanti e bancomat (compresso il cinema con i figli).

A raccontare in diretta la rete tra Casarini e il Vaticano sono le intercettazioni compiute dalla Guardia di finanza per conto della Procura di Ragusa, nell'indagine per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a carico di Mediterranea. Da alcuni giorni il quotidiano La Verità sta dando conto di quanto emerso nelle intercettazioni delle «fiamme gialle». Sono rivelazioni destinate a dare voce a chi accusa da tempo i vertici vaticani di una sorta di deriva movimentista, soprattutto sul tema dell'immigrazione. Anche a costo di legarsi a un personaggio come Casarini, protagonista del sanguinoso G8 di Genova nel 2001. E responsabile, secondo le indagini della procura ragusana, di gravi violazioni delle leggi sugli interventi in mare.

A tessere i rapporti con le gerarchie ecclesiastiche è, insieme a Casarini, un sacerdote: Mattia Ferrari, sedicente «cappellano di bordo» della Mar Jonio, la nave utilizzata da Mediterranea per i soccorsi in mare. È don Ferrari a vantarsi dei risultati raggiunti, «abbiamo ottenuto che Papa Francesco ha speso parole di elogio enorme per Mediterranea, e ha fatto esporre la croce e il giubbotto di Mediterranea nel palazzo apostolico». Dopo un omelia di Bergoglio, il cappellano della Mar Jonio può addirittura proclamare: «Casarini è diventato il ghost writer di Papa Francesco».

Forte dell'appoggio del Pontefice, la ong di Casarini incamera finanziamenti a pioggia, grazie anche ai contatti diretti con due vip vaticani: i vescovi Giovanni Ricchiuti e soprattutto Matteo Zuppi, attuale presidente della Cei. Secondo La Verità, grazie a questi contatti Mediterranea avrebbe incassato circa due milioni di euro in due anni. Non direttamente dal Vaticano, anche per i dubbi dell'elemosiniere Konrad Krajewski, ma attraverso Curie, parrocchie, associazioni territoriali.

Le intercettazioni raccontano dall'interno anche la oculata strategia mediatica dei capi di Mediterranea, basata su rapporti privilegiati con giornalisti di quotidiani e testate televisive. Un giudizio particolarmente severo, nelle informative della Guardia di finanza, viene riservato a un cronista di Avvenire, accusato di fornire un «aiuto ricattatorio nei confronti di alti prelati» per aiutare la Ong di Casarini a raggiungere i suoi obiettivi.

Le accuse che hanno portato Casarini e quattro dei suoi collaboratori sotto processo nascono dall'ingente somma che Mediterranea incassò in cambio del trasbordo sulla Mar Jonio di 27 migranti. Ma è chiaro che a mettere in imbarazzo il Vaticano è anche, e sopratutto, la figura di Casarini, che ancora ad aprile scorso, quando il canale con Bergoglio era già operativo, minacciava così il ministro dell'Interno e un suo predecessore: «Marco Minniti e Matteo Piantedosi ieri a Napoli avete goduto della protezione dei manganelli per fare la vostra passerella. Ma siete responsabili dell'orrore. E i manganelli non vi salveranno per sempre».

Così i vescovi finanziano Casarini (esclusivo migranti). Chiara De Zuani su Panorama il 28 Novembre 2023.

Così i vescovi finanziano Casarini (esclusivo migranti) - Panorama in edicola Diocesi che finanziano con milioni di euro la ong di Luca Casarini; intese comuni in materia di migranti tra UK e Francia; la conquista politica e culturale della Cina in Africa; i Re Magi della politica italiana; il tesoretto quasi inutilizzato per aiutare gli enti a pagare l'energia; il fenomeno in aumento degli adolescenti con problemi neuropsichici e le scarse risorse per aiutarli. Tutto questo nel numero in edicola dal 29 novembre Gli arraffa-oboli Prelati e diocesi, con l'autorizzazione della Conferenza episcopale italiana, finanziano con milioni di euro (che appartengono ai fedeli) Luca Casarini e la sua ong Mediterranea per sostenere il salvataggio di migranti in mare. Peccato che i capi dell'organizzazione siano indagati per aver fatto business sulla pelle dei naufraghi.

C'è un migrante da spostare Mentre l'Europa critica l'accordo tra Italia e Albania per gestire il flusso degli sbarchi nel nostro Paese, Regno Unito e Francia usano il pugno duro verso i richiedenti asilo tramite intese comuni. Intanto la Cina sta già organizzandosi per la "conquista" politica e culturale dell'Africa. I Re Magi La politica italiana ha i suoi Re Magi, la "sacra" triade antigovernativa: Benedetto Della Vedova, Marco Cappato e il segretario +Europa Riccardo Magi. Questi, sovvenzionati dal miliardario George Soros e adorati da Elly Schlein, portano in dono accoglienza ai migranti, carne sintetica, droghe libere ed eutanasia. Se lo Stato non spegne la luce Da quasi dieci anni esiste un "tesoretto" per aiutare gli enti a pagare l'energia. Peccato che in passato nessun governo l'ha pubblicizzato, e così ne sono state utilizzate soltanto le briciole. Adolescenza alla deriva In Italia quasi due milioni di adolescenti manifestano disturbi neuropsichici e malesseri esistenziali, e il fenomeno è in costante aumento. Purtroppo però, i reparti ospedalieri specializzati che dovrebbero prenderli in carico sono troppo pochi, così come mancano posti letto e personale preparato.

Vaticano, Papa Francesco invita Luca Casarini: esplode il caso. Libero Quotidiano l'08 luglio 2023

La XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, convocata in due sessioni distinte a ottobre 2023 e a ottobre 2024, partirà dal testo dell'Instrumentum Laboris in cui sono presenti alcuni dei temi più divisivi nella vita della Chiesa: dall'accesso delle donne al diaconato alla richiesta di passi concreti verso la comunità Lgbt e i divorziati risposati fino alla discussione su come essere più accoglienti con i migranti. Proprio per questo Papa Francesco, per la prima volta, ha aperto il Sinodo sulla sinodalità anche alla partecipazione, e al voto, di chi non è vescovo e di chi non è consacrato. Ci sta. Quello che desta sorpresa, e scalpore, è che tra gli invitati di Bergoglio si sia anche Luca Casarini, capo della ong Mediterranea Saving Humans, che ha utilizzato parole di fuoco contro il nuovo governo sul tema dei migranti sostenendo che "meglio pirati che assassini". 

Ebbene, l'uomo che l'opinione pubblica italiana imparò a conoscere nei drammatici giorni del G8 di Genova del 2001 come leader delle Tute Bianche e che fu tra i promotori della cosiddetta "Dichiarazione di guerra ai potenti dell'ingiustizia e della miseria" che fu letta dal Palazzo Ducale della città ligure, si troverà a discutere con personaggi che rappresentano due visioni opposte della Chiesa. Da un lato, rivela Nico Spuntoni sul Giornale, il prefetto emerito del Dicastero per la Dottrina della Fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller e dall'altra il gesuita padre James Martin, simbolo di chi vorrebbe una linea aperturista sulle battaglie arcobaleno. Di nomina pontificia anche padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e considerato uno dei più stretti collaboratori del Papa, e la teologa spagnola Cristina Inogés Sanz sostenitrice dell'ordinazione femminile. Tra i cardinali anche l'arcivescovo di Washington, Wilton Gregory e l'arcivescovo di Chicago Blase Joseph Cupich, contrari a chi vorrebbe negare l'eucarestia ai politici cattolici pro-choice sull'aborto.

Nell'aprile del 2020, ricorda il Giornale, Papa Francesco aveva inviato una lettera a Casarini che iniziava con un caloroso "Luca, caro fratello, grazie per la pietà umana che hai davanti a tanti dolori. Grazie per a tua testimonianza, che a me fa tanto bene". Bergoglio ci teneva a far sapere di essere "a disposizione per dare una mano sempre" e aggiungeva, rivolto ai volontari della ong: "contate su di me". Le parole di stima del Papa arrivavano in risposta ad una lettera polemica di Casarini che si lamentava di chi rendeva la vita difficile all'attività in mare delle ong.

Estratto dell’articolo di Ferruccio Pinotti per corriere.it il 9  Luglio 2023

Luca Casarini, storico leader dei Centri sociali, dei No Global italiani e dei Disobbedienti del G8 a Genova, oggi in prima linea nell’aiuto ai migranti con la Ong «Mediterranea Saving Humans» (il cui cappellano don Mattia Ferrari è stato oggetto di minacce su cui indaga la Procura di Modena), sarà «invitato speciale» al prossimo Sinodo dei Vescovi che si terrà in ottobre. Il suo nome è stato pubblicato dalla Sala Stampa vaticana nell’elenco dei partecipanti alla prima sessione della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sul tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione» (dal 4 al 29 ottobre).

(...) 

Luca Casarini, da ex leader dei centri sociali e delle rivolte del G8 di Genova a «invitato speciale» di papa Francesco al prossimo Sinodo dei Vescovi: soddisfatto di questo prestigioso ruolo?

«Assolutamente sì, è un grande onore e una grande opportunità per me come persona, ma anche un messaggio forte di sostegno per Mediterranea Saving Humans e per tutto il soccorso civile in mare. Non a caso questo invito deve molto a don Mattia Ferrari, nostro capo missione in quella che chiamerei la navigazione di Mediterranea dentro la Chiesa. Con Mediterranea saremo anche presenti a un incontro con i vescovi dal 18 al 24 settembre promosso dalla Diocesi di Marsiglia, preparatorio a un possibile Sinodo del Mediterraneo cui partecipino realtà laiche e cristiane». 

Al Sinodo dei vescovi che contributo porterà? L’impegno del «nuovo Casarini» con la Chiesa in quali altre direzioni procede?

«Lavoro a stretto contato con la Caritas in Ucraina e anche con Migrantes. Al Sinodo vado per ascoltare, ma certamente mi piacerebbe condividere l’esperienza che sto facendo da 5 anni in mare coi migranti perché parla dello stesso Vangelo di papa Francesco, così come della sua enciclica Fratelli Tutti: ovvero l’importanza di sentire come fratelli sorelle le altre persone e in particolare i più deboli. Quelle che chiamiamo democrazie riservano ad alcune categorie di persone un trattamento diverso e ineguale: sono i più poveri che arrivano dal Sud del mondo, coloro che troviamo in Libia, nei campi profughi turchi finanziati dalla Ue, che muoiono nei naufragi di Cutro e Pylos. Se non affrontiamo seriamente questi temi le democrazie fondate nel dopoguerra sul concetto di diritti umani perdono senso». 

A livello personale, i 5 anni con Saving Humans cosa le hanno insegnato?

«L’elemento dell’amore viscerale, un’espressione che torna spesso nel Vangelo ma anche nel Corano. Mi hanno insegnato poi la necessità dell’impegno personale: di fronte alla sofferenza bisogna agire, non accettare quella che papa Francesco chiama la globalizzazione dell’indifferenza, un mondo costruito su questo livello di diseguaglianze. Ho compreso che nessuno si salva da solo, l’azione deve essere mossa dall’amore, come arma potentissima». 

Cosa rappresenta per lei Papa Francesco? È noto che avete un rapporto di amicizia...

«Papa Francesco rappresenta una Chiesa che sceglie di confrontarsi con il mondo. Che raffigura non un potere, ma un condannato a morte, Gesù Cristo, inchiodato a una Croce. Attraverso quello che facciamo con Mediterranea in mare, con il Papa e con molti Vescovi abbiamo costruito un rapporto solido basato sul fare, sulla concretezza, sulla pratica del soccorso civile in mare. È un rapporto fondato su grande stima, grande amicizia e soprattutto grande fratellanza. Incontrarsi facendo le cose». 

Non teme, con questo invito, di diventare un «caso», un problema più che una risorsa?

«Col Papa, in questi anni, mi sono spesso rapportato. Ci conosciamo bene, il Papa ci ha sempre sostenuto e aiutato anche in questa cosa difficile. Io forse sarò visto un po’ come la “pietra dello scandalo”. Che ci fa uno come me in mezzo ai Vescovi? Ma penso sia invece lo spirito che vuole dare il Papa». 

Ma un tempo era un antagonista nelle piazze: ora ha trovato la fede?

«In questi anni ho scoperto preti di strada, suore nei campi profughi che danno un prezioso aiuto nella gestione , parrocchie che sono luoghi di rifugio per chi è respinto. Gente come don Gallo, don Ciotti, don Vitaliano Della Dala. Al Sinodo sarà un incontrarsi tra persone che fanno le stesse cose. Vivo ormai in Sicilia, ora con Mediterranea siamo fermi a Tarpani in sosta tecnica, ma tra due settimane saremo in mare, intanto mi muovo in Ucraina con Caritas, Sant’Egidio, Salesiani.

Non rinnego la mia storia da antagonista, quanto alla fede mi sento più cristiano che cattolico, vicino a coloro che vivono la fede in Gesù come colui che è stato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. In fondo vengo da una famiglia cattolica di operai, fino a 12 anni frequentavo la Chiesa, poi mi sono allontanato. Bergoglio ha aperto un portone e mi ha avvicinato molto alla Chiesa degli ultimi e dei poveri. Il Papa sta provando a cambiare molte cose. Questo mondo va cambiato. E nella sfida che ci pongono le migrazioni è fondamentale riconoscersi tutti appartenenti alla famiglia umana».

Progressista.

L'ATTACCO AL VATICANO. Javier Milei fa pelo e contropelo a Papa Francesco: “È un comunista”. L’intervista del neo-presidente argentino e le parole contro il pontefice: “Ha affinità con dittatori assassini”. Nicolaporro.it il 4 Dicembre 2023

Pubblichiamo la trascrizione dell’intervista rilasciata dal neo-presidente argentino, Javier Milei, a Tucker Carlson. Molto dure le parole su Papa Francesco.

Penso che lei sia un cattolico, come ha detto, e che difende il principio di vita cattolica. Il Papa attuale è argentino. Il pontefice l’ha criticata e lei lo ha definito “un comunista”. Perché?

Francesco “è un papa che ha una forte ingerenza politica. Ha dimostrato, inoltre, una grande affinità con i dittatori come Castro o Maduro”.

Aspetti: lei crede che il Papa abbia affinità con Raul Castro?

“Sì, ha affinità con i comunisti assassini. In effetti non li condanna. Cioè, è abbastanza accondiscendente con loro. Ed è anche accondiscendente con la dittatura venezuelana. Cioè, è accondiscendente con tutti gli assassini, anche quando sono veri criminali. Questo è un problema. Ma è anche una persona che considera la giustizia sociale un elemento centrale della sua visione.  E “giustizia sociale” significa rubare il frutto del suo lavoro ad una persona e darlo ad un’altra. Quindi implica due cose. La prima è una rapina, e la rapina è contraria ai dieci comandamenti. Cioè, avvallare la giustizia sociale significa avvallare un furto. L’altro problema è che si tratta di un trattamento diseguale davanti alla legge. E non mi sembra che sia giusto che alcuni siano premiati e altri siano castigati da una posizione di potere come quella dello Stato, che ha il monopolio della violenza”.

(…)

Lei prega per avere saggezza e guida?

“Beh, mi sembra che ci sia molta gente che prega per me. Mi fa molto felice che tante persone, per esempio, vanno al muro del pianto, in Israele, a pregare per me. Quindi, mi sento bene. Ma, a parte questo, sono convinto di ciò che sto facendo. La vita senza libertà non ha motivo di essere vissuta. In un certo momento mi hanno chiesto se sono disposto a dare la mia vita per la libertà. E io sono disposto a darla. E cerco di essere testimone di questo stile di vita: vivere in libertà. La schiavitù mi sembra qualcosa di orribile. E io vorrei dare a questa battaglia per la libertà tutto ciò che devo dare, con le conseguenze che ci saranno. Perché fare la cosa giusta non si negozia. Quello che voglio che sia chiaro è che i socialisti hanno le mani sporche di sangue…”

Sta dicendo che i socialisti hanno le mani sporche di sangue perché credono di essere Dio?

“Loro credono di essere Dio. Sono eretici. Nel suo ultimo libro, Hayek l’ha definita “la presunzione fatale”. In un altro articolo, in cui Hayek ha dato una forma più scientifica e profonda dell’idea della mano invisibile di Adam Smith, afferma che per poter applicare il socialismo è necessario che le persone siano onniscienti, onnipresenti e onnipotenti. Cioè, credano di essere Dio. E vi racconterò qualcosa: io non sono Dio. E vi dirò qualcosa di peggio: i politici sono così miserabili e inquietanti, specialmente quelli di sinistra, che sono al di sotto della popolazione media. Chi pretende di essere al pari della popolazione media? Solo quello che ne sta sotto. L’omicidio è un peccato capitale e da esso non può venire niente di buono. Niente di buono può venire dagli omicidi. Niente di buono può venire dai furti. Quindi, tornando a Papa Francesco: perché difende un’agenda che difende l’omicidio, il furto e l’invidia? È strano, no?”

Quindi, perché lo fa?

“Penso che dovrebbe rispondere lui. Perché, alla luce del dibattito, a luce dell’evidenza empirica, è lui che deve dare le spiegazioni sul perché difende un’organizzazione economica che conduce alla povertà, alla miseria, alla violenza, alla decadenza e che, se la lasciassero prosperare, distruggerebbe il mondo. Lo spiegherà lui. Io non sono un socialista. Io sono liberale, un libertario”.

Ecco il romanzo "scorretto" che ispira Papa Francesco. Nel 1907 Robert Hugh Benson descrisse la deriva conformista che si sta materializzando ai giorni nostri. Matteo Sacchi il 15 Novembre 2023 su Il Giornale.

L'ideologia woke, nei suoi aspetti deteriori, e la cancel culture possono sembrare uno sviluppo molto recente della modernità, quasi un'involuzione imprevedibile della cultura occidentale, sacrosanta, dei diritti. Eppure un romanzo edito nel 1907, molto difficile da incasellare in un genere, ma sicuramente con un nocciolo duro di fantascienza distopica, è riuscito a prevedere molti degli aspetti deteriori della cultura omologante e del «bene a tutti i costi» in cui siamo immersi. Si tratta di Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson. Un libro balzato all'onore della cronaca qualche anno fa quando venne ripetutamente citato da Papa Francesco. Il Pontefice identificò nel libro di Benson un potente monito contro l'omologazione: «Lo scrittore ha visto questo dramma della colonizzazione ideologica e lo descrive in quel libro».

Allora vale la pena compulsare le pagine di Benson per capire quanto siano profonde le radici dello sgretolamento culturale in cui ci troviamo e come fossero tutt'altro che imprevedibili.

Ma partiamo dall'autore e da quel minimo di biografia che consente di spiegare l'opera. Robert Hugh Benson (1871-1914) era il quarto e ultimo figlio di Edward White Benson, pastore anglicano e Cancelliere della Cattedrale di Lincoln e in seguito arcivescovo di Canterbury, massima autorità della Chiesa d'Inghilterra. Veniva quindi dal livello più alto dell'élite britannica e da una famiglia di ampi interessi culturali. Uno dei suoi fratelli fu un celebre archeologo e scrittore umoristico. Robert studiò a Eton e, dopo aver cercato di entrare, un po' per finta a dir la verità, nell'Indian Civil Service, si laureò al Trinity College di Cambridge dove, a sorpresa, maturò un interesse per la teologia finendo per diventare presbitero della Chiesa anglicana. Ma la vocazione religiosa di Benson non riusciva a trovare nell'orizzonte della Chiesa d'Inghilterra la sua misura. Nel 1903 avvenne una sofferta conversione al cattolicesimo, motivata dal fatto che la Chiesa di Roma era maggiormente universale e molto meno universalista. E nell'universalismo Benson vedeva proprio la scelta di cedere ai valori caratterizzati da una sorta di buonismo vuoto e generico. Insomma, uno svuotamento di senso ammantato di finto umanesimo che se ai primi del Novecento era sotto traccia oggi si vede bene.

E allora cosa c'è nel Padrone del mondo ambientato all'inizio del Ventunesimo secolo? C'è un futuro che in Europa e in Gran Bretagna è diventato molto ovattato. Appartamenti dotati di ogni comfort, politici che mantengono una pace sociale senza scossoni. Le religioni ridotte a un ricordo del passato e sostituite da una sorta di credo civile dove al centro di tutto c'è l'uomo e il suo mero benessere. Tutto è ridotto a unità di produzione e il meglio che ci si possa aspettare dalla fine della vita è una bella eutanasia. Gli spigoli dell'esistenza, quindi, sono stati tutti limati, si parla tutti felicemente in esperanto, quel che conta è non dare mai seguito a convinzioni forti che possano spaccare la società. Tanto più se sono convinzioni religiose.

Ma fuori dall'Europa è cresciuto un Impero d'Oriente di terribile forza militare dove le convinzioni religiose sono tutt'altro che tiepide, anzi danno il via a feroci scontri. In quest'Europa tiepida e perbenino che è cosa ben diversa da per bene, restano due speranze: l'aiuto dell'America e Julian Felsenburgh. Un individuo misterioso che dovunque arrivi riesce a portare la pace, un'adorante concordia materialista. A tutto questo sono sostanzialmente capaci di ribellarsi solo i cristiani, forti della loro tradizione. Verranno spazzati via da Felsenburgh che si rivelerà né più né meno che l'Anticristo. Un finale cupissimo in cui si respira una certa dose di millenarismo cattolico.

Ma al di là della nettissima contrapposizione tra fede e materialismo che anima Benson, quella di cui Papa Francesco ha colto tutti gli echi - è bizzarro che Bergoglio venga sempre sbrigativamente etichettato come un «modernista» - nel romanzo esistono suggestioni che possono far riflettere anche qualsiasi ateo o agnostico (come lo scrivente). Benson con più di cento anni di anticipo ci ha avvisato che se si cancella il passato (nel libro ci sono statue e pezzi di storia rimossi) non si capisce più il presente. Benson ci ha avvisato con cent'anni di anticipo che un'unità europea che non salvaguardi le differenze è solo fragilità. Benson ci ha avvisato che non si può medicalizzare tutto, riducendo l'esistenza a un'insostenibile salutismo che sfocia nella bella morte. Se lo si fa si va incontro al disastro. Soprattutto se ci si trova ad affrontare un pezzo di mondo in cui il radicalismo trionfa o, peggio, se ci si trova ad affrontare dei «profeti» che possono raccontare qualunque cosa perché non c'è riflessione e non c'è memoria, ma solo conformismo ideologico. Anche senza scomodare l'Anticristo, possono essere molto pericolosi. E Benson di ciò ci aveva avvisato in modo più che chiaro. Matteo Sacchi 

Giovanni XXIV? La complicata questione della successione di Papa Francesco. Francesco Lepore il 14 Novembre 2023 su Il Giornale.

Le decisioni di Bergoglio, come la Traditionis custodes e la rimozione del vescovo Joseph Edward Strickland, hanno contribuito ad accrescere i malumori e a intensificare la spaccatura all'interno della Chiesa. Questi fattori sono destinati a influenzare le dinamiche del conclave futuro e le congregazioni dei cardinali che lo precedono

Sinodo della guerra o delle guerre. Alla fine, sarà forse ricordata così, più che per il tema apparentemente accademico della sinodalità, la XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi recentemente conclusasi. Il solo parlarne, infatti, evocherà subito la drammatica congiuntura temporale del nuovo conflitto israelo-palestinese. Ma anche le ostilità di quei presuli, che, lamentando fumosità e pressapochismo alla volemose bene nei lavori assembleari, considerano ormai snaturato nella sua essenza l’organismo voluto quasi sessant’anni fa da Paolo VI. In un modo o in un altro, è e resterà un dato di fatto lo sbilanciamento valutativo verso aspetti secondari, quando non estranei, al sinodo a scapito di ciò che ne è strutturale. Alimentata dal forte gesto parretico dei cardinali dei Dubia e dalla risposta del Papa, la grande attenzione per l’assise “episcopale” è durata, al di qua del Tevere, l’espace d’un matin. 

Ha invece continuato, e di fatto continua, a tenere banco la questione del dopo Bergoglio. A essa si guarda da entrambe le sponde dopo alcune dichiarazioni pontificie, senza che per questo si debba già cantare il De profundis a Francesco, «del che – citando il Pio VII di Paolo Stoppa ne “Il marchese del Grillo” – facciamo i dovuti scongiuri». 

D’altra parte, è lo stesso Bergoglio, oramai prossimo agli ottantasette e particolarmente loquace, nell’ultimo biennio, su altalenanti condizioni di salute, acciacchi, interventi chirurgici, altrui desideri – ipse dixit – di vederlo morto, ad alimentare e legittimare, suo malgrado, la ridda continua di congetture, ipotesi, previsioni. Vero è che nell’ultimo libro-intervista con Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin dal titolo Non sei solo. Sfide, risposte, speranze (Salani, Milano 2023 [in commercio dal 24 ottobre], pp. 288) il Papa, rispondendo alla domanda: «Quale deve essere il profilo del suo successore?”, ha di fatto glissato col dire: «Di se ne occuperà lo Spirito Santo” (p. 148). 

Ma si tratta pur sempre di parole, che sanno di accorto quanto tardivo trinceramento a fronte di quanto affermato, il 4 settembre scorso, sul volo di ritorno dalla Mongolia: «I viaggi in Vietnam? Ma, se non andrò io, sicuro che andrà un Giovanni XXIV”. E d’un immediato successore con tale nome Bergoglio aveva già parlato almeno tre volte: 1) nel maggio 2021, a un non meglio precisato capo di Stato; 2) il 27 settembre 2021, al vescovo di Ragusa, Giuseppe La Placa, che l’aveva invitato nella città siciliana per il settantacinquesimo anniversario della fondazione della diocesi (6 maggio 2025); il 4 settembre 2022 – data della messa in onda dell’intervista rilasciata a TVI/CNN Portugal –, alla giornalista Maria João Avillez, che gli aveva domandato della sua partecipazione alla GMG di Lisbona (alla quale ha poi partecipato nell’agosto scorso).

La maggior parte dei commentatori ha derubricato tali esternazioni a mera boutade e letto piuttosto in esse un fermo richiamo al futuro della Chiesa, impensabile al di fuori del solco di quel Vaticano II voluto e indetto da Giovanni XXIII. Ma qui casca l’asino. Perché in quel solco anche Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI avevano sempre detto di muoversi. Appare perciò chiaro che la vera questione non è tanto la continuità magisteriale con il dettato dell’ultimo concilio quanto l’interpretazione che si dà di esso. Se si tiene poi in conto che, stando alle dichiarazioni dei defunti cardinali Francesco Marchisano e Loris Capovilla, l’arcivescovo di Buenos Aires avrebbe voluto inizialmente assumere il nome di papa Roncalli sì da diventare Giovanni XXIV, appare ben più di una mera supposizione sostenere che Bergoglio, nel parlare di un tale pontefice futuro, faccia riferimento e – perché no? – desideri un successore in linea con la sua personale lettura del Vaticano II e attività riformista. 

Per l’una e per l’altra si potranno fra l’altro notare i punti di contatto con la fittizia lettera programmatica, che Bernard Haering redasse nel 1993 quale primo atto di un immaginario Giovanni XXIV, eletto agli inizi del terzo millennio, (in “Perché non fare diversamente? Perorazione per una nuova forma di rapporti nella Chiesa”, Queriniana, Brescia 1993, pp. 79-86), e ancor più col romanzo “Juan XXIII (XXIV), o sea, La Resurreción de Don Quijote (Sinfonía fantástica a la Berlioz en tres movimientos y una coda; para uso de naciones subdesarrolladas”), che l’ex gesuita argentino Leonardo Castellani diede profeticamente alle stampe nel 1964 sotto lo pseudonimo di Jerónimo del Rey. Ma, al di là di tutto, il successore di Francesco sarà davvero un bergogliano, inteso come prosecutore della sua linea magisteriale?

Si sa che col concistoro del 30 settembre scorso è salito a duecentoquarantadue – duecentoquarantuno, il 10 ottobre, con la morte del cardinale Telesphore Placidus Toppo – il numero complessivo degli ascritti a quello che fino a un recente passato veniva chiamato il «Senato del Romano Pontefice», di cui ben centotrentasei, al momento, gli elettori (il cardinale Patrick D’Rozario ha infatti compiuto ottant’anni l’1 ottobre). Si è, dunque, sforato un’ennesima volta – numerosi, d’altra parte, i precedenti anche sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – il noto tetto massimo, fissato a centoventi dalla “Romano Pontifici eligendo” di Paolo VI (1 ottobre 1975). Ma col progressivo compimento dell’ottantesimo anno di età dei cardinali Sandri, Yeom Soo-jung, Zerbo, Cipriani Thorne esso scenderà a centotrentadue già il 28 dicembre. 

In quella data saranno rispettivamente sette e ventotto i porporati di nomina wojtyłiana e ratzingeriana, che entrerebbero in un eventuale futuro conclave, di contro ai ben novantasei bergogliani. Numeri che, in ogni caso, significano ben poco, qualora si consideri come non pochi dei cardinali creati negli anni da Francesco siano, a diverso titolo, debitori verso Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nonché in linea di continuità col magistero degli stessi più di quanto si pensi. 

Se è inoltre innegabile che il Sacro Collegio appare sempre meno eurocentrico e più universale, non si può d’altra parte non considerare che sono rispettivamente diciannove e ventitré i cardinali elettori provenienti dai continenti africano e asiatico: i quali, cioè, sono variamente conservatori in tema di dottrina e morale. Non si può infine sottacere il peso di crescenti malumori a livello intra-ecclesiale per l’acuirsi della spaccatura col mondo conservatore e tradizionalista, cui proprio Bergoglio, forse dimentico dell’aureo monito manzoniano: «Adelante, con juicio», sembra contribuire con ben poca morbidezza: a riprova, basti pensare alla “Traditionis custodes” o alla recentissima rimozione del vescovo Joseph Edward Strickland dalla guida pastorale della diocesi di Tyler. Questione, questa, che difficilmente resterà al di fuori delle congregazioni generali dei cardinali antecedenti il futuro conclave e del conclave stesso. 

Estratto dell’articolo di Domenico Agasso per lastampa.it giovedì 2 novembre 2023.

La guerra è una sconfitta, la soluzione per il conflitto in Israele è quella dei due Stati. L'antisemitismo c'è, la Shoah non è bastata. «Non dobbiamo abituarci alle guerre». C’è una «possibile escalation, sarebbe la fine di tante cose». È l'ora più buia, il problema è l'industria delle armi. «Chiamo i religiosi a Gaza ogni giorno. Ci sono 563 persone nella parrocchia». E poi, l’Ucraina, dove il popolo è martire: bisogna cercare un accordo di pace. «Volevo andare a Kiev e Mosca. Ho fatto liberare prigionieri». «Sarò a Dubai per la Cop 28». Maradona e Messi «due campioni, ma io preferisco Pelè». Papa Francesco lo afferma nella lunga intervista al direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci, andata in onda al termine del telegiornale.

«Ogni guerra è una sconfitta - afferma il Pontefice - Non si risolve nulla con la guerra. Niente. Tutto si guadagna con la pace, con il dialogo. Sono entrati nei kibbutz, hanno preso ostaggi. Hanno ucciso qualcuno. E poi la reazione. Gli israeliani andare a prendere quegli ostaggi, a salvarli. Nella guerra uno schiaffo provoca l'altro. […]. La guerra è una sconfitta. Io l'ho sentita come una sconfitta in più». Due popoli «che devono vivere insieme. Con quella soluzione saggia: due popoli due Stati. L'accordo di Oslo: due Stati ben limitati e Gerusalemme con uno status speciale».

Il Vescovo di Roma telefona ai religiosi a Gaza quotidianamente: «Li chiamo tutti i giorni e c'è anche una suora argentina lì e il parroco era a Betlemme nel momento che è scoppiato tutto, non è riuscito a tornare perché era andato a Betlemme ad acquistare medicine. Adesso è a Gerusalemme ma non può entrare». 

 E il «viceparroco egiziano, padre Yussuf, lo chiamo tutti i giorni e mi dice “ma questo è terribile, adesso l'ultima cosa è che hanno bombardato l’ospedale, ma a noi in parrocchia ci rispettano, in parrocchia abbiamo 563 persone, tutti cristiani e anche qualche musulmano. […]». 

Alla domanda se teme un rigurgito dell’antisemitismo Bergoglio risponde che «purtroppo l'antisemitismo rimane nascosto. Lo si vede, giovani per esempio, di qua e di là che fanno qualche cosa. […] Purtroppo, non è passato. Non saprò spiegarlo e non ho spiegazioni è un dato di fatto che io vedo e non mi piace».

Scandisce con amarezza il Papa: «L’ora è molto buia. Non si trova la capacità di riflettere con chiarezza e all'ora più buia io aggiungerò: una sconfitta in più. È così dall'ultima guerra mondiale, dal '45 fino adesso, una sconfitta dopo l'altra perché le guerre non si sono fermate. Ma il problema più grave ancora sono le industrie delle armi - aggiunge - Mi dice una persona che capisce di investimenti, che ho conosciuto in una riunione, che oggi gli investimenti con più reddito sono le fabbriche delle armi». 

Francesco ricorda «il momento più duro del pontificato», all’inizio, «quando scoppiò con tanta forza la guerra in Siria e ho fatto in piazza un atto di preghiera, dove pregavano cristiani e anche musulmani che hanno portato il tappeto per pregare. Questo momento molto duro. Per me è una cosa brutta, ma poi, questo non è bello dirlo, uno si abitua, purtroppo uno si abitua. Non dobbiamo abituarci». 

Il Pontefice si sofferma sul pericolo escalation militare: «Sarebbe la fine di tante cose e di tante vite. Io penso che la saggezza umana fermi queste cose. Sì, c'è la possibilità ma… e a noi questa guerra ci tocca per quello che significa Israele, Palestina, la Terra Santa, Gerusalemme ma anche l'Ucraina ci tocca perché è vicina. Ma ci sono tante altre guerre che a noi non toccano: Kivu, lo Yemen, il Myanmar con i Rohingya che sono dei martiri. Il mondo è in guerra ma c'è l'industria delle armi dietro».

La questione guerra in Ucraina e i tentativi del Vaticano in favore della pace: «Penso al popolo ucraino, non dobbiamo giudicarlo oggi. Il popolo ucraino è un popolo martire, ha avuto persecuzioni al tempo di Stalin, molto forti. […] Ho letto un libro commemorativo su questo e sul martirio terribile, è stato terribile, Siberia… È stato un popolo che soffre tanto e adesso qualsiasi cosa gli fa rivivere quello, io li capisco e ho ricevuto il presidente Zelensky, capisco, ma ci vuole la pace. Fermatevi! Fermatevi un po' e cercate un accordo di pace, gli accordi sono la vera soluzione di questo. Per ambedue». 

Il secondo giorno «della guerra in Ucraina sono andato all'ambasciata russa, ho sentito che dovevo andare lì e ho detto che ero disposto ad andare da Putin se serviva a qualcosa. L'ambasciatore bravo - ha finito adesso - un funzionario della Russia. E da quel momento ho avuto un buon colloquio con l'ambasciata russa. Quando io presentavo dei prigionieri, io andavo lì e loro liberavano, hanno liberato anche da Azov. Insomma l'ambasciata si è comportata molto bene nel liberare le persone che si potevano liberare. Ma il dialogo si è fermato lì. In quel momento mi scrisse Lavrov: “Grazie se vuole venire, ma non è necessario”. Io volevo andare da entrambe le parti».

Jorge Mario Bergoglio conferma che «sì, andrò a Dubai per la Cop28 sul clima. Credo che partirò il primo dicembre fino al 3 dicembre. Starò tre giorni lì». 

Maradona o Messi? «Io dirò un terzo, Pelé. Maradona come giocatore un grande, un grande. Ma come uomo è fallito. Poveretto è scivolato con la corte di quelli che lo lodavano e non lo aiutavano. È venuto a trovarmi qui il primo anno di pontificato e poi poveretto ha avuto la fine. È curioso: tanti sportivi finiscono male. Anche della boxe. Messi è correttissimo. È un signore. Ma per me di questi tre il grande signore è Pelé. Un uomo di un cuore. Ho parlato con Pelé, una volta l'ho incontrato su un aereo quando ero a Buenos Aires, abbiamo parlato. Un uomo di una umanità così grande. I tre sono grandi. Ognuno con la sua specialità. Messi è bravo in questo momento. E Pelé era bravo».

Il tema migrazioni: «L’Europa deve essere solidale» con i paesi dove sbarcano i migranti - Cipro, Grecia, Italia, Malta e Spagna - «non possono questi cinque paesi prendere tutti e i governi dell'Europa devono entrare in dialogo». Le donne nella Chiesa: il Papa assicura che ci sarà sempre più spazio per loro, ma sulle ordinazioni «c’è un problema teologico». 

Il celibato sacerdotale? «È una legge che può essere tolta, non c'è problema», ma «non credo che aiuti. Perché il problema è un altro. Non aiuta» a sconfiggere la crisi delle vocazioni.

Argomento accoglienza dei gay: «La Chiesa riceve le persone, tutti e non si domanda come sei. Un'altra cosa è quando ci sono delle organizzazioni che vogliono entrare. Il principio è questo: la Chiesa riceve tutti coloro che possono essere battezzati. Le organizzazioni non possono essere battezzate. Le persone sì». 

[…] Il Pontefice dice di non essere «un Papa di sinistra: le vere qualifiche sono: è coerente, non è coerente?». E poi, il Bergoglio privato: l’ultima volta che è stato al mare era «il 1975». La sua fidanzata di prima di prendere i voti? «Una ragazza molto buona. Lavorava nel cinema. Era buona. Poi l'ha ritrovata l'arcivescovo di Rosario in una parrocchia con il marito, i figli». All’interrogativo sulla salute del Papa dice: «Ancora vivo. Adesso sto benissimo».

Il Papa si fa le leggi da solo (ma non convince gli esperti).

Al Sinodo la richiesta di cambiare il diritto canonico, in linea con la rivoluzione legislativa di Francesco. Ma non piace a tutti. Nico Spuntoni il 29 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Nel Sinodo che si chiude oggi, in attesa della sessione conclusiva del prossimo anno, uno degli argomenti affrontati è stato quello relativo ad una revisione del diritto canonico. Le questioni più mediatiche come benedizioni delle coppie omosessuali e diaconato femminile hanno messo in ombra tutto il resto, ma la richiesta di modificare ulteriormente il codice manifestata da qualche padre sinodale è in realtà una parte non secondaria del progetto di rivoluzione della Chiesa sostenuto da chi ha fatto suo il motto del cardinale Carlo Maria Martini: "la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni".

Più potere ai laici?

Bisogna ricordare che il codice di diritto canonico è il principale testo legislativo della Chiesa e contiene, come ricordò Giovanni Paolo II nel 1983, "gli elementi fondamentali della struttura gerarchica e organica della Chiesa quali furono stabiliti dal suo Fondatore divino oppure sono radicati nella tradizione apostolica". Una sua revisione, quindi, potrebbe puntare a cambiare l'assetto costitutivo di cui si è parlato spesso recentemente alla luce dell'allargamento ai laici (selezionati dal Papa) del diritto di voto al Sinodo. Proprio su questo verteva, peraltro il secondo quesito dei dubia presentati a Francesco dai cardinali Walter Brandmüller, Raymond Burke, Juan Sandoval Íñiguez, Robert Sarah e Joseph Zen. L'obiettivo dichiarato di modificare il codice dovrebbe portare ad un'ulteriore istituzionalizzazione di quell'ingresso dei laici alle funzioni di governo della Chiesa universale di cui il Sinodo sulla sinodalità è un'anticipazione? Magari arrivando ad un superamento della natura episcopale dell'assemblea istituita da Paolo VI? Il sinodo dei vescovi per come lo conosciamo, infatti, è disciplinato proprio dal codice di diritto canonico del 1983, promulgato in sostituzione di quello del 1917 e frutto dell'insegnamento del Concilio Vaticano II. Una revisione di quel testo, è il timore di molti, potrebbe far correre il rischio di allontanarsi dalla Chiesa voluta dai padri conciliari.

Il Papa legislatore

In quasi undici anni di pontificato, Francesco ha dimostrato un certo interventismo legislativo. A colpi di motu proprio è intervenuto ripetutamente in materia di diritto canonico e di diritto vaticano. Questa settimana l'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede ha ospitato una tavola rotonda organizzata dall'Institut français - Centre culturel Saint-Louis proprio su questo tema: "Francesco legislatore: Diritto canonico e diritto dello Stato della Città del Vaticano", il titolo dell'iniziativa condotta da Cyprien Viet, giornalista di I-Media. I due relatori sono stati monsignor Patrick Valdrini e Maria d'Arienzo, docenti rispettivamente della Pontificia Università Lateranense e dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.

Il convegno

Monsignor Valdrini ha evidenziato la portata del Sinodo spiegando che potrebbe diventare legislativo se il Papa gli conferisse il potere deliberativo, così come ammesso dalla Costituzione Apostolica “Episcopalis Communio” con cui Francesco ha modificato la norma originaria del codice di diritto canonico. Valdrini ha paragonato la concezione della legge che traspare dalla produzione normativa di Bergoglio alla filosofia del gesuita Francisco Suàrez in base a cui l'interpretazione giuridica delle leggi ha un filo diretto con la determinazione della volontà del legislatore. Nel suo intervento, la professoressa d’Arienzo ha ripercorso i numerosi provvedimenti legislativi di Francesco, in particolare sulla disciplina penale relativa all'ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano. Sulla nuova Legge Fondamentale dello Stato con cui Francesco ha mandato in soffitta quella del 2000 di Giovanni Paolo II, d'Arienzo ha evidenziato le perplessità che scaturiscono dalla possibile confusione tra gli ambiti operativi sul piano internazionale di Governatorato e Segreteria di Stato e soprattutto dall'incipit del preambolo dove si fa risalire direttamente al munus petrino i "poteri sovrani anche sullo Stato della Città del Vaticano" con l'effetto di sottolineare la natura strumentale del potere temporale a quello spirituale.

Più leggi, meno spazio all'organismo competente

Non sono le uniche perplessità suscitate tra gli esperti dall'abbondante produzione legislativa di Francesco. Geraldina Boni, in un volume dedicato proprio a questo tema, ha scritto che "la scienza canonistica, dinanzi a questa stagione riformistica, estremamente estesa e variegata oltre che non priva di incertezze e qualche conflittualità, è apparsa in generale disorientata se non sconcertata" contestando una certa tendenza agli "slogans fantasiosi, le immagini suggestive, gli scenografici cambiamenti di stile" a cui, invece, andrebbe opposto "un diritto accuratamente elaborato". Nel suo "La recente attività normativa ecclesiale: finis terrae per lo ius canonicum?", la giurista dell'Università di Bologna ha anche invitato a riflettere sul paradosso che vede l'aumento esponenziale della produzione normativa andare di pari passo con la marginalizzazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Come a dire che il Papa legislatore fa tutto da solo, col supporto dei suoi fedelissimi e non del dicastero competente. Sarà così anche per un'eventuale revisione del codice di diritto canonico?

Estratto dell'articolo di Iacopo Scaramuzzi per “La Repubblica” mercoledì 4 ottobre 2023.

Alla vigilia di un Sinodo che si annuncia scoppiettante, il Papa ha assestato al fronte conservatore un colpo che contiene tre messaggi. Francesco ha chiarito, nero su bianco, che la sua decisione di riammettere i divorziati risposati all’eucaristia è dottrina che non ammette disobbedienza. 

Bergoglio aveva preso questa decisione nel 2016, ma molti vescovi non l’hanno mai applicata. Anche allora c’era stato un sinodo con discussioni molto accese e alla fine il Papa aveva scritto un’esortazione apostolica, Amoris laetitia , che conteneva una svolta […] «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli ». Una decisione che ha incendiato i conservatori, che vi hanno visto il piano inclinato verso il relativismo.

Quattro cardinali tradizionalisti hanno tartassato il Papa con una lista di dubbi (in latino ovviamente, dubia) cui Francesco non ha mai risposto. Ora Bergoglio ha cambiato strategia e ha colto l’occasione di nuovi dubbi, inviati a Roma da un altro cardinale, l’arcivescovo emerito di Praga Dominik Duka, per fargli rispondere dal nuovo prefetto della Dottrina della fede, il teologo argentino Victor Manuel Fernandez. Il quale, in un documento controfirmato nei giorni scorsi da Francesco, ha chiarito, una volta per tutte, che Amoris laetitia è «un documento del magistero pontificio ordinario, verso cui tutti sono chiamati ad offrire l’ossequio dell’intelligenza e della volontà».

In questo modo il Papa ha ottenuto un triplice risultato: ha mostrato di non sottrarsi ai cardinali dubbiosi, ha chiarito che quando decide non esprime opinioni personali, ed ha sigillato il metodo del Sinodo: quello del passato e quello che apre oggi in piazza San Pietro. Un’assemblea che parte surriscaldata. A poca distanza dal colonnato berniniano, ieri al teatro Ghione, i cardinali Raymond Burke e Robert Sarah hanno messo in scena una nuova ribellione al Papa. Burke, statunitense, era tra i “dubbiosi” del passato, e nelle ultime settimane è tornato ad esprimere dubbi sul Sinodo, «un vaso di Pandora».  […]

Bergoglio, dieci anni di Francesco. ANTONIO STAGLIANÒ su Il Quotidiano del Sud il 6 Marzo 2023

Bergoglio, papa Francesco e i suoi dieci anni di pontificato oltre le fratture moderne di fede e cultura, vangelo e vita, verità e storia, libertà e legami, giustizia e affetti…

Il papa è “servus servorum Dei” (=servo dei servi di Dio) perché porta sulla sue spalle – come la figura del buon pastore porta la sua pecorella- la “sollicitudo omnium ecclesiarum” (=la sollecitudine per tutte le chiese): egli è al servizio di tutti nell’annuncio del Vangelo. Come l’apostolo Pietro, conferma nella fede cristiana i fratelli, attestando per l’oggi “cosa è fede e cosa non lo è”.

Esiste, infatti, una tentazione persistente nell’esercizio della fede e una imbarazzante condizione del cattolicesimo odierno: quella di praticare una fede come adesione alla dottrina da credere (per altro poco conosciuta, per le note fatiche nel trasmetterla attraverso il catechismo) senza vivere quelle conseguenze esistenziali e storico-pratiche (dunque socio-politiche) che il cristianesimo comporta. La fede cristiana è senz’altro mistica, fondata sulla presenza dello Spirito santo nel cuore del credente: tuttavia – poiché nasce dall’evento dell’Incarnazione del Verbo, Gesù di Nazareth, persona storica vissuta duemila anni orsono, come Maestro in Galilea e profeta di un nuovo volto di Dio, solo e sempre amore-, è invivibile senza rischiarare con l’amore la “carne sofferente” degli esseri umani.

Il Figlio di Dio ha assunto “questa carne”, per riscattarla da ogni oppressione interiore ed esteriore, liberandola dalle smaniose e disumanizzanti voglie del potere e del dominio attraverso la violenza e dal narcisismo disumanizzante dell’autorealizzazione di sé in faccia alla sofferenza degli altri (ciò che normalmente si chiama “egoismo” o esaltazione del proprio io-ego o, ancora meglio, “egotismo”, con l’aggravante della prevalenza attenzionale al “me dell’io”).

Questo cristianesimo mistico deve essere potentemente sociale, come ha sostenuto Henri De Lubac nel 1938 in Catholicisme, il cui sottotitolo è emblematico Gli aspetti sociali del dogma. Jorge Bergoglio, Papa Francesco, è stato molto legato a questo suo confratello gesuita, per altro contestato e discusso, come è quasi sempre capitato nella Chiesa cattolica per i pionieri del pensiero. Tanto più, memore dell’Enciclica Evangelii nuntiandi, nella quale Paolo VI denunciava il dramma odierno del cattolicesimo nella frattura tra vangelo e vita, tra verità e storia, papa Francesco si è impegnato a “confermare i credenti quanto alla fede testimoniale” insistendo su una ovvietà cristiana, stranamente smarrita: “ciò che il Vangelo ci insegna ha conseguenze sul nostro modo di pensare, di sentire e di vivere” (Laudato si’, n.216).

Nella lettera apostolica Misericordia et misera al n. 18 è ribadito il “valore sociale” della misericordia. Ricevere misericordia e offrire misericordia non si risolve in un fatto intimistico, perché comporta un “rimboccarsi le maniche per restituire dignità a milioni di persone che sono nostri fratelli e sorelle, chiamati con noi a costruire una città affidabile”.

Così, mentre Laudato si’ invoca una “conversione ecologica” attraverso una “spiritualità ecologica”, Fratelli tutti punta sulla proposta dell’amicizia sociale per una “fratellanza universale” tra popoli e nazioni, capace di fondare una vera civiltà dell’amore, attraverso la solidarietà e una “cultura della cura” su cui già Evangelii gaudium aveva istruito il mondo. Cura per l’altro, per chiunque altro, per il creato, per la famiglia (Amoris Laetitiae), per la città, cura per la pace, per la giustizia, in particolare cura per il sofferente, l’offeso e l’emarginato, per chi vive “nel rovescio della storia”, per gli umiliati e gli esclusi delle società del benessere, per i migranti e rifugiati.

Cura a tutto campo: è sicuramente molto sociale, è anche sovversivamente politico; è mondano e profano, ma è la via necessaria per la “cura più alta”, la cura di sé come essere umano. Perdere, infatti, la partecipante sensibilità al dolore e alla sofferenza dei fratelli è perdere la propria umanità, smarrire il senso umano del vivere e, dunque, la vera felicità, per la quale le persone sono state create “a immagine e somiglianza di Dio”, per gioire nell’amore.

È poi, inesorabilmente, “cura della fede”: “una fede autentica – che non è mai comoda e individualistica- implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra”. Perciò, c’è come la protesta rivolta a tutti i soggetti della società e della cultura a non trasformare il cattolicesimo in “religione civile”, a non pretendere che venga ghettizzata nelle sacrestie delle chiese: “nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimerci sugli avvenimenti che interessano i cittadini” (EG 183).

Don Milani- sacerdote spesso citato da Francesco- ai suoi ragazzi: “I care, i care, c’è bisogno che io abbia cura di te, you care, you care c’è bisogno che tu abbia cura di me, i care, i care è solo un modo per dire che ‘amore ce n’è”. Se l’umanità dell’uomo risplende nell’amore – come tutti riconoscono, credenti e non- la questione resta sempre la stessa: “come deve essere l’Amore per essere come deve?” (P. A. Sequeri).

La risposta a questo interrogativo – “l’amore è quello mostrato da Gesù crocifisso ed è persona dell’amore nel cristiano”-, qualifica il carattere teologico del magistero di Francesco e smentisce la pretestuosità di quanti ci annoiano con le solite nenie, secondo le quali sarebbe troppo sbilanciato sul “sociale”, mentre un papa dovrebbe “parlare di Dio” e accertare la “dottrina su Dio”, per dichiarare le eresie continue di cui è pieno questo mondo perduto.

Si consideri però: dopo la barbarie del “secolo breve” nelle tante mostruosità prodotte dalle guerre mondiali, dentro l’attuale crisi umana di guerre ancora in atto sul pianeta terra, con il rischio non aleatorio della guerra nucleare – nei disastri della globalizzazione con l’allargamento di nuove sacche di povertà, che spinge milioni di esseri umani ad emigrare, senza dimenticare le sventure annunciate per i cambiamenti climatici e gli effetti distopici della realtà virtuale del multiverso-, cosa vorrà dire annunciare il Vangelo di Gesù e praticare una fede che, per essere davvero cristiana, è fides quae per charitatem operatur (fede che opera attraverso la carità)?

Per Evangelii gaudium, n.182: “Non si può affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra”. La fedeltà alla terra, dunque, nelle prospettive del Concilio Vaticano II, non si può contrapporre all’amore di Dio. Questo amore sconfinato- sintetizzato nel comandamento nuovo di Gesù (“Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi)- s’incarna in ogni situazione concreta dell’umano, dal personale al sociale, dall’ecologico al politico, dal religioso al mistico. È interiore e corporeo. L’incontro con Cristo, nell’accogliere il Vangelo, richiede una scelta di campo, senz’altro, ma anzitutto che “si scenda in campo”, secondo lo Spirito del buon samaritano.

Poiché il Vangelo è la persona di Gesù, la rivelazione cristiana (dunque, l’annuncio del volto santo di Dio solo e sempre amore) non può patire una interpretazione intellettualistica, quasi fosse un insegnamento dottrinale. È l’evento dell’impatto “corpo a corpo” con il Logos di Dio, la Sapienza del Padre. La fede è ”sapienza”, è un sàpere, un sapere della vita, un gusto nuovo di esistere. La luce del Vangelo illumina tutti gli ambiti e tutti i tempi degli umani, con il suo giudizio di misericordia e di liberazione, di riscatto e di redenzione, realizzando nel credente quella giustizia cristiana che deve superare la giustizia degli scribi e farisei e corrispondere alla “ingiusta giustizia” di Cristo crocifisso che solidarizza con gli innocenti ed espia con i colpevoli, cioè muore salvificamente per tutti.

La “compassione” è, allora, dimensione vera del cristiano che “vede con gli occhi di Cristo” il dolore di chi soffre, è disponibile a fermarsi e a prendersi cura dell’altro, ad accompagnarsi con i bisognosi. Tutto questo- in un mondo dominato dalla tecnoscienza e da processi di individualizzazioni egoistiche e di disumanizzante di desolidarizzazione- appare come una “rivoluzione socio-politica” universale, se solo venisse presa sul serio.

Diventa anzitutto, “indignazione e denuncia”: perché, infatti, quel “compatire” espresso dalla voce verbale splanchnizomai, rimanda al dolore di chi riceve un pugno allo stomaco, è la compassione nelle viscere, la partecipante sofferenza al disagio di altri, come istanza che accomuna ogni uomo e, dunque, come tratto caratteristico dell’umano che è comune. Meno di questo, l’umano dell’uomo tende a perdersi fino a sparire. Perciò, l’avventura del Vangelo umanizza la vita e l’umanesimo cristiano sfida l’umanismo ateo sul campo dell’umano dell’uomo da salvare dalle sue forme barbare: a questo livello potrebbe generarsi una nuova santa alleanza tra credenti e non credenti o diversamente credenti, tutti convocati a stare sulla “via della salvezza dell’uomo e del suo habitat nella pace”.

Il dialogo religioso, il dialogo ecumenico, il dialogo con i non credenti è tratto caratteristico dell’iniziativa pastorale di papa Francesco. È il dialogo concreto a tutto campo che mira all’umano concreto e denuncia discriminazioni e ostracismi, come nel caso delle persone in situazioni familiari irregolari o persone con tendenze omosessuali. È un dialogo non salottiero, orientato a dare risposte di vita, ad aprire orizzonti di esistenza buona e pacificata. Va fatto anche a costo di rischiare il fraintendimento e l’incomprensione. D’altra parte, il mistero della croce attraversa l’esperienza concreta del ministero di un vescovo, tanto più del vescovo di Roma che, presiedendo all’unità della Chiesa universale, è esposto a ogni critica, bersagliato da tutte le parti. E viene in mente quella canzone, bene nota: “sei bello ti tirano le pietre; se sei brutto ti tirano le pietre; qualunque cosa fai, sempre pietre in faccia prenderai”.

L’accanimento vandalico contro papa Francesco – così come è stato, per altri versi, contro Benedetto XVI fin quasi alla sua recente morte- ha del satanico: distruggere la persona del papa fa molto male alla chiesa e sarebbe il “colpo grosso” per i suoi nemici. Eppure Francesco perdona tutti e “fa silenzio”, insistendo sul dialogo come “un fare insieme”. Il conflitto deve essere trasformato in confronto e dischiudere all’incontro.

Ovviamente, ha ribadito al Convegno ecclesiale di Firenze: “Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria fetta della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti… la Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità”. E poi ancora: “ricordatevi che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”.

E come fare qualcosa “insieme”, essendo mondi culturalmente diversi e plurali, senza parlare e discutere? Non aveva prima detto che occorre confrontarsi e incontrarsi? Dialogare è “un logos che attraversa altri loghia”, parole che attraversano e dialettizzano con altre parole. E questo è il punto: il parlare e il discutere, divenuti un chiacchierare per chiacchierare.

D’altra parte anche M. Heidegger riconosce nella “chiacchiera” (Gerede) l’espressione della vita inautentica. Sarà necessario, dunque, nel dialogo, ridare al parlare il suo carattere “performante” che le è originario, corrispondendo così al potere creativo del parlare stesso di Dio. Gesù è la parola del Dio vivente, e, in quanto Parola, vive e realizza ciò che annuncia. La rivelazione cristiana si compie con “fatti e parole” (verbis gestisque) intrinsecamente connessi. Il parlare svuotato del suo significato operativo contraddice il cristianesimo. Anche su questo Il Vangelo getta la sua luce e offre il suo contributo umanizzante, non solo sui contenuti o i temi del dialogo, ma soprattutto sulle sue dimensioni spirituali e il suo stile, le sue modalità.

E non è questa vera “teologia” come sapienza di vita?

La teologia scientifica è giusto che faccia il proprio lavoro nel cuore stesso della Chiesa e della sua missione. La scienza teologica però – da sempre, e in particolare da San Tommaso che nella sua Summa ne ha giustificato lo statuto (aristotelico) di scienza-, non ha mancato mai d’essere sapienza. La ragione scientifica deve allargare i suoi confini nella direzione della sapienza, sosteneva Benedetto XVI, per non disumanizzarsi e impoverirsi nella superpotenza dell’algoritmo dell’intelligenza artificiale.

Anche in questo la teologia come scienza può dare il proprio contributo nell’attuale dibattito di “ripensare il pensiero”, anzitutto mostrando di essere un vero sapere critico in quanto sapere sapienziale. Da qui, la convinzione di Papa Francesco in Veritatis gaudium- in perfetta continuità con il suo predecessore- che è possibile la “transdisciplinarietà” dei saperi, nella quale la teologia riceve e dona a sua volta, nella prospettiva di una scienza dell’uomo aperta alla costruzione di società più giuste e libere, partecipative, ospitali e solidali.

La teologia di Francesco è teologia popolare, perché è teologia sapienziale: altrove ho scritto che è “teopsia”, è la visione di Dio che umanizza la vita dell’uomo. Così, la fede è visione, lumen, luce. E qui non si può non ricordare il prima atto, davvero straordinario, di “sinodalità diacronica” compiuto da papa Francesco, nell’accogliere l’Enciclica già iniziata da Benedetto XVI nell’anno della fede, Lumen fidei: qui si trovano le basi (epistemologiche, per chi capisce il termine) di tante intuizioni teologiche poi sviluppate nelle future encicliche, soprattutto in Evangelii gaudium che rappresenta la vera riforma di Francesco: riforma negli stili di vita, nei linguaggi della comunicazione, nei tempi dell’evangelizzazione, a partire da quelle “metafore vive” (P. Ricoeur) che potranno dare futuro al cammino della chiesa e all’umanesimo cristiano, quale “Chiesa in uscita” e “Chiesa ospedale da campo”.

La comprensione teologica di queste immagini di Chiesa mostrerebbe non solo il contributo a una rinnovata evangelizzazione nelle nostre società globalizzate, ma anche una coraggiosa critica a certi idoli falsi (cioè visione distorte) della cultura postmoderna, poggiati su miti irrealistici: quale, solo per esempio, quella dell’esistenza dell’individuo e il progetto di un individuo sempre più automizzato, macchinico, postumano o “oltreumano”.

La Chiesa è “antropologia vissuta”. E dire che è “in uscita” significa che è realizzazione di un umano-persona: la persona e non l’individuo è realtà autentica. Persona è “relazione ad altri”, la cui identità coinvolge la dedizione di sé ad altri. “In uscita” è, dunque, sempre la persona umana che è “relazione amativa”.

Contro l’autoreferenzialità dell’individualismo narcisistico (=trasforma il mondo e gli altri in una specchiera entro cui guardarsi-“ipsarsi” per godere solo di sé e far godere solo sé), la conversione cristiana richiama all’uscita da se stessi per ritrovarsi negli altri: l’io nelle sue profondità è un Noi, “sé come altro” (P. Ricoeur). La libertà individuale non esiste, c’è invece quella personale che non può prescindere dai legami. Così il comandamento di Dio (anche i dieci comandamenti di Mosè) non “negano” la libertà della persona, ma ne attivano il motore che la fa camminare: “la mia libertà inizia quando comincia la libertà dell’altro” (è una rivoluzione copernicana).

La Chiesa, poi, come “ospedale da campo” indica il denominatore comune (l’universale concreto) dell’umano di ogni uomo e di ogni donna di questo mondo: la fragilità sofferente della condizione umana, cui corrisponde la “partecipante sensibilità al dolore di altri” (W. Kasper) quale dimensione costitutiva dell’umano. Esiste una Giustizia superiore, trascendentale, che appartiene alla struttura originaria della coscienza: è la sensibilità umana al senso umano che porta a generare/curare l’altro quale forma del manifestarsi della verità di sé.

Questa Giustizia – inscritta nelle fibre più profonde di ogni uomo- rompe con la “giustizia” dell’esibizione di sé nella volontà di autorealizzazione, anche attraverso il “fare le opere buone” del cristiano. Qui, l’autocritica al cattolicesimo convenzionale è potente: può accadere, infatti, che -senza quella rottura- il credente si maschera nell’opera buona (per esempio: “dare i propri averi ai poveri”), però senza carità, senza l’attitudine a generare l’altro, ma solo nel desiderio di potenziare il proprio io, nell’immagine di sé offerta al mondo.

Per questa via, l’opzione per i poveri si trasforma in ideologia (EG n.199). Come è difficile -sosteneva Mazzolari- “far strada ai poveri senza farsi strada”! Ecco il problema: nelle società dell’ipermercato, dove domina il “narcisismo di massa”, quella Giustizia della propria giustizia non è “sentita”, non è più avvertita. Si è persa cioè la “sensibilità al senso umano” e quell’affezione originaria non appare più: perduto il senso del pudore non ci si vergogna della consapevolezza del nostro mascheramento, dunque della cura dell’immagine del nostro personaggio, piuttosto che del cuore della nostra persona.

Perciò nel suo annuale Messaggio quaresimale, papa Francesco parla della Quaresima quale tempo propizio (kairòs) non tanto per “giocherelli penitenziali” (i famosi “fioretti”), ma per esercizi spirituali di conversione radicale, per riacquistare la “sensibilità umana al senso”, praticando la Giustizia della vera giustizia, nominata ultimamente con la parola Amore. È l’amore della Giustizia mostrata nella Croce del Figlio, il quale con il suo amore sconfinato “mostra” (è fenomenologia pura) la Giustizia dell’amore. Qui, è infatti mostrato “come deve essere l’Amore per essere come deve” (P.A. Sequeri). Il resto è davvero “chiacchiera inutile”. Il cammino è aperto. “Camminando s’apre cammino” (A. Paoli) e per Evangelii gaudium d’altronde “il tempo è superiore allo spazio” (n. 222), cioè c’è sempre tempo per convertirsi, purché si ricordi anche che “la realtà è superiore all’idea” (EG 231 e 233), cioè la carità va agita e non solo proclamata a parole o sognata di notte.

Un testo di una canzone pop sul magistero di Papa Francesco – Questo Papa è un papà unico (cfr Youtube) – costruito sulla melodia di Mio fratello è un figlio unico, del cantautore crotonese Rino Gaetano, afferma tra l’altro che questo papa è unico “perché sa bene che s’è carne d’amore, una dottrina è una dottrina vera”, perché “lotta per la pace e un creato ospitale”, “perché è convinto che è una eresia abbandonare migranti, oppressi e scartati”, “perché è convinto che solo nel Vangelo di Cristo sta il segreto di una bella umanità”. E come non essere d’accordo.

A leggere le biografie di Francesco, si viene a sapere che ha studiato le opere di Romano Guardini, il filosofo cattolico della Katholische Weltanschauung (concezione cattolica del mondo) che ha influenzato il suo pensiero. Basti una citazione dell’opera del Guardini, L’essenza del cristianesimo, per capirlo. Nella conclusione afferma: “il cristianesimo è Egli stesso; ciò che per mezzo suo perviene agli uomini, e la relazione che per mezzo suo l’uomo può avere con Dio. Un contenuto dottrinale è cristiano in quanto viene dalla sua bocca. L’esistenza è cristiana in quanto il suo movimento è determinato da Lui. In tutto ciò che voglia essere cristiano, Egli deve essere compresente. La persona di Gesù Cristo, nella sua unicità storica e nella sua gloria eterna, è di per sé la categoria che determina l’essere, l’agire, e la teoria di ciò che è cristiano. Questo è un paradosso”.

Vescovo. Presidente della Pontificia Accademia di Teologia

Fumata bianca. Il Vaticano sfiducia i vescovi sulla messa in latino. Ma cresce il malcontento. Le nuove restrizioni sul rito tridentino volute dal prefetto Arthur Roche danno più potere a Roma, ma scontentano fedeli e sacerdoti. Nico Spuntoni su Il Giornale il 26 Febbraio 2023.

La notizia era nell'aria da tempo, ma l'ufficialità è arrivata solo questa settimana. Martedì scorso, infatti, è stata la giornata della pubblicazione di un Rescritto con cui il Papa ha avallato la linea dura del suo prefetto del Dicastero del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il cardinale Arthur Roche sull'applicazione del discusso Traditionis custodes. Si tratta del motu proprio con cui, nel luglio del 2021, Francesco ha de facto abrogato la liberalizzazione della cosiddetta messa in latino concessa dal suo predecessore nel 2007 con il Summorum pontificum.

Celebrazioni più difficili

Il Traditionis custodes, con Benedetto XVI vivente, era già stato accolto con dolore dai sacerdoti e dai fedeli amanti della forma straordinaria dell'unico rito romano. Quel documento affidavava il controllo su questo tipo di celebrazioni ai "custodi della tradizione" ovvero i vescovi diocesani, definiti gli unici a poter autorizzare le celebrazioni eucaristiche con l'uso del messale promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962. Sempre a loro toccava autorizzare i sacerdoti che già celebravano la cosiddetta messa in latino, mentre per quelli ordinati dopo l'introduzione del motu proprio era richiesta consultazione con Roma prima del via libera. E sempre i vescovi dovevano vigilare sui gruppi stabili, accertando l'assenza di contestazioni sulla validità della riforma liturgica e del Concilio Vaticano II e consentendo le celebrazioni in Vetus Ordo fuori dalle chiese parrocchiali.

Nonostante l'evidente colpo per i cosiddetti tradizionalisti causato dal ribaltamento di quanto previsto nel Summorum pontificum con il quale Benedetto XVI si era preoccupato di cercare l'armonia tra questa particolare sensibilità liturgica dei fedeli con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, in Vaticano c'è stato chi in questo anno e sette mesi dalla promulgazione di Traditionis custodes ha ritenuto che la sua applicazione non fosse sufficientemente esaustiva.

Più potere a Roma, meno ai vescovi

Il prefetto del Dicastero del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il cardinale britannico Arthur Roche, deve essere rimasto scontento di come i vescovi diocesani hanno messo in pratica il motu proprio se già cinque mesi dopo, nel dicembre del 2021, ha sentito l'esigenza di far pubblicare dei Responsa ad dubia con annesse note esplicative nelle quali si ordinava ai vescovi diocesani di negare la celebrazione dei sacramenti diversi dall'eucarestia ai gruppi stabili. Le risposte di Roche, presumibilmente, non sono bastate per far sì che i vescovi diocesani applicassero il Traditionis custodes nel senso inteso dal Dicastero del Culto Divino e così, a seguito di un'udienza concessa al cardinale britannico da Francesco lo scorso lunedì, è arrivata un'ulteriore doccia gelata per i fedeli che amano la cosiddetta messa in latino: un Rescritto fatto pubblicare su L'Osservatore Romano nel quale si sente l'esigenza di ribadire che "la concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo" il Traditionis Custodes e "l’uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962" sono dispense riservate a Roma e su cui il vescovo diocesano non può decidere da sé, ma deve chiedere al Dicastero guidato da Roche.

Una sottolineatura che, però, sembra in contraddizione con lo spirito proclamato dal motu proprio originario e con quanto affermato da Francesco nella lettera di presentazione dove aveva scritto che con il Traditionis Custodes aveva voluto "affermare come spetti al vescovo, quale moderatore, promotore e custode della vita liturgica nella Chiesa di cui è principio di unità, regolare le celebrazioni liturgiche". Il fatto che l'intervento di Roche arrivi a così breve distanza dalla promulgazione del motu proprio e dei suoi Responsa ad dubia potrebbe essere interpretato come una bocciatura delle modalità con cui i vescovi si sono comportati fino ad oggi, al punto da sentire l'esigenza di ribadire che quasi tutte le decisioni sulle celebrazioni nella forma straordinaria spettano a Roma.

Malcontento

Il Rescritto ha provocato l'inevitabile malcontento di sacerdoti e fedeli legati alla cosiddetta messa in latino, ma non solo. All'interno e all'esterno della Chiesa, infatti, sono in molti ad essersi interrogati sull'opportunità di misure ulteriormente restrittive a nemmeno due anni dall'entrata in vigore del Traditionis custodes. Peraltro, non è mancato chi ha evocato urgenze ben più importanti con cui la Chiesa deve confrontarsi.

Lo stesso Francesco si è mostrato consapevole delle polemiche sollevate dal Rescritto. Mercoledì, in udienza generale, il Papa ha detto che "nella Chiesa tutto va conformato alle esigenze dell’annuncio del Vangelo, non alle opinioni dei conservatori o dei progressisti, ma al fatto che Gesù raggiunga la vita della gente” perchè "il Vangelo non è un’idea, non è un’ideologia: è un annuncio che tocca il cuore e ti fa cambiare il cuore". Intanto le nuove restrizioni sulla messa in latino sembrano ben lontane dall'aver raggiunto quello scopo di "servizio dell’unità" che si prefiggeva Francesco: lo dimostra, ad esempio, la reazione critica del vescovo di Providence, monsignor Thomas Joseph Tobin che in un tweet ha osservato come "il modo in cui il Vaticano tratta la Messa tradizionale in latino non mi sembra lo 'stile di Dio'".

"Sì, faccio politica". Papa Francesco racconta la propria missione. Marco Leardi su Il Giornale il 26 Febbraio 2023

"Il popolo cristiano deve fare politica", ha spiegato Bergoglio in un libro in uscita, riferendosi a una dimensione sociale estranea ai partiti. Poi l'analisi sul capitalismo: "Quasi passato, oggi prevale la finanza"

Gli immigrati, i gay, l'aborto, i peccati sessuali, gli abusi sui minori. Il potere della finanza e il capitalismo. Ma anche la fede e la spiritualità che fanno sempre alimentate. Papa Francesco raccontato da se stesso, ovvero dalle parole pronunciate in una serie di inedite e periodiche interviste raccolte in quasi dieci anni. Nel nuovo libro "Il Pastore", in uscita in Argentina a firma dei giornalisti Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, Bergoglio ha affrontato i temi più scottanti d'attualità e ha raccontato il proprio modo di intendere il papato. Al riguardo, rispondendo alle accuse di essere troppo politicizzato, il Pontefice ha spiazzato tutti e ha ribadito l'importanza della dimensione "politica" del cristianesimo.

Papa Francesco e la politica

"Sì, faccio politica. Perché tutti devono fare politica. Il popolo cristiano deve fare politica. Quando leggiamo ciò che disse Gesù, vediamo che era coinvolto nella politica. E cos'è la politica? Uno stile di vita per la polis, per la città. Quello che non faccio io, né dovrebbe fare la Chiesa, è la politica dei partiti. Ma il Vangelo ha una dimensione politica, che è quella di convertire la mentalità sociale, anche religiosa, delle persone", ha affermato Papa Francesco, come riporta l'Ansa in un'anticipazione del libro in uscita. E infatti negli ultimi anni (come anche nel nuovo volume) Bergoglio non si è mai sotratto dal prendere posizioni su temi d'attualità politica. Dai migranti alla famiglia, passando per la difesa del matrimonio, il Pontefiche ha detto la sua. Chissà perché, le sue parole hanno trovato ampia risonanza mediatica solo quando sembravano più vicine alla sensibilità progressista.

L'analisi sul capitalismo

"Il mio programma di governo è quello di eseguire quanto dichiarato dai cardinali nelle congregazioni generali alla vigilia del conclave", ha spiegato il Papa. E quindi rivitalizzare l'annuncio del Vangelo, ridurre il centralismo vaticano, bandire la pedofilia e combattere la "corruzione economica". E proprio sul fronte economico, nel recente libro Bergoglio ha esposto anche una critica al capitalismo. "Preciso anzitutto che tutto ciò che dico è nella dottrina sociale della chiesa. Non condanno il capitalismo. Né sono contro il mercato, ma favorevole a quella che Giovanni Paolo II ha definito 'economia sociale di mercato'", ha spiegato Francesco, sottolineando di concentrarsi preferenzialmente sui poveri perché "è quello che ha fatto Gesù e quello che dice il Vangelo". Secondo il Santo Padre, il problema economico più urgente oggi è "che prevale la finanza". Al riguardo, Bergoglio ha chiosato: "In un certo senso, il capitalismo è quasi una cosa del passato". E la ricchezza - ha sostenuto - "deve essere sempre partecipativa. Se si chiude su se stessa, fa male, o almeno è sterile, non è feconda".

I rapporti Stato-Chiesa

In materia di rapporti Stato-Chiesa, poi, il Papa ha sottolineato che "uno Stato deve essere laico, perché gli Stati confessionali finiscono male. Gli accoppiamenti Chiesa-Stato non funzionano". E non sono mancati riferimenti agli scandali finanziari vaticani. "Siamo stati noi a rilevare l'acquisto sospetto di un immobile a Londra, io mi sono rallegrato perché significa che oggi l'amministrazione vaticana ha le risorse per fare chiarezza sulle cose brutte che accadono all'interno. Ma riconosco che mettere tutto in ordine non è stato facile e che c'è sempre la possibilità che appaia qualche nuova situazione dannosa, anche se è più difficile che si verifichi", ha dichiarato il Pontefice. E ancora: "La Chiesa è santa e peccatrice, come diceva sant'Agostino. La stragrande maggioranza dei suoi membri è sana, ma non si può negare che alcuni ecclesiastici e tanti, direi, falsi 'amici' laici della Chiesa abbiano contribuito ad appropriarsi indebitamente del patrimonio mobile e immobile, non del Vaticano, ma dei fedeli".

Il "testamento" per la Chiesa futura

In un capitolo, poi, Bergoglio ha parlato anche di aspetti più personali riguardanti la spiritualità. "Ho avuto le mie crisi di fede, ma le ho superate con l'aiuto di Dio. In ogni caso, una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi. Così come una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere", ha detto, approntando anche una sorta di ideale 'testamento' sulla Chiesa che vorrebbe lasciare dopo di sé: "La vicinanza è essenziale. La Chiesa è madre, e io non conosco nessuna mamma 'per corrispondenza'. La madre dà affetto, tocca, bacia, ama. Quando la Chiesa non è vicina ai suoi figli perché è impegnata in mille cose o comunica con loro attraverso i documenti, è come se una madre comunicasse con i suoi figli per lettera".

Da ansa.it il 18 febbraio 2023.

La formazione dei laici "dev'essere orientata alla missione", e non limitata alla "teoria", "perché così diventa ideologia, e l'ideologia nella Chiesa è una peste". Lo ha detto papa Francesco  al Convegno internazionale dal titolo "Pastori e fedeli laici chiamati a camminare insieme".

 Un'altra "peste" indicata dal Pontefice è quella dei "laici clericalizzati".

 Per il Pontefice "è ora che pastori e laici camminino insieme, in ogni ambito della vita della Chiesa, in ogni parte del mondo! I fedeli laici non sono 'ospiti' nella Chiesa, sono a casa loro, perciò sono chiamati a prendersi cura della propria casa. I laici, e soprattutto le donne, vanno maggiormente valorizzati nelle loro competenze e nei loro doni umani e spirituali per la vita delle parrocchie e delle diocesi. Questa corresponsabilità vissuta fra laici e pastori permetterà di superare le dicotomie, le paure e le diffidenze reciproche", ha affermato.

DAGONOTA l’8 febbraio 2023.

Papa Francesco, finché è rimasto in vita Ratzinger, ha mantenuto un profilo moderato. Ha evitato di entrare apertamente in rotta di collisione con l’ala conservatrice della chiesa e con i suoi infaticabili oppositori.  Passato a miglior vita il Papa Emerito, Bergoglio ha deciso di togliersi qualche sassolone dalla tiara e di scagliare la prima pietra contro i suoi nemici.

 Papa Francesco ha deciso di chiudere la farmacia del Vaticano, famosa per essere la più fornita di Roma e con prodotti a prezzi “miracolosi”, perché sono arrivate al suo orecchio voci su una gestione “disinvolta” di farmaci e prescrizioni.

 La tigna del gesuita Bergoglio potrebbe nuovamente bersagliare monsignor Georg Ganswein e monsignor Liberio Andreatta, che sono i capofila dell’opposizione al pontificato di Francesco.  

(ANSA l’8 febbraio 2023) - Bratislava, 12 settembre 2021. Papa Francesco, in visita pastorale in Slovacchia, incontra i gesuiti della regione. La prima domanda è un semplice "come sta?". Ma la risposta è una vera e propria provocazione di Bergoglio: "Ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene…".

 Il riferimento del Papa riguarda il suo intervento al colon, all'inizio del luglio precedente, al Policlinico Gemelli. Durante il ricovero era anche rimbalzata la "notizia" circa la possibilità di sue dimissioni perché gravemente ammalato… rispedita al mittente dallo stesso Pontefice. "Io personalmente posso meritarmi attacchi e ingiurie perché sono un peccatore, ma la Chiesa non si merita questo: è opera del diavolo. Io l'ho anche detto ad alcuni di loro", aggiunge il Papa, che lamenta pure maldicenze e accuse in molti circoli cattolici.

Gavino Pala, nel suo "Mi volevano morto. Papa Francesco alle prese con i suoi detrattori", in libreria da domani (Edizioni San Paolo 2023, pp. 269, euro 19,00), ha deciso di vederci chiaro: quali sono i "problemi" che, secondo alcuni, il Papa procurerebbe alla Chiesa? Come si è manifestato in questi anni il dissenso nei suoi confronti, sia nei modi leciti sia in quelli meno leciti? Quali caratteristiche del magistero e dell'azione pastorale di papa Francesco rimarranno nel ricordo di tutti e saranno un'eredità, anche scomoda, per il suo successore?

"Tra tanti favorevoli all'opera del Papa è indubbio che si stiano allargando settori perplessi si riguardo alle sue decisioni di governo. Non ha troppo investito sull'incontro con la gente e sulla parola? Che nomine ha fatto? Che riforme ha introdotto? - scrive il presidente della Comunità di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo, nella prefazione al volume - Sono domande che vengono anche da ambienti radicali, che vorrebbero cambiamenti decisivi sulle donne nella Chiesa, sul matrimonio, la democrazia e via dicendo. Ma il papa ha spiegato più volte che il suo metodo è quello di aprire processi".

"Mentre si compiono dieci anni di pontificato sembra che il grande entusiasmo manifestatosi all'inizio stia un po' scemando - aggiunge -. Eppure il Papa resta l'unico leader a livello mondiale in grado di prendere per mano un mondo sballottato da gravissime crisi come quelle del Covid e della guerra mondiale a pezzi".

Il "Corriere" contro il bergoglismo. L’odio del Corriere della sera per Papa Francesco e per la modernità. Michele Prospero su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

Troppo forte il Corriere della sera. Nella sua volontà di punire Francesco, come eroe negativo responsabile nientemeno che della rinuncia a contrastare la scristianizzazione, cambia per decreto anche la geografia. A via Solferino ce l’hanno visceralmente col Papa. Sta disarmando il bel cristianesimo, dicono. Invece di raccogliere le insegne di una gagliarda Chiesa “combattente”, egli rende l’occidente remissivo in nome della coscienza di pace. Bisogna farla finita con l’appello alla “pace senza se e senza ma”. E basta con i viaggi apostolici e le civetterie con il terzomondismo vagamente socialista.

Se potessero, nella scuderia dell’editore Cairo, nominerebbero subito un antipapa. Morto il loro eroe, il Benedetto che però loro stessi giudicano che abbia fallito nella sua strategia di ri-evangelizzazione ostile al relativismo e alla minaccia islamica, al Corriere sparano contro la visione “fortemente universalistica” di Francesco. Ma l’origine di ogni decadenza, più ancora che nel lessico del Papa che viene dai “confini del mondo”, si trova nel Vaticano II. Il Concilio, per il quotidiano che una volta era il foglio della borghesia illuminata lombarda, è il vero epicentro del male assoluto.

Il Corriere della sera guarda più a De Maistre che al Vaticano II. Più alla reazione che al moderno. Più al boia che ai diritti. La genesi della perdizione, per la stampa del molieriano presidente del Toro, risiede nella Roma godereccia dei primi anni Sessanta. Da allora, infatti, i preti parlano il linguaggio dei diritti umani. E, soprattutto, non considerano più la capitale “il centro” della storia mondiale. Non reagiscono alla “ferocia islamista”, come la chiamano in via Solferino, ma aprono alla Cina, inseguono i miti remissivi di un mondo di eguaglianza e solidarietà.

L’urlo del Corriere sculaccia Francesco, il censore dell’occidente, il campione del multiculturalismo, il punto di riferimento dell’irenismo pacifista. Con il suo cosmopolitismo sensibile a un mondo multipolare, il Papa è accusato di dimenticare che l’Europa è, per il vero fedele, l’unico e solido luogo dello spirito. Senza l’esclusivo suolo europeo preso come stabile fondamento, il cristianesimo non può avere identità alcuna. Il legame del sacro con la terra e lo spirito del vecchio continente sono quindi costitutivi.

Per questo il Corriere affida a Galli della Loggia il compito di riscrivere, insieme alla storia del pensiero religioso, anche le carte geografiche dell’antichità. Sulla base delle sue scoperte, tutte le acquisizioni storiografiche vanno gettate alle ortiche. Va preso a calci l’assunto di Werner Jaeger (Cristianesimo primitivo e Paideia greca, La Nuova Italia, 1966) per il quale “tra i fattori che determinarono la forma definitiva della tradizione cristiana, la civiltà greca esercitò un’influenza profonda sul pensiero cristiano”. Questa arcaica tesi, su un mondo unificato dalla cultura e dalla lingua greca come laboratorio della fede, contrasta con la scienza nuova di Galli della Loggia, che vuole celebrare solo la vecchia Europa come il centro geografico del sacro. Quando ha collegato ellenismo ed espansione del cristianesimo, dichiarando che “per lo svolgimento della missione cristiana e per la sua espansione entro e fuori i confini della Palestina questo fu un fatto decisivo”, Jaeger non ha ben capito il retroterra esclusivamente europeo della fede.

Il rasoio di Galli della Loggia taglia le escrescenze extraeuropee come punte di un prurito fastidioso. E così dalla storia della dottrina cristiana recide in un sol colpo la Palestina e Gerusalemme, la Mesopotamia, l’ebraismo tardo, i cosiddetti Rotoli del Mar Morto, con le sette ascetiche che vivevano sulle sue rive, Antiochia e la Turchia, la Siria, l’Algeria. Gran parte degli apostoli e degli scrittori della patristica provenivano da Alessandria, da Nissa, dalla Cappadocia.

Il bello è che dal cupo tramonto della Chiesa come mistico presidio dell’occidente, dal cristianesimo senza Cristo, un non-europeo peraltro, Galli della Loggia salva solo il pontificato breve di Benedetto. Il quale, poi, aveva in Agostino il suo ispiratore, di contro al tomismo mai apprezzato. E però il Doctor Gratiae veniva da Ippona, Algeria, non certo vecchia Europa. Scoprendo quanti turchi, algerini, siriani sono tra i Padri della Chiesa, forse Galli della Loggia rinuncerà a quel suo pasticciaccio teologico che gli fa maltrattare, con la storia, la geografia, e umiliare, con la geografia, la storia quella vera.

Michele Prospero

Fumata bianca. Voci, dubbi e confessioni: la Chiesa si interroga sul pontificato. Nico Spuntoni il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Aumentano le critiche e le trame intorno a papa Francesco, anche da parte dei progressisti. Inoltre, spunta la rivelazione del cardinale che pronosticò un conclave vicino

I cosiddetti conservatori si leccano le ferite rimediate in poco più di un mese. Prima la morte di Benedetto XVI, poi quella improvvisa del cardinale George Pell, ora la notizia del ricovero in ospedale del cardinale anticomunista Joseph Zen per problemi respiratori. Il 2023, iniziato a poche ore dalla morte di Joseph Ratzinger, non sembra essere l'anno fortunato di chi si sente a disagio con la linea dell'attuale pontificato. In settimana, peraltro, è stata anche ufficializzata l'accettazione della rinuncia di monsignor Giampaolo Crepaldi che dopo 13 anni lascia la guida della diocesi di Trieste al sacerdote Enrico Trevisi. Nonostante il prelato avesse compiuto 75 anni solo da pochi mesi, Francesco non ha concesso alcuna proroga e lo ha mandato in pensione. Fu Benedetto XVI a nominarlo a Trieste nel 2009 ed è a quel pontificato che Crepaldi deve essersi sentito legato, rimanendo uno dei pochi vescovi italiani "sopravvissuti" di quella stagione.

L'ultimo saluto australiano a Pell

Nonostante ciò, la morte di Benedetto XVI e quella del cardinal Pell sembrano aver dato, paradossalmente, vitalità ad un mondo stordito da quasi dieci di pontificato bergogliano come quello (volendo semplificare) tradizional-conservatore. Infatti la straordinaria e per certi versi inaspettata partecipazione all'esposizione della salma e alle esequie del Papa tedesco ha messo in secondo piano le divisioni fino ad oggi esistenti e ha dato slancio a chi nella Chiesa non vuole vedere svanire l'eredità di quel pontificato.

Un effetto simile c'è stato a seguito della morte del cardinale George Pell, vero punto di riferimento per chi - senza cadere in attacchi strumentali - vive con sempre più insofferenza l'attuale corso nel governo della Chiesa. Il suo improvviso decesso ha contribuito a rendere pubblico il suo lavoro dietro le quinte per arrivare ad una prossima "normalizzazione" ai vertici della Chiesa dopo gli ultimi anni. Forte anche dell'autorevolezza che gli veniva dalla persecuzione mediatico-giudiziaria, Pell era riuscito a parlare ed essere ascoltato anche da personalità insospettabili. Pell non tramava alle spalle del Papa: era un uomo schietto e il suo disaccordo lo manifestava pubblicamente, come emerso nell'ultimo articolo al vetriolo pubblicato sul The Spectator nel quale aveva criticato fortemente il Sinodo sulla sinodalità voluto da Jorge Mario Bergoglio.

La stima conquistata dal cardinale australiano non si è vista soltanto nel funerale celebrato in Vaticano lo scorso 14 gennaio e dalle dichiarazioni sul suo conto rese da cardinali, vescovi, politici e intellettuali, ma anche dalla partecipazione registrata alla messa funebre nella cattedrale St. Mary di Sydney che ha preceduto la sepoltura nella cripta.

Odio e amore

Migliaia di persone, decine di vescovi, i familiari in prima fila. L'ultimo addio della sua Sydney, con la cerimonia celebrata dal successore, monsignor Anthony Colin Fisher, ha dato l'immagine di una Chiesa orgogliosa e coraggiosa mentre fuori dalla chiesa qualche centinaio di manifestanti augurava a Pell di andare all'inferno con cartelli ed urla. Nella sua commemorazione, il fratello David ha attaccato i "falsi cattolici" che lo hanno abbandonato nei giorni del carcere.

Tony Abbott, ex primo ministro e suo grande amico, lo ha ricordato come "il più grande cattolico che l'Australia abbia prodotto e uno dei più grandi figli del Paese", ignorando le proteste di una parte dell'opinione pubblica che devono aver spinto invece l'attuale premier Anthony Albanese a non partecipare nonostante si dichiari cattolico.

Le ultime confessioni di Pell

La grande commozione per la morte del cardinale ha favorito in queste ultime ore ulteriori rivelazioni sulle sue ultime confessioni. Dall'altra parte dell'oceano, infatti, sul quotidiano The Australian, due suoi amici come la biografa Tess Livingstone e il gesuita Frank Brennan hanno raccontato due episodi emblematici dell'insofferenza dell'ex prefetto della Segreteria per l'economica vaticana nei confronti dell'attuale pontificato.

Ha scritto Livingstone: "In privato poteva essere duro riguardo alla mancanza di rispetto per i morti, come lo era stato nella nostra ultima conversazione, la notte prima di andare in ospedale. In quell'occasione, era infastidito dal fatto che il Vaticano avesse consentito l'apertura dei negozi durante i funerali di Papa Benedetto in Piazza San Pietro, la scarsa predica di Papa Francesco sul suo predecessore, l'omissione del canone romano a favore di un'altra preghiera eucaristica e i burocrati della curia che rendevano difficile per la concelebrazione dei sacerdoti".

Padre Brennan, invece, dopo aver ricordato - così come aveva fatto anche Abbott - il ruolo significativo svolto dal cardinale negli ultimi due conclavi, ha rivelato che Pell "nonostante avesse più di 80 anni e non fosse in grado di votare, sperava di avere un'influenza decisiva nel determinare l'esito del prossimo. A pranzo a Roma, qualche settimana fa, mi assicurò che il prossimo conclave non era lontano". Per questo motivo, ha scritto il gesuita, Pell aveva detto gli amici che non sarebbe tornato in Australia per sottoporsi all'intervento chirurgico all'anca perché "non voleva rischiare di trovarsi dall'altra parte del mondo dopo l'operazione e prima del conclave".

Chi vi scrive può confermare entrambe le rivelazioni: è vero, come riportato da Livingstone, che le modalità di gestione del funerale di Benedetto XVI avevano infastidito il cardinale così come è vero che, nonostante i consigli di amici e conoscenti di operarsi in patria o al massimo a Londra, Pell aveva fortemente voluto rimanere a Roma perché convinto che un eventuale conclave si sarebbe potuto tenere in qualsiasi momento.

Un pontificato in affanno

Francesco ha dimostrato, invece, di essere in buona salute e ben saldo, al punto da mantenere la promessa di compiere il viaggio apostolico in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan che era stato precedentemente costretto ad annullare per via dei dolori al ginocchio. E l'Africa ha dato al Papa l'occasione di respirare un clima di entusiasmo che manca da un po' a Roma.

Non c'è solo il fronte cosiddetto conservatore a dare grattacapi al pontefice argentino. L'attacco più duro, infatti, lo ha incassato dal capo dei vescovi tedeschi, l'ultra-progressista Georg Bätzing, che in un'intervista alla Welt ha dichiarato di ritenere che "questo modo di esprimersi della leadership della Chiesa, attraverso interviste, sia estremamente discutibile”. In una recente intervista ad Associated Press, il Papa si era espresso nettamente sull'esperienza tedesca, dicendo che il Sinodo tedesco è "un cosiddetto cammino sinodale, ma non della totalità del popolo di Dio, ma fatto di élite" e paventando "il pericolo che trapeli qualcosa di molto, molto ideologico".

Il presidente della conferenza episcopale tedesca non ha avuto timore di rimproverare Bergoglio, criticandolo per non aver sollevato queste obiezioni durante la recente visita ad limina dei vescovi tedeschi. "Siamo stati lì per una settimana intera - ha osservato Bätzing - ci siamo seduti insieme a Papa Francesco per due ore e mezza. Quello sarebbe stato il luogo e il momento per il Papa di parlarci, allora avremmo potuto anche rispondere”. Nemmeno in Germania, dunque, si fanno sconti al Papa che non ha bloccato lo svolgimento del processo sinodale nonostante le riserve manifestate dalla minoranza dell'episcopato nazionale e dalla Curia romana.

Oggi, nel volo di ritorno a Roma, Francesco avrà l'occasione di rispondere alle domande dei giornalisti accreditati. Vedremo se sarà anche l'occasione per rispondere alle numerose critiche incassate dall'inizio di questo 2023.

"Questo Papa è di sinistra". L'affondo dell'ex uomo di Trump. Storia di Nico Spuntoni su Il Giornale il 29 gennaio 2023.

Mike Pompeo scalda i motori in vista delle primarie repubblicane per le presidenziali del 2024 con un libro (dal titolo Never Give an Inch: Fighting for the America I Love) che non risparmia un duro attacco alla politica estera di Papa Francesco.

L'ex segretario di Stato degli Stati Uniti d'America dedica addirittura un capitolo a quella che chiama "l'ipocrisia della Santa Sede" con cui avrebbe fatto i conti nel corso del suo mandato durato dal 2018 al 2021. Per Pompeo "la politica estera del Vaticano ha sempre propeso verso sinistra" e il riferimento va soprattutto all'atteggiamento verso la Cina dimostrato durante questo pontificato. Non è un mistero che il politico repubblicano ha sempre avversato l'accordo provvisorio sino-vaticano sulla nomina dei vescovi stipulato il 22 settembre 2018 al punto da prendere posizione pubblica in un articolo su First Things del settembre 2020 e chiedere alla Santa Sede di non rinnovarlo per non mettere "in pericolo la sua autorità morale".

Quell'intervento del segretario di Stato Usa in carica provocò un grande gelo con il Palazzo Apostolico tant'é che pochi giorni dopo, in occasione della sua visita a Roma, il Papa si rifiutò di incontrarlo. La motivazione ufficiale fu l'inopportunità di ricevere autorità politiche che si trovano in campagna elettorale. Ma Pompeo - che all'epoca si preparava alle presidenziali del 3 novembre 2020 conclusesi con la contestata sconfitta di Donald Trump - non deve aver creduto a questa motivazione e più di due anni dopo ritorna su quei fatti per un giudizio piuttosto netto sul Pontefice argentino. "Reagan aveva avuto come alleato Giovanni Paolo II, noi eravamo incartati con Papa Francesco", scrive l'ex direttore della Cia.

L'alta tensione tra Usa e Santa Sede

Chi era presente, ricorda bene il clima teso tra i rappresentanti della Segreteria di Stato vaticana e quelli dell'amministrazione statunitense nel corso del simposio sulla libertà religiosa organizzato il 30 settembre 2020 dall'ambasciata Usa presso la Santa Sede nell'hotel romano Excelsior. Il segretario per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher non nascose la sua irritazione nei confronti dell'allora omologo americano e lo accusò di voler strumentalizzare il Papa in vista delle elezioni, confermando che quello era anche uno dei motivi per cui Bergoglio non lo aveva voluto ricevere.

Dal canto suo, Pompeo non arretrò e ribadì anche in quell'occasione la necessità di "opporsi ai regimi tirannici" e "sostenere quanti si battono per la libertà religiosa, secondo l'insegnamento di Giovanni Paolo II". Leggendo oggi le pagine del suo libro sembra trovare conferma la ricostruzione di chi interpretò quel richiamo al santo polacco - passato alla storia anche per il suo anticomunismo - come un tentativo di contrapporlo alla politica dialogante con Pechino portata avanti da Francesco. Non a caso, riporta anche Repubblica, il segretario di Stato Usa dell'amministrazione Trump rivela anche che "uno dei miei grandi alleati era il cardinale Joseph Zen" il quale in una telefonata, parlando della situazione delle libertà civili ad Hong Kong, gli disse "che il fallimento del Vaticano è stato peggiore della guerra". Zen è stato il più grande critico dell'accordo sulla nomina dei vescovi, solo di recente ricevuto da Francesco in udienza privata dopo un clamoroso rifiuto avvenuto nello stesso periodo del viaggio romano di Pompeo.

La corsa alla Casa Bianca

Tra le critiche rivolte dal politico repubblicano al Papa, anche la rievocazione di un loro incontro del 2019 durante il quale Bergoglio "riconobbe che le persone del mondo erano perseguitate ma poi cambiò soggetto, sollecitando gli Usa ad allineare le loro politiche sul confine meridionale alla chiamata cristiana di aiutare i più deboli". "Proprio non capiva l'argomento", è il lapidario giudizio di Pompeo. Difficile che le sue parole al vetriolo sull'attuale pontificato possano pregiudicargli consenso nella base repubblicana di fede cattolica in caso di sua eventuale partecipazione alle primarie. Anzi. Non è un mistero, infatti, che Francesco sia poco amato tra i conservatori americani. Lo scontro a distanza che il Papa ebbe con Donald Trump durante la sua corsa presidenziale nel 2016, quando di ritorno dal viaggio in Messico definì "non cristiano" chi pensa di costruire muri beccandosi la reazione stizzita del tycoon che lo accusò di fare politica, non compromise il consenso dei cattolici non progressisti poi determinante per l'elezione alla Casa Bianca.

Al contrario, il malcontento nei confronti dell'attuale pontificato emerso in alcune frange della Chiesa - soprattutto negli States - a seguito della gestione della morte di Benedetto XVI potrebbe fare gola ad un eventuale candidato alla nomination presidenziale sotto le insegne del Gop. La menzione di due figure amatissime tra i cattolici conservatori americani come Giovanni Paolo II e del cardinale Zen potrebbe stare lì a testimoniarlo.

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 25 Gennaio 2023.

«Ho perso un padre», dice della morte di Benedetto XVI, spiega ironico di stare tutto sommato bene, «potrei morire domani, ma è tutto sotto controllo, sono in buona salute», e spiega di non aver nemmeno preso in considerazione l’idea di emanare norme per regolare le future dimissioni papali e di voler continuare il più a lungo possibile «ad essere vescovo, vescovo di Roma in comunione con tutti i vescovi del mondo».

Papa Francesco parla all’Associated Press e nella prima sintesi dell’agenzia americana, che riporta solo alcuni stralci della conversazione, definisce «sgradevoli come un’eruzione cutanea che dà un po’ fastidio» le contestazioni degli oppositori , «ma io preferisco che lo facciano perché così c’è libertà di parola», e critica tra l’altro come «ingiuste» le leggi che criminalizzano l’omosessualità, «essere omosessuali non è un crimine», anche se la qualifica come un «peccato» - in contraddizione apparente con quanto disse nel 2013, «chi sono io per giudicare?» - e dice, secondo l’Ap: «Non è un crimine. “Sì, ma è un peccato” (dice, riferendo una immaginaria replica, ndr). Bene, ma prima distinguiamo tra un peccato e un crimine».

L'umanissimo Papa: "Le critiche? Fatele in faccia". E redarguisce anche i vescovi: "L'omosessualità è un peccato, ma non un crimine". Fabio Marchese Ragona il 26 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ditemi le cose in faccia, direttamente, le critiche aiutano a crescere. Dopo settimane di tensioni, veleni e messaggi recapitati a mezzo stampa, Papa Francesco mette la parola fine alla situazione creatasi in Vaticano dopo la morte di Benedetto XVI, con una valanga di polemiche sollevate contro di lui attraverso due libri e un vecchio memoriale divulgato in vista di un futuro conclave.

In una lunga intervista in spagnolo all'agenzia di stampa americana Associated Press, il Pontefice argentino ha voluto chiarire il suo pensiero riguardo alle critiche arrivate da tre figure di spicco della Curia Romana: l'ex segretario di Ratzinger, monsignor Georg Gänswein che ha già incontrato il Pontefice per un chiarimento, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede e spesso descritto come «nemico» del Papa, etichetta da lui fortemente respinta e infine il cardinale australiano George Pell, prefetto emerito della Segreteria per l'economia, scomparso il 10 gennaio scorso a seguito di un'operazione all'anca. Dopo la sua morte si è scoperto che il porporato era l'autore di un memorandum, firmato con lo pseudonimo «Demos», fatto circolare tra i cardinali elettori nel marzo 2022 in vista di una nuova elezione papale.

Un testo dove il pontificato di Francesco viene definito «un disastro sotto molti o più aspetti, una catastrofe». «Anche se dicono che mi ha criticato, va bene, ne ha diritto. La critica è un diritto umano. Pell era una brava persona, grande», è stata la risposta di Bergoglio nel corso dell'intervista. E parlando invece delle critiche di padre Georg e del cardinal Müller, senza citarli direttamente, ha aggiunto: «Sono state come avere un'eruzione cutanea che ti dà un po' fastidio: uno preferisce che non critichino per amore di tranquillità, ma io preferisco che lo facciano perché significa che c'è libertà di parola. Non è come se ci fosse una dittatura della distanza, come la chiamo, dove l'imperatore è lì e nessuno può dirgli nulla. No, lasciamo che parlino perché le critiche ti aiutano a crescere e a migliorare le cose. L'unica cosa che chiedo e che me le portino qui, che me le dicano in faccia, perché è così che si cresce, no?».

Le critiche e gli attacchi ricevuti però, Francesco, non li collega alla morte di Benedetto XVI, non ci vede una regia secondo cui si dovesse riaprire la faida tra fazioni alla scomparsa del Papa emerito. Bergoglio pensa invece che sia tutto collegato «all'usura di dieci anni di governo», ricordando che dopo la sua elezione avvenuta il 13 marzo del 2013 qualcuno rimase sorpreso e qualcun altro mostrò disagio «quando hanno iniziato a vedere i miei difetti e non sono loro piaciuti».

Nel colloquio il Papa non si è limitato a parlare soltanto delle questioni interne ma ha toccato, ad esempio, anche il tema dei diritti della comunità LGBTQ, criticando i vescovi che, «per cultura» appoggiano le leggi contro gli omosessuali. «Essere omosessuali non è un crimine», ha detto il Papa definendo ingiusta la legislazione di quei Paesi che criminalizzano i gay. E parlando degli stessi alti prelati che parlano di «peccato» ha aggiunto: «Dovrebbero fare un processo di conversione. Prima distinguiamo tra un peccato e un crimine. Peccato è anche mancare di carità gli uni con gli altri. Dovrebbero usare la tenerezza, per favore, come Dio ha per ciascuno di noi».

Francesco ha infine rassicurato sulle proprie condizioni di salute, respingendo ancora una volta l'ipotesi dimissioni: Non ho neanche pensato a un testamento, ha rivelato, parlando anche di Benedetto XVI: Per me è stato come perdere un papà, un compagno: quando avevo qualche dubbio, prendevo la macchina e andavo da lui al monastero a chiedere consiglio.

Estratto dell’articolo di Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 23 gennaio 2023.

«Non sono un nemico di papa Francesco. Sono un teologo. E il Papa può essere sicuro che, quando mi chiede di dire una parola, gli dico la verità, non un’argomentazione a favore dei miei amici». Il cardinale Gerhard Ludwig Müller, 75 anni, curatore dell’opera omnia di Ratzinger, è stato prefetto dell’ex Sant’Uffizio dal 2012 al 2017, quando Francesco lo sostituì, «chiaro che ci rimasi male, sono un essere umano, alcune fonti vicine al Papa dicevano che “Müller era troppo rigido” ma lui non mi ha detto nulla». […]

C’è un «cerchio magico» intorno al Papa?

«Vede, io penso che il Papa debba avere consiglieri competenti. La sua missione avrebbe bisogno di competenze teologiche ed esegetiche che mancano. Sarebbe importante chiedere l’aiuto della Curia romana, e non soltanto degli amici personali. […] La nomina di un vescovo […] deve essere preparata, un candidato va scelto in base alle sue capacità intellettuali oltre che pastorali, e non perché è amico dell’amico che lo raccomanda».

C’è chi pensa che il suo sia un manifesto dell’opposizione a Francesco...

«[…] La Chiesa cattolica […] è collegialità e fraternità di vescovi sub Petro. Il Papa è il successore di Pietro […] ma d’altra parte non è Dio in Terra. Inoltre si deve distinguere tra atti che riguardano la dottrina e le altre opinioni, come quelle politiche. Non è che non si possa dire la nostra opinione».

 Ad esempio?

«Il rapporto con il regime cinese. Adesso si critica Pio XII per l’atteggiamento nei confronti di Mussolini e Hitler, ma dobbiamo imparare qualcosa dal passato, no? La Chiesa deve difendere la dignità umana, sempre, non può ignorare questa dittatura comunista brutale che nega i diritti umani. Una cosa è trattare, ma non si possono fare compromessi con il male».

Ha accusato il Papa per la «destituzione» di alcuni vescovi.

«La gerarchia non è una forma dell’autocrazia. Il Papa deve rispettare il diritto divino dei vescovi, che non sono gli impiegati del Papa ma sono stati istituiti da Gesù. Pietro non era il dittatore degli apostoli».

 E Francesco?

«Alcuni vescovi si sono sentiti maltrattati. A parte casi estremi, se uno agisce contro la fede, non si può destituire un vescovo così, perché non piace. […]». […] «La Chiesa non è una democrazia, dove il popolo è il sovrano e si decide a maggioranza. La Chiesa è il popolo di Dio dove Dio è il sovrano. Neanche il Papa e i vescovi sono i sovrani della Chiesa».

Lei contesta ciò che disse il cardinale Martini: la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni.

«[…] La Chiesa […] non è un’organizzazione umana. Una cosa è rispondere alle sfide di oggi, ma il contenuto e la sostanza della Rivelazione non possono essere cambiati secondo il piacere dei tempi».

 Per questo dice ancora che gli omosessuali sono «contro natura»?

«Dio ha creato l’uomo e la donna, questa è la base della fede».

 Diversi cardinali e vescovi riconoscono il valore di amore nelle unioni omosessuali...

«Ci sono stati anche cardinali e vescovi che hanno insegnato eresie». […]

L'"erede" di Ratzinger a ruota libera contro Bergoglio. Il cardinale Gerhard Müller, che Benedetto XVI volle all'ex Sant'Uffizio prima di lasciare, critica il governo di Papa Francesco. Nico Spuntoni il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Gerhard Ludwig Müller non è un cardinale qualunque. Fu a lui, infatti, che Benedetto XVI pensò di affidare la guida della Congregazione per la dottrina della fede nel 2012 e sempre a lui, prima ancora, chiese di curare l'Opera Omnia dei suoi studi teologici. Il malessere che il porporato tedesco vive nell'attuale pontificato era ben noto da tempo, ma il ritratto al vetriolo che ha riservato a molti aspetti del governo di Francesco in un libro-intervista scritto con la vaticanista Franca Giansoldati ("In buona fede: La religione nel XXI secolo", editore Solferino) non poteva non far discutere.

Ex collaboratore

Bisogna ricordare, infatti, che Müller è stato il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede di Francesco dal 2013 fino al luglio del 2017. In quell'anno venne - inusualmente per chi ricopriva quest'incarico - sostituito alla scadenza del mandato quinquiennale con il suo numero due, il gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer.

Già all'epoca dei fatti trapelò la notizia di una cacciata non indolore e successivamente il cardinale confermò queste indiscrezioni, raccontando in varie interviste di essere stato congedato in malo modo dal Papa. Nel libro, Müller ha arricchito di particolari circostanziati l'udienza in cui Bergogliò gli comunicò la sua rimozione.

"Il giorno prima era il 29 giugno, festa solenne di Pietro e Paolo e ricordo che Papa Francesco mi abbracciò sul sagrato della basilica davanti a tutti, alla fine della messa, dicendomi di avere piena fiducia in me", racconta. "Mi disse proprio così. Il giorno seguente mi recai puntuale in udienza al Palazzo Apostolico per sottoporgli una serie di questioni che erano rimaste in sospeso, si trattava di un appuntamento di routine per il Prefetto della Congregazione della Fede. A conclusione del breve colloquio mi disse sinteticamente: 'Hai terminato il tuo mandato. Grazie per il tuo lavoro' senza fornirmi alcun motivo", prosegue il prelato.

Francesco credette a quelli che Müller bollò come "chiacchieroni" e che probabilmente presentarono l'allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede come un nemico del Papa. Quell'ultimo incontro impressionò il cardinale per il "volto compiaciuto" del suo superiore e per "lo stile frettoloso" del congedo, evidentemente però preparato da prima dal momento che - come ricorda il porporato nel libro - "il comunicato stampa (...) fu diffuso a tamburo battente". Il cardinale, tuttavia, non sembra farne una questione personale ma piuttosto una critica allo stile di governo del pontefice argentino dal momento che - sempre secondo Müller - era un modus operandi frequente in Vaticano e lo aveva sperimentato poco tempo prima lui stesso ai danni di alcuni suoi fidati collaboratori alla Congregazione per la dottrina della fede.

Troppo vicino a Ratzinger?

All'indomani del suo licenziamento, Benedetto XVI solidarizzò pubblicamente con l'uomo che aveva voluto all'ex Sant'Uffizio nel 2012 e lo fece in una lettera che venne pubblicata come prefazione ad un volume uscito per i suoi 70 anni. Lo elogiò per aver "difeso le chiare tradizioni della fede" e gli ricordò che "un sacerdote e soprattutto un vescovo e cardinale non va mai in pensione". Müller, infatti, nonostante all'epoca della rimozione avesse 69 anni e nonostante - come racconta nel libro - durante l'ultima udienza da prefetto avesse avuto la rassicurazione di Francesco di una nuova mansione da decidere dopo l'estate del 2017, è rimasto fino ad oggi senza alcun incarico attivo in Curia.

E il cardinale attribuisce l'origine della sua caduta in disgrazia proprio alla vicinanza personale e teologica a Ratzinger. "Per i teologi della cerchia papale io restavo sempre troppo pericolosamente più vicino alla linea di Ratzinger", ha scritto Müller raccontando anche alcuni aneddoti sul suo periodo alla guida dell'ex Sant'Uffizio.

Si legge nel libro: "Ricordo un’altra volta che pubblicai su 'L’Osservatore Romano' un articolo dettagliato sull’indissolubilità del matrimonio. Mi arrivò a stretto giro una telefonata di Andrea Tornielli, un giornalista italiano amico del Papa. All’epoca non era ancora entrato al Dicastero per la Comunicazione del Vaticano. Mi contattò per farmi sapere che la linea teologica che avevo espresso nel testo pubblicato sulla Amoris Laetitia non era certamente la stessa di Papa Francesco. Voleva sapere da me se il Pontefice mi aveva o meno dato il permesso di scrivere".

Bisogna ricordare che Müller era prefetto quando divennero pubblici i dubia su alcuni contenuti di Amoris Laetitia e rifiutò di rispondere, invitando i quattro cardinali firmatari - Raymond Burke, Carlo Caffarra, Walter Brandmüller, Joachim Meisner - ad evitare polarizzazioni. Tuttavia, già all'epoca, il porporato ribadì la sua contrarietà alla possibilità di concedere la comunione ai divorziati risposati.

No al Papa emerito

Nonostante lo stretto legame con Ratzinger, Müller non ha nascosto le sue perplessità sulla decisione della rinuncia e dell'adozione del titolo di Papa emerito. Nelle sue risposte alla giornalista Franca Giansoldati, il cardinale ha detto di rispettare "la decisione personale di Ratzinger, presa in coscienza, in libertà" nel 2013 ma al tempo stesso ha voluto sottolinearne tutte le criticità. "Le dimissioni hanno introdotto un’incrinatura del principio petrino dell’unità della fede e della comunione della Chiesa che non ha eguali nella storia e non è ancora stata elaborata dogmaticamente", ha detto il porporato raccontando poi di aver appreso la notizia della rinuncia dal suo confratello svizzero, il cardinale Kurt Koch e di esserci rimasto male per non essere stato tra i pochi informati prima dell'annuncio.

Sulle motivazioni che hanno portato a quel passo indietro, pur ammettendo di non conoscerle, il cardinale ha spiegato che all'epoca Benedetto XVI era anche fiaccato dalla "violenta campagna mediatica contro di lui" scatenatasi dopo la rimozione della scomunica ai quattro vescovi consacrati senza il permesso di Roma da Marcel Lefebvre e tra i quali c'era anche Richard Williamson, autore di dichiarazioni negazioniste di cui però Ratzinger non era stato messo al corrente. "Ricordo che in Germania Ratzinger veniva accusato sui media di essere vicino al nazionalsocialismo e di avere nutrito simpatie hitleriane", ha scritto il cardinale ricordando anche come questo fatto avesse provato duramente Benedetto XVI.

Ancora più problemi della rinuncia del 2013, secondo Müller, ha portato la coesistenza di un Papa regnante con un Papa emerito a poca distanza l'uno dall'altro, in Vaticano. "I due protagonisti - ha sostenuto il prelato - sono diventati, anche contro la loro volontà, un punto di attrazione per cattolici di orientamenti spirituali e teologici diversi o anche soltanto per simpatie umane".

Per il futuro, il porporato tedesco si è augurato che le condizioni di salute di un Papa non debbano portarlo alle dimissioni perché, ad esempio, "un Papa ammalato di cancro o di SLA offre testimonianza agli altri malati, trasmette loro speranza, amore e compassione".

Contro il cerchio magico di Bergoglio

E di dimissioni, Müller parlò anche con Francesco raccontando di avergli sconsigliato di emulare il suo predecessore ma al tempo stesso ammettendo, con ironia, di non confidare molta speranza sul fatto che il suo consiglio sarà ascoltato perché il Papa "per suo carattere, alla fine fa sempre il contrario di quello che gli si dice".

Nel suo libro, il cardinale ha messo nel mirino quelle che ritiene le storture di Bergoglio nel governo della Chiesa. In particolare, Müller ha denunciato l'esistenza di e una sorta di un "cerchio magico che gravita attorno a Santa Marta formato da persone che, a mio parere, non sono preparate dal punto di vista teologico". Il porporato ha anche messo in evidenza come, a suo parere, ci sia in Vaticano un potere parallelo in grado di scavallare i canali istituzionali che, secondo Müller, sarebbero "sempre meno consultati dal pontefice" a scapito di "quelli personali utilizzati persino per le nomine dei vescovi o dei cardinali".

Sempre sulle amicizie è arrivato un altro degli affondi più pesanti all'attuale pontificato. Müller, infatti, ha citato due casi che hanno fatto discutere in questi anni: quello del vescovo argentino Gustavo Zanchetta condannato per abusi sessuali su due seminaristi nel suo Paese e quello del prete italiano Mauro Inzoli condannato in Italia per abusi sessuali su minori.

Per il cardinale tedesco "le amicizie non possono influenzare il procedere della giustizia" e quindi tutti vanno trattati in modo uguale. A sostegno di questa tesi ha testimoniato quanto vissuto ai tempi del suo incarico alla Congregazione per la dottrina della fede.

Sul caso di don Inzoli, ha raccontato: "Il tribunale vaticano avviò un processo su di lui alla fine del quale si decise di ridurlo allo stato laicale perché fu riconosciuto colpevole di crimini. Purtroppo però vi fu un cardinale di curia che andò a bussare a Santa Marta, chiedendo clemenza. Davanti a questo interventismo il Papa si convinse e scelse di modificare la sentenza aggiustando la pena a Inzoli, stabilendo che rimanesse sacerdote ma con il divieto di indossare in pubblico l’abito sacerdotale o il clergyman e senza presentarsi alle comunità come consacrato".

Da questa testimonianza, l'accusa di un trattamento di favore per i sacerdoti italiani condannati per i quali, secondo il cardinale, era sempre difficile ottenere la riduzione allo stato laicale dal momento che "si muovevano dietro le quinte gli amici influenti che bussavano a Santa Marta andando dal Papa a chiedergli di intercedere. E alla fine ci riuscivano quasi sempre".

La reazione

Accuse pesanti quelle di Müller che di certo non teme di compromettere un rapporto ormai quasi inesistente con il Santo Padre. Il libro scritto con Franca Giansoldati arriva poco dopo il clamore provocato da un altro volume molto critico con Bergoglio, quello scritto da monsignor Georg Gaenswein con il vaticanista Saverio Gaeta ("Nient'altro che la verità", Piemme).

Müller e Francesco si sono incrociati poco più di una settimana fa al funerale di un altro prelato che non ha risparmiato critiche anche dure all'attuale pontificato, l'australiano George Pell. Non si rivedranno, però, in occasione dei tradizionali esercizi spirituali quaresimali riservati alla Curia e ai cardinali residenti a Roma. Bergoglio, infatti, ha deciso di invitare i suoi collaboratori a vivere privatamente questo tempo di preparazione alla Pasqua.

Estratto da corriere.it il 20 Gennaio 2023.

Papa Francesco è attorniato da un «cerchio magico»: una cerchia di persone «impreparate» dal punto di vista teologico e che determina anche le nomine.

 A lanciare quello che sembra a tutti gli effetti un nuovo, duro atto di accusa nei confronti di Papa Francesco, dopo quelli giunti da padre Georg Ganswein nelle ore che seguirono la morte di benedetto XVI, è il cardinal Gerhard Müller, ex Prefetto per la Dottrina della Fede, nel libro «In buona fede» con Franca Giansoldati (Solferino) in uscita a giorni.

 Il «cerchio magico»

«Vi è una sorta di cerchio magico che gravita attorno a Santa Marta», dice Müller, riferendosi alla residenza del Papa in Vaticano, «formato da persone che, a mio parere, non sono preparate dal punto di vista teologico. In Vaticano sembra che ormai le informazioni circolino in modo parallelo, da una parte sono attivi i canali istituzionali purtroppo sempre meno consultati dal pontefice, e dall’altra quelli personali utilizzati persino per le nomine dei vescovi o dei cardinali».

Müller torna poi sulla questione della stretta sulla messa in latino, decisa da Papa Francesco e che — secondo Ganswein — «spezzò il cuore» di Ratzinger. Quella decisione, per Müller, fu «uno schiaffo» per i tradizionalisti, che «ha scavato fossati e ha causato dolore»: «Agendo in questa direzione Papa Francesco sembra abbia dato ascolto a un gruppo di consiglieri senza tenere conto che quel provvedimento avrebbe assunto i contorni di una mera dimostrazione di potere».

 L’ex Prefetto per la Dottrina della Fede torna poi anche sul caso del cardinal Becciu, criticando le decisioni del Papa: «Francesco ha deciso di punirlo severamente dopo che qualcuno era andato da lui, a Santa Marta, per mostrargli un articolo de L’Espresso, un settimanale italiano che riportava un’inchiesta sul cardinale. Ma come si fa ad agire in base a un articolo di stampa? Non si può punire qualcuno senza avere in mano le prove della sua colpa.

 Questo modo di agire è capitato di frequente in Vaticano e non riguarda solo il singolare caso Becciu, ma è accaduto persino dentro la Congregazione per la Dottrina della Fede quando furono mandati via alcuni sacerdoti senza ragioni, dall’oggi al domani. Per il cardinale Becciu la questione è macroscopica anche perché amplificata dai mass media: è stato umiliato e punito di fronte al mondo senza che gli sia stata data alcuna possibilità di difesa. Ora si aspetta la fine del processo in corso al tribunale vaticano. Eppure dovrebbe valere per chiunque la presunzione di innocenza, un diritto sacrosanto dai tempi degli antichi romani».

Ultraconservatori ancora all'attacco. Papa Francesco sotto attacco, l’affondo del cardinale Müller: “Comanda un cerchio magico, sugli abusi privilegiò i suoi amici”. Redazione su Il Riformista il 21 Gennaio 2023

La scomparsa il 31 dicembre scorso del Papa emerito Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, come noto ha dato il là ad una sfilza di dichiarazione al vetriolo e accuse nei confronti dell’attuale pontefice Francesco.

Raffiche di veleni che hanno visto protagonista in particolare l’ex segretario di Ratzinger, monsignor Georg Gänswein, esponente di quei circoli tradizonalisti e ultraconservatori che da sempre non apprezzano il pontificato ‘progressista’ di Bergoglio.

L’ultimo episodio della lunga serie di affondi contro Francesco arriva da un autorevole membro della fronda ratzingeriana, il cardinale Gerhard Ludwig Müller. Il 75enne porporato tedesco, che Ratzinger chiamò alla guida della congregazione per la Dottrina della fede e che venne invece ‘messo a riposo’ nel 2017 da Francesco, dà voce ai malumori dell’ala conservatrice della Chiesa contro il pontefice riformista.

Lo fa in un libro-intervista che uscirà dopo quello di Gänswein. Edito da Solferino, “In buona fede” è una intervista della vaticanista del Messaggero Franca Giansoldati che riporta di fatto l’atto di accusa dei conservatori contro Francesco.

A darne conto è un articolo di Repubblica, che anticipa alcune parti del libro. Il cardinale, rimasto a Roma senza incarico, torna proprio sulla decisione del Papa argentino di togliergli la guida della congregazione per la Dottrina della fede nel 2017: “È stato un fulmine a ciel sereno“, afferma Müller.

Quindi le parole più dure contro l’entourage del pontefice: “Vi è una sorta di cerchio magico che gravita attorno a Santa Marta formato da persone che, a mio parere, non sono preparate dal punto di vista teologico“, dice il cardinale tedesco, secondo il quale “in Vaticano sembra che ormai le informazioni circolino in modo parallelo, da una parte sono attivi i canali istituzionali purtroppo sempre meno consultati dal Pontefice, e dall’altra quelli personali utilizzati persino per le nomine dei vescovi o dei cardinali“.

Da Müller arriva poi, e non poteva essere altrimenti, una posizione analoga a quella di monsignor Gänswein sulla stretta decisa da Papa Francesco sulla messa in latino ‘liberalizzata’ da Benedetto XVI. Il cardinale tedesco considera quella scelta “uno schiaffo” che “ha scavato fossati e ha causato dolore”.

Poi una delle accuse più infamanti nei confronti del pontefice argentino e su un tema a dir poco sensibile in Vaticano: la pedofilia. Müller accusa Francesco di fare favoritismi e cita a tal riguardo il caso del vescovo argentino Gustavo Zanchetta, condannato per abusi, che a suo avviso “fa discutere poiché ha potuto godere di uno status privilegiato in quanto amico del Papa“, e quello di don Mauro Inzoli, sacerdote vicino a Comunione e Liberazione, anch’egli condannato dal tribunale vaticano ma, secondo il tedesco, con una pena mitigata dopo che “un cardinale di curia andò a bussare a Santa Marta, chiedendo clemenza“.

Da ansa.it il 6 gennaio 2023.

"Come i Magi, prostriamoci, arrendiamoci a Dio nello stupore dell'adorazione. Adoriamo Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie.

 Adoriamo Dio per non inchinarci davanti alle cose che passano e alle logiche seducenti ma vuote del male". Lo ha detto il Papa nell'omelia della messa per l'Epifania.

 Papa Francesco ha chiesto anche di fare spazio nella vita a Dio che è l'amore vero "che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti".

"Il cammino della fede inizia" quando "smettiamo di conservarci in uno spazio neutrale e decidiamo di abitare gli spazi scomodi della vita" fatti anche "di sofferenze che scavano nella carne". "In questi momenti si levano dal nostro cuore quelle domande insopprimibili, che ci aprono alla ricerca di Dio" e tra queste: "Dov'è quell'amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti?".

Silenzio papale. A differenza di Ratzinger, Bergoglio non ha mai denunciato la follia del terrorismo islamico. Carlo Panella su L’Inkiesta il 5 Gennaio 2023.

Benedetto XVI ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziare il jihadismo insito nel dettato coranico, mentre Papa Francesco cerca una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere l’aggressività in tanta parte dottrinale dell’Islam

Incredibilmente nel 2015 Papa Francesco ha giustificato l’attentato terrorista islamico a Charlie Hebdo che aveva mietuto 12 morti e 11 feriti. Papa Benedetto XVI con la prolusione di Ratisbona ha denunciato il dramma dell’Islam contemporaneo: la sua pratica del jihad violento e il divorzio tra fede e ragione che lo caratterizza.

Stranamente, in morte del papa emerito pochi hanno rimarcato questa enorme dissonanza tra i due pontificati.

Giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo, nonostante fosse ben noto il pesante bilancio di morte, così Papa Bergoglio ha risposto a un giornalista di La Croix che gli aveva chiesto la sua posizione sulle conseguenze tragiche della pubblicazione delle vignette su Maometto: «Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasparri che è un amico dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede».

Altrettanto sconcertante, come hanno rilevato molti, è il prolungato silenzio degli ultimi tre mesi di Papa Francesco di fronte alle crudeli e inumane condanne a morte di giovani manifestanti in Iran e alla uccisione nelle piazze di almeno cinquecento di loro.

Di nuovo sconcertante il suo giudizio del 2019 sulla persecuzione in atto dei cristiani: «La persecuzione dei cristiani è sempre la stessa: le persone che non vogliono il cristianesimo si sentono minacciate e così portano alla morte i cristiani».

Ancora un travisamento totale e radicale della realtà. I musulmani uccidono i cristiani – 16 al giorno, ogni giorno! –  non perché si sentono minacciati da questa esigua minoranza pacifica che non ha alcun mezzo per far loro del male, ma in applicazione rigida della sharia. La sharia wahabita giudica infatti i cristiani idolatri, apostati, blasfemi, i più gravi peccati per l’Islam. Da qui le uccisioni.

Di fatto, tutto l’attuale pontificato si distingue per un atteggiamento di accettazione passiva della violenza che proviene dal mondo islamico perché accetta la falsa e non reale versione che vuole che questa violenza islamica sia reattiva alla violenza dell’Occidente, non insita nel dettato coranico e nella sharia.

Di conseguenza Papa Francesco si impegna nella ricerca di una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere la aggressività insita in tanta parte dottrinale dell’Islam.

Opposta la posizione di Papa Ratzinger, che non si è limitato a denunciare il jihadismo insito nel dettato coranico, ma ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziarlo.

Il suo appello di Ratisbona a esaltare la convivenza tra fede e ragione ha indicato lo stesso, identico, nodo teologico individuato dai poco ascoltati e perseguitati riformatori islamici. Riformatori che non a caso sono tra i pochissimi nel mondo musulmano a rifarsi al razionalismo aristotelico di Averroè, tanto influente nella cristianità quanto rigettato dal mondo musulmano.

Tra questi, esemplare è stato il sudanese Mohammed Taha che appunto ha applicato la ragione per storicizzare il dettato coranico, per esercitare la esegesi, per interpretarlo, ritenendo contingenti, determinate dalla cronaca storica e quindi da superare le Sure che esaltano il Jihad contro gli ebrei, gli apostati, i cristiani e gli infedeli dettate da Maometto nel corso delle sue battaglie alla Medina.

Al contrario, Mohammed Taha ha invitato a fare tesoro delle Sure precedentemente dettate da Maometto alla Mecca – non a caso amichevoli e intrise di ecumenismo nei confronti di cristiani ed ebrei – che contengono i capisaldi della pura fede dell’Islam. Da questa esegesi derivava per Mohammed Taha il rifiuto del Jihad, della posizione subordinata della donna e quindi dell’obbligo del velo e anche una sorta di teologia della liberazione a favore degli oppressi.

Di fatto, come Mohammed Taha, i – pochi – riformatori dell’Islam intendono ripercorrere il cammino  del cristianesimo e dell’ebraismo che da secoli non seguono la lettera formale del Libro, del Verbo, ma la interpretano, la attualizzano, la spogliano dello specifico contesto storico.

Ma Mohammed Taha è stato impiccato a Khartoum nel 1980 come apostata sulla base – questo è fondamentale – di una fatwa di condanna emessa da al Azhar, stranamente considerata da molti in Vaticano come la più alta autorità morale sunnita (in realtà il suo prestigio si limita all’Egitto e al Sudan e i suoi Grandi Imam sono nominati e controllati ieri da Nasser e Mubarak e oggi da al Sisi). 

Dunque, la coesistenza, la compenetrazione tra fede e ragione, è una fase ancora chiusa in un Islam nel quale impera il dogma del Corano Increato, parola eterna e inscalfibile di Dio, precedente e successiva all’umanità, non interpretabile, da non sottoporre assolutamente a esegesi, da applicare alla lettera.

Con questo Islam il gesuita latinoamericano Papa Francesco intende solo convivere in pace, come dimostra il “Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune” firmato assieme al Grande Imam di Al Azhar Ahmad al Tayyeb nel 2019 ad Abu Dhabi.

L’europeo e agostiniano Papa Benedetto XVI, dopo decenni d’inconcludente dialogo inter religioso, ha voluto stimolare l’Islam ad affrontare finalmente la modernità con le armi di una teologia alta e coraggiosa.

Ma l’Islam gli ha risposto offeso e irato. E continua nella sua immobilità di pensiero e nella sua aggressività.

Papa Francesco: «Il celibato dei preti può essere rivisto, è una prescrizione temporanea».  Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera l’11 Marzo 2023

Il Papa, parlando con i media argentini, spiega di non credere che permettere ai preti di sposarsi possa far aumentare le vocazioni: «Ma il celibato è una disciplina non eterna. E può portarti al maschilismo». E aggiunge di essere «disposto ad andare a Kiev, ma a condizione che possa andare anche a Mosca»

«Sono disposto ad andare a Kiev. Voglio andare a Kiev. Ma a condizione che io vada a Mosca. Andrò in entrambi i posti o in nessuno dei due».

Papa Francesco parla con alcuni media argentini - il quotidiano La Nación e il sito Infobae - in occasione dei dieci anni del suo pontificato, e interviene su vari argomenti, dall’Ucraina al celibato sacerdotale.

Permettere ai preti di sposarsi favorirebbe le vocazioni? «Credo di no», dice a Infobae il Papa, che però ricorda come il celibato sacerdotale sia «una prescrizione temporanea», una «disciplina» che «non è eterna come l’ordinazione sacerdotale» e tra l’altro vale solo «per la Chiesa occidentale», ovvero la Chiesa latina, mentre nelle chiese cattoliche orientali esistono i preti sposati, «anche in Curia ne abbiamo uno, l’ho incrociato oggi stesso, ha la moglie, il figlio…».

Della questione si parla del resto da anni, nel 2013 anche il Segretario di Stato Pietro Parolin ricordò che il celibato «non è un dogma» e «se ne può discutere».

In futuro si potrebbe andare verso una «doppia disciplina» come nelle Chiese orientali, se ne è parlato anche durante il Sinodo tedesco ma finora non si è mai andati oltre le riflessioni.

Francesco comunque non chiude la porta, parlando al sito argentino, «non so se si risolverà in un senso o nell’altro». E aggiunge che «a volte il celibato può portarti al maschilismo. A un prete che non sa lavorare con le donne manca qualcosa, non è maturo. Il Vaticano era molto maschilista, ma fa parte della cultura, non è colpa di nessuno. Si è sempre fatto sempre così». Ora le cose stanno cambiando, dice: «Hanno un’altra metodologia, le donne. Hanno un senso del tempo, dell’attesa, della pazienza, diverso dall’uomo. Questo non sminuisce l’uomo, sono diversi. E devono completarsi a vicenda».

Parlando a La Nación, intervistato da Elisabetta Piqué, Francesco dice che al prossimo Sinodo voteranno anche le donne, «chi partecipa a un Sinodo ha diritto di voto, che sia maschio o femmina, tutti, la parola “tutti” per me è la chiave», e chiarisce: «Nel sinodo per l’Amazzonia è stato chiesto: perché le donne non possono votare? Sono cristiani di second’ordine? Si ponevano problemi sempre più seri per migliorarsi».

Il primo passo lo aveva fatto due anni fa nominando una donna, suor Nathalie Becquart, sottosegretario del Sinodo, con diritto di voto automatico.

Quanto al viaggio a Mosca, Francesco risponde che non si sa mai: «Non sto dicendo che sia possibile. Non è impossibile. Speriamo di poterlo fare, eh. Occhio, non c’è nessuna promessa, niente. Ma non ho chiuso quella porta». Aveva parlato di Putin come di «una persona colta», e lo ribadisce, «è venuto a trovarmi qui tre volte come capo di Stato e puoi avere una conversazione di alto livello con lui, abbiamo discusso di letteratura, parla perfettamente tedesco, parla inglese», ma precisa: «Una cultura è qualcosa che si acquisisce, non è una professione morale. Sono due cose differenti».

Alla domanda se esista un «piano di pace» dal Vaticano, il Papa spiega: «Non un piano di pace, c’è un servizio di pace, che, con discrezione...ci sono diversi capi di Stato che sono interessati, giusto?». Ma in che consiste? «In un desiderio di servire la pace. Ad esempio in India, Modi è molto preoccupato. E Modi è un uomo equilibrato che sa chiamare perfettamente al dialogo con entrambi. Un esempio. Ci sono altri capi di Stato. E sottobanco si lavora».

E un incontro tra Zelensky e Putin è immaginabile? «Detto così, non lo so. Ma è plausibile un incontro mondiale su questo. C’è anche un gruppo israeliano che sta lavorando su questo. Diversi che probabilmente si uniscono e possono fare qualcosa, giusto? Il Vaticano sta lavorando».

All’articolo del “New York Times” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” giovedì 31 agosto 2023.

In un commento insolitamente tagliente pubblicato questa settimana, Papa Francesco ha affermato che alcuni cattolici americani conservatori ignorano erroneamente gran parte della missione della Chiesa e rifiutano la possibilità di un cambiamento. Scrive il NYT. 

Papa Francesco ha espresso in termini insolitamente netti la sua costernazione per "un atteggiamento molto forte, organizzato e reazionario" che gli si oppone all'interno della Chiesa cattolica romana degli Stati Uniti, un atteggiamento che si concentra su questioni sociali come l'aborto e la sessualità, escludendo la cura dei poveri e dell'ambiente. 

Il Papa ha lamentato l'"arretratezza" di alcuni conservatori americani che, a suo dire, insistono su una visione ristretta, superata e immutabile. Si rifiutano, ha detto, di accettare l'ampiezza della missione della Chiesa e la necessità di cambiamenti nella dottrina nel corso del tempo.

"Vorrei ricordare a queste persone che l'arretratezza è inutile", ha detto Francesco, 86 anni, a un gruppo di confratelli gesuiti all'inizio di questo mese in un incontro durante le celebrazioni della Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona. "Così facendo, si perde la vera tradizione e ci si rivolge alle ideologie per avere un sostegno. In altre parole, le ideologie sostituiscono la fede". 

Le sue parole sono diventate pubbliche questa settimana, quando la trascrizione della conversazione è stata pubblicata dalla rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, controllata dal Vaticano.

I suoi commenti sono stati una dichiarazione insolitamente esplicita del lamento di lunga data del Papa sul fatto che la tendenza ideologica di alcuni importanti cattolici americani li ha trasformati in guerrieri della cultura piuttosto che in pastori, offrendo ai fedeli una visione distorta della dottrina della Chiesa piuttosto che una fede sana e completa. È diventato uno dei temi principali del suo papato il fatto che egli si consideri in grado di portare avanti la Chiesa mentre i suoi critici conservatori fuorvianti cercano di frenarla. 

Nel 2018, in un importante documento chiamato esortazione apostolica sul tema della santità, Francesco ha scritto esplicitamente che prendersi cura dei migranti e dei poveri è un'attività santa quanto opporsi all'aborto. "La nostra difesa dei non nati innocenti, ad esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata", ha scritto. "Altrettanto sacre, tuttavia, sono le vite dei poveri, di coloro che sono già nati, degli indigenti, degli abbandonati".

Ha esortato i sacerdoti ad accogliere e servire le persone gay, divorziate e risposate e ha invitato il mondo intero ad affrontare il cambiamento climatico, definendolo una questione morale. Francesco si recherà giovedì in Mongolia per un viaggio che metterà in risalto il dialogo interreligioso e la protezione dell'ambiente, temi che non sono in cima alla lista delle priorità di molti conservatori americani. 

Per quasi un decennio, i critici conservatori di Francesco lo hanno accusato di portare la Chiesa fuori strada e di diluire la fede con un'enfasi pastorale confusa che ha offuscato - o a volte cancellato - le tradizioni e i principi fondamentali della Chiesa. Alcuni vescovi statunitensi hanno lanciato avvertimenti pubblici sulla direzione del Vaticano, con vari gradi di allarme, e si sono scontrati con il Papa su tutto, dalla liturgia e gli stili di culto, alla centralità dell'opposizione all'aborto nella fede cattolica, alla politica americana. 

Nella prefazione di un libro pubblicato questo mese, il cardinale Raymond Burke, ex arcivescovo americano e funzionario vaticano considerato un leader dei conservatori cattolici, ha scritto che Francesco rischia di portare la Chiesa a uno scisma, a una rottura definitiva. Il pericolo, ha scritto, è rappresentato dall'imminente sinodo dei vescovi di ottobre, convocato da Francesco per promuovere l'inclusione, la trasparenza e la responsabilità, che includerà i laici, tra cui alcune donne. 

Nel libro, che suggerisce che l'incontro aprirà un "vaso di Pandora" di problemi, il cardinale Burke ha scritto che una tale collaborazione dal basso porta a "confusione ed errore e al loro frutto - in effetti lo scisma".

Il vescovo Joseph Strickland, a capo di una piccola diocesi del Texas orientale e divenuto uno dei critici più accesi del Papa, ha accusato quest'ultimo di minare la fede cattolica e ha invitato Francesco a licenziarlo. Il vescovo è sotto inchiesta da parte del Vaticano per la sua gestione della diocesi. 

In una lettera pubblica pubblicata la scorsa settimana, il vescovo Strickland ha avvertito che molte "verità fondamentali" dell'insegnamento cattolico sarebbero state messe in discussione al Sinodo e ha accennato minacciosamente a una rottura irrevocabile. Coloro che "proporrebbero cambiamenti a ciò che non può essere cambiato", ha avvertito, "sono i veri scismatici". 

I vescovi conservatori hanno talvolta affrontato direttamente i politici americani, in particolare i cattolici democratici. Nel 2021, hanno spinto per emanare una guida che negasse il sacramento della Comunione ai politici cattolici che sostengono e promuovono pubblicamente i diritti all'aborto, come il presidente Biden - un assiduo frequentatore della chiesa e il primo presidente cattolico dagli anni '60 - e l'ex presidente della Camera Nancy Pelosi.

La Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti ha rinunciato a un conflitto diretto su questo tema, dopo che il Vaticano ha messo in guardia dall'usare l'Eucaristia come arma politica. Francesco ha predicato che la comunione "non è la ricompensa dei santi, ma il pane dei peccatori". 

Ma alcuni vescovi hanno persistito. L'arcivescovo Salvatore J. Cordileone di San Francisco, un critico dichiarato del Papa, ha detto l'anno scorso che alla signora Pelosi non sarebbe stato permesso di ricevere la comunione nella sua arcidiocesi a meno che non fosse disposta a "ripudiare pubblicamente" la sua posizione sull'aborto. 

Gli scontri tra il Vaticano e i vescovi americani conservatori sono spesso amplificati e incoraggiati dai media conservatori. Conduttori radiofonici e podcaster popolari mettono regolarmente in discussione la leadership del Papa e sollevano dubbi sulla sua legittimità. I siti web indipendenti più combattivi, come Church Militant e LifeSite News, seguono da vicino i passi falsi percepiti da Francesco e mettono a dura prova le istituzioni ecclesiastiche che dipingono come corrotte e profane.

Molti dei leader conservatori di oggi sono stati promossi nella Chiesa più dottrinaria di San Giovanni Paolo II e di Papa Benedetto XVI. Hanno accusato Francesco, argentino, di essere antiamericano e anticapitalista e di aver allontanato la Chiesa dai suoi insegnamenti fondamentali. Ma egli ha sempre sostenuto, nel suo decennio da Papa, che la Chiesa era parte della storia, e non una fortezza da essa, e che doveva aprirsi e stare in mezzo alla gente per riflettere e rispondere alle loro sfide. 

Parlando ai sacerdoti portoghesi questo mese, ha notato che nel corso dei secoli la Chiesa ha cambiato le sue posizioni su questioni come la schiavitù e la pena capitale. "La visione della dottrina della Chiesa come un monolite è sbagliata", ha detto. "Quando si va indietro, si crea qualcosa di chiuso, scollegato dalle radici della Chiesa", erodendo la moralità.

I suoi commenti erano in risposta a una domanda di un gesuita che ha detto di essere stato colto di sorpresa, quando ha trascorso un anno negli Stati Uniti, dalle dure critiche al Papa da parte di alcuni cattolici, compresi i vescovi. 

Per alcuni, "la situazione dei migranti, ad esempio, è una questione minore", ha detto il Papa. "Alcuni cattolici la considerano una questione secondaria rispetto alle 'gravi' questioni bioetiche". Ma concentrarsi su questioni di moralità sessuale e declassare le questioni di giustizia sociale, ha detto, si scontra con la sua visione della vera Chiesa. 

"Che un politico in cerca di voti possa dire una cosa del genere è comprensibile", ha aggiunto. "Ma non un cristiano".

Francesco ha costantemente sfoltito e isolato il clero conservatore americano più acceso e, in alcuni casi, aggressivo, rifiutando di promuovere alcuni arcivescovi a cardinali e negando loro il diritto di voto nel conclave che sceglie il Papa. In altri casi li ha semplicemente aspettati e ha accettato le loro dimissioni quando hanno raggiunto l'età della pensione obbligatoria. 

Ma la Conferenza episcopale americana rimane una ridotta del conservatorismo cattolico, molto più conservatrice di Francesco e di molte altre Chiese nazionali. Durante un volo per l'Africa nel 2019, Francesco è sembrato riconoscere uno sforzo americano ben finanziato e sostenuto dai media per minare il suo pontificato, dicendo che è "un onore che gli americani mi attacchino" quando gli è stato chiesto del complesso conservatore-mediatico americano.

Sul volo di ritorno, gli è stato chiesto dell'opposizione sostenuta dai conservatori cattolici negli Stati Uniti, che lo hanno accusato di aver spinto i tradizionalisti a rompere con la Chiesa. Francesco ha detto di sperare che non si arrivi a tanto, ma di non essere necessariamente terrorizzato dalla prospettiva. "Prego che non ci siano scismi", ha detto Francesco all'epoca. "Ma non sono spaventato".

Estratto da tgcom24.mediaset.it lunedì 28 agosto 2023

Papa Francesco torna a parlare del tema dell'omosessualità e della posizione della Chiesa. "Quello che a me non piace affatto è che si guardi al cosiddetto peccato della carne come si è fatto per tanto tempo a proposito del sesto comandamento", afferma il Pontefice, spiegando che la Chiesa è aperta a tutti, comprese le persone omosessuali e transessuali. "Sono persone che si sentono rifiutate, ed è davvero dura per loro", aggiunge. 

"Se sfruttavi gli operai, se mentivi o imbrogliavi, non contava, e invece erano rilevanti i peccati sotto la cintola", sottolinea Bergoglio in un colloquio con La Civiltà Cattolica, pubblicato da La Repubblica. "La comprensione dell'uomo muta col tempo e così anche la coscienza dell'uomo si approfondisce. Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione". 

[…] Papa Francesco afferma convinto di non aver paura della società sessualizzata. "Mi fa paura come ci rapportiamo a essa, questo sì. Ho paura dei criteri mondani. Preferisco usare il termine mondani piuttosto che sessualizzati, perché il termine abbraccia tutto. Per esempio, la smania di promuoversi, l'ansia di risaltare o, come diciamo in Argentina, di arrampicarsi.

E pensare che chi si arrampica finisce per farsi male da solo. Mia nonna, che era una vecchia saggia, un giorno ci disse che nella vita bisogna progredire, comprare un terreno, i mattoni, la casa. […] Ma non confondete il progredire, diceva la nonna, con l'arrampicarsi. Infatti chi si arrampica sale, sale, sale e, invece di avere una casa, dimettere su un'impresa, di lavorare o farsi una posizione, quando è in alto l’unica cosa che mostra è il sedere". 

[…] "Ho verificato che negli Stati Uniti la situazione della Chiesa cattolica non è facile", prosegue Papa Francesco. "C'è un'attitudine reazionaria molto forte, organizzata, che struttura un'appartenenza anche affettiva. A queste persone voglio ricordare che l'indietrismo è inutile e bisogna capire che c'è una giusta evoluzione nella comprensione delle questioni di fede e di morale".

[…] Secondo il Santo Padre, la visione della dottrina della Chiesa come un monolite "è errata". "Ma alcuni […] vanno all'indietro, sono quelli che io chiamo 'indietristi'. Quei gruppi americani dei quali parli, così chiusi, si stanno isolando da soli. E anziché vivere di dottrina, della vera dottrina che sempre si sviluppa e dà frutto, vivono di ideologie. Ma quando nella vita abbandoni la dottrina per rimpiazzarla con un'ideologia, hai perso, hai perso come in guerra".

I "segreti" del Conclave e il punto sulla Chiesa. Cosa ha detto il Papa. In un'intervista a Vida Nueva, Jorge Mario Bergoglio rivendica la discontinuità del suo pontificato. E sulle ideologie il discorso appare chiaro: "La destra è più pericolosa". Nico Spuntoni il 6 Agosto 2023 su Il Giornale. 

Nei giorni della trentottesima edizione della Giornata mondiale della gioventù, è uscita una nuova intervista a Francesco in cui sono stati affrontati argomenti importanti per inquadrare la visione di Chiesa e di società riconducibile a questo pontificato. Un lungo botta e risposta con un team di giornalisti della rivista spagnola ricevuto nella sala dove si riunisce abitualmente il Consiglio dei cardinali che il Papa ha nominato per coadiuvarlo nell'esercizio di comando. L'occasione erano i 65 anni dalla fondazione del periodico spagnolo.

Racconti dal Conclave

Nell'intervista, Francesco è ritornato sui giorni che portarono alla sua elezione. Per via del giuramento che impone a chi entra in Cappella Sistina di mantenere il segreto su "tutto ciò che in qualsiasi modo riguarda l'elezione del Romano Pontefice e su ciò che avviene nel luogo dell'elezione", non è solito leggere dichiarazioni pubbliche di cardinali elettori su quanto avvenuto in Conclave. Ancor meno solito è che sia un Papa a parlarne. Per questo le parole di Francesco sul 2013 assumono un particolare valore storico.

L'intervistato ha svelato alcuni episodi premonitori della sua elezione: ad esempio, quando il cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino, oggi deceduto, gli chiese il testo del suo intervento alle congregazioni generali e, ringraziandolo, gli disse che così avrebbe potuto conservare un ricordo del Papa. Un altro episodio emblematico avvenuto avvenne in ascensore a Santa Marta con il cardinale Francisco Javier Errázuriz Ossa che chiese all'allora cardinale Bergoglio se avesse già preparato il discorso da pronunciare dalla loggia centrale.

Francesco, inoltre, ha confermato una rivelazione fatta in precedenza dal cardinale honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga che si incaricò di chiarire col diretto interessato se fosse vero o meno che gli mancasse un polmone, particolare che alcuni cardinali contrari a quell'elezione avevano cominciato a far circolare tra gli elettori: "Un mio amico cardinale si è avvicinato per chiedermi della mia salute. Ho smentito alcune voci su di me, senza dargli importanza, tanto che sono andato a fare un pisolino tranquillo", ha detto Francesco a Vida Nueva.

Spirito Santo e discontinuità

Sempre parlando della sua elezione, Francesco si è definito con ironia "una vittima dello Spirito Santo". Sappiamo che Joseph Ratzinger aveva una visione più pragmatica sul ruolo dello Spirito Santo in Conclave: nel 1997, infatti, spiegò in un'intervista che "il ruolo dello Spirito dovrebbe essere compreso in senso molto più elastico, e non come se dettasse il candidato per il quale votare. Probabilmente l'unica certezza che offre è che non si possa rovinare il tutto".

Francesco ha evocato lo Spirito Santo anche per rispondere ai timori legati al prossimo Sinodo sulla sinodalità. "Nel Sinodo il protagonista è lo Spirito Santo. Chi non crede in Lui e non prega durante il Sinodo, non può andare da nessuna parte", ha detto ai giornalisti. Il Papa ha raccontato di aver chiamato recentemente un convento e di aver ascoltato in quel frangente le paure di una suora che gli ha chiesto se col Sinodo di ottobre la dottrina cambierà.

Bergoglio, inoltre, ha raccontato come nel Sinodo del 2001 sul tema "Il Vescovo: Servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo" avesse avuto qualche difficoltà nell'incarico di relatore generale aggiunto. Questo il racconto del Papa: "Nel pomeriggio mi portavano i materiali dei gruppi e io restavo a preparare le votazioni. Poi è venuto il cardinale incaricato del coordinamento, ha esaminato le carte e ha cominciato a dire 'questo non si vota..anche questo'. Io rispondevo: 'Eminenza, questo è uscito dai gruppi'. Ma le cose sono state 'purificate'. Abbiamo fatto progressi e, oggi, tutto è votato e ascoltato".

Dunque, Francesco sostiene la tesi che nei precedenti pontificati fosse annacquata la dimensione sinodale della Chiesa voluta da San Paolo VI mentre dal 2013 si è proceduto in questo senso a quella che lui chiama una "purificazione". Rivendicando l'apertura al voto dei laici nell'istituzione che Montini volle Sinodo dei Vescovi, Bergoglio ha anche affermato che "negli ultimi dieci anni alcune cose sono state perfezionate". Le parole a Vida Nueva rappresentano l'ennesimo tentativo di rivendicare una linea di discontinuità con San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, a breve distanza dalla lettera al neoprefetto del dicastero per la dottrina della fede, il cardinale eletto Victor Manuel Fernández, in cui aveva parlato di "metodi immorali" messi in pratica in passato dall'ex Sant'Uffizio.

Peraltro, il confronto tra i suoi Sinodi e quello wojtyliano del 2001 non è l'unico passaggio dell'intervista in cui Francesco cerca di accreditarsi Papa di rottura che "purifica" abitudini sbagliate. Dei momenti successivi all'elezione del 2013, ad esempio, ha raccontato: "Quando sono sceso c'era la limousine e ho detto 'vado in autobus con tutti'. Fu allora che mi resi conto che un cambiamento delle cose mi stava aspettando". Poi Francesco è passato a rimarcare il fatto che decise di mangiare in sala da pranzo con tutti gli altri a Santa Marta iniziando quella che ha chiamato "la vita comune che continuo a condurre oggi".

Concilio, ideologie e tradizionalisti

"Le cose non sono mature per un Concilio Vaticano III. E non è nemmeno necessari in questo momento, dal momento che il Vaticano II non è ancora stato avviato", ha detto Francesco nell'intervista. Parole che richiamano la tesi del "tradimento del Concilio" sostenuta dal teologo Hans Küng. Con argomentazioni opposte, lo stesso Joseph Ratzinger nel suo ultimo discorso al clero romano da Pontefice regnante, parlò di "difficoltà a concretizzarsi" di quello che chiamava "il vero Concilio" ovvero "il Concilio dei Padri che si realizzava all’interno della fede" e che si contrapponeva al "Concilio dei media" visto come "una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa".

Di correnti nella Chiesa a cui ricondurre la resistenza all'attuazione del Vaticano II ha parlato Francesco nella sua intervista a Vida Nueva prendendosela con quello che ha chiamato "tradizionalismo" e sostenendo che "quel guscio nasconde molto marciume". Secondo il Papa, molti giovani preti che chiama "rigidi" hanno dimostrato di avere "seri problemi morali, vizi e doppie vite". "Abbiamo bisogno di seminaristi normali, con i loro problemi, che giochino a pallone, che non vadano nei quartieri a dogmatizzare", ha aggiunto Bergoglio invitando i vescovi a sospettare di chi "fa una faccia da santo e poi distoglie lo sguardo".

Un riferimento alla mancata realizzazione del Concilio lo ha fatto anche quando ha detto agli intervistatori che Paolo VI creò il Sinodo dei Vescovi all'indomani della chiusura del Vaticano II perché si rese conto che la Chiesa in Occidente aveva perso la sua dimensione sinodale. A proposito della rivendicazione della messa ai voti di tutti i temi discussi nei gruppi preparatori, occorre ricordare che - come riporta nella sua autobiografia l'ultimo padre conciliare italiano, il recentemente scomparso monsignor Luigi Bettazzi - "Paolo VI nn voleva si trattassero alcuni argomenti. Così, ad esempio, non voleva si parlasse del sacerdozio conferito agli uomini sposati, nè della cosiddetta contraccezione. Così non gradiva si parlasse troppo della Chiesa dei poveri, temendo che la discussione potesse assumere sfumature politiche favorevoli alle sinistre". Si sa, d'altra parte, che il secondo Papa del Concilio promulgò la Humanae vitae nonostante la maggioranza dei primi padri sinodali della storia consultati sul tema della limitazione delle nascite fossero favorevoli all'uso lecito della contraccezione.

Nell'intervista a Vida Nueva, inoltre, Francesco ha parlato anche dei giovani ed ha confidato di aver "paura dei gruppi giovanili intellettuali" sostenendo che, a suo parere, "in questo momento i gruppi legati alle ideologie di destra sono forse i più pericolosi" perché quelli di sinistra, invece, sarebbe un po' in calo. Per ciò che riguarda la Chiesa, Bergoglio ha detto che se ai giovani "parli solo di castità, li spaventi tutti" aggiungendo che "una pastorale ideologica di sinistra o di destra o di centro non serve" perché "è malata e fa male". L'unico esempio di pastorale ideologica che ha fatto è stato quello di chi si sofferma troppo sulla morale.

Le interviste del Papa

Il contenuto dell'intervista rilasciata a Vida Nueva è significativo: c'è un Papa regnante che rivendica l'azione programmatica del suo pontificato e persino il proprio stile di vita, inducendo ad una naturale confronto tra passato e presente.

Francesco appare convinto che la sua visione personale sui giovani sacerdoti, sui criteri di selezione di vescovi e cardinali, sull'interpretazione da dare a un viaggio apostolico (ad esempio, quando afferma: "Non andrò in nessun grande Paese in Europa (...) e anche se sono andato a Strasburgo, non sono andato in Francia. Anche se vado a Marsiglia, non vado in Francia") sia quella giusta ed intende applicarla senza compromessi nel governo della Chiesa.

Un Papa che si mette a discutere liberamente di ciò che riguarda quella che potremmo chiamare la sua politica rappresenta una grande opportunità per i giornalisti che hanno l'occasione di intervistarlo. Eppure, nonostante Francesco abbia rilasciato un cospicuo numero di interviste, finora sono solo due le giornaliste che hanno avuto il merito di chiedere un chiarimento sulle inevitabili contraddizioni che si presentano quando si governa per più di un decennio con polso fermo: Valentina Alazraki di Televisa che gli chiese dei casi Zanchetta e McCarrick, Nicole Winfield di Associated Press che gli fece una domanda sulla vicenda del gesuita Marko Rupnik. Entrambe donne. Così come donna è la suora che ha fatto arrivare direttamente all'orecchio del Papa una paura diffusa in una parte consistente ma silenziosa dell'episcopato: "Ma con questo Sinodo, la nostra dottrina cambierà?"

Estratto dell’articolo di Ester Palma per il “Corriere della Sera” il 10 luglio 2023.

Ci sono il vescovo di Hong Kong, Stephen Chow, e il Patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa. C’è Robert Francis Prevost, Prefetto del Dicastero per i vescovi, e quello del Dicastero per la Dottrina della Fede, Víctor Manuel Fernández, spesso discusso per le sue posizioni molto «liberal». E ancora gli arcivescovi di Penang, in Malesia, di Juba, del Sudan del Sud, di Città del Capo e di Bogotà: Papa Francesco ha annunciato all’Angelus in piazza San Pietro la creazione di 21 nuovi cardinali, spiegando che il prossimo 30 settembre terrà un concistoro, il nono in 10 anni di pontificato, per le nomine ufficiali.

Con i nuovi porporati, salgono a 137 i cardinali che potranno partecipare al prossimo conclave, per eleggere il Papa. Francesco ha annunciato le nomine dopo che il numero degli aventi diritto era sceso a 121: i cardinali sono di più, ma dal 20 novembre 1970, con il motu proprio Ingravescentem aetatem , Paolo VI decise di escludere dall’elezione quelli che avessero compiuto 80 anni. Una norma ancora in vigore, che terrà fuori i cardinali Maradiaga e Sepe, e anche Comastri, che li compirà a inizio settembre. 

Sempre Paolo VI indicava come cifra ideale per il conclave 125 partecipanti, ma non è né può essere una regola tassativa. A eleggere papa Bergoglio furono per esempio solo 115 porporati. Resta poi la questione di Giovanni Angelo Becciu, ancora sotto processo in Vaticano per la controversa vicenda della compravendita dell’edificio londinese di Sloane Avenue. Solo 3 dei neo nominati non parteciperanno al conclave per limiti di età.

Uno è Luis Pascual Dri, 96enne cappuccino, confessore nel Santuario di Nostra Signora di Pompei a Buenos Aires […] molti dei nuovi cardinali provengono da Chiese «di frontiera», come quella della Tanzania, con la nomina di monsignor Protase Rugambwa, arcivescovo coadiutore di Tabora. E anche come quella di Hong Kong, che si oppone con coraggio al regime cinese. Fra i nuovi «principi della Chiesa» non c’è nemmeno un vescovo residenziale italiano, niente porpore per città come Milano, Torino, Venezia.

Qualcuno si aspettava poi la nomina per i prelati di Kiev, che non è arrivata, forse per sottolineare una certa «equidistanza» del Vaticano dalle parti impegnate nel conflitto in cui lo stesso Papa si propone come mediatore. 

Gli italiani sono tre: oltre a Pizzaballa, da sempre impegnato nel costruire il dialogo in Terra Santa, ci sono Agostino Marchetto, Nunzio apostolico ed ex segretario del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, e non elettore per raggiunti limiti di età, e Claudio Gugerotti: già Nunzio a Londra e prima a Minsk, dove di recente è tornato come «inviato speciale» di Francesco.

Nel gruppo dei 13 europei ci sono anche due francesi: Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Usa, e François-Xavier Bustillo, conventuale e vescovo di Ajaccio in Corsica. Due anche gli spagnoli: il neoarcivescovo di Madrid José Cobo Cano e Ángel Fernandez Artime, Rettore maggiore dei Salesiani. E ancora il polacco Grzegorz Rys, arcivescovo di Lódz, e Américo Manuel Alves Aguiar, ausiliare di Lisbona e a capo dell’organizzazione della Giornata mondiale della gioventù programma nella Capitale portoghese dall’1 al 6 agosto.

La "rivincita" di Bergoglio su Ratzinger: cosa c'è dietro la nomina di "Tucho" Fernández. La nomina del suo discepolo prediletto al dicastero per la dottrina della fede è un punto di non ritorno per il pontificato di Bergoglio, e una "rivincita" sul predecesorre Benedetto. Nico Spuntoni il 9 Luglio 2023 su Il Giornale.

Nonostante per lui la Curia romana non fosse essenziale, monsignor Víctor Manuel Fernández guiderà il suo dicastero più importante. Meno di venti anni fa la Congregazione per la dottrina della fede era nelle mani di Joseph Ratzinger, fino a sei anni fa in quelle del fidato Gerhard Ludwig Müller. Ora l'ex Sant'Uffizio, dalle mani del moderato gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer passerà a quelle del 60enne argentino di colui che in patria chiamano "discípulo predilecto" e "mejor intérprete” di Francesco.

La rivincita

Scegliendolo per il ruolo che veniva ritenuto fino ad oggi di custodia dell'ortodossia cattolica, Jorge Mario Bergoglio si è voluto prendere una rivincita personale con i pontificati del passato. L'ennesima. Infatti da arcivescovo di Buenos Aires e gran cancelliere dell'Universidad Católica Argentina, l'allora cardinale Bergoglio non esitò a scontrarsi con la Curia che voleva negare l'approvazione pontificia alla nomina a rettore del suo braccio destro Fernández.

L'allora primate d'Argentina non amava venire a Roma come dimostra la confessione di aver visto la Cappella Sistina per la prima volta nella sua vita solamente nel 2005 in occasione della partecipazione al Conclave successivo alla morte di Giovanni Paolo II. Nonostante ciò, pur di ottenere il via libera pontificio alla nomina come rettore del'Uca, prese l'aereo e riuscì a vincere un braccio di ferro lungo due anni con la Curia.

Questo episodio testimonia il rapporto di ferro tra Francesco e il neo-prefetto del dicastero per la dottrina della fede cementificato nei giorni della quinta Conferenza generale del Consiglio episcopale latino americano e dei Caraibi del 2007, quando l'allora cardinale presiedeva il comitato di redazione del documento finale e volle accanto a sé il giovane teologo cordovese.

Il risultato fu quel Documento di Aparecida - dal nome della località brasiliana della riunione - considerato il manifesto programmatico del futuro pontificato bergogliano e che non a caso il Papa argentino regala ai leader latinoamericani ricevuti in Vaticano. Il cardinale Angelo Scola, principale competitor all'ultimo Conclave, ha usato l'immagine del "pugno nello stomaco della Chiesa" (per quanto "salutare"), per definire il papato di Francesco: la nomina di Fernández al dicastero per la dottrina della fede ne è un esempio.

Si temeva che a Palazzo del Sant'Uffizio potesse arrivare il vescovo di Hildesheim, Heiner Wilmer, grande sostenitore dell'agenda del cammino sinodale tedesco che ha rischiato di provocare uno scisma all'interno della Chiesa. La scelta di Fernández non rassicura in alcun modo chi temeva Wilmer ma al contrario viene interpretata come la dimostrazione che da questo momento in poi, anziché essere un freno di fronte alle istanze più radicali, l'ex Congregazione per la dottrina della fede ne diventerà un acceleratore.

L'enfant prodige dell'episcopato argentino

Da rettore dell'Universidad Católica Argentina poco gradito a Roma durante il pontificato di Benedetto XVI, Víctor Manuel Fernández si è ritrovato a scalare il cursus honorum ecclesiastico in breve tempo dopo l'elezione del suo maestro Jorge Mario Bergoglio. Due mesi dopo lo storico 13 marzo 2013, Francesco lo aveva elevato ad arcivescovo senza assegnargli un incarico diocesano ma mantenendolo alla guida dell'università, come mai era successo prima.

Nel 2018, poi, la nomina ad arcivescovo di La Plata al posto di monsignor Héctor Rubén Aguer, prelato dalla sensibilità teologica e pastorale molto distante dalla sua. Una cesura che ricorda quella che ci sarà oggi all'ex Sant'Uffizio con il passaggio di consegne dal cardinal Ladaria Ferrer. Monsignor Aguer si è contraddistinto in questi anni per essere una voce critica della linea del pontificato di Francesco ed anche di recente ha avuto parole durissime per il prossimo Sinodo sulla sinodalità a cui Fernàndez parteciperà in quanto capo dicastero, sostenendo che "il programma sinodale, come quello del Sinodo tedesco, disegna un'altra Chiesa, eterogenea rispetto alla grande e unanime Tradizione".

Di fronte alle critiche che in questi anni non sono mancate anche in Argentina, monsignor Fernández ha sempre voluto dire la sua pubblicamente per difendere il Papa. Lo ha fatto, ad esempio, davanti alle polemiche scatenate dal documentario che riportava uno spezzone di un'intervista in cui Francesco apriva alle unioni civili.

All'epoca, Tucho - questo il suo soprannome - scrisse sui social che "Bergoglio ha sempre riconosciuto che, senza chiamarlo matrimonio, in realtà esistono unioni molto strette tra persone dello stesso sesso, che non implicano di per sé rapporti sessuali, ma un'alleanza molto intensa e stabile". Nel dettare la linea del pontificato, negli anni precedenti Fernández ha detto alla stampa argentina che "ci sono cose che la Chiesa non può più fare: qualsiasi atteggiamento di condanna, aggressivo o autoritario nei confronti di chi la pensa diversamente o ha difficoltà a far fronte alla situazione è diventato inammissibile peso dei suoi limiti". Parole molto simili a quelle che si ritrovano nella lettera scrittagli da Francesco per il conferimento dell'incarico di prefetto laddove si legge: 

"Il Dicastero che lei presiederà in altri tempi è arrivato a usare metodi immorali. Erano tempi in cui, anziché promuovere la conoscenza teologica, si perseguivano possibili errori dottrinali. Quello che mi aspetto da lei è certamente qualcosa di molto diverso".

Le idee del nuovo prefetto

Il teologo Víctor Manuel Fernández, come ricordato da Luisella Scrosati su LaNuovaBq, si è espresso in senso aperturista sull'uso della contraccezione diversamente da quanto scritto da San Paolo VI nella Humanae Vitae. In merito ad un altro dei dossier scottanti, quello sulle benedizioni delle coppie dello stesso sesso, il nuovo prefetto si è detto contrario nel caso in cui provochino confusione sul fatto che l'unico matrimonio è quello tra uomo ed una donna, ma al tempo stesso ha aggiunto che "se una benedizione è data in modo tale da non creare quella confusione, dovrà essere esaminata e confermata". Una posizione meno tranchant di quella formulata nel Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2021.

In un'intervista concessa al quotidiano Domani, Tucho si è dichiarato vittima di un pregiudizio da parte di chi lo critica considerandolo "un ignorante usurpatore latinoamericano". È un dato di fatto che sia arrivato alla guida della ex Suprema Congregazione forte di un'amicizia e di una collaborazione duratura con il Pontefice. Così come è un dato di fatto che la provenienza latinoamericana non può essere considerata un discrimine ai vertici della Santa Sede dal momento che accomuna il Papa, il prefetto del dicastero più importante e il sostituto alla Segreteria di Stato.

Discontinuità

Le modalità in cui è avvenuta la nomina di monsignor Fernández, così come raccontate dal diretto interessato, testimoniano come il pontificato di Francesco sia definitivamente entrato in una nuova fase. Tucho, infatti, ha svelato che il Papa gli ha chiesto di accettare l'incarico con una certa insistenza, telefonandogli dall'ospedale in cui era ricoverato. Questa circostanza riporta ad un concetto espresso in passato dal nuovo prefetto: "No, indietro non si torna. Se e quando Francesco non fosse più Papa, la sua eredità resta forte", disse nel 2015 al Corsera. Scegliendo il suo storico ghostwriter dai tempi di Aparecida e affidandogli il compito di accertarsi che i documenti degli altri dicasteri "tengano conto del Magistero recente", Francesco vuole provare a blindare quella eredità sapendo che il pontificato non durerà altri dieci anni.

La nomina di Fernández avvenuta ora così come altre nomine e rinunce più recenti raccontano un altro aspetto dell'attuale pontificato: da parte del Papa c'è stata una qualche forma di rispetto nei confronti di Benedetto XVI. Infatti, la lettera al nuovo prefetto - se ce ne fosse stato ulteriore bisogno - conferma la volontà di discontinuità con cui Francesco ha deciso di governare la Chiesa. Nonostante l'intenzione di svoltare pagina rispetto al passato fosse già evidente sin dalla sera del 13 marzo 2013, il Papa argentino ha cercato parzialmente di attenuare la propria spinta rivoluzionaria finché il suo predecessore è rimasto in vita: in questo senso sono da interpretare le iniziali nomine del cardinal Gerhard Ludwig Müller all'ex Sant'Uffizio o del cardinal Robert Sarah alla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti o la permanenza di monsignor Georg Gänswein come prefetto della Casa Pontificia.

Forse nemmeno lui - citando le stesse parole di Ratzinger- aveva pensato che"l’ultimo tratto di strada dal Monastero alle porte del Cielo dove sta Pietro potesse essere così lungo" e di fronte al trascorrere degli anni ha deciso di non ritardare più i provvedimenti che probabilmente aveva in testa sin da prima. Ad esempio, Traditionis custodes che ha abrogato la liberalizzazione della cosiddetta messa in latino voluta da Benedetto XVI risale al 2021, otto anni dopo l'elezione. La morte di Ratzinger a fine 2022 e il contemporaneo aumento dei suoi problemi di salute hanno affrettato la realizzazione del programma di Francesco. Se la sabbia nella clessidra scorre, non è più tempo di gradualità e mettere un fedelissimo in un posto chiave come il dicastero per la dottrina della fede è una garanzia che i processi messi in moto in questi quasi undici anni non vadano archiviati.

Il nuovo prefetto Dicastero. Bergoglio contro Ratzinger: “Immorali quelle condanne”. Il cambio di passo e di prospettiva non potrebbero essere più radicali. E infatti sui social i profili cattolici più conservatori gridano immediatamente allo scandalo e all’accusa di “modernismo” contro papa Francesco. Fabrizio Mastrofini su L'Unità il 2 Luglio 2023

Papa Francesco nomina un nuovo Prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, che diventa allo stesso tempo Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione teologica internazionale. La novità è clamorosa. E non sta nel non rinnovare il primo mandato al gesuita cardinale Ladaria, attuale Prefetto. La novità è nella lettera pubblicata contestualmente alla nomina, nella quale Francesco chiede una svolta rispetto al passato per quanto riguarda le modalità di lavoro e di intervento e lo fa in modo assai brusco.

Infatti al nuovo capo-dicastero, l’argentino Víctor Manuel Fernández, finora arcivescovo di La Plata, il papa indica a chiare lettere quali sono, a suo avviso, le priorità da seguire. “Il dipartimento che presiederai (il nuovo prefetto entra in carica a metà settembre, ndr) – scrive il papa – in altri tempi è arrivato ad usare metodi immorali. Erano tempi in cui più che promuovere la conoscenza teologica si perseguitavano eventuali errori dottrinali”. E aggiunge: “Quello che mi aspetto da te è senza dubbio qualcosa di molto diverso”.

Che cosa lo specifica subito dopo. “Lo scopo principale del Dicastero è quello di ‘custodire la fede’. Per non limitare il significato di questo compito, bisogna aggiungere che si tratta di ‘accrescere l’intelligenza e la trasmissione della fede al servizio dell’evangelizzazione, affinché la sua luce sia un criterio per comprendere il senso dell’esistenza, soprattutto di fronte agli interrogativi sollevati dal progresso della scienza e dallo sviluppo della società”. Questi interrogativi, ripresi in un rinnovato annuncio del messaggio evangelico, “diventano strumenti di evangelizzazione”, perché permettono di entrare in dialogo con la situazione attuale “in un contesto che non ha precedenti nella storia dell’umanità”.

Il Papa vuole anche che non ci si accontenti di “una teologia da tavolo, con una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto”. Il “criterio fondamentale” – indica la lettera – è “presentare in maniera convinta un Dio che ama, che perdona, che salva, che libera, che promuove le persone e le chiama al servizio fraterno”. Le priorità indicate sono nella linea del documento che riforma la Curia romana, entrato in vigore un anno fa, e che mette al primo posto l’annuncio del Vangelo piuttosto che la difesa e la salvaguardia dell’ortodossia, come in passato. E papa Francesco aveva anche anticipato questa linea riferendosi all’importanza del volume “Etica teologica della vita”, promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita di mons. Paglia, che apre al dibattito libero tra i teologi morali.

Il cambio di rotta è netto rispetto agli anni in cui il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede è stato il cardinale Ratzinger (dal 1981 fino all’elezione a papa nel 2005), distintosi per le condanne di numerosi teologi. E’ proprio contro quella linea che se la prende Francesco. Dopo Ratzinger si sono succeduti il cardinale americano Levada per 7 anni – un mandato e mezzo – e poi i cardinali Muller e Ladaria, entrambi per un solo mandato di cinque anni. Ora alla scadenza del quinquennio di Ladaria, papa Francesco ha deciso di nominare un argentino, con un curriculum di tutto rispetto, essendo stato anche Rettore dell’Università cattolica.

Il nuovo prefetto compie 61 anni il 18 luglio e come specifica la Sala stampa vaticana “tra libri e articoli scientifici, ha più di 300 pubblicazioni, molte delle quali tradotte in varie lingue. Questi scritti mostrano un’importante base biblica ed un costante sforzo di dialogo della teologia con la cultura, la missione evangelizzatrice, la spiritualità e le questioni sociali”. Il cambio di passo e di prospettiva non potrebbero essere più radicali. E infatti sui social, in particolare su Twitter, i profili cattolici più conservatori gridano immediatamente allo scandalo e all’accusa di “modernismo” contro papa Francesco. Tra l’altro con la riforma della Curia il Dicastero per la dottrina della fede ‘scala’ al terzo posto nella struttura organizzativa, dopo la Segreteria di stato e il Dicastero per l’evangelizzazione. Fabrizio Mastrofini 2 Luglio 2023

La rivoluzione “sociale” di Papa Francesco. Michał Kłosowski il 30 marzo 2023 su Inside Over.

Questo articolo è disponibile anche, in forma inglese, nel ventunesimo dossier del magazine di “Inside Over”, dal titolo “From the End of the Earth”, dedicato al decennale del pontificato di Papa Francesco. Qui è possibile leggere il numero completo.

Nessun Papa ha prestato tanta attenzione alla felicità prima di Francesco. Dopotutto, i recenti anni di pandemia hanno fatto dimenticare a molte persone cosa significa essere felici. Confinati nelle loro case, alcuni hanno deciso che soddisfare solo i bisogni più elementari è più importante.

Tuttavia, la dottrina sociale cattolica non è solo un modo per “essere felici”. È prima di tutto un segnale della via della salvezza e una risorsa cruciale per l’Europa e per il mondo. Giovanni Paolo II se ne rese conto, producendo alcuni dei più potenti insegnamenti sociali del 20° secolo ed elevandoli al livello della teologia morale, rendendolo parte integrante della proclamazione della fede cristiana nel mondo. Francesco ha portato avanti la visione del suo predecessore, portandoci nelle periferie sociali e ambientali del nostro mondo e mostrando che Cristo ci incontrerà di nuovo lì.

Questa nuova dinamica è forse la prima, anche se probabilmente non la più importante, evoluzione dell’insegnamento sociale cristiano (Christian Social Teaching, CST) nel papato di Francesco: la dottrina sociale della Chiesa è andata oltre gli scaffali delle biblioteche e ha iniziato a circolare tra la gente. La proposta che la Chiesa porta al mondo nella sua dottrina sociale è entrata in dialogo con il mondo, legando il dibattito tra luoghi e punti di vista diversi, spesso distanti.

Solidarietà 

Il concetto di solidarietà sta al centro della dottrina sociale degli ultimi tre papi. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che uno dei momenti più importanti nella forgiatura della dottrina sociale cattolica nel secolo precedente è stato colto con i cambiamenti del 1981-1991 e del movimento polacco “Solidarność”. Sotto il papato di Francesco, tuttavia, la nozione evangelica di solidarietà viene estesa a più aree che non solo all’economia o al lavoro.

Questa estensione del concetto di solidarietà può essere fatta risalire al messaggio di Giovanni Paolo II nella Giornata Mondiale della Pace nel 1990. Pace con Dio Creatore, pace con tutta la creazione. Tuttavia, bisogna riconoscere che l’attuale Papa ha fatto una grande evoluzione nel CST su questo punto. Sebbene il documento del 1990 abbia già sottolineato che l’ambiente è di crescente preoccupazione per vari gruppi cattolici, spesso di base e spontaneamente organizzati e leader della Chiesa a tutti i livelli, Francesco ha dedicato il più grande spazio nella sua dottrina sociale alla copertura delle questioni ambientali. Questo cambiamento può essere riassunto ricordando le parole papali del marzo 2021, quando il Papa parlò in una piazza San Pietro vuota, dicendo che “non possiamo essere sani in un mondo malato”.

Dialogo

Anche se è stato Benedetto XVI, nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2008, a introdurre nella discussione il concetto di “alleanza tra gli esseri umani e l’ambiente”, Francesco ne ha fatto uno dei punti salienti del suo insegnamento, espresso nella sua prima enciclica, Laudato si’. Mentre nella Caritas in veritate di Benedetto approfondisce questo tema, descrivendo la triplice responsabilità che fa parte del rapporto dell’uomo con l’ambiente e indicando “la responsabilità per i poveri, per le generazioni future e per tutta l’umanità”, Francesco va oltre, dicendo che fa parte della nostra “vocazione” come esseri umani, e quindi progetti appropriati di sviluppo umano, Facendo eco al precedente Pontefice, che “non possiamo ignorare le generazioni future, ma dobbiamo essere caratterizzati dalla solidarietà e dalla giustizia intergenerazionale”.

La formulazione delle questioni ambientali in termini di patto – anche tra generazioni – deve essere riconosciuta come un enorme passo avanti nella transizione da un “modello di governance” a un approccio più aggiornato. La nuova visione della “solidarietà ecologica”, in un mondo di molteplici crisi, in cui la maggior parte dei sette ecosistemi fondamentali della Terra sono minacciati, è una delle evoluzioni più importanti, portata avanti da Francesco.

Potenza

La globalizzazione è un’altra questione, che è venuta alla ribalta nelle discussioni della Chiesa sulla dottrina sociale negli ultimi decenni. Anche se ha ricevuto una certa attenzione nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II, nei sinodi regionali dei vescovi e altrove, e anche se l’impatto di vasta portata di questo fenomeno è stato una delle principali preoccupazioni di Benedetto nella Caritas in veritate, Francesco porta questo pensiero oltre con un’analisi approfondita e una chiara riflessione nell’enciclica Christus Vivit e durante il Sinodo della sinodalità – il suo progetto di punta.

Il mondo post-pandemia solleva molte nuove domande. Uno di questi è il potere e l’abuso di tale, così come la questione del ruolo delle corporazioni, più grandi e più potenti di molti stati, e l’indagine sulla comprensione della libertà in un mondo di progresso tecnologico galoppante. Rispondendo a queste domande il Papa si è rivolto durante il suo viaggio in Congo dicendo: “Giù le mani dall’Africa!”.

La Chiesa ha esperienza in tutte queste questioni. Per molti millenni è stata la struttura più globale, raggiungendo il mondo con la sua esperienza di connessione e misericordia. Forse è per questo che il papa sorride così spesso, mostrando che un approccio diverso è possibile.

Michal Kłosowski, pubblicista, vicedirettore del mensile polacco “Wszystko Co Najważniejsze”, ex alunni del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e della Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino (Angelicum) di Roma, autore del libro “Pope Francis decade” (2023). MICHAŁ KŁOSOWSKI

Il papa è meno amato: periferia e classi popolari non lo sostengono più. ENZO RISSO su Il Domani l’08 aprile 2023

Papa Francesco continua a essere, dal punto di vista emozionale, una grande fonte di speranza (42 per cento). Bergoglio, inoltre, suscita negli italiani un ampio set di emozioni positive, trasmettendo serenità (36,5 per cento), voglia di impegnarsi (22 per cento) e forza (sempre 22 per cento)

I vertici della gerarchia ecclesiastica hanno un livello di fiducia media del 24 per cento. Un dato in ulteriore calo, rispetto al già basso 32 per cento del 2021

Va un po’ meglio per i parroci. Il livello di fiducia complessivo è al 32,5 per cento. Anche in questo caso si registra un calo rispetto al 47 per cento registrato nel 2021.

ENZO RISSO. Analista delle dinamiche valoriali, politiche, sociali e comunicative nel nostro Paese; spin doctor per campagne elettorali e esperto in costruzione di storytelling e sviluppo delle politiche di governance e partecipazione.

Estratto dell’articolo di Gian Guido Vecchi per corriere.it il 7 aprile 2023.

 «Durante la lavanda dei piedi – spero di cavarmela perché non posso camminare bene – ma durante la lavanda dei piedi voi pensate: “Gesù mi ha lavato i piedi, Gesù mi ha salvato, e ho questa difficoltà adesso”. Ma passerà. Il Signore è sempre accanto a te, mai abbandona, mai. Pensate questo».

Nella cappella del carcere minorile, Francesco si prepara a ripetere il gesto inaudito di Gesù che lava i piedi agli apostoli […] Ora vi arriva 5 giorni dopo l’uscita dal Gemelli, gli hanno preparato un piccolo palco in modo che non si debba piegare troppo durante il rito. Ci sono dieci ragazzi e due ragazze, la metà minorenni, italiani e stranieri, e tra di loro un ragazzo musulmano del Senegal, due sinti, un croato, un rumeno e un russo, tutti emozionatissimi. «Io prego sempre per te, Papa Francesco, e ti voglio bene» dice il ragazzo croato, Matteo, che scoppia a piangere dopo che il pontefice gli ha lavato i piedi e si fa tre volte il segno della croce.

Francesco ha presieduto la Messa […] Ha parlato a braccio […] per spiegare il significato di quel gesto: «Gesù, proprio il giorno prima di essere crocifisso, fa questo. Lavare i piedi era abitudine a quel tempo perché le strade erano polverose, la gente veniva da fuori e nell’entrare in una casa, prima del banchetto, della riunione, si lavava i piedi. Ma chi lavava i piedi? Gli schiavi, perché era un lavoro da schiavo. Immaginiamo noi come sono rimasti sbalorditi i discepoli quando hanno visto che Gesù incomincia a fare questo gesto di uno schiavo…».

Eppure lo fa, «per far capire loro il messaggio del giorno dopo che sarebbe morto come uno schiavo, per pagare il debito di tutti noi», spiega Francesco: «Se noi ascoltassimo queste cose di Gesù, la vita sarebbe così bella perché ci affretteremmo ad aiutarci l’un l’altro, invece di fregare uno all’altro, di approfittarsi l’uno dell’altro, come ci insegnano i furbi. È tanto bello aiutarsi l’un l’altro, dare la mano: sono gesti umani, universali, ma che nascono da un cuore nobile».

 Così «Gesù oggi, con questa celebrazione, vuole insegnarci questo: la nobiltà del cuore», ha spiegato Francesco a ragazze e ragazzi: «Ognuno di noi può dire: “Ma se il Papa sapesse le cose che io ho dentro…”. Ma Gesù le sa e ci ama così come siamo, e lava i piedi a tutti noi. Gesù non si spaventa mai delle nostre debolezze, non si spaventa mai perché Lui ha già pagato, soltanto vuole accompagnarci, vuole prenderci per mano perché la vita non sia tanto dura per noi».

Perciò «io farò lo stesso gesto di lavare i piedi, ma non è una cosa folcloristica, no. Pensiamo che è un gesto che annuncia come dobbiamo essere noi, uno con l’altro», ha proseguito Bergoglio: «Nella società vediamo quanta gente si approfitta degli altri, quanta gente che è all’angolo e non riesce a uscire. Quante ingiustizie, quanta gente senza lavoro, quanta gente che lavora e viene pagata la metà, quanta gente che non ha i soldi per comprare le medicine, quante famiglie distrutte, tante cose brutte… E nessuno di noi può dire: “Io grazie a Dio non sono così sai”…Ognuno di noi può scivolare, ognuno di noi. E questa coscienza, questa certezza che ognuno di noi può scivolare è quello che ci dà la dignità - ascoltate la parola: la “dignità” - di essere peccatori».

Quindi «Gesù ci vuole così e per questo ha voluto lavare i piedi e dire: “Io sono venuto per salvare voi, per servire voi”. Adesso io farò lo stesso come ricordo di questo che Gesù ci ha insegnato: aiutarsi gli uni gli altri. E così la vita è più bella e si può andare avanti così».

[…]

Giornalista.

Estratto dell’articolo di Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” domenica 27 agosto 2023.

Così vale tutto. La prossima volta lo candideremo all’Oscar, allo Strega, al Pallone d’oro. Per un arabesco del destino, è stato proprio mio figlio dodicenne Gregorio Indro (proprio come Montanelli, padre fondatore, con Biagi e Bocca, dello storico riconoscimento del nostro settore) ad avvertire una nota stonata, un’increspatura nell’assegnazione del premio è Giornalismo al Papa. [...] 

Il Pontefice riceveva nel palazzo Apostolico vaticano la delegazione del Premio inventato da quel geniaccio di Giancarlo Aneri; e spiegava che la responsabilità del giornalista verso la veridicità delle notizie è la stessa della macina da mulino «mossa dall’acqua, non può essere fermata.

Chi è incaricato del mulino ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di macinare». E continuava Bergoglio che «la disinformazione è il primo dei peccati del giornalismo», auspicando che «si torni a coltivare sempre più il principio di realtà: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione». 

I reportage delle principali agenzie dal web ieri erano illuminanti. Ecco la delegazione e la giuria del premio – presenti i vecchi volponi Anselmi, Riotta e Stella- nella photo opportunity, petto gonfio d’orgoglio per (ammettiamolo) il colpaccio mediatico.

Ed ecco il Papa che, con affaticato sorriso, fingeva d’inchinarsi ai maestri cronisti; e lanciava moniti come saette all’informazione perfetta. Alché, ecco che mio figlio interrompeva la liturgia: «Ma, Papà, scusa, se non è giornalista, non scrive sui giornali, non ha programmi televisivi, perché cacchio gli hanno dato un premio di giornalismo?». E lì, pietrificato, non sono riuscito a rispondergli. Già, che c’azzecca il successore di Pietro col nostro mestieraccio? 

A dire il vero, gli ho blandamente opposto la motivazione ufficiale. Tirando fuori la «scelta inedita del Premio che si inquadra perfettamente in quello che era l’obiettivo che si erano posti Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri, quando fondarono il Premio nel 1995: aiutare il giornalismo ad essere più consapevole del suo ruolo di libera espressione e di contributo alla costruzione della giustizia attraverso il servizio alla verità».

L’erede mi guardava con compatimento: «Papà, dai...». L’imbarazzo si tagliava. Greg, hanno dato il premio al Pontefice perché «Papa Francesco interpreta il coraggio di usare il dialogo per dire parola di pace». «Pa’, ma allora vuol dire che non ci sono giornalisti che parlano di pace?...». Be’, dio, no, che c’entra. «Cioè, papà vuol dire che se il Papa commenta le partite del Boca Juniors, gli danno il Pallone d’oro? O se fa un film gli danno l’Oscar?...». In quel mentre io, paonazzo, balbettavo qualcosa e gli ricordavo che l’anno scorso è Giornalismo era andato a Fiorello («Peggio ancora...», la sua risposta). 

Mi tornava in mente quel che Ennio Flaiano pensava della fragilità dei premi di lunga gittata. E, con la scusa di andare in cantina a stappare un Prosecco Aneri, be’, riflettevo sulla grandezza di Francesco, in grado di sfruttare tutti i mezzi, anche un premio del genere per diffondere la missione pastorale. Epperò, oggi mi pongo due domande. Anzi tre. La prima. 

Possibile che non ci fossero in giro ottimi cronisti da premiare, davvero abbiamo finito i giornalisti bravi? La seconda. Dopo avere premiato il Papa, dove si porterà l’asticella del marketing: ai Premi Nobel, ai capi di Stato, ai fisici quantistici che hanno scritto almeno un pezzullo nella vita purché famosi? La terza domanda è la più ficcante: quando Gregorio Indro la smetterà di prendere così sul serio il suo nome, per buttarsi, finalmente, sulla Playstation?

Papa Francesco Bergoglio attacca la disinformazione: “il primo peccato del giornalismo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2023 

Il Papa ha chiesto un aiuto al mondo del giornalismo in vista del Sinodo dei Vescovi che si svolgerà nel prossimo ottobre a Roma : " oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà”.

Il Papa evidenzia e contesta i danni della disinformazione. “E’ uno dei peccati del giornalismo, che sono quattro: la disinformazione, quando un giornalismo non informa o informa male; la calunnia (a volte si usa questo); la diffamazione, che è diversa dalla calunnia ma distrugge; e il quarto è la coprofilia, cioè l’amore per lo scandalo, per le sporcizie, lo scandalo vende. La disinformazione è il primo dei peccati, degli sbagli – diciamo così – del giornalismo”, ha detto il Santo Padre accogliendo in udienza la delegazione che gli ha conferito il Premio “è Giornalismo”.

”Dovete sapere che io, ancora prima di diventare Vescovo di Roma, ero solito declinare l’offerta di premi. Mai ne ho ricevuti, non volevo. E ho continuato a fare così anche da Papa. C’è però un motivo che mi ha spinto ad accettare il vostro, – ha spiegato Bergoglio – ed è l’urgenza di una comunicazione costruttiva, che favorisca la cultura dell’incontro e non dello scontro; la cultura della pace e non della guerra; la cultura dell’apertura verso l’altro e non del pregiudizio. Voi siete tutti illustri esponenti del giornalismo italiano. Permettetemi, allora, di confidarvi una speranza e anche di rivolgervi con tutta franchezza una richiesta di aiuto. Ma non vi chiedo soldi, state tranquilli! La speranza è questa: che oggi, in un tempo in cui tutti sembrano commentare tutto, anche a prescindere dai fatti e spesso ancora prima di essersi informati, si riscopra e si torni a coltivare sempre più il principio di realtà – la realtà è superiore all’idea, sempre –: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti; che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione“.

Papa Francesco, ripreso dall’ da Adnkronos, indica la strada: “Per far questo, c’è bisogno di diffondere una cultura dell’incontro, una cultura del dialogo, una cultura dell’ascolto dell’altro e delle sue ragioni. La cultura digitale ci ha portato tante nuove possibilità di scambio, ma rischia anche di trasformare la comunicazione in slogan. No, la comunicazione è sempre andata e ritorno. Io dico, ascolto e rispondo, ma sempre dialogo. Non è uno slogan”.

Il Papa ha chiesto un aiuto al mondo del giornalismo in vista del Sinodo dei Vescovi che si svolgerà nel prossimo ottobre a Roma : “Vogliamo contribuire insieme a costruire la Chiesa dove tutti si sentano a casa, dove nessuno sia escluso. Quella parola del Vangelo che è tanto importante: tutti. Tutti, tutti: non ci sono cattolici di prima, di seconda e di terza classe, no. Tutti insieme. Tutti. È l’invito del Signore. Per questo oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà”. 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN OCCASIONE DEL CONFERIMENTO DEL PREMIO “È GIORNALISMO”

Sabato, 26 agosto 2023

Cari amici, benvenuti!

Vi saluto e vi ringrazio per questo incontro e per il conferimento del Premio “è Giornalismo”. Dovete sapere che io, ancora prima di diventare Vescovo di Roma, ero solito declinare l’offerta di premi. Mai ne ho ricevuti, non volevo. E ho continuato a fare così anche da Papa. C’è però un motivo che mi ha spinto ad accettare il vostro, ed è l’urgenza di una comunicazione costruttiva, che favorisca la cultura dell’incontro e non dello scontro; la cultura della pace e non della guerra; la cultura dell’apertura verso l’altro e non del pregiudizio. Voi siete tutti illustri esponenti del giornalismo italiano. Permettetemi, allora, di confidarvi una speranza e anche di rivolgervi con tutta franchezza una richiesta di aiuto. Ma non vi chiedo soldi, state tranquilli!

La speranza è questa: che oggi, in un tempo in cui tutti sembrano commentare tutto, anche a prescindere dai fatti e spesso ancora prima di essersi informati, si riscopra e si torni a coltivare sempre più il principio di realtà – la realtà è superiore all’idea, sempre –: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti; che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione. La disinformazione è uno dei peccati del giornalismo, che sono quattro: la disinformazione, quando un giornalismo non informa o informa male; la calunnia (a volte si usa questo); la diffamazione, che è diversa dalla calunnia ma distrugge; e il quarto è la coprofilia, cioè l’amore per lo scandalo, per le sporcizie, lo scandalo vende. La disinformazione è il primo dei peccati, degli sbagli – diciamo così – del giornalismo.

Per far questo, però, c’è bisogno di diffondere una cultura dell’incontro, una cultura del dialogo, una cultura dell’ascolto dell’altro e delle sue ragioni. La cultura digitale ci ha portato tante nuove possibilità di scambio, ma rischia anche di trasformare la comunicazione in slogan. No, la comunicazione è sempre andata e ritorno. Io dico, ascolto e rispondo, ma sempre dialogo. Non è uno slogan. Mi preoccupano ad esempio le manipolazioni di chi propaga interessatamente fake news per orientare l’opinione pubblica. Per favore, non cediamo alla logica della contrapposizione, non lasciamoci condizionare dai linguaggi di odio. Nel drammatico frangente che l’Europa sta vivendo, con il protrarsi della guerra in Ucraina, siamo chiamati a un sussulto di responsabilità. La mia speranza è che si dia spazio alle voci di pace, a chi si impegna per porre fine a questo come a tanti altri conflitti, a chi non si arrende alla logica “cainista” della guerra ma continua a credere, nonostante tutto, alla logica della pace, alla logica del dialogo, alla logica della diplomazia.

E ora vengo alla richiesta di aiuto. Proprio in questo tempo, in cui si parla molto e si ascolta poco, e in cui rischia di indebolirsi il senso del bene comune, la Chiesa intera ha intrapreso un cammino per riscoprire la parola insieme. Dobbiamo riscoprire la parola insieme. Camminare insieme. Interrogarsi insieme. Farsi carico insieme di un discernimento comunitario, che per noi è preghiera, come fecero i primi Apostoli: è la sinodalità, che vorremmo far diventare abitudine quotidiana in ogni sua espressione. Proprio a questo scopo, fra poco più di un mese, vescovi e laici di tutto il mondo si riuniranno qui a Roma per un Sinodo sulla sinodalità: ascoltarsi insieme, discernere insieme, pregare insieme. La parola insieme è molto importante. Siamo in una cultura dell’esclusione, che è una specie di capitalismo della comunicazione. Forse la preghiera abituale di questa esclusione è: “Ti ringrazio, Signore, perché non sono come quello, non sono come quello, non sono…”: si escludono. Dobbiamo ringraziare il Signore per tante cose belle!

Capisco benissimo che parlare di “Sinodo sulla sinodalità” può sembrare qualcosa di astruso, autoreferenziale, eccessivamente tecnico, poco interessante per il grande pubblico. Ma ciò che è accaduto nell’anno appena passato, che proseguirà con il momento assembleare del prossimo ottobre e poi con la seconda tappa del Sinodo 2024, è qualcosa di veramente importante per la Chiesa. È un cammino che ha incominciato San Paolo VI, alla fine del Concilio, quando ha creato il Segretariato del Sinodo dei Vescovi, perché si era accorto che nella Chiesa occidentale la sinodalità era venuta meno, invece nella Chiesa orientale hanno questa dimensione. E questo cammino così, di tanti anni – 60 anni – sta dando un frutto grande. Per favore, abituarci ad ascoltarsi, a parlare, a non tagliarsi la testa per una parola. Ascoltare, discutere in modo maturo. Questa è una grazia di cui abbiamo bisogno tutti noi per andare avanti. Ed è qualcosa che la Chiesa oggi offre al mondo, un mondo tante volte così incapace di prendere decisioni, anche quando in gioco è la nostra stessa sopravvivenza. Stiamo cercando di imparare un modo nuovo di vivere le relazioni, ascoltandoci gli uni gli altri per ascoltare e seguire la voce dello Spirito. Abbiamo aperto le nostre porte, abbiamo offerto a tutti la possibilità di partecipare, abbiamo tenuto conto delle esigenze e dei suggerimenti di tutti. Vogliamo contribuire insieme a costruire la Chiesa dove tutti si sentano a casa, dove nessuno sia escluso. Quella parola del Vangelo che è tanto importante: tutti. Tutti, tutti: non ci sono cattolici di prima, di seconda e di terza classe, no. Tutti insieme. Tutti. È l’invito del Signore.

Per questo oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà. Qualcuno diceva: “L’unica verità è la realtà”. Sì, la realtà. Ne trarremo tutti vantaggio e, ne sono certo, anche questo “è giornalismo”!

Cari amici, di nuovo vi dico il mio grazie per questo incontro, per quello che significa in riferimento al nostro comune impegno per la verità e per la pace. Affido tutti voi all’intercessione di Maria e vi raccomando: non dimenticatevi di pregare per me! Redazione CdG 1947

Gesuita.

Estratto dell'articolo di Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” venerdì 25 agosto 2023.  

Nonostante il calo numerico e l'invecchiamento del personale, i gesuiti contano ancora su quattromila scuole sparse nei cinque continenti. Tra queste, duecento sono università dotate di storia antica e recente […]. 

Nelle università gesuite sono 80 le business school che preparano i futuri manager non solo a opere di carità, ma alla trasformazione sociale mediante un "capitalismo consapevole". 

Una di queste, la Icda dell'Università Cattolica di Cordoba, è stata fondata da Jorge Mario Bergoglio nel 1975, quando era provinciale dei gesuiti in Argentina. Obiettivo, collaborare alla creazione di un paradigma di business che […] fosse orientato a un ruolo sociale.

Anche l'orizzonte tracciato da papa Francesco nella Laudato si' ha ispirazione e supporto da questo think tank delle business school gesuite, riunite nell'associazione internazionale Iajb (International Association of Jesuit Business School), capace di portare il World Economic Forum a soffermarsi sulla necessità di un "reset dell'economia". 

[…] L'assurdo è che quando il Papa raccomanda di cessare di spremere i poveri per generare sempre più poveri […], gli economisti "cattolici" lo accusano di populismo oppure fingono di non sentire, mentre altri di diverso orientamento (come Jeffrey Sachs) vanno ai convegni della Iajbs e ascoltano riflessioni e proposte. Anche i papi, è risaputo, non sono profeti in casa propria.

Estratto dell’articolo di Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 12 marzo 2023.

[…] Papa Francesco in occasione del decennale del suo pontificato ha invitato domani tutti i cardinali presenti a Roma per una messa riservata soltanto ai suoi collaboratori, lontano dalle dirette televisive. […] Francesco aveva già anticipato nel corso dell’udienza generale che il Vangelo non è un’ideologia e che gli uomini di Chiesa non possono scegliere di stare a destra o sinistra o al centro. Perché altrimenti «tu stai facendo del Vangelo un partito politico, un’ideologia, un club di gente. Ed è molto triste vedere la Chiesa come se fosse un parlamento».

Il riferimento era chiaramente alle divisioni che continuano a minare la credibilità dell’istituzione: la Chiesa è un’altra cosa, ha ripetuto il Papa più volte in questi dieci anni. E, a dirla tutta, non sono stati anni semplici. Le sfide non sono mancate, gli attacchi sono stati praticamente ininterrotti e c’è voluto quasi un decennio per portare a casa la nuova Costituzione Apostolica della Curia Romana che ha di fatto sancito la riforma, il cambiamento tanto auspicato dai cardinali nelle congregazioni generali che nel 2013 hanno preceduto il conclave.

 A tal proposito c’è già chi pensa al prossimo Papa, chi si sta organizzando in cordate, sperando nelle dimissioni di Francesco che, in realtà, ha già fatto capire che se non sarà necessario (motivi di salute), non seguirà la strada di Ratzinger, perché «il papato è ad vitam», fino alla morte.

[…] le resistenze dei vecchi curiali che, dicendo di esser favorevoli al cambiamento, non volevano in realtà perdere il potere accumulato. È da questo fronte che son partiti i principali siluri contro il Pontefice […] critiche, veleni, chiacchiere di corte per screditarlo agli occhi della gente. «Sta distruggendo l’immagine del papato», è stata una delle accuse più dure. […]

 Alcuni attacchi sono arrivati però anche sul piano dottrinale, da uomini di Chiesa più legati alla tradizione, che hanno scritto pubblicamente lettere e proclami, che hanno chiamato a raccolta intellettuali e teologi per colpire Francesco sul tema dei divorziati-risposati, sulla liturgia, sugli abusi. La lotta alla pedofilia nella Chiesa, iniziata da Benedetto XVI, è stata un’altra delle grandi battaglie di questo decennio: il Papa ha voluto pene più severe contro i preti orchi, provvedimenti contro i vescovi o i cardinali che hanno provato a coprire e insabbiare le vergogne delle proprie diocesi e soprattutto l’istituzione di un organismo che lavora in Vaticano per assistere le vittime e prevenire nuovi casi di abusi su minori o su persone vulnerabili.

L’attenzione agli ultimi e agli scartati, la cura del creato, i migranti, il ruolo della donna nella Chiesa, gli appelli per la dignità nel lavoro sono solo alcuni dei grandi temi che Francesco ha messo al centro della sua agenda, facendosi prossimo alle sofferenze delle persone, non giudicando ma mettendosi in ascolto come padre di una […] Chiesa «ospedale da campo» come lui stesso l’ha definita all’inizio del pontificato. E poi la riforma finanziaria: Francesco ha dovuto metter mano anche alla gestione delle casse della Santa Sede, depredate da affaristi senza scrupoli […]

Il gesuita. I dieci anni di Papa Francesco e il decadimento del latino nella Chiesa. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 13 Marzo 2023.

Bergoglio ha portato al drastico ridimensionamento dell’uso del Rito romano antico, che Benedetto XVI aveva liberalizzato nel 2007 col motu proprio Summorum Pontificum. E non è mai stata finora pubblicata l’edizione latina d’importanti documenti

Mai come in quest’ultimo periodo, Papa Francesco è tirato da una parte e dall’altra per la veste talare. L’hanno appena fatto la premier Giorgia Meloni e i suoi, che hanno ripetuto fino alla nausea le giuste parole pontificie contro gli scafisti, evitando però di leggerle nell’ambito di un martellante magistero dell’accoglienza e di riprovazione di ogni politica dei porti chiusi, dei rimpatri senza sicurezza, dei sovranismi populisti. L’hanno fatto e continuano a farlo i vari avvocati del popolo, meglio sarebbe dire di Putin, che imperversano in talk show televisivi, non mancando di citare litanicamente il Papa, laddove di questi sono inequivocabili i gesti e i pronunciamenti a favore del «nobile e martire» popolo ucraino e della loro resistenza.

Est modus in rebus, verrebbe da esclamare con Orazio. E mai frase fu più calzante per lo stesso Jorge Mario Bergoglio, nel giorno in cui ricorrono dieci anni dall’elezione a vescovo di Roma. Di contro a un occasionale fiorire di dichiarazioni, pubblicazioni, eventi, largamente fondati ma non sempre vergini di servo encomio, si avverte forte l’esigenza di valutazioni meno unilaterali di un pontificato complesso e, come altri, dai contorni chiaroscurali. Esemplificativo al riguardo, tanto da potersi definire caso da manuale, il drastico ridimensionamento dell’uso del Rito romano antico, che Benedetto XVI aveva liberalizzato nel 2007 col motu proprio Summorum Pontificum.

Sull’opportunità o meno del documento ratzingeriano, che soprattutto all’epoca della pubblicazione sollevò non poche polemiche e divergenti valutazioni, sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro. A motivare soprattutto le reazioni più oculate furono all’epoca la preoccupazione che si finisse per svalutare non solo riforma liturgica postconciliare ma la portata vincolante stessa del Vaticano II, già messe in discussione in aree tradizionaliste, e venire meno a «una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo».

Parole, quest’ultime, d’uno dei più ragguardevoli critici del Summorum Pontificum quale il cardinale Carlo Maria Martini, che s’era però anche detto ammirato dell’«immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove». E che, al contempo, nel medesimo articolo per Il Sole 24 Ore aveva scritto nero su bianco di ricavare come «valido contributo del motu proprio la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero». Chiaro riferimento allo scisma lefebvriano, nell’ottica di una cui ricomposizione la lettera apostolica era stata pensata oltre a quella prioritaria di una pacificazione all’interno stesso della Chiesa cattolica in risposta alle «giuste aspirazioni» dei non pochi fedeli legati o attratti dall’uso antico.

S’è così assistito negli ultimi anni a un superamento di antiche tensioni, che ha anche fatto da parziale argine, nel variegato mondo del conservatorismo, al serpeggiare di nuove. Ma le une riesplose, le altre detonate, il 16 luglio 2021, quando Francesco, essendo fra l’altro ancora vivo Benedetto XVI, è voluto intervenire con un suo motu proprio, intitolato Traditionis custodes, sull’«uso della liturgia romana anteriore alla Riforma del 1970». E l’ha fatto cassando quasi tutte le disposizioni contenute nel documento del predecessore, iniziando col demandare al vescovo diocesano», cui «spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi», l’autorizzazione dell’«uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica».

Consapevoli dei risultati raggiunti nei precedenti quattordici anni in termini di accennata pacificazione, molti presuli hanno subito provveduto a mantenere lo status quo autorizzando il detto uso. Tra questi anche il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, che vi ha provveduto con decreto del 25 luglio 2021, non avendo d’altra parte avuto mai difficoltà a celebrare talora lui stesso la Messa o i Vespri secondo il rito antico, tanto da suscitare le iscomposte reazioni del liturgista bergogliano Andrea Grillo. Ma il porporato s’è invece mosso, al pari di tanti, nell’ottica di quel dialogo e abbattimento di muri così tanto invocato a livello generale da Papa Francesco. Che, però, dà prova d’innalzarli quando è in ballo il vetus ordo.

E così un ulteriore giro di vite si è avuto il 21 febbraio scorso col rescritto pontificio che – ottenuto dal cardinale Arture Roche, prefetto del Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, nell’udienza pontificia del giorno precedente – implementa la Traditionis custodes, riservando «in modo speciale alla Sede apostolica» le dispense relative all’«uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962» e alla «concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del motu proprio Traditionis custodes di celebrare con il Missale Romanum del 1962». Non senza aggiungere che «qualora un vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi». Insomma, un vero e proprio atto di centralismo romano a discapito delle prerogative e competenze dei singoli vescovi nelle proprie diocesi nonché a ennesima riprova di una collegialità e una sinodalità troppo spesso ridotte a meri slogan.

Il discorso però andrebbe allargato all’uso del latino in sé, che oltre Tevere appare sempre più deprezzato e mal digerito. Lo hanno ben compreso i tanti giornali che, nel dare notizia del rescritto, ne hanno parlato in termini di guerra alle messe in latino o di nuovo no pontificio alle stesse. D’altra parte, in quale considerazione sia oggi là tenuta la lingua ufficiale della Chiesa lo si evince dal fatto che non è mai stata finora pubblicata l’edizione latina d’importanti documenti quali, ad esempio, l’enciclica “Fratelli tutti” e la costituzione apostolica Praedicate Evangelium.

Indicativo al riguardo è inoltre l’aneddoto raccontato dallo stesso Bergoglio ai 53 gesuiti slovacchi, incontrati a Bratislava il 12 settembre 2021: «Un cardinale mi ha detto che sono andati da lui due preti appena ordinati chiedendo di studiare il latino per celebrare bene. Lui, che ha senso dello humor, ha risposto: “Ma in diocesi ci sono tanti ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare. Poi, quando avete studiato lo spagnolo, tornate da me e vi dirò quanti vietnamiti ci sono in diocesi, e vi chiederò di studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato il vietnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino”. Così li ha fatti “atterrare”, li ha fatti tornare sulla terra». Eppure, sono ben altre le indicazioni che vengono dai documenti conciliari come, ad esempio, la Sacrosanctum Concilium e l’Optatam totius che sottolinea come «gli alunni del seminario» debbano «acquistare quella conoscenza della lingua latina che è necessaria per comprendere e utilizzare le fonti di tante scienze e i documenti della Chiesa».

Sarebbero dunque da rileggere e riconsiderare le parole che il cardinale Martini scrisse nel citato articolo “Amo il latino”, ma, in cui, pur muovendo critiche, come detto, alle disposizioni del Summorum Pontificum, scriveva avvedutamente: «Il latino divenne poi, nei giorni dell’adolescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche di uso quotidiano. Ancora oggi non avrei difficoltà a predicare in questa lingua. A Milano, nella Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festività. Perciò ho visto con rammarico il decadere del latino, anche nel mondo ecclesiastico, e i vani sforzi per farlo rivivere, tra cui quello ardente e un po’ ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum sapientia per la promozione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano».

Insomma, ben venga l’ampia opera di riforma avviata da Papa Francesco per rendere la Chiesa un luogo d’accoglienza comune. Ma ciò non sarà possibile senza un vero dialogo con tutte e tutti, al cui avanzamento certo non giovano decisioni verticistiche e spesso di pancia. Auguri, Santità, e, per dirla con Manzoni, adelante, si puedes, adelante con juicio.

Il vescovo Galantino: «Dieci anni di Francesco, il Papa che fa cadere i muri con le sole parole». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera l’11 Marzo 2023

Parla il vescovo Galantino, scelto da Bergoglio per la riforma dei beni del Vaticano. «A un certo punto non è stato più possibile tacere»

Ora tutti a parlarne bene, in omaggio ai dieci anni di pontificato, ma attacchi e contestazioni non si contano, dal 13 marzo 2013…

«Eh sì, il linguaggio di Francesco è di comprensione immediata, fatto di gesti inequivocabili e parole che non hanno bisogno di interpreti privilegiati. E la chiarezza finisce per essere divisiva come lo è il Vangelo: non perché chiuda la porta a qualcuno, ma perché non sopporta furbizie interessate, strumentalizzazioni di Dio e della sua Parola, una religione ridotta a paravento di interessi, non necessariamente economici».

Il vescovo Nunzio Galantino , 74 anni, è il presidente dell’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, tra gli uomini che il Papa ha scelto nel 2018 per una delle riforme più delicate, la gestione dei beni della Chiesa, come nel primo anno di pontificato, quand’era vescovo nella diocesi calabrese di Cassano all’Jonio, lo aveva nominato a sorpresa segretario generale della Cei.

Un esempio di chiarezza?

«La scelta di andare anzitutto a Lampedusa, pochi mesi dopo la sua elezione, non lascia spazio a fraintendimenti su ciò che Francesco pensa riguardo all’accoglienza di migranti e profughi. E smonta qualsiasi strumentalizzazione interessata, da qualsiasi parte venga, com’è avvenuto nei giorni scorsi. Parole e gesti così chiari che strumentalizzarli è impossibile, chi lo fa si mette in ridicolo da solo».

Viene in mente il dolore del pescatore di Cutro che ha provato invano a salvare i bambini, «sono tre giorni che non riesco a dormire, non mangio…».

«Sì, quell’uomo ha dato a tutti un esempio straordinario di umanità. E il Vangelo è umanità, al centro c’è Cristo, uomo e Dio, in ognuno dei piccoli c’è lui… Ogni tanto lo si sente, non solo a Cutro, “come ha detto Francesco”, “come ha ricordato il Papa”, e magari lo dicono le stesse persone che in circostanze diverse hanno detto ben altro. Le parole di Francesco vanno prese per intero, non estrapolando una frase per appoggiare i propri comportamenti. Mi fa un po’ rabbia quando si isola una frase per strumentalizzarla a sostegno di scelte o procedure che sicuramente non vanno nella direzione espressa con chiarezza da Francesco. Capita spesso».

In cosa consiste la «novità» di Francesco?

«Le riforme, per Francesco, non sono maquillage fine a sé stesso ma hanno al fondo un obiettivo preciso, oltre a quelli particolari, dichiarato fin dal titolo della Costituzione che ha riformato la Curia: Praedicate Evangelium, predicate il Vangelo. Anche le riforme economiche, ad esempio, servono anzitutto a operare in un regime di trasparenza e di efficacia, certo. Ma tutto questo ha lo scopo essenziale di evitare operazioni e scelte scorrette che provochino scandalo e rendano poco credibile la Chiesa quando parla di Vangelo. Chi annuncia il Vangelo deve fare tutto ciò che è umanamente possibile per vivere in maniera corretta e quindi credibile. Una Chiesa che non è credibile quando manovra i soldi, non è credibile quando parla di Gesù».

Che cos’è stato questo decennio?

«Da subito Francesco, con i suoi gesti, le parole, le scelte, ha messo e continua a mettere a rischio tanti muri che con il tempo si sono alzati, anche nella Chiesa. Si erano creati una serie di sensi vietati e di sensi obbligati che avevano poco o nulla a che fare con il Vangelo, con il rischio di ridurlo a una morale insopportabile accanto ad altre proposte di morale. Il Papa li ha messi in crisi, in alcuni casi ha dato vere e proprie spallate. A un certo punto non è stato più possibile tacere, rimandare, far finta di niente. E non parlo soltanto di crimini come la pedofilia ma del modo di vivere l’esperienza religiosa».

Parlava di chiarezza del linguaggio...

«Chi non capisce la forza di inginocchiarsi davanti ai carcerati, alla gente che non conta nulla agli occhi della società? Di dire: chi sono io per giudicare? O di baciare i piedi a chi ha in mano le sorti dei popoli, come fece con i potenti del Sud Sudan in guerra civile? Se uno parla in maniera poco comprensibile, c’è il rischio di lasciare le cose come stanno. Con Francesco non può capitare, piaccia o no».

Si tende a fare dei bilanci, ma il Papa ha convocato un Sinodo in due parti a ottobre e nel 2024 che somiglia a un Concilio…

«È una forma diversa di partecipazione. Il Vaticano II fu convocato intorno a schemi definiti mentre ora, partendo dal “basso”, si chiede a tutta quanta la Chiesa: vediamo quanto Vangelo c’è in mezzo a noi, di quanto Vangelo ha bisogno il mondo. Riflettiamo su una Chiesa che riattinga alle radici del cristianesimo, sapendo di vivere in un mondo diverso da allora ma nel quale le domande dell’uomo non sono cambiate».

Dall’inizio Francesco parla di una «Chiesa in uscita».

«Sì, una Chiesa esortata a lasciare l’aria tiepida e tutto sommato confortevole delle sacrestie. Francesco invita ad abbandonare i luoghi comuni che deresponsabilizzano, la facile retorica che infastidisce anche quando tocca temi religiosi, il politicamente corretto che il più delle volte sa di compromesso e di collateralismo. È il passaggio, a volte faticoso, da una Chiesa che si pone al centro a una Chiesa che si mette al servizio di tutti, con tenerezza. Francesco ricorda sempre Matteo 25, Gesù che dice: quello che avete fatto ai più piccoli, lo avete fatto a me. Mettere al centro il Signore. E pensare a ciò che stiamo scegliendo, al modo in cui ci stiamo comportando».

Gli abusi in Argentina che Bergoglio ha ignorato. FEDERICA TOURN Il Domani il 09 marzo 2023

Sebastián Cuattromo e Silvia Piceda nel 2012 hanno costituito Adultxs por los derechos de l'infancia, un'associazione di sopravvissuti agli abusi infantili che si batte per i diritti dei bambini. La coppia sta affrontando un viaggio attraverso l'Europa per rendere visibile quello che definiscono «il reato più impunito della terra»

A pochi giorni dalle celebrazioni per i dieci anni di pontificato, l'8 marzo papa Francesco si è trovato all'ingresso del Vaticano un suo compatriota, ospite inatteso e per la verità ben poco incline a festeggiare. A chiedere di lui alla Porta Angelica era Sebastián Cuattromo, 46 anni, vittima di un prete pedofilo, accompagnato dalla moglie Silvia Piceda, anche lei sopravvissuta a un abuso sessuale quando era bambina.

I due si sono incontrati a causa del passato comune e si sono innamorati: insieme a una nuova famiglia, nel 2012 hanno costituito Adultxs por los derechos de l'infancia, un'associazione di sopravvissuti agli abusi infantili che si batte per i diritti dei bambini. Una storia, la loro, che testimonia la capacità di trasformare la sofferenza in lotta civile: il papa, però, non si è fatto impressionare e non li ha ricevuti.

«IL REATO PIÙ IMPUNITO DELLA TERRA»

La coppia sta affrontando in queste settimane un viaggio attraverso l'Europa per rendere visibile quello che definiscono «il reato più impunito della terra», le violenze sui minori: la tappa romana, organizzata grazie all'aiuto della Rete L'Abuso, assume un forte potere simbolico, soprattutto a ridosso del 13 marzo, anniversario dell'elezione del papa. Dieci anni sono una buona occasione per un bilancio e, sul fronte della lotta alla violenza clericale, quello di Francesco è fatto più di ombre che di luci. Durante la conferenza stampa, che si è tenuta il 9 marzo alla sala stampa estera, la coppia argentina ha ribadito l'importanza della denuncia pubblica degli abusi sessuali sui bambini, a fronte di un alto livello di impunità dei colpevoli e del silenzio delle istituzioni.

L'omertà della Chiesa Cuattromo la conosce bene. È stato abusato ripetutamente nel 1989 e '90, quando aveva 13 anni e frequentava il Collegio della congregazione dei Fratelli marianisti a Buenos Aires, da padre Fernando Picciochi, sacerdote e insegnante della scuola. Grazie alla denuncia di Cuattromo e dopo una lunga battaglia giudiziaria, il suo abusatore è stato infine condannato a dodici anni di reclusione nel 2012 per violenza reiterata su minori, una sentenza poi ratificata nel 2016 dalla Corte suprema argentina.

«Picciochi è stato latitante per dieci anni anche grazie a complicità istituzionali – precisa Cuattromo a Domani – viveva sotto falsa identità negli Stati Uniti e per poterlo processare è stato necessario chiedere l'estradizione. L'ordine di cattura internazionale che pendeva su di lui per molto tempo non è stato effettivo a causa di un errore del potere giudiziario e del potere esecutivo in Argentina, errori sospetti che hanno permesso a quest'uomo di rimanere al riparo della giustizia per anni».

Nessuna condanna è arrivata invece dalla Chiesa. Quando Cuattromo nel 2000 denuncia il suo abusatore, il Collegio marianista non solo non vuole riconoscere le proprie responsabilità in quanto istituzione in cui si sono svolti gli abusi, ma propone alle vittime di Picciochi un accordo economico sottobanco purché non raccontino quel che è successo. «I marianisti pretendevano il nostro silenzio in cambio di denaro», dice Sebastián Cuattromo, che rifiuta e riesce alla fine ad ottenere un risarcimento in sede civile.

FREDDEZZA VERSO LE VITTIME

In quegli anni il cardinale Jorge Bergoglio è arcivescovo di Buenos Aires ma il clima che si respira nella gerarchia cattolica argentina è di freddezza verso le vittime e solidarietà con gli aggressori, se non di vero e proprio insabbiamento. «A metà del 2002, quando il Collegio marianista voleva silenziare le vittime e il mio abusatore era latitante, mi sono rivolto all'arcidiocesi di Buenos Aires, chiedendo di parlare con il cardinale Bergoglio», racconta Cuattromo.

«Sono stato ricevuto da un segretario, padre Martín García Aguirre, e gli ho chiesto esplicitamente se l'arcidiocesi condannasse il tentativo dei Fratelli marianisti di mettere a tacere le vittime. Il segretario mi ascoltò, disse che avrebbe riferito al cardinale e poi mi fece sapere che Bergoglio mi invitava a rivolgermi al vescovo Mario Poli, responsabile del vicariato del Barrio de Flores, che aveva la giurisdizione territoriale sul Collegio».

Monsignor Poli, attuale arcivescovo di Buenos Aires, dopo una serie di colloqui con Cuattromo, gli comunica infine la risposta delle autorità ecclesiastiche: «Mi disse chiaramente che la gerarchia cattolica di Buenos Aires capeggiata da Bergoglio avallava la presa di posizione della scuola – dice Cuattromo – e lo fece in un modo molto arrogante, con la consapevolezza di trovarsi in una posizione di potere rispetto a me, e con una profonda sottovalutazione della gravità del crimine e della sofferenza delle vittime».

NESSUNA CONVOCAZIONE

In dieci anni di papato, non sono arrivati gesti di riparazione da parte di Francesco o della conferenza episcopale argentina, che non ha mai convocato pubblicamente le vittime né ha mai istituito una commissione di indagine indipendente. Nonostante la proclamata “tolleranza zero” sugli abusi nella Chiesa, il papa non ha mai fatto nulla di concreto: «Tantissime volte, in questi anni, le vittime in Argentina gli hanno chiesto di partecipare a confronti pubblici – dice Cuattromo – ma Francesco non ha mai risposto, né agli inviti della nostra associazione né alla lettera personale che gli ho scritto nel 2015. Che cosa si può pensare di un papa che ignora le vittime del suo stesso paese?».

Un anno fa, l'ultima richiesta di incontro, fatta pervenire da Cuattromo a Bergoglio tramite la Nunziatura apostolica: nessuna risposta ufficiale ma solo un suggerimento informale, arrivato da una terza persona, che lo invitava a recarsi in Vaticano durante un'udienza generale «per fare il baciamano al papa». Non esattamente il tipo di proposta che le vittime si aspettavano, e che suona quasi come una beffa. Cuattromo ci ha comunque riprovato presentandosi di persona ma il papa, ancora una volta, non gli ha aperto la porta.

FEDERICA TOURN. Giornalista indipendente di Torino. Si occupa di migrazioni, religioni, diritti umani, femminismi. Ha pubblicato reportage da diversi paesi per testate italiane e straniere; nel 2020 ha vinto la prima edizione del premio internazionale “Piazza Grande Religion Journalism Award”.

Per Francesco l’America Latina è una parentesi ormai chiusa. MARCO GRIECO Il Domani il 10 marzo 2023

In America Latina la chiesa di Bergoglio, improntata sul dialogo e aperta ai poveri, ha prodotto frutti scarsi, con le chiese particolari sempre più atrofizzate e incartate negli apparati burocratici del Celam e del Sedac.

Arrestata la spinta della Teologia della Liberazione, neppure la vocazione unitaria al popolo latinoamericano di Bergoglio arcivescovo ha prodotto il fermento ancora tangibile negli anni della Conferenza di Aparecida.

Resta un grande punto di domanda: perché il papa non va in Argentina? Smarcandosi da chi lo definisce peronista, il pontefice è una personalità politica divisiva, come dimostrano i suoi interventi a gamba tesa nelle questioni nazionali.

Cosa resta della chiesa in America Latina a dieci anni dall’elezione del primo papa latino è poco chiaro. Se «la realtà è superiore all’idea», finora non sono stati sufficienti gli incontri di papa Francesco con la classe dirigente latinoamericana né i frequenti tentativi di dialogo per interposta persona.

Da Roma, dove negli anni di Giovanni Paolo II si è consumato il braccio di ferro con la teologia della Liberazione, dichiarata poi un’esperienza formalmente chiusa durante la Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano di Santo Domingo (1992), Francesco incarna il paradosso del primo papa terzomondista spettatore di una chiesa strozzata, incapace di svicolarsi dal nodo scorsoio della crisi sociale e dei regimi autoritari.

VI LASCIO LA PACE

In America Latina la chiesa di Bergoglio, improntata sul dialogo e aperta ai poveri, ha prodotto frutti scarsi, con le chiese particolari sempre più atrofizzate e riunite in meri apparati burocratici. Il ruolo attivo dei cattolici nelle mediazioni di pace degli anni passati è, anzi, diventato un’aggravante.

È la chiesa che ha il volto di mons. Rolando Alvarez, il vescovo che ha rifiutato l’esilio dal Nicaragua – caldeggiato peraltro dalla Santa sede - optando per il carcere La Mondelo a Managua, dove il presidente Daniel Ortega sta confinando tutti i religiosi colpevoli – a detta sua - di aver fomentato la rivolta popolare del 2018.

Stessa sorte all’episcopato in Bolivia, paese in cui il dialogo di papa Francesco con Evo Morales sembra ormai un lontano ricordo dopo la sua traumatica destituzione. Il successore, infatti, il presidente Luis Arce, ha mandato in tribunale le gerarchie cattoliche, da mons. Ricardo Centellas a mons. Aurelio Pesoa, che negli anni si sono impegnate nei trattati di pace sul modello colombiano.

In America Latina, poi, anche la macchina diplomatica si è inceppata ben prima dell’invasione russa in Ucraina, con gli sforzi del segretario di Stato vaticano Pietro Parolin rivelatisi un sonoro buco nell’acqua.

IL PAPA PERONISTA

In dieci anni, papa Francesco non è mai andato nella sua Argentina, malgrado le sue promesse. In questo tempo, Bergoglio è stato percepito da molti come il silenzioso convitato di pietra nella Casa Rosada, per aver sostenuto il suo attuale inquilino Alberto Fernández – secondo le rivelazioni del Financial Time – e aver mostrato insofferenza verso le politiche pro-choice del suo precedessore, Mauricio Macri.

Proprio per questo, i più critici ammettono che in un viaggio ipotetico in Argentina, papa Francesco verrebbe accolto tutt’altro che calorosamente, come già accaduto in Cile. Dieci anni dopo la partenza di Bergoglio da Buenos Aires, i suoi interventi a gamba tesa nella politica argentina alimentano ancora la cosiddetta «grieta», cioè il divario fra le anime peronista e antiperonista del paese.

Di recente, è stato lui stesso a dover smentire chi gli dà del peronista, nel libro intervista El Pastor: «Non sono mai stato affiliato al partito peronista, non ero nemmeno un militante o sostenitore del peronismo. È una bugia».

Eppure, come già accaduto ai tempi in cui era cardinale, non ha mancato di rivalutare la seconda presidenza di Juan Domingo Perón, interrotta da un golpe, come un’età dell’oro per il suo paese, quando «il livello di povertà era del 5 per cento». Dichiarazioni che hanno suscitato malumori nel governo, costretto a smentire le sue affermazioni per spegnere il crescente malcontento sociale dovuto all’inasprimento dell’inflazione.

LA ROTTURA IN CILE

È difficile rintracciare il punto di rottura del rapporto tra papa Francesco e l’America Latina. Sicuramente, il suo viaggio apostolico in Cile nel 2018 segna la fine della legittimazione del ruolo politico del pontefice come difensore del «pueblo».

Nel paese funestato dagli abusi sessuali del clero cileno, l’arrivo del papa fu anticipato dal lancio di tre bombe contro la chiesa di Nostra Signora delle Americhe a Conchalí e dai cori dei fedeli che non perdonarono a Francesco di aver preso le difese di mons. Juan Barros, definendolo bersaglio di «calunnie» dopo le prime accuse di insabbiamento di casi pedofili.

Solo dopo papa Francesco ha ammesso la sua improvvida uscita, facendo mea culpa, dopo che Barros fu dimostrato colpevole di aver occultato diversi casi di pedofilia e nascosto le violenze di padre Fernando Karadima, condannato già nel 2011 dalla Congregazione per la dottrina della fede. Non è neppure bastata la destituzione in massa del clero cileno da Roma per sanare una ferita ancora aperta, come dichiara sottovoce una fonte vaticana bene informata.

APARECIDA E I BUROCRATI

Ma se è vero che, come disse il sacerdote Guillermo Marcó, già responsabile dell’ufficio stampa dell’arcidiocesi di Buenos Aires, «interpretare il Papa senza una chiave religiosa è come mutilarlo», è sul piano religioso che molti dentro la chiesa latinoamericana accusano il papa argentino di una presa di distanza dal suo ruolo teologico.

È il secondo paradosso di Francesco, esaltato anzitempo dai suoi amici giornalisti come colui che ha forgiato il pontificato durante i lavori per redigere il noto documento di Aparecida, poiché è nel santuario brasiliano che l’allora cardinale Bergoglio enunciò la visione di una chiesa rivolta ai poveri come «riserva morale che guarda ai valori dell’umanesimo autentico che si manifesta nella solidarietà, reciprocità, partecipazione, offrendo spazi reali per la vita comunitaria» e ostile a una «cultura ha come orizzonte una visione individualista e un desiderio consumistico che è dominato da un forte interesse economico».

In questi dieci anni, l’esperienza spirituale delle conferenze generali dell’episcopato latinoamericano iniziate con Rio de Janeiro nel 1955 sono arrivate a un punto morto e il fermento di Aparecida è stato convogliato in summit online e istituzionalizzato nelle due macchine burocratiche dell’episcopato, il Celam (Consiglio episcopale latinoamericano) e il Sedac (Segretariato episcopale dell’America centrale e Panama – che raggruppa i vescovi dei Paesi dell’America centrale continentale).

Della vocazione unitaria della «Patria Grande» panamericana non c’è traccia, malgrado la presenza di uomini latini nella cerchia romana di Bergoglio: dal cardinale Claudio Hummes, scomparso la scorsa estate, a quello di Aparecida, Raymundo Damasceno Assis e al cileno Francisco Javier Errázuriz Ossa, oggi arcivescovo emerito di Santiago del Cile, annoverato nel primo C8, il gruppo di cardinali scelti dal papa per il governo della chiesa, fino all’honduregno Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo emerito di Tegucigalpa.

Vale la pena leggere lo storico Ernst Kantorowicz, quando ne I due corpi del re scrive: «Il misticismo politico è esposto al pericolo di perdere il suo fascino e diventare completamente privo di senso, una volta tolto dal proprio contesto originale, dal proprio tempo e luogo».

MARCO GRIECO. Giornalista freelance, ha scritto per l'Osservatore Romano e per il quotidiano digitale In Terris.

(ANSA l’11 marzo 2023) "Ogni persona va rispettata nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali: istruzione, lavoro, libertà di espressione, e così via. Questo vale in modo particolare per le donne, perché più facilmente soggette a violenze e soprusi. La donna è il primo materiale di scarto. Non possiamo tacere di fronte a questa piaga del nostro tempo". Così il Papa.

 "La donna è usata - ha sottolineato -. Ti pagano di meno, perché sei donna. Poi se ti vedono incinta ti tolgono il lavoro. E' una modalità che nelle grandi città si usa, per esempio con la maternità". Per il Papa, "è una piaga. Non lasciamo senza voce le donne vittime di abuso, sfruttamento, emarginazione e pressioni indebite! Facciamoci voce del loro dolore e denunciamo con forza le ingiustizie a cui sono soggette, spesso in contesti che le privano di ogni possibilità di difesa e di riscatto".

Ricevendo in udienza in Vaticano i membri della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice e della Strategic Alliance of Catholic Research Universities (Sacru), in occasione della presentazione del volume: "More Women's Leadership for a Better World. Care as a Driver for our Common Home", papa Francesco ha sottolineato che "nel volume si parla del problema delle discriminazioni che spesso colpiscono le donne, come altre categorie deboli della società. Tante volte ho ricordato con forza che la diversità non deve mai sfociare nella disuguaglianza, ma piuttosto in una grata e reciproca accoglienza".

"Questa vostra ricerca - ha aggiunto il Pontefice - è dunque un invito, grazie alle donne e in favore delle donne, a non discriminare ma a integrare tutti, specialmente i più fragili a livello economico, culturale, razziale, religioso e di genere. Nessuno deve essere escluso: questo è un principio sacro. Infatti, il progetto di Dio Creatore è un progetto 'essenzialmente inclusivo', sempre, che mette al centro proprio 'gli abitanti delle periferie esistenziali'".

Ambientalista.

Laudate Deum. Il Papa ricuce con gli attivisti climatici e smaschera le fake news negazioniste. Fabrizio Fasanella su L'Inkiesta il 5 Ottobre 2023

L’aggiornamento dell’enciclica Laudato Si’ non è nulla di illuminante, ma è importante in termini di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Il documento alterna informazioni scientifiche, supportate da dati, a critiche al modello produttivo occidentale. Senza dimenticare i riferimenti ai gruppi ecologisti più radicali, che secondo Bergoglio «occupano un vuoto nella società»

Sei paragrafi e settantadue punti per parlare di crisi climatica, protezione del Pianeta e Cop28. Otto anni dopo l’enciclica Laudato Si’, Papa Francesco torna a scrivere di ambiente e riscaldamento globale, e lo fa mettendo in risalto le responsabilità umane dietro l’emergenza più grave e pervasiva del nostro tempo. E senza esimersi da una critica al sistema produttivo occidentale, basato su un’iperproduzione e un iperconsumismo incompatibili con le esigenze della Terra e delle popolazioni più povere (e meno responsabili di questa crisi). 

Quelle contenute nell’esortazione apostolica Laudate Deum sono parole chiare e spesso supportate da una bibliografia inattaccabile, tra report dell’Ipcc e di agenzie sotto le Nazioni unite. Scorrendo il documento si colgono immediatamente le differenze tra il maggio 2015, anno di pubblicazione della seconda enciclica di Papa Francesco, e il periodo attuale. Ai tempi, per rendere l’idea, non era stato ancora raggiunto l’accordo di Parigi (12 dicembre 2015) che permise alla crisi climatica di uscire dalla bolla comunicativa e politica. 

Ora, invece, anche il numero uno della Chiesa Cattolica può permettersi di iniziare un testo scrivendo che «il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura». Ciò denota un senso d’urgenza più esplicito rispetto a otto anni fa, e il fatto che il Papa si schieri (senza troppe sorprese, considerando le sue posizioni storiche) dal lato della scienza è un segnale incoraggiante in vista di una maggior sensibilizzazione dell’opinione pubblica. 

Nel primo capitolo, intitolato “La crisi climatica globale”, Bergoglio si è soffermato sulle critiche spesso avanzate dai detrattori della transizione ecologica, secondo cui la trasformazione verde di molti settori causerà disagio sociale e perdita di occupazione: «Spesso si dice anche che gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico riducendo l’uso di combustibili fossili e sviluppando forme di energia più pulita porteranno a una riduzione dei posti di lavoro. Ciò che sta accadendo è che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico: l’innalzamento del livello del mare, la siccità e molti altri fenomeni che colpiscono il pianeta hanno lasciato parecchia gente alla deriva», recita la Laudate Deum.

Quattro paragrafi del capitolo d’apertura sono dedicati alle «cause antropiche» della crisi climatica: un chiaro tentativo di rispondere ai deliri negazionisti (o riduzionisti) che stanno proliferando negli ultimi anni. Qui il Pontefice non si è solo affidato alle parole, ma anche ai numeri condivisi (letteralmente) dal 99,9 per cento degli scienziati del mondo. Il papa scrive che «in coincidenza con lo sviluppo industriale le emissioni hanno iniziato ad aumentare», e che negli ultimi cinquant’anni l’incremento ha subìto una forte accelerazione.

«Mentre scrivevo la Laudato si’ (la concentrazione di anidride carbonica) ha raggiunto il massimo storico – quattrocento parti per milione – arrivando nel giugno 2023 a quattrocentoventitré parti per milione. Oltre il quarantadue per cento delle emissioni nette totali dal 1850 è avvenuto dopo il 1990. […] Nel contempo, notiamo che negli ultimi cinquant’anni la temperatura è aumentata a una velocità inedita, senza precedenti. Dal 1850 a oggi la temperatura globale è aumentata di 1,1 gradi centigradi», aggiunge il pontefice, che ha poi parlato degli scenari di riscaldamento del pianeta e del rischio di superare la soglia del grado e mezzo nei prossimi dieci anni. Una previsione fin troppo ottimistica, dato che – secondo le stime dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) – ci sono due possibilità su tre che accada entro il 2027. 

Il Papa ha alternato informazioni di stampo scientifico («Le acque oceaniche hanno un’inerzia termica e ci vogliono secoli per normalizzare la temperatura e la salinità») a raccomandazioni di natura comunicativa. Tra queste spiccano il rifiuto del catastrofismo («Alcune diagnosi apocalittiche sembrano spesso irragionevoli o non sufficientemente fondate») e un’esortazione ad avere una «visione più ampia» e speranzosa, perché la «possibilità di raggiungere un punto di svolta è reale». 

Secondo il Pontefice, inoltre, dobbiamo ripensare il nostro uso del potere: «Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza», scrive al punto ventotto. 

Una delle notizie della Laudate Deum è l’avvicinamento di Papa Francesco agli attivisti per il clima più radicali. Le tensioni erano nate al ritorno dal viaggio pastorale in Mongolia, quando il Pontefice – sollecitato dal cronista Robert Messner – aveva detto: «Non scendo su questi estremisti. I giovani pensano al futuro. E in questo senso mi piace che lottino bene. Ma quando subentra un’ideologia o una pressione politica o si usa per questo, non va». 

Il giornalista aveva chiesto al Papa se l’aggiornamento dell’enciclica Laudato Si’ potesse essere interpretato come «una dimostrazione di solidarietà per Ultima generazione e altri gruppi che hanno scelto forme radicali di protesta». La domanda era quindi ben chiara, e gli attivisti hanno concepito la risposta come un affronto gratuito e di stampo paternalistico.  

«Ultima generazione esprime incredulità per le parole del Pontefice ed evidenzia la contraddizione tra queste ultime sbrigative dichiarazioni e le posizioni assunte in precedenza da Bergoglio», si legge su una nota pubblicata il 6 settembre dall’organizzazione ambientalista. Ultima generazione si riferiva alle parole del Papa alla Giornata mondiale della gioventù di Lisbona («Le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Dobbiamo riconoscere l’urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune»). 

Il 4 ottobre, con la pubblicazione dell’esortazione apostolica, al punto numero cinquantotto il Papa ha disinnescato le polemiche: «Attirano spesso l’attenzione le azioni di gruppi detti “radicalizzati”. In realtà, essi occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta ad ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli». 

Il riferimento agli attivisti è all’interno di un intero capitolo incentrato sulla Cop28 (30 novembre-12 dicembre), la conferenza sul clima di Dubai presieduta dal petroliere Sultan Al Jaber: «Il Golfo Persico che si caratterizza come grande esportatore di energia fossile, anche se ha investito molto nelle energie rinnovabili. Nel frattempo, le compagnie petrolifere e del gas ambiscono lì a nuovi progetti per espandere ulteriormente la produzione. Dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico, perché significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico», sottolinea Bergoglio, perfettamente conscio delle contraddizioni alla base della lotta al riscaldamento globale. 

Tra queste c’è anche la giustizia climatica, tema che il Papa ha trattato all’interno del documento. Al punto numero settantadue, il penultimo, scrive – attingendo dall’ultimo “Emissions gap report” dell’Onu – che «le emissioni pro capite negli Stati Uniti sono circa il doppio di quelle di un abitante della Cina e circa sette volte maggiori rispetto alla media dei Paesi più poveri». L’esortazione apostolica, quindi, si chiude con una critica al modello di sviluppo occidentale, nonostante la Cina – Paese in via di sviluppo solo sulla carta – emetta circa il ventisette per cento delle emissioni di CO2 mondiali. 

Estratto dell’articolo di Domenico Agasso per lastampa.it mercoledì 4 ottobre 2023.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della Lettera enciclica Laudato sì, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. 

Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poichè il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura.

Al di la di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti». 

È uno dei passaggi introduttivi di «Laudate Deum», l’esortazione apostolica che il Papa pubblica oggi, nel giorno di San Francesco d’Assisi, per «tutte le persone di buona volontà sulla crisi climatica». 

Nel Documento il Pontefice mette in guardia dai negazionisti: «Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono li, sempre più evidenti. Nessuno può ignorare che negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra che sono solo alcune espressioni tangibili di una malattia silenziosa che colpisce tutti noi. 

E vero che non tutte le catastrofi possono essere attribuite al cambiamento climatico globale. Tuttavia, e verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano significativamente la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi.  […]».

Negli ultimi anni «non sono mancate le persone che hanno cercato di minimizzare questa osservazione. […] Trascurano di menzionare un altro dato rilevante: quello a cui stiamo assistendo ora e un’insolita accelerazione del riscaldamento, con una velocita tale che basta una sola generazione – non secoli o millenni – per accorgersene. […]». 

[…] «[…] Quando parliamo di cambiamento climatico ci riferiamo a una realtà globale – con costanti variazioni locali – che persiste per diversi decenni». 

Nel tentativo di «semplificare la realtà, non mancano coloro che incolpano i poveri di avere troppi figli e cercano di risolvere il problema mutilando le donne dei Paesi meno sviluppati. Come al solito, sembrerebbe che la colpa sia dei poveri. 

Ma la realtà e che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei Paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita più della meta delle persone più povere del mondo, e responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Spesso si dice «anche che gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico riducendo l’uso di combustibili fossili e sviluppando forme di energia più pulita porteranno a una riduzione dei posti di lavoro». Ciò che sta «accadendo e che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico[…]». […]

L’origine «umana – “antropica” – del cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio. Vediamo perchè. La concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, che causano il riscaldamento globale, e rimasta stabile fino al XIX secolo, al di sotto delle 300 parti per milione in volume.

Ma a meta di quel secolo, in coincidenza con lo sviluppo industriale, le emissioni hanno iniziato ad aumentare. Negli ultimi cinquant’anni l’aumento ha subito una forte accelerazione, come certificato dall’osservatorio di Mauna Loa, che dal 1958 effettua misurazioni giornaliere dell’anidride carbonica. Mentre scrivevo la Laudato sì ha raggiunto il massimo storico – 400 parti per milione – arrivando nel giugno 2023 a 423 parti per milione. Oltre il 42% delle emissioni nette totali dal 1850 e avvenuto dopo il 1990». 

La coincidenza di questi fenomeni climatici globali con la «crescita accelerata delle emissioni di gas serra, soprattutto a partire dalla metà del XX secolo, non può essere nascosta. La stragrande maggioranza degli studiosi del clima sostiene questa correlazione e solo una minima percentuale di essi tenta di negare tale evidenza. Purtroppo, la crisi climatica non e propriamente una questione che interessi alle grandi potenze economiche, che si preoccupano di ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibili».

Il Vescovo di Roma si sente «costretto a fare queste precisazioni, che possono sembrare ovvie, a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli che trovo anche all’interno della Chiesa cattolica. Ma non possiamo più dubitare che la ragione dell’insolita velocita di cosi pericolosi cambiamenti sia un fatto innegabile: gli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura negli ultimi due secoli. […]». 

[…] Jorge Mario Bergoglio spera che «quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano cosi mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna. Ai potenti oso ripetere questa domanda: “Perchè si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?”».

Se si considera che «le emissioni pro capite negli Stati Uniti sono circa il doppio di quelle di un abitante della Cina e circa sette volte maggiori rispetto alla media dei Paesi più poveri, possiamo affermare che un cambiamento diffuso dello stile di vita irresponsabile legato al modello occidentale avrebbe un impatto significativo a lungo termine». Così, con le «indispensabili decisioni politiche, saremmo sulla strada della cura reciproca». 

Si incrementano «idee sbagliate sulla cosiddetta “meritocrazia”, che e diventata un “meritato” potere umano a cui tutto deve essere sottoposto, un dominio di coloro che sono nati con migliori condizioni di sviluppo. Un conto e un sano approccio al valore dell’impegno, alla crescita delle proprie capacita e a un lodevole spirito di iniziativa, ma se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità, la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere». In questa logica «perversa, cosa importa loro dei danni alla casa comune, se si sentono sicuri sotto la presunta armatura delle risorse economiche che hanno ottenuto con le loro capacita e i loro sforzi?».

Più che «salvare il vecchio multilateralismo, sembra che oggi la sfida sia quella di riconfigurarlo e ricrearlo alla luce della nuova situazione globale – scrive il Papa – Non giova confondere il multilateralismo con un'autorità mondiale concentrata in una sola persona o in un'élite con eccessivo potere», spiega il Pontefice, aggiungendo: «Parliamo soprattutto di “organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali”». Il punto, secondo Francesco, «è che devono essere dotate di una reale autorità per “assicurare” la realizzazione di alcuni obiettivi irrinunciabili. Così si darebbe vita a un multilateralismo che non dipende dalle mutevoli circostanze politiche o dagli interessi di pochi e che abbia un'efficacia stabile». Per il Vescovo di Roma, «è deplorevole che le crisi globali vengano sprecate quando sarebbero l'occasione per apportare cambiamenti salutari. È quello che è successo nella crisi finanziaria del 2007-2008 e che si è ripetuto nella crisi del Covid-19. Il mondo sta diventando così multipolare e allo stesso tempo così complesso che è necessario un quadro diverso per una cooperazione efficace. Non basta pensare agli equilibri di potere, ma anche alla necessità di rispondere alle nuove sfide e di reagire con meccanismi globali a quelle ambientali, sanitarie, culturali e sociali, soprattutto per consolidare il rispetto dei diritti umani più elementari, dei diritti sociali e della cura della casa comune. Si tratta di stabilire regole universali ed efficienti per garantire questa protezione mondiale». 

Tutto ciò «presuppone che si attui una nuova procedura per il processo decisionale e per la legittimazione di tali decisioni, poiché quella stabilita diversi decenni fa non è sufficiente e non sembra essere efficace». In tale contesto, «sono necessari spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore "democratizzazione” nella sfera globale, per esprimere e includere le diverse situazioni. Non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti».

Papa Francesco esorta a porre «finalmente termine all’irresponsabile presa in giro che presenta la questione come solo ambientale, “verde”, romantica, spesso ridicolizzata per interessi economici. Ammettiamo finalmente che si tratta di un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli». Per questo si richiede un coinvolgimento «di tutti. Attirano spesso l’attenzione, in occasione delle Conferenze sul clima, le azioni di gruppi detti “radicalizzati”. In realtà, essi occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perchè spetta ad ogni famiglia pensare che e in gioco il futuro dei propri figli».

Il Papa ambientalista. Francesco annuncia il seguito dell'enciclica «Laudato si'»: «Va aggiornata ai problemi attuali». Incendi, nubifragi e inondazioni: «Proteggiamo la nostra casa comune». Fabio Marchese Ragona il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.

Lo ha annunciato senza troppi clamori, parlando a braccio in Vaticano a una delegazione di avvocati europei firmatari, nel giugno del 2022, dell'appello di Vienna, l'invito alla pace in Ucraina e in favore dello Stato di diritto e dell'indipendenza della giustizia. Papa Francesco sta scrivendo il seguito dell'enciclica «verde» Laudato Si', pubblicata nel maggio di otto anni fa e dedicata alle questioni climatiche «per un'ecologia integrale». Nonostante gli impegni di tutti i giorni, nonostante il prossimo Sinodo e i viaggi imminenti che dovrà affrontare, dalla Mongolia alla Francia, Bergoglio è al lavoro per dare alle stampe, probabilmente già il prossimo autunno, la seconda parte della «lettera» che invita l'umanità alla cura della casa comune, questa volta per «aggiornarla ai problemi attuali».

Da quel 2015, in effetti, la situazione è drasticamente peggiorata: «Le giovani generazioni - ha detto ieri mattina il Papa parlando alla delegazione di avvocati - hanno diritto a ricevere da noi un mondo bello e vivibile, abbiamo dei doveri nei confronti del creato che abbiamo ricevuto dalle mani generose di Dio». Negli ultimi tempi, non a caso, il Pontefice ha rivolto numerosi appelli, soprattutto a seguito dei disastri naturali che quest'estate hanno colpito varie zone del mondo: dagli incendi in Grecia e negli Stati Uniti, in particolare alle Hawaii, fino ai nubifragi che hanno tormentato l'Italia e la Corea del Sud, le inondazioni in India e le ondate anomale di calore in mezza Europa; parlando al termine dell'Angelus, qualche settimana fa, a tal proposito, ha lanciato l'ennesimo monito «ai responsabili delle nazioni perché si faccia qualcosa di concreto per limitare le emissioni inquinanti. È una sfida urgente e non si può rimandare. Riguarda tutti, proteggiamo la nostra casa comune».

Nella seconda parte della Laudato Si', il Papa rifletterà sulla situazione climatica e umanitaria del mondo che ha attraversato la pandemia da Covid-19 e che ora sta vivendo «una terza guerra mondiale a pezzi», con un pianeta sempre più malato che lancia grida d'aiuto, rimaste ancora inascoltate. Per questo motivo il Pontefice argentino continua a chiedere ai governanti degli sforzi maggiori e ai giovani di «sporcarsi le mani», facendo sentire la propria voce in difesa della casa comune. Nel documento del 2015 Francesco toccava vari temi, dall'accesso all'acqua potabile allo scioglimento dei ghiacciai ma soprattutto sottolineava la necessità di un'alleanza tra umanità e ambiente per porre rimedio alla catastrofe, finché si è ancora in tempo. «Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti - scriveva il Papa - perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti. Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all'indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche. Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale». Adesso, a distanza di otto anni, dopo aver chiesto un «cambiamento di rotta» e una «conversione ecologica», Francesco, di fronte anche al dramma che vivono molte popolazioni del Sud est Asiatico e dell'Oceania, la cui terra viene pian piano divorata dall'oceano, ritiene necessario aggiornare quel documento, evidenziando con maggiore forza la correlazione tra il deterioramento dell'ambiente a quello della società, con i deboli del pianeta che finiscono per essere i primi a farne le spese.

Cani, gatti, conigli: quelle frasi "scomode" del Papa sugli animali. Da giorni Francesco viene criticato dagli animalisti per aver rimproverato una donna con un cagnolino. Ma non è la prima volta che accade...Nico Spuntoni il 12 Maggio 2023 su Il Giornale.

In più di dieci anni di pontificato, mai c'erano state così tante critiche a Francesco come in questa settimana. Almeno all'esterno della Chiesa. Colpa di un passaggio del discorso ai partecipanti alla terza edizione degli Stati Generali della Natalità pronunciato venerdì scorso. All'Auditorium di Via della Conciliazione, Bergoglio ha raccontato un episodio che gli sarebbe capitato quindici giorni fa al termine di un'udienza generale del mercoledì. Vale la pena riportare per intero il racconto che tante polemiche ha scatenato sui social e non solo:

"Sono arrivato davanti a una signora, cinquantenne più o meno - ha detto il Papa - saluto la signora e lei apre una borsa e dice: 'Me lo benedice, il mio bambino': un cagnolino! Lì non ho avuto pazienza e ho sgridato la signora: 'Signora, tanti bambini hanno fame, e lei con il cagnolino!'".

Parole che hanno fatto infuriare le associazioni di animalisti che hanno deciso di esprimere il loro dissenso pubblicamente. Walter Caporale, presidente della onlus Animalisti italiani onlus, ad esempio, ci ha tenuto a dire di non essere "affatto d'accordo sulla considerazione relativa alla relazione uomo-animale, una relazione altrettanto complessa e ricca d'amore, pari a quella tra genitori e figli". Ancora più duro il comunicato dell'Associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente AIDAA sostenendo che "Francesco non si smentisce mai nel contrapporre i bambini agli animali domestici".

I precedenti

In effetti, non è la prima volta che Francesco utilizza l'esempio dell'eccessivo amore per i cani in contrapposizione all'inverno demografico. Non solo: la storiella della signora redarguita per la richiesta di benedire il cane nella borsa è molto simile ad un altro episodio che aveva raccontato nell'udienza ai membri Forum delle Associazioni familiari lo scorso dicembre, che pochi giorni prima il suo segretario passando per piazza San Pietro aveva visto una signora un passeggino. "Voleva guardare i bambini… e c’era dentro un cagnolino!", aveva detto Bergoglio, definendo questa scena un simbolo e facendo un appello a fare figli.

Prima ancora, parlando a braccio in un'udienza generale di gennaio 2022, aveva detto che "cani e gatti occupano il posto dei figli" perchè "tante coppie non vogliono" fare figli "ma hanno due cani, due gatti". Più di recente, in un'udienza alle suore canossiane, il Papa aveva definito questa tendenza delle coppie a preferire gli animali domestici ai figli un "affetto programmato". Questa è una ferrea convinzione di Francesco che ciclicamente, quando affronta il tema della bassa natalità, ripete l'esempio della preferenza per cani e gatti.

Non è un punto su cui si è focalizzato negli ultimi anni. Nel 2018, nel discorso che tenne a braccio in un'altra udienza coi membri del Forum delle associazioni familiari dopo aver messo da parte quello preparato giudicato "troppo freddo", raccontò della volta in cui aveva incontrato "due sposi da dieci anni, senza figli poi ho saputo che non li volevano, ma avevano tre cani e due gatti". Ma già nel 2014, nell'omelia della Messa celebrata a Santa Marta, aveva criticato i matrimoni senza figli dicendo sarcasticamente: "Ma forse è meglio, è più comodo avere un cagnolino, due gatti e l'amore va ai due gatti e al cagnolino".

Figli e conigli

Se la contrapposizione tra figli e cani in fatto di natalità gli è valsa le critiche di associazioni ed animalisti vari, paradossalmente proprio una dichiarazione di senso opposto ha provocato polemiche tra i cattolici.

Il riferimento è a quanto disse Francesco sul volo di ritorno dalle Filippine nel 2015. Anche in quel caso, il Papa raccontò di un rimprovero che aveva fatto ad una madre "perché era incinta dell’ottavo dopo sette cesarei". E poi aggiunse: "Alcuni credono che, scusatemi la parola, per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli, no? No. Paternità responsabile". Una frase che causò più di un imbarazzo e che non a caso oggi non compare nel resoconto di quella conferenza stampa aerea sul sito ufficiale della Santa Sede.

La benedizione degli animali

L'episodio raccontato venerdì all'Auditorium con il rimprovero alla signora che aveva chiesto di benedire il cagnolino ha introdotto anche il dibattito sull'opportunità o meno della benedizione degli animali domestici. Bisogna ricordare che è una suggestiva tradizione la benedizione degli animali in piazza San Pietro il 17 gennaio, giorno in cui si celebra la memoria liturgica di Sant'Antonio abate che è anche patrono dei quadrupedi.

Il "no" di Bergoglio alla signora con il cagnolino nella borsa ha preso il sopravvento nella narrazione sull'intervento del Papa all'edizione degli Stati Generali della Natalità. Non è una sorpresa, però, perché - come abbiamo visto - quella di tirare le orecchie a chi tratta cani e gatti come fossero figli è una costante nei discorsi sulla natalità fatti in questi quasi undici anni da Francesco. D'altra parte, è vero che quel 13 marzo 2013 in Cappella Sistina, il gesuita Jorge Mario Bergoglio scelse di chiamarsi col nome del Santo di Assisi, ma è anche vero che lo fece come omaggio ai poveri e non agli animali.

LGBT-Friendly.

«L'apertura della Chiesa alla comunità Lgbt manca di coerenza». Egidio Lorito su Panorama il 10 Novembre 2023

 Il decano dei vaticanisti italiani commenta la svolta impressa da Papa Francesco segnalando come verso i transessuali continui a esserci una forma di discriminazione Comunità Lgbt, apertura del Vaticano, per Papa Francesco, “Tutti sono chiamati a vivere la Chiesa”. Sul cambio di orientamento del Vaticano, Gian Franco Svidercoschi, decano dei vaticanisti italiani, ritiene che forse ci sia stata «una migliore interpretazione della dottrina relativa alla transessualità. O forse, a dirla malignamente, c’è stato l’arrivo del cardinale Fernandez a capo dell’ex Sant’Offizio» Muta l’orientamento del Vaticano sulla transessualità e l’accoglienza all’interno della Chiesa, e a rimarcare il cambio epocale il papa è intervenuto sulle pagine de La Civiltà Cattolica sostenendo che “per accompagnare spiritualmente e pastoralmente le persone ci vuole molta sensibilità e creatività. Ma tutti, tutti, tutti, sono chiamati a vivere nella Chiesa: non dimenticatelo mai”. E ancora: anche una persona transessuale può ricevere il battesimo “alle condizioni degli altri fedeli”, e può fare da padrino o testimone a un matrimonio. Anche le persone omosessuali che coabitano con un’altra persona possono essere padrini e testimoni alle nozze”. Quel “tutti, tutti, tutti” pare essere il segnale atteso da molti: la nuova posizione del Dicastero per la Dottrina della Fede che ha risposto ad alcuni quesiti, e Papa Francesco ha apposto la sua firma alla dichiarazione del Prefetto del dicastero per la Dottrina della fede, il cardinale argentino Victor Manuel Fernandez che in più ha chiarito che “può essere battezzato il figlio, adottato o concepito tramite la gestazione per altri, di una coppia omosessuale”. Dunque il Vaticano muta atteggiamento, testimoniato proprio da Papa Francesco, che già di ritorno dal Portogallo, lo scorso mese di agosto, aveva sottolineato, in piena conferenza stampa -quasi a voler amplificare la nuova posizione della Chiesa- come quest’ultima fosse appunto “aperta”, mentre -sue parole- la “ministerialità è un’altra cosa”. Ecco alcuni aspetti della nuova posizione della Chiesa. Trans e figli di coppie gay: testimoni e padrini/madrine Il Vaticano dichiara che “un transessuale, che si fosse anche sottoposto a trattamento ormonale e a intervento chirurgico di riattribuzione di sesso, può ricevere il battesimo, alle medesime condizioni degli altri fedeli, se non vi sono situazioni in cui c’è il rischio di generare pubblico scandalo o disorientamento nei fedeli”.

Bambini o adolescenti “Nel caso di bambini o adolescenti con problematiche di natura transessuale, se ben preparati e disposti, questi possono ricevere il battesimo”, è l’indicazione del Vaticano. Transgender testimone di nozze o padrino/madrina di un battezzato. “A determinate condizioni, si può ammettere al compito di padrino o madrina un transessuale adulto che si fosse anche sottoposto a trattamento ormonale e a intervento chirurgico di riattribuzione di sesso. Non costituendo però tale compito un diritto, la prudenza pastorale esige che esso non venga consentito qualora si verificasse pericolo di scandalo”. Genitori gay e figlio per gestazione per altri. “Due persone omoaffettive possono figurare come genitori di un bambino, che deve essere battezzato, e che fu adottato o ottenuto con altri metodi come l’utero in affitto?”, chiedeva al Vaticano il vescovo del Brasile. La risposta del Dicastero della Fede: “Perché il bambino venga battezzato ci deve essere la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica”.

Panorama.it ha chiesto a Gian Franco Svidercoschi qualche di riflettere sugli aspetti di una evidente rivoluzione dottrinale. Dottor Svidercoschi, la Chiesa sembra ondeggiare tra aperture e chiusure. «Per quanto possa valere il mio giudizio, devo dire che il documento della Congregazione per la dottrina della fede – sulla possibilità che i trans possano essere battezzati e far da padrini o madrine di battesimo – mi ha lasciato molto perplesso. E per due motivi». Ci chiarisca come stanno le cose! «C’è un primo motivo di ordine generale: se Cristo ama tutti gli uomini, pur con i loro peccati, e la Chiesa, come ripete spesso papa Francesco, apre le porte a “tutti, tutti, tutti”, non capisco perché il dicastero vaticano incaricato dei problemi dottrinali debba fare un documento apposta per i transessuali. Come se fossero una “categoria” a parte». Il punto sembra essere questo… «E’ come se Gesù amasse i transessuali un po’ meno degli eterosessuali. Non c’è, anche senza volerlo, qualcosa di “discriminatorio”? Se un trans vuole ricevere il battesimo, o far da padrino o madrina, non basta il buon senso pastorale del parroco a stabilire se ci sia o no rischio di scandalo, e quindi ad accettare o meno la richiesta?». C’è anche un suo secondo punto di ragionamento, pare di capire. «Certamente, perché ai primi di settembre del 2015, la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta alla domanda di un vescovo spagnolo, aveva sancito che “i transessuali non possono fare da padrini”. Dunque, nel giro di otto anni, lo stesso dicastero ha dato due versioni completamente diverse; e citando, tutt’e due le volte, documenti di Francesco, la “Laudato sì” nel 2015 e l’ “Evangelii gaudium” nei giorni scorsi». Ma che cosa è cambiato in otto anni per emettere un giudizio così diverso? «A dirla positivamente, forse c’è stata una migliore interpretazione della dottrina relativa alla transessualità. O forse, a dirla malignamente, c’è stato l’arrivo del cardinale Fernandez a capo dell’ex Sant’Offizio: fedelissimo di Bergoglio, curatore dei suoi testi più importanti, teologo di idee avanzatissime, e nemico giurato delle scuole teologiche europee».

Nonostante la sua lunga frequentazione del Vaticano la avvertiamo dubbioso… «Al di là delle congetture, non si può chiedere alla Santa Sede un po’ più di coerenza e di trasparenza? Perché non spiegare i motivi del cambiamento di giudizio? Perché far “sparire” il documento del 2015 dalla lista ufficiale dei testi della Congregazione? Insomma, perché non considerare le conseguenze che vicende come questa hanno su tanti credenti, creando confusione, sconcerto e sofferenza?». * Gian Franco Svidercoschi, nato ad Ascoli Piceno, classe 1936, di origini polacche, è il decano dei vaticanisti italiani. Dopo gli inizi della professione giornalistica nel 1959, è stato inviato dell’ANSA al Concilio Vaticano II per assumere, poi, l’incarico di vicedirettore de l’Osservatore Romano. Tra le numerose pubblicazioni, il volume autobiografico di Karol Wojtyla, Dono e Mistero. Diario di un sacerdote (1996) e, con l’arcivescovo di Cracovia e già segretario particolare di Giovanni Paolo II, Stanislaw Dziwisz, Una vita con Karol (Rizzoli 2007) e Ho vissuto con un santo (Rizzoli 2013). La Lettera ad un amico ebreo (1993), è stata tradotta in venti lingue: è stato tra gli sceneggiatori del film "Karol, un Papa rimasto uomo"

Dagospia venerdì 4 agosto 2023. GREEN E LGBT-FRIENDLY: IL VERO LEADER DELLA SINISTRA È BERGOGLIO!

(ANSA venerdì 4 agosto 2023) - "La prima volta che un gruppo di transessuali è venuto in Vaticano e mi hanno visto, se ne sono andate piangendo, dicendo che avevo dato loro la mano, un bacio... Come se avessi fatto qualcosa di eccezionale per loro. Ma sono figlie di Dio!". Lo dice il Papa in una intervista a Vida Nueva rilasciata prima di partire per Lisbona

(ANSA venerdì 4 agosto 2023) - "Una pastorale ideologica di sinistra o di destra o di centro è inutile, è già malata dall'inizio e fa male ai giovani". Lo dice il Papa parlando dei giovani in una intervista a Vida Nueva rilasciata prima di partire per Lisbona. E aggiunge: "Ho paura dei gruppi giovanili intellettuali, di chi chiama i giovani a riflettere e poi li riempie di idee strane". "Con i giovani dobbiamo usare il linguaggio delle mani, perché i giovani hanno bisogno di fare le cose, e il linguaggio delle gambe, che è camminare, non un laboratorio asettico". In linea con questo tema il Papa sottolinea anche che "abbiamo bisogno di seminaristi normali, con i loro problemi, che giocano a calcio, che non vadano nei quartieri a dogmatizzare…".

Estratto dell’articolo di Domenico Agasso per “La Stampa” venerdì 4 agosto 2023. 

Non usa parole di circostanza, papa Francesco. Affonda il coltello nel cuore di un problema globale che molti politici dimostrano di voler misconoscere: l'emergenza globale dei cambiamenti ambientali. Ma se i governanti non vi arrivano, il Papa chiede che siano i giovani ad attuare le giuste contromosse, senza accontentarsi «di semplici misure palliative o di timidi e ambigui compromessi».

Alla Giornata mondiale della Gioventù di Lisbona (Gmg) il Pontefice dice con forza a ragazze e ragazzi di tutto il mondo che «voi potete vincere la sfida del clima». L'appello del Vescovo di Roma è particolarmente accorato: «Questo anziano che vi parla - ormai sono vecchio - sogna che la vostra generazione divenga una generazione di maestri. Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza. E maestri che difendano la vita del pianeta, minacciata in questo momento da una grave distruzione ecologica».

C'è «l'urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune. Tuttavia, ciò non può essere fatto senza una conversione del cuore e un cambiamento della visione antropologica alla base dell'economia e della politica». Lo afferma incontrando gli studenti dell'Università cattolica portoghese, ma si rivolge a tutta la generazione Greta Thunberg.

Mette anche in guardia da un pericolo: «Le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro», scandisce citando la sua enciclica «verde» e sociale «Laudato si'». Si tratta «invece di farsi carico di quello che purtroppo continua a venir rinviato: ossia la necessità di ridefinire ciò che chiamiamo progresso ed evoluzione». Perché, in nome «del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Studiate bene questo che vi dico - ribadisce - in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso».

Jorge Mario Bergoglio invita i giovani a vedere la questione nel suo insieme, in un'ottica di «ecologia integrale», e quindi di «ascoltare la sofferenza del pianeta insieme a quella dei poveri […]».  […]

(ANSA il 5 aprile 2023) - Un dialogo a tutto campo con un gruppo di giovani: è il documentario "Amen" che vede il Papa protagonista e che sarà trasmesso su Disney+.

 Parlando ad una giovane che vende contenuti pornografici in rete, il Papa, secondo quanto riporta l'Osservatore Romano, dice: "Chi è dipendente dalla pornografia è come se fosse dipendente da una droga che lo mantiene a un livello che non lo lascia crescere".

 Il dialogo si sposta poi sul tema della masturbazione e il Papa dice ai giovani: "Il sesso è una delle cose belle che Dio ha dato alla persona umana. Esprimersi sessualmente è una ricchezza. Allora tutto ciò che sminuisce la reale espressione sessuale sminuisce anche te, e impoverisce questa ricchezza in te. Il sesso ha una sua dinamica, ha una sua ragion d'essere.

L'espressione dell'amore è probabilmente il punto centrale dell'attività sessuale. Allora tutto ciò che te lo trascina da un'altra parte e che te lo toglie da quella direzione ti sminuisce l'attività sessuale". Il Pontefice ammette che i cristiani non hanno sempre avuto una catechesi matura sul sesso.

Da ansa.it il 6 aprile 2023.

    Parlando ad una giovane che vende contenuti pornografici in rete, il Papa, secondo quanto riporta l'Osservatore Romano, dice: "Chi è dipendente dalla pornografia è come se fosse dipendente da una droga che lo mantiene a un livello che non lo lascia crescere".

     Il dialogo si sposta poi sul tema della masturbazione e il Papa dice ai giovani: "Il sesso è una delle cose belle che Dio ha dato alla persona umana. Esprimersi sessualmente è una ricchezza. Allora tutto ciò che sminuisce la reale espressione sessuale sminuisce anche te, e impoverisce questa ricchezza in te. Il sesso ha una sua dinamica, ha una sua ragion d'essere.

   L'espressione dell'amore è probabilmente il punto centrale dell'attività sessuale. Allora tutto ciò che te lo trascina da un'altra parte e che te lo toglie da quella direzione ti sminuisce l'attività sessuale". Il Pontefice ammette che i cristiani non hanno sempre avuto una catechesi matura sul sesso.

Nel documentario, il Papa parla del rapporto tra la Chiesa e il mondo Lgbt. Con il nome di Celia si presenta una ragazza spagnola che spiega che è non binaria e cristiana. "Sai che cos'è una persona non binaria?" chiede a Francesco. Lui - riferisce l'Osservatore Romano - risponde di sì, ma lei gli spiega lo stesso che una persona non binaria è quella che "non è né uomo né donna, o, quantomeno, non del tutto né tutto il tempo".

 Poi vuole sapere se nella Chiesa c'è spazio per la diversità sessuale e di genere, e il Papa risponde: "Ogni persona è figlia di Dio, ogni persona. Dio non rifiuta nessuno, Dio è padre. E io non ho diritto a cacciare nessuno dalla Chiesa. Non solo, il mio dovere è di accogliere sempre. La Chiesa non può chiudere la porta a nessuno. A nessuno". Subito dopo il Pontefice rivolge una critica a quanti, con la Bibbia come riferimento, giustificano l'esclusione dalla comunità ecclesiale del cosiddetto movimento Lgbt. "Queste persone sono infiltrati che approfittano della Chiesa per le loro passioni personali, per la loro ristrettezza personale. È una delle corruzioni della Chiesa", dice Papa Francesco.

Malato.

Sta bene, ha scherzato” riuscito l’intervento su Papa Francesco. Notte tranquilla dopo intervento: “E’ trascorsa bene”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

L'operazione per un laparocele incarcerato è terminata dopo tre ore. Non ci sono state complicazioni. La degenza durerà alcuni giorni. Il Pontefice "è sveglio e già al lavoro" e il quadro clinico non desta preoccupazioni

L’operazione per laparocele incarcerato in anestesia generale, al quale è stato sottoposto Papa Francesco Bergoglio.   è durata tre ore e non ci sono state complicazioni. L’intervento, resosi necessario per un’ernia sviluppatasi sulla cicatrice di un precedente intervento, che avrebbe potuto costituire il rischio di un’occupazione intestinale, è stato eseguito dall’equipe del professor Sergio Alfieri. Lo rende noto la Santa sede.

E’ trascorsa bene”, senza complicazioni, la prima notte di Papa Francesco al decimo piano del Policlinico Gemelli dove ieri ha subito un intervento all’intestino. Lo ha fatto sapere la Sala stampa del Vaticano che fornirà ulteriori informazioni a fine mattinata. Tra i tantissimi in preghiera per il Pontefice anche padre Antonio Spadaro che via tweet dice: “Sì, ha una fibra forte. Ma soprattutto grande fede e… un grande senso dell’umorismo. Sempre e nonostante tutto“

Bergoglio è “sveglio e già al lavoro”, fa sapere l’equipe medica. La degenza, segnalano dalla sala stampa vaticana, durerà alcuni giorni, durante i quali il Pontefice porterà avanti il suo lavoro dal Policlinico. Le udienze sono infatti state sospese almeno fino al 18 di giugno.

Il dottor Alfieri: “Mi ha già preso in giro”

Quando facciamo la terza operazione?”. Il professor Alfieri ha annunciato ai giornalisti riuniti nell’atrio del policlinico Gemelli gli esiti dell’intervento cui è stato sottoposto Francesco. “Il Santo Padre – ha detto Alfieri – sta bene: questa è la notizia che aspettavate, è sveglio ed è vigile ha già fatto la prima battuta. Mi ha già preso in giro dieci minuti fa: mi ha chiesto quando facciamo un terzo intervento“.

Questo il primo segnale di ripresa dato dal Pontefice al medico che ha guidato l’equipe che ha eseguito l’intervento di chirurgia addominale. “Intervento chirurgico – ha spiegato il dottore – programmato per un laparocene incarcerato in corrispondenza di cicatrici risalenti a un intervento che era stato eseguito tempo fa in Argentina. Tale laparocene aveva causato sindromi dolorose che, condividendo con lui, abbiamo deciso di operare“ 

Il quadro clinico è tranquillo e sotto controllo

Il chirurgo si è premurato di rassicurare la platea dei giornalisti: “non si è trattato – ha detto – di un intervento urgente. Se fosse stato urgente lo avremmo fatto ieri, quando il Papa è venuto al Gemelli per fare una tac. Lo abbiamo deciso anche in base alla sua agenda: è lui che decide“. Quanto al quadro clinico, non desta preoccupazioni, per quanto si tratti comunque del quadro clinico di “un uomo di ottantasei anni che ha già subito quattro interventi e recentemente ha anche avuto un’infezione polmonare: per dire con esattezza quanti saranno i giorni di degenza dovete darci tempo. Saranno comunque necessari tra i cinque e i sette giorni. Sono state riscontrate tenaci aderenze tra alcune anse intestinali e il peritoneo parietale: era questo che gli causava i sintomi. Si è proceduto alla liberazione e si è effettuata una riparazione plastica di una parete addominale“.

L’intervento, ha aggiunto il medico, è stato privo di complicazioni, così come l’esito dell’anestesia generale. “L’intervento chirurgico – ha concluso il dottor Alfieri – che ha subito il Papa in precedenza (l’operazione eseguita proprio dal professor Alfieri nel 2021, ndr.) era per una patologia benigna ed è completamente guarito, come benigna è quella di oggi. Non ha altre malattie“. Appena sveglio, Francesco non ha mancato di sorridere. “Gli ho raccomandato di non fare sforzi e sollevare pesi, lui mi ha guardato come per dire ‘sono il papa ti pare che sollevo pesi?”.

Il racconto dell’ anestesista

Alla domanda se sentisse dolore a seguito dell’intervento, il Santo Padre ha risposto più con cenni della testa che con le parole, rassicurando tutti noi che stava bene e che non provava alcun dolore fisico. Sono state queste le prime battute che abbiamo scambiato con Papa Francesco poco dopo il suo trasferimento nell’appartamento riservato al Pontefice nel Reparto Solventi“, racconta Massimo Antonelli, direttore dell’Unità operativa complessa Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e Tossicologia Clinica del Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs dove Bergoglio è ricoverato. 

Il comunicato del Vaticano

Papa Francesco è vigile e cosciente dopo l’intervento, fa sapere la Santa Sede in un comunicato. “Il Santo Padre ricoverato presso il Policlinico A. Gemelli, è stato sottoposto all’intervento chirurgico programmato ed eseguito nelle prime ore pomeridiane dal Prof. Sergio Alfieri, Direttore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Addominali ed Endocrino Metaboliche, assistito dal Dott. Valerio Papa, dalla dott.ssa Roberta Menghi dal dott. Antonio Tortorelli e dal dott. Giuseppe Quero; l’intervento è stato condotto in anestesia generale dal Prof. Massimo Antonelli, Direttore del Dipartimento di Scienze dell’emergenza, anestesiologiche e della rianimazione, coadiuvato dalla dott.ssa Teresa Sacco, dalla dott.ssa Paola Aceto e dal dott. Maurizio Soave e la dott.ssa Giuseppina Annetta per il posizionamento dell’accesso vascolare centrale. Erano altresi presenti in Sala Operatoria il Prof. Giovanni Battista Doglietto, Direttore del Fondo di Assistenza Sanitaria, ed il dott. Luigi Carbone, Medico della Direzione di Sanità ed Igiene dello Stato della Citta’ del Vaticano”.

Questo pomeriggio, presso il Policlinico Gemelli, il Santo Padre è stato sottoposto all’intervento chirurgico programmato per un laparocele incarcerato in corrispondenza della cicatrice delle pregresse operazioni chirurgiche laparotomiche effettuate negli anni passati”, prosegue la nota, “tale laparocele causava al Santo Padre, da alcuni mesi, una sindrome subocclusiva intestinale dolorosa ingravescente. Nel corso dell’intervento chirurgico sono state riscontrate delle tenaci aderenze tra alcune anse intestinali medio-tenuali parzialmente conglobate ed il peritoneo parietale che causavano la sintomatologia sopra menzionata. Si è proceduto pertanto alla liberazione delle aderenze (cicatrici interne) con sbrigliamento completo di tutta la matassa tenuale. È stata quindi eseguita la riparazione del difetto erniario mediante una plastica della parete addominale con l’ausilio di una rete protesica”.

L’intervento chirurgico e l’anestesia generale si sono svolte senza complicazioni. Il Santo Padre ha reagito bene all’intervento chirurgico”, conclude il comunicato, “è vigile e cosciente e ringrazia per i numerosi messaggi di vicinanza e di preghiera che lo hanno da subito raggiunto”. Redazione CdG 1947

Che cos’è la laparotomia, l’intervento che dovrà fare Papa Francesco al Gemelli: in ospedale per qualche giorno.  Redazione Web su L'Unità il 7 Giugno 2023

“Papa Francesco al termine dell’Udienza Generale si è recato presso il Policlinico Universitario A. Gemelli dove nel primo pomeriggio sarà sottoposto in anestesia generale ad un intervento chirurgico di Laparotomia e plastica della parete addominale con protesi”. Recita così la nota con cui la sala stampa del Vaticano annuncia l’imminente operazione a cui sarà sottoposto il Pontefice. Di cosa si tratta? Cos’ha il Papa? Il laparocele è una specie di ernia che si forma su una cicatrice. Si tratta di una conseguenza dell’intervento ai diverticoli di due anni fa.

“All’esterno dell’addome si osserva un rigonfiamento, all’interno si crea uno spazio dove può infilarsi un’ansa dell’intestino”, ha spiegato Luigi Boni, ordinario di chirurgia all’Università di Milano e direttore della chirurgia generale e mini invasiva del Policlinico, intervistato da Repubblica. La nota del Vaticano parla in particolare di “laparocele incarcerato”: “l’ansa dell’intestino si blocca in quello spazio e c’è il rischio che si strozzi”, ha spiegato ancora il medico. Il papa era stato operato nel 2021 per una “stenosi diverticolare sintomatica del colon”.

“I colleghi avevano iniziato l’intervento in laparoscopia, che prevede tagli molto più ridotti sull’addome ma hanno trovato difficoltà e sono passati alla chirurgia tradizionale, cosiddetta a cielo aperto – spiega sempre Boni – Questo prevede di fare un taglio di discrete dimensioni a metà addome. Una delle problematiche a lungo termine di questa procedura è che la parete addominale si indebolisce a causa della cicatrice. E appunto può cedere creando un laparocele come in questo caso”. I rischi di questo problema che hanno reso necessario l’intervento “è che ci siano problemi come il blocco intestinale ma anche lo strozzamento dell’ansa intestinale. In questo caso si danneggiano i vasi e può esserci una necrosi, evenienza molto pericolosa che richiede un intervento importante”.

Le cause che favoriscono la comparsa del laparocele sono l’età, il sovrappeso, infezioni della ferita, traumi, ma anche le broncopneumopatie croniche ostruttive, caratterizzati da frequenti episodi di tosse violenta. Già a marzo il papa era stato ricoverato per una polmonite. Gli esperti spiegano che l’operazione avverrà in anestesia totale e comprenderà un intervento chirurgico di laparotomia e plastica della parete addominale con protesi. Si tratta di una rete di materiale sintetico che serve per rinforzare le pareti dove si è verificato il cedimento dei tessuti. Si tratta dunque di un intervento non complesso ma bisognerà aspettarne gli esiti. La Santa Sede ha già annunciato che Francesco resterà in ospedale qualche giorno. “Normalmente in 4 o 5 giorni il paziente torna a casa – spiega Boni – Tutto ovviamente dipende dalle condizioni della persona operata e da come si riprende. In certi casi si arriva anche a una settimana”. DI Redazione Web 7 Giugno 2023

Estratto da open.online il 12 aprile 2023.

Nel lunedì dell’Angelo Papa Francesco ha telefonata per la novantesima volta a Michele Ferri, fratello di Andrea, il commerciante ucciso a Pesaro a colpi di pistola il 3 giugno 2013 da un proprio dipendente a scopo di rapina.

 Un’amicizia […] che ormai dura da tempo e che Bergoglio ha tenuto a ribadire anche ieri, 10 aprile: «Ancora un po’ e non la raccontavo», ha confidato il Papa a Ferri parlando del malore che lo ha colpito 12 giorni fa.

«Avevo perso conoscenza. Me la sono vista veramente brutta», ha spiegato Bergoglio nella telefonata che Ferri ha raccontato al Resto del Carlino di Pesaro, svelando per la prima volta la notizia dello svenimento al momento del suo ricovero al Gemelli di Roma.

 […]  «Sono ancora vivo, mi ha detto», racconta ancora Michele Ferri. «Ha esordito così e io stavolta ho sentito una voce in forma, squillante e serena, meglio dell’ultima volta, allora mi era parso un po’ affaticato», aggiunge, riferendosi al 3 gennaio scorso, la data dei suoi 52 anni, che Papa Francesco non aveva dimenticato.

 «Gli ho detto: “Ci hai fatto prendere un bello spavento!”. Lui mi ha spiegato che era arrivato incosciente in ospedale. “Bastavano alcune ore in più e non so se la raccontavo”», continua. Anche l’uomo ha confidato all’amico Pontefice i dettagli del suo attuale stato di salute e della terapia che sta seguendo: «E’ per questo che mi ha chiesto come stavo», spiega infine Ferri, «poi ci siano fatti gli auguri di Pasqua».

Estratto dell'articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2023.

Alle 9 meno 10 del mattino, quando Francesco appare sulla Papamobile circondato da bambini in cappellino bianco, fa più freddo che a Natale. Eppure l’udienza del mercoledì prima di Pasqua è prevista all’aperto, qui in piazza San Pietro .

 E il Papa è reduce dall’infezione polmonare e dal ricovero al Gemelli.

«Quest’udienza l’ha organizzata padre Georg o qualche altro nemico» scherza un fedele. Gli altri però non colgono l’ironia e appaiono sinceramente preoccupati. Sono migliaia, ma ci sarebbe stato posto nell’Aula Paolo VI, al coperto. Invece il Papa si siede sotto il baldacchino, riscaldato dai pannelli elettrici del tetto, ma esposto al vento e al gelo; e comincia a tossire. I fedeli seguono con apprensione ogni suo movimento.

Ora Francesco ha chiesto un bicchiere d’acqua. È tutto un brusio: «Il Papa sta male, il Papa sta male...». «Non capite? Ha voluto tenere l’udienza all’aperto proprio per far vedere che sta bene, che ce la fa, che ora celebra pure la Via Crucis e la Messa di Pasqua!». Il Papa adesso si fruga nella tasca alla ricerca di qualcosa. Fazzoletto? Rosario? No, la custodia degli occhiali da lettura.

 Quando prende la parola, la tensione si scioglie. La sofferenza o anche solo il disagio di Bergoglio diventano fuoco, energia. «Perché tanta indifferenza verso Dio? Perché tanto male nel mondo? Guardate quanto male c’è nel mondo!».

(...)

 La risposta il Papa la dà nella sua lingua madre, il castigliano, salutando i fedeli che sventolano bandiere argentine, spagnole, boliviane. «La Pasqua può essere un nuevo comienzo, un nuovo inizio. È sempre il momento

Il narcisismo, l’accumulazione dell’inutile — «a Santa Marta, dove abito, abbiamo deciso di disfarci delle cose superflue per darle ai bisognosi: erano tantissime» —, il maquillage per nascondere le ferite: «Ma poi il trucco cola, e resti con la tua vera faccia. Quella che Dio ama». Ora il Papa parla a braccio, senza leggere: «Quando potevo andare in giro — mi è sempre piaciuto andare in giro, adesso non mi lasciano più — mi piaceva vedere gli sguardi della gente. Ma spesso erano sguardi tristi. Gente che va in giro parlando con se stessa. Gente sempre china sul telefonino». Una signora in seconda fila ride, il Papa un po’ ride con lei, un po’ la rimprovera: «Sì, tu ridi, ma guarda che è così! Tutti sempre con il telefonino!».

 (...)

Alla fine il Papa gira in sedia a rotelle, per i saluti. Il cronista ovviamente fa il suo mestiere: «Santo Padre, ci ha fatto spaventare. Come sta davvero?». Francesco si prende una pausa prima di rispondere. Poi sorride, e il sorriso del Papa ha in sé candore e malizia, come chi ricorda l’insegnamento del Cristo: «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque candidi come colombe e cauti come serpenti». Infine Bergoglio risponde: «Sono ancora vivo». Qualcuno, dietro il Portone di Bronzo, forse se ne rammarica. Tutti, qui in piazza, se ne rallegrano. Il Conclave può attendere. Domani sera, venerdì santo, la Via Crucis al Colosseo.

Estratto da farodiroma.it l’1 aprile 2023.

Sono ancora vivo. Non ho avuto paura”: Papa Francesco lascia sorridente Gemelli di Roma e non si sottrae alle domande dei cronisti. Il Pontefice ha ricordato medici e infermieri che lavorano al Policlinico, “sono uno spettacolo” e ha elogiato la loro attività di assistenza ai pazienti.

 Un grazie lo ha detto anche si giornalisti, in particolare alla vaticanista del Messaggero Franca Giansoldati: “Ho seguito le cronache, avete scritto bene. Io leggo Il Messaggero. Bravi, bravi e grazie”.

Poi ha riflettuto ancora sulla morte: “Mi ricordo le parole di una persona più grande di me che mi disse ‘io la morte non l’ho vista, ma l’ho vista venire… È brutta eh'”. Un Papa, si vede dalle foto distribuite nelle ultime 24 ore, che si mostrava già sorridente e che ostentava sicurezza.

Già da venerdì mattina era chiaro che le condizioni del Pontefice non destassero preoccupazione. Una delle ultime note diffuse dalla Sala Stampa vaticana attraverso il suo direttore Matteo Bruni chiariva: “Francesco, dopo essersi raccolto in preghiera nella Cappellina dell’appartamento privato, ha ricevuto l’eucarestia”. Nel lasciare il Gemelli, il Pontefice è stato accompagnato da grandi applausi delle persone presenti. […]

DAGONEWS il 30 marzo 2023

Il comunicato della Sala stampa vaticana ha indicato “un'infezione respiratoria” come l’imprevisto che ha costretto Papa Francesco al ricovero al Policlinico “Gemelli”. Le voci che si rincorrono in Vaticano, invece, vanno in un’altra direzione: “Infarto”. Il Pontefice, che ha trascorso una notte tranquilla in ospedale, potrebbe aver bisogno di un piccolo intervento (Stent? Cambio valvola?).

Pare che Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, e Andrea Tornielli, direttore editoriale del medesimo Dicastero, siano stati tenuti ai margini del problema di salute di Bergoglio e che stiano annaspando nel “controllare” il flusso di notizie da Oltretevere. I due, secondo le malelingue, avrebbero un po’ “improvvisato” i due comunicati stampa diffusi di ieri mettendo in imbarazzo la Segreteria di Stato.

Perché il Papa non vuole apparire debole ora. Lasciato l'ospedale, Francesco ha subito ripreso la sua agenda di lavoro. Un segnale da mandare a chi pensa alla successione. Nico Spuntoni il 2 Aprile 2023 su Il Giornale.

Ieri Papa Francesco ha lasciato il Policlinico Gemelli in cui era stato ricoverato mercoledì pomeriggio ed ha fatto ritorno in Vaticano, non prima di salutare e ringraziare i giornalisti che hanno seguito in questi giorni la sua degenza fuori dall'ospedale romano. Il Papa si è fermato ed è sceso dalla macchina, rispondendo ad alcune domande su quanto gli è accaduto questa settimana.

Il malessere

Bergoglio ha fatto ricorso all'humour per commentare quanto gli è successo ed ha esclamato "sono ancora vivo" di fronte alle domande di chi gli chiedeva come si sentiva. Nonostante la disponibilità, il Pontefice non ha risposto nello specifico alla domanda più attesa, ovvero quella relativa al motivo del suo ricovero. Ha detto di aver sentito "come un malessere, come quando uno ha mal di stomaco" e più tardi in Vaticano ha detto di non sapere cosa ha avuto, invitando i giornalisti a chiederlo ai medici.

Che non si sia trattato di semplici controlli programmati, però, lo lascerebbe pensare il riferimento alla morte che il Papa ha fatto nel suo saluto ai giornalisti che lo attendevano al Gemelli. Infatti, il Pontefice ha citato una persona più anziana di lui che gli disse se una volta "io la morte non l'ho vista, ma l'ho vista venire... E' brutta eh".

Comunicazione

Nel ringraziare i giornalisti, Francesco ha rivelato di aver letto le cronache su di lui in questi giorni ed ha menzionato in particolare Il Messaggero dicendo che "è bello e chiaro, serve per evitare le fantasie". Parole che lasciano suggerire che la ricostruzione più attendibile sulla sua situazione clinica di questi giorni sia quella presentata dalla vaticanista del quotidiano romano, Franca Giansoldati. La giornalista ha scritto che "quando si è presentato in corsia era in forte affanno, con il cuore che fibrillava pericolosamente e con una saturazione d'ossigeno preoccupante" e che i fattori di rischio al momento del suo arrivo fossero alti. Un quadro ben poco rassicurante rispetto a quello fornito dalle comunicazioni ufficiali.

Stakanovista

Giansoldati, inoltre, ha spiegato che è stato il Papa a volere a tutti i costi tornare in Vaticano per poter partecipare alle celebrazioni previste nella Settimana Santa. E questo nonostante i medici abbiano consigliato riposo assoluto per un pieno recupero. Francesco, però, è apparso determinato a dare l'immagine dello stakanovista, che a più di 86 anni non si ferma di fronte ad un ricovero ospedaliero. Lo si è visto anche nelle scarne comunicazioni di questi giorni della Sala Stampa della Santa Sede nella quale si rendeva pubblico che il Papa stava continuando a lavorare anche all'appartamento al decimo piano del Policlinico. Lui stesso, uscendo dall'ospedale, ci ha tenuto a sottolineare che aveva letto i giornali e quindi si era mantenuto attivo anche durante la degenza. Non solo: appena tornato in Vaticano dopo un passaggio alla Basilica di Santa Maria Maggiore, Bergoglio ha voluto subito riprendere l'agenda ed ha incontrato il cardinale Marc Ouellet, prefetto del dicastero per i Vescovi in attività fino al 13 aprile. A ciò si aggiunge la conferma che il Papa presiederà le celebrazioni della Settimana Santa - con un cardinale celebrante all'altare come ormai è abitudine - e che addirittura si recherà ugualmente in Ungheria per il viaggio apostolico previsto per fine aprile. E il giovedì santo andrà al penitenziario minorile di Casal del Marmo per la lavanda dei piedi.

Problemi

L'idea di un Papa instancabile, nel pieno delle sue forze nonostante gli acciacchi e l'età, scoraggia chi all'interno della Chiesa potrebbe pensare alla sua successione. E' un argomento a cui Francesco non è indifferente come ha dimostrato all'indomani dell'operazione al colon, lamentando il fatto che durante la sua degenza ci sarebbero stati incontri tra prelati che lo ritenevano quasi morto. In un'intervista, inoltre, Bergoglio ha riconosciuto che "ogni volta che un Papa è malato c’è sempre una brezza o un uragano di Conclave”. Ridimensionare i rischi corsi alla salute potrebbe scoraggiare i piani di chi pensa già al "dopo".

Francesco sa che la situazione della Chiesa in questo momento non è facile e che sono molti i critici per le decisioni prese nel suo pontificato. C'è la minaccia dello scisma tedesco, coi vescovi determinati a portare avanti l'agenda ultra-progressista emersa dal Cammino Sinodale nonostante i paletti di Roma. Dall'altro lato c'è poi il braccio di ferro sulla liturgia scatenato dalle nuove restrizioni alla cosiddetta messa in latino che hanno provocato anche un appello da parte dei fedeli amanti della tradizione con tanto di manifesti affissi nel vicino quartiere Prati. Lo scandalo abusi continua ad essere un nervo scoperto: questa settimana sono arrivate le polemiche dimissioni del gesuita Hans Zollner dalla pontificia commissione per la tutela dei minori che hanno indispettito il presidente, il cardinale americano Seán Patrick O'Malley.

Su questo fronte c'è, inoltre, l'evoluzione del caso Rupnik che dovrebbe portare a breve al redde rationem. Mentre anche la politica di questo pontificato nei confronti dell'Islam è stata messa nel mirino da una serie di intellettuali europei per la sua presunta arrendevolezza come messo per iscritto in un recente libro di Giulio Meotti (La dolce conquista, Cantagalli) con il contributo molto critico su Francesco da parte dello scrittore francese Richard Millet. C'è, infine, il capitolo del processo penale in Vaticano sull'acquisto e la vendita dell'ormai famoso palazzo londinese e in cui le rivelazioni che stanno emergendo in aula rischiano di creare un ulteriore danno immagine.

La vicinanza della gente in questi giorni di degenza è un capitale che Francesco potrà utilizzare per prepararsi al meglio nello sciogliere i numerosi nodi che continuano a complicare il governo della Chiesa. Oltre a ciò, un aiuto arriverà dalla preghiera e dalla Settimana Santa che si aprirà oggi con la domenica delle palme.

(ANSA il 30 marzo 2023) Ha trascorso una notte tranquilla, "liscia come l'olio", papa Francesco secondo quanto apprende l'ANSA da fonti vicine al decimo piano del Policlinico Gemelli, dove il Pontefice è ricoverato da ieri nello speciale appartamento dei Papi per "un'infezione respiratoria".

"Gli infermieri sono molto ottimisti, ritengono che per le celebrazioni della prossima domenica delle Palme, ci sarà. Salvo naturalmente imprevisti", riferiscono ancora. In effetti, fin dai primi momenti, con il Pontefice c'è Massimiliano Strappetti, 54 anni, infermiere talmente vicino e ascoltato da Bergoglio da essere stato proprio lui a convincerlo a sottoporsi all'operazione al colon tre anni fa. Oggi, comunque, una giornata di completa degenza è del tutto scontata. Il Pontefice proseguirà la sua terapia per un'infezione respiratoria e continueranno gli accertamenti che per ora, secondo quanto si apprende, escludono problemi cardiaci e polmonite.

COMUNICATO VATICANO: PAPA FRANCESCO COLPITO DA POLMONITE

Piazza San Pietro - 29 marzo 2023

 (a cura Redazione "Il sismografo" il 30 marzo 2023) In parole semplici il comunicato vaticano sul ricovero del Papa questo primo pomeriggio presso il Policlinico Gemelli, dove si era recato per controlli clinici programmati, spiega che è stato colpito da una forma di polmonite, ma non si precisa se è virale o batterica (funghi o parassiti). In concreto, l'infezione respratoria è una forma di polmonite che obbliga al ricovero ospedaliero almeno per 5/6 giorni.Quanto si comunica all'opinione pubblica, con l'esclusione del riferimento al Covid19, è abbastanza generico e ostacola quindi conclusioni convincenti.

Se la situazione è questa vuol dire che il Santo Padre dovrà sottostare, e certamente è già così, a una terapia antibiotica piuttosto forte oppure dovrà essere curato con farmici antivirali. Inoltre nelle prossime ore è fondamentale capire fino in fondo le cause ultime della malattia, l’origine, l’agente patogeno, in particolare la situazione immunitaria del Papa che, secondo fonti autorevoli, avrebbe problemi con la tiroide. Questo è un dato fondamentale inquesto momento e anche per il futuro.

La polmonite in generale si conclama con dei sintomi specifici come febbre, tosse con espettorato, affanno, brividi e dolori al torace … Oggi all’ora dell’Udienza generale, che abbiamo seguita in diretta dall’inizio alla fine, Papa Francesco non ha manifestato nessuno di questi sintomi. L’unica cosa visibile, e documentata fotograficamente, sono state le conosciute disabilità fisiche per deambulare. Nel momenti in cui veniva aiutato a salire sulla papamobile si sono viste alcune espressioni di dolore piuttosto inteso a giudicare dalla mimica del volto.

Tra l'altro, proprio nella lettura della catechesi di oggi il Papa, che è apparso molto presente, dinamico ed energico, ha fatto oltre 13 cambiamenti, improvvisati, a braccio, e alcuni molto lunghi al punto di riformulare diversi passaggi del testo elaborato e preparato prima. Non sembrava che il Pontefice fosse in una situazione di salute precaria o difficile.

Estratto dell’articolo di Dom. Aga. Per “la Stampa” il 30 marzo 2023.

Franco Romeo, fino a pochi giorni fa presidente della Società italiana di Cardiologia, spiega perché la fibrillazione atriale non è un disturbo da prendere sottogamba.

 Intanto professore ci aiuti a capire cos'è…

«È l'aritmia più diffusa nella popolazione generale e la sua prevalenza tende a crescere con l'avanzare dell'età. Si verifica quando invece del normale ritmo cardiaco, regolato dal "nodo del seno", che è il segnapassi naturale del cuore, partono dall'atrio una serie di stimoli incontrollati e irregolari, con frequenza superiore a 400 battiti al minuto».

[…] E questo quali rischi comporta?

«Le problematiche sono fondamentalmente due. La prima è costituita da disturbi respiratori anche importanti. Questo perché si verifica una riduzione della quantità di sangue inviata dal cuore. Da quanto trapela il Papa è stato ricoverato non per la fibrillazione atriale in sé, ma per una insufficienza respiratoria legata a questa.

 Ma nei casi più gravi si può andare incontro ad edema polmonate e allo scompenso cardiaco, qualora il ventricolo sia già danneggiato. Altro rischio grave è quello embolico. L'atrio sinistro del cuore si ferma e in una sua sacca si possono formare dei trombi che se vanno in circolo possono colpire a livello cerebrale e provocare ictus. Un rischio che si è ridotto da quando abbiamo cominciato a scoagulare i pazienti con fibrillazione atriale».

Quando è necessario il ricovero?

«Quando si evidenzia una difficoltà respiratoria, come sembra sia il caso del Pontefice. In questo caso si somministrano dei farmaci che generano quella che noi chiamiamo cardioversione farmacologica. Ma quando con questa non si riesce a riportare alla normalità il ritmo cardiaco, allora si ricorre alla cardioversione elettrica, una specie di elettroshock cardiaco che serve ad azzerare l'attività elettrica del cuore per poi farlo riprendere con i normali ritmi». […]

Chi è Leonardo Sandri, il cardinale che sostituirà Papa Francesco alla messa delle Palme. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2023

A celebrare la messa delle Palme di domenica prossima sarà Leonardo Sandri, al posto di Papa Francesco, ricoverato in Ospedale. Sandri è vice decano del Collegio Cardinalizio, ha confermato lui stesso la notizia. Per Pasqua si spera potrà essere il Pontefice a celebrare. Al momento Papa Francesco è ricoverato all’Ospedale Gemelli di Roma per un’infezione respiratoria.

A LaPresse il cardinale Giovanni Battista Re, Prefetto emerito della Congregazione per i vescovi e decano nel Collegio Cardinalizio, ha anticipato che se le Palme toccheranno a Sandri, il giovedì Santo al cardinal De Donatis Vicario di Roma, la messa in Coena Domini all’Arciprete di San Pietro il cardinal Gambetti. Per il Venerdì Santo e la via crucis “vedremo, alcune cose non sono ancora state determinate. La notte Santa ci sarà uno dei cardinali ma si deve ancora stabilire”.

Sì, certamente, posso confermare che domenica celebrerò la messa delle Palme: sono stato avvertito già lunedì scorso dal maestro delle Cerimonie pontificie che i riti della Settimana Santa sarebbero stati celebrati ognuno da un cardinale, e a me hanno richiesto la Domenica delle Palme“, ha detto all’Ansa il cardinale Sandri, vice decano del Collegio cardinalizio, confermando così la predisposizione di un piano per la celebrazione dei riti pasquali.

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Mi auguro naturalmente che il Papa si rimetta e possa presiedere le liturgie come avvenuto in altre occasioni, pur essendoci un cardinale che officiava all’altare”. Sandri è sottodecano del Collegio cardinalizio. La messa di domenica ricadrà tra l’altro il 2 aprile, nel giorno dell’anniversario della morte di Giovanni Paolo II. Era proprio Sandri, nei giorni in cui Wojtyla non riusciva più a parlare, a essere la voce del Pontefice.

Il maestro delle cerimonie mi aveva avvertito già lunedì scorso – ha comunque precisato il cardinale a Il Corriere della Sera – , quando ovviamente nessuno immaginava un ricovero. Si è fatto sempre così, negli ultimi tempi, per via del dolore al ginocchio del Santo Padre che gli rende difficile stare in piedi troppo a lungo: il Papa era presente e presiedeva, restando seduto, mentre la messa era celebrata da un cardinale. Ad esempio i funerali di Benedetto XVI, presieduti da Francesco, sono stati celebrati dal cardinale Re”.

Secondo le ultime notizie la salute di Papa Francesco è in via di miglioramento. L’ultimo bollettino medico diffuso dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni riportava che “al Santo Padre è stata riscontrata una bronchite su base infettiva che ha richiesto la somministrazione di una terapia antibiotica su base infusionale che ha prodotto gli effetti attesi con un netto miglioramento dello stato di salute. Sulla base del prevedibile decorso il Santo Padre potrebbe essere dimesso nei prossimi giorni”.

Estratto dell’articolo di Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 29 Marzo 2023

Il successo planetario riscontrato da quell'improbabile indumento papale - un soffice piumino candido, all'ultima moda, contraddistinto da una griffe nota per l'abbigliamento invernale de luxe - ha aperto sul web un filone inesauribile: in poco tempo Papa Francesco è stato collocato su uno skateboard in piazza san Pietro, davanti ad una consolle da dj in una basilica gremita e persino mentre vola leggero come una piuma volteggiando sulla folla.

 Un trend crescente di trovate fantasiose. Da quando è apparsa la prima foto taroccata dalla intelligenza artificiale, talmente perfetta da sembrare veritiera se non fosse per quel giaccone in piuma d'oca tanto bizzarro quanto inimmaginabile per un pontefice, è stato un continuo.  […]

 L'inventore della foto numero uno – quella del piumino – è stato rintracciato da un sito americano Buzzfeednews. Si chiama Pablo Xavier, è un operaio edile di 31 anni di Chicago e ancora un po' sottosopra per tutto quel baccato.  

Il papa resterà in ospedale per qualche giorno per un’infezione respiratoria. Il Domani il 30 marzo 2023

Papa Francesco ha passato la prima notte all’ospedale Gemelli dopo il ricovero di mercoledì pomeriggio dopo un malore. Resterà sotto osservazione per «qualche giorno» dopo che i medici hanno escluso che si tratti di Covid

Dopo il ricovero di mercoledì pomeriggio, papa Francesco dovrà restare ancora «qualche giorno» all’ospedale Gemelli, ha comunicato il Vaticano. Il pontefice è stato ricoverato dopo un malore per un’infezione alle vie respiratorie, ma i medici hanno escluso che si tratti di Covid. 

Inizialmente era stato detto che il pontefice era stato ricoverato per esami precedentemente programmati, ma successivamente si è venuto a sapere che Francesco si era lamentato nei giorni precedenti di «difficoltà

respiratorie».

Il Vaticano ha anche fatto sapere che il papa «è toccato dai molti messaggi ricevuti ed esprime la propria gratitudine per la vicinanza e le preghiere». 

A papa Francesco è stata rimossa una parte del polmone in gioventù: per questo motivo è più esposto a eventuali problemi respiratori. 

LA QUESTIONE DELLA PASQUA

In Vaticano ci si chiede anche cosa possa succedere, adesso che sono state cancellate le udienze di giovedì e venerdì, nei prossimi giorni, in cui è prevista la celebrazione della domenica delle palme. 

Papa Francesco, mani gonfie e affaticamento: il dettaglio prima del ricovero. Libero Quotidiano il 30 marzo 2023

In un primo momento si è parlato solo di controlli prgrammati. Poi nel pomeriggio di ieri la verità su Papa Francesco è venuta a galla. Il malore in Santa Marta, la sua residenza a Roma, poi la corsa in ospedale al Gemelli e gli uomini della sicurezza allertati per trascorrere la notte nel nosocomio, alla fine la conferma: il ricovero. A quanto pare, secondo quanto riportano i medici che lo stanno seguendo, si tratterebbe di una infezione respiratoria.

Una patologia che va seguita molto da vicino. Il Papa a quanto pare avrebbe accusato un fortissimo dolore al petto, un "senso di oppressione", che ha immediatamente messo in allarme il personale che gli sta vicino.Secondo le indiscrezioni che sono arrivate nella serata di ieri dall'ospedale la diagnosi definitiva è quella di una polmonite. E proprio durante l'udienza generale qualcuno aveva notato il volto serio di Francesco, l'aria affaticata e le mani un po' gonfie. Tutti segnali che da lì a poco avrebbero trovato conferma nel malore che ha costretto il Papa al ricovero. Tutti gli impegni sono stati cancellati.Al momento dal Vaticano arrivano rassicurazioni "nulla di preoccupante". Ma di fatto il Pontefice dovrà restare ricoverato e monitorato per qualche giorno. In giornata dovrebbero arrivare nuovi dettagli sul suo stato di salute. 

Papa Francesco in ospedale al Gemelli: “Dolore al petto mentre era a Santa Marta”. Annullati tutti gli appuntamenti in agenda. Il Pontefice sarebbe sotto controllo per problemi cardiaci e respiratori. Il Dubbio il 29 marzo 2023

Papa Francesco ha accusato un malessere cardiaco, dolori al petto nella residenza di Santa Marta, dopo l'udienza generale. Lo riferiscono fonti vaticane. Il medico personale del pontefice, Masimiliano Strappetti, ha subito acconsentito a portare Bergoglio in ospedale per controlli.

Il Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, aveva comunicato nel pomeriggio che “il Santo Padre si trova da questo pomeriggio al Gemelli per alcuni controlli precedentemente programmati”. Secondo quanto si apprende gli appuntamenti di papa Francesco in agenda sono stati annullati affinché i controlli possano proseguire per il tempo eventualmente necessario. 

Per l’Agenzia Nova si tratterebbe di una fibrillazione atriale che ora i medici stanno monitorando, derivante da un affaticamento respiratorio. Il Santo Padre è arrivato in ospedale a bordo di un'ambulanza ed è stato trasferito al reparto di cardiologia. Dopo i primi esami è stato deciso di ricoverare Francesco che, quindi, passerà la notte in ospedale. Con lui i collaboratori più stretti e uomini della gendarmeria che vigilano sulla sua sicurezza. Fonti raggiunte da "Agenzia Nova" parlano di "situazione sotto controllo", ma che non viene sottovalutata. Il Papa è vigile e collaborativo e le sue condizioni generali non destano particolare preoccupazione, anche se appare visibilmente affaticato. 

Da ansa.it il 19 marzo 2023.

"La Comunità Internazionale guarda con vivo interesse al Suo operato e alle Sue parole, che tracciano la strada maestra per assicurare all'umanità un orizzonte di pace e di autentico sviluppo. Il Suo magistero, teso all'eliminazione delle disuguaglianze e al sostegno alle frange più vulnerabili delle nostre società, ha segnato profondamente questo decennio e sono certo che continuerà a rappresentare un punto di riferimento per i governi, per le organizzazioni internazionali e per moltitudini di credenti e non credenti".

 Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio a Sua Santità Papa Francesco.

"La lieta ricorrenza del decennale del Pontificato mi offre la graditissima opportunità di formulare, a nome della Repubblica Italiana e mio personale, sentiti voti augurali - scrive Mattarella - uniti a sentimenti di riconoscenza per la fondamentale opera della Santità Vostra al servizio della Chiesa cattolica in Italia e nel mondo.

 La Sua azione pastorale ha ribadito la centralità della persona - con i suoi inalienabili diritti e i suoi altrettanto ineludibili doveri e responsabilità - per la salvaguardia del pianeta, casa comune dell'umanità tutta.

 Le encicliche 'Laudato sì' e 'Fratelli tutti' rappresentano pietre miliari di un cammino che nel 'Documento sulla fratellanza umana' trova nuove, concrete e promettenti prospettive di comprensione reciproca e feconda collaborazione".

 "La Sua costante sollecitudine nei confronti dell'Italia e di quanti vivono nel nostro Paese è altamente apprezzata dalla nostra comunità nazionale, che guarda con speranza al Primate d'Italia e ai Suoi numerosi viaggi in grandi città e in realtà più piccole ma non per questo meno importanti. Di questo impegno Le sono personalmente molto grato. Con tali sentimenti mi unisco a tutti gli italiani che in questo fausto giorno desiderano unirsi alla Santità Vostra per augurarLe ancora molti anni di fecondo magistero", conclude il capo dello Stato.

Scripta manent. La "firma semplice" di Papa Francesco: ecco cosa svela la sua grafia. L'analisi grafologica svela chi è davvero Bergoglio, che nel 2023 è entrato nel decimo anno del suo pontificato. Evi Crotti il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.

La scrittura di Papa Francesco, uguale alla firma, denota una coerenza tra l’Io individuale (scrittura) e l’Io sociale (firma), che in Lui mette in luce la semplicità (grafia essenziale), per cui il suo modo di vivere è dettato da armonia: ciò che prova dentro egli lo esprime, con fermezza, semplicità ed empatia, anche all’esterno; costi quel che costi!

Il suo carattere si è formato attraverso un’educazione impostata sui valori che contano, cosa che ha impresso in lui un “marchio indelebile” da sempre caratterizzando la sua crescita, che non deve essere stata facile. La dimensione ridotta delle lettere sta a significare la predisposizione all’approfondimento delle tematiche e la tendenza all’interiorizzazione, per cui difficilmente egli prende le cose sottogamba o con superficialità, siano esse tematiche importanti o situazioni del quotidiano.

Nonostante il suo apparire estroverso, dovuto alla capacità di andare verso l’altro in modo sciolto e spontaneo, papa Bergoglio ama la solitudine ossia un ritirarsi per trovare dentro di sé quella forza, non solo fisica ma anche spirituale, che lo porta a donarsi gratuitamente a tutti. La sua natura è, infatti, introversa (vedi dimensione piccola delle lettere), vale a dire che egli nel suo percorso di vita ha provato momenti di difficoltà che forse solo con l’aiuto della forza d’animo ha potuto gestire.

Infatti, egli è dotato di tenacia e fermezza, che gli conferiscono volontà decisionale e lo salvaguardano da ogni forma di dipendenza (vedi rigo ben mantenuto). La sua scrittura palesa un’energia un po’ congestionata (tremolii lungo il gesto grafico), espressione di una sofferenza che può fargli vivere momenti di tensione, che non limitano però la sua spinta all’azione e alla disponibilità verso l’altro.

La semplicità della firma di papa Francesco conferma la sua natura immediata e informale, che nulla concede alla diplomazia, poiché è consapevole che solo con la spontaneità e l’empatia si può far breccia nel cuore dell’uomo e dare un volto umano alla società. Ciò non limita la profondità di pensiero (calibro piccolo delle lettere) e il bisogno di solitudine e interiorizzazione di cui ha comunque necessità per recuperare rapidamente le forze (vedi scosse repentine).

La sua scrittura e la sua firma scorrono sul foglio e sono anche ben appoggiate sul rigo a segnalare fermezza, tenacia e risolutezza, che nulla tolgono alla tenerezza e alla predisposizione al dialogo. In grafologia, la linea orizzontale su cui si muove la scrittura contiene simbolicamente passato, presente e futuro, ossia lo scorrere della vita nella realtà del tempo. Ciò significa niente calcoli, ma fede che trae nei valori del passato la spinta per l’azione e nella realtà del presente la forza per concretizzare un futuro benefico.

"Se stanco o malato...". Il Papa torna a parlare di dimissioni. Francesco torna a lasciare la porta aperta all'ipotesi di rinuncia papale. Ma solo a determinate condizioni; ecco quali. Nico Spuntoni il 10 Marzo 2023 su Il Giornale.

Due nuove interviste a tutto campo di papa Francesco, questa volta a Infobae, sito d'informazione argentino e all'emittente svizzera di lingua italiana Rsi. Tanti i temi affrontati: dalla guerra alla sua salute, dal rapporto con Benedetto XVI al celibato dei preti. E non è mancata, con l'organo di stampa latinoamericano, una dichiarazione sull'omosessualità. Ma soprattutto, il Papa è tornato a parlare di rinuncia papale, un tema sempre più ricorrente nei suoi periodici incontri con la stampa e nelle interviste rilasciate alle testate ospitate a Santa Marta.

Le dimissioni

Come accade sempre più spesso, nell'intervista realizzata all'azienda di servizio pubblico svizzera e anticipata da Corriere della Sera, La Stampa e Repubblica, il Santo Padre è stato interrogato sulla possibilità di dimettersi. Ancora una volta, papa Francesco ha lasciato la porta aperta a questa possibilità, affermando che prendere in considerazione il passo indietro nel caso di "stanchezza che non ti fa vedere chiaramente le cose", o di "ma mancanza di chiarezza" così come di "un problema fisico". Quando mancano pochi giorni al decennale dalla sua elezione al soglio, la salute di Bergoglio non è perfetta ma sull'idea di dimettersi si è limitato a dire un semplice "può darsi".

La salute

Dopo l'intervento chirurgico nell'estate del 2021 per la rimozione di una parte del colon, la salute di papa Francesco non è stata più la stessa. Francesco è determinato a non risolvere i problemi al ginocchio che lo affliggono da tempo sottoponendosi ad una nuova operazione. Ci ha abituato, dunque, a muoversi in sedia a rotelle. Di questa nuova condizione ha parlato, dicendo che per lui "quella del ginocchio è stata un'umiliazione fisica" e che all'inizio si vergognava "un po'" ad utilizzare la carrozzina.

Essendo tema legato alle dimissioni, il Pontefice lo ha affrontato anche a proposito della domanda sulla rinuncia. Ai giornalisti svizzeri, infatti, ha confidato di confrontarsi con chi li conosce e con "alcuni cardinali intelligenti", chiedendo loro un parere sulle sue condizioni e sull'opportunità di andare avanti o meno nel suo ministero. Finora sempre incoraggiato in questa direzione, evidentemente.

Il rapporto con Benedetto XVI

Parlando di dimissioni papali, non poteva non esserci una domanda sul suo predecessore. Papa Francesco ha raccontato il loro ultimo incontro che sarebbe avvenuto a Natale:

"Quasi non poteva parlare. Parlava basso, basso, basso. C'era bisogno che traducessero le sue parole. Era lucido. Faceva domande: come va questo? E quel problema la'? Era aggiornato su tutto. Era un piacere parlare con lui. Gli chiedevo pareri. Lui dava il suo parere, ma sempre equilibrato, positivo, un saggio. L'ultima volta pero' si vedeva che era alla fine".

Francesco non si è sottratto ad una domanda sul livello del funerale del Papa tedesco che molte critiche era costato alla macchina organizzativa della Santa Sede. Il Papa ha ammesso che ci sono state difficoltà da parte dei cerimonieri pontifici di preparare le esequie di un pontefice non regnante, aggiungendo che ora ha dato mandato di "studiare la cerimonia per i funerali dei Papi futuri, di tutti i Papi". Una risposta collegata a quella precedente sull'ipotesi di rinuncia perchè presuppone uno scenario in cui, accanto ad un Papa regnante, ce ne sia anche uno (o più di uno) emerito. Sebbene Francesco in altre interviste abbia già manifestato la sua contrarietà al titolo creato ad hoc per Benedetto XVI dopo il 2013, dicendo di preferire quello di vescovo emerito di Roma.

Messa di Natale, Papa in San Pietro in sedia a rotelle. L’omelia: «Penso ai bambini divorati dalle guerre». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 24 dicembre 2022.

Il messaggio del Pontefice: «Dio si fa piccolo, non nasce nei fasti dell’apparenza»

Papa Francesco è nella Basilica di San Pietro per la Santa Messa della Natività. Il Santo Padre è arrivato in sedia a rotelle. Secondo quanto comunicato dalla Sala Stampa, sono 7mila i presenti in Basilica per assistere alla celebrazione della Santa Messa della Notte nella Solennità del Natale del Signore 2022. La Messa è trasmessa nei cinque continenti, grazie alla trasmissione in mondovisione. Nel pomeriggio papa Francesco aveva scritto in un Tweet: «Se vogliamo festeggiare davvero il Natale, riscopriamo lo stupore davanti a Dio che si fa piccolo, che non nasce nei fasti dell’apparenza, ma nella povertà di una stalla. Per incontrarlo bisogna raggiungerlo lì, dove Egli sta; occorre abbassarsi, farsi piccoli». La guerra, la povertà, il contrasto con il potere sono stati i temi toccati da Francesco nell’omelia

La mangiatoia, la «voracità nel consumare» degli uomini. «Perché, mentre gli animali nella stalla consumano cibo, gli uomini nel mondo, affamati di potere e di denaro, consumano pure i loro vicini, i loro fratelli. Quante guerre! E in quanti luoghi, ancora oggi, la dignità e la libertà vengono calpestate! E sempre le principali vittime della voracità umana sono i fragili, i deboli». Francesco presiede la messa della notte di Natale nella Basilica di San Pietro ed è un Natale di guerra, «il Santo Padre ha il cuore spezzato» ha detto dall’Ucraina il cardinale elemosiniere Konrad Krajewski, inviato dal Papa a celebrare tra la gente di Kiev. «Anche in questo Natale, un’umanità insaziabile di soldi, potere e piacere non fa posto, come fu per Gesù, ai più piccoli, a tanti nascituri, poveri, dimenticati. Penso soprattutto ai bambini divorati da guerre, povertà e ingiustizia», scandisce Francesco nella Basilica: «Ma Gesù viene proprio lì, bambino nella mangiatoia dello scarto e del rifiuto. In Lui, bambino di Betlemme, c’è ogni bambino. E c’è l’invito a guardare la vita, la politica e la storia con gli occhi dei bambini».

A San Pietro si celebra dalle 19,30, come si cominciò a fare nel 2020 per via della pandemia e del coprifuoco, due ore di anticipo rispetto a quello che era l’orario tradizionale. Ma non importa, come sempre il Papa richiama all’essenziale: «Questa notte, che cosa dice ancora alle nostre vite? Dopo due millenni dalla nascita di Gesù, dopo molti Natali festeggiati tra addobbi e regali, dopo tanto consumismo che ha avvolto il mistero che celebriamo, c’è un rischio: sappiamo tante cose sul Natale, ma ne scordiamo il significato. E allora, come ritrovare il senso del Natale? E soprattutto, dove andare a cercarlo?».

Francesco scandisce la sua riflessione intorno all’immagine della mangiatoia come segno di «vicinanza, povertà e concretezza». La vicinanza al dolore degli ultimi, anzitutto, le vittime delle guerre, dell’ingiustizia, della miseria: «Nella mangiatoia del rifiuto e della scomodità, Dio si accomoda: viene lì, perché lì c’è il problema dell’umanità, l’indifferenza generata dalla fretta vorace di possedere e consumare. Cristo nasce lì e in quella mangiatoia lo scopriamo vicino. Viene a toccarci il cuore e a dirci che l’unica forza che muta il corso della storia è l’amore. Ti dice: “Se ti senti consumato dagli eventi, se il tuo senso di colpa e la tua inadeguatezza ti divorano, se hai fame di giustizia, io, Dio, sono con te. So quello che vivi, l’ho provato in quella mangiatoia. Conosco le tue miserie e la tua storia. Sono nato per dirti che ti sono e ti sarò sempre vicino”».

Ma la mangiatoria dice anche la povertà: «Gesù nasce lì e la mangiatoia ci ricorda che non ha avuto altro intorno, se non chi gli ha voluto bene: Maria, Giuseppe e dei pastori; tutta gente povera, accomunata da affetto e stupore, non da ricchezze e grandi possibilità. La povera mangiatoia fa dunque emergere le vere ricchezze della vita: non il denaro e il potere, ma le relazioni e le persone». Il Papa alza lo sguardo: «Ma noi vogliamo stare al suo fianco? Ci avviciniamo a Lui, amiamo la sua povertà? O preferiamo rimanere comodi nei nostri interessi? Soprattutto, lo visitiamo dove Lui si trova, cioè nelle povere mangiatoie del nostro mondo? Lì Egli è presente. E noi siamo chiamati a essere una Chiesa che adora Gesù povero e serve Gesù nei poveri».

Francesco cita Óscar Romero, il vescovo che difendeva i poveri e denunciava l’orrore delle migliaia di desaparecidos trucidati dagli squadroni della morte, ucciso da un sicario con un colpo di fucile al collo, il 24 marzo 1980, mentre levava il calice dell’Eucarestia, e proclamato da lui stesso santo: «La Chiesa appoggia e benedice gli sforzi per trasformare le strutture di ingiustizia e mette soltanto una condizione: che le trasformazioni sociali, economiche e politiche ridondino in autentico beneficio per i poveri» . Certo, dice il Papa, «non è facile lasciare il caldo tepore della mondanità per abbracciare la bellezza spoglia della grotta di Betlemme, ma ricordiamo che non è veramente Natale senza i poveri. Senza di loro si festeggia il Natale, ma non quello di Gesù».

Così la terza cosa che dice la mangiatoia è «la concretezza», spiega Francesco: «Un bimbo in una mangiatoia rappresenta una scena che colpisce, persino cruda. Ci ricorda che Dio si è fatto davvero carne. E allora su di Lui non bastano più le teorie, i bei pensieri e i pii sentimenti. Gesù, che nasce povero, vivrà povero e morirà povero, non ha fatto tanti discorsi sulla povertà, ma l’ha vissuta fino in fondo per noi. E dunque, non si accontenta di apparenze. Non vuole solo buoni propositi. Cerca una fede concreta, fatta di adorazione e carità, non di chiacchiere ed esteriorità».

Dieci giorni fa, durante l’udienza generale, il Papa aveva invitato i fedeli ad «abbassare un po’ il livello delle spese di Natale» e «inviare quello che risparmiamo al popolo ucraino che ha bisogno». Nel frattempo ha inviato il cardinale Krajewski con un furgone carico, tra le altre cose, di generatori e magliette termiche. Così Francesco conclude: «Lui, che si mette a nudo nella mangiatoia e si metterà a nudo sulla croce, ci chiede verità, di andare alla nuda realtà delle cose, di deporre ai piedi della mangiatoia scuse, giustificazioni e ipocrisie. Dio non vuole apparenza, ma concretezza. Non lasciamo passare questo Natale senza fare qualcosa di buono. Visto che è la sua festa, il suo compleanno, facciamogli regali a Lui graditi! A Natale Dio è concreto: nel suo nome facciamo rinascere un po’ di speranza in chi l’ha smarrita».

Papa Francesco: dimissioni già firmate in caso di impedimento medico. Storia di Redazione Tgcom24 il 18 Dicembre 2022

Papa Francesco: "Ho già firmato le mie dimissioni". Questa la dichiarazione, per certi versi sorprendente, del Santo Padre nell'intervista al quotidiano spagnolo Abc. "Era Tarcisio Bertone il Segretario di Stato. Le firmai e gli dissi: 'In caso di impedimento per motivi medici o che so, ecco le mie dimissioni. Ce le avete già'. Non so a chi le abbia date il cardinal Bertone, ma gliele ho date io quando era segretario di Stato", ha precisato.

Perché il Papa ha firmato la lettera di dimissioni. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.

Poi Francesco annuncia: entro due anni una donna a capo di un dicastero

«Ora forse qualcuno andrà a chiedere a Bertone: dammi quel pezzo di carta!». Ride, Papa Francesco, mentre al quotidiano spagnolo Abc rivela di aver firmato fin dall’inizio del suo pontificato una lettera di dimissioni in caso di «impedimento medico».

Non è la prima volta che Francesco parla della possibilità di rinuncia al pontificato, la «porta aperta» da Benedetto XVI l’11 febbraio 2013, ma qui si tratta di un’eventualità differente rispetto a Ratzinger e ricorda, piuttosto, una lettera analoga firmata da Paolo VI il 2 maggio 1965. Francesco risponde ad una domanda precisa: cosa succede se un pontefice resta improvvisamente impedito da problemi di salute o da un incidente? Non sarebbe opportuna una norma per questi casi? Ed è qui che il Papa rivela l’esistenza del testo: «Io ho già firmato la mia rinuncia. Era quando Bertone era Segretario di Stato. Ho firmato la rinuncia e gli ho detto: “In caso di impedimento medico o che so io, ecco la mia rinuncia. Ce l’hai”. L’ho data a lui in quanto Segretario di Stato, sicuramente l’avrà consegnata al cardinale Parolin».

Francesco è stato eletto il 13 marzo 2013 e Bertone è rimasto fino a metà ottobre, quando al suo posto il Papa ha nominato Pietro Parolin. Quindi la lettera risale ai primi mesi da Papa. Lui stesso richiama i nomi di Pio XII e Paolo VI, due precedenti di lettere di dimissioni scritte in anticipo. Nel caso di Pacelli, non riguardava problemi di salute: Pio XII sapeva che c’era un piano di Hitler per farlo arrestare, durante l’occupazione nazista, e così alla fine del ‘43 aveva lasciato una lettera di rinuncia in modo che, nel caso, fosse Eugenio Pacelli e non il Papa a essere portato via.

Più affine è il caso di Paolo VI. Nella lettera, scritta a mano e rivolta al Decano del Collegio cardinalizio, Giovanni Battista Montini dichiarava di rinunciare nel caso di «infermità, che si presuma inguaribile, o di lunga durata, e che ci impedisca di esercitare sufficientemente le funzioni del nostro ministero apostolico, ovvero nel caso che altro grave e prolungato impedimento a ciò sia parimente ostacolo». Montini lasciava al Decano, a cardinali capi dicastero e al Vicario di Roma la «facoltà di accettare e di rendere operanti queste nostre dimissioni, che solo il bene superiore della santa Chiesa ci suggerisce». Il testo fu pubblicato in un libro di monsignor Leonardo Sapienza, La barca di Paolo, e proprio Francesco vi scriveva: «Ho letto con stupore le lettere di Paolo VI che mi sembrano una umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa; e una ulteriore prova della santità di questo grande Papa. Ciò che a lui importa sono i bisogni della Chiesa e del mondo. E un Papa impedito da una grave malattia, non potrebbe esercitare con sufficiente efficacia il ministero apostolico».

Francesco, come Paolo VI, anticipa una rinuncia nel caso una malattia gli impedisse in quel momento di decidere «in piena libertà» e «coscienza», come ha fatto invece Benedetto XVI quando ha scelto.

Per ora, comunque, Francesco non ci pensa. Dal 31 gennaio a fine febbraio ha programmato un viaggio in Congo e Sud Sudan. Il ginocchio destro che da mesi lo ha costretto spesso in sedia a rotelle, una gonartrosi, fa sempre male ma migliora, «sto già camminando, la decisione di non operarmi si è rivelata giusta», dice ad Abc, e in ogni caso «si governa con la testa, non con il ginocchio». Lo aveva già detto ai vescovi italiani: finché la testa funzionerà, andrò avanti. A luglio ha ripetuto alla Reuters: «Non mi è mai passato per la testa. Per il momento no». E non definirà nemmeno lo status giuridico di Papa emerito. «No, ho la sensazione che lo Spirito Santo non abbia interesse a che me ne occupi».

Francesco, tra l’altro, annuncia ad Abc che «una donna a capo di un dicastero ci sarà» e «ne ho in mente una per un dicastero vacante tra due anni». Del resto lo permette la riforma della Curia promulgata a marzo, «qualunque fedele può presiedere un dicastero», e quindi anche laici e donne, religiose o laiche. A meno che, precisa il Papa, sia un dicastero «di carattere sacramentale» che «deve essere presieduto da un sacerdote o vescovo».

Papa: «Ho già firmato le dimissioni in caso di malattia. Entro due anni una donna alla guida di un dicastero». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2022.

Sono le parole di Papa Francesco nell’intervista al quotidiano spagnolo Abc

«Ho già firmato le mie dimissioni. Era Tarcisio Bertone, il Segretario di Stato. Le firmai e gli dissi: `In caso di impedimento per motivi medici o che ne so, ecco le mie dimissioni. Le avete già´. Non so a chi l’abbia data il cardinale Bertone, ma gliel’ho data io quando era segretario di Stato».

Così Papa Francesco nell’intervista al quotidiano spagnolo Abc. «E’ la prima volta che lo dico», sottolinea Bergoglio, e poi con la sua solita ironia, aggiunge: «Ecco perché lo dico. Ora qualcuno andrà a chiederlo a Bertone: `Dammi il pezzo di carta!´. Probabilmente lo ha consegnato al cardinale Pietro Parolin, nuovo segretario di Stato».

Entro due anni ci sarà una donna alla guida di un dicastero. Lo dice Papa Francesco nell’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo «Abc».

(ANSA il 18 Dicembre 2022) "Ho già firmato le mie dimissioni. Era Tarcisio Bertone il Segretario di Stato. Le firmai e gli dissi: 'In caso di impedimento per motivi medici o che so, ecco le mie dimissioni. Ce le avete già'. Non so a chi le abbia date il cardinal Bertone, ma gliele ho date io quando era segretario di Stato". E' quanto afferma papa Francesco nell'intervista al quotidiano spagnolo Abc. 

Nell'intervista, di cui è stata diffusa stamane la versione integrale, il Papa risponde così alla domanda su cosa succede se un Pontefice diviene improvvisamente invalido per problemi di salute o per incidente, e se uno standard non sarebbe conveniente per questi casi. E alla successiva domanda sul fatto che anche Paolo VI lasciò per iscritto le sue dimissioni in caso di permanente impedimento, replica: "Esatto, e io penso anche Pio XII". "E' la prima volta che lo dico", aggiunge Francesco a proposito della sua rinuncia già firmata. "Ecco perché lo dico. Ora qualcuno andrà a chiederla a Bertone: 'Dammi il pezzo di carta!' (ride). Probabilmente lo consegnò al cardinale Pietro Parolin, nuovo segretario di Stato. Io l'ho dato a Bertone in quanto segretario di Stato", conclude il Pontefice.

Da lastampa.it il 17 dicembre 2022.

Papa Francesco – nel giorno del suo 86° compleanno – rivendica la bontà della decisione di non sottoporsi a un intervento chirurgico per ovviare alla gonalgia che lo affligge da diverso tempo: «Si governa con la testa e non con il ginocchio», dice. E se qualche volta qualcuno abusa della sua fiducia o anche solo delle sue parole, lui invita a leggere le sue parole nel contesto in cui sono state pronunciate, per non sbagliare interpretazione. 

«A volte lo fanno con un'ermeneutica previa a ciò che ho detto, per portarmi dove vogliono che vada: “Il Papa ha detto questo”», spiega in un0’intervista alla testata spagnola ABC, le cui anticipazioni sono state distribuite oggi e che verrà pubblicata in integrale domani. Subito aggiunge: «Sì, ma l'ho detto in un determinato contesto. Se la si toglie dal contesto significa un'altra cosa». 

Non c'è mai stato un pontefice così disponibile alle interviste e alle conferenze stampa. «I tempi cambiano», replica lui. «Sto già camminando, la decisione di non farmi operare si è rivelata giusta», aggiunge Bergoglio. Se gli si dice «La trovo molto bene» lui replica: «Sì, ho già raggiunto l'età in cui si deve dire “Ma come stai bene!”». Ad ogni modo «si governa con la testa, non con il ginocchio».

Dal giorno dell’elezione

Sono passati quasi dieci anni da quando, nel marzo del 2013, Bergoglio è stato eletto Papa, cogliendo tutti di sorpresa. «Anche io lo fui - ricorda -. Avevo prenotato il biglietto per tornare a Buenos Aires in tempo per la domenica delle Palme. Ero molto calmo». Ha imparato, in questi dieci anni, a fare il Papa, domanda il giornalista di ABC? «Non so se ho imparato o meno... La storia ti coglie dove sei». 

Qualcosa gli manca, dei tempi precedenti all'elezione: «Non poter camminare per strada, non poter uscire. A Buenos Aires ero molto libero. Usavo i mezzi pubblici, mi piaceva vedere come si muovevano le persone». Questo perché «il contatto con le persone mi ricarica, per questo non ho cancellato neanche un'udienza del mercoledì. Ma mi manca uscire per strada perché ora il contatto è funzionale. Vanno “a vedere il Papa”, quella funzione. Quando uscivo per strada, non sapevano nemmeno che fossi il cardinale». 

Veri amici e approfittatori

A Santa Marta il Papa vede in realtà ancora molte persone. «Alcuni – racconta però – sembra ne approfittino e facciano intendere di essere amici del Papa per i propri interessi». Ad esempio: «Sei o sette anni fa un candidato argentino venne a Messa. Hanno scattato una foto fuori dalla sacrestia e gli ho detto: “Per favore, non la usare politicamente”. “Può star tranquillo”, mi ha risposto. Una settimana dopo, Buenos Aires fu tappezzata di quella foto, ritoccata per far sembrare che si trattasse di un'udienza personale. Sì, a volte mi usano. Ma noi usiamo Dio molto di più, quindi sto zitto e vado avanti», osserva ancora Bergoglio. 

«Un Natale di pace»

Domanda inevitabile, inevitabile la riposta soprattutto di questi tempi. Quale regalo chiederebbe per questo Natale? «La pace nel mondo. Quante guerre ci sono nel mondo! Quella in Ucraina ci tocca più da vicino, ma pensiamo anche al Myanmar, allo Yemen, alla Siria, dove si combatte da tredici anni», dice il Pontefice. 

Gli auguri di Mattarella

Proprio riferendosi alla situazione internazionale nel suo messaggio al Pontefice il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sottolinea tra l'altro come «acquistano particolare valore gli accorati appelli di Vostra Santità per mettere in guardia la Comunità internazionale sul rischio di una pericolosa deriva verso un conflitto generalizzato». 

Mattarella rivolge al Papa «a nome degli italiani tutti e mio personale i più sinceri e cordiali auguri di benessere personale e di lunga e proficua prosecuzione del Suo alto magistero». «L'anno che si sta concludendo - osserva il Capo dello Stato - è drammaticamente segnato dall'aggressione della Federazione Russa all'Ucraina, con gravissime conseguenze per il popolo ucraino vittima di crimini efferati e per il mondo intero».

Di fronte «al tentativo di sovvertire con la violenza le norme fondamentali dell'ordinamento internazionale, nonché alle molte crisi e alle tensioni in tante aree del mondo, le coscienze di milioni di persone - credenti e non credenti - si sono interrogate sui mezzi più idonei per porre fine alle ingiustizie e difendere i diritti violati», aggiunge Mattarella. 

Che nel suo messaggio torna a riferirsi a Francesco: «Risuonano con forza nelle menti e nei cuori le parole con le quali, anche in occasione di viaggi apostolici e di visite in diverse città d'Italia, Ella ha invitato a non perdere la speranza nell'avvio di concreti percorsi di dialogo, riconciliazione e solidarietà quali presupposti ineludibili per un futuro di pace». 

Con l'auspicio - prosegue il presidente - «che l'ormai prossima ricorrenza del Natale possa ispirare in tutti azioni conseguenti con il valore universale della fratellanza, La prego di accogliere, Santità, oltre al mio personale saluto, i più fervidi e affettuosi auguri per il Suo compleanno e per le imminenti festività».

Il messaggio della Cei

«Beatissimo Padre, nel giorno del Suo compleanno vogliamo farLe giungere l'abbraccio forte e sincero delle Chiese in Italia», dice il messaggio che la Presidenza della Cei ha inviato a papa Francesco. «Abbiamo ancora negli occhi le immagini del Suo viso solcato dalle lacrime, mentre si rivolge alla Vergine Maria, nella Solennità dell'Immacolata Concezione, durante il tradizionale Atto di Venerazione in piazza di Spagna - vi si legge -. Nella Sua voce, rotta dall'emozione, e nel Suo capo chino abbiamo percepito il dolore e l'angoscia per il dramma di una guerra che sta coprendo, con le sue tenebre, la martoriata Ucraina». «A pochi giorni dal Natale - prosegue il messaggio -, la gioia di fronte alla vita che nasce rischia di tramutarsi nel tormento per le tante, troppe morti. Padre Santo, piangiamo con Lei, certi che il Signore che viene consolerà il suo popolo e fascerà le sue ferite».

Norme vaticane e problemi di fede. Cosa portano con sè le dimissioni di Papa Francesco. Egidio Lorito su Panorama il 26 Dicembre 2022.

Il Pontefice ha annunciato di aver già firmato il «passo indietro» in caso di grave situazione medica; il tutto all'interno delle complesse leggi della Chiesa ed agli inevitabili problemi di «coscienza» dei fedeli

Dopo le voci insistenti su possibili dimissioni di Bergoglio dovute alle sue condizioni di salute, è stato il Pontefice stesso a spiazzare tutti nel corso di un’intervista alla testata spagnola ABC, rivelando di aver “già firmato le mie dimissioni in caso di malattia”.

La possibilità di una decisione drastica era nell’aria da molti mesi: non un gossip di palazzo, ma la precisa volontà di lasciare il soglio pontificio a causa delle non ottimali condizioni di salute. Ora Papa Francesco fa un passo ulteriore proprio rispetto alle sue condizioni: “Io ho già firmato la mia rinuncia. Era quando Bertone era Segretario di Stato. Ho firmato la rinuncia e gli ho detto: “In caso di impedimento medico o che so io, ecco la mia rinuncia. Ce l’hai”. L’ho data a lui in quanto Segretario di Stato, sicuramente l’avrà consegnata al cardinale Parolin”. Panorama.it ha chiesto lumi ai canonisti Gaetano Lo Castro, emerito alla Sapienza di Roma («Un gesto di responsabilità e di lungimiranza, che ci riporta alla mente lo stesso atto di Paolo VI del 1965») e a Giuseppe D’Angelo, ordinario a Salerno («La rinuncia anticipata di Papa Francesco, non priva di interessanti spunti di riflessione giuridica, assume un forte valore simbolico»). Professore Lo Castro, la notizia era nell’aria da tempo «Desta clamore la notizia in quanto riguarda un atto della vita papale reso pubblico dallo stesso pontefice. Ma che lo stesso papa possa rinunciare al suo ufficio non deve certo farci gridare alla novità, visto che tutto è avvenuto nella pena legittimità del diritto canonico, rispettando due limiti ben precisi». Quali, ci perdoni? «Per essere valida la rinuncia deve essere “fatta liberamente” , quindi occorre che non sia stata forzata da qualcuno all’esterno che la imponga -ipotesi che ne inficerebbe la validità formale- e deve essere “debitamente manifestata”. Non si richiede, invece, che “qualcuno la accetti”». Cosa dice il diritto canonico?

«Il canone 332 del Codex Iuris Canonici, in particolare il paragrafo 2, tratta il caso di rinuncia all’ufficio da parte del Papa: “Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”». Le dimissioni di Papa Benedetto XVI segnano un precedente. «In quell’occasione -era l’11 febbraio del 2013- Padre Federico Lombardi, capo della sala stampa vaticana, citò, in conferenza stampa, proprio il paragrafo 2 del canone 332 del Codice di diritto canonico». Quelle dimissioni furono annunciate nel 2013: in realtà lo stesso pontefice le anticipò nel 2010… «Accadde all’interno del libro-intervista “Luce del mondo” , che Papa Benedetto XVI aveva dato alle stampe 3 anni prima: Joseph Ratzinger aveva prospettato l’ipotesi di dimissioni in maniera del tutto chiara, che oggi è opportuno ricordare: “Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi”. Aggiungendo: “A volte sono preoccupato e mi chiedo se riuscirò a reggere il tutto anche solo dal punto di vista fisico”».

In realtà a quelle di Papa Francesco sembrano più affini le dimissioni di Papa Paolo VI. «Giovanni Battista Montini aveva scritto al collegio cardinalizio il 2 maggio 1965: all’epoca non era né vecchio né malato, visto che l’atto venne vergato solo due anni dopo la sua elezione, e quando con il Concilio Vaticano II era ancora aperto. Il Papa dichiarava di rinunciare al soglio pontificio nell’ipotesi “infermità, che si presuma inguaribile, o di lunga durata, e che ci impedisca di esercitare sufficientemente le funzioni del nostro ministero apostolico, ovvero nel caso che altro grave e prolungato impedimento a ciò sia parimente ostacolo”». Le assonanze con il presente sono notevoli. «Paolo VI, in quell’occasione, delegò il Decano, i cardinali capidicastero e il Vicario di Roma “la facoltà di accettare e di rendere operanti queste nostre dimissioni, che solo il bene superiore della santa Chiesa ci suggerisce”. Oggi Francesco ci informa di aver consegnato la propria lettera nelle mani del cardinale Pietro Parolin segretario di Stato della Santa Sede». Un gesto di altissima responsabilità, pare di capire, tanto di Paolo VI quanto di Francesco. «Di responsabilità e di lungimiranza, oserei dire. Papa Paolo VI (come oggi Papa Francesco, in pratica) praticamente due anni dopo la sua elezione al soglio pontificio, intendeva proteggere la Chiesa Universale dagli effetti di una sua possibile inabilità fisica.

Fu il classico caso di una comunicazione con cui rinunciava: l’atto a sua firma venne consegnato al cardinale decano». Lo stesso ragionamento seguito oggi da Papa Francesco «Oggi papa Francesco dichiara di voler attribuire all’evento futuro inabilitante la forza per dare vita alla sua dichiarazione di rinuncia manifestata in un momento precedente al verificarsi della stessa. E’ il tipico fenomeno della volontà condizionata ad un evento futuro ed incerto». *** Professor D’Angelo, è stato il papa in persona a rendere pubblica la sua volontà. «Il suo atto di volontà è stato trasfuso in un documento i cui contenuti sono stati resi pubblici attraverso le parole pronunciate dallo stesso Papa Francesco in occasione di una intervista, durante la quale Sua Santità ha in particolare affermato di avere formulato, da tempo, le proprie “dimissioni preventive” per il caso della eventuale sopravvenienza “di impedimento per motivi medici”». Sembrerebbe regnare la confusione… «E’ a tale dichiarazione pubblica che occorre fare riferimento al momento, non disponendo di notizie più precise quanto agli effettivi contenuti del documento in questione». L’interesse giuridico è evidente, in ogni caso

« Direi proprio di si e ciò anche se volessimo mantenerci sul solo sul piano dell’analisi teorica, che peraltro è quello che mi interessa particolarmente. A tale riguardo, mi sembra interessante sottolineare che la dichiarazione di Papa Francesco porta a considerare, in certo modo componendole, due ipotesi che concettualmente vanno tenute distinte ovverosia, da un lato, quella della rinuncia, e dall’altro, quella della c.d. “sede impedita”». Ci interessa la seconda… «Nel caso di totale impedimento (l’esempio che si fa normalmente al riguardo è quello dell’esilio, della prigionia o, per l’appunto, della grave e permanente infermità) ci troviamo, per l’appunto, dinanzi alla fattispecie della “sede impedita”. In questa ipotesi – così come nella ulteriore e diversa ipotesi in cui la Sede Apostolica risulti vacante (ciò che avviene per morte o rinuncia) – viene a crearsi una sorta di sospensione nell’ordinario, pieno, svolgimento della funzione di governo, atteso che il can. 335 richiede che “non si modifichi nulla nel governo della Chiesa universale». Ovvero? «Il fatto è che mentre nella vacanza tecnicamente intesa si può parlare di una situazione, per così dire, di stallo che è temporanea, anche perché disciplinata nelle sue conseguenze, nel caso della sede impedita quella sorta di sospensione potrebbe avere una durata indeterminata». Immaginiamo delle conseguenze… «Ne deriva, in sostanza, che di per sé la presenza di un impedimento medico totalmente inabilitante non porta necessariamente alla rinuncia né determina effetti analoghi ad essa, sfociando anzi nella diversa ipotesi della sede impedita. V’è anzi da dire che in presenza di un impedimento di questo genere una vera e propria rinuncia, contestuale all’impedimento stesso, non è neppure configurabile, dal momento che in questo caso il Pontefice non sarebbe proprio nelle condizioni di esprimere validamente la propria rinuncia». L’ipotesi della “sede impedita” risulta espressamente disciplinata dal diritto canonico? «Il punto critico è proprio questo. L’ipotesi della “sede impedita” -a differenza della sede vacante- non è normata. Il ricorso alla rinuncia anticipata potrebbe allora essere anche visto quale rimedio alla mancanza di una disciplina dedicata, rendendo immediatamente configurabile l’ipotesi, normata, della sede (non già impedita ma) vacante».. Il tema è delicato, evidentemente. «Ad onor del vero, va anche riconosciuto come la stessa rinuncia anticipata rechi con sé problematicità non secondarie, anzitutto quanto alla permanenza (se si preferisce, alla attualità) della volontà precedentemente espressa. Peraltro, la differenza tra le varie ipotesi di impedimento, astrattamente chiara, può nei fatti non risultare così netta». Non sempre è agevole stabilire se si tratti di un impedimento presumibilmente transitorio, oppure di una condizione impeditiva più grave, cronica e irreversibile. «Trovo l’osservazione molto pertinente e interessante. Va in effetti ricordato che l’urgenza di una normativa su questi temi - alimentata anche dai progressi della scienza medica che, com’è noto, consentono di protrarre la permanenza in vita anche in precarie condizioni di salute ed efficienza fisica- è particolarmente avvertita, anche nell’ambito della scienza canonistica». Occorrerebbe rivedere la materia… «In seno a quest’ultima ha preso corpo, tra l’altro, proprio una proposta di legge sulla Sede Romana totalmente impedita, presentata lo scorso ottobre presso l’Università di Torino, nell’ambito del Convegno annuale dell’Associazione dei Docenti italiani di Diritto Ecclesiastico e Canonico (ADEC)».

In conclusione…. « La dichiarazione di rinuncia anticipata di Papa Francesco, oltre a poter essere ricondotta alla situazione di incertezza normativa che potrebbe venirsi a creare nella malaugurata ipotesi di un impedimento permanente e invalidante, sembra però soprattutto destinata ad assumere un forte valore simbolico, come a voler rendere (ulteriore) testimonianza della prevalenza della dimensione di servizio che inerisce strettamente all’assunzione dell’ufficio del Romano Pontefice così come a qualsiasi altro ufficio assunto per la Chiesa» *** Gaetano Lo Castro, originario di Caltagirone (Ct), classe 1940, è professore emerito di Diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università di Roma – Sapienza, direttore di vari progetti di ricerca di interesse nazionale, già coordinatore del Dottorato di ricerca in Diritto ecclesiastico e canonico e, successivamente (dal 2005), in Teoria degli ordinamenti giuridici, con sede presso l’Università “Sapienza” di Roma. Giuseppe D’angelo, originario di Capaccio-Paestum (Sa) classe 1969, è professore ordinario di Diritto canonico e Diritto ecclesiastico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche (Scuola di Giurisprudenza) nell’Università degli Studi di Salerno ed è autore di numerose pubblicazioni su temi di rilievo per il settore scientifico-disciplinare di afferenza

Dagospia il 17 dicembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo

Caro Dago,

in merito al Dagoreport dedicato al rapporto tra Papa Francesco e alcuni media (16 dicembre 2022, ore 20.04), è doverosa una precisazione: Comunione e liberazione non ha nessun legame con le (vere o presunte) scelte e attività professionali compiute dalle persone che citi. E questo a prescindere dalla loro eventuale appartenenza o vicinanza a CL. 

Ha inoltre del fantasioso definire “La Nuova Bussola Quotidiana” e “Il Timone” come gruppi editoriali “ciellini”: proprietà, linee editoriali e contenuti sono totalmente indipendenti da CL e dunque in nessun modo riconducibili né ovviamente attribuibili a CL.

Ci sia consentita una battuta finale: ipotizzare che CL "comandi” in Rai è davvero surreale.

Cordialmente,

Simone Finotello - Ufficio Stampa di Comunione e Liberazione 

La precisazione si riferisce all’articolo 

DAGOREPORT il 16 dicembre 2022.

E’ stato il Papa a chiamare il giornalista di Canale 5 Fabio Marchese Ragona sabato scorso, e l’intervista esclusiva pre-natalizia è stata girata martedì. In Vaticano dicono che è un nuovo schiaffo che il Papa ha fatto al CTV (Centro Televisivo Vaticano che segue le principali attività della Santa Sede) dopo la clamorosa gita a Gerusalemme dei vertici della comunicazione.

(Il prefetto del dicastero della Comunicazione Paolo Ruffini si era portato il fratello Ernesto Maria, direttore dell’Agenzia delle Entrate e astro nascente dell’area cattolica del PD. Con loro c’era ovviamente anche Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, Andrea Monda, direttore dell'Osservatore Romano e padre Antonio Spadaro, direttore della rivista gesuita “La Civiltà Cattolica”). 

Una “vacanza” di cui Bergoglio non sapeva nulla. E quindi non ha neanche apprezzato che il pomeriggio dell'Immacolata a Piazza di Spagna sia i media Vaticani sia quelli della Cei erano latitanti. Comunque, Ruffini e associati sopportano tutto, aspettando con pazienza la fine di questo pontificato. E nel frattempo il Vaticano paga affari e gite. 

D’altra parte, è vero che il Papa è molto infastidito con la Maggioni e con il ciellino Roberto Fontolan, il vero direttore editoriale anche del TG1 e Unomattina. Adesso la presa di potere di Comunione e Liberazione sulle news del Tg1 si rafforzerà con la nomina di Imam Sabah a vicedirettrice.

È stata assunta in Rai che non era neanche giornalista professionista. E per sanare la sua assunzione contro la legge la FNSI ha indetto una sessione di esame solo per lei (araba israeliana, nipote dell'ex patriarca di Gerusalemme) e altri due arabi nella stessa condizione. 

Richiamata dalla corrispondenza da Parigi, è stata nominata capo redattore del politico: non ne sa nulla, passa solo i “suggerimenti” di Fontolan. È ciellina. L'alternativa sarebbe Mario Prignano, altro ciellino. Almeno questo è italiano e giornalista.

Il Papa non li vuole tra i piedi soprattutto se sono così molesti. Oltretutto, La Nuova Bussola e Il Timone (insieme a 4-5 siti), principali organi della contestazione anti-bergogliana, sono tutti ciellini.

Pacifista.

Papa Francesco: «Il disarmo integrale non è un’utopia». Non solo l’Ucraina ma tutti i conflitti del mondo che delineano uno scenario da Terza guerra mondiale. Bergoglio riflette sul significato della pace con un messaggio in esclusiva per L’Espresso di Francesco su L’Espresso il 6 Aprile 2023

Che cosa possiamo sperare in un mondo così piagato da guerre e violenze? Continuiamo ad avere negli occhi le terribili immagini che ci arrivano dalla martoriata Ucraina, ma troppo spesso non ci ricordiamo di altri conflitti dimenticati, di altri focolai di violenza, dei tanti “pezzi” della Terza Guerra Mondiale che purtroppo stiamo vivendo.

Oggi è Pasqua, oggi per noi cristiani risorge il Principe della Pace, quel Gesù di Nazaret che entrando nel Cenacolo dov’erano riuniti i suoi apostoli ancora impauriti per averlo visto morire in croce ha detto loro: «Pace a voi!».

Pace a voi è l’augurio che ci scambiamo in questo giorno. Per dire veramente “no” alla guerra e alla violenza, non basta soltanto far tacere le armi e fermare gli aggressori. È necessario estirpare le radici delle guerre e delle violenze, che sono il rancore, l’invidia, l’avidità. Mi piace che in questi giorni ci siano dei media, come il vostro settimanale, che decidono di dare spazio e voce agli operatori di pace. Perché bisogna avere il coraggio di “disarmare” i cuori, di “smilitarizzarli”, di togliere il veleno e il risentimento.

E bisogna anche avere il coraggio di dire “no” al riarmo al quale stiamo purtroppo assistendo, perché la vera pace non può nascere dalla paura. Ciò che serve è quello che sessant’anni fa san Giovanni XXIII, nell’enciclica Pacem in terris, chiamava «disarmo integrale»: al criterio dell’assenza di guerra che si regge sull’equilibrio degli armamenti dobbiamo sostituire il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia.

Capisco che a qualche orecchio queste parole possano sembrare utopistiche, specialmente in questo momento. Ma non è utopia, è sano realismo: solo fermando la corsa agli armamenti, che sottrae risorse da impiegare per combattere la fame e la sete e per garantire cure mediche a chi non ne ha, potremo scongiurare l’auto-distruzione della nostra umanità.

È per questo che insieme agli auguri di Buona Pasqua ripeto,con le parole del Nazareno Risorto: pace a voi!

Papa Francesco

Economo.

Estratto dell’articolo di Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2023.

C’è un Papa Francesco nascosto, che mai avresti detto: quello che in dieci anni di solido pontificato ha prodotto tra le migliori riforme economico-finanziare del Vaticano. […]  è Fabrizio Massaro sul quotidiano Mf- Milano Finanza a fare in conti in tasca al Pontefice.

 E il conteggio - nonostante un ammanco di 100 milioni di euro col contorno del crollo delle offerte all’Obolo di San Pietro in seguito agli scandali recenti come quello del palazzo di Londra- non è affatto malaccio.

 […] Innanzitutto si cancellano gli affitti di favore ai cardinali: ora i porporati dovranno pagare un canone di locazione di mercato, ed è già una buona partenza. Dopodiché, il 23 febbraio scorso Francesco ha dovuto emettere un ennesimo motu proprio - Il diritto nativo come scrive Massaro- «per ribadire alla Curia che i beni appartengono al patrimonio sovrano della Santa Sede e gli enti cui sono intestati non ne sono proprietari in senso privatistico ma “affidatari”, perché devono operare in nome e sotto l’autorità del Papa».

VATICANO PROPRIETA IMMOBILIARI

[…] Altro elemento dirompente. L’uscita del Vaticano dalla black list dei paradisi fiscali e legali: dopo decenni di operazioni in chiaroscuro, oggi lo Ior, lasciatosi alle spalle gli scandali degli ultimi decenni, «è un ente vigilato ed è considerato controparte affidabile dalle altre banche del mondo».

 Sarà infatti lo Ior il principale interprete delle indicazioni della nuova Costituzione vaticana, la Praedicate Evangelium entrata in vigore nel 2022, «che affida appunto all’istituto “invia esclusiva” la gestione di tutto il patrimonio mobiliare della Santa Sede e delle istituzioni collegate. Non dunque all’Apsa, come era sembrato in un primo momento secondo alcune indicazioni arrivate la scorsa estate dalla Segreteria per l’Economia».

Questo significa anche «niente più acquisti di fondi chiusi o di strumenti speculativi, niente avventure tentate come le piattaforme petrolifere in Angola. Solo investimenti etici e in linea con i dettami della Chiesa». Bene. […]

 E mentre festeggia il suo decennale, Bergoglio volge lo sguardo, pur sempre gesuitico, alla chiusura del bilancio Vaticano del 2022, non senza velata preoccupazione. Lo Ior dovrebbe essere il primo a svelare i conti pubblici, il prossimo mese. «Nel 2021 aveva chiuso con 18 milioni di utili. I mercati negativi dell’anno scorso hanno colpito ovunque, quindi si tratterà di capire se e quanto siano stati limitati i danni. Poi toccherà all’Apsa e, per l’intero Vaticano, alla Segreteria per l’Economia, tornata solo nel 2020 a pubblicare i conti».

Le stime iniziali sul 2022 erano di un deficit di 33 milioni di euro. Ma non era ancora scoppiata la terza guerra mondiale, come Bergoglio ha definito il conflitto Russia-Ucraina. E non era esplosa l’inflazione. Che effetti avranno avuto sui bilanci?

 E quanto avrà raccolto l’Obolo di San Pietro, che è in calo costante del 18-20% l’anno e nel 2021 ha raccolto 37 milioni di euro? [...] .Elvenar

Estratto da liberoquotidiano.it il 12 aprile 2023.

[…] Ma in questa vicenda a colpire sono state le parole di Pietro Orlandi pronunciate a Di Martedì ai microfoni di Giovanni Floris: "Sono convinto che Wojtyla, Ratzinger e Papa Francesco siano a conoscenza". E nel corso della trasmissione viene fatto ascoltare un audio che lo stesso Pietro Orlandi avrebbe consegnato alle autorità vaticane.

Nell'audio a parlare è un uomo vicino alla banda della Magliana: "Papa Giovanni Paolo II se le portava in Vaticano quelle, era una situazione insostenibile. E così il Segretario di Stato a un cero punto è intervenuto decidendo di toglierle di mezzo. E si è rivolto a persone dell'ambiente carcerario".

Sono tutte parole che ovviamente finora non hanno trovato alcun riscontro. Ma la frase con cui Pietro Orlandi commenta le parole dell'uomo della Magliana sono piuttosto inquietanti: "Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case...".

Usciva con due monsignori e...”. Pietro Orlandi e la frase choc su Wojtyla. Il fratello di Emanuela Orlandi ha raccontato in tv di un audio di cui sarebbe entrato in possesso: le dichiarazioni contenute su Papa Giovanni Paolo II sono scioccanti. Angela Leucci il 12 Aprile 2023 su Il Giornale.

Spunta il nome di Papa Giovanni Paolo II nel caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. In realtà è un nome che c’è sempre stato, anche se si è trattato di una nota marginale alla vicenda: Wojtyla era infatti pontefice nel giugno 1983 quando si persero le tracce della 15enne, e proprio il papa pronunciò un ormai celebre appello-preghiera durante l’Angelus. Emanuela era tra l’altro cittadina vaticana.

Il nome di Wojtyla viene fatto in un messaggio vocale del quale è entrato in possesso il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. A parlare nell’audio, che ieri è stato consegnato al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, sarebbe un uomo vicino alla Banda della Magliana, che avrebbe fatto riferimento a presunte abitudini sessuali del pontefice: l’uomo, di cui non viene fatto il nome, avrebbe aggiunto che sarebbe stato chiesto al boss Enrico De Pedis, alias ‘Renatino’, di eliminare le ragazze che sarebbero state portate in Vaticano.

Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case”, ha commentato Pietro Orlandi, ospite alla trasmissione DiMartedì. Orlandi ha dato seguito in realtà a un concetto già enunciato nella puntata del 4 aprile 2023: “Penso che una delle possibilità è che Emanuela possa aver magari anche subito un abuso, ma che quell’abuso sia stato organizzato. È stata portata da qualcuno per creare l'oggetto del ricatto e siccome il Vaticano da quarant’anni fa di tutto per evitare che possa uscire la verità... Certo, se nel '93 si parlava normalmente della pedofilia dei cardinali come se fosse una cosa normale e accettata, uno può pure pensare che la pedofilia sia anche più su di quei cardinali”.

Stando alle parole di Pietro Orlandi, ne avrebbe accennato anche a un vescovo, il quale avrebbe risposto: “Be’, probabilmente…”. Al che Orlandi avrebbe incalzato il prelato: “Forse non ha capito, se parlo di qualcuno più su dei cardinali mi riferisco a Wojtyla”. Al che il presule avrebbe chiosato: “Probabile”.

Emanuela Orlandi scomparve il 22 giugno 1983 dopo una lezione di canto corale. A gennaio 2023, il Vaticano ha aperto un’inchiesta, che pare sia stata fortemente voluta tra l’altro da Papa Francesco. Il prossimo giugno saranno 40 anni che Emanuela manca alla famiglia, la quale ha sempre cercato spasmodicamente la verità. E che oggi può sperare, oltre che nell’indagine vaticana anche nella costituenda Commissione d’inchiesta parlamentare.

Estratto dell’articolo di Serena Sartini per “il Giornale” il 10 marzo 2023.

 Terremoto in Polonia per le accuse, trapelate da un volume che sta già facendo discutere, secondo cui Giovanni Paolo II avrebbe saputo - da cardinale - di casi di preti pedofili, coprendo vicende di abusi.

 Ma all’indomani delle critiche, il Paese ha alzato gli scudi, dai vescovi polacchi fino al premier, in difesa dell’«amato» Papa Wojtyla, proclamato santo nel 2014 da Bergoglio.

Le accuse contro Giovanni Paolo II sono state «create» ad arte «dai servizi», ribatte il presidente della Conferenza episcopale polacca, monsignor Stanislao Gadecki. «Karol Wojtyla è stato un maestro della fede e un intercessore in cielo» per tanti polacchi, aggiunge.

«È uno shock che si cerchi di screditare lo stesso Giovanni Paolo II e la sua eredità, tutto in nome della preoccupazione per la verità e il bene». «Gli autori di queste voci di discredito si sono impegnati a valutare Karol Wojtyla in modo parziale, spesso astorico, senza conoscere il contesto, accettando acriticamente i documenti creati dai servizi di sicurezza come fonti affidabili», ribadisce il numero uno dei vescovi polacchi.

[…] A rispedire al mittente le accuse contro il Pontefice polacco è intervenuto anche il postulatore della causa di canonizzazione, monsignor Slawomir Oder. «Non c’è stata allora una voce più forte di quella di Giovanni Paolo II sulla necessità di liberare la Chiesa dai crimini di pedofilia».

 Le accuse sono state sollevate sia dal programma Tv24 realizzato da Marcin Gutowski (che ha raccolto le testimonianza di alcune vittime di preti pedofili della diocesi di Cracovia) sia dal libro pubblicato da Ekke Overbeek («Maxima culpa. Giovanni Paolo II sapeva», uscito mercoledì in Polonia), secondo i quali Wojtyla prima di diventare Papa nel 1978 coprì i preti pedofili senza offrire minima assistenza alle loro vittime. «Questi problemi sono stati accuratamente analizzati negli archivi del Vaticano, nell’ambito del processo di beatificazione - precisa monsignor Oder - queste accuse sono negate dai fatti».

[…] In difesa del Papa è intervenuto anche il premier polacco Mateusz Morawiecki: «Oggi abbiamo la guerra non solo dietro la nostra frontiera dell’est; vi sono enti che cercano di provocare la guerra della civiltà anche dentro la Polonia», ha detto il capo di governo, secondo cui «da cristiani dobbiamo difendere la memoria del pontefice nato a Wadowice; ci sono tantissime prove che lui abbia lottato contro il male, anche dentro la chiesa, mentre le accuse contro di lui sono basate su fonti ambigue».

Estratto dell'articolo di Marcello Sorgi per “La Stampa” il 27 gennaio 2023. 

(...)

Se l'intervista a Wojtyla, con quella doppia e contemporanea condanna del marxismo e della persecuzione che aveva ridotto tutte le varianti cristiane dell'Est in semischiavitù, e del capitalismo selvaggio che già si prepara a inserirsi nel vuoto post marxista, segna il punto d'arrivo di una carriera consumata tra Europa, America, Asia e Russia, e premiata dall'elezione e dalla lunga permanenza al Parlamento di Strasburgo, sorprendente è anche la serie degli incontri e dei viaggi, le domande e le risposte che Jas fa e riceve, in oltre quarant'anni di ordinato girovagare per il mondo.

 Le rivelazioni di Castro sui retroscena dei giorni della Baia dei Porci, quando si giunse a un passo dalla terza guerra mondiale; il reportage dalla Corea del Nord, il paese più ermeticamente controllato e di più difficile accesso agli stranieri; il colloquio con Albert Sabin, scopritore del vaccino antipolio; la passeggiata in Bhutan, esotico luogo hymalaiano in cui la felicità è imposta per legge; l'inchiesta in Kazakistan, sulla violazione dei diritti dell'uomo e sugli effetti degli esperimenti nucleari compiuti dai sovietici. E poi Fidel Castro, Chan Kai Shek, György Lukács.

Va ad Ankara e parla con Turgit Ozal, capo del governo turco che gli spiega «la necessità, per il suo Paese, di appartenere all'Europa». Torna a Parigi come corrispondente della Rai ed è tra i primi, nel 1978, a visitare il quartier generale dell'Ayatollah Khomeyni, che prepara, di lì a un anno, il ritorno rivoluzionario a Teheran. Gli rimane «l'impressione di grande disordine e mancanza di professionalità che dava questa corte in esilio. Il mio primo pensiero fu: "Come farà questa gente a governare un Paese?"».

Parla con Lech Walesa sull'aereo che lo porta a Roma a incontrare il Papa. Ma intanto, nel 1979, è diventato europarlamentare. Ed è in questa veste che presenta a Strasburgo «una risoluzione, approvata a larga maggioranza, per candidare Walesa al Premio Nobel per la pace, che gli fu effettivamente assegnato. Me ne è sempre rimasto grato». Attraverso l'evoluzione della Polonia, Gawronski percorre l'itinerario tortuoso, all'inizio, e poi precipitoso, che porta alla caduta del comunismo dopo il crollo del Muro di Berlino.

 E su questa strada trova a Sofia il più coriaceo, il più tenacemente stalinista capo di uno stato satellite dell'Urss: Todor Zivkov, leader della Bulgaria, al quale trova il coraggio di chiedere cosa c'è di vero nel suo coinvolgimento nell'attentato al Papa. «Siamo gente per bene, non ci occupiamo di vicende del genere», si schermisce Zivkov. «Poi, per essere più convincente - annota Jas - aggiunse, con una delle sue risate da contadino plebeo ma non volgare: "Se davvero fossimo stati noi, pensa che avremmo potuto fallire il bersaglio?" ».

(...)

 Siamo solo a metà dell'elenco dei personaggi del Novecento di Gawronski. Mancano ancora Jimmy Carter, il presidente argentino Raul Alfonsin, il dittatore di Haiti François Duvalier, il leader della Namibia indipendente Sam Nujoma, i disperati chiusi nel campo profughi di Eli Fellah in Libia, aspettando di salire su un gommone verso Lampedusa o di essere rimpatriati nell'Africa nera.

 Ma c'è anche un capitolo, forse quello in cui l'autore si concede più di qualche considerazione personale, dedicato a Gianni Agnelli: un Agnelli visto molto da vicino da chi lo conosceva bene, era spesso suo ospite e ritiene di svelare, "vizi e virtù" dell'uomo, senza indulgenza e con la franchezza che sapeva piacere all'Avvocato.

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L’incredibile storia d’amore: “Gli scrivevo lettere in carcere poi lo sposai”. Emanuela Orlandi, parla la moglie italiana di Agca: “Fino a tre anni fa ha avuto rassicurazioni che era viva”. Redazione su Il Riformista il 18 Dicembre 2022.

L’attentato a Giovanni Paolo II nel 1981 compito da Alì Agca, all’epoca 23enne, la colpì profondamente. Elena Rossi aveva solo 14 anni all’epoca ma successivamente a quell’episodio decise di iniziare a scrivere lettere in carcere a quell’attentatore per comprenderne le motivazioni e la personalità. Quell’uomo, anni dopo, sarebbe diventato suo marito, con cui attualmente vive in Turchia. Sposati da 7 anni, con lui condivide un bagaglio di verità e ricordi, tasselli di quei grandi intrighi e misteri che aleggiano intorno alla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori.  “Bisogna riaprire il caso Gregori/Orlandi! Ci sono tante cose ancora da chiarire e responsabili da sentire anche dalla parte italiana! Non vengano separati i due casi, altrimenti si va nel fosso!”, ha scritto su Facebook qualche giorno fa.

Quella tra Elena Rossi e Alì Agca è stata una storia d’amore incredibile. Elena Rossi, che oggi è Elena Hilal Ağca, dopo il matrimonio e la conversione, 55 anni, nata a Ravenna, l’ha raccontata per la prima volta al Corriere della Sera. Da ragazza cattolica rimase molto impressionata dall’attentato al Papa che Wojtyla stesso poi inquadrò nell’ambito della profezia del Terzo Segreto di Fatima. Iniziò così a scrivere lettere in carcere ad Agca. “La cosa durò per qualche anno, poi lasciai perdere”, ha raccontato in una lunga intervista al quotidiano.

Il mio interesse per lui si è riacceso quando venne a Roma sulla tomba di Papa Wojtyla, nel dicembre 2014 – ha raccontato Elena – Cominciai a cercare un suo contatto, lo trovai e gli mandai una mail, specificando che ero quella stessa Elena che gli scriveva in carcere. Lui si ricordava delle mie lettere, così cominciammo a scriverci e a telefonarci. A fine gennaio 2015, venni a Istanbul per la prima volta. Ci innamorammo entrambi e io mi innamorai anche di Istanbul e della Turchia. Lui sognava un po’ l’Italia, ma io compresi fin da subito che la mia dimora definitiva sarebbe stato questo Paese, con lui. Sono convinta che a legarci sia il destino. Un destino che ha trovato compimento nei modi e nei tempi stabiliti. Lui non mi rimprovera di non essere mai andata a trovarlo in carcere, anzi ritiene che se lo avessi fatto, sarebbe stato straziante per entrambi a causa della sua lunga detenzione e rovinoso per il nostro rapporto”.

Racconta del loro rapporto tra qualche gelosia di lui che ritiene un uomo “molto buono, gentile, premuroso, a volte mi sembra che mi veda più come una figlioletta che ha adottato, piuttosto che come una moglie. Il buono è che un matrimonio può finire, ma l’adozione è per sempre!”. L’amore scoppiò subito e dopo qualche mese di convivenza decisero di sposarsi. Alla sua famiglia disse che aveva sposato un turco ma senza specificare che si trattasse di Alì Agca. “Già all’epoca non stavano molto bene, così ho preferito non dire nulla, ma probabilmente l’avrebbero accettato – dice – Adesso un po’mi rammarico di non aver detto loro la verità. Gli amici che ho in Italia sono piuttosto curiosi ed entusiasti, alcuni sono già venuti a conoscerlo e altri verranno. Anche i pochi parenti che mi restano hanno accettato bene la cosa”.

Elena condivide con Agca ogni pensiero e i racconti di un passato che negli ultimi giorni è tornato con prepotenza alla ribalta delle cronache. “Lo conosco da più di sette anni, come tutte le mogli, so cosa passa per la testa di mio marito, raccolgo quotidianamente le sue confidenze e quello che posso affermare in tutta coscienza, è che, Alì, nella lettera di sei pagine inviata a Pietro Orlandi, ha detto la pura verità sull’attentato al Papa e sulla vicenda Orlandi-Gregori – racconta Elena Hilal Ağca – Nella lettera esistono notizie di reato molto gravi e precise che dovrebbero essere prese in esame dalla Procura. Spero esista un magistrato onesto e volenteroso, disposto a farsi carico di questa patata bollente. Ho faticato molto per convincerlo a parlare di cose mai dette prima, decisamente pesanti, che secondo lui metteranno a rischio la nostra sicurezza famigliare. Io non pretendo di salvare il mondo, ma nella dimensione del qui e ora, ritengo che ciascuno di noi abbia il preciso dovere, quando può, di raddrizzare ciò che è storto! O almeno di provarci. E in questa brutta storia di cose storte e false ne esistono davvero tante. Se si corre qualche rischio, pazienza. Certo che Ali é stato manovrato, da uomini del Sisde, dai Servizi vaticani, dalla Cia, e per Cia intendo Gladio, quanto c’é di più pericoloso al mondo, secondo Alì”.

La moglie di Agca racconta che dietro l’attentato al Papa non c’era nessuno e che il marito sarebbe stato strumentalizzato dopo. “I vari soggetti sopracitati si sono scatenati dopo, in quanto pretendevano che Alì accusasse i Servizi bulgari e quindi il Kgb sovietico, in realtà totalmente estranei all’attentato. Il sequestro di Emanuela e di Mirella si collocano esattamente in questo contesto. Alì lo spiega bene nella lettera a Pietro Orlandi”, continua il racconto.

E sulla scomparsa di Emanuela Orlandi dice: “Come ha sempre detto a Pietro Orlandi, Alì ritiene che entrambe le ragazze siano state prese direttamente dal Vaticano; e che siano state collocate in un convento di clausura. Ne è veramente convinto. In quanto a Emanuela, ha avuto rassicurazione, fino a tre anni fa, da parte di un sacerdote, che era viva. Gli hanno mentito? Forse o forse no. In ogni caso, lui ritiene che se dovesse essere venuta a mancare, é stato per cause naturali, ‘perché la Chiesa non uccide il suo gregge’”. Sul caso della scomparsa di Mirella Gregori invece afferma che “la situazione di Mirella é meno chiara”. E spiega: “Da parte italiana il Sisde ‘chiedeva informazioni’; in una telefonata l’Amerikano ne annunciò l’esecuzione imminente. E il prete che ha visto Alì anche in Turchia, gli ha detto che su Mirella ‘non è dato di sapere’. Francamente non lo so. Non abbiamo elementi certi per affermare niente. Tutte le risposte sono in Vaticano”.

Per Pietro Orlandi ha parole di stima: “Ci siamo scambiati alcuni messaggi, e mi sembra una persona veramente esasperata da una lotta infinita e da tante menzogne o mezze verità che gli sono state dette da tutte le parti. Comunque non si arrende, é assolutamente determinato a conoscere la verità sulla sorella e non molla mai. Lo ammiro molto per questo, vorrei aiutarlo di più, ma francamente più di così non posso. Essendo dentro la storia da quasi quarant’ anni, di certo ha intuito molte più cose di tutti noi messi insieme. Dopo tanto tempo, questa criminosa omertà dovrebbe finire, almeno sul versante italiano”.

La moglie italiana di Agca: «Gli scrivevo lettere in cella. Poi l’ho sposato senza dirlo ai miei».  Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2022.

Elena Rossi, 55 anni, due lauree, di Ravenna, ha iniziato a scrivergli in carcere da ragazzina e poi nel 2015 l’ha sposato. Si è convertita all’Islam e vive con lui in Turchia. «Emanuela Orlandi? È ancora viva»

Il suo nome è Elena Rossi ed è nata a Ravenna il 13 luglio 1967. Ha due lauree, una in scienze politiche a Bologna (1993) e una in filosofia, con lode, a Roma Tre (2003). Nel 1981, quando aveva 14 anni, un evento la colpì indelebilmente: l’attentato a Giovanni Paolo II compiuto da un giovane turco, allora 23enne, Alì Agca. Quella ragazza cattolica e credente restò impressionata da quel gesto, drammatico e fin pure mistico, che Wojtyla stesso poi inquadrò nell’ambito della profezia del Terzo Segreto di Fatima. Iniziò allora a scrivere lettere in carcere a quell’attentatore, per comprenderne le motivazioni e la personalità. Da lì, per vie misteriose, nacque un sentimento. Ora quell’uomo, Alì Agca, è suo marito da sette anni e con lui vive in Turchia, a Istanbul. Elena Hilal Ağca (il secondo me lo ha assunto dopo il matrimonio e dopo la conversione), 55 anni, racconta per la prima volta la sua incredibile storia personale al Corriere.

Come ha iniziato a interessarsi della vicenda di colui che sarebbe diventato suo marito?

«Subito dopo l’attentato a Wojtyla, ancora ragazzina. Cominciai a scrivergli lettere in carcere. La cosa durò per qualche anno, poi lasciai perdere».

Da che tipo di famiglia proviene? Che professione svolgevano i suoi genitori?

«Sono figlia unica, i miei avevano un’azienda agricola nel Ravennate, ma li ho persi entrambi qualche anno fa».

Come contattò Agca? Scrivendogli in carcere? Quale fu il suo approccio alla sua persona e lui come rispose al suo interessamento?

«Il mio interesse per lui si è riacceso quando venne a Roma (aveva lasciato l’Italia nel 2000 dopo la grazia concessagli da Ciampi con il placet del Vaticano, ndr) sulla tomba di Papa Wojtyla, nel dicembre 2014. Cominciai a cercare un suo contatto, lo trovai e gli mandai una mail, specificando che ero quella stessa Elena che gli scriveva in carcere. Lui si ricordava delle mie lettere, così cominciammo a scriverci e a telefonarci. A fine gennaio 2015, venni a Istanbul per la prima volta. Ci innamorammo entrambi e io mi innamorai anche di Istanbul e della Turchia. Lui sognava un po’ l’Italia, ma io compresi fin da subito che la mia dimora definitiva sarebbe stato questo Paese, con lui. Sono convinta che a legarci sia il destino. Un destino che ha trovato compimento nei modi e nei tempi stabiliti. Lui non mi rimprovera di non essere mai andata a trovarlo in carcere, anzi ritiene che se lo avessi fatto, sarebbe stato straziante per entrambi a causa della sua lunga detenzione e rovinoso per il nostro rapporto».

Che idea si formò della sua psicologia e della sua persona, incontrandolo?

«È molto buono, gentile, premuroso, a volte mi sembra che mi veda più come una figlioletta che ha adottato, piuttosto che come una moglie. Il buono è che un matrimonio può finire, ma l’adozione è per sempre! L’uomo turco, e lui in particolare, protegge la moglie a 360 gradi, che viene servita e riverita come una regina, talvolta anche un po’ troppo. Nonostante i tanti anni di prigione, è sano fisicamente e mentalmente, salutista, sportivo e molto disciplinato. Io sono tutto l’opposto! È animato da una fede profonda, senza essere integralista o bigotto».

Quando maturò il progetto di una vita insieme?

«Ci siamo incontrati nel gennaio 2015 e sposati nell’ottobre successivo, quindi nel giro di pochi mesi di convivenza abbiamo deciso di sposarci. Così, naturalmente, senza una vera proposta. Il primo giorno di San Valentino che festeggiammo insieme, mi regalò un anello, molto simile a una fede, così gli altri uomini avrebbero saputo che ero impegnata. È un po’ geloso!»

I suoi genitori e i suoi parenti più stretti come presero la decisione di sposare un uomo a dir poco particolare come Ali Agca?

«I miei genitori sapevano che avevo sposato un turco, ma non sapevano che si trattava di Alì Ağca. Già all’epoca non stavano molto bene, così ho preferito non dire nulla, ma probabilmente l’avrebbero accettato. Adesso un po’mi rammarico di non aver detto loro la verità. Gli amici che ho in Italia sono piuttosto curiosi ed entusiasti, alcuni sono già venuti a conoscerlo e altri verranno. Anche i pochi parenti che mi restano hanno accettato bene la cosa. Un caro zio, Riziero, gli ha anche parlato più volte al telefono. Dopo un certo allarme iniziale, hanno imparato a conoscerlo attraverso me».

Contestualmente al matrimonio, lui le chiese di convertirsi all’Islam? Fu una scelta difficile o naturale per te? Chi la formò alla fede del Corano? «Lui non mi ha mai chiesto di convertirmi all’Islam. Alla donna non è richiesto. La scelta è stata mia. Sono sempre stata credente, ma non riconoscendomi più nella Chiesa cattolica e nel Cristianesimo, mi sono interessata per un certo periodo all’Ebraismo, poi mi sono dedicata allo studio del Sacro Corano, già prima di conoscere Alì, e alla mistica Sufi. In Turchia ho fatto la mia Shahada (la testimonianza di fede con cui un musulmano dichiara di credere in un solo e unico Dio, ndr) in seno alla congregazione Sufi di Menzil».

Inizialmente avete vissuto in Georgia? Come mai la scelta di questo paese?

«In Georgia siamo andati solo per il matrimonio, Tbilisi é una sorta di Las Vegas, dove è molto facile sposarsi, senza troppe complicazioni burocratiche» (esibisce il certificato di matrimonio con traduzione giurata).

Ora vivete a Istanbul: come si svolge la vostra vita? State appartati? Avete avuto figli dalla vostra relazione o da altre relazioni?

«Nessuno dei due è mai stato sposato prima e non abbiamo figli, né insieme né separatamente».

Suo marito come provvede economicamente alla vostra vita? Lui si ritiene vicino al governo di Erdogan? Collabora con qualche programma governativo?

«Economicamente stiamo bene, nonostante l’aumento dei prezzi, qui la vita è decisamente meno cara rispetto all’Italia. Abbiamo una villetta di tre piani, sul mare di Marmara, e l’ultima bolletta della luce è stata di 23 euro! Politicamente Alì rimane un “lupo grigio”, un idealista, dunque si colloca sulla destra. Prova rispetto e ammirazione per il presidente Erdoğan: lo ritiene l’unico uomo in grado di garantire stabilità alla Turchia».

Ritiene che Agca sia stato manipolato da qualche servizio segreto per disegni più grandi di lui? E se sì, da chi? Dai servizi bulgari, sovietici; o paradossalmente pensa che il suo gesto isolato sia stato strumentalizzato dai servizi vaticani, dalla Cia, dal Sisde, da altri servizi segreti?

«Lo conosco da più di sette anni, come tutte le mogli, so cosa passa per la testa di mio marito, raccolgo quotidianamente le sue confidenze e quello che posso affermare in tutta coscienza, è che, Alì, nella lettera di sei pagine inviata a Pietro Orlandi, ha detto la pura verità sull’attentato al Papa e sulla vicenda Orlandi-Gregori. Nella lettera esistono notizie di reato molto gravi e precise che dovrebbero essere prese in esame dalla Procura. Spero esista un magistrato onesto e volenteroso, disposto a farsi carico di questa patata bollente. Ho faticato molto per convincerlo a parlare di cose mai dette prima, decisamente pesanti, che secondo lui metteranno a metteranno a rischio la nostra sicurezza famigliare. Io non pretendo di salvare il mondo, ma nella dimensione del qui e ora, ritengo che ciascuno di noi abbia il preciso dovere, quando può, di raddrizzare ciò che è storto! O almeno di provarci. E in questa brutta storia di cose storte e false ne esistono davvero tante. Se si corre qualche rischio, pazienza. Certo che Ali é stato manovrato, da uomini del Sisde, dai Servizi vaticani, dalla Cia, e per Cia intendo Gladio, quanto c’é di più pericoloso al mondo, secondo Alì».

E il suo attentato a Giovanni Paolo II?

«Dietro l’attentato al Papa non c’è nessuno, questo Alì me lo ha sempre detto; lui è stato strumentalizzato dopo. Nonostante i vari occultamenti, l’origine dei soldi che aveva in tasca al momento dell’attentato è dimostrabile. I vari soggetti sopracitati si sono scatenati dopo, in quanto pretendevano che Alì accusasse i Servizi bulgari e quindi il Kgb sovietico, in realtà totalmente estranei all’attentato. Il sequestro di Emanuela e di Mirella si collocano esattamente in questo contesto. Alì lo spiega bene nella lettera a Pietro Orlandi».

Quando parlate della vicenda di Emanuela Orlandi, lui cosa ne pensa, ritiene che sia viva?

«Come ha sempre detto a Pietro Orlandi, Alì ritiene che entrambe le ragazze siano state prese direttamente dal Vaticano; e che siano state collocate in un convento di clausura. Ne è veramente convinto. In quanto a Emanuela, ha avuto rassicurazione, fino a tre anni fa, da parte di un sacerdote, che era viva. Gli hanno mentito? Forse o forse no. In ogni caso, lui ritiene che se dovesse essere venuta a mancare, é stato per cause naturali, “perché la Chiesa non uccide il suo gregge”».

Pensate che Mirella Gregori abbia subito una sorte diversa da quella di Emanuela, ovvero che sia morta?

«La situazione di Mirella é meno chiara, da parte italiana il Sisde “chiedeva informazioni”; in una telefonata l’Amerikano ne annunciò l’esecuzione imminente. E il prete che ha visto Alì anche in Turchia, gli ha detto che su Mirella “non è dato di sapere”. Francamente non lo so. Non abbiamo elementi certi per affermare niente. Tutte le risposte sono in Vaticano».Come valutate la ricostruzione di Netflix nella serie sul caso Orlandi?

«Come ha detto Pietro Orlandi, Wojtyla esce dalla serie Netflix meglio di come era in realtà. Per Alì è molto difficile accusare Wojtyla, lo considera come un fratello spirituale e tende a difenderlo. Proviamo a metterci un momento nei suoi panni: gli ha sparato, lo ha quasi ucciso, poi quella stessa persona é andata a trovarlo in carcere e tra loro si è creata un’intesa spirituale. Il suo atteggiamento, a volte un po’ambivalente, é umanamente comprensibile».

Pietro Orlandi, su sua sorella, sa qualcosa di più di quello che dice?

«Ci siamo scambiati alcuni messaggi, e mi sembra una persona veramente esasperata da una lotta infinita e da tante menzogne o mezze verità che gli sono state dette da tutte le parti. Comunque non si arrende, é assolutamente determinato a conoscere la verità sulla sorella e non molla mai. Lo ammiro molto per questo, vorrei aiutarlo di più, ma francamente più di così non posso. Essendo dentro la storia da quasi quarant’ anni, di certo ha intuito molte più cose di tutti noi messi insieme. Dopo tanto tempo, questa criminosa omertà dovrebbe finire, almeno sul versante italiano».

Potrebbe definire suo marito un uomo dell’intelligence internazionale? Oppure una vittima? Se fosse una storica come descriverebbe lo sua persona?

«Alì ha sicuramente legami stretti con persone legate ai Servizi turchi, ma si tratta di amici, persone singole, non con il MIT (Millî İstihbarat Teşkilâtı, l’organizzazione nazionale turca d’intelligence) come istituzione».

In futuro pensate di tornare in Italia o di restare a Istanbul?

«In Italia non credo proprio, io vorrei restare in Turchia, lui a volte pensa che potrebbe essere bello trasferirsi in un qualche paese straniero, come ad esempio la Tunisia, anche solo per un periodo. Vedremo cosa porta la vita». Lo miglior qualità e il peggior difetto di Agca?

«Per alcune cose, direi che Ali é un tantino “arretrato”, ad esempio ha sempre da ridire sul mio abbigliamento e su quello delle nipoti, tre belle ragazze moderne. Secondo lui dovremmo fare a meno del trucco e dovremmo coprirci di più. Non gradisce molto che io interagisca con altri uomini, ad esempio la mia insegnante di turco è donna e così la mia parrucchiera. Tra le qualità positive, apprezzo tanto la sua simpatia: é divertente, mi fa sempre ridere, e per me questo è fondamentale. Poi c’è il suo spirito di sacrificio, anche eccessivo a volte, per chi ama è veramente pronto a farsi uccidere».

Paolo VI, un grande Papa ma la storia fu severa con lui. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023.

Caro Aldo, ho letto che la Santa Sede sta per pubblicare gli appunti di Paolo VI, uomo di grande cultura, figura schiacciata da una parte da Giovanni XXIII e poi dai Giovanni Paolo I e II. Penso che si parli poco di Paolo VI, forse anche per la Chiesa è più comodo parlare del Papa buono o del Papa polacco. Marco Nagni Falconara Marittima

Caro Marco, Grazie per aver ricordato la figura di Paolo VI, il Papa dell’infanzia e dell’adolescenza di chi ha oggi cinquanta o sessant’anni. Giovanni Battista Montini fu un grande Papa: il primo ad andare in America; il primo a tornare in Terrasanta dove la Chiesa era nata attorno all’apostolo Pietro; il primo a visitare una fabbrica e a fermarsi a parlare con gli operai. Eppure con Paolo VI la storia fu severa. Anche troppo. Ai suoi predecessori veniva perdonato tutto: a Pio XII perché era un Papa inavvicinabile, quasi un sovrano assoluto (non lo chiamavano neppure Papa, bensì «la Persona»); a Giovanni XXIII perché era il Papa buono, un santo. A Paolo VI nessuno concede nulla. Viene anche lui, come Angelo Roncalli, dalle province bianche del Nord: Giovanni XXIII era di Sotto il Monte, Bergamo; Montini è nato a Concesio ma la famiglia è di Brescia città. Però le sue origini non sono nel mondo contadino, semplice, arcaico, che si fa capire facilmente, bensì nell’alta borghesia, vicina alle banche, alle case editrici, alle proprietà terriere, all’industria nascente. Questo gli dà profondità, spessore, intelligenza del nuovo; ma gli toglie simpatia, calore, spontaneità. Per questo sarà un Papa più rispettato che amato. Francesco Cossiga lo considerava il vero fondatore della Democrazia cristiana. Alcide De Gasperi lo consultava di continuo; e quando gli chiese di indicargli un giovane che lo affiancasse come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Montini non indicò il suo pupillo Aldo Moro, bensì un altro giovane della Fuci (Federazione universitaria cattolici italiani), il più pragmatico Giulio Andreotti. Da Papa, non è affatto il calcolatore e l’intellettuale freddo che qualcuno immaginava. È uomo tormentato. È riuscito a chiudere senza uno scisma (a parte quello «piccolo» ma doloroso di monsignor Lefebvre) il Concilio Vaticano II; ma resterà sempre con il dubbio di aver sbagliato qualcosa, forse di essersi spinto troppo oltre sulla strada della modernità. Il suo grande errore è il referendum per abolire la legge sul divorzio, introdotto in Italia nel 1970. Amintore Fanfani, segretario della Dc, gli obbedisce e si lancia in una campagna che non ha chance di successo. È il 1974. Stravince il No. La Stampa titola: «L’Italia è un Paese moderno». Montini confida allo scrittore Pasqualino Fortunato: «Dio è così vicino eppure così lontano… La fede dei più è provata, provatissima. La fede di ingenuo abbandono ormai è di pochi». Quattro anni dopo, il rapimento e la morte di Aldo Moro saranno fatali anche al Papa. Invano Paolo VI implora «gli uomini delle Brigate Rosse» di liberarlo, «senza condizioni». «Il Papa ha fatto pochino» annota Moro dalla prigione. Nell’omelia del funerale, celebrato nella basilica di San Pietro senza la bara, Montini quasi rimprovera Dio: «Tu non hai voluto salvare quest’uomo buono, innocente e amico…». Sopravvivrà meno di tre mesi.

L'enciclica e le riforme. Le idee di Paolo VI di 60 anni fa sono molto più innovative di quelle del Pd di oggi…Lì sì che ho trovato un’idea di società e di relazioni umane molto diversa dallo status quo. E dalle idee della destra. Mi piacerebbe che i dirigenti del Pd la leggessero. Magari ne potrebbero anche discutere. Piero Sansonetti su L'Unità il 21 Giugno 2023

Ho l’impressione che il dibattito politico sia un po’ futile. Non vedo i grandi temi, non sento lo stridore d’armi in grandi battaglie ideali. Non riesco a scorgere neppure progetti politici e sociali molto distanti uno dall’altro. Dico meglio: non riesco a scorgere progetti politici e sociali.

Pensate alla battaglia sulla riforma della giustizia. Furiosa. Con empiti di indignazione.

Su che? Su niente, la riforma della giustizia non è un fatto reale. Nordio ha proposto di frenare gli arresti preventivi (ma solo per i piccoli reati) di impedire il ricorso in appello dell’accusa (ma solo per i piccoli reati), di vietare la pubblicazione di parte delle intercettazioni pena una sanzione pesantissima (250 euro di multa, più o meno…). E poi ha chiesto l’abolizione di un reato per il quale da tempo non viene condannato nessuno (richiesta sacrosanta ma abbastanza banale). Magistrati, Cinque Stelle e un pezzetto di Pd si sono indignati. Anzi: hanno fatto finta di indignarsi perché anche loro sanno che la riformetta non cambia niente. Come si chiama, questa operazione? Ballon d’essai è l’espressione francese. A che serve? A fare scoppiare un putiferio che poi impedisca la riforma vera.

Ieri poi ho ascoltato la relazione della Schlein alla Direzione del Pd. Non mi pare proprio di avere sentito frasi che lasciano presagire un’idea di società diversa da quella della destra. Più pannelli solari, modifiche del Pnrr, ok: e poi? Siccome oggi è l’anniversario dell’elezione di Paolo VI (21 giugno 1963) sono andato a rileggere la sua enciclica della quale pubblichiamo un estratto. Beh, lì sì che ho trovato un’idea di società e di relazioni umane molto diversa dallo status quo. E dalle idee della destra. Mi piacerebbe che i dirigenti del Pd la leggessero. Magari ne potrebbero anche discutere. Sì, ha mezzo secolo, ma a me sembra molto più innovativa di tante idee di oggi. Comprese quelle di Diodato. Piero Sansonetti 21 Giugno 2023 

60 anni dall’elezione. Chi era Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI: prudenza e rivoluzione. La Populorum progressio era un manifesto politico, che dava una spallata robusta al sistema capitalista, e che apriva la strada ad una idea cristiana molto vicina a quella socialista e forse anche più avanzata. Piero Sansonetti su L'Unità il 21 Giugno 2023

Nel pomeriggio del 21 giugno del 1963, dunque esattamente sessant’anni fa, il cardinal Giovanni Battista Montini, 66 anni, arcivescovo di Milano, fu eletto Papa. E assunse il difficile compito di essere il successore di Giovanni XXIII e di guidare il Concilio Vaticano II che Giovanni XXIII aveva voluto, indetto e iniziato. L’annuncio al popolo lo diede a debti stretti il cardinal Alfredo Ottaviani, che nel corso del Conclave era stato suo acerrimo oppositore.

Aveva tentato con tutti i mezzi di ostacolare la sua elezione. Spinto anche dalle cancellerie e dalle forze politiche conservatrici di mezzo mondo. In particolare dal cancelliere tedesco Adenauer, dal dittatore spagnolo Francisco Franco e dalla destra della Democrazia cristiana. Montini prese il nome di Paolo VI e governò la chiesa per quindici anni. Morì nell’agosto del 1978. Fu molto complesso il suo pontificato, perché doveva decidere in che direzione indirizzare il Concilio, in presenza di una Chiesa che aveva una componente conservatrice, e anzi reazionaria, molto agguerrita. Montini era un uomo prudente.

Avvezzo alla politica. Spesso giocò su due tavoli, ma giocando su due tavoli ottenne grandi risultati. La Chiesa che lasciò nel 1978 era clamorosamente diversa dalla chiesa bigotta, ritualistica, classista e reazionaria che aveva lasciato Pio XII. Il Concilio si era concluso con una vera e propria rivoluzione, Perfettamente in linea con le idee di Giovanni XXIII. In tutti i campi, ma soprattutto nel campo del pluralismo religioso, del pacifismo e nel campo sociale.

La pubblicazione, quattro anni dopo la sua elezione, e cioè nel 1967, dell’enciclica Populorum progressio, della quale pubblichiamo una ampia sintesi in queste pagine, fu un vero e proprio schiaffo alla vecchia e polverosa Chiesa pacelliana. la Populorum progressio era un manifesto politico, che dava una spallata robusta al sistema capitalista, e che apriva la strada ad una idea cristiana molto vicina a quella socialista e forse anche più avanzata. Eppure Paolo VI fu sempre molto attento a concedere sempre qualcosa anche ai conservatori. Per esempio sui temi della libertà sessuale.

Fu molto chiuso su quel terreno e arrivò a condannare persino l’uso della pillola. Poi diede fiato alla destra Dc nella campagna contro il divorzio, che però perse. E, a differenza del suo predecessore, contrastò i sacerdoti più avanzati (padre Balducci, don Mazzi dell’Isolotto di Firenze, lo stesso don Milani). Giovanni XXII prima di morire aveva abbracciato ed esaltato don Mazzolari, perseguitato dalla curia, lui fece il contrario.

E però se leggete questa enciclica del 67 capite perché quella generazione di ragazzi (che poi è la mia generazione) restò travolta, fu illuminata, cambiò radicalmente il suo modo di pensare e si tuffò a capofitto nel ‘68. In gran parte non era spinta da Marx ma dal mite e prudente Montini. Piero Sansonetti 21 Giugno 2023

60 anni dalla morte. Chi era Giovanni XXIII, il Papa Buono che fece la rivoluzione. Passò alla storia con un soprannome affettuoso ma riduttivo. Fu capace di traghettare la Chiesa nel secondo millennio e ne cambiò la storia, in sintonia con i fermenti della rivolta del ‘68. Marco Boato su L'Unità il 3 Giugno 2023

Quando papa Giovanni XXIII morì, 60 anni fa, il 3 giugno 1963, avevo ancora 18 anni ed ero alla conclusione del mio percorso liceale a Venezia (poi, nell’autunno di quello stesso anno, mi sarei trasferito a Trento a studiare nel neo-nato corso di laurea in Sociologia, che in seguito diventò una delle principali sedi del Movimento studentesco del ’68).

La sua morte fu l’ultima “lezione” di papa Giovanni

Vissi i giorni della sua finale agonia con un enorme coinvolgimento emotivo, che, da allora e ancor oggi, mi hanno fatto affrontare il pensiero della morte non come un evento angosciante, ma come un appuntamento da affrontare serenamente, quale inevitabile esito naturale della vita.

Fu questa l’ultima “lezione” e l’ultima testimonianza di una figura straordinaria, nella storia della Chiesa ma anche dell’umanità, come quella di Angelo Giuseppe Roncalli, che, partito dal piccolo borgo bergamasco di Sotto il Monte, dopo un lungo itinerario ecclesiale e diplomatico, era giunto fino al soglio pontificio, per un papato durato meno di cinque anni (1958-1963), che ha “rivoluzionato” la storia della Chiesa e ha lasciato una traccia ancora indelebile nella società mondiale.

Avevo avuto la fortuna di vivere gli anni della mia adolescenza veneziana quando Roncalli era stato, per cinque anni (1953-1958) patriarca della mia città e quando avevo, fin da ragazzo, cominciato a stringere conoscenza e poi duratura amicizia col suo segretario, don Loris Capovilla, un legame che poi mi ha accompagnato per tutta la vita, fino alla sua morte centenaria sette anni fa, il 26 maggio 2016, nominato infine cardinale da papa Francesco a 98 anni, nel 2014. Grazie proprio a Capovilla, nel 1960, insieme a mio fratello Sandro che era stato suo allievo al liceo “G.B. Benedetti” di Venezia, ebbi modo di incontrare privatamente papa Giovanni in Vaticano, in un colloquio cordialissimo, rimasto per me, allora sedicenne, indimenticabile.

La mia testimonianza su “l’Unità” nel 1968

Sono sempre stato, fin dalla giovinezza, un cattolico non integralista e francamente “anticlericale”, un cattolico democratico, ma mai un democratico-cristiano. Del resto, nella seconda metà degli anni 60 ero anche diventato redattore della rivista veneziana Questitalia, diretta da Vladimiro Dorigo, che era totalmente ispirata all’”anti-integrismo”, e poi anche, a Trento, della rivista Dopoconcilio.

Scrivendo ora su questo fortunatamente rinato quotidiano, mi torna alla mente che, nell’estate di quel fatidico 1968, avevo inviato a l’Unità una mia enfatica testimonianza su ciò che papa Giovanni aveva rappresentato per la mia generazione “ribelle” di allora. L’Unità, a qualche giorno di distanza, aveva pubblicato con evidenza il mio articolo, ma, poco dopo, Umberto Eco (che pure aveva avuto una formazione cristiana in gioventù, o forse proprio per questo) aveva pesantemente ironizzato sul mio entusiasmo per quanto la figura di papa Giovanni aveva rappresentato per la mia generazione di allora.

Avevo conosciuto da ragazzo il Roncalli patriarca di Venezia e da giovane il “papa del Concilio” e delle encicliche “Mater et Magistra” e “Pacem in terris”. Grazie anche all’amicizia con don Loris Capovilla, suo segretario per circa dieci anni, prima a Venezia e poi a Roma, ho poi avuto modo di conoscere più a fondo tutto il suo lungo itinerario e di scoprirne le radici, che poi l’avrebbero portato al pontificato più “innovativo” nella storia della Chiesa del Novecento (e non solo).

Il lungo itinerario ecclesiale di Roncalli e i sospetti di “modernismo”

Da giovane fu segretario del vescovo di Bergamo Giacomo Radini Tedeschi (di cui poi scrisse una biografia, ricordando anche favorevolmente l’episodio del lunghissimo sciopero di Ranica nel 1909) e docente di storia ecclesiastica. Erano gli anni del pontificato di Pio X e della “caccia alle streghe” del modernismo, di cui entrambi, ingiustamente, furono sospettati nel 1911 e negli anni seguenti.

Divenuto papa, Roncalli si fece consegnare il suo fascicolo personale custodito nella Congregazione concistoriale, e così scoprì le delazioni anonime di cui era stato fatto oggetto presso il cardinale De Lai, ma rilevò anche con disappunto che nello stesso fascicolo non erano contenute le lettere che lui stesso aveva all’epoca inviato per contestare i sospetti di cui era fatto oggetto (soprattutto per aver utilizzato la storia della Chiesa del francese Duchesne, poi addirittura messa all’Indice dei libri proibiti).

Poi aveva lavorato a Roma e in Italia per “Propaganda fide” (1921-1924). Successivamente era iniziata la sua “carriera” diplomatica, prima come visitatore apostolico in Bulgaria (1925-1934), quindi come delegato apostolico in Turchia e in Grecia (1935-1944) e, da ultimo, come nunzio a Parigi dal 1945 al 1952. In Turchia resta memorabile la sua opera per salvare decine di migliaia di ebrei dallo sterminio della Shoah, anche grazie alla riservata collaborazione dell’ambasciatore cattolico tedesco Franz von Papen (a favore del quale testimoniò al Processo di Norimberga, favorendo la sua assoluzione, unico tra gli imputati).

Eletto come “papa di transizione” determinò una svolta epocale

Nominato cardinale e patriarca di Venezia nel 1953, Roncalli era convinto di concludere in questo modo la sua vita e, dopo la morte di Pio XII nel 1958, durante il Conclave che ne seguì a molti suoi colleghi cardinali aveva confidato il desiderio di tornare a Venezia, per concludere lì la sua vita (allora non c’erano ancora i limiti di età, poi introdotti da Paolo VI a 75 anni). E invece, inaspettatamente, a 77 anni venne eletto papa e assunse, altrettanto inaspettatamente, il nome di Giovanni XXIII (con questo nome e numero c’era stato un antipapa all’inizio del ‘400).

Lo stesso Roncalli era stato consapevole che, considerata la sua età e la sua formazione “tridentina”, era stato eletto in Conclave con la convinzione di nominare un “papa di transizione”, che non avrebbe lasciato traccia per particolari innovazioni. La Chiesa del suo immediato predecessore, Pio XII, era chiusa in sé stessa, incapace di dialogare col mondo contemporaneo, irrigidita nelle prescrizioni dottrinali e nelle scomuniche (nel 1949 quella contro i comunisti, nel clima della “guerra fredda”), priva addirittura di un Segretario di Stato, per la sua volontà di accentrare al vertice tutte le decisioni. Lo stesso Montini era stato allontanato dal Vaticano e inviato alla diocesi di Milano, senza neppure nominarlo cardinale (Roncalli era convinto che, se Montini al momento del Conclave fosse stato cardinale, sarebbe stato lui eletto papa).

Il pontificato di Roncalli invece segnò una svolta radicale ed epocale nel papato, nel governo della Chiesa e nel rapporto con la società contemporanea. Sarebbe francamente riduttivo continuare a ricordarlo, come ancor oggi accade, come “il papa buono” o come “il parroco del mondo”, definizioni inadeguate a far capire sia la sua personalità, sia le profonde innovazioni che – senza nulla voler rinnegare della tradizione – ha saputo introdurre.

La più importante delle quali (ma non l’unica) è stata la quasi immediata decisione di voler promuovere il Concilio ecumenico Vaticano II, memore del fatto storico che il Vaticano I era stato interrotto dalla breccia di Porta Pia del 1870. “Papa di transizione” Roncalli lo è stato veramente. Ma una “transizione” da una Chiesa chiusa e arroccata in sé stessa ad una Chiesa aperta e plurale, capace di dialogo ecumenico, di superamento del tradizionale antisemitismo, sempre più lontana dalle intromissioni indebite nella vita politica italiana.

Dai diari del segretario Capovilla emerge l’idea immediata del Concilio

Se la prima dichiarazione ai cardinali della volontà di indire un Concilio ecumenico risale al 25 gennaio 1959, dalle agende del segretario Loris Capovilla emerge che il primo esplicito accenno alla necessità di un Concilio, per superare la crisi della Chiesa pacelliana, è annotato già alla data del 30 ottobre, due giorni dopo l’elezione (Capovilla annota “ma en passant, da storico”). Nuovamente le parole “Un Concilio?” (col punto di domanda) sono annotate da Capovilla il 2 novembre (che commenta cauto: “Grande parola.  Pare che il seme debba essere gettato. Resto muto quando alle 22 il Papa me ne parla”).

E poi nuovamente il 20 dicembre, “A proposito di Concilio!”, Capovilla, che è ancora cauto, annota il commento critico a lui rivolto da papa Giovanni: “… Solo quando avrai messo il tuo io sotto i piedi, sarai libero…”. Queste testimonianze, tratte dai diari del segretario Capovilla, dimostrano che l’idea di convocare un Concilio ecumenico era sorta in papa Giovanni subito dopo la sua elezione, ben prima dell’annuncio ai cardinali del successivo 25 gennaio 1959 (e comunque i cardinali presenti rimasero ammutoliti).

L’apertura del Concilio e la “Pacem in terris”

Il Concilio si aprì, dopo lunga preparazione, l’11 ottobre 1962, con un memorabile discorso inaugurale, scritto di pugno personalmente da papa Giovanni, che diede subito una impronta pastorale e non dottrinale, chiedendo un necessario “aggiornamento” della Chiesa e discostandosi dai ricorrenti “profeti di sventura”. Un testo ancor oggi di straordinaria attualità, così come l’ultima enciclica, dell’11 aprile 1963, “Pacem in terris”, rivolta non solo ai cattolici, ma, per la prima volta nella storia, “a tutti gli uomini di buona volontà”, con la famosa distinzione tra “l’errore” e “l’errante”, che tante polemiche suscitò negli ambienti più reazionari (dai quali fu rinominata sarcasticamente “Falcem in terris”).

Dopo la morte di Roncalli, il 3 giugno 1963, come suo successore venne eletto Giovanni Battista Montini, che ebbe il merito di riconvocare il Concilio e di portarlo a compimento l’8 dicembre 1965. Dopo di che cominciò la fase travagliata del dopo-Concilio, con quella che alcuni teologi e osservatori critici definirono una “restaurazione aggiornata”. Che si è finalmente conclusa con il pontificato di papa Francesco, il quale molte volte ha fatto riferimento alla tuttora perdurante necessità di attuare gli insegnamenti del Vaticano II.

E del resto è stato lui, nel 2014, a proclamare finalmente la santità di Giovanni XXIII. Al Concilio, all’inizio della seconda sessione nel 1963, molti vescovi avrebbero voluto una immediata proclamazione “conciliare” della santità di Roncalli, e invece sono dovuti passare ben cinquant’anni! Ma la “rivoluzione culturale” di papa Giovanni non si è mai spenta.

Marco Boato 3 Giugno 2023

 (ANSA sabato 16 settembre 2023) - Pio XII venne informato di quanto accadeva nei campi di concentramento. Esiste una lettera che testimonia questo, datata 14 dicembre 1942. A pubblicarla è l'inserto 'la Lettura' del Corriere della Sera. La lettera è scritta dal gesuita tedesco Lothar König, uomo di collegamento tra l'arcivescovo di Monaco, nemico del nazismo, e il Vaticano. 

La riceve padre Robert Leiber, segretario del Papa. Si parla di Dachau e Auschwitz e dello sterminio quotidiano. L'ha trovata Giovanni Coco, archivista e ricercatore presso l'Archivio Vaticano, che a Massimo Franco rivela: "È un caso unico, ha un valore enorme". 

Sintesi della relazione dell’archivista Giovanni Coco al convegno in corso a Roma sulla Santa Sede e la Seconda guerra mondiale (organizzato presso la Pontificia Università Gregoriana), pubblicata dal “Corriere della Sera” sabato 14 ottobre 2023.

Solo una volta Pio XII si riferì alla Shoah in pubblico alludendo al concetto di «sterminio», nel 1943, quando parlò di «costrizioni sterminatrici». Tuttavia, né prima né dopo egli avrebbe più pronunciato la parola «sterminio» e così fecero anche i suoi successori nei loro discorsi pubblici. Sarà Giovanni Paolo II, nel 1979 ad Auschwitz, ad usare nuovamente quella parola per riferirsi alla Shoah. 

Capire il «silenzio di Pio XII» in realtà significa comprendere le ragioni di così lunghi silenzi, che non possono essere ricondotti a una causa soltanto. D’altra parte, nella sua prima enciclica, Summi Pontificatus, egli aveva proposto l’immagine di una Chiesa come «guida e consiglio» di tutte le genti. 

Ma Papa Pacelli non poteva immaginare a quale prova lo avrebbe chiamato la storia, una prova che egli affrontò con quei mezzi che la sua formazione, nei lunghi anni trascorsi tra i ranghi della diplomazia vaticana, gli aveva fornito: il silenzio e il negoziato. 

Così Pio XII fece anche per i polacchi, cattolici. Ciò nonostante, in alcuni momenti, egli alzò la voce in pubblico e chiaramente contro le persecuzioni subite dal suo gregge. Lo stesso non accadde per gli ebrei, che secoli di antigiudaismo religioso avevano reso «quasi estranei» all’interesse della Chiesa.

Sì, essi avrebbero potuto beneficiare di assistenza e carità dal Vaticano: ma non come i cattolici; e sicuramente senza che la Santa Sede parlasse per loro. D’altra parte, non mancavano nella Curia Romana uomini di idee antisemite, come monsignor Angelo Dell’Acqua, paradossalmente ritenuto l’esperto nella questione ebraica. 

Una visione miope, fortemente limitata, figlia di un’epoca. Ciò nonostante Pio XII avvertì i limiti del silenzio come scelta diplomatica, mentre cresceva la percezione dello «sterminio» in Vaticano. Nel settembre 1942, mentre Dell’Acqua minimizzava le voci sulla Shoah, monsignor Giovanni Battista Montini invece usava per la prima volta la frase «sterminio che si sta facendo degli ebrei» in un documento prodotto all’interno della Segreteria di Stato.

Ma era ancora prevalente il timore che parlando «il governo tedesco, sentendosi colpito» avrebbe aggravato «la persecuzione contro il cattolicesimo in Polonia». Tuttavia le ripetute voci sulla barbarie nazista, confermate dal gesuita tedesco Lothar König, spinsero Pio XII a prendere una posizione. 

Nel Radiomessaggio natalizio del 1942 Papa Pacelli aggiunse volontariamente la frase sulle «centinaia di migliaia di persone» che «per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento». 

Una frase timida, sebbene con la parola «stirpe» il Papa alludesse intenzionalmente al popolo ebraico, come egli stesso spiegava in una lettera a monsignor Konrad von Preysing, vescovo di Berlino. 

Ma nel discorso al Sacro Collegio del 2 giugno 1943, Pio XII decise di compiere un altro passo. Egli volle aggiungere un’allusione più esplicita agli ebrei, coloro che «per ragione della loro nazionalità o della loro stirpe» sono «destinati talora, anche senza propria colpa, a costrizioni sterminatrici».

Questa volta si usava l’aggettivo «sterminatrice» che evocava la tragedia in corso. Inoltre, su disposizione diretta di Papa Pacelli, «L’Osservatore Romano» pubblicava quelle parole precedute da una rubrica eloquente: «Sofferenze di popoli per ragione di nazionalità o di stirpe». Quelle frasi avrebbero rappresentato il punto massimo della pubblica protesta papale sulla Shoah. 

Era forse quello l’inizio di una svolta nella posizione di Pio XII? C’è da dubitarne. Il Papa avvertiva fortemente le pressioni per il silenzio, provenienti soprattutto da parte dei cattolici tedeschi e in favore dei tedeschi. Ma soprattutto dopo l’occupazione di Roma la Santa Sede apparve sempre più reticente, in particolare davanti alla tragica giornata del 16 ottobre 1943, con la razzia delle SS nel ghetto della capitale.

Una lettera del 14 novembre 1943 forse aiuta a far luce su tutto l’atteggiamento del Vaticano. Il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano chiedeva di autorizzare una protesta dell’episcopato lombardo contro la persecuzione antiebraica in Italia settentrionale. Il 16 novembre, un mese dopo il rastrellamento di Roma, monsignor Dell’Acqua scriveva: «A me sembra che non convenga che la Santa Sede si interessi directe della questione: non lo fece (almeno mi pare) per la Germania, per la Francia, per l’Olanda, per la Slovacchia etc., non vedo perché debba ora scostarsi da tale linea di condotta».

Dell’Acqua suggeriva: «Sembra piuttosto consigliabile un’azione confidenziale, tanto più che principi generali sono stati più volte chiaramente esposti dalla Santa Sede. L’esperienza ha dimostrato che pubbliche dichiarazioni non fanno che maggiormente irritare le autorità e danneggiare quindi coloro cui si desidera e si vuole fare del bene». In quelle frasi si riassumevano tutte le paure, i preconcetti e i limiti dell’azione svolta dalla Santa Sede nella questione ebraica. 

A torto o a ragione il silenzio era considerato nei Sacri Palazzi una condizione di necessità, fino all’autocensura. Il 23 ottobre 1943 veniva segnalato che alcuni militari tedeschi diffondevano la voce calunniosa che il Papa avrebbe approvato la deportazione: una menzogna. Stupisce invece la reazione del Pontefice. Infatti fu preparata una nota di smentita, ma le parole di protesta vennero cancellate dal testo: verranno riferite «se mai, a voce».

Nemmeno la difesa dalle calunnie riuscì a smuovere il silenzio. Solo osservando tutti questi silenzi e quei timidi tentativi di parola si inizia comprendere il silenzio complessivo di Pio XII sulla questione ebraica. E si comprende poi anche il disagio provato da Papa Pacelli dopo la guerra, con la crescente consapevolezza interiore di aver provato a fare più di quanto molti collaboratori consigliavano, ma anche di non essere riuscito a fare ciò che l’urgenza dei tempi chiedeva. 

Così nel 1946 il cardinale Raffaello Rossi poteva dire: «Forse se avessimo condannato a tempo il nazismo non ci troveremmo oggi nella situazione in cui siamo», riferendosi al comunismo. Solo nel 1953, parlando ai giuristi, il Papa sarebbe finalmente riuscito a condannare quanto era accaduto: «In queste ultime decine di anni, si è assistito a massacri per odio di razza; si sono manifestati davanti al mondo intero gli orrori e le crudeltà dei campi di concentramento».

 Ma ancora una volta egli non sarebbe riuscito a pronunciare una parola densa di significati: sterminio. Segno eloquente della ferita aperta lasciata dalla questione dei silenzi in Pio XII: una inquietudine che purtroppo, doveva attendere il Concilio Vaticano II per trovare ascolto. 

I silenzi di Pio XII sulla Shoah. Cosa sapeva delle camere a gas.  MICHELE SARFATTI su Il Domani il 12 ottobre 2023

A fronte delle notizie sulle uccisioni giunte nel 1942, il primo intervento alla radio arrivò soltanto il 24 dicembre. Si trattò di una frase di pochi vocaboli, collocata alla fine di un testo di 35.000 battute, centrato su altri temi

A proposito delle notizie sulla Shoah pervenute in Vaticano nel 1942, ferma restando l’impossibilità di proporre dati statistici accurati, va considerato che si stima che gli ebrei uccisi in quell’anno siano stati tra il 50 e il 55 per cento del totale. Riguardo a questo e altri numeri, non va dimenticato che stiamo parlando di singole persone, ciascuna caratterizzata da un nome, un’età, una famiglia, affetti, sogni, studi o attività.

Le notizie erano riferite da sacerdoti rientrati da viaggi, esponenti religiosi locali, nunzi apostolici, rappresentanti di governi, cittadini laici, singoli ebrei, enti ebraici. Dalla lettura di tutte le carte a disposizione, emerge la lenta ma continua crescita dell’affiancamento dei vocaboli “ebreo” e “morte”, a partire da metà 1941. Mi sembra legittimo affermare che la Segreteria di Stato della Santa Sede fu uno dei maggiori punti di arrivo delle notizie sull’ebreicidio in atto nel continente.

In alcuni casi, i documenti erano rimasti chiusi nei depositi archivistici vaticani sino all’apertura del 2020; in altri, erano già stati pubblicati nella nota serie di volumi documentari edita dalla Santa Sede a partire dal 1965. In una relazione per Pio XII datata 6 gennaio 1942, il cappellano militare Pirro Scavizzi scrisse che gli ebrei polacchi (ma forse intendeva anche quelli ucraini) erano stati uccisi con vari sistemi, «di cui il più frequente ed il più conosciuto è quello del mitragliamento in massa [...] in gruppi di centinaia e centinaia e talvolta di migliaia», e di avere saputo di gruppi di ebrei caricati su vagoni ferroviari «poi abbandonati finché i poveri deportati erano quasi tutti morti». Aggiunse che «il numero delle uccisioni di ebrei si fa ascendere fino ad ora a circa un milione».

I DOCUMENTI

Il 18 marzo 1942, i rappresentanti in Svizzera dell’Agence juive pour la Palestine e del Congrès juif mondial consegnarono un Aide-Mémorie al nunzio apostolico in Svizzera Filippo Bernardini, che il giorno seguente lo inoltrò al segretario di Stato Luigi Maglione. Il documento riepilogava la persecuzione antiebraica in atto nei territori sotto dominio tedesco e in alcuni Stati europei antisemiti. Tra l’altro affermava che le legislazioni e le persecuzioni antiebraiche attuate in Croazia, Slovacchia e Romania forse miravano «proprio allo sterminio fisico degli ebrei». Per la Polonia sotto occupazione nazista, denunciava «il lento e costante sterminio dovuto al sistema dei ghetti» e l’uccisione diretta di «migliaia di ebrei in Polonia e nelle parti occupate della Russia».

In una relazione per Pio XII, inviata il 12 maggio 1942, il cappellano militare Scavizzi scrisse: «La strage degli ebrei in Ucraina è ormai al completo. In Polonia e in Germania la si vuole portare ugualmente al completo, col sistema delle uccisioni in massa». Nel testo vi è anche menzione di Auschwitz, quale luogo di incarceramento di alcuni salesiani.

Il 12 luglio 1942 l’ambasciatore della Polonia presso la Santa Sede Kazimierz Papée inoltrò alla Segreteria di Stato un rapporto sulla situazione polacca. Riguardo agli ebrei, esso affermava che la valutazione di 700.000 uccisi proveniva da circoli ebraici e che i dati conosciuti dal governo polacco «sembrano confermare» quel totale. Il testo precisava che alcuni erano stati «uccisi in camere a gas», senza aggiungere dettagli. Nell’ambito della documentazione da me consultata, questo è il primo testo scritto, destinato al Vaticano, con la menzione delle camere a gas.

Il 12 settembre 1942 gli ambasciatori presso la Santa Sede di Belgio e Polonia, anche a nome dei rappresentanti di Francia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Cecoslovacchia e Jugoslavia, presentarono alla Segreteria di Stato una richiesta collettiva di pronunciamento contro le politiche tedesche di occupazione, che «potrebbe arrivare fino allo sterminio di certe popolazioni» e consegnarono uno stampato, datato luglio 1942.

Nel capitolo sulla Polonia era scritto che decine di migliaia di ebrei «furono uccisi per asfissia in camere a gas» e che nel settembre 1941 più di 800 polacchi e prigionieri di guerra sovietici erano stati uccisi a Oświęcim «per mezzo di camere a gas». Il sostituto della Segreteria di Stato Domenico Tardini annotò in un suo appunto manoscritto, datato 15 settembre 1942, di essere stato lui a ricevere i due ambasciatori, e che essi gli avevano voluto leggere gran parte dello stampato, «con estenuante lentezza».

Il 18 settembre 1942 il sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, dopo un incontro con il dirigente dell’IRI Giovanni Malvezzi, rientrato da un viaggio di lavoro a Varsavia, appuntò: «I massacri sistematici degli Ebrei […] hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande e spaventose». A mio parere quelle parole si riferivano anche alle camere a gas.

Il 23 novembre 1942 il rabbino capo della Palestina Isaac Herzog scrisse al segretario di Stato Maglione che le notizie che gli pervenivano dalla Polonia erano «le più orribili che si possano immaginare. Lì si compiono soppressioni sistematiche di migliaia di persone al giorno» e che sperava che «Sua Santità il Papa farà tutto il possibile per salvare i nostri sfortunati fratelli in Polonia».

Infine, il 14 dicembre 1942 un gesuita tedesco scrisse una lettera al segretario di Pio XII, in cui confermava un precedente rapporto (al momento non rintracciato) sul fatto che a Rawa Russka vi era un altoforno (Hochofen) delle SS in cui venivano uccise «fino a 6000 persone al giorno». Il gesuita confermava anche le informazioni su Auschwitz contenute in quel rapporto. Infine collegava tutto ciò alle parole di Hitler del 30 settembre 1942 sullo sterminio di interi popoli.

Considerando che Rawa Russka era scritto tra virgolette, a differenza delle altre località menzionate, e considerando che lì non vi era un centro di sterminio di massa, pare molto probabile che il mittente si riferisse all’intera area di Rawa Russka, quindi anche al campo di Belzec, che distava una ventina di chilometri. In quest’ultimo, non venivano adoperati forni crematori come ad Auschwitz, ma il numero delle uccisioni giornaliere era effettivamente «spaventoso».

IL PRIMO INTERVENTO DEL PAPA

A fronte delle tante notizie sulle uccisioni di ebrei giunte nel corso del 1942, il primo accenno alle vittime fatto in modo pubblico dalla Santa Sede in quell’anno fu quello contenuto nel discorso pronunciato da Pio XII alla radio il 24 dicembre 1942. Si trattò di una frase di pochi vocaboli, collocata alla fine di un testo di 35.000 battute, centrato su altri temi.

La frase era situata al quarto punto di un elenco delle varie categorie di vittime della guerra, e concerneva le «centinaia di migliaia di persone» che erano uccise o duramente perseguitate «senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe».

La categoria quindi racchiudeva tutte le vittime prive di qualsiasi colpa, compresi – ma questo era chiaro solo agli ascoltatori avveduti – i polacchi in genere e gli ebrei. La formulazione adottata non costituì un atto di solidarietà esplicita, non pose pubblicamente i capi nazisti di fronte alle proprie responsabilità, non invitò gli Alleati a difendere gli ebrei, non ordinò ai cattolici di proteggerli dovunque e comunque. Queste parole sembrano essere state l’unico risultato pubblico ottenuto dalle notizie e dagli appelli accumulatisi nel corso di quell’anno.

Le notizie pervenute alla Santa Sede nel 1942 furono centinaia. Questi pochi esempi menzionano l’individuazione delle vittime tramite criteri razzisti, il legame tra deportazione e morte, la pratica delle uccisioni di massa, il ricorrere del termine sterminio, la contabilizzazione delle vittime in milioni, l’esistenza di locali chiusi in cui le persone morivano asfissiate dal gas, l’utilizzo di definizioni quali «incredibile» o «il più orribile che si possa immaginare». Nel loro insieme, esse descrivevano bene ciò che oggi denominiamo Shoah.

(Testo tratto dall'intervento tenuto all'International Conference di Roma l'11 ottobre) 

MICHELE SARFATTI. Storico. Studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel Ventesimo secolo. Dal 2002 al 2016 direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC, Milano. Componente del Comitato scientifico e d’onore della Fondazione Museo della Shoah, Roma. Tra le sue ultime pubblicazioni: Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, 2018; Il cielo sereno e l’ombra della Shoah. Otto stereotipi sulla persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, Viella, 2020.

Quello che i titoli sul silenzio di papa Pio XII hanno trascurato. Il Domani il 07 ottobre 2023

Come tutto quello che riguarda Pio XII e la Seconda guerra mondiale, ha fatto notizia il ritrovamento di una lettera arrivata in Vaticano alla fine del 1942 con informazioni dettagliate sui campi di sterminio nazisti. Si è dunque titolato che papa Pacelli «sapeva». Da un sessantennio infatti i «silenzi» del pontefice di fronte agli orrori bellici – e in particolare di fronte alla Shoah – dividono gli storici e l’opinione pubblica. A sollevare la questione era stato per primo, nella primavera del 1939, l’intellettuale cattolico francese Emmanuel Mounier, turbato dall’assenza di reazioni del papa da poco eletto davanti all’aggressione italiana all’Albania.

IL DOCUMENTO

Il documento scoperto nell’Archivio vaticano conferma quanto già si conosceva da diverse testimonianze: Pio XII era al corrente dei crimini di guerra nazisti e la sua scelta di evitare condanne esplicite – il papa deplorò più volte gli orrori, con allusioni trasparenti a carnefici e vittime, ma senza denunciare i responsabili – fu consapevole. Su questo atteggiamento, accompagnato dall’aiuto ai perseguitati e dall’appoggio segreto all’alleanza antihitleriana, entrambi accertati, i pareri sono fortemente contrastanti tra accusatori e difensori del papa.

E la causa di canonizzazione di Pacelli, che ristagna, non favorisce la comprensione storica. Comprensibilmente le anticipazioni giornalistiche della scoperta si sono concentrate sul documento, trascurando però una clamorosa novità del volume che include la lettera: l’archivio privato del papa per oltre due terzi è scomparso, distrutto o disperso.

Fatto passato inosservato perché il libro appena uscito – cinquecento pagine destinate agli specialisti e curate dall’archivista vaticano Giovanni Coco (Le “carte di Pio XII” oltre il mito, Archivio apostolico vaticano) – è un inventario minuzioso dei documenti «personali» di Pacelli, dei quali sono ricostruite le sorprendenti vicende.

LA LETTERA

Senza dubbio importante è la lettera che ha attirato l’attenzione dei media. Si tratta di un foglio fittamente dattiloscritto in tedesco, datato 14 dicembre 1942, indirizzato a un «caro amico» e firmato «vostro Lothar», con alcuni allegati.

Tra questi, una statistica di «deceduti» è corredata da un’annotazione del segretario personale del papa, il gesuita Robert Leiber, che indica come l’elenco si riferisse al «campo di concentramento di Dachau». Docente di storia, il gesuita era con Pacelli sin dal 1924 e con lui rimase durante il pontificato nel gruppo dei collaboratori più stretti.

CONDANNA DELL’IDEOLOGIA

Grazie a puntuali riscontri gli archivisti vaticani hanno identificato anche chi ha scritto la lettera: Lothar König, un giovane confratello di padre Leiber. Antinazista deciso, il religioso era tra gli uomini di fiducia di Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco e Frisinga. Il prelato – autore di importanti studi biblici e di letteratura cristiana antica, cappellano militare nella prima guerra mondiale, vescovo e dal 1921 cardinale – era sì conservatore e nazionalista, ma anche filosemita.

Con alcune celebri prediche, tenute nell’Avvento del 1933 e che ebbero larga risonanza, Faulhaber si schierò con decisione contro l’antisemitismo nazista. E nel 1937 fu tra gli autori della Mit brennender Sorge («Con bruciante preoccupazione»), l’enciclica di condanna dell’ideologia nazionalsocialista scritta da Pio XII insieme ad alcuni prelati tedeschi di cui si fidava. Passata la guerra, nel 1951, il cardinale ormai ottantaduenne avrebbe ordinato sacerdote nell’antico duomo di Frisinga il giovane Joseph Ratzinger.

LA SPIEGAZIONE DI KÖNIG

Nella lettera ritrovata König spiega che gli allegati sono stati «ottenuti con il massimo rischio. Non solo è a rischio la mia testa, ma anche la testa degli altri se non vengono usati con la massima prudenza e cura». Le notizie destinate al segretario del papa si riferiscono anche al campo di sterminio di Bełżec, non lontano da Rava Rus’ka, in un territorio occupato dai nazisti.

Scrive il gesuita: «Le ultime informazioni su ‘Rawa Russka’ con il suo altoforno delle SS, dove ogni giorno vengono uccise fino a 6000 persone, soprattutto polacchi ed ebrei, le ho trovate confermate di nuovo da altre fonti. Anche il rapporto su Oschwitz (Auschwitz) presso Kattowitz è esatto. La conferma ufficiale e più importante viene dai discorsi, in cui si diceva che intere tribù e popoli sarebbero stati “sterminati”. Con gli ebrei e i polacchi si fa davvero sul serio». I nomi sono trascritti in tedesco – Oschwitz e Kattowitz sono Oświęcim e Katowice, in Polonia – mentre il riferimento ai «discorsi» è a quello di Hitler del 30 settembre precedente. Allo Sportpalast di Berlino, infatti, il Führer aveva accennato allo sterminio programmato degli ebrei.

Elencati i documenti, König aggiungeva significativamente: «La grande preoccupazione qui è se Roma procederà con la necessaria cautela in modo che, se il Vaticano fosse occupato, non si potrebbe trovare nulla di incriminante che possa essere usato contro la Chiesa tedesca». Dieci giorni più tardi, il 24 dicembre 1942, papa Pacelli pronunciò il celebre radiomessaggio natalizio dove «per la prima volta alluse implicitamente allo sterminio degli ebrei».

Benché non sia sicura una connessione tra le notizie della lettera di König arrivata in quei giorni in Vaticano e il discorso di Pio XII, «non è del tutto da escludere l’ipotesi che quella lettera abbia in qualche modo corroborato il pontefice nella sofferta intenzione di accennare alla questione ebraica» annota Coco. Del resto notizie sulla Shoah ormai in corso erano già giunte in Vaticano, come attestano documenti pubblicati tra il 1965 e il 1981 nei dodici volumi degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, che si possono leggere in rete.

Il 12 maggio 1942 don Pirro Scavizzi, cappellano dell’ordine di Malta, scriveva al papa di «deportazioni ed esecuzioni anche in massa» degli ebrei. Della fine di agosto è un’altra lettera, in francese, dove Andrej Šeptyckyj, metropolita greco-cattolico di Leopoli, nell’Ucraina occupata dai nazisti, informava che «il numero di ebrei uccisi nel nostro piccolo paese ha certamente superato i duecentomila». Il papa lesse la lettera il 22 settembre. E quattro giorni prima il funzionario italiano Giovanni Malvezzi aveva informato monsignor Montini, stretto collaboratore di Pacelli, che i «massacri sistematici degli ebrei» avevano «raggiunto proporzioni e forme esecrande».

LE CARTE PERSONALI

Molto altro descrive l’inventario: da appunti del papa, che seguiva le questioni più diverse, alla minuta inedita dell’ultimo radiomessaggio natalizio, che Pio XII – morto il 9 ottobre 1958 – non arrivò a pronunciare. Definito da Coco quasi un «testamento» intellettuale e spirituale, il testo è venato dall’ottimismo, anche nei progressi della scienza e nei possibili «benefici di una industria nucleare a scopi pacifici»; ma questo «se il cuore dell’uomo cammina nelle rette vie volute dal suo Creatore, altrimenti il progresso si trasforma in immensa tragedia». La novità della pubblicazione vaticana è che la documentazione personale di Pacelli – con «una stima per difetto» precisa Coco – «sembra aver perduto quasi il 70 per cento del suo patrimonio originale». Ci sono così voluti vent’anni per rimettere insieme le carte recuperate dalla dispersione, riordinarle e aprirle alla consultazione degli studiosi.

Due sono i motivi principali della perdita: la volontà dello stesso Pio XII, che si spiega probabilmente con l’innata riservatezza, e una «somma incuria», come ammettono gli archivisti vaticani. E già era stata pubblicata una testimonianza sullo stato di conservazione dei documenti della Santa sede poco dopo l’apertura dell’archivio intorno al 1881: in parte erano sistemati sopra la galleria delle Carte geografiche – dal 2016 splendidamente restaurata – dove «dalle finestre, mal connesse e con vetri rotti, vi penetravano le cornacchie e le carte sciolte venivano dal vento sparse per la soffitta».

Un’incredibile trascuratezza ha segnato anche le vicende delle carte personali di Pio XII, fin quando sono iniziati la ricerca, il recupero e il restauro dei suoi documenti. Ma lo stesso Pacelli aveva detto alla fedelissima e onnipotente segretaria, Pascalina Lehnert, che era con lui dal 1918: «Se non avessi più tempo, le bruci». E poche ore prima della morte del pontefice a Castel Gandolfo, la religiosa e due consorelle eseguirono l’ordine, portando via – dalla stanza dove Pio XII agonizzava – «tre ceste» ricolme di manoscritti e dattiloscritti. Che finirono in cenere.

La prova nella missiva. Olocausto, Papa Pio XII sapeva. La lettera con accenno ai crimini nazisti e il silenzio della Chiesa. La notizia arriva contestualmente a quella della messa a disposizione di tutti i documenti relativi al pontificato di Pio XII, Papa dal 1939 al 1958. Il fatto mette tutt’oggi a dura prova il suo processo di beatificazione avviato nel 1967. Redazione su Il Riformista il 16 Settembre 2023 

Il pontefice Pio XII era a conoscenza degli orrori perpetrati dai nazisti nei campi di sterminio: più che una supposizione è un fatto deducibile da una lettera datata 14 dicembre 1942 scovata dall’archivista vaticano Giovanni Coco, che ne parla nel numero del 17 settembre di “la Lettura”, in un’intervista a Massimo Franco.

Nella missiva, il messaggio proviene dal gesuita antinazista Lothar König ed era indirizzato al segretario particolare del Papa, Robert Leiber. All’interno si fa riferimento al forno crematorio delle SS nel campo di concentramento di Bełzec, in Polonia occupata dai tedeschi, menzionando anche quello di Auschwitz.

È “l’unica testimonianza di una corrispondenza che doveva essere mantenuta e prolungata nel tempo” e rappresenta quindi una prova cruciale riguardo all’esistenza di un flusso di informazioni sui crimini nazisti che giungevano alla Santa Sede in contemporanea con l’attuazione del genocidio.

La notizia arriva contestualmente a quella della messa a disposizione di tutti i documenti relativi al pontificato di Pio XII, Papa dal 1939 al 1958.

La possibilità di consultare il vasto materiale ha consentito agli studiosi di intensificare gli sforzi per comprendere meglio il comportamento del Pontefice in quel periodo e un’opportunità per confrontare diverse prospettive si presenterà durante il convegno internazionale in programma a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana in programma dal 9 all’11 ottobre: “I nuovi documenti dal pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane”.

 Se in passato in Vaticano si riteneva che i lager fossero “soltanto” campi di concentramento, le informazioni fornite da König andavano ben oltre, rivelando che nell'”altoforno” di Rava Rus’ka, ovvero Bełzec, “ogni giorno morivano fino a 6.000 uomini, soprattutto polacchi ed ebrei”. La lettera dipinge un quadro dell’orribile macchina della morte.

In questo senso appare facile contestualizzare il lungo discorso natalizio del Papa tenuto il 24 dicembre 1942, in cui faceva riferimento alle “centinaia di migliaia di persone che, senza colpa propria, talvolta solo a causa della loro nazionalità o etnia, erano destinate alla morte o a un progressivo deperimento”. Il silenzio di Pio XII mette tutt’oggi a dura prova il suo processo di beatificazione avviato nel 1967 e oggetto di controversie all’interno della Chiesa cattolica.

Pio XII, perché scelse il silenzio sul nazismo: ecco la verità. Sergio De Benedetti su Libero Quotidiano il 29 settembre 2023

Nei giorni scorsi, molti giornali italiani e stranieri hanno parlato di una lettera datata 14 dicembre 1942 ritrovata da Giovanni Coco, “ufficiale” dell'Archivio Apostolico Vaticano, nella quale il gesuita tedesco Lothar König, uomo di collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, cardinale Michael von Faulhaber, e il Vaticano, parla dei crimini contro gli ebrei nei campi di Dachau e Auschwitz. La lettera, indirizzata a Robert Leiber, segretario particolare di Pio XII (Eugenio Pacelli), denota una ricorrente consuetudine a tale terribile informazione, dando quindi l'impressione di lettere precedenti inviate e, chissà, di altre che avrebbero potuto pervenire in futuro.

Su tutto però, emerge la prova e la conseguente enfatica frase che, dunque, “Pio XII sapeva”. Che il Pontefice sapesse, è da tempo arcinoto e con lui sapevano il cardinale Luigi Maglione, Segretario di Stato, ed i monsignori Domenico Tardini e Giovan Battista Montini, addetti alla medesima Segreteria. Per questo probabilmente quando Maglione venne a mancare (22 agosto 1944), non fu sostituito fino al decesso di Pacelli (9 ottobre 1958). Il nuovo Papa infatti, Giovanni XXIII, (Angelo Roncalli) ordinò cardinale e nominò proprio Domenico Tardini nuovo Segretario di Stato e al tempo stesso ordinò cardinale Giovan Battista Montini, già nominato arcivescovo di Milano nel 1954.

Eugenio Pacelli, nato a Roma il 2 marzo 1876, studiò con disinvoltura, divenne sacerdote ed entrò giovanissimo nella Segreteria di Stato («studia già da Papa», diceva il popolino). Dopo una serie di incarichi delicati e complessi (era Segretario del cardinale Pietro Gasparri, prima e dopo che questi diventasse Segretario di Stato), nel 1917 divenne Nunzio Apostolico in Baviera e due anni dopo nell’intera Germania, trasferendosi a Berlino dove rimase fino alla fine del 1929. Perfetto conoscitore della lingua, ammiratore del popolo tedesco in ogni sfaccettatura culturale, Pacelli fu cautamente contrario alle decisioni delle Potenze vincenti nel primo conflitto mondiale, considerate eccessive verso i perdenti e fautrici di risentimenti nazionalistici. Concluse numerosi Concordati affinché fosse sempre la diplomazia a dirimere gli eventuali contrasti e così si spiegano gli accordi con la Baviera (1924) e la Prussia (1929).

Richiamato a Roma il 16 dicembre 1929 dopo il Concordato con l’Italia del febbraio precedente, divenne cardinale con il titolo dei Santi Giovanni e Paolo ed il 7 febbraio 1930 Segretario di Stato di Pio XI (Achille Ratti), carica che gli permise di continuare la sua politica diplomatica stipulando nuovi Concordati con il Baden (1932), l’Austria 1933, la Jugoslavia (1935) e rinnovando quello con la Germania il20 luglio 1933, sei mesi circa dopo l'ascesa al potere di Adolf Hitler (30 gennaio 1933).

Va segnalato che nelle memorie di Heinrich Brüning, Cancelliere della Repubblica di Weimar dal 30 marzo 1930 al 30 maggio 1932, si parla di una profetica corrispondenza con Pacelli riguardo la viva preoccupazione di quest’ultimo per i metodi brutali del nascente partito nazista, elementi questi che il Cancelliere giudicò eccessivi e frutto probabilmente di errate valutazioni di prelati tedeschi desiderosi di mettersi in mostra con la Chiesa di Roma. Pacelli, fedelissimo di Pio XI, cercò di frenarne gli eccessi, convinto com’era che prendere posizione e, addirittura, rinnegare il Concordato avrebbe rappresentato proprio ciò che voleva Hitler, il quale dunque, privo di un accordo stipulato e oltre tutto abiurato proprio dalla controparte, poteva avere mani libere più di quanto non stesse già abusando. Intanto, come molti documenti e narrazioni verbali confermano, attraverso qualunque associazione religiosa e non ma desiderosa del bene comune, Pacelli lavorava in tutta l'Europa occupata nel disperato tentativo di salvare quante più vite umane possibili.

La decisione di non denunciare pubblicamente le atrocità del nazismo peserà nella sua valutazione personale e per questo il processo di beatificazione va a rilento: iniziato nel 1967 con Paolo VI (Giovan Battista Montini), nel 1990 al tempo di Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła) è stato proclamato “Servo di Dio” e nel 2009 con Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) “Venerabile”: sono in molti nel mondo a ritenere che possa bastare. 

La Regola francescana compie 800 anni. Emanuele Mastrangelo su Culturaidentita.it il 28 Novembre 2023

Il 29 novembre 2023 sono esattamente 800 anni dalla conferma da parte di papa Onorio III della Regola Bollata dei Frati Minori, redatta da san Francesco. Per celebrare questo anniversario, i membri della famiglia francescana — frati, suore, laici appartenenti ai tre Ordini fondati da Francesco d’Assisi — si riuniranno nella basilica di San Giovanni in Laterano a Roma per una celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo De Donatis, vicario generale del Papa e arciprete della basilica.

La Regola Bollata dei Frati Minori, comunemente nota come la “Regola Francescana”, è la regola religiosa che fu scritta dal Poverello d’Assisi e i suoi seguaci all’inizio del XIII secolo, come estensione e completamento della prima Regola redatta nel 1209-10. Nel 1215 venne presentata al pontefice Innocenzo III. Ma questi morì nel 1216. L’approvazione ufficiale, o bolla papale, fu concessa dopo attento esame dal successore Onorio III solo il 29 novembre 1223. Per tale motivo si parla, per l’appunto, di “Regola bollata”, ovvero sancita dalla bolla papale “Solet annuere“.

La regola fu scritta da san Francesco per guidare la vita e l’operato della sua comunità religiosa, che successivamente divenne nota come l’Ordine dei Frati Minori (OFM), o più comunemente i “francescani”. Questo ordine religioso ebbe un’enorme influenza sulla spiritualità cristiana e sulla pratica religiosa nel corso dei secoli. La Regola Bollata si basa su principi di povertà, umiltà e semplicità. San Francesco enfatizzò la necessità di seguire il Vangelo in modo radicale, abbracciando la povertà e vivendo in armonia con il Creato, inteso in maniera radicalmente differente dalla “natura” oggi comunemente intesa.

La regola è composta da diversi capitoli che delineano gli obblighi dei frati minori, tra cui la preghiera, il lavoro manuale, la fraternità, la penitenza e l’ubbidienza. Uno degli aspetti distintivi della regola è la chiamata alla “minoritas“, che significa “minorità” o “piccolezza”, incarnando l’umiltà e la semplicità di Gesù Cristo.

L’approvazione papale della Regola Bollata conferì una legittimità formale all’Ordine francescano, riconoscendolo come una comunità religiosa ufficiale all’interno della Chiesa cattolica. Nel corso degli anni, i frati minori hanno continuato a seguire questa regola, mantenendo la loro dedizione alla povertà e al servizio.

L’800° anniversario della Regola Bollata è un momento significativo per la comunità francescana e per la Chiesa cattolica nel suo complesso, celebrando la longevità e l’influenza di questa regola nella storia spirituale e religiosa. La celebrazione nel Laterano sarà trasmessa in streaming sul sito ufficiale del centenario francescano (2023-2026) 

Benedetto, il «santo moro» che stregò Palermo (e ora la sua chiesa brucia). Storia di GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera lunedì 31 luglio 2023.

«Feci con la reliquia il segno della Croce sopra il petto del figliuolo il quale veramente et ingenuamente giudicai essere morto per la pallidezza del volto e la freddezza delli membra. Però signato che l’hebbi, posso dire che il fanciullo resuscitò e tornò da morte in vita, poiché subito immediatamente diede un grido e cominciò a piangere un pochetto». Era una mattina di gennaio del 1624, testimoniò fra Giovanni da Messina al processo per la beatificazione, e giurò che sì, gli era bastato posare quel pezzetto di saio di Fra Benedetto sul bimbo di tre anni appena defunto e tutti intorno avevan preso a piangere e gridare al miracolo.

Come dubitarne? Furono duecentoventitré, racconta la storica Giovanna Fiume, autrice del libro Il Santo Moro. I processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo, edito da Franco Angeli, gli uomini e le donne tra i quali dieci medici, trentanove frati, dodici terziarie e dodici preti che accorsero a dare testimonianza davanti alla commissione ecclesiastica delle stupefacenti virtù di quello che il popolo palermitano aveva già fatto «santo subito». E vennero catalogati 90 miracolati per 44 tipi di guarigione: «13 casi di paralisi degli arti, 10 di morti resuscitati, 9 di ernia, 7 di idropisia, 7 di cecità, 6 di fistole e posteme, 6 di complicazioni del parto, 5 di scrofole...» E via così.

Il presidente Sergio Mattarella in visita alla chiesa di Santa Maria di Gesù dopo l’incendioEppure ci vollero oltre due secoli, dalla morte nel 1589 al 1807, perché il fraticello siciliano, beatificato nel 1743, fosse dotato ufficialmente, con bolla papale, dell’aureola già da tempo collocata in tutte le immagini iconografiche. A partire da quelle in Sudamerica dove El Santo Negro è da sempre tra i santi cattolici più popolari e amati. Al punto che la notizia dell’incendio che ha devastato nei giorni scorsi la chiesa palermitana che ospitava le reliquie del santo, cioè il convento di Santa Maria di Gesù, sulle pendici del Monte Grifone su cui svetta appunto il celebre Cipresso di san Benedetto, uno dei più antichi d’Italia, sopravvissuto alle fiamme, ha toccato il cuore di milioni di fedeli di mezzo mondo, da Cuba alle Filippine.

Il murales dedicato al santo moro da Igor Scalisi Palminteri a Ballarò, PalermoMa partiamo dall’inizio. Nato nel 1524 a San Fratello, sui Nebrodi in provincia di Messina, Benedetto era figlio di due dei molti schiavi africani finiti in Sicilia ai tempi della «tratta barbaresca» che nel Mediterraneo coinvolse per lo storico Robert Davis complessivamente, sull’una e l’altra sponda, oltre un milione di persone. Il padre Cristofalo «vaccaio e huomo da bene» apparteneva alla famiglia Manasseri, la madre Diana alla famiglia Larcan e, stando alla «istoria» elaborata via via da agiografi quali Antonino Randazzo, erano «discendenti de Etiopia» ma «benché fossero negri furono bene nutriti et erano buoni cristiani et timorosi di Idio».

Al punto che il ragazzo, a vent’anni, conosciuto casualmente un eremita francescano «già in fama di santità», Geronimo Lanza, scelse di lasciar tutto e seguirlo in varie peregrinazioni fino a indossare il saio e diventare terziario (quelli che «stanno nel mondo») nel convento appunto di Santa Maria di Gesù. Dove, pur avendo compiti umili come quello del cuoco, si guadagnò evidentemente tra i più umili la fama di uomo di gran fede in contatto direttamente con «lassù», tanto da esercitare intorno un fascino impensabile. Tanto più, allora, per un nero descritto, per la candida purezza religiosa, con parole estasiate: «Il nostro santo nero è bianco in Dio».

IL saggio di Giovanna Fiume «Il santo moro», edito da Franco AngeliCerto è che con la sua fama di santità il fraticello conquista Palermo al punto che, scrive Giovanna Fiume, «già nel 1608 si vendono in città le sue immagini e nel 1611 l’Inquisizione ne autorizza i ritratti «con gli splendori sul capo» finché nel 1562 il Senato palermitano «decide di annoverare il frate, non ancora canonizzato, tra i santi patroni cittadini» e chiede al Papa di riprendere e accelerare il processo di beatificazione. E dalla Sicilia spagnola il nome del «santo schiavo e nero» si irradia e dilaga in tutto il mondo coloniale cattolico, soprattutto spagnolo e portoghese. Fino a guadagnare al poverello d’origine africana, come ricorderà sul «Corriere» Vincenzo Consolo, una serie di definizioni: «El negro mas prodigioso» e «Moro etiope, Giglio nero, Fiore esotico, Idiota erudito, Ignorante sabio, Negrillo precioso, Varon insigne, Prodigioso Negro de los Cielos…».

Non solo, va detto, per la statura dell’uomo di fede. Ma perché, spiega la storica palermitana, era l’esempio di virtù giusto da additare a tutti gli schiavi, i neri, i servi dei padroni: «L’esempio di uno schiavo ubbidiente, pio, operoso e sempre sorridente» nella certezza che, per quanto il mondo sia crudele e la schiavitù spaventosa, ogni ingiustizia, ogni prepotenza, ogni sopruso sarà comunque compensato dal Paradiso conquistato sulla «strada dei patimenti». E tanto sfonda questa idea nel mondo coloniale che a un certo punto nel 1716, davanti alle perplessità di una parte della Chiesa che non vede di buon occhio la venerazione per san Benedetto e insieme certi residui di antichi culti africani, padre Alessio della Solitudine diffida i perplessi: «La veneratione degli Ethiopi Christiani è al sommo grado (…) per essere questo santo della loro Natione e riconoscere che anche loro possono essere santi: i padri pongono il nome di Benedetto ai loro figli per meglio eccitarli alla devozione» e se questa fosse abolita i neri supporrebbero che «la proibizione fusse promossa ad onta e disprezzo dei medesimi, come di color negro, o pure si darebbero a credere che nessuno della natione negra potesse arrivare al grado di santo».

Una tesi che dai e dai, sia pure altri decenni dopo, passò. E ancora oggi san Benedetto, per gli iberici san Benito, è venerato non solo a Buenos Aires dove c’è appunto la municipalità che prende il nome dalla Abadia San Benito de Palermo (il quartiere dove viveva Jorge Borges) ma in tutto il Sudamerica, dal lago di Maracaibo in Venezuela al Nordeste brasiliano, dove san Benito è anche il Santo della liberazione, dell’allegria, del ballo.

Resta un po’ indietro, piuttosto, proprio a Palermo. Dove tutti gli onori popolari sono riservati a santa Rosalia. Che di celebrazioni fastose ne ha addirittura due. Il Festino di santa Rosalia che ha appena celebrato a metà luglio il 399° anniversario della fine della peste del 1624 e la salita (la celeberrima «Acchianata») al Santuario del Monte Pellegrino dove stava secondo la leggenda la mitica grotta che nel XII secolo avrebbe ospitato la giovine pulzella in fuga dallo sposo che le aveva procurato il padre. Un santuario di oro luccicante. Degno d’una santa bianca, vergine, siciliana nominata dopo la peste Prima Patrona accantonando allora le quattro «Santuzze» precedenti (sant’Oliva, santa Cristina, santa Ninfa e sant’Agata) ma soprattutto san Benedetto. Santo sì ma poverello...

La storia. Chi era Benedetto il Moro, il Santo Nero che ha migliaia di devoti. A Palermo è andata a fuoco la chiesa del “Santo Nero”, Benedetto il Moro. Nacque in schiavitù, da due schiavi africani, nel paese di San Fratello. Privo di ogni diritto. Tantomeno del diritto alla santità. Oggi ha migliaia di devoti. Luca Casarini su L'Unità il 29 Luglio 2023

Tutti gli anni la Sicilia brucia. Viene da chiedersi come possa questa ricorrente ed infernale condanna essere ritenuta, tutti gli anni, una emergenza. E come si possa, tutti gli anni, essere colti di sorpresa, non avere ogni volta sufficienti forze e mezzi, incolpare ogni volta le mancate opere di manutenzione del territorio e via così. Quest’anno poi, con temperature altissime ampiamente annunciate, il tutto suona davvero come una farsa, quella che segue la tragedia già andata in scena con numerose repliche.

Nemmeno le sirene che suonano ininterrottamente, di giorno e di notte, sono una novità a Palermo. E non si distinguono quelle delle auto blindate da quelle delle ambulanze, o dei pompieri. Ma anche dentro una abitudinaria emergenza, con le sue sirene, il fumo acre che aleggia spargendo diossina dalla discarica in fiamme di Bellolampo, accadono fatti che impressionano ancora: la signora morta dentro l’ascensore bloccato dal blackout dovuto ai roghi e al caldo, le persone morte bruciate e asfissiate a casa loro, circondate da fiamme che nessuno ha potuto spegnere in tempo. E la distruzione della Chiesa di Santa Maria del Gesù, con i suoi settecento anni di storia, molto cara ai palermitani.

È la chiesa del “Santo Nero”, San Benedetto il Moro, uno dei patroni “minori” della città, che ha appena rinnovato per la 399ma volta la sua devozione, lo scorso 14 luglio, alla “Santuzza”, Santa Rosalia, signora incontrastata della fede panormita. Ma il fatto che stavolta siano bruciate le reliquie, custodite con grande cura dai frati francescani dal 1589, del Santo nero, ha fatto piangere e disperare i molti accorsi appena si è sparsa la notizia. Il fumo degli incendi dopo un po’ dirada, spinto dal vento di scirocco che butta a libeccio, l’incendio che assedia dai monti la città prima o poi si acquieta, ma quando se ne andrà il senso di cattivo presagio per aver lasciato bruciare un santo? Viene subito da andare sotto il grande murales di San Benedetto, voluto dal Mediterraneo Antirazzista e dipinto dall’artista Igor Scalisi Palminteri, a Ballarò. E di cercare quella storia del “santo schiavo”, di cui ha scritto una professoressa dell’Università, Giovanna Fiume.

Sotto il murales e con le sue pagine che scorrono, forse il senso di colpa per questo sfregio al santo, potrà diminuire. San Benedetto il Moro, però, è abituato alle ingiurie e alle offese. Perché lui, e questo rende ancora più straordinaria la devozione popolare che lo ha letteralmente sollevato agli altari della santità, era uno schiavo. È nero, etiope come Sant’Antonio. Schiavo figlio di schiavi. “O scavuzzu” per il popolo, che addolciva con il diminutivo quello stigma che non gli avrebbe consentito mai, secondo il diritto canonico e la cultura del tempo, di essere santo. E nemmeno appartenente ad un ordine religioso, in questo caso a quello francescano.

Ma Benedetto il Moro, nato a San Fratello in provincia di Messina nel 1524 da due africani, Cristofalo, schiavo del casato dei Manasseri, e Diana, schiava della famiglia Larcan, ha contribuito a rompere leggi, usi, consuetudini e a imporre a Santa Romana Chiesa di mutare l’approccio verso un sistema, quello schiavile, che era non solo accettato, ma anche sostenuto. Nessuno schiavo “negro” era degno allora, per i custodi della fede, di rappresentare i cives christiani. La sovrapposizione tra diritto giuridico e confessionale, portava all’esclusione dalla vita civile e religiosa di figure ritenute “infami”, cioè che godevano di cattiva fama. Malfattori e criminali, eretici, poveri dalla cattiva reputazione. A questi si aggiungevano quanti considerati “fisicamente” incompleti: schiavi, servi, minori, donne.

Il ruolo del “Santo schiavo” da Palermo, nella rivoluzione che portò il francescanesimo a diventare un linguaggio capace di contrapporsi e contrastare nei secoli le logiche di esclusione sociale che dominavano la società, è fortissimo. Benedetto è nero, ma è anche schiavo, in quanto secondo ciò che scrive il suo primo agiografo, il Daca, nel 1611 “Nacque negro e schiavo… siguiendo la condicion de su madre nacio negro y esclavo”. Fructus secuitur ventrem, e quindi la madre trasmette la condizione di schiavitù al figlio, come se le catene fossero anticipate dal cordone ombelicale.

Ma Benedetto il Moro, schiavo nero e analfabeta, sembra proprio essere la testimonianza concreta dei mille strumenti dei quali si dota la grazia divina. Come peraltro profetizza, dopo averlo incontrato a San Fratello, Gerolamo Lanza, eremita di San Francesco e già considerato un santo. Benedetto ha ventun’anni. Sta lavorando attorno ai buoi del padrone, mentre come al solito alcuni mietitori lo scherniscono, lo prendono in giro. L’eremita li rimprovera e rivela la profezia: “Voi altri vi prendete gioco di questo schiavetto ma fra pochi anni sentirete la fama sua”. Benedetto seguì Gerolamo, e cominciò così la sua vita da eremita, prima sui monti di Santa Domenica, non lontano da San Fratello, poi alla Mancusa, tra Partinico e Carini, e infine a Monte Pellegrino, sopra Palermo.

Nonostante dedichi la sua vita a servire anche nei lunghi anni del convento di Santa Maria di Gesù, fa il cuoco e si dedica ai lavori più umili, la sua fama cresce tra il popolo. E tra gli schiavi neri. È presto considerato un santo in vita, oggetto di continue richieste di guarigioni. Dopo la sua morte, nel 1589, comincia ad essere raffigurato, ed è proprio la sua storia e queste immagini che cominciano ad espandersi da Palermo fino a oltretlantico, nelle Americhe. I fedeli palermitani, ancor prima che giungesse indicazione da Roma, prendono le sue spoglie mortali e le trasferiscono dal cimitero comune del convento, all’interno della Chiesa, come si fa con i santi già canonizzati. Il culto del santo schiavo in pochi decenni è presente in tutta europa e oltre atlantico.

Nel 1715 la Chiesa, nell’ambito del lungo processo per il suo riconoscimento come Beato e poi Santo, avvia una sorta di censimento delle forme di culto a Benedetto, e i risultati sono straordinari e inspiegabili. Ad esempio a Cordoba, in Spagna, in occasione della processione per il Corpus Domini, la statua di Benedetto precede quella di San Francesco. A Pernanbuco in Brasile si registra che “un popolo immenso il quale tutto acclama San Benedetto”. A Città del Messico, nella grande processione di neri che ha luogo il lunedì e il martedì santo, si venera San Benedetto. Sono nate confraternite a lui intitolate, ma questo straordinario “contagio” del culto del Santo schiavo, ha a che fare con molteplici fattori: innanzitutto la schiavitù, mediterranea e del “nuovo mondo”, che dopo le deportazioni forzate di esseri umani da forzare al lavoro, si trasforma in afro-discendenza, con un nuovo soggetto sociale che si organizza per liberarsi dalle catene e dallo stigma.

La “conversione” al cristianesimo è un’arma potente in mano agli schiavi e ai loro discendenti, proprio perché mette in crisi quelli che il cristianesimo l’hanno usato per riprodurre ingiustizia ed esclusione. Il processo francescano di rottura con la Chiesa dei dotti e dei sapienti, ha a che fare con una evangelizzazione diversa da quella immaginata per inferiorizzare i neri. Viene usata al contrario: per includere e come mezzo di mobilità sociale. L’appartenenza degli schiavi alle confraternite, crea uno spazio politico di identità, di resistenza allo sfruttamento disumano, e all’assoggettamento alla cultura dominante dei bianchi.

È un tassello fondamentale della “cosciencia negra”, che si traduce in pratiche concrete contro le forme più estreme di schiavitù, fino a diventare la base per progetti di sovversione e di fuga. San Benedetto il Moro è uno dei simboli, ancor oggi, dell’esodo necessario da questa terra dei Faraoni. Della visione di un altro mondo dove quello che ci dicono che sia impossibile, diventa possibile. Onore a te grande santo schiavo e nero. Possano le tue ceneri, oggi liberate nell’aria di Palermo, viaggiare sempre per il mondo e coltivare il pensiero proibito della libertà. Luca Casarini 29 Luglio 2023

Biagio Conte. Alessio Ribaudo per corriere.it il 12 gennaio 2023.

Ha speso gran parte della sua vita per dare voce agli ultimi. Lui, nato ricco, si era spogliato di tutto per aiutare poveri, ex tossici, emarginati di Palermo, ridando loro dignità e speranza. Un cancro al colon, scoperto due anni fa, si è portato via a 59 anni «fratel» Biagio Conte che, neanche negli ultimi mesi, aveva rinunciato ad assistere migliaia di persone in città senza un tetto sulla testa, prostitute, clochard, migranti, ex detenuti nelle sedi della sua «Missione di speranza e Carità». Negli ultimi mesi non solo migliaia di palermitani ma centinaia di persone da tutta la Sicilia hanno reso omaggio a Conte le cui condizioni di salute si aggravavano di giorno in giorno. 

Anche l’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, la scorsa Epifania, si è recato al suo capezzale per dare sostegno a uno dei suoi simboli di riscatto del capoluogo siciliano: «Siamo qui perché Biagio è colui che diventa la nostra stella, perché ci conduce all’essenziale e l’essenziale è questa via “altra” che dobbiamo imboccare. Biagio, con la sua scelta di vita, scegliendo i piccoli, ci ricorda l’unica via che dobbiamo imboccare, l’altra via. Ecco perché fratel Biagio, innamorato di San Francesco d’Assisi, si è fatto povero e per i poveri, ribaltando la logica del mondo». Il suo ultimo pensiero, dal letto di agonia, è sempre stato rivolto proprio agli ultimi: «Restiamo uniti per un mondo migliore perché insieme possiamo farcela: non muri ma ponti».

Chi era

Conte, fisico minuto, occhi azzurri magnetici proveniva da una ricca famiglia di costruttori edili ma — dopo essere stato educato prima in un collegio privato in Svizzera e poi in uno di Palermo — aveva deciso di abbandonare la scuola, a 16 anni, per seguire le orme del padre. Ben presto, però, la vista delle disuguaglianze sociali e dei guasti provocati dalla mafia gli causano una profonda crisi interiore e, a 20 anni, decise di andare a vivere a Firenze. Sette anni dopo matura una scelta drastica: spogliarsi di tutti i suoi averi per abbracciare la vita da eremita nelle montagne dell’entroterra siciliano. Quindi, nel 1991, decide di recarsi in pellegrinaggio, a piedi, fino al convento di Assisi per sposare gli insegnamenti di San Francesco.

Non informa i familiari che, non avendo più sue notizie da tempo, si rivolsero alla trasmissione «Chi l’ha visto?». Sarà lo stesso Biagio a tranquillizzarli in diretta tv del suo cammino. Nell’estate del 1991 ritornò a Palermo convinto di partire in missione in Africa ma, camminando per le vie di Palermo, rimase colpito del profondo disagio sociale e dello stato di povertà di migliaia di suoi concittadini. Così decise di rimanere in Sicilia, indossare il saio e portare il bastone. Giorno dopo giorno mise «letteralmente» in piedi la Missione Speranza e Carità, con l’obiettivo di dare conforto e un futuro agli emarginati della città. Comincia con il dare sostegno ai senzatetto che gravitavano intorno alla Stazione centrale del capoluogo siciliano.

 La missione

Il progetto, in 30 anni, si è allargato con la costruzione delle tre «Città della gioia»: la «Missione di Speranza e Carità», «La Cittadella del povero e della speranza», «La Casa di Accoglienza femminile». Oggi le diverse sedi accolgono oltre mille persone a cui sono offerti tre pasti al giorno e posso ricevere assistenza medica e, all’occorrenza, vestiti puliti. Chiunque bussa alla porta riceve ascolto da una rete di volontari che hanno accompagnato il percorso di «fratel» Biagio. Un uomo che è stato capace di farsi sentire dalle Istituzioni — anche a costo di prolungati scioperi della fame e proteste eclatanti — per ottenere risorse dedicate alle proprie attività di carità. Questo suo percorso di vita lo ha più volte fatto accostare a San Francesco d’Assisi.

Il miracolo

Uno spendersi anche fisicamente per «costruire» accoglienza che lo avevano inchiodato per anni su una sedia a rotelle a causa di uno schiacciamento di alcune vertebre che gli provocavano lancinanti dolori alla schiena, abbinati ad altri problemi circolatori. Poi dopo un pellegrinaggio dalla Madonna di Lourdes e il bagno nella vasca, Conte torna ritto in piedi. Una guarigione improvvisa che fu ricostruita dalla newsletter dell’Arcidiocesi di Palermo che parlò di miracolo. «Per me è stata una grazia inaspettata — raccontò Conte in un’intervista — che ho ricevuto dal buon Dio che ha incaricato la sua madre Maria.

Subito dopo essermi immerso ho avvertito come un fuoco dentro che mi ha permesso di tornare non a camminare, ma a correre verso le tante persone che me lo chiedono». Il fatto prodigioso fu confermato anche da padre Pino Vitrano, il sacerdote che collabora con Biagio Conte nella missione Speranza e carità: «Subito dopo il ritorno dal pellegrinaggio, me lo sono veduto venire incontro a piedi in maniera clamorosa, senza nessuna difficoltà. Anche i medici da noi interpellati non sanno fornire una spiegazione scientifica plausibile».

 Gli incontri con i papi

Conte, missionario laico, ha avuto uno stretto rapporto con la Chiesa cattolica. Non solo con l’arcivescovo di Palermo ma persino con gli ultimi due papi. Il 3 ottobre del 2010, durante la sua visita a Palermo, Benedetto XVI incontro il missionario laico nel Palazzo vescovile e quel giorno maturò il nome di Missione di speranza e carità. Nel 2018, invece, Papa Francesco andò oltre e, una volta in città, decise di pranzare nella missione di Conte con altri 160 suoi ospiti: poveri, migranti, ex detenuti, volontari.

Nella mensa fu realizzata con materiale riciclato una barca da un falegname tunisino sordomuto. La comunità femminile realizzarono delle statuine raffiguranti persone di tutto il mondo. Poi furono collocate sull’imbarcazione per lanciare il messaggio «siamo tutti sulla stessa barca per costruire insieme un mondo migliore». Il menu? Fettine di pane con l’olio, olive condite, formaggio a tocchetti, caponata, poi insalata di riso, petto di pollo panato alla siciliana, insalata mista, sorbetto di limone e cannolicchi.

 Le reazioni

«La scomparsa di Biagio Conte lascia un vuoto incolmabile a Palermo — ha commentato il sindaco Roberto Lagalla — e anche nelle ultime ore più drammatiche tutta la città si è stretta attorno a fratel Biagio, a testimonianza del valore dell’eredità umana che oggi ci lascia e che non dobbiamo disperdere. Resterà per me indimenticabile l’ultimo incontro di pochi giorni fa con Biagio Conte, durante il quale mi ha raccomandato di non dimenticare mai i poveri».

Di fatto, un’eredità lasciata alla città. «È con questo spirito che l’amministrazione e la nostra comunità devono a stare vicini alla Missione speranza e carità — ha concluso il primo cittadino — che continuerà a essere un punto di riferimento per Palermo anche se da oggi dovrà fare a meno del suo fondatore, della sua guida che resterà comunque fonte di ispirazione per tutti noi».

Laura Anello per “la Stampa” il 13 Gennaio 2023.

«Fratel Biagio, ci sono Tizio e Caio, chiedono di entrare», gli dicono i suoi. E lui: «Sono poveri?». «No, sono politici e autorità». «Allora niente, qui oggi entrano solo i poveri».

Basta, forse, questo dialogo del 15 settembre 2018 davanti ai cancelli della sua Missione Speranza e Carità, a raccontare chi era il missionario laico che è morto ieri a Palermo, a 59 anni, avvolto dal saio francescano che scelse di indossare da ragazzo, lui giovane di buona famiglia, come il frate di Assisi.

Un dialogo che va in scena quando papa Francesco ha appena varcato la soglia della sua cittadella degli ultimi di via Decollati, strappata mattone dopo mattone alla burocrazia e all'abbandono, e suggella con la sua visita - mentre restano fuori politici, consiglieri, portaborse - il valore di una storia passata dalla diffidenza delle istituzioni e dei benpensanti all'aura di santità che lo accompagna adesso in morte.

«Santo», è il coro che si leva oggi all'unisono tra i pellegrini diretti alla camera mortuaria, «Santo», è il tam tam nei social.

«Santo», si dice nelle navette gratuite messe a disposizione dal Comune che ha indetto il lutto cittadino fino ai funerali di martedì in Cattedrale, con il sindaco Roberto Lagalla - che da pochi mesi ha preso le redini della città - impegnato nel dire che «non va disperso il valore dell'eredità umana che ci lascia» e l'arcivescovo Corrado Lorefice che si commuove, indicando il missionario laico come «volto della Chiesa povera e dei poveri».

Sventolano le bandiere a mezz'asta su tutti gli uffici pubblici di Palermo per lui che camminava scalzo con una croce in mano come i folli del Medioevo, che si incatenava e digiunava e andava in romitaggio nelle grotte per chiedere attenzione e sostegno per gli ultimi, per l'eretico del bene che sfidava il peccato più grande che si può commettere in Sicilia, il "peccato di fare", come scriveva Tomasi di Lampedusa. Mentre l'Assemblea regionale si appresta a discutere un contributo di mezzo milione di euro per ripianare le bollette della Missione, andata avanti finora solo con la provvidenza. La scossa della sua morte, più ancora che quella della sua vita, è arrivata fino ai palazzi del potere. L'ultimo dei miracoli di chi gliene attribuisce già tanti. Lui che sei anni fa, a Lourdes, si rialzò dalla sedia a rotelle dove i medici lo avevano inchiodato con una diagnosi implacabile e si rimise a macinare chilometri.

È nel 1990 che Biagio lascia la famiglia e decide di vivere come un eremita nelle montagne dell'entroterra siciliano in compagnia di un cane che chiama Libertà. La prima volta che si sente parlare di lui è a "Chi l'ha visto?", dove lui risponde in diretta: «Sto bene, sono in cammino».

Torna a Palermo, pensa di andare in Africa a fare il missionario, in breve capisce che il missionario deve farlo nella sua città, dove la sbornia del benessere degli anni Ottanta sta lasciando il passo alla stagione delle stragi di Capaci e via D'Amelio, e dove la polvere di stelle si sta trasformando nel fango delle periferie, delle povertà, della disgregazione sociale.

In breve Biagio si ritrova sotto i portici della stazione centrale di Palermo piena di clochard, ad assistere e distribuire minestra, d'appoggio un camper scalcinato. Per questo, in memoria di quell'inizio, ad accogliere la sua salma sarà una bara fatta di traversine dei binari della ferrovia. La svolta nel 1993, quando si piazza con la sua branda davanti all'ex disinfettatoio comunale di via Archirafi iniziando un digiuno che durerà tredici giorni. Non è un parrino, cioè un sacerdote, non è un ricco benefattore, non è un capopopolo. Sfugge a ogni categoria conosciuta. Eccentrico, stravagante, sopra le righe, gli dicono i benevoli.

Esaltato, mitomane, pensano altri. «Beveva solo acqua - ricorda don Pino Vitrano, il prete suo alter ego - non una briciola di cibo, se non la comunione che gli portavo io la sera. Aveva scritto a tutte le istituzioni, nessuno rispondeva. Mi diceva: dei poveri non gliene frega niente a nessuno, non servono. Al tredicesimo giorno di digiuno venne il segretario del prefetto, Giorgio Musio. Disse: entrate, occupate la struttura pacificamente.

Non c'erano acqua né luce né servizi igienici, non avevamo mille lire in tasca».

Ma la città sta cambiando: un anno prima sono saltati in aria i giudici Falcone e Borsellino, da lì a qualche giorno - per l'anniversario del 23 maggio - Palermo tutta scenderà in strada tenendosi per mano e sventolando lenzuoli alle finestre.

Pochi mesi dopo, il 15 settembre del 1993, sarebbe stato ucciso don Puglisi, oggi beato.

Si erano incontrati Biagio e don Pino, quando entrambi nel 1993 erano andati a Palazzo delle Aquile a chiedere aiuto, l'uno per la nascente missione, l'altro per Brancaccio. Si erano abbracciati, senza sapere quasi niente l'uno dell'altro. Qualche mese dopo, morto don Puglisi, fu lui a piantare una croce di legno su un campetto sterrato del quartiere dove il sacerdote era stato ucciso.

Oggi le missioni sono diventate sette, con quasi ottocento ospiti. Insieme, poveri, senzatetto, migranti, alcolisti, ma anche gente "normale" che senza lavoro e famiglia si è ritrovata sulla strada. «Non perdete la speranza», diceva loro fratel Biagio. L'ultima frase che ha pronunciato, prima di morire.

Il ricordo dell’arcivescovo di Palermo: “FRATEL BIAGIO ultimo tra gli ultimi”. Andrea Canali su L’Identità il 15 Gennaio 2023

In esclusiva raccogliamo e riportiamo stralci delle dichiarazioni spontanee del Cardinale Salvatore De Giorgi, Arcivescovo emerito di Palermo, che aveva una stretta vicinanza e prossimità con Biagio Conte, morto a solo 59 anni, esempio autentico dell’attuazione del messaggio cristiano in terra, in quanto ha dedicato tutta la sua vita in difesa dei poveri, degli emarginati, dei bisognosi e dei migranti.

Eminenza, Lei che lo ha conosciuto bene, come definirebbe Biagio Conte?

San Francesco di Palermo”. Così ho conosciuto e definito Fratel Biagio Conte nel mio indimenticabile servizio episcopale a Palermo. Così mi è apparso sin dal mio primo incontro con lui in Cattedrale il 25 maggio 1996. E tra i primi miei impegni pastorali è stato quello di rendermi conto di quanto Dio operava per mezzo di lui. Mi resi subito conto, infatti, che Biagio era per la Chiesa di Palermo un segno profetico, dato dal Signore, per essere più operosa e concreta nel privilegiare ed aiutare gli ultimi.

 Quindi era l’ultimo tra gli ultimi che amava il prossimo?

Preferiva dormire in una tenda, pur di assicurare un posto a chi lo chiedeva. Ha fatto suo quanto il grande Papa Francesco non si stanca di suggerire come comportarci con gli immigrati: accoglierli, accompagnarli, promuoverli ed integrarli. Gli sono stato vicino quando ha chiesto un altro rudere per farne una dignitosa Casa di accoglienza per donne povere o emigrate, divenute sempre più numerose e servite dalle brave sorelle che, come Santa Chiara con San Francesco, hanno voluto seguire l’esempio di fratello Biagio. Gli sono stato vicino in modo particolare quando con un gesto tipico dei profeti più coraggiosi occupò un terreno abbandonato dello Stato: al suo fianco ho dovuto mediare con la Magistratura e le alte Autorità statali per fargli ottenere metà di quel terreno. E lui, valorizzando le diverse capacità e mansioni dei suoi ospiti, ha trasformato i ruderi della seconda guerra mondiale in abitazioni decorose per centinaia di immigrati. E per me resta indelebile il ricordo della celebrazione del 5oesimo della mia Ordinazione sacerdotale insieme ai Vescovi siciliani: sedevamo a mensa insieme a oltre seicento immigrati.

Palermo ha perduto un grande profeta ed operatore nella Missione di Speranza e Carità, ma ora ha nel cielo un intercessore con Cristo per una sempre più viva consapevolezza di progredire camminando con i poveri e operando a favore dei poveri.

L’addio a Fratello Biagio. Papa Francesco: «Missionario di carità e amico dei poveri». Salvo Fallica su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

I funerali del missionario laico nella Cattedrale della sua città. Ha dedicato la sua vita per aiutare i deboli e gli emarginati. Il suo ricordo in un film Rai di Pasquale Scimeca

Oggi, martedì, sarà dato l’ultimo saluto a Biagio Conte nella Cattedrale di Palermo. Fino a alle 19 di ieri la salma del missionario laico morto dopo una lunga malattia è rimasta esposta nella chiesa della Missione Speranza, uno dei luoghi simbolo del suo impegno etico e sociale. Biagio Conte ispirandosi a San Francesco ha cercato con tutte le proprie energie di aiutare i più deboli, gli emarginati, i poveri. La sua biografia riassume bene l’esempio di un missionario che ha dedicato la sua vita agli altri. Nato il 16 settembre 1963 in una ricca famiglia borghese di imprenditori edili, invece di proseguire la vantaggiosa strada per lui delineata preferì abbandonare le agiatezze e iniziare a fare l’eremita.

Durante la sua giovinezza si accorse di una Palermo piena di contraddizioni e problemi: diseguaglianze sociali, criminalità dilagante, periferie abbandonate. Tornò a Palermo nel 1991 dopo un pellegrinaggio che lo aveva condotto ad Assisi, dove si era confrontato con i frati francescani. Nel 1993 fondò nel capoluogo siciliano la Missione Speranza e Carità. Ha aiutato, assieme ai suoi collaboratori, moltissime persone dando loro anche un conforto etico e spirituale. Ha costruito percorsi di fuoriuscita dalla marginalità per persone poverissime che avevano perso la speranza. Papa Francesco lo ha definito, in un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e indirizzato all’arcivescovo di Palermo monsignor Corrado Lorefice, «generoso missionario di carità e amico dei poveri».

Il presidente dei vescovi siciliani, Antonino Raspanti, ha sottolineato che «la Chiesa di Sicilia piange la sua scomparsa ma è edificata dalla sua vita operosa e concreta donata agli ultimi e ai dimenticati». Cristo è stato il «centro della sua esistenza e missione», ha aggiunto. Il regista e intellettuale Pasquale Scimeca, che ha realizzato il film «Biagio» andato in onda dalla Rai nel fine settimana, sintetizza la sua storia così: «Il cammino di fratel Biagio è sempre stato controvento. Mentre tutti quelli della sua generazione pensavano solo ad arricchirsi e consumare, lui si è spogliato delle ricchezze ed è andato a vivere nei boschi a cibarsi di bacche e frutti selvatici. Mentre tutti quelli della sua generazione gridavano “Dio è morto”, lui guardava verso il cielo per cercare Dio, quel Dio misericordioso e compassionevole, che alla fine ha trovato nei poveri, nei migranti, in chi ha perso tutto, persino la speranza». Una storia originale, intessuta di autenticità.

Francescano siciliano. Quando fratel Biagio nel 2015 intervenne al Gay Pride di Palermo. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 16 Gennaio 2023.

La dedizione totale al prossimo si sposò sempre con un rigore ascetico d’altri tempi, l’assoluta fedeltà al Papa e l’osservanza dei comandamenti. Il ricordo di uno dei suoi più stretti collaboratori, dell’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando e di diversi esponenti della comunità Lgbtq+

Dalla mattina del 12 gennaio, quando un tumore al colon se l’è portato via a soli 59 anni in quella roccaforte palermitana della carità che è la sua Cittadella della Speranza e del Povero, Biagio Conte continua a tenere banco nei media. Il Capo dello Stato e il Papa sono stati tra i primi a esprimere pubblico cordoglio per la morte del missionario laico, che ha incarnato alla lettera il radicalismo evangelico, spogliandosi di ogni bene, lui figlio d’imprenditori edili, e donandosi interamente all’evangelizzazione della città, al ministero dell’accoglienza, al servizio degli ultimi. Ma è un coro unanime quello che al Francesco dei tempi moderni – come da tanti è stato definito – elevano ininterrottamente autorità, politici, fedeli, rappresentanti di altre religioni a partire da quella musulmana.

D’altra parte, quando in giugno era stata diagnosticata a Biagio Conte una neoplasia al colon, accorsero in ospedale al suo capezzale non solo il neosindaco Roberto Lagalla, l’arcivescovo Corrado Lorefice, il cardinale emerito Paolo Romeo. Ma anche l’imam della moschea del Gran Cancelliere Bedri El Maddeni a nome dell’intera comunità islamica di Palermo, che il 1 luglio aveva offerto la preghiera del venerdì proprio per il fondatore della “Missione di Speranza e Carità”.

Eppure, agli inizi non erano state tutte rose e fiori per lui. Quando nel 1991 iniziò a portare soccorso ai senzatetto accampati sotto i portici della Stazione centrale e a inscenare proteste per sensibilizzare ai loro drammi la pubblica opinione, la Chiesa locale era scettica. «Lo consideravano un estraneo», racconta Riccardo Rossi, tra i più stretti collaboratori di fratel Biagio e responsabile della comunicazione della Missione, che oggi nelle tre comunità di via Archirafi (per uomini senza fissa dimora), di via Decollati (per persone immigrate) e di via Garibaldi (per donne senzatetto, single o mamme con bambini) accoglie e assiste circa 800 persone e distribuisce circa 2.400 pasti al giorno. «Ma poi», continua Rossi, «il cardinale Salvatore Pappalardo capì e lo sostenne apertamente, venendo anche a celebrare Messa in stazione».

Incomprensioni non minori anche da parte delle autorità locali. Lo ricorda bene Leoluca Orlando, che, all’inizio del secondo dei suoi cinque mandati da sindaco (1993-2000), decise di dare a Biagio Conte e alla sua missione i locali dell’ex disinfettatoio comunale in via Archirafi. «L’ho fatto convintamente, nonostante la grande diffidenza e le mille obiezioni burocratiche rispetto alla legalità di questo provvedimento, che ho firmato io personalmente», dice Orlando. «Dissi allora in conferenza stampa che era un dovere andare oltre alcuni rigori formalistici, pur nel rispetto della legge. È chiaro che l’agire politico amministrativo comporta dei vincoli. Ma io ho cercato, allora come in seguito, di superarli ogni qualvolta si è di fronte a una legge non coerente al principio costituzionale d’uguaglianza o, addirittura, di fronte a una legge che viola i diritti della persona». Secondo il protagonista della Primavera palermitana, «l’apprezzamento bipartisan della politica, cui assistiamo in questi giorni, trova la sua motivazione nel fatto che Biagio Conte era bipartisan nel suo agire. Lui è stato veramente uno stimolo straordinario a non abbandonare gli ultimi e i poveri, lanciando innanzitutto questo monito alla politica».

Ed è «a una politica non autorefenziale» che il deputato di Italia Viva Davide Faraone correla l’insegnamento di fratel Biagio. «Lui ci ricorda», spiega, «che chi si occupa degli interessi della collettività non può restare sordo al grido dei poveri, degli indigenti, degli emarginati, dei sofferenti. Lui ci ha indicato la strada per uscire da questa profonda crisi dell’umanità, ci ha insegnato che le ingiustizie, la violenza, le povertà vanno combattute, che gli ultimi non possono essere ignorati, non possono essere marginalizzati ancora di più. Questo io l’ho capito attraverso le sofferenze di mia figlia Sara. Ma Biagio Conte continua a ripeterlo a me e a ogni persona col suo esempio di vita donata interamente agli altri».

Nel missionario laico, giova sottolinearlo, la dedizione totale al prossimo si sposò sempre con un rigore ascetico d’altri tempi, l’assoluta fedeltà al Papa, la ferma dolcezza nel richiamo all’osservanza dei comandamenti. Senza però mai scadere nel moralismo né tantomeno in atteggiamenti di condanna, allontanamento, chiusura. Quel suo vivere il Vangelo sine glossa come Francesco d’Assisi lo portò ad accogliere e ad ascoltare tutti con l’immancabile sorriso, che ne illuminava il volto, come spiega Riccardo Rossi: «Fratello Biagio ha sempre avuto questo principio: accogliere tutti. Lui si metteva dei giorni interi ad ascoltare, guardandoti con quei suoi meravigliosi occhi azzurri, che ti entravano dentro. Ma soprattutto ti donava pace, speranza, gioia, indicando poi la strada da seguire, che era quella del Vangelo. Come aveva fatto lui, che sapeva di non poter fate nulla senza Gesù, cui rimase sempre attaccato come il tralcio alla vite».

Ne diede prova, ad esempio, nel 2010, incontrando in via Archirafi Francesca Marceca e il marito Filippo, componenti del locale comitato di Agedo (associazione di genitori di persone Lgbtq+), e il loro referente per l’area psicologica Claudio Cappotto. È Cappotto, oggi docente di Psicologia clinica all’Università di Palermo, che racconta: «Abbiamo parlato con lui di problematiche relative alla discriminazione omolesbobitransfobica soprattutto in famiglia. Ricordo anche che lui è stato molto ascoltante e accogliente. Ha cercato anche di comprendere, avendo parole d’amore». Francesca Marceca ricorda, invece, come «fratel Biagio, pur zoppicando per un problema a un piede, ci volle far visitare la missione. Appesi agli edifici c’erano innumerevoli panni stesi su fili come su barche a vela pronte a partire. Sia l’interno sia gli altri spazi della missione erano affollati di persone bisognose che grazie a lui avevano trovato cibo, abiti, cure, riparo. Biagio ci accolse spalancando le braccia e rispose alle nostre istanze con parole d’amore: Dio ama i vostri figli».

Un segno pubblico al mondo Lgbtq+ il missionario laico l’avrebbe dato cinque anni dopo, intervenendo, il 27 giugno 2015, al Pride di Palermo, dialogando con gli organizzatori e lanciando un appello con queste parole: «Siamo tutti fratelli e sorelle, viviamo tutti secondo i valori e l’amore di Cristo. Basta odio, basta rancore». Al riguardo Paolo Patanè, ex presidente di Arcigay nazionale e all’epoca presidente del Coordinamento del Palermo Pride, dice: «La circostanza in realtà non era stata programmata, ma Biagio aveva incrociato il corteo e, come mi disse con un sorriso splendido e luminoso, aveva sentito di doverci essere perché “tanti cuori avevano qualcosa da dire”. Mi colpì la sua semplicità, perché aveva una dignità altissima di pensiero: nei ragionamenti condivisi con lui mi apparì evidente che attribuisse proprio alla semplicità la forza di disarmare e sgusciare i pregiudizi, le diffidenze, le differenze, e di riconoscere la centralità del bisogno e del diritto di amore di chiunque». Per poi aggiungere: «Lo rividi in altre due circostanze tra il 2017 e il 2018: lui era sempre molto rigoroso sui principi della Chiesa in materia di sessualità, e quindi per me distante su molte questioni, tuttavia possedeva un’apertura e una delicatezza nel confronto che avvolgevano come un abbraccio. Una volta mi capitò di commentare che con lui nessuno si sentiva mai periferia!».

E così s’è comportato fino alla fine il fondatore della Missione di Speranza e Carità. Nel ricordare come avesse «rotto il muro dell’indifferenza con il digiuno e la preghiera, fedele al richiamo evangelico di Matteo 17, 21», Riccardo Rosso indica quale cifra del lascito morale di Biagio Conte le ultime parole rivolte al presidente della Regione Sicilia Renato Schifani: «Non ti dimenticare dei poveri. Costruiamo insieme un mondo migliore».

Riccardo Rossi con Fratel Biagio, durante lo sciopero della fame del 2018 a seguito della morte di alcuni senzatetto nelle strade di Palermo

È scomparso Biagio Conte: quando le sue preghiere hanno toccato anche la città messapica. La Redazione de La Voce di Manduria il 14 gennaio 2023.

L’Angelo dei poveri” è morto. È il missionario Biagio Conte che nel 2016 aveva fatto tappa anche a Manduria prima di raggiungere, a piedi, il Papa Bergoglio. Aveva 59 anni e da tempo era afflitto da una grave forma di cancro al colon, ma lascia in eredità l’esempio di un grande uomo di fede e sacrificio.

Originario di Palermo, Biagio aveva attirato l’attenzione pubblica peri suoi digiuni di protesta contro la povertà e in favore dei più bisognosi. Nell’agosto del 2021 si ritirò in una grotta su una delle montagne che circondano il capoluogo siciliano per protestare contro la società. La sua missione era aiutare attivamente il prossimo e l’ambiente coltivando gli orti, organizzando laboratori di sartoria, falegnameria, cucina, edilizia e tipografia. Il tutto contornato dalla fede per Cristo.

È il manduriano Marco Baldari, proprietario dell’omonima azienda produttrice di vino e olio, che sette anni fa aveva scritto di lui e del suo arrivo prima a Manduria e poi a Lecce, con grande ammirazione: «E’ una persona miracolata, dopo il lungo viaggio a Lourdes ha avuto il miracolo di lasciare la sua sedia a rotelle dove era costretto a stare. Ha deciso di partire a piedi dalla sua città natale che si trova in Sicilia – ha spiegato in un post su Facebook il manduriano -, per arrivare a Roma dal pontefice Papa Francesco e sta arrivando ora a Lecce dopo essere stato a Manduria, siate ospitali e generosi con lui perché sta mandando messaggi di pace e speranza a tutti quelli che lo incontrano. Aiutatelo come potete con acqua e cibo possibilmente». Anche noi del giornale lo ricorderemo con affetto. Marzia Baldari

Estratto dell’articolo di Aldo Simoni per il Corriere della Sera sabato 14 ottobre 2023.

Un'improvvisa crisi cardiaca ha stroncato l'abate emerito di Montecassino, don Pietro Vittorelli. Inutile ogni tentativo di soccorso. Quando sono arrivati i sanitari del 118 era ormai troppo tardi. Aveva 61 anni e si trovava nel suo appartamento romano dove spesso si tratteneva, prima di ritornare a Cassino. Era stato nominato 191esimo successore di San Benedetto il 25 ottobre del 2007 da papa Ratzinger che, due anni dopo, andò a far visita al celebre monastero benedettino.

L'inchiesta sull'8 per mille

Il nome di Vittorelli è legato allo scandalo che investì l’abbazia dopo che la Guardia di Finanza, nel 2015, avviò un'indagine sull’uso dei fondi dell’8 per mille. Finirono sott’inchiesta sia lui che il fratello Massimo, per riciclaggio e appropriazione indebita. In altre parole la Finanza ipotizzò che don Pietro si era appropriato di 588mila euro destinati, invece, alle opere caritatevoli della diocesi di Montecassino. Soldi che provenivano, appunto, dalle donazioni dell’8 per mille. Quei soldi – secondo l’accusa – erano stati invece utilizzati dall’allora abate per viaggi all’estero, soggiorni in alberghi di lusso e cene in locali esclusivi. 

(...)

La rinuncia

Quest’inchiesta ha segnato profondamente il percorso pastorale dell’ex abate che fece un passo indietro e, il 12 giugno del 2013, papa Francesco accettò la sua rinuncia (per motivi di salute) alla guida della celebre abbazia. 

L'amicizia con Marrazzo

Non a caso nel 2009 l’allora governatore del Lazio, Piero Marrazzo, dopo un fitto scambio di telefonate con il suo amico abate, andò in ritiro sul colle di Montecassino a seguito dello scandalo che lo travolse per le sue amicizie trans. «Quest’uomo – disse allora don Pietro Vittorelli – sta compiendo un delicatissimo iter da cui nascerà una persona nuova». E lì, immerso nel silenzio dell’abbazia, Marrazzo rimase per diverse settimane. Un percorso di recupero in cui l’allora abate gli fu sempre vicino. «Piero ha bisogno di riflettere, di ritrovare se stesso», spiegò il suo legale l'avvocato Luca Petrucci, motivando la decisione del governatore di ritirarsi con i monaci benedettini. E anche in questo percorso, don Pietro dimostrò come fossero profonde le sue amicizie con i potenti dell’epoca.

Il Bestiario, il Sinodigno. Il Sinodigno è un animale leggendario che vuole cambiare le regole del gioco perché ha dimenticato ciò che ha di più caro. Giovanni Zola il 4 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il Sinodigno è un animale leggendario che vuole cambiare le regole del gioco perché ha dimenticato ciò che ha di più caro.

Il Sinodigno è un essere mitologico che nasce dal Concilio Vaticano Secondo con l’intenzione di reinterpretare ciò che la Chiesa, a partire dai Vangeli, ha costruito grazie a uomini santi in secoli di prudentissimi studi che hanno definito i pilastri della fede che chiameremo dogmi. Il dogma è una parola dal suono severo perché richiama a una legge divina e immutabile che mal si accompagna con la mentalità odierna del “ognuno fa un po’ come gli pare”. Il Sinodigno, che dovrebbe essere uomo di fede, studiato e avveduto, vorrebbe avvicinare i dogmi ai tempi moderni nel tentativo di piegare l’immutabile al mutevole, scordando che la legge, soprattutto la “Nuova” legge della Rivelazione, non è contro la libertà dell’uomo, ma per la felicità dell’uomo stesso. (Naturalmente per “uomo” s’intende l’intero genere umano composto di uomini e donne. Meglio specificare affinché nessuno si possa sentire offeso).

Il Sinodigno sembrerebbe partire dal desiderio di avvicinare il mondo alla fede, quando al mondo, nella maggior parte dei casi, non importa di credere, ma sentirsi legittimato dalla Chiesa nel proprio comportamento, forse per liberarsi da quell’ultimo senso di colpa che gli morde la coscienza. In questa operazione si ha la sensazione che il Sinodigno non si prodighi solamente per salvare il mondo, ma innanzi tutto sé stesso, cioè abbia bisogno di abbassare il livello della questione per giustificare, passateci il termine, le proprie malefatte e la mancanza di fede.

Ciò che il Sinodigno vuole mettere in discussione, sono temi di poco conto, come la Divina Rivelazione che dovrebbe essere modificata in funzione della nuova visione antropologica; la Confessione che non necessiterebbe del pentimento; lo strumento dello stesso Sinodo che avrebbe la pretesa di essere costitutivo della Chiesa e non solo un organo consultivo. Insomma niente di serio. Ma più in profondità, da dove nasce questa spinta dal basso del Sinodigno?

Ed ecco una parabola per far comprendere anche i più duri di cuore. In quel tempo due squadre calcavano un grande campo da calcio. Gli sfidanti, che volevano vincere ad ogni costo la partita, discutevano sulle regole del gioco con l’intenzione di cambiarle a proprio favore. La diatriba continuò tutto il giorno fino a quando si fece sera. Le due squadre a quel punto arrivarono ad un compromesso che scontentava tutti. Quando fu il momento di giocare però si accorsero che a causa del loro litigare era stato dimenticato ciò che era più importante, il pallone. Così tornarono a casa tristi e amareggiati. Allo stesso modo il Sinodigno, avendo dimenticato Colui che dovrebbe avere di più caro, ha perso l’unica ragione per cui vale la pena vivere.

Tra i nuovi cardinali c'è anche il nunzio che si è tolto la croce per Napolitano. Lo svizzero Tscherrig, reduce dalla cerimonia laica per il presidente emerito, tra i nuovi ingressi nel sacro collegio. Intanto Francesco si prepara al Sinodo. Nico Spuntoni l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Non c'era esattamente la folla delle grandi occasioni ieri in piazza san Pietro per il concistoro con cui Francesco ha creato ventun nuovi cardinali. Sul sagrato, invece, tante le berrette rosse e viola per assistere al rito. Molti cardinali e vescovi sono già a Roma, arrivati da ogni parte del mondo, per partecipare alla prima sessione del Sinodo sulla sinodalità che verrà inaugurata il prossimo mercoledì. Sia l'elenco dei padri sinodali che quello dei nuovi cardinali presenta la forte impronta del Papa che intende dare continuità alle riforme attuate in questo decennio.

Il sacro collegio nel nome di Francesco

Con quello di ieri, Francesco ha eguagliato Giovanni Paolo II: nove concistori, con la differenza che Wojtyła ha regnato per 26 anni mentre Bergoglio è all'11esimo anno di pontificato. In caso di Conclave, sarebbero 136 i cardinali ad entrare in Cappella Sistina, mentre 106 sono i non elettori. Tra questi ultimi c'è anche chi non è ultraottuagenario: il cardinale Angelo Becciu, infatti, pur avendo appena 75 anni continua ad essere indicato nella lista dei non elettori dopo aver perso i diritti del cardinalato tre anni fa. Un'esclusione su cui non tutti i canonisti sono d'accordo e che potrebbe diventare motivo di discussione in un eventuale periodo di sede vacante.

Sono ben 98 i cardinali elettori creati durante l'attuale pontificato, mentre solo 40 sono i "sopravvissuti" dell'era wojtyłan -ratzingeriana. Tuttavia, i concistori di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si caratterizzavano per un maggior equilibrio per ciò che riguarda gli orientamenti dei nuovi cardinali: ad esempio il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco settantenne, ha ricevuto la porpora da Ratzinger a cui non ha lesinato critiche nel corso degli anni. Invece Francesco - con qualche eccezione, soprattutto nei primi concistori - ha voluto che il sacro collegio assumesse l'immagine di quella "Chiesa in uscita" da lui auspicata. D'altra parte, il suo sguardo sulla Chiesa va oltre la durata di questo pontificato come ha dimostrato la battuta ricorrente su Giovanni XXXIV, ovvero il nome che secondo lui il suo successore dovrebbe assumere.

I nuovi cardinali

Francesco li aveva annunciati lo scorso luglio durante l'angelus in piazza san Pietro. Ieri i nuovi cardinali hanno giurato fedeltà ed obbedienza al Papa sul sagrato della Basilica. L'unico assente è stato Luis Pascual Dri, cappuccino argentino 96enne "premiato" per il suo servizio da confessore. Non l'unico connazionale del Papa: a ricevere l'anello anche il gesuita Ángel Sixto Rossi, arcivescovo di Cordoba e Víctor Manuel Fernández, neoprefetto del dicastero per la dottrina della fede. Non c'è solo la nazionalità a legare questi ultimi due prelati a Bergoglio ma un lungo rapporto di amicizia che risale agli anni bonaerensi.

Tra i fedeli in piazza, il nome più applaudito è stato quello di François-Xavier Bustillo, spagnolo di nascita ma arcivescovo di Ajaccio, che ha solo 54 anni ma si è fatto conoscere ed apprezzare per i suoi scritti che denunciano la marginalizzazione di Dio in Occidente. Un suo libro sul ruolo dei sacerdoti, "Testimoni, non funzionari", è stato più volte lodato dal Papa che lo ha fatto regalare ai preti al termine della messa crismale del 2022. Anche ieri, nell'omelia, Francesco si è richiamato al concetto del libro di Bustillo invitandoli ad essere "evangelizzatori evangelizzati, e non funzionari". Applausi dai pochi gruppi al seguito anche per il rettore dei salesiani Ángel Fernández Artime, il vescovo eletto di Setúbal e organizzatore della Gmg di Lisbona Américo Manuel Alves Aguiar, l'arcivescovo di Łódź Grzegorz Ryś, il patriarca di Gerusalemme dei latini Pierbattista Pizzaballa, il vescovo malese Sebastian Francis e l'arcivescovo coadiutore di Tabora, Protase Rugambwa. In piazza, al momento dell'imposizione della berretta al vescovo di Hong Kong Stephen Chow Sau-yan, sono state sventolate bandierine della regione e non quelle della Cina.

Entrano nel sacro collegio anche i curiali Robert Francis Prevost, agostiniano statunitense che guida il dicastero per i vescovi e Claudio Gugerotti, prefetto del dicastero per le Chiese orientali con una lunga e lusinghiera carriera diplomatica alle spalle. Porpora anche per due nunzi apostolici: il francese Christophe Pierre attualmente negli States e lo svizzero Emil Paul Tscherrig che occupa la poltrona principale di Villa Giorgina e si è fatto notare questa settimana per essersi tolto la croce pettorale nella cerimonia di commemorazione del presidente emerito della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano.

Porpora anche per l'arcivescovo di Juba Stephen Ameyu Martin Mulla, l'arcivescovo di Bogotà Luis José Rueda Aparicio, l'arcivescovo di Madrid José Cobo Cano e per i due non elettori Diego Rafael Padrón Sánchez, arcivescovo emerito di Cumaná, e Agostino Marchetto, apprezzato storico del Concilio Vaticano II.

Verso il Sinodo

Nonostante gli abbracci e le congratulazioni che i veterani del sacro collegio hanno scambiato con le new entries, il clima nella Chiesa è tutt'altro che sereno. Parlando del Sinodo, Francesco ha più volte ironizzato raccontando di una sua telefonata ad una suora che gli ha espresso la paura di veder cambiare la dottrina. In realtà, il timore che quella religiosa ha avuto il coraggio di manifestare al Papa in persona è diffuso anche più in alto dopo la pubblicazione dell'Instrumentum laboris. I dubbi riguardano anche l'impostazione del Sinodo in sé che per la prima volta vedrà la possibilità per alcuni laici - scelti dal Papa su indicazione delle Conferenze episcopali - di votare sebbene Paolo VI abbia voluto quest'istituzione come Sinodo dei vescovi, in adesione agli insegnamenti del Concilio Vaticano II. L'opposizione alle istanze che vorrebbero rivedere il catechismo della Chiesa cattolica troverà espressione nel periodo dei lavori sinodali o rimarrà sotterranea?

Un Conclave sempre meno italiano. Il Papa nomina 21 nuovi cardinali. Il primo rettore dei Salesiani e i fedelissimi di Francesco. Fabio Marchese Ragona l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

C'è il cardinale gesuita che arriva dalla lontana Hong Kong, il frate francescano spagnolo che fa il vescovo nella piccola diocesi di Ajaccio, in Corsica, così come il Rettor Maggiore dei Salesiani, spagnolo anche lui e vecchio amico di Papa Francesco che nei prossimi mesi potrebbe esser chiamato in Curia per un delicato incarico di responsabilità. Una novità assoluta, questa, perché mai nella storia della Chiesa il superiore in carica di una congregazione religiosa era stato fatto cardinale. Ma Papa Francesco ha abituato tutti anche a questo: non ci sono schemi millenari che reggano di fronte alla sua visione di una chiesa di strada che deve stare al servizio degli ultimi.

E così anche in questo suo nono concistoro, in cui ha creato 21 nuovi cardinali (18 dei quali elettori), spiccano principalmente i nomi di vescovi che danno voce agli ultimi del mondo, pastori di diocesi sperdute o di chiese dimenticate che ricevono una carezza da parte del Pontefice. Mentre rimangono senza cardinale grandi diocesi come Parigi, Milano, Sidney o Buenos Aires, emergono altre Chiese come quella della Terra Santa ad esempio: un'altra novità è la creazione a cardinale del Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il francescano Pierbattista Pizzaballa, uno dei sedici italiani elettori che potranno entrare in un ipotetico futuro conclave. Secondo le nuove statistiche elaborate dalla Sala Stampa Vaticana, infatti, uno dei dati più particolari che emerge è quello che riguarda l'Italia: il numero dei votanti è stato notevolmente ridotto, basti pensare che nel conclave del 2013 gli italiani elettori erano ventotto. Quello dei cardinali originari dall'Italia rimane comunque il gruppo più numeroso, seguito dagli statunitensi e dagli spagnoli che raccolgono porpore ormai ad ogni concistoro (in questa occasione sono tre).

È chiaro che Francesco, anno dopo anno, sta ridisegnando la mappa del collegio cardinalizio: sono novantanove su centotrentasette i cardinali elettori da lui creati, un numero record se si pensa che il limite fissato da Paolo VI per i votanti è di centoventi e che con questo nuovo concistoro il tetto è stato superato di diciassette unità. «Siate evangelizzatori, non funzionari», ha chiesto il Papa nell'omelia pronunciata ieri mattina in piazza San Pietro davanti ai nuovi porporati, «il collegio cardinalizio sia come un'orchestra sinfonica» dove si ascoltano più voci, perché «se uno ascoltasse solo se stesso, per quanto sublime possa essere il suo suono, non gioverà alla sinfonia, e lo stesso avverrebbe se una sezione dell'orchestra non ascoltasse le altre, ma suonasse come se fosse da sola, come se fosse il tutto». Parole che invitano al dialogo e all'ascolto soprattutto in vista del prossimo Sinodo sulla sinodalità che si aprirà il prossimo 4 ottobre in Vaticano e che chiamerà a raccolta vescovi e laici (uomini e donne) da tutto il mondo per discutere su temi caldi come il diaconato femminile, il celibato sacerdotale, l'accoglienza della comunità lgbtq.

Tra i padri sinodali, che da oggi parteciperanno per tre giorni a un ritiro spirituale, anche alcuni dei nuovi cardinali creati da Papa Francesco. Non soltanto vescovi delle periferie ma anche uomini chiave del governo della Curia Romana: tra i porporati creati ieri mattina c'è, ad esempio, il frate agostiniano Robert Prevost, nuovo prefetto del Dicastero per i Vescovi, religioso di origini statunitensi che si occupa delle nomine dei nuovi pastori e che arriva da un Paese, gli Usa, dove l'episcopato è a maggioranza critico verso Bergoglio. E c'è anche il teologo Victor Manuel Fernandez, argentino e stretto collaboratore di Bergoglio sin dai primi del Duemila e che il Papa ha voluto chiamare in Vaticano come nuovo Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede. Fabio Marchese Ragona 

Quello scandalo che rischia di travolgere il Sinodo del Papa. Nico Spuntoni il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il caso di Marko Rupnik, accusato di abusi, mette contro Vicariato ed ex Sant'Uffizio. Il cardinale Ladaria diserta l'assise di ottobre

Tabella dei contenuti

 Accuse gravissime

 Parlano le presunte vittime

 Colpo di scena

Il cardinale Luis Ladaria Ferrer, fino a poche settimane fa prefetto del dicastero per la dottrina della fede, non parteciperà al Sinodo sulla Sinodalità. Lo ha comunicato lui stesso al Papa, ma sulle motivazioni alla base di questa clamorosa decisione si è molto discusso, al punto che è intervenuta la Sala Stampa della Santa Sede per dire che l'assenza del porporato sarebbe dovuta alla stanchezza e al desiderio di riposo. La notizia, però, arriva pochi giorni dopo l’ultimo colpo di scena nello scandalo che vede protagonista padre Marko Rupnik, teologo e artista sloveno noto in tutto il mondo per i suoi mosaici.

Accuse gravissime

Il caso Rupnik è scoppiato all'inizio dello scorso dicembre a seguito di una serie di articoli pubblicati da organi d'informazione specializzati sulla Chiesa come Silere non Possum e Messainlatino.it a cui si è poi aggiunta la rivista online Left. Queste fonti hanno rivelato l'esistenza di accuse di abusi psicologici e sessuali nei confronti di padre Marko Rupnik, famoso gesuita autore di opere d'arte presenti anche in Vaticano nella cappella Redemptoris Mater.

Nel corso del tempo è emerso che su Rupnik c'erano stati due fascicoli aperti: nel 2020 la Congregazione per la dottrina della fede ritenne credibili le accuse relative all'assoluzione in confessionale da parte del gesuita di una novizia con cui aveva commesso un peccato contro il sesto comandamento. Per questo tipo di comportamenti scatta la scomunica latae sententiae che l'ex Sant'Uffizio comminò al gesuita sloveno ma che fu più tardi rimossa, non si sa ancora da chi.

Nel 2021, intanto, sul conto dell'artista arrivarono nuove accuse di abusi psicologici e non solo che sarebbero stati perpetrati ai danni di suore all'interno Comunità di Loyola di Lubiana negli anni Novanta.

Dopo un'inchiesta ordinata dalla Compagnia di Gesù, la Congregazione per la dottrina della fede ha ritenuto che i fatti fossero caduti in prescrizione ed ha chiuso il fascicolo. Nel frattempo Rupnik era sottoposto a restrizioni alle attività pubbliche e all'amministrazione dei sacramenti da parte del suo ordine, secondo molti non rispettate pienamente.

Parlano le presunte vittime

Lo scoppio dello scandalo ha provocato anche l'esposizione delle presunte vittime che, dopo aver scritto a diverse personalità con incarichi nella Chiesa senza successo, hanno cominciato a rendere testimonianze pubbliche. Una ex suora della Comunità di Loyola ha raccontato a Federica Tourn di Domani di essere stata vittima per nove anni delle violenze psicologiche del gesuita che la avrebbe indotta ad avere rapporti sessuali dopo averle offerto di fare da modella nel suo atelier d'arte.

"Padre Marko all'inizio si è lentamente e dolcemente infiltrato nel mio mondo psicologico e spirituale facendo leva sulle mie incertezze e fragilità e usando al contempo il mio rapporto con Dio per spingermi a fare esperienze sessuali con lui", ha raccontato la donna sostenendo addirittura che Rupnik l'avesse convinta a vedere dei film porno in un cinema a luci rosse e fosse solito a comportamenti blasfemi prima dei rapporti. Di fronte al montare delle accuse, il Vicariato di Roma - in cui si trova il Centro Aletti fondato negli anni '90 dall'artista - optò per una posizione ultra-garantista, con una dichiarazione del cardinale Angelo De Donatis che se la prendeva con la "sconcertante comunicazione, soprattutto mediatica, che disorienta il Popolo di Dio" assicurando collaborazione alla Compagnia di Gesù chiamata per competenza a chiarire i fatti.

La Compagnia di Gesù ha avviato le procedure interne, ricevendo diverse denunce sul conto di Rupnik. Lo scorso giugno i gesuiti hanno comunicato di aver "ritenuto il grado di credibilità di quanto denunciato o testimoniato come molto alto" e, di fronte il "rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza" dell'artista ne hanno disposto la dismissione. Non più gesuita, quindi, ma non ridotto allo stato laicale.

Colpo di scena

Rupnik, però, non è caduto in disgrazia nella Chiesa. Il religioso, infatti, che Francesco chiamò a predicare le omelie quaresimali in Curia nel 2020, è stato difeso nei giorni scorsi dal Vicariato di Roma che aveva disposto una visita canonica nel Centro Aletti, dove risiedeva e che secondo alcune delle presunte vittime sarebbe stato teatro degli abusi subiti.

Nella relazione finale della visita, l'incaricato don Giacomo Incitti non solo ha riscontrato nel Centro Aletti una "vita comunitaria sana e priva di particolari criticità" ma si è spinto ad esaminare le accuse contro il fondatore sloveno fino a sostenere di aver riscontrato "procedure gravemente anomale il cui esame ha generato fondati dubbi anche sulla stessa richiesta di scomunica". La scomunica è quella emessa dall'allora congregazione per la dottrina della fede nel 2020 e poi misteriosamente ritirata subito dopo.

La nota del Vicariato, dunque, è sembrata una bocciatura del lavoro dell'ex Sant'Uffizio all'epoca guidato dal cardinale Ladaria. Un affronto probabilmente non gradito all'ex prefetto che pochi giorni dopo dalla pubblicazione del comunicato ha fatto sapere al Papa di non voler partecipare al Sinodo sulla sinodalità.

Francesco ha parlato solo una volta del caso del suo ex confratello sloveno in occasione di un'intervista a Nicole Winfield di The Associated Press nella quale ha negato di aver avuto un ruolo decisionale nel ritiro della scomunica ed ammettendo soltanto un intervento procedurale in quello che ha definito "un piccolo processo che è arrivato alla congregazione della fede in passato”. Venerdì 15 settembre, però, ha ricevuto in udienza Maria Campatelli, direttrice del Centro Aletti e che ha difeso strenuamente Rupnik dopo la notizia della dismissione dalla Compagnia di Gesù, comunicando in una lettera l'intenzione dell'artista di "uscire dall’ordine, continuando a vivere questo momento nel discernimento e nella comunione ecclesiale".

Tre giorni dopo l'udienza con il Papa, il Vicariato di Roma ha pubblicato la discussa nota che riabilita Rupnik. Quattro giorni dopo la nota, invece, monsignor Luis Marín de San Martín ha annunciato la decisione del cardinal Ladaria - capo del dicastero che scomunicò l'artista sloveno - di non partecipare al Sinodo nonostante la sua fosse una nomina pontificia. Il suo clamoroso passo indietro è l'ennesimo terremoto nella Chiesa che si prepara ad un Sinodo già infuocato prima dell'avvio della fase finale.

Morto monsignor Luigi Bettazzi, il «cristiano di frontiera». Storia di Roberto Gressi su Il Corriere della Sera domenica 16 luglio 2023.

«Sono fedele al Vangelo e alla storia. Un cristianesimo di frontiera che va controcorrente, oltre la dottrina e profondamente evangelico. La spiritualità cristiana si deve incarnare nella storia. L’impegno nel sociale e il dialogo con la politica, insieme alla condivisione di gioie e dolori dell’umano, hanno caratterizzato la mia vita». Potrebbero essere queste sue parole l’epitaffio di monsignor Luigi Bettazzi, morto ad Albiano d’Ivrea a un passo dai cento anni, lui che era nato a Treviso il 26 novembre del 1923, figlio di un esponente del Partito popolare e antifascista. Un secolo. Il primo dopoguerra, sacerdote a 23 anni, la dittatura, l’orrore del secondo conflitto mondiale, la Shoah, la guerra fredda, le rivolte di piazza, il terrorismo, la ricerca continua della pace e del dialogo. Con due nomi su tutti: Aldo Moro e, soprattutto, per la distanza dei punti di partenza, il capo dei comunisti, Enrico Berlinguer. È il più giovane di tutti, quando partecipa al Concilio vaticano II, ultimo testimone di quello straordinario evento. Poco prima della chiusura, con una quarantina di padri conciliari, scenderà nelle catacombe di Domitilla a Roma e firmerà il patto in cui si esortavano i fratelli nell’Episcopato a portare avanti una vita di povertà in una Chiesa serva e povera, seguendo l’insegnamento di Giovanni XXIII. Solo una delle sue «eresie» come ironicamente amava definirle, dalla tolda di Ivrea, dove fu vescovo per 33 anni. Tante altre, le «eresie». L’obiezione fiscale alle spese militari, il sì all’obiezione di coscienza, quando ancora poteva costare il carcere, l’adesione ai movimenti pacifisti, la marcia a Sarajevo, con Pax Christi, nel pieno della guerra civile in Bosnia, fianco a fianco con don Tonino Bello. Ma anche la lettera a Carlo De Benedetti contro i licenziamenti all’Olivetti, il pronunciamento a favore delle unioni civili, fino, di recente, alle parole sull’omosessualità: «Bisogna emanciparsi dai neoplatonici, che facevano coincidere sesso e decadenza dello spirito. Perché non espressione dello spirito umano?». È il 6 luglio del 1976 quando, sorprendendo tutti, il Vaticano di sicuro, ma forse ancor più i comunisti, Luigi Bettazzi scrive una lettera al segretario del Pci. Era appena ieri, per i tempi vaticani, l’anno 1949, quando il Sant’uffizio aveva scomunicato i cattolici che aderivano al marxismo. Lo scalpore fu enorme. «È per amore di dialogo — scriveva — che ora mi rivolgo a lei, e in generale a tutti coloro che hanno dato adesione al suo partito, soprattutto col voto. Penso a quelli che hanno votato per voi e sono cristiani, e non intendono rinunciare alla loro fede religiosa, e che anzi, forse nella sofferenza per la disobbedienza alla gerarchia, pensano così di promuovere una società più giusta, più solidale, più partecipata, quindi più cristiana». E ancora: «Mi scusi questa lettera, che molti giudicheranno ingenua, e non pochi contraddittoria con la mia qualifica di vescovo. Eppure, mi sembra legittimo e doveroso, per un vescovo, aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini». Fu quasi un terremoto. E quella che allora veniva definita «l’altra chiesa», il Pci, rimase a pensare per un anno intero a cosa e come rispondere. La capacità di sorprendere era certamente un’arma dialettica propria anche di Berlinguer. All’indomani del golpe, nel 1973, aveva già affidato a Rinascita un saggio dal titolo «Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile», che lanciava l’idea del Compromesso storico. Ma si dovrà aspettare l’ottobre del 1977 per leggere, sempre su , la risposta del segretario del Pci al vescovo, scritta se non a quattro mani, certo con il consiglio di Franco Rodano. «I comportamenti seguiti dal Pci fino ad oggi — scriveva — penso dovrebbero portarla a riconoscere, signor vescovo, che l’insieme di essi costituisce la valida garanzia che nel Pci esiste ed opera la volontà non solo di costruire e far vivere qui in Italia un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista; ma di volere anche, per diretta conseguenza, uno Stato laico e democratico, anch’esso dunque non teista, non ateista, non antiteista». Seguirono reprimende dell’ Osservatore romano, controrepliche del Pci, timori che Bettazzi si fosse fatto strumentalizzare, così come nella parte del Pci più restia ai cambiamenti si giustificò il segretario pensando che stesse giocando su più tavoli. Fu invece un dialogo vero, per quanto contrastato e difficile. Bettazzi racconterà, quasi quarant’anni dopo: «Berlinguer aveva detto a un sacerdote toscano che avrebbe voluto incontrarmi, ma dovetti rifiutare. Il cardinale Albino Luciani aveva detto pubblicamente che non potevo parlare a nome della Chiesa. Poi incontrai una volta Luciani sul treno per Assisi, che mi intrattenne per un’ora sull’esigenza di non turbare la serenità dei fedeli». E poi Aldo Moro. Ancora una prova terribile per l’Italia tutta e per Bettazzi in quel secolo incredibile che è stato il ‘900. Decise di offrirsi, insieme ad altri due vescovi, Clemente Riva e Alberto Ablondi, in ostaggio in cambio della libertà dello statista, che da lì a poco sarebbe stato assassinato. La trattativa non ebbe seguito, la Curia fu contraria. Erano i giorni anche della struggente supplica di Paolo VI agli uomini delle Brigate rosse. Chissà se, negli anni a venire, si aprirà un processo di beatificazione di Luigi Bettazzi. Verrebbe dire di no. Perché il suo miracolo, quello del dialogo, al quale ha dedicato tutta la sua vita, è rimasto comunque incompiuto.

«Né teista, né ateista, né antiteista». Il carteggio tra Berlinguer e monsignor Bettazzi fu l’inizio del dialogo tra cattolici e comunisti. Mario Lavia su L'Inkiesta il 17 Luglio 2023

Il vescovo di Ivrea, morto il 16 luglio a 99 anni, occupa un posto nella storia delle idee e della politica del nostro paese. Nel 1976 scrisse una lettera allo storico segretario del Pci per trovare dei punti di contatto e superare i rispettivi pregiudizi

Lo scambio di lettere tra monsignor Luigi Bettazzi, il vescovo di Ivrea spentosi l’altra notte alla fatidica soglia dei cento anni, e il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer (1976-1977) è uno dei fatti politico-culturali più importanti dell’ultimo mezzo secolo. Stiamo parlando di un’altra Italia rispetto a quella di oggi. Gli steccati tra cattolici e comunisti – le due grandi “chiese” italiane – erano stati sempre alti soprattutto a livello religioso e dottrinario (sul piano strettamente politico le cose furono, diciamo così, più dinamiche) ma da entrambe le “chiese” veniva avanti ormai da almeno un decennio un avvicinamento lento, un parlarsi guardingo, uno sfrondare antiche inconciliabilità. 

Il Concilio Vaticano II aveva aperto nuovi orizzonti e dall’altra parte l’ultimo Palmiro Togliatti, soprattutto col discorso di Bergamo del 1963, si era interrogato sul «destino comune» dinanzi al pericolo atomico. Berlinguer era andato oltre, spinto dal suo consigliere ideologico Franco Rodano, grande intellettuale diremmo oggi catto-comunista se il termine non suonasse dispregiativo, e dal suo segretario particolare, il cattolico Antonio Tatò.

Ma fu monsignor Bettazzi a prendere l’iniziativa: «Onorevole – scrive il vescovo di Ivrea il 6 luglio 1976 (due settimane prima il Partito comunista italiano aveva preso il trentaquattro per cento dei voti alle elezioni, ndr) Le sembrerà forse singolare, tanto più dopo le ripetute dichiarazioni dei vescovi italiani, che uno di loro scriva una lettera, sia pure aperta, al Segretario di un partito, come il Suo, che professa esplicitamente l’ideologia marxista, evidentemente inconciliabile con la fede cristiana. Eppure mi sembra che anche questa lettera non si discosti dalla comune preoccupazione per un avvenire dell’Italia più cristiano e più umano». 

Bettazzi fa un discorso molto giovanneo: «Tanti, soprattutto operai, immigrati, diseredati, guardano a voi come a una speranza di rinnovamento, in una società in cui essi non trovano sicurezze per il loro lavoro, per i loro figli, per una loro sia pur minima influenza nelle decisioni che coinvolgono tutti. Penso a quelli che hanno votato per voi e sono cristiani, e non intendono rinunciare alla loro fede religiosa, che anzi – forse nella sofferenza per la “disobbedienza” alla gerarchia – pensano così di promuovere una società più giusta, più solidale, più partecipata, quindi più cristiana». Dunque Bettazzi cerca di capire le ragioni del successo del Pci anche tra i cattolici e ritiene di intravederle nella aspirazione dei deboli a una società migliore, in oggettiva convergenza con il pensiero conciliare, aspirazione talmente forte da porre in secondo piano gli aspetti più stringenti dell’ortodossia (di qui la “disobbedienza” – si notino le virgolette – alla gerarchia). 

Insomma una mente illuminata come quella del vescovo di Ivrea comprende forse anche con un tocco di meraviglia che nella realtà storica certi steccati religiosi sono di fatto già saltati forse anche perché il Pci «sembrerebbe tendere a realizzare un’esperienza originaria di comunismo, diversa dai comunismi di altre nazioni», scrive riferendosi alle recenti affermazioni di Berlinguer, prima di inviargli la richiesta di «una particolare coerenza» a proseguire sulla strada del rinnovamento ideologico avendo cura di superare atteggiamenti e condotte antireligiose che vivevano soprattutto nella base comunista. Bettazzi sceglie un atteggiamento che rifiuta di lasciarsi dominare da timori legati a esperienze passate, si mostra sensibile ai fermenti operanti nel presente, è aperto a una ragionevole speranza per il futuro, e, più in radice, è fiducioso nell’uomo e nella sua naturale capacità di aprirsi al bene. 

Il segretario del Pci risponde dopo un anno (e se ne scusa) forse aspettando il maturare degli eventi politici nel senso di un ulteriore intensificazione del dialogo con la Dc e con Aldo Moro in particolare, un percorso, come ormai sappiamo, piuttosto difficile. E certamente Berlinguer avrà istruito il lavoro per la risposta al vescovo con un lungo lavoro che coinvolse altre personalità del mondo cattolico, tra le quali probabilmente i cattolici eletti nelle liste del Pci come indipendenti, una questione che aveva allarmato settori della Chiesa. E alla fine coglie ben volentieri la sollecitazione del vescovo di Ivrea. 

La risposta è molto articolata. È evidente che la scrittura è la sua così come sono chiaramente suggeriti certi riferimenti “alti”: ed è eminentemente una risposta politica tutta tesa ad affermare la laicità del partito e a confermare non solo l’interesse verso le pulsioni più aperte del cattolicesimo così come scaturivano dal Concilio, dalla Pacem in terris e poi alla montiniana Gaudium et spes ma anche la necessità, ideale e storica, di un incontro tra cattolici e comunisti, che d’altronde era il succo del compromesso storico elaborato nel 1973. 

È il Berlinguer che sulla scorta di Rodano legge le ultime elaborazioni di Giovanni XXIII e – meno – Paolo VI secondo una lente anticapitalista, quella che accomuna per lui cattolici e comunisti. Non mancano gli aspetti rassicuranti esposti con tono diciamo così definitivo: «Per quanto riguarda il Pci – scrive Berlinguer – Lei non troverà mai in noi, signor Vescovo, le astrattezze settarie o il freddo statalismo di certi ministri francesi della fine del secolo scorso, quali un Ferry o un Combes. Per quanto riguarda i cattolici e le loro organizzazioni, il nostro auspicio è che essi, invece di farsi soltanto i custodi gelosi delle loro istituzioni, soprattutto si impegnino e partecipino al buon funzionamento democratico e al rigore economico dei fondamentali servizi di una società democratica. Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera tale da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società “cristiana” o uno Stato “cristiano”: e non già perché siamo anticristiani, ma solo perché sarebbero anch’essi una società e uno Stato “ideologici”, integralisti».

È questo il Pci «né teista, né ateista, né antiteista». Laico e non laicista. Dalla lettera di Bettazzi insomma Berlinguer trae ulteriori motivi per insistere sulla strategia del compromesso storico preparando ulteriori strappi sulla strada del revisionismo ideologico: nel 1979 il XV Congresso del Pci abolirà (con qualche anno di ritardo) il riferimento al marxismo-leninismo, premessa per la rottura definitiva con il comunismo sovietico (1981). 

Ecco dunque perché la figura di monsignor Luigi Bettazzi occupa un posto di assoluta importanza nella storia delle idee, se possiamo dir così, oltre che nella stretta vicenda politica: la sua lettera a Enrico Berlinguer resta un snodo di altro valore culturale e morale nella vicenda italiana.

Estratto dell’articolo di Michele Brambilla per “la Repubblica” l'11 maggio 2023.

Il suo sangue è per metà romano — anzi, vaticano — e per metà brianzolo. La Santa romana Chiesa e la Brianza bianca: poteva non diventare prete uno così? E beato lui che ci crede fin dalla nascita, diciamo noi laici che tanto vorremmo una fede certa, che ci metta al riparo dall’angoscia. 

Perché se Dio esiste c’è l’happy end. Ma è così davvero? Cioè: davvero c’è gente che ha il dono di non dubitare mai? Il cardinale Matteo Zuppi, 67 anni, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, sorride come per dire: no, non è così. Dopo ce lo spiegherà meglio.

[…] Lei da bambino pensò: “Da grande farò il prete”?

«Pensarci sì, deciderlo no. Facevo il chierichetto alla Curia Generalizia dei Gesuiti». 

[…] Quando si decise?

«All’università. Avevo incontrato la Comunità di Sant’Egidio e ne ero stato coinvolto. C’era una passione viva, radicale, spirituale e umana». 

Mai avuto dubbi sulla sua vocazione?

«Certo che sì. Il confronto con la propria debolezza e il peccato c’è sempre. Ma ero in una compagnia, un popolo sacerdotale e di laici molto impegnato. Questo mi ha aiutato molto perché la Chiesa è comunione». 

Si è mai innamorato?

«Sicuramente. Ma ero più innamorato di Gesù. Non ho dovuto lasciare nessuna!». 

E dubbi di fede? Molti pensano che uno che si fa prete ha la vocazione, quindi una certezza, quindi beato lui.

«È una visione sbagliata, purtroppo qualche volta confortata quando abbiamo pensato che la santità significasse un modello perfetto, senza umanità, tanto da essere quasi disumana». […] 

Com’è la giornata di un prete?

«Le posso dire la mia. Per fortuna non ho mai vissuto da solo. E vivere con altri sacerdoti e con gli amici, consumare almeno un pasto al giorno con loro, camminare insieme è stato molto importante».

Sveglia alle 6?

«Un po’ prima». 

A che ora si chiude?

«Verso mezzanotte. Insomma qualche volta anche un po’ più tardi. Per fortuna che sono vecchiarello e dormo poco». […] 

Ascoltare chi?

«La parola di Dio e il prossimo. Le racconto un episodio. Ero alla parrocchia di sant’Agata, qui a Bologna, e avevo finito la visita pastorale, stavo tornando a casa. Un bambino mi avvicinò e mi disse: “Vieni a trovare mia zia?”. 

La tentazione fu quella di dire no, non posso, devo andare. Poi pensai all’insegnamento di Gesù: mai contristare i bambini. E allora gli dissi: “Va bene, andiamo a trovare la zia”. Mi portò sulla sua tomba: era morta tre mesi prima. In quel momento mi tornò in mente una volta in cui non mi ero comportato così».

Ce la racconti.

«Ero a Roma e stavo facendo il giro della benedizione delle case. Un signore mi disse: “Io ce l’ho con lei”. “E perché?”, gli chiesi. “Tempo fa venni a cercarla, le dissi che era morta mia figlia e lei non mi ascoltò”. Io sinceramente non mi ricordavo. Facemmo la pace. Ma quell’episodio mi interrogò duramente. Capii come si può ferire anche solo con la sufficienza o il paternalismo». 

Il prete deve essere “di strada”?

«Il prete è sempre di strada. A dire il vero lo siamo tutti, solo che pensiamo di essere di appartamento! Qualcuno cantava che il giudizio universale non passa per le case! Il cristiano è sempre di strada. Gesù non sta nei palazzi! Anche quando amministra una diocesi. […]». 

Molti preti dicono: se vado in Vaticano rischio di perdere la fede. Perché il Vaticano gode di così cattiva fama?

«È un’idea sbagliata. In Vaticano c’è sempre stata una buona norma: chi ci lavora dentro deve lavorare anche in parrocchia. Il cardinal Casaroli tutte le domeniche celebrava la messa nel carcere minorile e conosceva tutti i ragazzi per nome». 

Però gli scandali, i conflitti intestini...

«Ci sono stati, certo: ma la Chiesa non è la comunità dei perfetti. È fatta di uomini, e gli uomini sono peccatori. Però il Vaticano non è una banda di mascalzoni. Casta meretrix ».

Che cosa pensa delle accuse a Wojtyla sul caso Orlandi?

«Che sono inqualificabili. Mi spiace dirlo, ma chi le ha pronunciate così perde credibilità. Certe ricostruzioni forse sono frutto di un cuore ferito. Tanta vicinanza alle ferite: ma queste non giustificano le calunnie». […]

Don Minzoni, prete battagliero e l’ultima pagina del suo diario

risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

 Caro Aldo,

ho appreso che quest’anno ricorre il centesimo anniversario dell’uccisione di don Giovanni Minzoni da parte di bande fasciste nel Ravennate. Ho pure saputo che la Chiesa locale ha iniziato l’iter per farlo dichiarare beato. Mi pare, però, che sia una figura poco conosciuta, sia dagli stessi cattolici sia dalla società italiana. Eppure, un prete ammazzato di botte dai fascisti nel 1923 non era un fatto «normale». Cosa mi sa dire di questo sacerdote?

Aldo Pini, Ponte di Legno (Brescia)

Gentile signor Pini,

Tra le colpe del Duce c’è aver distrutto una classe politica a suon di bastonate — si pensi solo ai cattolici: don Sturzo costretto all’esilio, De Gasperi e Gronchi fuori gioco per vent’anni, don Giovanni Minzoni assassinato — per sostituirla con un ceto mediocre (tranne qualche eccezione), ottuso e xenofobo, autoritario e violento, selezionato in base all’obbedienza e non all’intelligenza. Don Minzoni era un sacerdote battagliero. Il padre aveva una locanda. Lo zio era prete. Lui entra in seminario a dodici anni, e ne esce sacerdote. In terra di socialisti, capisce subito che per riportare la gente in chiesa deve stare in mezzo al popolo. Con la sinistra ha un rapporto competitivo: non vuole che i lavoratori abbandonino la fede per passare dall’altra parte. Così fonda cooperative bianche di braccianti e di operai, in concorrenza con quelle rosse. Aderisce alle idee moderniste di don Romolo Murri, e resta deluso quando papa Pio X lo scomunica. Patriota convinto, nella Prima guerra mondiale don Minzoni è tenente cappellano militare: nella battaglia del Solstizio, quando nel giugno 1918 gli italiani rintuzzano sul Piave l’ultimo attacco austriaco, è in prima fila a soccorrere i feriti e confortare i morenti: viene insignito della medaglia d’argento al valor militare, di cui andrà sempre fiero. Da parroco si inventa il doposcuola, i circoli ricreativi, il teatro parrocchiale, la biblioteca circolante, e fonda due sezioni dei boy scout. È un uomo buono, un sacerdote attivo nel sociale, un mite. Proprio per questo i fascisti gli fanno orrore. La giunta socialista di Argenta è costretta a dimettersi a suon di manganellate. Natale Gaiba, consigliere comunale, viene bandito dal paese, ma rifiuta di andarsene e tenta di riorganizzare il partito. I fascisti lo catturano, lo portano in campagna, lo massacrano a bastonate, lo finiscono con due colpi di pistola. Quando lo viene a sapere, don Minzoni, furibondo, sbatte la porta della canonica, va a larghi passi verso il bar della piazza dove si riuniscono i fascisti e grida: «Siete dei criminali! Dovrete render conto davanti a Dio!». Lo aspettarono per strada, di notte, gli sfasciarono la testa a bastonate. Sull’ultima pagina del suo diario, il sacerdote aveva scritto: «A cuore aperto, con la preghiera che mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo».

Don Mazzi: «A 20 anni odiavo i sacerdoti, un po’ li detesto ancora. Con Corona e Lele Mora ho solo perso tempo». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 6 aprile 2023.

Il prete: «Ho vissuto la morte di mio papà come un’ingiustizia da parte di Dio. Il Vaticano andrebbe svuotato. Se non esistesse, la Chiesa andrebbe meglio»

A 93 anni, don Antonio Mazzi confessa di non sentirsi vecchio. «Mi sono solo rotto le scatole. Fatico a infilarmi le calze e a vestirmi». Della salute non si preoccupa: «Mi hanno rimosso un tumore dalla testa, fatto l’angioplastica alle coronarie, messo il pacemaker, sono quasi cieco dall’occhio destro per una maculopatia. Ma finché il Capo non alza il telefono... La morte è diventata una compagna di vita».

Che cosa le ruba più tempo?

«La scrittura con carta e penna: testi per tre giornali, un libro appena uscito, due in cantiere. La lettura: cinque quotidiani al giorno. I ragazzi di Exodus che vengono a confidarsi, ma sono la mia vita».

Credevo la preghiera.

«Quella è “nel” tempo. Non me lo porta via. È diverso».

Ha chiesto udienza al Papa.

«Mi ha convocato lui, tramite la segreteria di Stato. Non a Casa Santa Marta, ma nel Palazzo apostolico, dove riceve la gente seria, infatti dopo di me c’era l’ambasciatore del Giappone, Seiji Okada, in visita di congedo. È la terza volta. Lo conobbi a Buenos Aires quand’era cardinale».

Lei vuole esiliarlo in Africa.

«No, spedirei laggiù i cardinali, a pulirsi le scarpe. Invece Francesco ad Assisi con il suo bastone. Il Vaticano va svuotato e bruciato. Se non esistesse, la Chiesa andrebbe molto, molto, meglio».

Che cos’ha chiesto al Papa?

«Di istituire la Giornata degli adolescenti e di scrivere una lettera ai padri. Non mi ha risposto né sì né no. Ma lo sguardo parlava da sé».

Se lei avesse un figlio che si taglia di proposito gambe e braccia, che farebbe?

«Piangerei insieme a lui».

A che età gli metterebbe in mano uno smartphone?

«Quando me lo chiede».

Quindi anche a 10 anni?

«Glielo darei. Gli spiegherei come usarlo. Così come gli insegnerei ad andare in bici».

Dalla bici non esce il porno.

«Meglio la bici, concordo. Il sesso non è un gioco. Non accetto che diventi un vizio».

La pedofilia è molto peggio.

«I futuri preti dovrebbero vivere fuori dai seminari fino ai 18 anni. Chi passa la prima parte della vita in un luogo chiuso, avrà dei problemi. L’adolescente deve combinare i suoi pasticci. Non mi fido di chi fa sempre il bravo».

Disse l’attempato discolo...

«Avevo 10 mesi quando mio padre morì. Mia madre non l’ho mai sentita vicina. Le dicevo: lascia in pace papà, non c’è più, pensa ai tuoi due figli. Aveva una bella voce, ma non cantava mai. Vestiva di nero come le donne del Sud in lutto perpetuo. Mi mandò dai Buoni Fanciulli del futuro san Giovanni Calabria».

E diventò prete calabriano.

«In terza media fui bocciato per cattiva condotta. La sera mi mettevano in ginocchio in mezzo al refettorio perché durante il giorno avevo parlato in dialetto. La mamma veniva convocata dai professori e piangeva, piangeva. L’ho sempre fatta soffrire».

Una specie di Franti.

«Oggi si direbbe bipolare».

Le pesa il celibato?

«Per me il matrimonio sarebbe stato una schiavitù. Da prete sono libero di amare il mondo. La castità è un valore, ma dev’essere facoltativa».

È favorevole alle unioni gay?

«Accetto la convivenza, non il matrimonio. I figli hanno un padre e una madre».

Papa Francesco nel 2016 disse che insegnare la teoria del gender «è contro le cose naturali». È d’accordo?

«Ni. Non so se “contro” sia la preposizione più indovinata, ma non ne trovo un’altra. Mi dichiaro dubbioso».

Come le sembra Elly Schlein, neosegretaria del Pd?

«Mi è simpatica».

Dei sette vizi capitali, a quale ha ceduto di più?

«Me li devi dire». (Subito anticipa la risposta). «Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia. Il terzo è il più antipatico. Mortifica il corpo, capolavoro di Dio».

Pensavo l’ira, tant’è focoso.

«Nervoso, più che altro. È diverso da rabbioso».

Che cosa la rende nervoso?

«Le situazioni dei ragazzi».

Tollera le droghe leggere?

«Non esistono. Gli spinelli sono totalmente diversi rispetto a 20 anni fa. Distruggono. Perciò sono contrario».

In che differisce il metodo Mazzi dal metodo Muccioli?

«Vincenzo era un grand’uomo. Ragionava così: piuttosto che si perdano, li rinchiudo a San Patrignano. Io invece ho sempre lasciato le porte aperte. Se vuoi andartene, va’. Conta di più la vita o la libertà? Grande domanda, eh!».

Qual è il peggior peccato?

«La disperazione».

Fabrizio Corona sparla delle comunità Exodus. Perché?

«Ah, non lo so. Pirla era e pirla è rimasto. Si crede la divinità di sé stesso, non vi è nulla di autentico in lui. Corona e Lele Mora mi hanno solo fatto perdere tempo».

È stato impietoso con Pietro Maso: «Era una bestia e non è cambiato per niente».

«Bestia è una parola grossa, lo ammetto. Però ribadisco che per me non è cambiato. Il Padreterno ci ha dato 32 denti, ma io li ho persi tutti in un incidente, perciò la lingua non mi s’impiglia».

Qual era la prima emergenza che affrontò da giovane?

«La povertà. Novembre 1951, alluvione del Polesine, più di 100 morti. Salii come volontario sul barcone dei vigili del fuoco che salvavano i bimbi aggrappati ai tetti delle case. La mia vocazione nacque lì, durante la piena del Po. Ho ancora nelle orecchie il rombo delle acque. Mi rivedo nel buio, squassato dalle onde, con gli orfani stretti al petto».

Non era ancora sacerdote.

«Ma io sarei voluto diventare organista, non prete. Studiavo al conservatorio di Verona. Li odiavo, i sacerdoti. E un po’ li detesto ancora adesso. Non sono cambiati per niente, sai? Quando chiesi al vescovo di Ferrara di ordinarmi, rispose: “Balordo come sei? Prima devi convertirti!”. Non l’ho ancora fatto».

Oggi l’emergenza qual è?

«La superficialità».

Da dove nasce?

«Dal benessere».

Il malessere del benessere.

«Il peggiore dei malesseri. La società del benessere non sarà mai né bella né buona».

Gli italiani non fanno figli.

«È un Paese di egoisti. Un figlio non è come portarsi a casa un cane, richiede infinita pazienza. Ma non metterlo al mondo attiene più alla paura che alla cattiveria».

Come fa a parlare di Dio a giovani inebetiti dalla droga, dal consumismo, dai social?

«Si parla di Dio parlando bene dell’uomo. È che noi parliamo male dell’uomo e quindi anche di Dio».

Se fossi ateo, come mi convincerebbe che Dio esiste?

«Non perdo tempo a convincerti. Ti guardo negli occhi. Le persone non si salvano con i ragionamenti».

Mi dice qualcosa che non ha mai rivelato a nessuno?

«La morte di mio padre Ugo è stata la peggiore disgrazia della mia vita. Mi ha segnato in maniera irreparabile. L’ho vissuta come un’ingiustizia da parte di Dio. Papà era ferroviere, una broncopolmonite lo uccise a Valdobbiadene. Venne sepolto là. Non ho mai visitato la sua tomba. Mi è sempre mancato il coraggio di andarlo a trovare. Volevo immaginarmelo vivo».

Ma è davvero sicuro che lo potrà vedere nell’aldilà?

«Spero che ci sia un papà. Il Padre nostro. Sento ancora fortemente questo bisogno di un genitore. Il mio rimpianto di figlio è più grande del mio desiderio di vivere».

Oltre 5mila euro al mese. Ecco gli stipendi degli uomini di Chiesa. Tra stipendi bassi per i preti diocesani e tagli per quelli curiali, la Chiesa non se la passa bene. Ma il numero dei cardinali è record. Nico Spuntoni il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

"Non si può governare la Chiesa con le Ave Maria", sosteneva monsignor Paul Marcinkus. Era vero allora, nel 1986, quando l'allora presidente dello Ior pronunciò questa massima in un'intervista a The Observer ed è vero anche oggi.

Quanto guadagnano i preti?

In Italia, secondo dati risalenti al 2020, sono 31.793 i sacerdoti. Lo stipendio è loro garantito dall'ente ecclesiastico presso cui svolgono servizio - come ad esempio la parrocchia - o in alternativa dall'Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero. Quest'ultimo, eretto dalla Conferenza Episcopale Italiana, si occupa integralmente della remunerazione dei preti che non hanno altro stipendio mentre integra quella di quei ministri che svolgono già un'attività. C'è differenza, dunque, tra quanto percepisce un parroco ed un prete senza incarichi pastorali: il calcolo dello stipendio del primo è basato su un sistema a punti ed è di media di circa 1.200 euro al mese. Il sacerdote appena ordinato, invece, percepisce circa 1.000 euro lordi, poco più di 800 euro netti.

Suore e frati senza stipendio

Discorso diverso per i religiosi. Suore e frati, infatti, non hanno diritto ad alcuno stipendio ed il loro sostentamento dipende per intero dall'ordine d'appartenenza. Anche eventuali introiti derivanti da attività esterne dovrebbero confluire nella cassa comune della congregazione. L'istituto religioso, dal canto suo, ha l'obbligo di provvedere in vecchiaia ed in malattia a chi ha fatto professione religiosa.

Cardinali più poveri

La narrativa sui cardinali privilegiati che vivono in appartamenti super-lusso, così di moda nell'ultimo decennio in alcuni filoni giornalistici, è stata pesantemente colpita dalle disposizioni prese durante l'attuale pontificato. Dal 1 aprile del 2021, infatti, i porporati di Curia hanno dovuto accettare un taglio del 10% del cosiddetto piatto cardinalizio che arrivava ad essere di 5.500 euro al mese. La mannaia di Francesco si è abbattuta Oltretevere anche sulle retribuzioni degli alti prelati che ricoprono ruoli di capi dicastero e segretari che si sono visti sforbiciare dell'8% i loro precedenti stipendi, mentre per gli altri sacerdoti in servizio in Curia il taglio è stato del 3%.

La stretta sulle case

Due anni dopo, Francesco ha voluto continuare questa opera di spending review sulle tasche dei prelati in Curia e la scorsa settimana ha deciso che d'ora in poi non ci saranno più affitti agevolati per loro. Con un Rescriptum firmato dal nuovo prefetto della Segreteria per l'Economia, Maximino Caballero Ledo, il Papa ha imposto che gli enti della Santa Sede proprietari degli immobili chiedano ai cardinali, vescovi e preti di Curia "prezzi normalmente applicati nei confronti di quanti siano privi di qualsiasi" incarico in Vaticano. Considerando che la maggior parte delle case abitate dal clero che svolge servizio in Curia si trovano tra Borgo Pio, Prati e Via Gregorio VII dove i prezzi del mercato immobiliare son piuttosto alti, è facile comprendere quanto questo provvedimento andrà ad influire sulle tasche dei dipendenti vaticani in tonaca o clergyman. Anche perché, se è vero che i cardinali possono contare sul piatto cardinalizio da cui vanno tolte le spese per il personale - quasi sempre religioso - che hanno a servizio nelle loro case e le spese per i lavori di ristrutturazione una volta preso possesso degli appartamenti, è anche vero che gli stipendi per le mansioni meno importanti in Curia non sono così esorbitanti come si tende a pensare. Non a caso, fino ad oggi, il canone basso veniva applicato perché considerato un'integrazione del salario.

Troppi cardinali?

La decisione sulle case è stata presa "per far fronte agli impegni crescenti che l’adempimento al servizio alla Chiesa Universale e ai bisognosi richiede in un contesto economico quale quello attuale, di particolare gravità”. Così come il motu proprio per il contenimento delle spese del marzo 2021 era stato preso per "assicurare la sostenibilità e l’equilibrio tra entrate e uscite nella gestione economica e finanziaria corrente".

In questi anni Francesco non ha rinunciato alla creazione di nuovi cardinali al punto che nell'ultimo concistoro, quello di agosto 2022, il numero degli elettori era arrivato a 132, quindi 12 in più il limite di 120 che era stato fissato da Paolo VI nella costituzione apostolica Romano Pontifici Eligendo e poi confermato da Giovanni Paolo II. Ad agosto scorso, il Papa aveva annunciato la creazione di 21 nuovi cardinali, poi diventati 20 per il passo indietro del belga ultraottantenne Lucas Van Looy a seguito dell'accusa di aver coperto un sacerdote coinvolto in uno scandalo abusi. Attualmente sono 223, tra elettori e non elettori, i membri del collegio cardinalizio. Ci saranno nuovi concistori nel 2023 o l'esigenza di spending review spingerà Francesco a rinunciare all'assegnazione di nuove porpore?

Papa Francesco, basta affitti gratis o scontati ai cardinali. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

Con un «rescriptum» il Pontefice ha disposto l’abrogazione dei privilegi per gli immobili degli enti abitati questo «per far fronte agli impegni crescenti nei confronti dei bisognosi».

Papa Francesco ha disposto l’abrogazione dei privilegi relativi al patrimonio immobiliare.

In pratica con un «rescriptum» il Santo Padre ha imposto ai cardinali e a tutte le figure apicali della Santa Sede di pagare l’affitto degli immobili dove vivono di proprietà degli enti, oppure di rinunciare a condizioni di particolare favore.

Si parla oltre che di cardinali, di capi dicastero, presidenti, segretari, sottosegretari, dirigenti. Lo ha reso noto il portale del Vaticano, spiegando che tale decisione è stata presa «per far fronte agli impegni crescenti che l’adempimento al servizio della Chiesa Universale e ai bisognosi richiede un contesto economico quale quello attuale, di particolare gravità».

In base a questa disposizione, gli Enti proprietari degli immobili dovranno perciò praticare i prezzi normalmente applicati nei confronti di quanti siano privi di incarichi di qualsiasi tipo nella Santa Sede e nello Stato della Città del Vaticano.

Anche le Domus dovranno applicare le ordinarie tariffe stabilite dal proprio organo amministrativo. Il provvedimento non ha valore retroattivo, ma dopo la naturale scadenza dei contratti possono essere prorogati o rinnovati solo nel rispetto della nuova disposizione.

Estratto dell'articolo di Emiliano Fittipaldi per “Domani” l’1 marzo 2023.

Il documento firmato dal prefetto Maximino Caballero Ledo è già arrivato a qualche capo dicastero e a tre illustri cardinali, ed è affisso in bella mostra nel cortile di san Damaso, vicino il palazzo apostolico. Ma, promettono dalla segreteria dell’Economia, presto verrà consegnato brevi manu a tutti coloro che vivono nelle case di proprietà del Vaticano o di un ente che fa riferimento diretto alla Santa sede.

 Il rescriptum scoperto da Domani contiene un messaggio semplice, che arriva direttamente da papa Francesco: tutti gli inquilini devono cominciare a pagare affitti adeguati. In caso contrario, dovranno lasciare gli appartamenti alla scadenza del contratto.

Il match “papa Francesco vs curia romana”, cominciato nei primi giorni del pontificato, si arricchisce dunque di un nuovo round. Che va a toccare un argomento assai sensibile all’opinione pubblica: quello dell’immenso patrimonio immobiliare del Vaticano, e dell’uso scandaloso che ne viene fatto da lustri da parte di principi della chiesa, di prelati potenti e laici ammanicati.

 […]

 In dieci anni di pontificato, nonostante le inchieste e le denunce, poco o nulla è cambiato dell’andazzo. Ora, l’apparente svolta. Il neo prefetto della Spe (il ministero dell’Economia vaticano) ha infatti firmato un rescriptum ex audientia, in cui segnala come «nell’udienza concessa al sottoscritto Caballero Ledo, in data 13 febbraio 2023, il santo padre per far fronte agli impegni crescenti che l’adempimento al servizio della chiesa universale e ai bisognosi richiede in un contesto economico quale quello attuale, di particolare gravità, mi ha manifestato che tutti facciano un sacrificio straordinario per destinare maggiori risorse alla missione della Santa sede. Anche incrementando i ricavi della gestione del patrimonio immobiliare».

 Per farlo, il prefetto spiega che tutti i privilegi finora accordati dai predecessori di Bergoglio o dai vertici degli enti (come l’Apsa o la congregazione Propaganda fide, i massimi gestori del mattone vaticano) ai fortunati inquilini che vivono gratis in case da 400 o 500 metri quadri sono da oggi carta straccia.

 «Il santo padre ha disposto l’abrogazione di tutte le disposizioni, da chiunque e in qualunque tempo emanate, che consentano o dispongano il godimento ai cardinali, capi dicastero, presidenti, segretari, sotto segretari, dirigenti, uditori del tribunale della Rota Romana, degli immobili di proprietà di istituzioni curiali, e degli enti che fanno riferimento alla Santa sede, comprese le domus, gratuitamente o a condizioni di particolare favore», si legge nel rescriptum.

 Non solo. Visto che è tradizione antica che coloro che vengono convocati in Vaticano a svolgere mansioni curiali paghino per l’alloggio di servizio cifre irrisorie o addirittura il becco di un quattrino, il papa fa «divieto a tutti gli enti di erogare ai medesimi soggetti il cosiddetto  “contributo alloggio” o contributi aventi la medesima finalità».

 Per essere ancora più chiaro, il prefetto chiarisce che saranno vietati «contributi di qualunque entità o forma aventi finalità di compartecipazione dell’ente al canone di locazione o, in generale, alle spese per l’alloggio».

[…] Il problema è che i cinquemila appartamenti dell’Apsa disseminati nella capitale, e le centinaia di case e attici delle varie congregazioni talvolta vengono affittati a tariffe assai più basse rispetto al loro valore reale.

 Non solo a prelati, ma anche a politici, giornalisti, agenti dei servizi segreti, lobbisti e raccomandati assortiti. «Anche le domus (cioè le strutture che ospitano ecclesiastici in servizio, il personale diplomatico, i presbiteri in visita al papa, come la domus Sanctae Martae o la Romana Sacerdotalis, ndr) dovranno applicare ai medesimi soggetti le ordinarie tariffe stabilite dal proprio organo amministrativo», aggiunge il prefetto.

[…] Solo in casi particolarissimi chi vive gratis nelle case vaticane potrà mantenere il privilegio: «Il santo padre ha infine disposto che qualsiasi eccezione alla presente normativa dovrà essere da Egli direttamente autorizzata».

 Sarà Francesco, dunque, a decidere se ci saranno cardinali che continueranno a non pagare l’affitto per motivi particolari: tutti gli altri, se vogliono rimanere nei loro appartamenti giganteschi a via dalla Conciliazione o in zona Borgo Pio, dovranno investire parte del piatto cardinalizio (lo stipendio dei cardinali, di circa 5mila euro al mese, è stato già tagliato due anni fa del dieci per cento).

Il rescriptum di Caballero Ledo ha già creato scompiglio nelle alte sfere curiali. Se i sostenitori di Bergoglio segnalano come il papa «mette finalmente mano a agevolazioni inaccettabili», altri pensano che la scelta sia dovuta «principalmente alle disastrate casse del Vaticano: il papa cerca innanzitutto di raccattare, su consiglio della Spe, ogni soldo disponibile per migliorare il bilancio in rosso».

I nemici dell’argentino, invece, credono che la mossa sia «solo un dispetto a una curia che Bergoglio disprezza da quando è a Roma», dice a Domani un importante berretta. «In Vaticano noi viviamo dentro case che sicuramente non possono essere riaffittate a soggetti esterni, essendo dentro la città santa. Spesso poi abitiamo insieme a due o tre suore. Si rischia dunque che noi e loro si debba andare via, ma che poi gli appartamenti restino inutilizzati. Scriva che noi comunque le spese le paghiamo da sempre». […]

Estratto dell’articolo di Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 23 Febbraio 2023.

Un primato lo hanno già conquistato: quello di essere le prime monache di clausura ad avere un profilo Facebook nel quale appaiono le loro foto. Ma adesso, nel monastero Maria Tempio dello Spirito di Pienza, sta accadendo qualcosa di ancora più inatteso: le tredici «sorelle» sono diventate star dei social da quando, sfidando Curia e Vaticano, hanno deciso di dire «no» al trasferimento dell’amatissima badessa, al secolo suor Diletta, un passato da marescialla delle Guardie Forestali, la vera artefice della loro rivoluzione.

 Così, da ieri, su Internet è iniziato un tifo da stadio per le religiose ribelli. C’è chi incita le suore a continuare la battaglia con un grintoso «Forza monache, non mollate!», chi come Luisa ringrazia «Dio per queste suore benedettine che portano la buona novella al mondo di oggi in cui il male dilaga!».

E ancora chi ritiene «incredibile che si voglia soffocare la gioiosa apertura al mondo, nelle forme e nei modi comunicativi propri dei nostri tempi». E persino chi è convinto di trovarsi di fronte a un caso di «violenza psicologica» e consiglia a Papa Francesco di pensare «a risolvere il giallo di Emanuela Orlandi».

 […] Nei cinque anni di «regno» di suor Diletta, la madre superiora, oltre alle foto sui social tra le mura una volta più riservate della Val d’Orcia, è nato una sorta di bed&breakfast gratuito pubblicizzato con l’immagine di una bella cucina componibile in legno («è piccolina ma dotata di tutti i comfort») e tanto di slogan: «Vuoi sperimentare una nuova avventura? Vieni 5 giorni in Clausura». Le ex riservatissime religiose hanno anche organizzato mercatini alimentari nel giardino, aperti a tutti.

Insomma una rivoluzione che ha creato qualche imbarazzo anche al sindaco di Pienza, Manolo Garosi, costretto a sollevare in Curia il caso della nuova linea del Monastero e la questione dei mercatini organizzati dalle religiose per garantire «la sicurezza dei prodotti agroalimentari, le modalità di produzione e le normative in materia». Così, dopo lunghi accertamenti delle autorità ecclesiastiche e pare anche un bel po’ di rimbrotti della Diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza, si è mosso il Vaticano che ha deciso di sostituire la superiora con motivazioni coperte da segreto. […]

Estratto dell'articolo di Franco Manzitti per blitzquotidiano.it il 7 febbraio 2023.

Chissà cosa direbbe il cardinale-principe Giuseppe Siri, osservando dall’alto quello che sta succedendo nella sua chiesa genovese, governata per 45 anni con la voce stentorea, la mani ferme, un conservatorismo che non era certo occhiuto, la tradizione osservata tra incenso e stile impeccabile?

 Oggi sugli altari delle sue chiese, sempre più spesso chiuse, sempre più deserte, sempre meno affollate di fedeli, salgono per molte celebrazioni i laici, con gli abiti liturgici e celebrano le funzioni, come per esempio i funerali.

E gestiscono il funzionamento delle chiese non come i sacrestani, ma proprio da vice sacerdoti. Sono almeno 29 e vengono definiti “diaconi permanenti” per distinguerli da diaconi transeunti, quelli che stanno per diventare sacerdoti e si avviano alla consacrazione.

 Tasca ha varato questa rivoluzione totale come un generale francescano. Il vescovo di Genova, appunto, appartiene all’Ordine di san Francesco, di cui è stato il “capo”. […]

 Disarmato dal crollo delle vocazioni, obbligato dalle troppe chiese chiuse, dall’incredibile situazioni di parroci, che si vedono affidate addirittura dieci parrocchie, come don Lorenzo Nanni, che gestisce in Val Vobbia, dove con l’aiuto laico riesce a celebrare almeno due funzioni al mese.

I “magnifici 29”, che hanno risposto all’appello del vescovo-frate, hanno una vita e un lavoro, sono quasi tutti sposati e hanno quasi sempre famiglia. Spesso sono anche nonni con molto tempo libero. Se diventano diaconi permanenti o perpetui il loro stato congela il celibato, se sono celibi, e la vedovanza, se sono vedovi. Se invece sono più o meno felicemente sposati, tali restano.

 Questa Chiesa di Genova rivoluzionata non nello spirito dell’emergenza, come ha spiegato Tasca, ma dalla spinta verso il cristianesimo di molti fedeli, sta facendo anche una campagna per trovare altri candidati al questo ruolo laico-religioso. Si devono trovare uomini di buona volontà che siano disposti ad andare a distribuire l’Eucarestia agli ammalati negli ospedali, nelle Rsa. […]

Così si prende esempio da quanto da tempo succede in Africa e in Asia, in Amazzonia, dove, come Blitzquotidiano ha spesso raccontato, i cosidetti “viri probati”, laici vicinissimi alla chiesa, svolgono funzioni liturgiche ben più avanzate di quelle genovesi e ci si mette in quel solco. […]

 E se il parroco si ammala cosa si fa? Racconta uno di questi 29 super sostituti, Gian Antonio Giacopello, 80 anni ,già funzionario della Provincia che dal 1999 era entrato in azione, che oggi gli capita di celebrare funerali, di impartire battesimi. L’unica cosa che non si può fare è, ovviamente, dire messa e confessare. “L’importante, sottolinea, è tenere aperta la chiesa, animare la comunità che altrimenti si disperderebbe.”

Così tra questi diaconi permanenti, che sicuramente cresceranno di numero, ci sono ex poliziotti, ex dirigenti d’azienda. Unica condizione: se sono sposati ci vuole l’assenso della moglie. “Qualcuno mi chiamava don, confessa uno dei 29 diaconi permanenti. ma il mio parroco non gradiva.”

 E così nella vecchia roccaforte di Siri sembra essere incominciata una nuova epoca della Chiesa nella società europea, che va scristianizzandosi con una velocità impressionante e dove il problema della “ritirata” della fede, della resa della Chiesa sembra qualcosa di oramai irreversibile, un cambiamento con profondi connotati geopolitici, come ha osservato recentemente sul “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia.

Cosa succede se la Chiesa, senza più preti ( il seminario di Genova non ha un solo giovane che vuol diventare prete), con i riti oramai celebrati per pochi intimi, con il problema di “riconvertire” gli edifici sacri, oramai inutili, accetta questa ritirata della fede dallo scenario europeo? […]

 Allora il piccolo, anzi piccolissimo, esempio della mini rivoluzione di Genova, dove il vescovo-frate lancia i diaconi perpetui per ovviare allo svuotamento dei seminari, alle chiese svuotate, invocando la spinta ancora esistente delle comunità cristiane, diventa un segnale. Un lumicino di grandi, immani cambiamenti, che incominciano lì e proseguiranno altrove in modo molto più eclatante, per esempio come si capisce nello scontro epocale tra la Chiesa tedesca, sull’orlo dello Scisma, e Roma che non risponde o risponde no.

Estratto dell'articolo Antonio Armano per “il Fatto quotidiano” il 29 Dicembre 2022. 

Sotto il cielo della Lombardia, così grigio quand'è grigio, i popolani che abitavano vicino a Santa Maria degli Angeli a Pavia videro allontanarsi dall'ingresso del convento una suora e una novizia mano nella mano, Angela Aurelia Mogna e Giovanna Balcona, accompagnate dal fratello di quest' ultima. 

Siamo in una fredda giornata dell'autunno 1651. […] La Mogna e la Balcona cercarono rifugio in un altro convento, spiegando in seguito di essere fuggite perché la suora era perseguitata e minacciata di morte da altre monache. Come risulterà dagli atti processuali, il conflitto era scaturito dalla pretesa della Mogna di ospitare in convento anche le nipotine della Balcona […] pare certo che la Mogna fosse incline a perdere la testa per le novizie e dormisse da tempo nello stesso letto con la Balcona, della quale era "innamorata pazza".

[…] le vicende raccontate da Craig A. Monson in "Suore che si comportano male: storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali" potrebbero sembrare un tradimento delle premesse contenute nel titolo e nella copertina, simile a quelle dei tabloid o di Cronaca Vera.

L'autore, professore emerito di musicologia, ricostruisce e racconta cinque storie vere, che si svolgono in altrettanti conventi a Bologna, Reggio Calabria e appunto a Pavia, tra il Cinque e il Settecento[…] è lo spaccato di un mondo ormai estinto, dove molte donne nate in famiglie abbienti venivano allettate, convinte o costrette a prendere i voti per l'impossibilità di garantire loro una dote adeguata a un buon matrimonio.

Non stupisce quindi che una volta abbandonato il mondo secolare, queste giovani cresciute tra gli agi, o comunque in una condizione privilegiata, cercassero svaghi più o meno leciti come la musica o proibiti come la seduzione delle novizie. […]. 

Il contatto con le novizie, alle quali era vietato dormire insieme alle suore cui erano affidate, era un terreno minato anche se a volte si creavano situazioni di promiscuità assoluta[…]. A Venezia il convento delle Convertite, che comprende la chiesa di Santa Maria Maddalena sull'isola della Giudecca, arrivò a contenere circa quattrocento "peccatrici" nel 1620. E tutte bellissime perché la loro avvenenza le rendeva più esposte al rischio di "ricadute".

[…] Tra le cappelle e i chiostri, le preghiere, il lavoro e trasgressioni che oggi appaiono innocenti, ma venivano punite in modo severissimo, si è spenta la vita di milioni di giovani donne come una candela. In alcuni casi questa invisibile fiamma non ha accettato di consumarsi tra quattro mura, ma ha bruciato l'intero convento con un incendio doloso visto come unica possibilità di tornare in famiglia. […].

In clausura con le monache: «Perlopiù siamo laureate. Non dite che qui dentro sprechiamo la nostra vita». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.

Nell’Abbazia Mater Ecclesiae delle benedettine sull’Isola di San Giulio: in silenzio, niente telefono, televisione o Internet. «Una sorella la sera racconta i fatti del giorno»

ISOLA DI SAN GIULIO (Novara) - All’ingresso, superato lo scalone di pietra, sulla mappa di Gerusalemme un paio di calzari lillipuziani accoglie i pellegrini con una citazione dall’Esodo: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una Terra Santa». È un invito al rispetto del monastero che mi ospiterà per 24 ore, l’Abbazia Mater Ecclesiae fondata nel 1973 da Madre Anna Maria Cànopi e da sei sorelle sull’Isola di San Giulio, quando non c’era acqua potabile, corrente elettrica, riscaldamento o telefono. Un tuffo, non solo figurato, nel lago d’Orta, alla fonte di quell’amore di Cristo che queste monache benedettine rinnovano ogni giorno attraverso la preghiera, il lavoro e l’obbedienza alla Regola dettata da San Benedetto da Norcia nel 534.

Preparare la cella

La cella dove dormirò mi sembra fredda. Non quanto i corridoi e la cappella. Ma non è nulla cui non si possa rimediare aggiungendo un paio di calze, indossando una maglia termica sotto il maglione e tenendo sempre il piumino addosso (di notte le coperte sono sufficienti e comunque si può accendere un calorifero). Il primo rito è farmi il letto con le lenzuola portate da casa, così pure gli asciugamani. Le monache si erano rese disponibili a fornirmi la biancheria, ma non volevo approfittare dell’ospitalità nella loro foresteria, che si regge solo sulle offerte libere degli ospiti. La cella guarda sul Mottarone, il monte della tragedia in funivia che adesso è già imbiancato sulla cima. Ultimo piano, un armadio a muro, una sdraio, un lavandino e una piccola scrivania, sulla quale c’è una rosa appena colta dal giardino e un rametto di foglie verdissime con le bacche rosse. Poi un foglio color senape, con gli orari da rispettare per entrare nello spirito della vita comunitaria. Lo sguardo mi cade sul «Mattutino», la preghiera dei salmi, fissata alle 4.50. Dovrò puntare la sveglia alle 4.20, come le monache.

La comunità

«Siamo 68, la più giovane ha 27 anni, la più anziana 90. Adesso l’età media della scelta è intorno ai 35 anni. Ormai la maggior parte è laureata: abbiamo insegnanti, presidi, economiste, avvocati, architetti, medici e infermiere», mi racconta la badessa, Madre Maria Grazia Girolimetto, 59 anni, qui da 33, eletta alla guida del monastero nel novembre del 2018, quattro mesi prima che Anna Maria Cànopi completasse il suo viaggio terreno, il 21 marzo 2019, proprio il giorno del transito di San Benedetto. «È mancata circondata da tutta la comunità raccolta in preghiera, cantando e rinnovando la promessa. Dopo, erano le 10 del mattino, abbiamo suonato le campane a festa come fosse Pasqua». Tutte le sorelle indossano il velo nero, sette lo hanno bianco. Sono le novizie, che non hanno ancora professato i voti solennemente. «Il cammino dura 9 anni, c’è spazio per il discernimento. Le sorelle vengono introdotte alla comunità, ma anche alla Regola di San Benedetto, alla vita monastica, alla sacra scrittura. Il giorno della professione solenne, il rito della vestizione avviene privatamente: la sorella si toglie gli abiti secolari e veste l’abito monastico, le vengono tagliati i capelli e la madre superiora le consegna un sassolino bianco con scritto il suo nuovo nome, scelto sotto la guida dello Spirito Santo. È quello che festeggeremo all’onomastico, con i fiori in tavola e tanti biglietti privati, deposti in una cassetta di legno».

I pellegrini

Non c’è la tivù, non c’è la radio, nessuna può avere il cellulare. I giornali, i settimanali cattolici o il quotidiano Avvenire, arrivano per posta. Di sera una sorella prende l’impegno di fare una sorta di tg flash con i fatti del giorno sui quali concentrare le proprie preghiere. L’accesso a Internet è limitato alle cose essenziali, come per esempio gestire le richieste di ospitalità dei pellegrini. Li incontrerò a tavola. Ci sono i genitori del giovane cappellano, arrivati per trascorrere qualche giorno con lui, e tre donne in discernimento vocazionale: hanno 25, trentasei e cinquantasette anni, arrivano dalla Pianura Padana, dalle colline pavesi e dalla Sicilia. Non tutti i familiari sanno di questo percorso. La più grande mi racconta la sua chiamata, nel 2017: «Stavo rientrando dal lavoro quando ho sentito questa attrazione fortissima in chiesa e ne sono uscita con i testa solo la clausura. Ne ho parlato solo con il mio parroco, che due anni fa mi ha proposto di venire qui». Indossa una gonna lunga e nera, come il maglione. Spiega: «A casa ho tante cose colorate, ma tutta quella roba è un peso. Noi donne abbiamo gli armadi pieni e poi diciamo che non abbiamo niente. Io ho scelto di vestirmi di Gesù».

Le oblate

Con noi c’è anche Stefania, 65 anni. È in pensione da tre. Avvocato, lavorava nell’ufficio legale di una banca a Novara. È sposata, ha un figlio affidatario di 26 anni e un nipotino che ha compiuto quattro mesi mentre lei era qui. Due settimane fa ha fatto l’oblazione, la promessa a seguire le regole del monastero nella sua vita quotidiana, pur restando laica. Racconta: «Era stata la madre di un compagno di mio figlio a parlarmi di questa Abbazia, in un momento di disperazione personale. C’era ancora Madre Cànopi. Ho parlato con lei e mi ha dato un po’ di luce». Suo marito la lascia fare. Alla cerimonia, però, era presente assieme al figlio, alla compagna e al nipotino.

Ora et labora

Il cibo è semplice, gustoso e abbondante. Dall’interfono arriva la voce di una sorella che legge stralci delle vite dei santi. I pellegrini possono rendersi utili in piccoli servizi, negli orari in cui anche le monache si dedicano al lavoro, dopo la colazione e dopo pranzo, ma sarebbe meglio dire dopo la Messa e il salmo di «Terza» e dopo la «Nona», perché l’architettura di ogni giornata monacale è segnata dalle preghiere: il «Mattutino» con le Lodi, alle 4.50, la messa e il salmo di «terza», alle 7.30, la «Sesta» alle 12.30, la «Nona» alle 14.45, i «Vespri» alle 17 e la «Compieta» alle 20.45, prima di andare a dormire. E così, mentre le monache si impegnano ciascuna nel suo lavoro — sull’isola ci sono un bellissimo laboratorio di restauro tessili antichi, un laboratorio di iconografia, uno di tessitura, uno di ricamo dei paramenti sacri e una piccola stamperia — gli ospiti possono pulire il giardino, spolverare, svuotare armadi, preparare sacchetti di biscotti o fare altri semplici lavori manuali. Non tutti i pellegrini sono credenti, molti vengono qui spinti dalla curiosità, dalla ricerca del silenzio, dal bisogno di conforto.

La preghiera

Ma il cuore di questa esperienza è la preghiera nella cappella, dove ci si raccoglie assieme alle monache, separati da un divisorio di legno che si apre soltanto durante la messa. Le sorelle si dispongono nel coro in ordine di anzianità monastica. I canti sono accompagnati dal suono del salterio. Sui banchi dei pellegrini, un cartoncino indica il nome di ciascuno in corsivo: nel mio la E è rossa, il resto è scritto con la penna blu. Non riesco a non chiedere alla badessa perché Dio, che può tutto, non interviene per fermare le guerre. E lei risponde: «Certo, anche a noi viene da pensare. Ma il Signore ci lascia sempre la libertà, e il male tante volte è frutto del nostro peccato. Noi possiamo associarci alla sua croce nei momenti di dolore e di buio». Ma io insisto: ha senso oggi chiudersi in un monastero, con tutte le cose che si potrebbero fare nel mondo? «C’è chi dice che la nostra vita sia sprecata, quando ci sarebbe bisogno di andare sui fronti dove imperversa la battaglia della povertà. La nostra è anzitutto una chiamata missionaria. Ma è una chiamata alla sorgente del cuore di Dio, per essere interconnesse agli altri attraverso il dono della preghiera». Oso ancora di più e chiedo se esista un tema di omosessualità femminile in convento. «Qui dentro direi di no. Ci sono state persone che si sono avvicinate cercando altro. Ma il discernimento serve a scoprire la vera vocazione, la luce che porta a una scelta per tutta la vita, senza più ripensamenti, con la consapevolezza che la comunità monastica ti sarà accanto e ti sorreggerà nel cammino. Questo per noi non è un ripiego, non è un rifugio, è una scelta di vita».

È l’ora di andare. Non ho mai acceso il cellulare, salvo prima di dormire, per rassicurare mia madre che non resterò in convento. Però sulla via del ritorno terrò spenta la radio. Per restare ancora in compagnia del silenzio che ha ristorato il mio cuore.

"Scomunicati" i padrini dei battesimi. Sospeso il ruolo anche per la cresima: "Ormai sono solo coreografia". Redazione il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Padrini e madrine non hanno più senso. Un tempo erano un punto di riferimento per i bambini, ora sono quasi sempre pura formalità. Anzi, per dirla con le parole dell'arcivescovo di Palermo, «un orpello coreografico». E così l'arcidiocesi siciliana li sospende ad experimentum nel Battesimo e nella Cresima. A stabilirlo è un decreto dell'arcivescovo monsignore Corrado Lorefice che entrerà in vigore dal primo luglio e per la durata di tre anni. «Il ruolo del padrino e della madrina, in occasione della celebrazione dei sacramenti del Battesimo e della Cresima, è un vero e proprio munus che la Chiesa affida ai fedeli che abbiano l'attitudine e l'intenzione di esercitare questo incarico - scrive l'arcivescovo - Nel corso del tempo, convenzioni sociali e abitudini consolidatesi hanno compromesso l'autentico significato di questo ufficio esercitato a nome e per mandato della Chiesa. Confuso spesso con relazioni di parentela se non addirittura con legami ambigui e relegato, il più delle volte, al solo momento rituale, ha perso l'originario significato di accompagnamento nella vita cristiana del battezzato e del cresimato, riducendosi a semplice orpello coreografico in una cerimonia religiosa». La decisione ha aperto la discussione all'interno della Chiesa sull'opportunità o meno di sospendere o abolire l'istituto del «padrinato». Nei riti sarà omessa tutta la parte che riguarda i padrini e agli uffici liturgico e catechistico, insieme al Servizio catecumenale è affidato il compito «di monitorare e verificare, durante questo triennio, l'andamento della nuova prassi e, contemporaneamente, di studiare possibili nuove forme di accompagnamento che richiamino e recuperino il vero senso ecclesiale dell'ufficio del padrino e della madrina».

Finora il padrino e la madrina per la Chiesa hanno avuto un ruolo ben preciso: contribuire con i genitori all'educazione cristiana del bambino. Fino all'entrata in vigore del Codice di diritto canonico nel 1983, in occasione della cresima i maschi erano accompagnati all'altare da un padrino, mentre le bambine da una madrina. Di fatto tra padrino e madrina e figlioccio nasceva la cognatio spiritualis, una sorta di parentela spirituale. Questa usanza è ormai decaduta, infatti è possibile scegliere un padrino o una madrina indipendentemente dal proprio sesso. Il legame con il figlioccio viene semplicemente manifestato con l'imposizione della mano sulla spalla, a simboleggiare la protezione, l'affiancamento. Ma, come atri riti cattolici, anche questo ha perso della sua reale sostanza. E la provocazione dell'arcidiocesi di Palermo potrebbe aprire la strada a un'abolizione o a un ripensamento di questa figura.